2015 10 28 | Repubblica It | d'Alessandro

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29/10/2015 Il miraggio dello smart working e l'incapacità dei manager italiani Playground Blog Repubblica.it http://playground.blogautore.repubblica.it/2015/10/28/smartworking/ 1/3 Blog PLAYGROUND di Jaime D'Alessandro 28 OTT 2015 Il miraggio dello smart working e l'incapacità dei manager italiani Alcune considerazioni sull'organizzazione aziendale e sul lavoro intelligente. Fra disegni di legge e timidi progressi verso forme più innovative, spesso si perde di vista un aspetto fondamentale: se non cambia la mentalità di chi è chiamato a gestire il lavoro altrui, manager e quadri medi, non si va da nessuna parte Due anni fa iniziai con un gioco un po' crudele: consisteva in una specie di test per stabilire se si lavora o meno per una compagnia che ha poche speranze di sopravvivere ai prossimi dieci anni. Questione di organizzazione del lavoro, mantra aziendali e di risorse umane. Anche se è pronto un disegno di legge sullo smart working, in Italia siamo indietro di decenni e le cose stanno cambiando molto, troppo, lentamente. Aprire un dibattito su se sia giusto concedere ferie illimitate o meno come fanno Netflix o Linkedin rischia di essere fuorviante. Intendiamoci, non perché non sia un tema interessante. Anzi. Solo che si tratta dell'ultimo passo di un lungo processo, almeno negli Stati Uniti. Processo che da noi è appena iniziato e che rischia di esser sabotato in primo luogo dai quadri medi delle aziende. Il vostro capo, in parole povere. Non si può pensare ad una organizzazione intelligente del lavoro se non si parte dalla mentalità di chi, il lavoro degli altri, lo deve gestire. Altrimenti si arriva alle storpiature e alle banalizzazioni: "se si può lavorare da casa si finisce per lavorare sempre", oppure "se sei tu a decidere quando andare in vacanza finisce che non ci vai mai". Lo smart working non è questo. Se cose del genere accadono è proprio perché che gestisce le risorse non lo sa fare. Ma niente paura, pericoli del genere in Italia non li corriamo. Malgrado i nostri manager siano comunque drammaticamente inadeguati, nella maggior parte dei casi, certe tematiche sono ancora così distanti che sarebbe fasciarsi la testa prima di essersela rotta. Ma andiamo per gradi, cominciando da una chiacchierata che feci questa estate. "Bisogna essere, non fingere". Questa è stata la prima frase. La seconda: "Non simulare quel che non sei, perché sul lungo periodo non funziona". Alla terza arriva lo spaesamento in chi ascolta: "E’ necessario avere consapevolezza dei propri pensieri. E’ un concetto derivato dalla meditazione vipassanā buddista. In inglese vien chiamata mindfulness ed è molto in voga". Dove? Nell’addestramento di manager e dirigenti. Almeno in quelle aziende nelle quali si crede che l’organizzazione del lavoro sia un nodo essenziale per stare sul mercato e che, di conseguenza, la gestione delle risorse umane sia una scienza che deve diventare esatta. Le frasi sopra riportate non sono di una terapeuta, ma di Francesca Manili Pessina, vice presidente e responsabile delle risorse umane di Sky Italia. Espressione di una corrente di pensiero che tenta di coniugare soddisfazione personale e produttività, trasparenza delle persone e meritocrazia. Andando a pescare lì dove nessuno si era spinto fino ad ora. A tal punto che viene da pensare che prima o poi arriveranno ai sogni e scorrendo le immagini dell’inconscio come foto su un tablet diranno se siamo compatibili con le mansioni che svolgiamo o meno. Quando si parla di lavoro organizzato in maniera intelligente, “smart working”, si cita il concentrarsi sugli obbiettivi e non più sul tempo che si passa in ufficio, si punta alla riduzione dei gradi gerarchici, alla possibilità di collaborare anche da fuori, dove è necessario, utile o più semplicemente piacevole stare, invece di dover per forza occupare la scrivania. Stavolta però si tratta del passo a monte: il cambiare la mentalità di chi il lavoro degli altri lo organizza. Secondo il Rapporto Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, soluzioni di lavoro intelligente sono state adottate da circa due aziende su dieci in Italia e il risparmio sui costi arriva spesso al 30 per cento. Nel 2015 il 17% delle grandi imprese italiane ha già avviato dei progetti organici di smart working, introducendo in modo strutturato nuovi strumenti digitali, forme organizzative,

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Il miraggio dello smart working e l'incapacità dei manager italiani

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29/10/2015 Il miraggio dello smart working e l'incapacità dei manager italiani ­ Playground ­ Blog ­ Repubblica.it

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PLAYGROUNDdi Jaime D'Alessandro

28 OTT 2015

Il miraggio dello smart working e l'incapacità dei manager italianiAlcune considerazioni sull'organizzazione aziendale e sul lavoro intelligente. Fra disegni di legge e timidi progressi verso forme piùinnovative, spesso si perde di vista un aspetto fondamentale: se non cambia la mentalità di chi è chiamato a gestire il lavoro altrui,manager e quadri medi, non si va da nessuna parte

Due anni fa iniziai con un gioco un po' crudele: consisteva in una specie di test perstabilire se si lavora o meno per una compagnia che ha poche speranze di sopravvivereai prossimi dieci anni. Questione di organizzazione del lavoro, mantra aziendali e dirisorse umane. Anche se è pronto un disegno di legge sullo smart working, in Italia siamoindietro di decenni e le cose stanno cambiando molto, troppo, lentamente. Aprire undibattito su se sia giusto concedere ferie illimitate o meno come fanno Netflix o Linkedinrischia di essere fuorviante.  Intendiamoci, non perché non sia un tema interessante. Anzi.Solo che si tratta dell'ultimo passo di un lungo processo, almeno negli Stati Uniti.Processo che da noi è appena iniziato e che rischia di esser sabotato in primoluogo dai quadri medi delle aziende. Il vostro capo, in parole povere.

Non si può pensare ad una organizzazione intelligente del lavoro se non si parte dalla mentalità di chi, il lavoro degli altri, lodeve gestire. Altrimenti si arriva alle storpiature e alle banalizzazioni: "se si può lavorare da casa si finisce per lavorare sempre", oppure"se sei tu a decidere quando andare in vacanza finisce che non ci vai mai". Lo smart working non è questo. Se cose del genere accadonoè proprio perché che gestisce le risorse non lo sa fare. Ma niente paura, pericoli del genere in Italia non li corriamo. Malgrado i nostrimanager siano comunque drammaticamente inadeguati, nella maggior parte dei casi, certe tematiche sono ancora così distanti chesarebbe fasciarsi la testa prima di essersela rotta. Ma andiamo per gradi, cominciando da una chiacchierata che feci questa estate.

"Bisogna essere, non fingere". Questa è stata la prima frase. La seconda: "Non simulare quel che non sei, perché sul lungo periodonon funziona". Alla terza arriva lo spaesamento in chi ascolta: "E’ necessario avere consapevolezza dei propri pensieri. E’ un concettoderivato dalla meditazione vipassanā buddista. In inglese vien chiamata mindfulness ed è molto in voga". Dove? Nell’addestramento dimanager e dirigenti. Almeno in quelle aziende nelle quali si crede che l’organizzazione del lavoro sia un nodo essenziale per stare sulmercato e che, di conseguenza, la gestione delle risorse umane sia una scienza che deve diventare esatta. Le frasi sopra riportate nonsono di una terapeuta, ma di Francesca Manili Pessina, vice presidente e responsabile delle risorse umane di Sky Italia. Espressione diuna corrente di pensiero che tenta di coniugare soddisfazione personale e produttività, trasparenza delle persone e meritocrazia.Andando a pescare lì dove nessuno si era spinto fino ad ora. A tal punto che viene da pensare che prima o poi arriveranno ai sogni escorrendo le immagini dell’inconscio come foto su un tablet diranno se siamo compatibili con le mansioni che svolgiamo o meno.

Quando si parla di lavoro organizzato in maniera intelligente, “smartworking”, si cita il concentrarsi sugli obbiettivi e non più sul tempoche si passa in ufficio, si punta alla riduzione dei gradi gerarchici,alla possibilità di collaborare anche da fuori, dove è necessario, utileo più semplicemente piacevole stare, invece di dover per forzaoccupare la scrivania. Stavolta però si tratta del passo a monte: ilcambiare la mentalità di chi il lavoro degli altri lo organizza. Secondoil Rapporto Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano,soluzioni di lavoro intelligente sono state adottate da circa dueaziende su dieci in Italia e il risparmio sui costi arriva spesso al 30per cento. Nel 2015 il 17% delle grandi imprese italiane ha giàavviato dei progetti organici di smart working, introducendo inmodo strutturato nuovi strumenti digitali, forme organizzative,

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Il bar nel quartier generale di LinkedIn

comportamenti manageriali e introducendo nuovi spazi. A queste si aggiunge il 14% di grandi imprese che sono in fase “esplorativa”, chesi apprestano cioè ad avviare progetti in futuro, e un altro 17% che hanno avviato iniziative di flessibilità ma rivolte solo a particolari profili,ruoli o esigenze delle persone.

"Il pregiudizio, da noi, è che in quel modo si lavori meno", racconta Mariano Corso responsabile scientifico dell’Osservatorio."In realtà, con la cultura manageriale sbagliata, il rischio è opposto: visto che lo puoi fare ovunque e a qualunque orario, lavorisempre perché è quel che ti viene richiesto. Con il tuo capoufficio che si permette di manadre sms e mail anche a mezzanotte econ un crollo conseguente della produttività". Ma stando al Politecnico in otto aziende su dieci non arrivano nemmeno a porsi questiproblemi. Gestite da dirigenti inadeguati, vivono solo di emergenze. "L’incapacità nel programmare si trasforma nella necessità diavere sempre tutti a portata di mano", continua Corso. "E’ un’attitudine accompagnata da un'altra incapacità, quella di valutare irisultati, giudicando gli altri solo in base ad aspetti secondari come il passare tanto tempo in ufficio. Ma si cadrebbe in errore a pensareche sia un lato che appartenere agli amministratori delegati, perché quelli in genere già lavorano per obbiettivi e sono bencontenti di risparmiare e aumentare la produttività. No, il problema è nei quadri medio alti". Corso fa alcuni esempi, che sembranoquasi delle macchiette, ma che sono (purtroppo) molto veri. "Ha presente quei manager che dicono: ma si, quello è un bravo ragazzo, èsempre disponibile... Ecco, è così che si tagliano le gambe al lavoro e in particolare alle donne, che magari non possono essere semprein ufficio perché hanno dei figli da crescere. E poi, essere sempre al lavoro è del tutto inutile".

Oltreoceano si sono spinti sufficientemente in avanti da iniziare a criticare il modello della compagnia solare tipica della Silicon Valley, daGoogle a Facebook. Quelle dove la felicità del dipendente è fra le priorità perché si traduce in entusiasmo nel lavoro. Il sociologo ingleseWiliam Davies recentemente ha pubblicato The Happiness Industry: how the government and big business sold us well­being (Verso),che potremmo tradurre con L’industria della felicità: ecco come governo e grandi aziende ci vendono il benessere, dove si sostiene checerte compagine stanno investendo così tante risorse nel rendere contenti i dipendenti che chi non aderisce a questo nuovo modello diarmonia viene visto con sospetto. E’ lo stesso sguardo dello scrittore americano Dave Eggers che già nel 2013 ne Il cerchio (Mondadori)aveva dipinto la felicità senza ritorno (e senza privacy) degli impiegati di un gigantesco colosso del Web del prossimo futuro. E poi c’è ilcaso Amazon, dove chi lavora non ha vero orario né tregua e viene letteralmente fatto a pezzi, stando al New York Times. Tesi poicontestata dalla stessa Amazon che ha sostenuto che l'intera inchiesta sia stata confezionata partendo da testimonianze di ex impiegatiche erano stati buttati fuori. Eppure c’è anche chi pensa che sia sempre meglio correre questi rischi che andare incontroall’infelicità certa del salariato tradizionale. Perché i rischi si riducono proprio avendo un gruppo di dirigenti capaci che sannoquel che fanno.

L’azienda di Rupert Murdoch ha scelto di rivolgersi allo psicologo Martyn Newman programmando negli Stati Uniti come inItalia una serie di incontri con tutti i manager importanti. E non erano incontri facoltativi. E così vicepresidenti e dirigenti si sondovuti mettere in discussione su territori che fino a quel momento non pensavano facessero parte della sfera professionale. Seminari, teste confronti individuali per arrivare a mettere in luce i punti deboli, quei lati caratteriali che vengono giudicati d’ostacolo agli stessi managere soprattutto d’intralcio a chi lavora per loro. Newman è uno degli esponenti legati alla messa in pratica delle teorie sull’intelligenzaemotiva. Ne hanno scritto Peter Salovey e John D. Mayer nel 1989. Il primo è preside dell’Università di Yale, il secondo insegnaall’University of New Hampshire. Sono due psicologi che applicano le loro idee al campo sociale. Ma è un concetto che si è diffusosoprattutto grazie a Daniel Goleman, anche lui psicologo, a partire dalla metà degli anni Novanta. L'intelligenza emotiva è legata allacapacità di riconoscere, utilizzare, comprendere in modo consapevole le proprie emozioni e quelle altrui. Serve a sapere non solochi si è, ma avere coscienza dei propri pensieri, saper decidere e saper valorizzare gli altri riconoscendo la sfera emotiva. Si tratta diriconoscere la propria emotività e quella degli altri e imparare a farci i conti sfruttandola e rendendola un punto di forza. Non solo peresser in grado di prendere decisioni in tempi rapidi, ma anche per sapersi relazionare con il proprio gruppo di lavoro.

"E’ un cambiamento netto", racconta David Bevilacqua, vicepresidente di Cisco Europa, fra le aziende che da anni è nellaclassifica di Fortune fra quelle migliori dove lavorare. "Il mondo èpieno di persone che fanno il manager per il motivo sbagliato e chevengono promosse per caratteristiche errate. Si cerca di far carrieraper guadagnare di più e per esser riconosciuti socialmente. E ci sicirconda di simboli del potere inutili: la scrivania più grande, il postomacchina riservato, il computer più potente. Fare il manager è gestirerisorse ed esser capaci di valorizzarle. Quando dico queste cose midanno dell’estremista. Ma non si tratta di ideologia, solo di sapere beneche le conoscenze oggi sono distribuite in maniera orizzontale. Chiunquepensa di saperla più lunga a priori rischia un brutto risveglio esicuramente come manager fa un pessimo lavoro".

Quando invece una persona riesce a trascinare il suo team i risultatiinvece sarebbero macroscopici. "La felicità di un dipendente conta moltoe costa anche", prosegue Francesca Manili Pessina. "Ma io lo vedo comeun investimento: ogni persona ha una parte di energia che può mettere

nel lavoro se è motivata ed è contenta. A patto di avere dei manager che sanno mettere in pratica questa filosofia. E poi la sfida veranon è solo valorizzare quel 20 o 30 per cento di talenti che ogni azienda riconosce di avere fra i propri dipendenti, ma di tirarfuori quanto più talento possibile da tutti gli altri, che sono la maggioranza. Non si può stare appresso a ogni velleità e ovviamentese tutti fossero speciali come credono non esisterebbe una media. Ma ogni persona se è contenta del lavoro che fa può mettere un terzodelle energie in più ed è un capitale disponibile a costo ridotto".

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Viene da pensare alla Olivetti degli anni Cinquanta o alle scuole manageriali della Pirelli degli anni Settanta e Ottanta. Anche se èl’entrata della psicologia nella formazione a fare ora la differenza. "Si tratta di sviluppare se stessi", conclude dal Canada Gershon Mader,presidente della Quantum Performance, che come Newman opera a stretto contatto con grandi multinazionali. "Trent’anni fa, al tempodegli yuppie, l’unica cosa che importava erano i margini di guadagno e la soddisfazione degli azionisti. Poi sono arrivati i valori dei clienti,in seguito quello degli impiegati e ora è lo stato mentale dei manager al centro. Con una certezza: non è la tecnologia a liberare ilpotenziale delle persone, ma le persone stesse. E’ il passaggio dalla dittatura del q.i., il quoziente di intelligenza, all’emergere delq.e. che è il quoziente emotivo. Che nel lavoro è essenziale e va tenuto in considerazione". Facile a dirsi più che a farsi,specialmente in Italia. Ma guardiamo al lato positivo: siamo talmente indietro che possiamo solo migliorare.

Articolo pubblicato su Il Venerdì in una versione più corta

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Tag: Cisco, Daniel Goleman, David Bevilacqua, francesca manili pessina, Gershon Mader, linkedin, Mariano Corso, Martyn Newman, Politecnico di Milano,

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