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5^ GIORNATA 2014/2015 LA TUTELA DEL PATRIMONIO AZIENDALE: CONTROLLO, SANZIONI E RISARCIMENTO DANNI Sessione di approfondimento in collaborazione con: LA CIRCOLARE DI LAVORO E PREVIDENZA IL GIURISTA DEL LAVORO

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5^ GIORNATA

2014/2015

LA TUTELA DEL PATRIMONIO AZIENDALE: CONTROLLO, SANZIONI E RISARCIMENTO DANNI

Sessione di approfondimento

in collaborazione con:LA CIRCOLARE DI LAVORO

E PREVIDENZA

IL GIURISTA DEL LAVORO

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INDICE

Schemi operativi di sintesi

6 IL CONTROLLO DEI LAVORATORIa cura del Comitato Scientifico Centro Studi Lavoro e Previdenza

15 IL LICENZIAMENTO DISCIPLINAREa cura del Comitato Scientifico Centro Studi Lavoro e Previdenza

18 ELEMENTI ESSENZIALI DEL LICENZIAMENTO DISCIPLINAREa cura del Comitato Scientifico Centro Studi Lavoro e Previdenza

29 IL LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA O PER GIUSTIFICATO MOTIVO SOGGETTIVOa cura del Comitato Scientifico Centro Studi Lavoro e Previdenza

38 LE TUTELE RELATIVE AL LICENZIAMENTOa cura del Comitato Scientifico Centro Studi Lavoro e Previdenza

41 VIOLAZIONI IN MATERIA DI FEDELTÀ E NON CONCORRENZAa cura del Comitato Scientifico Centro Studi Lavoro e Previdenza

45 RILEVANZA DI COMPORTAMENTI EXTRALAVORATIVI E DI REATI COMMESSI DAL DIPENDENTEa cura del Comitato Scientifico Centro Studi Lavoro e Previdenza

55 IL DANNO SUBITO DAL DATORE DI LAVORO: CASISTICAa cura del Comitato Scientifico Centro Studi Lavoro e Previdenza

Contributi di approfondimento

63 INTERNET, POSTA ELETTRONICA E GPS: ASPETTI GIURIDICI E GESTIONALIa cura di Matteo Mazzon

73 IL CONTROLLO A DISTANZA DEI LAVORATORI: INTERPRETAZIONI GIURISPRUDENZIALI DELL’ART.4 DELLO STATUTO DEI LAVORATORI a cura di Alberto Russo

80 CONTROLLO INFORMATICO DEL LAVORATORE E LEGITTIMITÀ DELL’INDAGINE DIFENSIVAa cura di Daniele Iarussi

87 VIDEOSORVEGLIANZA: TEMPI E TERMINI PER LA CONSERVAZIONE DELLE IMMAGINIa cura di Emanuela Nespoli

92 SPROPORZIONATO IL LICENZIAMENTO PER IL LAVORATORE CHE UTILIZZA UN SOFTWARE DI SCARICO FILE DURANTE IL LAVOROa cura di Francesco Natalini

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97 IL PATTEGGIAMENTO NEI PROCEDIMENTI PENALI E SUA INCIDENZA NELLE CONTROVERSIE DI LAVORO a cura di Evangelista Basile

105 POTERI ISTRUTTORI D’UFFICIO E LICENZIAMENTO DISCIPLINAREa cura di Luca Failla

111 COMPENSAZIONE TRAMITE CREDITI DEL DANNO CAUSATO DAL LAVORATOREa cura di Daniele Iarussi

119 IL LICENZIAMENTO PER SVOLGIMENTO DI ATTIVITÀ LAVORATIVE O EXTRA-LAVORATIVE DURANTE LA MALATTIAa cura di Marco Novella

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Schemi operativi di sintesi

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IL CONTROLLO DEI LAVORATORI

a cura del Comitato Scientifico Centro Studi Lavoro e Previdenza

AMBITO DEL DIVIETO DI CONTROLLI A DISTANZA

Art.4, co.1, L. n.300/70: “È vietato l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”.

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Il controllo dei lavoratori

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Il divieto di controlli a distanza ex art.4 legge 300 comprende ogni casodi installazione di impianti audiovisivi o altri apparecchi di controllo,indipendentemente dalla circostanza che:- i lavoratori ne siano a conoscenza- il controllo sia destinato ad essere effettuato non

continuativamente ma solo occasionalmente o saltuariamente- gli impianti eventualmente installati per il controllo a distanza non sianoancora funzionanti

AMBITO DEL DIVIETO DI CONTROLLI A DISTANZA

Non solo la mera attività lavorativa, ma anche il complessivo comportamento tenuto dal lavoratore in azienda, nel tempo in cui è impegnato ad adempiere all’obbligazione lavorativa come durante le

pause di lavoro idonee a favorire i contatti con i colleghi sia per iniziative di proselitismo sindacale sia per iniziative di libera

manifestazione del pensiero ex art. 1, Stat. Lav. ecc.

AMBITO DEL DIVIETO DI CONTROLLI A DISTANZA

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Art.4, co.2, L. n.300/70: “Gli impianti e le apparecchiature dicontrollo che siano richiesti da esigenze organizzative eproduttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivianche la possibilità di controllo a distanza dell’attività deilavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo conle rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza diqueste, con la commissione interna. In difetto di accordo, suistanza del datore di lavoro, provvede l’Ispettorato del lavoro,dettando, ove occorra, le modalità per l’uso di tali impianti”.

AMBITO DEL DIVIETO DI CONTROLLI A DISTANZA

Sono da considerarsi comprese tutte quelle apparecchiatureidonee a determinare l’ubicazione del lavoratore. Si pensi aibadge con tecnologia denominata RFID (radio FrequencyIdentification) o agli impianti satellitari inseriti nelle autoaziendali.

AMBITO DEL DIVIETO DI CONTROLLI A DISTANZA

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Il controllo dei lavoratori

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“Altre apparecchiature”:I centralini telefonici in grado di registrare e riprodurre su tabulati inumeri telefonici chiamati, la data, l’ora e la durata delle conversazioni.Le strumentazioni hardware e software che consentono di controllare ilavoratori che utilizzano personal computer e/o sistemi di comunicazioneelettronica.

AMBITO DEL DIVIETO DI CONTROLLI A DISTANZA

CONSEGUENZE VIOLAZIONE

• Sul piano civilistico: la rimozione dell’installazione vietata e/ol’inutilizzabilità del dato informativo così acquisito, fermorestando il diritto del lavoratore al risarcimento del danno perviolazione del suo diritto alla riservatezza.

• Sul piano penale la violazione dell’art.4 St. Lav. È tuttorasanzionata penalmente dall’art.38 St. Lav..

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CONTROLLI DIFENSIVI

• Nozione di controllo difensivo ai fini della non operatività deldivieto di cui all’art.4. St. Lav..

• CASS. 4746/2002:, ai fini dell'operatività del divieto di utilizzo diapparecchiature per il controllo a distanza dell'attività deilavoratori, è necessario che il controllo l'attività lavorativa,mentre DEVONO ritenersi certamente fuori dell'ambito diapplicazione della norma i controlli diretti ad accertare condotteillecite del lavoratore.

CONTROLLI DIFENSIVI

• Corte di Cassazione con sentenza n. 3122 del 17 febbraio 2015:garanzie art. 4 si applicano quando tali comportamenti riguardinol’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto dilavoro, e non, invece, quando riguardino la tutela di beni estranei alrapporto stesso. Conseguentemente esula dal campo diapplicazione della norma il caso in cui il datore abbia posto in essereverifiche dirette ad accertare comportamenti del prestatore illeciti elesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale, come nel caso dispecie in cui le immagini erano state registrate per accertare il furto dicarburante da parte di dipendenti.

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Il controllo dei lavoratori

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CONTROLLI DIFENSIVI

Conseguentemente esula dal campo di applicazione della norma ilcaso in cui il datore abbia posto in essere verifiche dirette adaccertare comportamenti del prestatore illeciti e lesivi delpatrimonio e dell’immagine aziendale, come nel caso di specie incui le immagini erano state registrate per accertare il furto dicarburante da parte di dipendenti.

CONTROLLI DIFENSIVI

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 01-10-2012, n. 16622L'effettività del divieto di controllo a distanza dell'attività deilavoratori richiede che anche per i c.d. controlli difensivi trovinoapplicazione le garanzie del citato art. 4, secondo comma, e che,comunque, quest'ultimi, così come la altre fattispecie di controlloivi previste, non si traducano in forme surrettizie di controllo adistanza dell'attività lavorativa dei lavoratori.

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CONTROLLI DIFENSIVICass. civ. Sez. lavoro, Sent., 01-10-2012, n. 16622Se per l'esigenza di evitare attività illecite o per motivi organizzativi o produttivi, possonoessere installati impianti ed apparecchiature di controllo che rilevino dati relativi anchealla attività lavorativa dei lavoratori, la previsione che siano osservate le garanzieprocedurali di cui all'art. 4, comma 2, non consente che attraverso tali strumenti, sia pureadottati in esito alla concertazione con le r.s.a., si possa porre in essere, anche se qualeconseguenza mediata, un controllo a distanza dei lavoratori che, giova ribadirlo, è vietatodall'art. 4, comma 1, cit..

Il divieto di controlli a distanza ex art. 4, della L. n. 300 del 1970, implica, dunque, che icontrolli difensivi posti in essere con il sistema informatico Bluès 2002, ricadononell'ambito della L. n. 300 del 1970, art. 4, comma 2, e, fermo il rispetto delle garanzieprocedurali previste, non possono impingere la sfera della prestazione lavorativa deisingoli lavoratori; qualora interferenze con quest'ultima vi siano, e non siano stati adottatidal datore di lavoro sistemi di filtraggio delle telefonate per non consentire, in ragionedella previsione dell'art. 4, comma 1, di risalire all'identità del lavoratore, i relativi datinon possono essere utilizzati per provare l' inadempimento contrattuale del lavoratoremedesimo.

Cass. n. 2722 del 23 febbraio 2012

La SC - sezione lavoro – è tornata a pronunciarsi in ordine allaquestione dei controlli difensivi ammettendo esplicitamente icontrolli ex post (*) della posta elettronica del dipendente seeffettuati in presenza di sospetti di illecito del dipendente, senzache vi sia l’obbligo di rispettare la procedura prevista dall'art. 4,comma 2, dello Statuto dei lavoratori.

(*) l'elemento cronologico era stato preso in considerazione anche dallaCorte dei Conti, Sez. Piemonte, Sent. del 2003.

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Il controllo dei lavoratori

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Cass. n. 2722 del 23 febbraio 2012

È un ulteriore passo avanti teso a limitare lestrumentalizzazioni, molto frequenti in passato, del diritto allariservatezza dei dipendenti laddove questi appaiano autori diilleciti.

Cass. n. 2722 del 23 febbraio 2012

Riepilogo dei principi emergenti dalla sentenza:- la vigilanza sull'attività dei dipendenti da parte del datore di lavoro nonpuò essere continua ed anelastica anche mediante un uso eccessivodelle tecnologie ed eliminando ogni forma di tutela della riservatezza deldipendente (Cfr. Cass. n. 15982 del 2007);- la procedura di installazione di strumenti che consentono un controlloindiretto a distanza è tesa a bilanciare i contrapposti diritti del lavoratorealla propria riservatezza e del datore di lavoro (o anche della stessacollettività) ad eseguire attività di organizzazione, produzione e sicurezzasul lavoro;

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Cass. n. 2722 del 23 febbraio 2012

Riepilogo dei principi emergenti dalla sentenza:- va confermata la tesi dei giudici di legittimità che ha ristretto l'ambito dioperatività dei controlli difensivi distinguendo il caso in cui il controllo deldipendente concerna l'esatto adempimento delle obbligazioni scaturenti dalrapporto di lavoro da quello in cui il controllo sia finalizzato alla tutela di beniestranei al rapporto di lavoro (Cass. n. 4375 del 2010);- il giudice di merito non ha accertato le modalità concrete di acquisizione deimessaggi di posta elettronica ma è stato accertato che il controllo è stato eseguitoda parte del datore di lavoro ex post cioè successivamente alla condotta illecitatenuta da parte del dipendente ed in presenza di concreti sospetti di illecito cheavevano reso opportuno l'avvio di un'indagine da parte dell'azienda.

PROSSIMITÀ

• Secondo l’art.8, co.2, L. n.148/11 le specifiche intese possono riguardare laregolazione delle materie inerenti l'organizzazione del lavoro e dellaproduzione con riferimento (anche) agli impianti audiovisivi e all’introduzionedi nuove tecnologie.

• Può essere utile nell’implementazione di forme di controlli difensivi?

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IL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE

a cura del Comitato Scientifico Centro Studi Lavoro e Previdenza

Cassaz. 10 settembre 2012 n. 15102

È jus receptum che il licenziamento è un negozio unilaterale recettizio che èdiretto a determinare la cessazione del rapporto di lavoro ed e' assoggettatoalla norma dell'articolo 1334 cod. civ., sicche' produce effetto nel momento incui il lavoratore riceve l'intimazione da parte del datore di lavoro, con laconseguenza che la verifica e le condizioni che legittimano l'esercizio del poteredi recesso deve essere compiuta con riferimento al momento in cui dettonegozio unilaterale si è perfezionato (vedi, per tutte: Cass. 1 settembre 2006 n.18911; Cass. 22 marzo 2007, n. 7049; Cass. 26 luglio 1996, n. 6751; Cass. 29dicembre 2011, n. 29679).

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Comunicazione della contestazione (e della sanzione) al dipendente

1) Raccomandata a manoPresenza di almeno un testimone

Sottoscrizione per ricevuta2) raccomandata con ricevuta di ritorno

3) Consegna a mezzo ufficiale giudiziario

A mani del dipendente

Presso un suo incaricato

Presso il portiere dello stabile incui risiede

Eventuali problemi connessi con l’indirizzo della residenza del dipendente (in malattia e non)

Cassaz. 18 settembre 2009 n. 20272

In tema di consegna dell'atto di licenziamento nell'ambito del luogo dilavoro, il rifiuto del destinatario di riceverlo non esclude che lacomunicazione debba ritenersi regolarmente avvenuta, trattandosi di unatto unilaterale recettizio che non sfugge al principio generale per cui ilrifiuto della prestazione da parte del destinatario non può risolversi adanno dell'obbligato, ed alla regola della presunzione di conoscenzadell'atto desumibile dall'art. 1335 c.c.

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Il licenziamento disciplinare

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CODICE CIVILE. LIBRO QUINTO. Del lavoro - TITOLO SECONDO. Del lavoro nell'impresa - CAPO PRIMO. Dell'impresa in generale - SEZIONE TERZA. Del rapporto

di lavoro - PARAGRAFO QUARTO. Dell'estinzione del rapporto di lavoro

Articolo 2118 Recesso dal contratto a tempo indeterminato

Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempoindeterminato, dando il preavviso nel termine e nei modi stabiliti dagli usi o secondoequità.In mancanza di preavviso, il recedente è tenuto verso l'altra parte a un'indennitàequivalente all'importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo dipreavviso.La stessa indennità è dovuta dal datore di lavoro nel caso di cessazione del rapportoper morte del prestatore di lavoro.

Cassaz. 5 novembre 2007 n. 23061

Il principio, secondo cui, anche al di fuori dell'ambito di operatività dell'art. 138,comma 2, c.p.c., il rifiuto del destinatario di un atto unilaterale recettizio di riceverelo stesso non esclude che la comunicazione debba ritenersi avvenuta e produca irelativi effetti, ha un ambito di validità determinato dal concorrente operare delprincipio secondo cui non esiste, in termini generali ed incondizionati, l'obbligo, ol'onere, del soggetto giuridico di ricevere comunicazioni e, in particolare, di accettarela consegna di comunicazioni scritte da parte di chicchessia e in qualunquesituazione. In particolare, nel rapporto di lavoro subordinato è configurabile in lineadi massima l'obbligo del lavoratore di ricevere comunicazioni, anche formali, sulposto di lavoro e durante l'orario di lavoro, in dipendenza del potere direttivo edisciplinare al quale egli è sottoposto (così come non può escludersi un obbligo diascolto, e quindi anche di ricevere comunicazioni, da parte dei superiori dellavoratore).

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ELEMENTI ESSENZIALI DEL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE

a cura del Comitato Scientifico Centro Studi Lavoro e Previdenza

Codice disciplinare

Norme di legge

Disposizioni contrattuali

collettive

Relative esigenzeaziendali (es: utilizzo dei mezzi informatici)

Contenuto accessorio

Codice disciplinare

Mancanze di caratteregenerale

Mancanze relative asituazioni particolari

(aziende alimentari, farmaceutiche)

Contenutoessenziale

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Elementi essenziali del licenziamento disciplinare

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L‘affissione del codice disciplinare

Affissione del codice disciplinare

Non può avvenire con mezzi equipollenti

Non in uffici accessibili soltanto per specifiche esigenze

La mancata affissione comporta:la nullità e la non rinnovabilità della sanzione

Deve sussistere all’atto della commissione dell’infrazione

In luogo accessibile a tutti Non destinatari i lavoratori singolarmente considerati

Eccezione all’obbligo di pubblicazione

Il dovere di predisporre e rendere pubblico il codice disciplinare nontrova luogo nel caso in cui la sanzione sia intimata percomportamenti che la coscienza sociale considera lesivi delle regolefondamentali del dovere civile o che sono, comunque,contraddistinti da rilevanza penale.

In tali casi infatti l’illiceità del comportamento può essere conosciutaed apprezzata dal lavoratore senza bisogno di preavviso del datore dilavoro ed il recesso trova la sua fonte direttamente dalla legge.

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«L'affissione del codice disciplinare costituisce requisito essenzialeper la validità del licenziamento (o comunque dell'applicazione dellasanzione disciplinare) solo quando questo costituisca la sanzioneper l'infrazione ad una disposizione corrispondente ad un'esigenzapeculiare dell'azienda, non quando l'infrazione riguardi doveriprevisti dalla legge o comunque appartenenti al patrimoniodeontologico di qualsiasi persona onesta ovvero dei doveri impostial prestatore di lavoro dalle disposizioni di carattere generaleproprie del rapporto di lavoro subordinato».

Cassaz. 10 maggio 2010 n. 11250

Procedura (art. 7 Statuto Lavoratori)

Giustificazioni orali o scritte

Irrogazione sanzionePrincipio di proporzionalità

Applicazione sanzione

Rappresentante sindacale

Audizione orale

Circostanze e mansioni

Precedenti disciplinari

Tempestività e buona fede

Consegna contestazionea mano o con raccomandata a.r. Forma scritta

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Elementi essenziali del licenziamento disciplinare

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Contestazione disciplinare

Recidiva

Sospensione cautelare e non disciplinare dalla prestazione con percepimento della normale retribuzione

Principio di immediatezza(in senso relativo)

Principio di immutabilità

Complessità indagini

Conoscenza e conoscibilità del datore di lavoro

Principio di specificità

Elementi accessori:

Immediatezza della contestazione significa, in sostanza, tempestività della reazione aziendale rispetto alla conoscenza dei fatti; si tratta, dunque, di un

concetto relativo.

1) Immediatezza della contestazione

Fatti conosciuti (o conoscibili usando l’ordinaria diligenza)dall’azienda.

La contestazione deve avvenire immediatamente dopo il loroaccadimento, pena la non utilizzabilità dei fatti stessi comegiustificazione del licenziamento

Principio fondamentale

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«In tema di licenziamento per giusta causa, l'immediatezza dellacomunicazione del provvedimento espulsivo rispetto al momentodella mancanza addotta a sua giustificazione, ovvero rispetto aquello della contestazione, si configura quale elemento costitutivodel diritto al recesso del datore di lavoro, in quanto la nonimmediatezza della contestazione o del provvedimento espulsivoinduce ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbiasoprasseduto al licenziamento ritenendo non grave o comunquenon meritevole della massima sanzione la colpa del lavoratore»

Cassaz. 1° luglio 2010 n. 15649

«In tema di licenziamento disciplinare del lavoratore, il requisito della immediatezzadeve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con unintervallo di tempo, più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fattirichieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della strutturaorganizzativa dell'impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso, restandocomunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che inconcreto giustificano o meno il ritardo (nella specie, la Corte ha ritenuto che i circa dueanni trascorsi dall'asserita condotta del lavoratore al momento della contestazioneformale degli addebiti e il conseguente licenziamento non erano tali da garantire lacompletezza e l'esaustività dell'esercizio di difesa del lavoratore, che rimaneva quindiesposto ad un licenziamento disciplinare adottato senza la giusta osservanza del c.d.principio di immediatezza della contestazione e, quindi, lesivo del diritto di difesacostituzionalmente garantito).»

Cassaz. 14 settembre 2011 n. 18772

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Elementi essenziali del licenziamento disciplinare

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Fatti conosciuti dal datore di lavoro solo dopo un lasso di tempo dalloro accadimento (l’ignoranza dei fatti e la non riferibilitàdell’ignoranza stessa a negligenze del datore di lavoro devono essereprovate da quest’ultimo).

La contestazione deve avvenire immediatamente dopo la conoscenza in capo al datore di lavoro

Principio della tempestività relativa

Possibilità per il datore di lavoro si svolgere indagini sulla condotta e/o omissione del dipendente

La legittimità della sanzione è valutata esclusivamente sulla base dei fattiritualmente contestati e non assume alcuna rilevanza il riferimento, nelprovvedimento sanzionatorio, di addebiti ulteriori.

E’ preclusa al datore di lavoro la possibilità di adottare sanzioni disciplinariper motivi diversi rispetto a quelli addotti e contestati.

“E’ da considerare ravvisabile una modificazione sostanziale dell’originariacontestazione quando le circostanze nuove si configurino come elementiintegrativi di una fattispecie astratta di illecito disciplinare prevista in unanorma diversa rispetto alla quale sarebbero, invece, insufficienti i fattioriginariamente contestati” (Cass. n. 10058/2005).

2) Immutabilità della contestazione

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La contestazione deve contenere l’indicazione specifica ecircostanziata dei fatti storici concretamente individuati(data, ora, luogo soggetto e modalità dell’azione e/oomissione). Eventuali documenti vanno allegati o, altrimenti,indicati con precisione.

Lo scopo della contestazione è:

consentire al dipendente il pieno esercizio del suo diritto di difesa.

3) Specificità della contestazione

Cassaz. 30 marzo 2006, n. 7546

«La previa contestazione dell'addebito, necessaria in funzione di tuttele sanzioni disciplinari, ha lo scopo di consentire al lavoratorel'immediata difesa e deve conseguentemente rivestire il caratteredella specificità, che è integrato quando sono fornite le indicazioninecessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fattoo i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazionidisciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cuiagli art. 2104 e 2105 c.c.»

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Elementi essenziali del licenziamento disciplinare

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Cassaz. 26 ottobre 2010, n. 21912

«In tema di sanzioni disciplinari, l’esigenza della specificità dellacontestazione non obbedisce ai rigidi canoni che presiedono allaformulazione dell’accusa nel processo penale, né si ispira ad unoschema precostituito e ad una regola assoluta e astratta, ma simodella in relazione ai principi di correttezza che informano unrapporto interpersonale che già esiste tra le parti ed èfunzionalmente e teleologicamente finalizzata alla esclusivasoddisfazione dell’interesse dell’incolpato ad esercitare pienamenteil diritto di difesa».

Il datore di lavoro, in forza del suo generale potere direttivo, può sospendere in via cautelare

e non disciplinare il dipendente, qualora i tempi del procedimento siano incompatibili

con la presenza in azienda di quest’ultimo

Sospensione cautelare

Alterazione delle proveposte a

base della contestazione

Aggravamento della

situazione

La sospensione non comporta l’interruzione del pagamento dellaretribuzione né alcuna conseguenza negativa a carico del dipendente.

Generale inopportunità della presenza

in azienda

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L’art. 7 Statuto dei Lavoratori prevede 5 giorni di calendario dalla ricezione della contestazione.

Attenzione, tuttavia, alle disposizioni dei contratti collettivi; adesempio:

Art. 28 CCNL imprese assicurative: (…) il dipendente può presentareentro 15 giorni, le proprie difese scritte;

Art. 44 CCNL credito cooperativo: “il termine a difesa viene elevatoa 10 giorni”.

Termini a difesa

Il dipendente ha il diritto e l’onere di prendere posizione sulle circostanzecontestate in modo altrettanto circostanziato ed univoco.Il dipendente può altresì chiedere di:

Essere sentito oralmente, anche con l’assistenza di un rappresentantesindacale.

Prendere completa visione di documentazione citata e/o indicata nellalettera di contestazione, anche accedendo presso gli uffici aziendali.

Le difese del dipendente

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Elementi essenziali del licenziamento disciplinare

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Cass. civ. Sez. lavoro, 12-12-2014, n. 26241

Le garanzie di cui all'art. 7 dello Statuto dei Lavoratori (legge n. 300 del 1970)volte a consentire all'incolpato di esporre le proprie difese in relazione alcomportamento addebitatogli non comportano per il datore di lavoro undovere autonomo di convocazione del dipendente per l'audizione orale, masolo un obbligo correlato alla richiesta del lavoratore di essere sentito dipersona. Ne deriva che le discolpe fornite per iscritto consumano il diritto didifesa dell'incolpato solo quando dalla dichiarazione scritta emerga la rinunciaad essere sentito o quando la richiesta appaia, sulla base delle circostanze delcaso, ambigua o priva di univocità (conf. cass. sent. n. 5864 del 2010).

Cassaz. 26 aprile 2010 n. 9888

In tema di licenziamento disciplinare l'art. 7 l. 300/1970, che subordina lalegittimità del procedimento di irrogazione della sanzione disciplinare allaprevia contestazione degli addebiti, al fine di consentire al lavoratore diesporre le proprie difese in relazione al comportamento ascrittogli, noncomporta un dovere autonomo di convocazione del dipendente perl'audizione orale, ma solo un obbligo correlato alla manifestazionetempestiva (entro il quinto giorno) della volontà del lavoratore di esseresentito di persona, e nel giudizio il lavoratore ha l’onere di provare latempestività della sua richiesta, quale elemento costitutivo ed a luifavorevole della fattispecie procedimentale.

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Cassaz. 26 aprile 2010 n. 9888

In materia di sanzioni disciplinari, deve escludersi che il lavoratoreabbia diritto ad essere ascoltato a discolpa nel luogo dove svolge leproprie mansioni, e nel corso dell'orario di lavoro, non costituendoviolazione del diritto di difesa la convocazione del lavoratore al difuori del posto e dell'orario di lavoro. (Rigetta, App. Brescia,29/09/2007)

Cassaz. 30 agosto 2007, n. 18288

L'art. 7 l. n. 300 del 1970 non prevede, nell'ambito delprocedimento disciplinare, l'obbligo per il datore di lavoro dimettere a disposizione del lavoratore, nei cui confronti sia stataelevata una contestazione di addebiti di natura disciplinare, ladocumentazione aziendale relativa ai fatti contestati, restandosalva la possibilità per il lavoratore medesimo di ottenere, nelcorso del giudizio ordinario di impugnazione del licenziamentoirrogato all'esito del procedimento suddetto, l'ordine di esibizionedella documentazione stessa.

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IL LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA O PER GIUSTIFICATO MOTIVO SOGGETTIVO

a cura del Comitato Scientifico Centro Studi Lavoro e Previdenza

Licenziamento disciplinare

Giusta causa Giustificato motivo soggettivo

lesione irreparabile del vincolo fiduciario

gravissimo inadempimento di obblighi contrattuali o

extracontrattuali

recesso in tronco (NO preavviso)

minore lesione del vincolo fiduciario

notevole inadempimento di obblighi contrattuali

recesso con preavviso

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Licenziamento per giusta causa

GIUSTA CAUSA

art. 2119 cod. civ. “causa che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del

rapporto”

Notevoli inadempienze contrattuali

Comportamenti estranei alla sfera del contratto

incrinamento del nesso fiduciario

«Nel giudicare se la violazione disciplinare addebitata al lavoratoreabbia compromesso la fiducia necessaria ai fini della permanenza delrapporto di lavoro e, quindi, costituisca giusta causa di licenziamento vatenuto presente che è differenziata l'intensità della fiducia richiesta, aseconda della natura e della qualità del singolo rapporto, dellaposizione delle parti, dell'oggetto delle mansioni e del grado diaffidamento che queste richiedono e che il fatto concreto va valutatonella sua portata oggettiva e soggettiva, attribuendo rilievodeterminante, ai fini in esame, alla potenzialità del medesimo di porrein dubbio la futura correttezza dell'adempimento».

Cassaz. 8 agosto 2011 n. 17092

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Il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo

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Una condotta illecita, anche se estranea all'esercizio dellemansioni del lavoratore subordinato, può avere un rilievodisciplinare, atteso che il lavoratore è assoggettato non soloall'obbligo di rendere la prestazione, bensì anche agli obblighiaccessori di comportamento extralavorativo, tale da non lederené gli interessi morali e patrimoniali del datore di lavoro né lafiducia che, in diversa misura ed in diversa forma, lega le parti diun rapporto di durata.

Cass. civ. Sez. lavoro, 19-01-2015, n. 776

Siffatta condotta implica la sanzione espulsiva solo se presentacaratteri di gravità che devono essere apprezzati, tra l'altro, inrelazione alla natura dell'attività svolta dall'impresa datrice dilavoro. Ed infatti, comportamenti illeciti, non di gravità tale dagiustificare l'espulsione da un'azienda svolgente un'attivitàpuramente privatistica, possono al contrario rompere il legamefiduciario ed il connesso requisito di affidabilità posto alla base diun rapporto di lavoro costituito per l'espletamento di un serviziopubblico, ancorché in regime privatistico.

Cass. civ. Sez. lavoro, 19-01-2015, n. 776

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Licenziamento per giusta causa

giusta causa

Fatto specifico e individuato

NON vincolanti per il Giudice, che gode di ampia

discrezionalità

Previsioni dei CCNL

Pluralità di condotte

Cass. Civ. 9 luglio 2007 n. 15334

L'elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta neicontratti collettivi, avendo valenza meramente esemplificativa, nonesclude affatto che possa sussistere la giusta causa nel caso di un graveinadempimento o di un altro grave comportamento del lavoratore, acondizione che la condotta del dipendente (nel caso di specie consistentenell’omessa vigilanza sull’uso del cellulare di dotazione aziendale daparte del figlio ventenne) sia tale, con apprezzamento di fatto del giudicedi merito non sindacabile in sede di legittimità se congruamentemotivato, da comportare il venir meno del rapporto fiduciario tra datoredi lavoro e lavoratore.

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Il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo

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Nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delletipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi dilavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei contrattiindividuali di lavoro ove stipulati con l’assistenza e la consulenza delle commissioni dicertificazione di cui al titolo VIII del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, esuccessive modificazioni. Nel definire le conseguenze da riconnettere al licenziamento aisensi dell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, ilgiudice tiene egualmente conto di elementi e di parametri fissati dai predetti contratti ecomunque considera le dimensioni e le condizioni dell’attività esercitata dal datore dilavoro, la situazione del mercato del lavoro locale, l’anzianità e le condizioni dellavoratore, nonché il comportamento delle parti anche prima del licenziamento.

Collegato Lavoro (Legge 4 novembre 2010 n. 183)

Clausole generali e certificazione del contratto di lavoro

Art. 30, comma 3

«In materia di licenziamenti disciplinari, deve escludersi che, ove un determinatocomportamento del lavoratore, invocato dal datore di lavoro come giusta causa dilicenziamento, sia contemplato dal contratto collettivo come integrante una specificainfrazione disciplinare cui corrisponda una sanzione conservativa, essa possa formareoggetto di una autonoma e più grave valutazione da parte del giudice, a meno chenon accerti che le parti avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, lapossibilità della sanzione espulsiva. (Nella specie, la S.C., nel rigettare il ricorso, harilevato che correttamente il giudice di merito aveva valutato la condotta costituitadal rifiuto del dipendente di consegnare la posta alla luce dell'art. 56 n. 4 del c.c.n.l. disettore che prevedeva, in tale evenienza, l'applicazione di sanzioni di tipo soloconservativo).»

Cassaz. 17 giugno 2011 n. 13353

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«La giusta causa di licenziamento è nozione legale e il giudice non è vincolatodalle previsioni del contratto collettivo; ne deriva che il giudice può ritenere lasussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un gravecomportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o delcomune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale gravecomportamento, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sededi legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapportofiduciario tra datore di lavoro e lavoratore; per altro verso, il giudice puòescludere altresì che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto unagiusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, inconsiderazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato».

Cassaz. 18 febbraio 2011 n. 4060

Licenziamento per giusta causa

Elemento intenzionale

Incrinamento del nessofiduciario

Immediatezza e tempestività della reazione

Capacità di intendere e di volere al momento del fatto

Comportamento frutto di libera scelta

Riferimento all’inquadramento ed alla posizione in azienda

Riferimento alle mansioni svolte

Va intesa in senso relativo (può essere compatibile conun intervallo di tempo, più o meno lungo, quandol'accertamento e la valutazione dei fatti richieda unospazio temporale maggiore ovvero quando lacomplessità della struttura organizzativa dell'impresapossa far ritardare il provvedimento di recesso)

Riferimento all’elemento intenzionale ed alle circostanze

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Il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo

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«In tema di licenziamento per giusta causa, è onere del datore dilavoro dimostrare il fatto ascritto al dipendente, provandolo sianella sua materialità, sia con riferimento all’elemento psicologicodel lavoratore, mentre spetta a quest’ultimo la prova di unaesimente».

Cassaz. 23 febbraio 2009 n. 4368

I fatti che possono integrare il giustificato motivo soggettivo non possonoessere esterni al rapporto di lavoro, contrariamente a quanto avvienenell’ipotesi della giusta causa.

Si tratta di mancanze che devono rientrare nel concetto di “notevoleinadempimento degli obblighi contrattuali” (art. 3 L. 15 luglio 1966 n. 604)

Le ipotesi di mancanze che possono costituire casi di giusta causa ogiustificato motivo soggettivo di licenziamento sono previste dai CCNL.

Licenziamento per giustificato motivo soggettivo

meramente esemplificative

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La valutazione dei motivi di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo: i principi giurisprudenziali

La giurisprudenza ha individuato dei parametri di valutazione dei motivi dilicenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo; tali parametridevono tuttavia essere applicati in relazione ai singoli casi ed alla reale entità egravità delle mancanze del lavoratore.

Tali parametri devono essere applicati in relazione ai singoli casi e vengonoutilizzati dal Giudice con ampia discrezionalità:

la natura e la qualità del singolo rapporto. Ad esempio, la giurisprudenza ritieneche nel settore bancario, l’elemento fiduciario proprio di ogni rapporto di lavoroassuma il massimo rilievo e che, pertanto, l’idoneità del comportamentocontestato a ledere tale rapporto debba essere valutato con particolare rigore, aprescindere dalla sussistenza di un danno effettivo per il datore di lavoro (Cassaz.13 aprile 2002, n. 5332).

Segue

la posizione delle parti (ad esempio: eventuali precedenti disciplinari dellavoratore) (ad esempio: l’inquadramento contrattuale e l’anzianità). Ad esempio èstato ritenuto che rientra negli obblighi di diligenza e fedeltà di un dipendente“dotato di particolari responsabilità nella scala gerarchica (nella specievicedirettore della filiale di una banca) allertare il datore di lavoro […] delle graviirregolarità commesse dal suo superiore gerarchico” (Cassaz. 8 giugno 2001, n.7819) e che l’inosservanza di tale obbligo può costituire di per sé, secondo lagravità del caso, giustificato motivo soggettivo o giusta causa di licenziamento;

il grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente. Adesempio, costituisce giusta causa di licenziamento l’abbandono del posto di lavoroda parte di un prestatore di lavoro con mansioni di custodia e sorveglianza;

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Il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo

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Segue

la portata soggettiva dei fatti (intesa quale grado di volontarietà o di colpa dellavoratore nel commettere la mancanza); ad esempio, lo scarso rendimento delprestatore di lavoro legittima il recesso del datore di lavoro per giustificato motivosoggettivo a condizione che quest’ultimo provi che gli scarsi risultati derivino danegligenza nell’espletamento della prestazione lavorativa.ogni altro aspetto connesso con la specifica connotazione del rapporto che possa

incidere negativamente su di esso (Cassaz. 27 marzo 1998, n. 3270).

La possibilità per il giudice di utilizzare i criteri di valutazione dei motivi dilicenziamento legati alla condotta del prestatore di lavoro gli consente di convertireil licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivosoggettivo, “purché non vengano mutati i motivi posti a base della inizialecontestazione e non si renda necessario l’accertamento di fatti nuovi e diversi daquelli addotti inizialmente dal datore di lavoro a sostegno del proprio recesso”(Cassaz. 20 giugno 2002, n. 9006; Cassaz. 6 giugno 2000, n. 7617).

«La giusta causa ed il giustificato motivo soggettivo del licenziamentocostituiscono qualificazioni giuridiche di comportamenti ugualmente idonei alegittimare la cessazione del rapporto di lavoro, l’uno con effetto immediato el’altro con preavviso; ne consegue che deve ritenersi ammissibile, ad opera delgiudice ed anche d’ufficio, la valutazione di un licenziamento intimato pergiusta causa come licenziamento per giustificato motivo soggettivo qualora,fermo restando il principio dell’immutabilità della contestazione, e persistendola volontà del datore di lavoro di risolvere il rapporto, al fatto addebitato allavoratore venga attribuita la minor gravità propria di quest’ultimo tipo dilicenziamento, atteso che la modificazione del titolo del recesso è basata suldovere di valutazione, sul piano oggettivo, del dedotto inadempimento colpevoledel lavoratore».

Cassaz. 3 novembre 2008 n. 26379

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LE TUTELE RELATIVE AL LICENZIAMENTO

a cura del Comitato Scientifico Centro Studi Lavoro e Previdenza

Cassaz. 29 febbraio 2012 n. 3060

Se l'interruzione del rapporto di lavoro è dovuta ad una assenza prolungata edingiustificata - nel caso specifico quasi due mesi - il lavoratore non si può appellare allamancata affissione del codice disciplinare: siccome la presenza rientra tra i doverifondamentali e non accessori del lavoratore, la sua inosservanza, per esseresanzionata con il licenziamento, non abbisogna di essere portata a conoscenza dellavoratore. Infatti, questo caso non rientra in una ipotesi particolare di esercizio daparte del datore del potere di licenziamento; la garanzia della pubblicità del codicedisciplinare si applica soltanto al licenziamento disciplinare intimato per specificheipotesi di giusta causa o di giustificato motivo previste dalla normativa collettiva ovalidamente poste dal datore di lavoro, ma non sussiste quando il recesso è previstodirettamente dalla legge, o quando il comportamento tenuto sia manifestamentecontrario all'etica comune o concreti violazione dei doveri fondamentali.

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Le tutele relative al licenziamento

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Cassaz. 23 luglio 2012 n. 12774

E' illegittimo il licenziamento disciplinare inflitto al dipendenteincolpato di non essersi recato presso l'istituto per le cure termaliper due giorni su un totale di dieci coperti da permessi retribuiti,dovendosi osservare che il relativo contratto collettivo di categoriaprevede la sanzione espulsiva a partire da tre giorni di assenzaingiustificata e che il recesso del datore di lavoro per giusta causacostituisce pertanto un provvedimento sproporzionato rispetto alparziale inadempimento degli obblighi lavorativi da parte deldipendente.

Cassaz. 18 maggio 2012 n. 7863

È illegittimo il licenziamento per giusta causa di un dipendented'azienda per assenza ingiustificata dal lavoro, qualora, sebbene inassenza di un assenso formale da parte dell'Ufficio del personale,egli si sia assentato a seguito di una semplice comunicazione via e-mail ai responsabili, se questo comportamento rientrava nelle prassiaziendale per la richiesta delle ferie. L'assenza di risposta potevadunque ben essere considerata, come avvenuto in passato, unsilenzio assenso.

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Cassaz. 20 marzo 2007 n. 6618

Non consentire al datore di lavoro il controllo sullo stato di malattia,senza dare prova di un'adeguata ragione di impedimento, integragiusta causa di licenziamento quando la condotta del lavoratore, giàdi per sé concretante inadempimento a un'obbligazionefondamentale del rapporto di lavoro, denoti, per le modalità che lacaratterizzano, un atteggiamento confliggente anche con i piùgenerali doveri di correttezza e buona fede imposti dall'articolo1375 del Cc, l'osservanza dei quali è indispensabile per assicurare lacorretta esecuzione del rapporto stesso.

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VIOLAZIONI IN MATERIA DI FEDELTÀ E NON CONCORRENZA

a cura del Comitato Scientifico Centro Studi Lavoro e Previdenza

Corte Appello Milano 18 luglio 2002 n. 459

Configura giusta causa di licenziamento per violazione dell'obbligodi fedeltà di cui all'art. 2105 codice civile il semplice svolgimento,senza autorizzazione, di attività omogenea in favore di enteconcorrente del proprio datore di lavoro (nella specie un violinistadel Teatro alla Scala aveva collaborato con l'Accademia Santa Ceciliaper più concerti nell'arco di un anno) .

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Cassaz. 19 aprile 2006 n. 9056

Il dovere di fedeltà, sancito dall'art. 2105 cod. civ., si sostanzianell'obbligo del lavoratore di tenere un comportamento leale verso ildatore di lavoro e di tutelarne in ogni modo gli interessi; pertanto,rientra nella sfera di tale dovere il divieto di trattare affari per contoproprio o di terzi in concorrenza con l'imprenditore-datore di lavoronel medesimo settore produttivo o commerciale, senza che sianecessaria, allo scopo, la configurazione di una vera e propriacondotta di concorrenza sleale, in una delle forme stabilite dall'art.2598 cod. civ..

Segue. Cassaz. 19 aprile 2006 n. 9056

… Nell'ipotesi di impugnativa del licenziamento disciplinare intimato al lavoratore perassunta violazione del suddetto dovere di fedeltà, incombe al datore di lavoro l'onere diriscontrare rigorosamente i comportamenti attraverso i quali si sarebbe realizzatal'infedeltà del dipendente e, pertanto, la gravità della condotta di inaffidabilità tale dalegittimare la sanzione del licenziamento. (Nella specie, la S.C., sulla scortadell'enunciato principio, ha rigettato il ricorso e confermato la sentenza impugnata, conla quale era stata accolta l'impugnativa del licenziamento disciplinare irrogato neiconfronti di un medico dipendente di una struttura sanitaria privata, sul presupposto delsistematico sviamento della clientela della struttura medesima presso altri laboratori perindagini soprattutto sugli allergeni, senza che, però, fosse emersa un'idonea prova,incombente sulla datrice di lavoro, sui singoli casi comportanti la violazione ripetutadell'obbligo di fedeltà, anche in considerazione della circostanza che l'avviamento dipazienti presso altri istituti privati poteva essere in ipotesi giustificato dalla inidoneità dellaboratorio appartenente all'azienda da cui dipendeva il lavoratore ad effettuareparticolari complessi tipi di analisi e dalla necessità di osservare tempi più brevi per losviluppo di altre indagini).

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Violazioni in materia di fedeltà e non concorrenza

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Cassaz. 16 novembre 2012 n. 20163

È illegittimo il licenziamento del dipendente che usa carte della societàper fare causa all'imprenditore. Infatti, non integra violazionedell'obbligo di fedeltà l'utilizzazione di documenti aziendali finalizzataall'esercizio di diritti.

Cassaz. 18 gennaio 1997 n. 512

Nell'ipotesi in cui la giusta causa del licenziamento consista nella violazionedell'obbligo di fedeltà incombente sul lavoratore, ai sensi dell'art. 2105 cod.civ. (violazione per la cui sussistenza basta anche la mera preordinazione diuna attività contraria agli interessi del datore di lavoro, potenzialmenteproduttiva di danno, quale, nella specie, la costituzione di una società diretta afar concorrenza al datore di lavoro) trattandosi di obbligo impostodirettamente dalla legge, non ne è necessaria la previsione in un codicedisciplinare affisso in luogo accessibile a tutti i lavoratori, a norma dell'art.7della legge 20 maggio 1970, n. 300, nè rileva l'accertamento dell'intensitàdell'elemento psicologico della mancanza.

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Cassaz. 16 settembre 2002, n. 13536,

Nell'ipotesi di licenziamento intimato per una mancanza del lavoratore che siconcreti in una violazione non solo del dovere di diligenza, ex art. 2104 c. c., maanche del dovere di fedeltà all'impresa, di cui all'art. 2105 c.c., la legittimità dellasanzione deve essere valutata, ai fini della configurabilità della giusta causa direcesso ai sensi dell'art. 2119 c. c. o del giustificato motivo soggettivo di cui all'art.3 della legge n. 604/1966, tenendo conto della idoneità del comportamento aprodurre un pregiudizio potenziale per se stesso valutabile nell'ambito dellanatura fiduciaria del rapporto, indipendentemente dal danno economicoeffettivo, la cui entità ha un rilievo secondario e accessorio nella valutazionecomplessiva delle circostanze di cui si sostanzia l'azione commessa

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RILEVANZA DI COMPORTAMENTI EXTRALAVORATIVI E DI REATI COMMESSI DAL DIPENDENTE

a cura del Comitato Scientifico Centro Studi Lavoro e Previdenza

Cassaz. 30 gennaio 2013 n. 2168

I comportamenti tenuti dal lavoratore nella vita privata ed estranei perciòall'esecuzione della prestazione lavorativa, se, in genere, sono irrilevanti,possono tuttavia costituire giusta causa di licenziamento allorché siano dinatura tale da compromettere la fiducia del datore di lavoro nel correttoespletamento del rapporto, in relazione alle modalità concrete del fatto e adogni altra circostanza rilevante in relazione alla posizione delle parti, al grado diaffidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonché allaportata soggettiva del fatto stesso. (Nella specie il giudice di merito, con lasentenza confermata dalla S.C., aveva ritenuto legittimo il licenziamento pergiusta causa intimato a un dipendente postale che aveva patteggiato una penaper il reato di violenza sessuale, attribuendo rilevanza al "forte disvalore sociale"dei fatti e all'eco avutane nella stampa, nonché alla posizione del dipendente,quale coordinatore di circa trenta unità addette al recapito, in ragione dellaresponsabilità e preminenza rispetto ai componenti della squadra, attribuendorilievo al fatto che le condotte poste in essere fossero connotate da un "abusodelle funzioni di guida e responsabilità connesse alla veste di capo della comunitàreligiosa").

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Cassaz. 28 gennaio 2013 n. 1814

La valutazione del fatto del dipendente, al fine di stabilire se esso integri o no unagiusta causa di licenziamento, deve essere compiuta alla stregua della ratio dell'art.2119 c.c., e cioè tenendo conto dell'incidenza del fatto sul particolare rapportofiduciario che lega il datore di lavoro ed il lavoratore, delle esigenze postedall'organizzazione produttiva e delle finalità delle regole di disciplina postulate dadetta organizzazione; con la conseguenza che un fatto costituente reato contro ilpatrimonio, ancorché determinativo di un danno (patrimoniale) di specialetenuità, alla stregua della legge penale, può essere considerato di notevolegravità nel diverso ambito del rapporto di lavoro, tenuto conto della natura delfatto medesimo (in ragione delle esigenze di organizzazione e della relativadisciplina), della sua sintomaticità (in relazione all'impossibilità per l'azienda diapprestare sicure difese idonee ad impedire furti o comunque manomissioni dimateriali aziendali) e delle finalità (volte anche a prevenire danni patrimoniali gravi)della regola violata.

Cassaz. 13 settembre 2012 n. 15353In tema di efficacia della sentenza penale nel giudizio civile, il giudice adito per ladichiarazione di illegittimità di un licenziamento disciplinare irrogato inconseguenza di un comportamento - l'avere rivolto ai datori di lavoro epitetioffensivi - per il quale è stato poi sottoposto a procedimento penale per ingiuria, inseguito a querela delle persone offese costituitesi parti civili nel processo penale,non può - in considerazione dell'identità del fatto materiale, rispettivamentevagliato in sede penale come ingiuria e in sede civile come condotta che hadeterminato il licenziamento - considerare ininfluente la sentenza dibattimentalepenale di assoluzione conclusiva del suindicato procedimento penale divenutacosa giudicata (e le prove ritualmente raccolte in sede penale), ai fini dellavalutazione della condotta del lavoratore e della prova della giusta causa dellicenziamento, dovendo peraltro il giudice civile procedere in modo autonomoalla rivalutazione del fatto e del materiale probatorio, tanto più ove in sedepenale il comportamento addebitato al lavoratore-imputato sia stata ritenuto nonpunibile perché provocato da "una condotta mobbizzante" del datore di lavoro.

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Rilevanza di comportamenti extralavorativi e di reati commessi dal dipendente

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LEGGE DELEGA LAVORO

Maggiori resistenze nel cambiare lavoro per i vecchi assunti

Due regimi sanzionatori

LEGGE DELEGA LAVORO

Reintegra più risarcimento non superiore a 12 mensilità (retribuzione TFR) + contributi fino a reintegrazione senza sanzioni omissione

Il mancato rispetto delle disposizioni contrattuali (es. licenziamento quando è prevista una sanzione conservativa) o una sproporzione della sanzione non fa scattare la reintegra

Insussistenza del fatto materiale (rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento)

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LEGGE DELEGA LAVORO

Vizi formali o procedurali

Legge 10 dicembre 2014, n. 183GU 290 del 15/12/2014

Estinto il rapporto e indennità:1 mensilità (retribuzione TFR) non soggetta a contributi per ogni anno e non inferiore a 2 e superiore a 12

LEGGE DELEGA LAVORO

Fatto materiale

Il legislatore recepisce il recentissimoinsegnamento della Suprema Corte (Cass. 6novembre 2014, n. 23669), secondo cui “Il nuovoarticolo 18 (così come riformato dalla c.d. leggeFornero) ha tenuto distinta dal fatto materiale lasua qualificazione come giusta causa o giustificatomotivo, sicché occorre operare una distinzione tral’esistenza del fatto materiale e la suaqualificazione.

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Rilevanza di comportamenti extralavorativi e di reati commessi dal dipendente

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LEGGE DELEGA LAVORO

Insussistenza del fatto materiale contestato

L’accusa rivolta al lavoratore non è risultata vera inpunto di fatto: ad es. non c’è stato alcun furto dimateriale aziendale oppure il furto in azienda c’èstato, ma non lo ha commesso il lavoratore.

LEGGE DELEGA LAVORO

Insussistenza del fatto materiale contestato

Trib. Venezia 7 agosto 2013: insussistente il fattonella seguente fattispecie: al lavoratore era statocontestato di aver partecipato ad una rissa,l’istruttoria giudiziale aveva viceversa evidenziatosemplicemente un violento diverbio verbale;.

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LEGGE DELEGA LAVORO

Insussistenza del fatto materiale contestato

Trib. Venezia 6 luglio 2013 ha ritenuto insussistenteil fatto nel caso seguente: rifiuto opposto da unautotrasportatore all’ordine datoriale di caricare unautomezzo, giudicato legittimo a fronte dellelimitazioni al sollevamento di carichi impartite atutela del lavoratore per problemi di salute).

LEGGE DELEGA LAVORO

Insussistenza del fatto materiale contestato

Ai fini dell’accertamento circa la sussistenza delfatto contestato, è sufficiente la verifica del suosolo nucleo sostanziale, privo di qualsiasiconnotazione soggettiva.

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Rilevanza di comportamenti extralavorativi e di reati commessi dal dipendente

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LEGGE DELEGA LAVORO

Insussistenza del fatto materiale contestato

Il fatto quindi deve sussistere nella sua materialità,essere imputabile e – come ulteriore condizione -configurare altresì un inadempimento, altrimentipotendo il datore di lavoro arrivare a licenziare perun fatto sì sussistente nel suo profilo materiale, maprivo di qualsiasi connotazione in termini diantigiuridicità

LEGGE DELEGA LAVORO

Insussistenza del fatto materiale contestato

Il lavoratore ricorrente in giudizio può comunquechiedere al giudice di accertare la naturadisciplinare del recesso, indipendentemente dallacausale economica asseritamente utilizzata daldatore di lavoro.

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LEGGE DELEGA LAVORO

Condotte punibili

Rispetto ai vecchi-assunti, viceversa, non vieneconservata l’ipotesi della reintegrazione per il casoin cui il fatto rientri tra le condotte punibili con unasanzione conservativa sulla base delle previsionidei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinariapplicabili (art. 18, comma 4).

LEGGE DELEGA LAVORO

Vizi procedurali

In caso di violazione della procedura disciplinare dicui all’art. 7 St. lav. o di violazione dell’obbligo dimotivazione contestuale al licenziamento scritto, èprevista una tutela indennitaria di importo pari aduna mensilità per ogni anno di servizio, con ilminimo di 2 e il massimo di 12.

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Rilevanza di comportamenti extralavorativi e di reati commessi dal dipendente

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LEGGE DELEGA LAVORO

Vizi procedurali

L’unico criterio di quantificazione è datodall’anzianità di servizio (mentre per i vecchiassunti vi è una valutazione discrezionale da partedel Giudice, “in relazione alla gravità dellaviolazione formale o procedurale commessa daldatore di lavoro”: cfr. art. 18, comma 6, St. lav.).

LEGGE DELEGA LAVORO

Vizi procedurali

Il requisito della immediatezza della contestazionerientra tra le regole procedurali”;conseguentemente, l’eventuale tardività dellacontestazione viene sanzionata da questo blandolivello di tutela economica (Cassazione 6 novembre2014, n. 23669) ).

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LEGGE DELEGA LAVORO

Vizi procedurali

Diverso è il caso in cui via sia “la violazione delrequisito di tempestività”, che viene considerataelemento costitutivo del diritto di recesso”

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IL DANNO SUBITO DAL DATORE DI LAVORO: CASISTICA

a cura del Comitato Scientifico Centro Studi Lavoro e Previdenza

A) DANNO DA VIOLAZIONE DELL’ART. 2104 C.C. e DELL’ART. 2105 C.C.

Articolo 2104 c.c.«Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura dellaprestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore dellaproduzione nazionale.Deve inoltre osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplinadel lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo daiquali gerarchicamente dipende».

Articolo 1176, comma 2 c.c.«Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attivitàprofessionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla naturadell’attività esercitata».

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Articolo 2105 c.c.«Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprioo di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, nè divulgare notizieattinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa,o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio»

Articolo 1175 c.c.: «Il debitore e il creditore devono comportarsisecondo le regole della correttezza»

Articolo 1375 c.c.: «Il contratto deve essere eseguito secondobuona fede»

Il ContenutoObbligo di non concorrenzaObbligo di riservatezza

Il limite temporaledurante il rapporto di lavoro;

in caso di licenziamento/dimissioni:– nel periodo di preavviso e fino alla cessazione del rapporto di lavoro

(Cass. n. 299 del 1988);– nel caso in cui il lavoratore richieda la reintegrazione nel posto di

lavoro: i comportamenti tenuti dal lavoratore licenziato nel periodointermedio tra il licenziamento e l’ordine di reintegrazione possonoavere rilievo sotto il profilo dell’eventuale violazione dell’art. 2105 c.c.e possono anche giustificare un nuovo licenziamento (Cass. n. 10633del 2004; Cass. n. 2949 del 1997).

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Il danno subito dal datore di lavoro: casistica

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Obblighi di diligenza e fedeltà: conseguenze in caso di violazione

Nel caso in cui il lavoratore non osservi gli obblighi di diligenza o di fedeltà:Responsabilità disciplinare ex art. 2106 c.c.: applicazione di sanzioni disciplinari;Obbligo di risarcimento del danno per responsabilità contrattuale;l’azione promossa per il risarcimento del danno non è condizionatadall’onere della preventiva contestazione dell’addebito ex art. 7 Legge n.300/1970, che riguarda esclusivamente la responsabilità disciplinare. Taleonere non è neppure desumibile dalle regole di correttezza e di buonafede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. (Cass. n. 950 del 1999; Cass. n. 208del 1995).

Risarcimento del dannoProfilo della colpa

«L’inosservanza del dovere di diligenza del prestatore di lavorosubordinato nell’esecuzione della prestazione posta a suo carico comporta l’obbligodel risarcimento del danno cagionato al datore di lavoro per responsabilitàcontrattuale, anche per colpa lieve» (Cass. n. 16530 del 2004; Cass. n. 6664 del2000).

Nesso di causalità«Ai fini dell’affermazione della responsabilità del lavoratore, verso il datore

di lavoro per un evento dannoso verificatosi nel corso dell’espletamento dellemansioni affidategli, è, anzitutto, onere del datore di lavoro fornire la prova chel’evento dannoso è da riconnettere ad una condotta colposa del lavoratore perviolazione degli obblighi di diligenza, e cioè in rapporto di derivazione causale datale condotta» (Cass. n. 18375 del 2006).

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Anche in sede di contrattazione collettiva viene talvolta previsto il risarcimentodei danni subiti dal datore di lavoro

CCNL Metalmeccanici (art. 18):Il lavoratore deve svolgere le mansioni affidategli con la dovuta diligenza,osservare le disposizioni del presente contratto, nonché quelle impartite daisuperiori, avere cura dei locali e di tutto quanto è a lui affidato, rispondendodelle perdite, degli eventuali danni che siano imputabili a sua colpa onegligenza, nonché delle arbitrarie modifiche apportate agli oggetti inquestione. La valutazione dell’eventuale danno deve essere fatta obiettivamentee l’ammontare del danno deve essere preventivamente contestato al lavoratore.L’ammontare delle perdite e dei danni potrà essere trattenuto ratealmente sullaretribuzione con quote non superiori al 10% della retribuzione stessa.

CCNL Commercio (artt. 202 e 203):Per le mansioni che la giustifichino il datore di lavoro stabilirà per iscrittodi volta in volta l’ammontare della cauzione che dovrà essere prestata dailavoratori.Il datore di lavoro ha il diritto di rivalersi sulla cauzione per gli eventualidanni subiti, previa contestazione al prestatore d’opera.

CCNL Chimici (art. 24):I danni che comportino trattenute per risarcimento devono esserecontestati al lavoratore non appena l'azienda ne sia venuta a conoscenza.Le trattenute per risarcimento danni devono essere rateizzate in modoche la retribuzione mensile non subisca riduzioni superiori al 10% del suoimporto netto.

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Il danno subito dal datore di lavoro: casistica

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LA POSSIBILITA’ DI COMPENSARE IL DANNO CON I CREDITI RETRIBUTIVI DEL DIPENDENTE

Premessa: a norma del combinato disposto dell’art. 1264 c.c., comma 3, e dell’art. 545c.p.c., il datore di lavoro non può trattenere più di un quinto delle “somme dovute …atitolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o diimpiego”, in compensazione di propri crediti liquidi ed esigibili.

Secondo la G dominante, il meccanismo della COMPENSAZIONE tra debiti e crediticontrapposti presuppone:

• la sussistenza di rapporti giuridici distinti (rapporto di lavoro subordinato e altratipologia di rapporto); il meccanismo legale della compensazione presuppone“l’autonomia dei rapporti ai quali i debiti delle parti si riferiscono” (Cass. 16 gennaio1988, n. 301; Cass. 11 aprile 1990, n. 3067);

• la volontarietà della compensazione (che presuppone il consenso del lavoratore) o ilsuo accertamento in via giudiziale(Cass. 23 gennaio 1968, n. 179; Cass. 16 gennaio 1988, n. 301; Cass. 11 aprile 1990, n.3067).Le condizioni di cui sopra rendono difficilmente attuabile la compensazione nelcontesto del rapporto di lavoro subordinato.

Nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, è invece possibileeffettuare il c.d. CONGUAGLIO, che presuppone:

• la sussistenza di debiti e crediti contrapposti aventi tutti origine da ununico rapporto giuridico (rapporto di lavoro subordinato)Non è invece previsto il requisito della volontarietà odell’accertamento giudiziale.L’esistenza di crediti contrapposti nascenti dallo stesso rapporto dilavoro dà infatti luogo ad un mero “accertamento contabile del dare edell’avere”, non soggetto ad alcuna limitazione, ovvero ad una“compensazione atecnica” (Cass. 30 maggio 1983, n. 3732).

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“L'istituto della compensazione presuppone l'autonomia dei rapporti cui siriferiscono i contrapposti crediti delle parti, mentre è configurabile, lacosiddetta compensazione impropria, o conguaglio , allorché i rispettivicrediti e debiti abbiano origine da un unico rapporto; in questo caso, lavalutazione delle reciproche pretese comporta soltanto un accertamentocontabile di dare e avere cui il giudice può procedere senza che sianecessaria l'eccezione di parte o la proposizione della domandariconvenzionale (nella specie, la S.C. ha applicato il suddetto principio areciproci crediti che trovavano giustificazione in un rapporto di mutuo e inuno di lavoro , stante la stretta connessione o collegamento del primo alsecondo, tale da far divenire il mutuo parte integrante del rapporto dilavoro , con perdita della propria autonomia genetica e funzionale)”.(Cass. 29 marzo 2004, n. 6214, in Riv. It. Dir. Lav., 2005, 131, notaPANAIOTTI).

“L'istituto della compensazione e la relativa normativa codicisticapresuppone l'autonomia dei singoli rapporti cui si riferiscono icontrapposti crediti delle parti e non operano quando tali creditinascano dal medesimo rapporto, il quale può dar luogo soltanto a unacompensazione in senso improprio, o conguaglio, ossia a un sempliceaccertamento contabile di dare e avere, con elisione automatica deirelativi crediti fino alla reciproca concorrenza (nel caso in esame labanca datrice di lavoro faceva valere un credito risarcitorio nascenteda negligenza dell'impiegato nella gestione di rapporti di credito conclienti)”. (Cass. 17 aprile 2004, n. 7337, in Riv. It. Dir. Lav., 2005, 131).

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Il danno subito dal datore di lavoro: casistica

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Il limite del quinto alla compensabilità dei crediti di lavoro nonsi applica “quando i contrapposti crediti abbiano origine da ununico rapporto, sì che la valutazione delle singole preteseimporti solo un accertamento contabile di dare ed avere e nonuna compensazione in senso tecnico”…”non vale perciò dettolimite quando il datore di lavoro voglia compensare il creditorisarcitorio per danni da prestazione lavorativa non diligente colcredito retributivo vantato dal prestatore” (Cass. 5 maggio1995, n. 4873; in dottrina v. Pietro Ichino, Il contratto di lavoro,II, Tratt CM, 2003, 245).

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Contributi di approfondimento

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INTERNET, POSTA ELETTRONICA E GPS: ASPETTI GIURIDICI E GESTIONALI

a cura di Matteo Mazzon

Lo sviluppo delle nuove tecnologie informatiche relative alle comunicazioni e la loro applicazione al mondo del lavoro, avvenuta nell’ultimo ventennio, da un lato ha contribuito a velocizzare e migliora-re la qualità del lavoro, ma dall’altro ha imposto al legislatore di adeguare la normativa all’uso delle nuove tecnologie e agli operatori del settore di adattare quella già esistente. Non sempre facile risulta la gestione degli strumenti informatici sui luoghi di lavoro, viste anche le sanzioni di carattere civile, amministrativo e penale in cui si può incorrere. In particolare l’utilizzo di queste nuove tecnologie può determinare, anche in via indiretta, il controllo a distanza dell’attività dei lavoratori.

1. Le norme di legge

Nell’ordinamento giuridico italiano sono state introdotte ,nel corso del tempo ,normative volte ad evi-tare che il controllo effettuato con apparecchi audiovisivi sfoci in un’invasione della sfera privata del lavoratore tale da ledere la libertà e la dignità dello stesso:• l’art.4 della L. n.300/70, detta Statuto dei Lavoratori;• il D.Lgs. n.196/03, detto Codice Privacy, e in particolare l’art.114. il quale ha richiamato integral-

mente il suddetto art.4. Art.4, co.1, L. n.300/70: “È vietato l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità

di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”. Essa contiene per le aziende il divieto assoluto di in-stallazione, per effettivo uso, di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature, destinate allo scopo precipuo e diretto del controllo “a distanza” dell’attività dei lavoratori. La parola “attività” va intesa nella sua accezione più ampia: non solo la mera attività lavorativa, ma anche il “complessivo compor-tamento tenuto dal lavoratore in azienda, nel tempo in cui è impegnato ad adempiere all’obbligazione lavorativa come durante le pause di lavoro idonee a favorire i contatti con i colleghi sia per iniziative di proselitismo sindacale sia per iniziative di libera manifestazione del pensiero ex art. 1, Stat. lav., ecc”.

Art.4, co.2, L. n.300/70: “Gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In di-fetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l’Ispettorato del lavoro, dettando, ove occor-ra, le modalità per l’uso di tali impianti”. Questa norma subordina l’installazione di impianti e apparecchiature di controllo – non finalizzate di-rettamente al controllo dei lavoratori, la cui installazione è giustificata da esigenze organizzative e pro-duttive ovvero dalla sicurezza del lavoro – al preventivo accordo con le RSA o sussidiariamente all’auto-rizzazione dell’Ispettorato del lavoro in difetto di tale accordo1.

1 Cfr. M. Mazzon, Installazione delle telecamere in azienda, in "Contratti collettivi e tabelle" n.4/10, pag.52.

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Infine, oltre all’art.114 del D.Lgs. n.196/03, detto Codice Privacy, dobbiamo tener conto di tutto il Co-dice (più volte modificato), dei documenti di prassi nonché delle decisioni del Garante Privacy, oltre al nuovo Regolamento Europeo in materia di privacy di diretta applicazione nei territori degli Stati mem-bri (Regolamento UE n.611 del 24 giugno 2013).

2. Uso di internet

Dalla gestione aziendale di internet e della posta elettronica possono derivare, oltre che il controllo a distanza dei lavoratori, problematiche relative alla violazione della corrispondenza, alla gestione corret-ta dei software e, in genere, al trattamento dei dati. La Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro, con parere n.25 del 7 novembre 2012, ha fornito impor-tanti indicazioni in merito a quanto sopra.Tenendo conto della continua innovazione tecnologica in materia di hardware e software è compito del datore di lavoro-titolare del trattamento e dei tecnici competenti stabilire di volta in volta se le appa-recchiature da utilizzare consentano un controllo a distanza dell’attività lavorativa, seppur involontario (ad esempio firewall e software che permettono il lavoro in remoto). Al riguardo, la Fondazione Studi, nel parere in esame, richiama la delibera n.13/07, nella quale il Garan-te della Privacy ha affermato che é opportuno adottare un Codice interno redatto in modo chiaro e sen-za formule generiche, da pubblicizzare adeguatamente e da sottoporre ad aggiornamento periodico.È consigliabile che il Codice da adottare in azienda contenga almeno le seguenti indicazioni:• quali comportamenti non sono tollerati rispetto alla navigazione in internet (ad es. il download di

software o di file musicali) oppure alla tenuta di file nella rete interna;• in quale misura è consentito utilizzare, anche per ragioni personali, servizi di posta elettronica o

di rete, anche solo da determinate postazioni di lavoro o caselle oppure ricorrendo a sistemi di webmail, indicandone le modalità e l’arco temporale di utilizzo (ad es. fuori dall’orario di lavoro o durante le pause o consentendone un uso moderato anche nel tempo di lavoro);

• quali informazioni sono memorizzate temporaneamente (ad es. le componenti di file di log even-tualmente registrati) e chi (anche all’esterno) vi può accedere legittimamente;

• quali informazioni sono eventualmente conservate per un periodo più lungo, in forma centralizzata o meno (anche per effetto di copie di back up, della gestione tecnica della rete o di file di log);

• in quale misura il datore di lavoro si riserva di effettuare controlli in conformità alla legge, anche saltuari o occasionali, indicando le ragioni legittime specifiche e non generiche per cui verrebbero effettuati (anche per verifiche sulla funzionalità e sicurezza del sistema) e le relative modalità (pre-cisando se, in caso di abusi singoli o reiterati, vengono inoltrati preventivi avvisi collettivi o indivi-duali ed effettuati controlli nominativi o su singoli dispositivi e postazioni);

• quali conseguenze, anche di tipo disciplinare, il datore di lavoro si riserva di trarre qualora constati che la posta elettronica e la rete internet siano utilizzate indebitamente;

• le soluzioni prefigurate per garantire, con la cooperazione del lavoratore, la continuità dell’attività lavorativa in caso di assenza del lavoratore stesso.

L’utilizzo di qualsiasi apparecchiatura dalla quale possa derivare la possibilità di controllare a distanza l’attività lavorativa è legittimo, a condizione che la sua installazione sia stata preventivamente concor-data con le rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza, autorizzata dall’Ispettorato del lavoro.

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Internet, posta elettronica e gps: aspetti giuridici e gestionali

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3. Usodellapostaelettronica

La Fondazione Studi affronta anche la problematica dell’uso della posta elettronica che investe non solo il Codice Privacy, ma anche la questione della segretezza della corrispondenza che trova, tra l’altro, tutela costituzionale2.Il codice penale (art.616) punisce “chiunque prende cognizione del contenuto di una corrispondenza chiusa, a lui non diretta, ovvero sottrae o distrae, al fine di prenderne o di farne da altri prendere cogni-zione, una corrispondenza chiusa o aperta, a lui non diretta”3.La norma penale equipara espressamente la corrispondenza telematica a quella tradizionale; presup-posto per la configurabilità del citato reato è che si tratti di corrispondenza chiusa.L’allegato b) al Codice Privacy (Disciplinare Tecnico in materia di misure minime di sicurezza) prevede che, in caso di prolungata assenza del dipendente-incaricato, tale da rendere indispensabile e indiffe-ribile intervenire per esclusive necessità di operatività e di sicurezza del sistema, “il titolare può assi-curare la disponibilità di dati o strumenti elettronici”. In tal caso, il titolare del trattamento-datore di lavoro (o soggetto appositamente incaricato)4 deve poter conoscere le password di accesso alla posta elettronica. La custodia delle copie delle credenziali deve essere organizzata garantendo la relativa segretezza e individuando preventivamente per iscritto i soggetti incaricati della loro custodia, i quali devono informare tempestivamente l’incaricato-dipendente assente dell’intervento effettuato5.Quindi altri soggetti all’uopo incaricati possono accedere alla casella di posta elettronica aziendale di un dipendente e leggere i messaggi contenuti, previa consentita acquisizione della relativa password, la cui finalità non è quella di proteggere la segretezza dei dati personali del singolo lavoratore, ma solo quella di impedire che ai suddetti strumenti possano accedere persone estranee alla società. Infatti, tale comportamento non configura un non consentito controllo sulle attività del lavoratore, visto che l’email è un semplice strumento aziendale messo a disposizione del lavoratore al solo fine di consentire allo stesso di svolgere i propri compiti lavorativi e che, come tutti gli altri strumenti di lavoro forniti dal datore di lavoro, rimane nella totale disponibilità dell’azienda senza alcuna limitazione.La giurisprudenza si è già espressa in merito come segue. Il Tribunale di Torino del 15 settembre 2006, n.143, ha affermato che:“Il dipendente che utilizza la casella di posta elettronica aziendale si espone al rischio che anche altri della medesima azienda - unica titolare del predetto indirizzo – possano lecitamente accedere alla ca-sella in suo uso non esclusivo e leggerne i relativi messaggi in entrata e in uscita ivi contenuti, previa ac-quisizione della relativa password, la cui finalità non risulta essere allora quella di proteggere la segre-tezza dei dati personali custoditi negli strumenti posti a disposizione del singolo lavoratore, bensì solo quella di impedire che ai suddetti strumenti possano accedere anche persone estranee alla società”.In senso conforme, Cassazione 19 dicembre 2007, n.47096, che ha stabilito che:“Non integra il reato di cui all’art. 616 cod. pen. la condotta del superiore gerarchico che prenda cogni-zione della posta elettronica contenuta nel computer del dipendente, assente dal lavoro, dopo avere a tal fine utilizzato la password in precedenza comunicatagli in conformità al protocollo aziendale”.In riferimento ai controlli difensivi, la Fondazione Studi cita una recente sentenza della Suprema Corte (n.2722/12), nella quale si è stabilito che il comportamento del datore di lavoro che pone in essere un’attività di controllo sulle strutture informatiche aziendali, che prescinde dalla pura e semplice sor-veglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa degli addetti ed é, invece, diretta ad accertare la perpetuazione di eventuali comportamenti illeciti dagli stessi posti in essere, è estraneo al campo di

2 L’art.15 della Costituzione dispone, infatti, che: “La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili”.3 Si veda anche Corte Cost. 17 luglio 1998, n.281 e 11 marzo 1993, n.81; art.616, co.4 c.p.; art.49 Codice dell’amministrazione digitale.4 Es. Amministratore di sistema.5 Vedi allegato B) Trattamenti con strumenti elettronici, Sistema di autenticazione informatica.

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applicazione dell’art.4 dello Statuto dei Lavoratori. Questo se il c.d. controllo difensivo non riguarda l’e-satto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro, ma é destinato ad accertare un comportamento che poneva in pericolo la stessa immagine del datore di lavoro presso terzi.Ai fini di una corretta gestione della posta aziendale la Fondazione ricorda quanto stabilito dal Garante della Privacy con la delibera n.13/07.In particolare é opportuno che:• il datore di lavoro renda disponibili indirizzi di posta elettronica condivisi tra più lavoratori (ad

esempio, [email protected], [email protected], ufficioreclami@società.com, [email protected] etc), eventualmente affiancandoli a quelli individuali (ad esempio [email protected], rossi@società.com, mario.rossi@società.it);

• il datore di lavoro valuti la possibilità di attribuire al lavoratore un diverso indirizzo destinato ad uso privato del lavoratore stesso;

• il datore di lavoro metta a disposizione di ciascun lavoratore apposite funzionalità di sistema, di agevole utilizzo, che consentano di inviare automaticamente, in caso di assenze (ad es. per ferie o attività di lavoro fuori sede), messaggi di risposta contenenti le “coordinate” (anche elettroniche o telefoniche) di un altro soggetto o altre utili modalità di contatto della struttura. É parimenti opportuno prescrivere ai lavoratori di avvalersi di tali modalità, prevenendo così l’apertura della posta elettronica. In caso di eventuali assenze non programmate (ad es. per malattia), qualora il la-voratore non possa attivare la procedura descritta (anche avvalendosi di servizi webmail), il titolare del trattamento, perdurando l’assenza oltre un determinato limite temporale, potrebbe disporre lecitamente, sempre che sia necessario e mediante personale appositamente incaricato (ad es. l’amministratore di sistema oppure, se presente, un incaricato aziendale per la protezione dei dati), l’attivazione di un analogo accorgimento, avvertendo gli interessati.

In previsione della possibilità che, in caso di assenza improvvisa o prolungata e per improrogabili ne-cessità legate all’attività lavorativa, si debba conoscere il contenuto dei messaggi di posta elettronica, è opportuno incaricare un altro lavoratore (incaricato/responsabile/amministratore di sistema) a ve-rificare il contenuto di messaggi e ad inoltrare al titolare del trattamento quelli ritenuti rilevanti per lo svolgimento dell’attività lavorativa. A cura del titolare del trattamento, di tale attività dovrebbe essere redatto apposito verbale e informato il lavoratore interessato alla prima occasione utile.

4. GPS

Anche se lo Statuto dei Lavoratori è stato ideato per il mondo del lavoro dell’Italia di 40 anni orsono, l’ampia formulazione della norma (impianti audiovisivi e altre apparecchiature) ha consentito alla giu-risprudenza di adeguare e adattare l’applicazione della norma alla più recente evoluzione tecnologica e ricomprendere nell’ambito di applicazione della stessa i più svariati congegni, come ad esempio lo-calizzatori satellitare basati su sistemi GPS6 (di seguito anche GPS). Il GPS permette di localizzare auto-maticamente i veicoli in diversi modi e per le necessità più svariate, acquisendo nel contempo svariate informazioni.Appare quindi evidente che il sistema di localizzazione dei lavoratori tramite GPS consiste in un’ap-parecchiatura tramite la quale il datore di lavoro può controllare a distanza l’attività del dipendente. Pertanto, l’installazione di detti impianti deve essere motivata da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro e il datore di lavoro deve assolvere agli adempimenti previsti dal co.2 dell’art.4.

6 Il Global Positioning System (abbreviato in GPS, a sua volta abbreviazione di NAVSTAR GPS, acronimo di NAVigation Satellite Time And Ran-ging Global Positioning System), è un sistema di posizionamento su base satellitare, a copertura globale e continua, gestito dal Dipartimento della difesa statunitense.

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Tuttavia, bisogna porre attenzione non solo ai GPS, quanto a tutti gli strumenti informatici e atti alla telecomunicazione moderni.Con nota Prot. n.25/I/0006585 del 28 novembre 2006, in risposta a istanza di interpello avanzata dal Sindacato Lavoratori Industria Farmaceutica – Cobas, il Ministero del Lavoro ha affermato che l’utiliz-zo di computer palmari, normalmente in dotazione agli informatori scientifici del farmaco, muniti di apposito programma volto a registrare e, successivamente, inviare, via internet, al server aziendale, l’avvenuta effettuazione delle varie visite presso le strutture sanitarie, memorizzandone data e ora, che con l’eventuale dotazione di apposita scheda sim permetterebbe di verificare gli spostamenti material-mente compiuti dai suddetti lavoratori, deve essere ricondotto nella disciplina di cui all’art.4, co.2, L. n.300/70. Quindi, l’utilizzo necessita di un preventivo accordo con le rappresentanze sindacali azienda-li o, in mancanza di accordo, di apposita autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro.

5. Iprofiliprivacy

I GPS sono dispositivi in grado di indicare la posizione geografica di persone o oggetti mediante una rete di comunicazione elettronica. Grazie al sistema di localizzazione satellitare vengono dunque acquisite molteplici informazioni (localizzazione del veicolo, tragitto percorso, orari e numero di soste effettuate, velocità oraria e chilometri percorsi) riconducibili a dati personali degli interessati, ciò comporta l’appli-cabilità del D.Lgs n.196/03. Ma questo vale sia per l’utilizzo di internet che della posta elettronica che delle telecamere7 etc. In ogni caso ne consegue che i dati devono essere trattati nel rispetto dei principi generali di liceità, esattezza, pertinenza, completezza e non eccedenza, di cui all’art.11 del Codice e conservati per un periodo di tempo non superiore a quello necessario agli scopi per i quali essi sono stati raccolti o suc-cessivamente trattati. Andranno quindi espletati tutti quegli adempimenti formali previsti dal Codice, come la consegna dell’informativa ex art.13 agli interessati dal trattamento, la nomina degli incaricati al trattamento ex art.30 ecc.Poi dovranno essere adottate le misure di sicurezza previste dal Disciplinare Tecnico nell’Allegato B al predetto codice (sia quelle logiche che fisiche). Il titolare del trattamento è tenuto ad individuare pre-ventivamente le misure di sicurezza che devono almeno rispettare i parametri di minimi individuati nel Codice (artt.33, 34, 35 e 36) e nell’Allegato B.Le misure minime sono il complesso delle misure organizzative, tecniche, informatiche, logistiche e procedurali - che configurano il livello minimo di protezione - volte a ridurre al minimo i rischi di:• distruzione o perdita, anche accidentale, dei dati;• accesso non autorizzato;• trattamento non consentito o non conforme alle finalità della raccolta;• modifica dei dati in conseguenza di interventi non autorizzati o non conformi alle regole8.Soprattutto nel caso di trattamenti particolarmente complessi, l’adozione delle misure minime potreb-be non essere sufficiente ad evitare un danno e a liberare da ogni responsabilità il soggetto che effettua il trattamento.Infatti, il Codice Privacy contiene l’obbligo più generale di custodire e controllare i dati personali ogget-to di trattamento, anche in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, alla natura dei dati e alle specifiche caratteristiche del trattamento, in modo da ridurre al minimo, mediante l’a-dozione di idonee e preventive misure di sicurezza, i rischi di distruzione o perdita, anche accidentale,

7 Per quanto riguarda la videosorveglianza si richiama l’attenzione sul Provvedimento del Garante per la Privacy dell’8 aprile 2010.8 Si ricorda che in base all’art.169 del Codice “Chiunque, essendovi tenuto, omette di adottare le misure minime previste dall’art.33 è punito con l’arresto sino a due anni”.

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dei dati stessi, di accesso non autorizzato o di trattamento non consentito o non conforme alle finalità della raccolta.Accanto alle misure minime vi sono dunque le c.d. misure idonee ovvero quelle ulteriori studiate e adattate al singolo caso di specie, in base al progresso tecnico, alla natura dei dati e alle specifiche caratteristiche del trattamento9.Infine, non va dimenticato che l’art.37 (lett.a) del Codice prevede che il titolare notifichi al Garante il trattamento di dati personali cui intende procedere se il trattamento riguarda “dati genetici, biometrici o dati che indicano la posizione geografica di persone od oggetti mediante una rete di comunicazione elettronica”.In riferimento al GPS, si precisa che se la localizzazione geografica è effettuata solo per garantire la sicu-rezza del trasporto, non costituendo un trattamento di dati personali suscettibile di recare pregiudizio agli interessati, non deve essere notificato: lo ha stabilito il Garante con deliberazione n.1 del 31 marzo 2004. Ad esempio, le rilevazioni dei sistemi di controllo satellitare installati dalle imprese di trasporto sui camion per la prevenzione dei furti potrebbero essere escluse dall’obbligo di notifica10.Sempre in tema di notificazione il Garante ha poi ulteriormente precisato (nota esplicativa del 23 aprile 2004) che “La localizzazione va notificata quando permette di individuare in maniera continuativa - anche con eventuali intervalli - l’ubicazione sul territorio o in determinate aree geografiche, in base ad apparecchiature o dispositivi elettronici detenuti dal titolare o dalla persona oppure collocati sugli oggetti”, mentre non va effettuata in presenza di trattamenti di dati personali che consentano solo una rilevazione non continuativa del passaggio o della presenza di persone o oggetti. La localizzazione deve comunque permettere di risalire all’identità degli interessati, anche indirettamente attraverso appositi codici.In definitiva ogni caso é a se stante e gli adempimenti dipendono dalla tipologia di trattamento e dalle sue modalità. Ulteriori indicazioni utili le possiamo ricavare dai vari provvedimenti che il Garante ha adottato nel corso del tempo11. Ad esempio, in quello più recente del 7 ottobre 2010, il Garante ha disposto il blocco del trattamento dei dati personali riferiti ai lavoratori, effettuato per il tramite dei citati sistemi di localizzazione da una società che non aveva preventivamente sottoscritto un accordo con la Rappresentanza Sindacale Aziendale o, in sua assenza, acquisito l’autorizzazione del competente Ispettorato del Lavoro, così come previsto dall’art.4, co.2, L. n.300/70 (Statuto dei Lavoratori).Ancora più recentemente il Garante, nel provvedimento n.370 del 4 ottobre 2011, ha ribadito la neces-sità di dare attuazione alla procedura di cui all’art.4, L. n.300/70, indicando una serie di obblighi a carico dei datori di lavoro pubblici o privati che, ai sensi dell’art.154, co.1, lett.c) del Codice, si avvalgono di sistemi di localizzazione e di comunicazione della posizione rilevata installati a bordo dei veicoli e im-piegati per soddisfare esigenze organizzative, produttive ovvero per la sicurezza sul lavoro, ad esempio: a) che la posizione del veicolo non sia di regola monitorata continuativamente dal titolare del tratta-

mento, ma solo quando ciò si renda necessario per il conseguimento delle finalità legittimamente perseguite;

b) che i tempi di conservazione delle diverse tipologie di dati personali eventualmente trattati siano commisurati tenendo conto di ciascuna delle finalità in concreto perseguite;

c) quale misura necessaria, la designazione quali responsabili del trattamento, ai sensi dell’art.29 del Codice, degli operatori economici che forniscono i servizi di localizzazione del veicolo e di trasmis-sione della posizione del medesimo, impartendo loro le necessarie istruzioni in ordine all’utilizzo legittimo dei dati raccolti per le sole finalità previste dall’accordo che regola la fornitura del servizio

9 Le misure idonee, nel caso non siano soddisfatte, non comportano sanzioni né di carattere penale né amministrativo, ma sottopongono l’azienda al rischio di azione per il risarcimento del danno in caso di danni a terzi a causa della loro mancata applicazione.10 Vedi circolare n.40/04 della Confederazione Generale Italiana dei Trasporti.11 Vedi anche provvedimenti 5 giugno 2008; 18 febbraio 2010.

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di localizzazione, con la determinazione delle tipologie di dati da trattare nonché delle modalità e dei tempi della loro eventuale conservazione;

d) un modello semplificato di informativa (quale quello individuato nell’allegato 1 al provvedimento) utilizzabile alle condizioni indicate in motivazione, al fine di rendere noto agli interessati il tratta-mento effettuato mediante il sistema di localizzazione del veicolo.

Stralcio di regolamento aziendale(daadattarealleesigenzeaziendali)

REGOLAMENTO AZIENDALE(valido ai sensi dell’art.7, L. n.300/70)

Redatto in seguito alle procedure implementate dalla ”___________________” alla luce del D.Lgs. n.196/03 (Codice privacy)

(…)

Normeeprocedureperiltrattamentodidatipersonalieffettuaticonstrumentielettronici

Credenzialidiautenticazione(user-id e password)Il trattamento di dati personali con strumenti elettronici è consentito agli incaricati cui sono state attri-buite credenziali di autenticazione relative a uno specifico trattamento o a un insieme di trattamenti. Le credenziali di autorizzazione consistono in: un codice per l’identificazione dell’incaricato (user-id) associato a una parola chiave riservata (password), conosciuta solamente dal medesimo, oppure in un dispositivo di autenticazione in possesso e uso esclusivo dell’incaricato, eventualmente associato a un codice identificativo o a una parola chiave.Ad ogni incaricato saranno assegnate i seguenti tipi di password :• password per accesso al personal computer;• password per accesso al software applicativo (e user-id);• password di screensaver (e user-id);• password per utilizzo posta elettronica aziendale (e user-id).L’incaricato è responsabile delle proprie credenziali, che non vanno comunicate e/o consegnate a nes-suno, ad eccezione del soggetto indicato di seguito. Ricevuta la credenziale, l’incaricato provvede senza indugio, e comunque al suo primo utilizzo, a sosti-tuire la parola chiave. È fatto espresso divieto ad ogni incaricato di effettuare alcuna operazione di trat-tamento prima di aver effettuato la sostituzione della parola chiave, rispetto a quella originariamente assegnatagli. L’incaricato avrà cura di consegnare al soggetto incaricato dal Titolare del trattamento della custodia delle password aziendali, le proprie password in busta chiusa, con l’indicazione sulla busta stessa del solo user-id.Successivamente l’incaricato dovrà sostituire la parola chiave con una nuova ogni sei mesi, nel caso consenta il trattamento di dati personali comuni, o ogni tre mesi, nel caso consenta il trattamento di dati personali sensibili, e consegnare conseguentemente una nuova busta con la password modificata.La scelta della parola chiave dovrà essere effettuata secondo i seguenti criteri:• la parola chiave deve essere lunga non meno di otto caratteri (alfanumerici);• non possono essere riutilizzate parole chiave già utilizzate in precedenza oppure parole chiave uti-

lizzate per diverse credenziali di cui l’incaricato sia titolare internamente o esternamente alle strut-ture operative;

• le parole chiave non devono contenere riferimenti che le rendano facilmente risalibili. In particola-re: non devono contenere parole di senso compiuto, nomi o affini; devono di preferenza alternare

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caratteri alfabetici maiuscoli, minuscoli e carattere numerici.

Modalità di custodia delle passwordOgni incaricato deve evitare che chiunque altro, ivi compresi altri incaricati, possano accedere ai dati utilizzando la propria credenziale. Per questa ragione, la parola chiave non dovrà essere mai comuni-cata a nessuno. Tale modalità prevede che, l’incaricato del trattamento scriva la parola chiave su un foglio, insieme al proprio nome e cognome, inserisca il foglio in una busta, sulla quale dovrà indicare nuovamente il proprio nome e cognome come incaricato del trattamento, il codice utente (se assegnato allo scopo) e il sistema al quale la parola chiave si riferisce, chiudere e incollare la busta, firmare come incaricato del trattamento interessato sui margini di chiusura della busta, far controfirmare l’incaricato della custodia delle password e applicare sulla chiusura del nastro adesivo trasparente. Tutte le buste sigillate verranno custodite dall’incaricato della custodia delle password in plico anch’es-so chiuso, sigillato e riposto in archivio chiuso a chiave. La procedura di conoscenza della password, qualora se ne presenti la necessità, e nelle sole ipotesi di situazioni di emergenza, prevede che il soggetto preposto alla custodia delle password possa provve-dere all’apertura della singola busta alla presenza di un terzo. La custodia delle copie delle credenziali deve essere organizzata garantendo la relativa segretezza.

Custodia di copia delle credenzialiIl Titolare del trattamento, anche tramite soggetti all’uopo incaricati o nominati responsabili del trat-tamento, si riserva di utilizzare le credenziali dell’incaricato, al fine di sostituirle in casi di prolungata assenza dal posto di lavoro per qualsiasi motivo. Tale procedura ha lo scopo di assicurare la disponibilità di dati o di strumenti anche in casi anomali. La procedura si limita in questo caso all’apertura in pre-senza del Titolare del trattamento e/o dei responsabili/incaricati e/o del custode delle password della busta contenente la parola chiave dell’interessato assente o impedito.

(…)

PostaelettronicaL’uso della posta elettronica per la trasmissione, l’elaborazione, l’archiviazione di informazioni sia verso utenti interni alla Società sia verso utenti esterni, rappresenta un’esigenza professionale che richiede il rispetto dei seguenti principi:• tutela dell’immagine della società;• rispetto dell’etica dell’ambiente di lavoro;• osservanza della riservatezza da parte dei dipendenti;• correttezza dei rapporti tra colleghi e con terzi;• rispetto delle normative vigenti.La posta elettronica rappresenta, a tutti gli effetti, nessuno escluso, strumentazione di lavoro e, di con-seguenza, bene di proprietà dell’azienda.Per quanto attiene alla tutela della corrispondenza, tutte le comunicazioni spedite in posta elettronica sono paragonabili alla corrispondenza cartacea.Le seguenti attività rappresentano comunque una violazione delle obbligazioni contrattuali dei dipen-denti:• l’accesso non autorizzato al servizio di posta elettronica;• l’accesso non autorizzato alle caselle di altri utenti;• l’uso del sistema di posta elettronica per inviare notizie riservate e/o diffamatorie relative alla so-

cietà, ai suoi dipendenti e i suoi clienti e fornitori;• l’uso della posta elettronica per inviare o ricevere materiale osceno e illegale in genere.Per l’utilizzo della posta elettronica si applicano inoltre le seguenti regole di sicurezza di carattere ge-nerale:

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• la posta elettronica rappresenta, a tutti gli effetti, nessuno escluso, strumentazione di lavoro e, di conseguenza, bene di proprietà dell’azienda;

• non è permesso l’utilizzo della posta elettronica interna e/o esterna per motivazioni non afferenti l’attività lavorativa e lo svolgimento delle mansioni assegnate;

• non è consentito inviare e/o memorizzare messaggi (interni ed esterni) di natura oltraggiosa e/o discriminatoria per sesso, lingua, religione, razza, origine etnica, opinione e appartenenza sindacale e/o politica;

• la posta elettronica diretta all’esterno della rete informatica aziendale può essere intercettata da terzi estranei e, dunque, non deve essere usata per la trasmissione di documenti di lavoro stret-tamente riservati, se non in presenza di apposita autorizzazione scritta preventiva da parte dei responsabili aziendali;

• ogni comunicazione, interna ed esterna, inviata e ricevuta, che abbia contenuti rilevanti e/o impe-gnativi per l’azienda, deve essere visionata e autorizzata dai responsabili societari;

• é vietato l’uso dell’indirizzo di posta elettronica aziendale per la partecipazione a dibattiti, forum, mailing list.

È consentito l’utilizzo dell’account di posta elettronica personale al di fuori dell’orario di lavoro, purché il trattamento sia effettuato nel rispetto della legge e del presente Regolamento Aziendale. In caso di assenza prolungata dell’incaricato il Titolare del trattamento, anche per il tramite di soggetto all’uopo nominato, potrà accedere all’account di posta elettronica, al fine di verificare il contenuto di messaggi e utilizzare quelli utili per lo svolgimento dell’attività lavorativa.

(…)

Utilizzodiinternet L’uso di internet nelle numerose funzionalità è consentito esclusivamente per gli scopi attinenti alle proprie mansioni.Per non limitare le attività tipicamente aziendali, non è definito a priori un elenco di siti autorizzati; è tuttavia permesso l’utilizzo di adeguati strumenti di filtraggio, mediante i quali può essere bloccata la navigazione su categorie di siti i cui contenuti sono stati classificati come certamente estranei agli interessi e alle attività lavorative.Al fine di verificare la funzionalità, la sicurezza del sistema e il suo corretto utilizzo, le apparecchiature di rete preposte al collegamento verso internet, generano un registro, log file, contenente le informazioni relative ai siti che i singoli PC hanno visitato. Tale registro memorizza l’indirizzo fisico delle prestazioni di lavoro e non i riferimenti dell’utente, garantendo in tal modo il suo anonimato. Non è consentito l’accesso a siti internet e/o di altre reti telematiche non riguardanti lo svolgimento delle proprie mansioni lavorative.È vietata qualsiasi operazione di transazione finanziaria (remote banking, acquisti on line e similari), fatti salvi i casi direttamente autorizzati per iscritto dai responsabili dell’azienda.È vietato il prelievo di software/programmi gratuiti (freeware) e/o shareware da reti telematiche (in-ternet e/o altro).È vietata qualsiasi forma di registrazione/autenticazione a siti non collegati all’attività lavorativa.Non è consentita la partecipazione, per motivi non lavorativi, a forum, chat line, bacheche informatiche e/o elettroniche, guest book, anche adottando pseudonimi (nickname).È assolutamente vietata la memorizzazione di documenti informatici di natura oltraggiosa e/o discri-minatoria per sesso, lingua, religione, razza, origine etnica, opinione ed appartenenza sindacale e/o politica.

(…)

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VerifichePoiché in caso di violazioni contrattuali e di legge sia l’azienda che il singolo lavoratore sono poten-zialmente perseguibili con sanzioni anche di natura penale, la società scrivente si riserva di verificare, nei limiti delle norme di legge e di contratto collettivo, il rispetto delle regole e l’integrità del proprio sistema informatico.Qualora le misure tecniche preventive non fossero sufficienti ad evitare eventi dannosi o situazioni di pericolo, il Titolare del trattamento effettuerà con gradualità, nel rispetto dei principi di pertinenza e non eccedenza, le verifiche di eventuali situazioni anomale attraverso le fasi:1. analisi aggregata del traffico di rete riferita agli uffici di segreterie e rilevazione della tipologia di

utilizzo (email, file audio, accesso a risorse estranee alle mansioni);2. emanazione di un avviso generalizzato relativo a un riscontrato utilizzo anomalo degli strumenti

aziendali, con l’invito ad attenersi scrupolosamente ai compiti assegnati e alle istruzioni impartite; il richiamo all’osservanza delle regole può essere circoscritto agli operatori afferenti al settore in cui è stata rilevata l’anomalia;

3. in caso di successivo permanere di una situazioni non conforme, è possibile effettuare controlli circoscritti su singole postazioni di lavoro.

La violazione del presente regolamento potrà comportare l’applicazione delle procedure disciplinari di legge e di CCNL applicato.

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IL CONTROLLO A DISTANZA DEI LAVORATORI: INTERPRETAZIONI GIURISPRUDENZIALI DELL’ART.4 DELLO STATUTO DEI LAVORATORI

a cura di Alberto Russo

L’articolo dà conto dei principali orientamenti giurisprudenziali sulla disciplina di cui all’art.4 dello Sta-tuto dei Lavoratori, rilevando come ancora oggi tale norma sia saldamente al centro del sistema pre-venzionistico e repressivo in materia di controlli a distanza dei lavoratori, anche dopo l’entrata in vigore del c.d Codice della privacy. In particolare l’autore si sofferma ad analizzare criticamente la recente sen-tenza della Cassazione Penale n.22611 dell’11 giugno 2012, che ha stabilito che l’acquisizione, da parte del datore di lavoro, del consenso di tutti i dipendenti costituisce valido criterio alternativo all’accordo sindacale. Infine, vengono individuati i possibili spazi di intervento della contrattazione di prossimità ex art.8 L. n.148/11 in materia di controlli a distanza.

1. Premessa

In materia di controlli a distanza dei lavoratori, sebbene l’attuale contesto lavorativo sia oramai domi-nato dalle c.d nuove tecnologie, le cui potenzialità di controllo sembrano decisamente più subdole e in questo senso più pericolose rispetto ai tradizionali sistemi di videosorveglianza, tuttavia, la “vecchia” norma statutaria di cui all’art.4, L. n.300/70, pare ancora vitale, rimanendo saldamente al centro del sistema prevenzionistico e repressivo anche dopo l’entrata in vigore del c.d Codice della privacy (D.Lgs. n.196/03). Le ragioni di una simile vitalità si individuano nell’elasticità del relativo campo di applicazione. Il legi-slatore del 1970 infatti, non potendo avere una piena conoscenza dei futuri cambiamenti tecnologici, ha avuto l’accortezza di lasciare indeterminato il riferimento ai sistemi di controllo, utilizzando a fianco della specifica nozione degli impianti audiovisivi l’espressione “altre apparecchiature”. Resta inoltre la considerazione che la relativa disciplina, divisa tra divieto assoluto per i controlli intenzionali e divieto flessibile per i controlli non finalizzati alla vigilanza e autorizzati dal sindacato o dall’autorità ammini-strativa, configura un sistema a struttura aperta in grado di bene adattarsi alle esigenze del mutato contesto organizzativo/ produttivo.

2. La nozione di controllo a distanza ex art.4 St. Lav.

La nozione di controllo a distanza di cui all’art.4 St. Lav. non sembra possedere un’autonoma valenza giuridica, dovendo infatti necessariamente collegarsi con una precisa modalità di controllo e cioè l’uso di impianti audiovisivi e/o di altre apparecchiature. Ne è del resto prova il fatto che la giurisprudenza pressoché unanime considera estraneo al menzionato art.4 il controllo c.d umano, ritenendo che la re-lativa disciplina sia riferita esclusivamente all’uso di apparecchiature, non incidendo quindi sul potere dell’imprenditore, ai sensi degli artt.2086 e 2014 c.c., di controllare direttamente o mediante la propria

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organizzazione gerarchica l’adempimento delle prestazioni lavorative e, quindi, di accertare mancanze specifiche dei dipendenti, già commesse o in corso di esecuzione, e ciò indipendentemente dalle mo-dalità del controllo, che può legittimamente avvenire anche occultamente.Riguardo alla nozione di apparecchiature, non pone alcun problema il riferimento agli impianti audio-visivi, intendendo con ciò tutti quei macchinari che permettono di acquisire una diretta conoscenza dell’attività svolta dai dipendenti. Da evidenziare che, secondo la giurisprudenza prevalente, il divieto di controllo non è circoscritto alla sola attività lavorativa, estendendosi anche al più ampio concetto di “attività dei lavoratori”. Sono stati conseguente-mente ritenuti rientranti nell’ambito di applicazione dell’art.4 St. Lav. i sistemi di videosorveglianza installati in luoghi riservati esclusivamente ai lavoratori, benché non destinati all’attività lavorativa, quali i bagni, spogliatoi, docce, armadietti e luoghi ricreativi. Non comprese e quindi utilizzabili a fini probatori dal datore sono, per converso, le registrazioni audio-visive effettuate fuori dall’azienda da un soggetto terzo, del tutto estraneo all’impresa.Più problematico si presenta il riferimento alle “altre apparecchiature”. La giurisprudenza sembra utiliz-za-re un criterio estensivo, escludendo soltanto quegli strumenti che non presentano alcuna potenzia-lità di invadenza o che, per essere attivati, richiedono l’intervento di un operatore. Sono per converso da considerarsi comprese tutte quelle apparecchiature idonee a determinare l’ubi-cazione del lavoratore. Si pensi ai badge con tecnologia denominata RFID (radio Frequency Identifica-tion) o agli impianti satellitari inseriti nelle auto aziendali. Recentemente la giurisprudenza di legittimità ha addirittura incluso nella disciplina statutaria l’utilizzo di badge che consentono la mera registrazione delle ore di entrata e di uscita dal luogo di lavoro .Compresi tra le “altre apparecchiature” sono anche i centralini telefonici in grado di registrare e ripro-durre su tabulati i numeri telefonici chiamati, la data, l’ora e la durata delle conversazioni. Comprese, altresì, sono tutte le strumentazioni hardware e software che consentono di controllare i lavoratori che utilizzano personal computer e/o sistemi di comunicazione elettronica. La giurisprudenza di merito, già in alcune pronunce degli anni ‘80 e ’90, si era espressa in questo senso . Il quadro, peraltro, non era affatto omogeneo, non essendo rare pronunce di segno opposto , che hanno riconosciuto al datore di lavoro la possibilità di controllare gli accessi a internet del lavoratore, senza richiedere che la registrazione dei dati fosse avvenuta nel rispetto della normativa statutaria, sul presupposto implicito che la registrazione dei file di log costituisce caratteristica connaturata allo strumento aziendale.Un contributo risolutore è giunto dal Garante della Privacy che, nelle Linee guida per posta elettronica e internet del 1° marzo 2007, ha chiarito che l’utilizzo di strumenti hardware e software che consentono un controllo indiretto sull’attività dei lavoratori possa essere considerato legittimo solo se rispondente a una finalità di gestione, manutenzione e sicurezza del sistema informatico aziendale e autorizzato secondo le modalità di cui all’art.4, co.2 St. Lav..Recentemente, la stessa giurisprudenza di legittimi-tà , pronunciandosi per la prima volta sul control-lo informatico del lavoratore, si è attestata sulle posizioni del Garante, affermando che i programmi informatici che consentono un monitoraggio della posta elettronica e degli accessi a internet devono necessariamente ricondursi alla menzionata fattispe-cie statutaria. Fuori dall’ambito di applicazione della disposizione in esame sono invece i c.d. controlli difensivi, alme-no nella misura in cui siano volti ad accertare esclusivamente le condotte illecite del lavoratore (vedi infra).

3. Controlliconsentitiecontrollinonconsentiti

Come già detto, l’art.4 St. lav. prevede due fattispecie di divieto: un divieto assoluto in relazione all’i-stallazione di apparecchiature preordinate al controllo dell’attività dei lavoratori e un divieto flessibile

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con riferimento a quelle apparecchiature installate per esigenze organizzative o produttive ovvero per esigenze di sicurezza del lavoro. La differenza tra le due ipotesi è data dall’elemento psicologico della non intenzionalità del controllo e dal fatto che esso scaturisce da una possibile modalità di utilizzazione dell’apparecchio, giustificata da altre esigenze. In questo caso, il legislatore ne consente l’utilizzo a condizione che vi sia stato un accor-do sindacale con le rappresentanze sindacali o, in assenza, con la commissione interna. Ove l’accordo non venga raggiunto resta la possibilità del datore di chiedere l’autorizzazione all’Ispettorato del lavoro. Da evidenziare che la procedura autorizzatoria sindacale o amministrativa non può comunque sanare l’uso di apparecchiature preordinate al controllo dell’attività lavorativa. Indicativa in questo senso è una pronuncia della Corte di Appello di Firenze del 2009 , ove si è affermato che deve ritenersi vietato dall’art.4 St. Lav. il sistema informatico utilizzato da un’azienda, allorquando tale sistema consenta con-testualmente il controllo a distanza dei singoli lavoratori, senza che tale controllo appaia strettamente necessario all’ottimiz-zazione dell’attività produttiva, anche se sia intervenuto in proposito l’accordo sindacale. Riguardo i requisiti della procedura autorizzatoria occorre sottolineare che il datore di lavoro non si può rivolgere subito all’autorità amministrativa, dovendo prima tentare di raggiungere un’intesa con il sindacato. Il mancato esperimento di un simile tentativo può costituire condotta antisindacale ex art.28 St. Lav.. Peraltro non sembra che una siffatta omissione possa rendere a priori inefficace l’autorizzazio-ne amministrativa. Infatti la possibilità del sindacato di impugnare il provvedimento amministrativo en-tro 30 giorni dalla comunicazione dello stesso provvedimento sembra riportare in equilibrio il sistema. Sul punto peraltro non si ravvisano precedenti giurisprudenziali.Scarne sono anche le pronunce sui requisiti dell’accordo sindacale. Secondo una giurisprudenza ormai risalente , l’accordo dovrebbe essere stipulato, in assenza di RSU, con tutte le rappresentanze sindacali. Più condivisibile peraltro il prevalente orientamento dottrinale, secondo cui sarebbe sufficiente un ac-cordo con soggetti rappresentativi della maggioranza del personale .Da evidenziare che recentemente la Cassazione penale, è intervenuta “a gamba tesa” sui requisiti au-torizzatori, di cui al co.2 dell’art.4 St. Lav., affermando che l’acquisizione da parte del datore di lavoro dell’assenso di tutti i lavoratori, attraverso la sottoscrizione da parte loro di un documento esplicito, costituisce requisito alternativo al raggiungimento dell’accordo sindacale. Più precisa-mente, secondo la Cassazione “se è vero che non si trattava nè di autorizzazione della RSU né di quella di una “com-missione interna”, logica vuole che il più contenga il meno sì che non può essere negata validità ad un consenso chiaro ed espresso proveniente dalla totalità dei lavoratori e non soltanto da una loro rap-presentanza. Del resto, non risultando esservi disposizioni di alcun tipo che disciplinino l’acquisizione del consenso, un diverso opinare, in un caso come quello in esame, avrebbe un taglio di un formalismo estremo tale da contrastare con la logica”.

Tali affermazioni suscitano non poche perplessità, soprattutto nella misura in cui hanno come conse-guenza sostanziale quello di appiattire la tutela della riservatezza del lavoratore sui principi del consen-so specifico, libero e informato stabiliti dal Codice della privacy, non considerando invece che la norma-tiva di cui all’art.4 della Statuto individua una disciplina speciale che si aggiunge alle regole ordinarie di cui alla L. n.196/03. Indicativo in questo senso il rilievo operato dai giudici sul fatto che il datore aveva installato cartelli che segnalavano la presenza del sistema di videosorveglianza, aspetto assolutamente irrilevante ai fini della disciplina statutaria, che non considera quale elemento scriminante il carattere non occulto del controllo a distanza.Non può del resto in alcun modo condividersi l’assunto secondo cui la raccolta del consenso informato di tutti i lavoratori possa logicamente contenere le funzioni e le prerogative di un accordo sindacale. Verrebbe in questo modo meno la stessa funzione del sindacato quale ente esponenziale degli interessi

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dei lavoratori, contraddicendo la ratio della disciplina di cui all’art.4 St. Lav. e, frantumandosi lo stesso significato di autonomia collettiva, alla base dei tradizionali rapporti di forza tra impresa e lavoratori. Appare del resto evidente come la capacità di negoziazione del contenuto di un accordo da parte delle rappresentanze sindacali sia senz’altro più tutelante nei confronti dei lavoratori rispetto alla mera ap-posizione di una firma su un documento predisposto unilateralmente dal datore di lavoro.Da evidenziare inoltre due profili.

Il primo relativo al fatto che, in ogni caso, la raccolta del consenso di tutti lavoratori in un unico do-cumento non costituisce un accordo collettivo, con la conseguenza che tutto il castello autorizzatorio cadrebbe se un lavoratore neo assunto non apponesse la firma su un tale documento.

Il secondo profilo riguarda il rilievo che le considerazioni dei giudici penali devono essere comunque lette nell’ambito in cui sono destinate a produrre efficacia, nel senso quindi di escludere la responsabi-lità datoriale dal punto di vista penalistico per mancanza dell’elemento soggettivo del reato, non poten-do conseguentemente trarsi da tale pronuncia un’esauriente valutazione sulla non antigiuridicità della condotta datoriale. Senza contare che una simile prassi datoriale volta a “saltare” il sindacato sarebbe fortemente a rischio quantomeno di condotta antisindacale ex art.28 St. Lav..Proprio sulle conseguenze derivanti dalla violazione della disciplina in esame restano da compiere al-cune ulteriori brevi considerazioni.Sul piano civilistico le conseguenze sono innanzitutto la rimozione dell’installazione vietata e/o l’inuti-lizzabilità del dato informativo così acquisito, fermo restando il diritto del lavoratore al risarcimento del danno per violazione del suo diritto alla riservatezza. Sul piano penale la violazione dell’art.4 St. Lav. è tuttora sanzionata penalmente dall’art.38 St. Lav.. La fattispecie è stata solo apparentemente depenaliz-zata dall’art.179, D.Lgs. n.196/03, essendo stata contestualmente reintrodotta dall’art.171, D.Lgs. n.196/03. La continuità normativa tra le due norme è stata del resto espressamente confermata dalla giurisprudenza di legittimità. Da evidenziare che la sanzione penale scatta solo con l’utilizzazione della strumentazione vietata, fer-mo restando che la mera installazione può comunque giustificare la richiesta del lavoratore - al Ga-rante o al giudice ordinario - di rimozione dell’intera strumentazione. Ultima considerazione concerne il rilievo che la verifica di legittimità del controllo a distanza, deve, soprattutto in ambito informatico, confrontarsi con la tutela della segretezza della corrispondenza ai fini di una possibile integrazione del reato di cui all’art.616 c.p.. La giurisprudenza, peraltro, sembra sul punto essere piuttosto morbida, escludendo l’applicabilità del menzionata norma qualora il datore di lavoro abbia nella sua disponibili-tà la password di accesso alla casella di posta del dipendente, sul presupposto che in questo caso non potrebbe definirsi “chiusa” la relativa corrispondenza .

4. Sull’utilizzabilitàdelcontrollopreterintenzionale

Il controllo preterintenzionale individua un’ipotesi di utilizzo di strumenti/apparecchiature di controllo richiesti da esigenze produttive, organizzative o di sicurezza del lavoro, suscettibili però di determinare un controllo - appunto preterintenzionale - sull’attività lavorativa. A questa categoria appartengono anche i controlli difensivi (infra) ove derivi una possibilità di controllo indiretto dell’attività lavora-tiva.In tutti questi casi i controlli, come sopra evidenziato, rientrano nel regime di divieto flessibile di cui al co.2, dell’art.4 St.Lav., potendo quindi configurarsi come legittimi se autorizzati dall’accordo sindacale o dall’autorità amministrativa.Tuttavia, una cosa è affermare la legittimità del ricorso a siffatte apparecchiature, altra cosa è affermare l’utilizzabilità da parte del datore di lavoro dei dati acquisiti sulla base dei suddetti controlli preterinten-

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zionali leciti. Dalla lettera della legge sembra evidente che la relativa disciplina riguardi esclusivamente l’installazione delle apparecchiature, non rilevandosi conseguentemente alcun effetto autorizzatorio sull’utilizzabilità dei dati concernenti l’attività lavorativa. In questo senso sembra orientata la dottrina prevalente e lo stesso Garante della privacy. La giurisprudenza, per converso, non sembra escludere una simile utilizzabilità. La soluzione affermativa, peraltro, non è affermata in modo espresso, a quanto consta, in alcuna sentenza, ma sembra cogliersi a contrario laddove i giudici si limitano ad escludere l’utilizzabilità dei dati acquisti esclusivamente a seguito di controlli illeciti.

5. I controlli difensivi

Discussa in giurisprudenza è la nozione di controllo difensivo ai fini della non operatività del divieto di cui all’art.4. St. Lav..Con una pronuncia dei giudici di legittimità del 2002 si era statuito che, ai fini dell’operatività del di-vieto di utilizzo di apparecchiature per il controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, era necessario che il controllo riguardasse (direttamente o indirettamente) l’attività lavorativa, mentre dovevano rite-nersi certamente fuori dell’ambito di applicazione della norma i controlli diretti ad accertare condotte illecite del lavoratore. Nel caso specifico la citata Cassazione aveva escluso dalle garanzie di cui all’art.4 St. Lav. l’uso di apparecchi di rilevazione di telefonate ingiustificate, e, più genericamente, di sistemi di controllo dell’accesso ad aree riservate.Naturalmente, anche secondo questa ampia accezio-ne di controllo difensivo, il criterio scriminante era in ogni caso la non ingerenza delle apparecchiature sul controllo dell’attività lavorativa, non rilevando infatti la nozione di difensività del controllo sul piano soggettivo della volontà del datore di lavoro, ma unicamente sul piano fattuale. Indicativa in questo senso è la sentenza della Cassazione penale del 28 gennaio 2003, in cui si afferma espressamente che “commette il reato di cui agli art. 4, comma 2, e 38 l. 20 maggio 1970 n. 300 il datore di lavoro, il quale, senza preventivo accordo con le rappresentanze sindacali, abbia installato delle telecamere che, seppure destinate ad evitare furti, renda possibile il controllo a distanza dell’attività dei dipendenti”. Con la successiva pronuncia del 2007 , volta a sostanziare l’effettività del divieto di cui all’art.4, co.1, si è poi affermato che il riferimento all’attività lavorativa, oggetto della fattispecie astratta, non riguarda solo le modalità del suo svolgimento, ma anche il quantum della prestazione, il controllo sull’orario di lavoro, risolvendosi in un accertamento circa la quantità di lavoro svolto. Più precisamente, la Cas-sazione, contraddicendo un consolidato orientamento della giurisprudenza di merito , ha affermato che la liceità del controllo difensivo, implicante la mera possibilità del datore di verificare la presenza in azienda, è comunque condizionata alla sussistenza di un accordo sindacale o di un’autorizzazione amministrativa.Da ultimo, la giurisprudenza di legittimità ha ulteriormente esteso il campo di applicazione del predet-to art.4, comprendendo nel suddetto anche i controlli c.d. difensivi diretti ad accertare comporta-menti illeciti dei lavoratori, quando tali comporta-menti riguardino l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non la tutela dei beni estranei al rapporto stesso. Da evidenziare inoltre che nella giurisprudenza più recente, non solo penale , sembra consolidarsi l’opinione secondo la quale le potenzialità di un controllo indiretto sull’attività lavorativa non determinano l’illegittimità del controllo difensivo qualora questi non abbia carattere preventivo, ma sia volto a precostituire la prova dell’illecito. Si veda in questo senso la sentenza di Cassazione del febbraio 2012 , che ha escluso l’operatività dell’art.4 St. Lav. in relazione a un’attività di controllo sulle strutture informatiche aziendali, avendo il datore compiuto il predetto accertamento ex post, ovvero dopo l’attuazione del comporta-mento addossato al dipendente, quando erano emersi elementi di fatto tali da raccomandare l’avvio di un’indagine retrospettiva.

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Resta infine da chiarire che, anche laddove i controlli assumano carattere difensivo e, quindi, siano fuori dall’ambito di applicazione dell’art.4 St. Lav., resta però la necessità di dover comunque rispetta-re la normativa generale della privacy, potendo il relativo controllo difensivo risultare illecito per una violazione del principio di necessità e dei principi di pertinenza e non eccedenza di cui, rispettivamente agli artt.3 e 11 del codice.

6. Lepossibilideroghedellacontrattazionediprossimitàinmateriadiimpiantiau-diovisivi e introduzione di nuove tecnologie

Secondo l’art.8, co.2, L. n.148/11 le specifiche intese possono riguardare la regolazione delle materie inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione con riferimento (anche) agli impianti audiovisivi e all’introduzione di nuove tecnologie.La formulazione, in linea teorica, si presta bene a un’interpretazione estensiva, potendo comprendere tutti quei profili - si pensi innanzitutto alle regole in materia di salute e sicurezza - attinenti alla gestione degli strumenti tecnologici nei luoghi di lavoro. In questa ampia prospettiva qualche dubbio potrebbe semmai sorgere su quale significato attribuire alla perifrasi “introduzione di nuove tecnologie”, non escludendosi a priori, quale opzione interpretativa, l’impossibilità di regolamentazione aziendale, ai sensi e agli effetti della L. n.148, in assenza di un cambiamento tecnologico all’interno dell’azienda. Decisamente più plausibile, tuttavia, è che il legislatore abbia voluto, più semplicemente, riferirsi al sempre più frequente utilizzo della c.d. information tecnology nell’ambito delle modalità di produzione e organizzazione del lavoro. Ma se così è, leggendo congiuntamente la locuzione “nuove tecnologie” con la nozione, invero più spe-cifica, di “impianti audiovisivi” ne scaturisce un evidente restringimento dell’iniziale ipotesi interpreta-tiva, riducendosi il riferimento legislativo in esame alla “sola” autorizza-zione, gestione di apparecchia-ture e/o strumen-tazioni aventi implicazioni di controllo a distanza dell’attività di lavoro, in sostanziale sovrapposizione con la materia disciplinata dall’art.4 dello Statuto dei lavoratori. Si è così paventato, tra le tante minacce dell’art.8, il rischio specifico che una determinata intesa possa, in deroga al men-zionato art.4, prevedere che il lavoratore sia “in ogni suo movimento (…) controllato istante per istante da un impianto audiovisivo”. Un simile rischio non sembra peraltro sussistere, non tanto in virtù di una apodittica fiducia nel sinda-cato, ma in quanto è lo stesso legislatore a ricordare espressamente il limite del rispetto delle garanzie costituzionali, non essendovi alcun dubbio che l’ipotesi sopra prospettata si configurerebbe in palese violazione dei principi di dignità umana e di libertà personale di cui agli artt.2 e 13 della Costituzione, espressamente sovraordinati ex art.41, co.2 Cost., al principio di libertà di iniziativa economica . Se, infatti, in linea teorica, può condividersi l’opinione secondo cui la verifica della correttezza dell’a-dempimento della prestazione non è in sé lesiva della dignità del lavoratore , una siffatta afferma-zione non può invece reggere se riferita a un controllo continuativo e ininterrotto. Senza contare che in que-sto caso emergerebbero anche rilevanti profili di tutela della riservatezza.Si noti del resto che nella delega legislativa di cui al co.2 non è ravvisabile l’attribuzione di un potere di-retto all’autonomia collettiva in materia di privacy del lavoratore - la cui regolamentazione è peraltro di stretta derivazione comunitaria - ma solo la possibi-lità di individuare e conseguentemente regolamen-tare i profili di organizzazione aziendale compatibili con i suddetti principi costituzionali.Si osservi in questo senso l’assenza di soluzione di continuità con la disciplina di cui all’art.4 dello Sta-tuto dei lavoratori. Se si confronta la struttura delle due norme si constata, infatti, che i presupposti dell’intervento sindacale sono sostanzialmente interscambiabili, non trovandosi significative dif-feren-ze tra il generale concetto di esigenze organizzative e produttive di cui all’art.4, co.2 St.Lav. e le finalità

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di cui al co.1 dell’art.8, D.Lgs. n.138/11, senza contare che è lo stesso co.2 dell’art.8 a riferire la delega legislativa alle esigenze dell’organizzazione del lavoro e della produzione.

Qualiallorale(possibili)differenze?

Nessuna sul piano dell’efficacia della regolamen-tazione aziendale, in quanto gli accordi ex art.4, co.2 St.Lav. sono stati inquadrati dalla pressoché unanime giurisprudenza nella categoria dei contratti ge-stionali applicabili, quindi a tutti i lavoratori indipenden-temente dalla loro affiliazione sindacale. Una differenza, se non altro in una prospettiva di certezza del diritto, si individua però in relazione ai criteri di formazione dell’accordo, prevedendo l’art.8 la sufficienza del criterio maggioritario, laddove invece l’art.4 dello Statuto non chiarisce se il riferimento al “previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali” implichi o meno l’unanime consenso di tutte le Rsa. Sul piano dei contenuti, l’art.8 potrebbe forse consentire un parziale allentamento delle rigidità dell’at-tuale sistema. Non sembrano però condivisibili le generiche affermazioni secondo le quali gli accordi di prossimità potrebbero consentire forme di controllo occulto . Non si comprende invero, quale possa essere l’oggetto di un siffatto controllo. Da escludere, infatti, che esso possa tradursi in una qualsia-si forma di intercettazione - ambientale, telefonica o telematica - delle comunicazioni del prestatore all’interno del luogo di lavoro, e ciò non solo ai fini della verifica dell’esatto adempimento, ma anche ai fini dell’accertamento di condotte illecite del lavoratore. Uno spazio potrebbe però individuarsi con riferi-mento ai suddetti controlli difensivi. Attualmente, la prevalente giurisprudenza riconosce, come già evidenziato, la legittimità dei controlli diretti alla tutela di beni estranei al rapporto lavorativo. Si pensi, in particolare, ai sistemi di controllo sull’accesso ad aree riservate o agli strumenti di rilevazione di telefonate ingiustificate. In questa prospettiva, l’accordo aziendale potrebbe valorizzare una nozione estesa di controllo difensivo, sull’onda di quanto già affer-mato da alcune sentenze di merito , al fine di impedire non solo l’uso di strumenti vietati, ma anche l’abuso di strumenti di per sé consentiti. Si potrebbero quindi legittimare sistemi di rivelazione non solo dei numeri telefonici chiamati, ma an-che della durata delle relative telefonate, ovvero legittimare sistemi in grado di quantificare la durata degli accessi a internet. Tuttavia, al fine di evitare un utilizzo distorto e lesivo dei principi di dignità del lavoratore, l’accordo dovrebbe consentire la verifica, sulla base di criteri predefiniti dalla stessa intesa sindacale, sull’esempio di quanto già previsto dal legislatore in materia di visite personali di controllo ex art.6 St. Lav.. L’accordo aziendale potrebbe, infine, in funzione di certezza del diritto, consentire l’utilizzo delle infor-mazioni - sempre che non riguardino dati sensibili - che il datore di lavoro abbia acquisito accidental-mente e con modalità non lesive dei diritti primari del lavoratore (i c.d. controlli preterintenzionali).

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CONTROLLO INFORMATICO DEL LAVORATORE E LEGITTIMITÀ DELL’INDAGINE DIFENSIVA

a cura di Daniele Iarussi

L’Autore, prendendo spunto da un’interessante pronuncia della Suprema Corte, 23 febbraio 2012, n.2722, ove è stata affrontata l’annosa questione dell’applicabilità dell’art.4 della L. n.300/70 al con-trollo della posta elettronica del dipendente, argomenta in ordine alla legittimità del controllo difensivo diretto ad accertare, ex post, una condotta attuata in violazione degli obblighi di fedeltà e riservatezza contrastanti con l’interesse datoriale. Il contributo si pone l’obiettivo di illustrare, attraverso l’appro-fondita trattazione della nozione di controllo difensivo e dei suoi limiti, lo stato dell’arte in materia di controlli attraverso tecnologie informatiche. L’Autore, infine, avalla la tesi che depone per la legittimità del controllo difensivo qualora sia destinato ad accertare un comportamento che pone in pericolo il pa-trimonio aziendale. Il commento non è scevro dall’analisi dell’evoluzione giurisprudenziale e dottrinale sul punto, con l’aggiunta di alcuni spunti critici.

MassimaÈ legittimo il controllo datoriale sulle strutture informatiche aziendali, ivi compresa la posta elettroni-ca del dipendente, che prescinde dalla pura e semplice sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa degli addetti ed è, invece, diretto ad accertare la perpetrazione di eventuali comportamenti illeciti dagli stessi posti in essere. Il c.d. controllo difensivo non riguarda, quindi, l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro, ma è destinato ad accertare un comportamento che pone in pericolo la stessa immagine datoriale presso i terzi, ricompresa nel patrimonio aziendale.

1. Vicendaprocessualeeprincipiodidirittoenunciato

Con la sentenza del 22 febbraio 2012, n.2722, la Cassazione è di nuovo intervenuta sull’interessante, quanto annosa, questione della legittimità dei c.d. controlli difensivi sulla posta elettronica in uso al dipendente, non senza introdurre elementi di novità. La vicenda che ha originato la pronunzia della Suprema Corte è presto riassunta. Con ricorso al giudice del lavoro di Brescia, il lavoratore impugnava il licenziamento per giusta causa irrogatogli in data 15 marzo 2004 dall’istituto bancario, del quale era stato dipendente con qualifica di quadro direttivo e mansioni di addetto all’ufficio Advisory Center, in quanto accusato di aver divulgato a mezzo di messaggi di posta elettronica diretti ad estranei notizie riservate concernenti un cliente dell’Istituto e di aver posto in essere, grazie alle notizie in questione, operazioni finanziarie da cui aveva tratto vantaggio personale.Il giudice di primo grado rigettava la domanda e, proposto appello dal dipendente, dopo la costituzio-ne della convenuta, anche la Corte d’appello di Brescia con sentenza del 13 ottobre 2009, respingeva l’impugnazione. Il giudice, conside-rata tempestiva la contestazione, riteneva non contrastante con l’art.4 dello Statuto dei lavoratori il controllo della posta elettronica del dipendente, in quanto diretto

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Controllo informatico del lavoratore e legittimità dell’indagine difensiva

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ad accertare ex post una condotta attuata in violazione degli obblighi fondamentali di fedeltà e riser-vatezza e postasi in contrasto con l’interesse del datore. Quanto al merito, rilevava che il lavoratore, con piena consapevolezza soggettiva, aveva violato l’obbligo di segretezza e correttezza dei dipendenti, fissato dall’art.2104 c.c., dal regolamento interno e dal codice deontologico, ponendo in essere un comportamento di indubbia gravità, particolar-mente lesivo dell’elemento fiduciario, in quanto il suo comportamento nasceva da un abuso della sua elevata posizione professionale. Avverso tale sentenza il lavoratore proponeva ricorso per cassazione, cui rispondeva con controricorso la banca. La Corte, con la pronuncia sopra menzionata, rigettava il ricorso e condannava il ricorrente alle spese del giudizio di legittimità. La decisione in esame, di certo condivisibile nelle soluzioni a cui perviene, afferma la legittimità del controllo datoriale sulle strutture informatiche aziendali che prescinde dalla pura e semplice sorve-glianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa degli addetti ed è, invece, diretto ad accertare la perpetrazione di eventuali comportamenti illeciti dagli stessi posti in essere. Si afferma, in altri termini, che il c.d. controllo difensivo non riguarda l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro, ma è destinato ad accertare un comportamento che pone in pericolo la stessa im-magine della società, ricompresa nel patrimonio aziendale, presso i terzi.

2. Divietodicontrolliadistanzaeoggettodelladisciplinadicuiall’art.4St.lav.

La pronuncia argomenta incidentalmente sull’art.4 della L. n.300/70, al fine di valutarne la portata e l’applicabilità al controllo espletato in concreto. Va osservato che, se si considerano la ratio e la lettera dell’art.4, così come delle altre disposizioni del titolo I della L. n.300/70, l’installazione e l’utilizzazione delle apparecchiature e degli strumenti di con-trollo a distanza non sono ammesse a fini di vigilanza sull’attività lavorativa, ma soltanto se sussistono le esigenze ragionevoli e meritevoli di tutela espressamente indicate dall’art.4 St. lav., che non potreb-bero essere salvaguardate adeguatamen-te con l’attivazione di altre forme di sorveglianza meno intru-sive, quali il controllo svolto da altre persone: controllo che, a sua volta, può concernere la prestazione lavorativa, ma che deve essere effettuato con modalità anch’esse rispettose della dignità dei lavoratori.Del resto, come più volte ricordato dai giudici anche di legittimità, già la relazione ministeria-le di accompagnamento alla L. n.300/70 precisava che la vigilanza sul lavoro, ancorché neces-saria nell’organizzazione produttiva, va “mantenuta in una dimensione «umana», cioè non esa-sperata dall’uso di tecnologie che possono rendere la vigilanza stessa continua e anelastica, eliminando ogni zona di riservatezza e di autonomia nello svolgimento del lavoro”. Si tratta di pa-role che, a distanza di oltre quarant’anni, suonano per così dire premonitrici e che, a maggior ra-gione, si rivelano particolarmente attuali con la diffusione sempre più intensa delle tecnologie informatiche. Nella ricostruzione della portata dell’art.4 è opportuno prendere le mosse da alcu-ni ulteriori punti fermi. Innanzitutto, dalla natura della norma. L’art.4 fonda il divieto che esso san-cisce (co.1) e i limiti che comunque introduce (co.2) su una nozione teleologicamente determinata e struttural-mente «aperta», che fa leva cioè tanto sul divieto di scopo quanto sulla potenziale lesività dei beni protetti, prodotta da particolari comportamenti del datore di lavoro.In secondo luogo, vanno sottolineate le soluzioni ormai acquisite sulla base di un’interpretazione con-solidata: • l’oggetto del divieto di controllo non è circoscritto all’attività lavorativa dei dipendenti, ma è esteso

alla più ampia “attività dei lavoratori”; • il concetto di “distanza” va inteso in senso sia spaziale che temporale; • sono irrilevanti la continuità del controllo, nonché l’intenzionalità della condotta del datore di la-

voro e, ormai superate alcune opinioni difformi, anche la consapevolezza del prestatore di lavoro.

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In applicazione di tali principi è stata ritenuta inammissibile l’installazione unilaterale di sistemi di vide-osorveglianza in luoghi riservati esclusivamente ai lavoratori, benché non destinati all’attività lavorati-va, quali bagni, spogliatoi, docce, armadietti e luoghi ricreativi. Lo stesso vale per le telecamere colloca-te nei luoghi di lavoro, anche se non destinate a riprendere i posti di lavoro dei dipendenti. Pertanto le garanzie previste dall’art.4, co.2, St. lav. vanno osservate sia all’interno degli edifici sia in altri luoghi in cui si svolge la prestazione di lavoro, così come rilevato dal Garante per la protezione dei dati personali a proposito delle telecamere installate sugli autobus, le quali non devono riprendere in modo stabile la postazione di guida e le cui immagini, raccolte per finalità di sicurezza e di eventuale accertamento di illeciti, non possono essere utilizzate per controlli, anche indiretti, sull’attività lavorativa degli addetti.Al contrario, si è escluso che rientrino nel divieto dell’art.4 gli accertamenti operati dal da-tore di lavoro, anche attraverso riproduzioni filmate, diretti a tutelare il proprio patrimo-nio aziendale al di fuori dell’orario e all’esterno dei luoghi di lavoro, contro possibili atti pe-nalmente illegittimi compiuti da terzi, compresi i propri dipendenti, i quali non possono non essere equiparati in tutto ai primi allorquando agiscano al di fuori dell’orario e dei luoghi di lavoro

3. Monitoraggiodie-maileapparecchiatureinformatiche

Tra le apparecchiature informatiche rientranti nell’ambito applicativo della norma vi sono, ad avviso della prevalente giurisprudenza, anche gli strumenti (programmi informatici) che consentono il moni-toraggio delle e-mail o degli accessi a internet, “nel momento in cui, in ragione delle loro caratteristiche, consentono al datore di lavoro di controllare a distanza e in via continuativa durante la prestazione l’at-tività lavorativa e se la stessa sia svolta in termini di diligenza e di corretto adempimento (se non altro ... sotto il profilo del rispetto delle direttive aziendali)”.

Si tratta di una soluzione largamente condivisa dal Garante per la protezione dei dati personali nella delibera con cui ha adottato le Linee guida per l’utilizzo di internet e della posta elettronica nel rapporto di lavoro: una delibera da più parti ritenuta eccessivamente garantista a favore dei lavoratori e tale da svolgere una funzione di supplenza legislativa in tema di diritti fondamentali di questi ultimi, mentre, a ben vedere, essa in realtà ha in buona misura avallato l’orientamento più rigoroso della giurisprudenza prevalente. 4. Controlli preterintenzionali

La possibilità di svolgere controlli a distanza trova ostacolo, come correttamente afferma la pronuncia in commento, dinanzi al diritto alla riservatezza del dipendente, al punto che la pur insopprimibile esi-genza di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti “non può assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore. Tale esigenza ... non consente di espungere dalla fattispecie astratta i casi dei c.d. controlli difensivi ossia di quei controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori quando tali comportamenti ri-guardino ... l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non la tutela di beni estranei al rapporto stesso ove la sorveglianza venga attuata mediante strumenti che presentano quei requisiti strutturali e quelle potenzialità lesive, la cui utilizzazione è subordinata al previo accordo con il sindacato o all’intervento dell’Ispettorato del lavoro”.

In tale ipotesi, è stato precisato, si è in presenza di “un controllo preterintenzionale che rientra nella previsione del divieto flessibile di cui all’art. 4, comma 2” che ha corretto una precedente impostazione che riteneva in ogni caso legittimi i c.d. controlli difensivi, a prescindere dal loro grado di invasività.

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Controllo informatico del lavoratore e legittimità dell’indagine difensiva

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L’opinione è del tutto condivisibile nella sostanza, ma rimangono alcune riserve soprattutto se si consi-dera che l’uso di determinate tecnologie, specie, ma non solo, informatiche, costituisce ormai parte in-tegrante e inevitabile degli strumenti di lavoro e dei modi di produzione e di organizzazione del lavoro. Se ciò è del tutto evidente in primis per la connessione ad internet e l’impiego della posta elettronica, alla stessa conclusione è possibile pervenire con riguardo ai programmi di monitoraggio del traffico telefonico, in relazione al tipo di controllo effettuato e al tipo di mansioni svolte dal lavoratore, nonché all’installazione e all’uso di apparecchi satellitari di controllo a distanza, quando ricorrono, ad esempio, l’esigenza di evitare furti o rapine nel caso siano trasportati valori oppure quella di garantire l’efficacia e la tempestività degli interventi di emergenza effettuati dalle squadre di servizio, laddove gli strumenti siano finalizzati alla salvaguardia di cose o persone, e quindi si rivelino necessari ad ottimizzare i livelli di sicurezza. È quanto sancito dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali nel 2004, relativamente a una società di vendita e distribuzione di gas metano.Gli esempi potrebbero proseguire, ma il punto centrale - come sancito anche dal Garante nel provvedi-mento menzionato sull’uso di internet e della posta elettronica - resta il bilanciamento tra le esigenze dell’impresa o quelle della sicurezza e il diritto dei lavoratori alla riservatezza e al rispetto della propria dignità: un contemperamento che non può essere risolto a priori, ma che richiede un accertamento in concreto, da operare sulla base di una specifica valutazione delle circostanze oggettive delle singole fattispecie, sia pur condotta alla luce di alcuni principi fondamentali di carattere generale vincolanti per le parti. Tali principi, deducibili tanto dall’art.4 St. lav., quanto dal Codice della privacy, non possono non essere individuati nell’indispensabilità e proporzionalità rispetto alla compressione dei diritti fon-damentali dei lavoratori, da valutare secondo limiti di ragionevolezza.

5. Ricostruzione della nozione di “controlli difensivi”

Non sorprende che nella recente casistica giurispru-denziale, che include anche la pronuncia in esame, abbiano cominciato ad affacciarsi situazioni, per così dire, spurie, nelle quali si dilatano i contorni del controllo indiretto (legittimo) sulla prestazione lavorativa mediante sistemi informatici, quando si ri-tenga giustificato da obiettivi di conservazione del patrimonio aziendale e di difesa dell’organizzazione produttiva contro le eventuali aggressioni degli stessi dipendenti (oltre che di terzi).La nozione di controllo difensivo, elaborata dai giudici del lavoro e assecondata dalla prevalente dottri-na per superare l’impasse interpretativa, consente d’introdurre dispositivi idonei alla sorveglianza pur-ché finalizzati in via esclusiva alla repressione d’una condotta illegittima (in origine, i comportamenti di rilievo penale ed extra-contrattuale, ma in seguito anche gli illeciti disciplinari). Si tratterebbe di un’i-potesi ulteriore e, se si vuole, intermedia tra la fattispecie del controllo a distanza che è assolutamente vietata dall’art.4, co.1, St. lav. e quella del controllo preterintenzionale sulla prestazione, che è invece ammessa dal secondo comma per soddisfare “esigenzeorganizzativeeproduttiveovverorichiestedalla sicurezza del lavoro”.La tesi del controllo difensivo è stata dapprima richiamata a proposito dell’installazione di apparecchi di rilevazione delle comunicazioni telefoniche per fini privati, ritenendosi inapplicabile il divieto dello Statuto quando l’uso del telefono aziendale non fosse richiesto dal tipo di prestazione o dalle mansio-ni svolte dal dipendente: in tali ipotesi, infatti, la sorveglianza non inciderebbe in modo diretto sulla persona o sull’attività lavorativa, ma solo su comportamenti estranei all’adempimento. Quando poi il telefono sia concesso in dotazione al dipendente e abilitato anche per l’uso privato, non potrebbe vantarsi un diritto alla privacy in relazione ai dati di traffico fatturati all’azienda, né sarebbe impedita l’acquisizione dei tabulati presso il gestore telefonico (inclusi i riferimenti completi delle chiamate: cfr.

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art.124, co.4, D.Lgs. n.196/03), considerato che si tratta di un bene di proprietà del datore di lavoro, nonché titolare della relativa utenza.Con una medesima argomentazione - rilevando, cioè, la mancanza di ragioni connesse all’espletamento delle mansioni - sono stati ammessi i controlli sull’accesso a internet durante l’orario di lavoro; mentre il monitoraggio della posta elettronica con dominio aziendale, e persino del contenuto dei messaggi ricevuti o trasmessi dal dipendente, sarebbe lecito sul presupposto che si tratta di beni sprovvisti del carattere di personalità e di segretezza.È evidente che l›indirizzo giurisprudenziale sui controlli difensivi non intende configurare una forma d›esercizio del potere a priori legittima e, quindi, un’area di esenzione rispetto all’applicazione dello Statuto, “né l’insopprimibile esigenza di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti può assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riser-vatezza”. Quella difensiva deve rimanere una modalità di sorveglianza estrinseca - ammissibile solo nei limiti e con le procedure dell’art.4, co.2, St. lav. - soprattutto quando sia attuata con tecnologie che “presentano quei requisiti strutturali e quelle potenzialità lesive”. Compete alla fonte sindacale l’indi-viduazione in concreto delle modalità del monitoraggio informatico, “affinché i dipendenti ne possano avere piena conoscenza e possano eventualmente essere stabilite in maniera trasparente misure di tutela”. In tal modo, risulta chiarito che quelli difensivi non costituiscono una species estranea allo Sta-tuto, ma sono riconducibili all’area del controllo preterintenzionale.Sebbene si riconosca qualche forzatura interpre-tativa, la dottrina tende ad accogliere questa lettura evolutiva della norma statutaria in considerazione della maggiore adattabilità ai molteplici problemi applicativi.Al fondo dell’indirizzo giurisprudenziale restano, tuttavia, alcuni margini di ambiguità: quanto meno, perché non risulta evidente quando finisca il controllo a mero scopo difensivo e quando inizi quello sul-la prestazione lavorativa. Le diverse modalità (e le finalità) della sorveglianza spesso si sovrappongono e si confondono; ragioni giuridiche e di opportunità tendono a scambiare il proprio ruolo ai fini della legittimazione del potere datoriale.I dispositivi di controllo elettronico servono alla difesa dell’impresa e del suo patrimonio, ma - allo stes-so tempo - costituiscono apparecchiature potenzialmente idonee alla sorveglianza sui lavoratori nel significato previsto dall’art.4, co.1 St. lav. La stessa giurisprudenza è costretta a riconoscere che, proprio “in ragione delle loro caratteristiche, consentono al datore di lavoro di controllare a distanza e in via continuativa durante la prestazione, l’attività lavorativa, e se la stessa sia svolta in termini di diligenza e di corretto adempimento”. Le informazioni raccolte per l’accertamento d’un illecito extra-professionale (ed extra-contrattuale) forniscono al contempo elementi di prova dell’inadempimento del lavoratore; non a caso, si ritiene che il monitoraggio informatico possa essere preordinato a una contestazione disciplinare per l’uso anomalo o eccessivo degli strumenti aziendali e per avere il dipendente utilizzato il tempo di lavoro a fini personali o estranei al facere lavorativo.Non v’è dubbio che “chi utilizza internet, la posta elettronica o il telefono per scopi personali e vietati sta compiendo un illecito che fuoriesce dallo specchio precettivo e dalle limitazioni delle norme del ti-tolo I dello Statuto”, ma resta il fatto che il controllo autorizzato ex art.4, co.2, St. lav., deve assumere un carattere indiretto o preterintenzionale rispetto all’attività lavorativa e i risultati del monitoraggio difensivo, ancorché legittimo, non potrebbero rilevare nell’ambito disciplinare.Di fatto, la logica difensiva finisce per prevalere sul divieto fissato dallo Statuto: o, meglio, con un impercettibile slittamento si fa coincidere l’interesse organizzativo - produttivo, considerato dal co.2 dell’art.4, con l’interesse creditorio alla sorveglianza sull’attività lavorativa. Tanto più se il mezzo elet-tronico sia indispensabile per lo svolgimento delle mansioni - cioè, incorpori in sé la funzione lavorativa e quella di controllo - ritenendosi troppo complicata una verifica sul facere del prestatore secondo modalità meno intrusive. Così “sembra ragionevole permettere tali controlli proprio quando le carat-

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teristiche dell’attività lavorativa siano tali per cui sarebbe estremamente difficile (se non impossibile) svolgere controlli efficaci in forme diverse da quelle rese possibili dai sistemi informatici”.

La conclusione ha il pregio di soddisfare la ragion pratica, pur se deborda inevitabilmente dalla pro-spettiva di carattere difensivo, nella misura in cui il potere di controllo viene indirizzato non solo contro il rischio di abusi e di condotte illecite (di più, penalmente rilevanti), ma contro l’inadempimento e la violazione degli obblighi contrattuali. Da questo punto di vista non vi sarebbe alcuna differenza tra la verifica sull’accesso a internet mediante un apposito software e una qualsiasi altra forma di controllo a distanza. La circostanza che gli strumenti informatici permettano, oltre all’impiego lavorativo, anche quello di vigilanza, non potrebbe autorizzare di per sé un accertamento sulla prestazione con modalità illecite.

6. Estraneità del controllo ex post a tutela del patrimonio aziendale dall’ambito di applicazione dell’art.4, L. n.300/70

Il passaggio motivazionale ove la pronuncia coglie nel segno, arricchendo il dibattito in corso, riguarda l’asserita legittimità del controllo (difensivo) posto in essere sulle strutture informatiche aziendali, che prescinde dalla pura e semplice sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa degli addetti ed è, invece, diretta ad accertare la perpetrazione di eventuali comportamenti illeciti dagli stessi posti in essere. Il “coinvolgimento” del diritto del datore di lavoro di tutelare il proprio patrimonio, costitu-ito non solo dal complesso dei beni aziendali, ma anche dalla propria immagine esterna, così come accreditata presso il pubblico, giunge a legittimare il controllo a distanza e l’inapplicabilità dell’art.4 L. n.300/70. Questa forma di tutela spetta al datore di lavoro, che può giuridicamente esercitarla con gli strumenti derivanti dall’esercizio dei poteri derivanti dalla sua supremazia sulla struttura aziendale, soprattutto laddove eseguita a posteriori rispetto alla commissione dell’illecito disciplinare (ma anche, sotto altro aspetto, civilistico qualora si arrechi nocumento alle ragioni economiche dell’impresa).Il controllo adottato dal datore di lavoro, nel caso qui in commento, risulta così estraneo al campo di applicazione dell’art.4 dello Statuto dei Lavoratori, in quanto destinato ad accertare un comportamen-to non strettamente correlato all’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro, ma che poneva in pericolo l’immagine della banca presso i terzi. Tale argomento, che conferma il quadro giurisprudenziale in tema di controlli difensivi, è pienamente condivisibile. La Suprema Corte aveva, infatti, già avuto modo di affermare - seppur con riferimento alle apparecchiature di rilevazione delle telefonate ingiustificate - che ai fini dell’operatività del divieto di utilizzo di apparecchiature per il controllo a distanza ..., è necessario che il controllo riguardi (direttamente o indirettamente) l’attività lavorativa, mentre devono ritenersi certamente fuori dell’ambito di applicazione della norma i controlli diretti ad accertare condotte illecite del lavoratore (c.d. controlli difensivi), quali, ad esempio, i sistemi di controllo dell’accesso ad aree riservate, o, appunto, gli apparecchi di rilevazione di telefonate ingiu-stificate.

È così invocata una categoria concettuale di tutt›altro che agevole delimitazione: venuta in rilievo in relazione dapprima ai controlli «umani» e successivamente ad altre tipologie più tradizionali di con-trollo a distanza, quali appunto le apparecchia-ture volte a reprimere il fenomeno delle telefonate ingiustificate, gli strumenti di videosorveglianza o i sistemi di controllo dell’accesso ad aree riservate, e ora relativa anche all’uso illecito della posta elettronica aziendale.

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7. Osservazionicritiche

Se tale soluzione, da un lato, è comprensibile nell’ottica di un equo contemperamento degli interessi confliggenti, dall’altro si fonda su argomentazioni arbitrarie e, in qualche misura, contraddittorie.Innanzitutto solleva non lievi perplessità se si considera che il controllo sull’eventuale comportamento illecito consente contestualmente di accertare anche l’adempimento della prestazione lavorativa o de-gli altri obblighi che gravano sui dipendenti. Infatti, l’inapplicabilità dell’art.4 presuppone non soltanto che siano tutelati beni estranei al rapporto di lavoro, ma anche che la potenzialità di un controllo indi-retto sull’attività, non unicamente lavorativa, dei dipendenti in orario e nei luoghi di lavoro sia certa-mente esclusa.Inoltre, come correttamente rilevato, in tal modo si affida la verifica circa la legittimità del controllo a una valutazione da effettuare necessariamente ex post: soltanto nel momento in cui sia esclusa la com-missione di un illecito, l’esercizio del potere di controllo dovrebbe allora essere considerato illegittimo, benché non sanzionabile. In altre parole, la Suprema Corte, anziché fornire una regola che il datore di lavoro deve osservare nel momento in cui decide di controllare il lavoratore, formula la regola in modo tale da far riferimento a elementi di cui il datore di lavoro viene a conoscenza solo dopo aver effettuato il controllo medesimo. L’ambiguità di fondo è nota anche alla giurisprudenza di legittimità12. Del resto, affinché siano superate le ambiguità e le incertezze giurisprudenziali sino ad ora emerse, va a chiare lettere e con decisione ribadito che la natura difensiva non conferisce automaticamente alcuna patente di legittimità al con-trollo effettuato, che può esser riconosciuta solo a posteriori e in relazione alla finalità del controllo. Al contrario, quando quest’ultimo è volto ad accertare comportamenti illeciti del lavoratore che riguardi-no anche l’esatto adempimento della sua prestazione, richiede l’espletamento della procedura conde-terminativa qualora si avvalga di strumenti di controllo a distanza13.Coerentemente i risultati del controllo difensivo non possono rilevare ai fini disciplinari, non soltanto nella misura in cui esso si rilevi illegittimo, ma anche allorquando sia autorizzato dalle parti sociali o dall’Ispettorato del lavoro qualora il datore pretenda di sanzionare l’inadempimento degli obblighi con-trattuali del prestatore di lavoro.

12 Allorquando ha riconosciuto, relativamente all’uso dei badge, che l’esigenza di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti “non consente di espungere dalla fattispecie astratta i casi ... di quei controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori quando tali comportamenti riguardino ... l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro”. Cfr. Cass. 17 luglio 2007, n.15892, cit.13 In dottrina viene giustamente sottolineato che il controllo difensivo, se preventivo, attuato con mezzi tecnologici o informatici è, inevitabil-mente, un controllo preterintenzionale e come tale rientra nell’ambito di applicazione dell’art.4 St. lav. (E. Barraco - A. Sitzia, op. cit., 244 ss. e P. Tullini, op. cit., 329).

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VIDEOSORVEGLIANZA: TEMPI E TERMINI PER LA CONSERVAZIONE DELLE IMMAGINI

a cura di Emanuela Nespoli

Il Garante per la protezione dei dati personali, in data 20 agosto 2013, ha pubblicato i chiarimen-ti sull’interpretazione del paragrafo 3-4 del Provvedimento Generale in materia di videosorveglianza, adottato dal Garante in data 8 aprile 2010 (documento web n.1712680), inerente alla durata dell’even-tuale conservazione delle immagini acquisite. A seguito dell’adozione di tale provvedimento, il Garante ha ricevuto numerose richieste di chiarimento circa la durata e i requisiti della conservazione dei dati, nel caso in cui l’impianto di videosorveglianza preveda la conservazione delle immagini. Infatti l’obietti-vo dell’attuale normativa è quello di realizzare un giusto contemperamento tra le finalità di sicurezza e di acquisizione probatoria - a cui è solitamente preordinato il trattamento dei dati personali in questio-ne - e la dignità e il diritto alla riservatezza degli interessati.

1. Videosorveglianza: disciplina generale

Per ogni datore di lavoro che decida di dotarsi di un impianto di videosorveglianza si pone il problema di tracciare i limiti di liceità all’installazione, all’utilizzo e alla conservazione dei dati raccolti tramite tale impianto, configurandosi la possibilità di un contrasto con il nostro ordinamento giuridico sotto un duplice profilo: 1. sia inerente al diritto del lavoro;2. sia relativo al profilo di diritto alla privacy.

1. In relazione al profilo di diritto del lavoro si osserva quanto segue: il controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, mediante impianti audiovisivi o altre apparecchiature di controllo, è vietato sin dal 1970. L’art.4 della L. n.300/70 (Statuto dei Lavoratori) dispone al riguardo: ”È vietato l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori. Gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In difet-to di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l’Ispettorato del lavoro, dettando, ove occorra, le modalità per l’uso di tali impianti”.Tale norma distingue due diverse ipotesi, a seconda delle finalità perseguite attraverso l’utilizzo degli impianti: a) nel primo comma si prevede un divieto assoluto laddove le apparecchiature siano finalizzate al

mero controllo dell’attività lavorativa; b) al secondo comma si prevede la possibilità di un loro impiego qualora gli impianti siano diretti a

soddisfare esigenze organizzative, produttive o di sicurezza del lavoro e solo indirettamente possa-no comportare un controllo della sfera personale dei lavoratori.

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Tali finalità, previste al secondo comma dell’articolo, devono pertanto essere l’unico obiettivo persegui-to dal datore di lavoro, mentre l’attività di controllo dell’attività lavorativa può solo costituire una sorta di risultato accessorio e secondario.Per quanto riguarda la procedura necessaria per poter procedere all’installazione di impianti di vide-osorveglianza è necessario sottoscrivere un accordo con le RSA/RSU o con la commissione interna; ovvero, in difetto di accordo, o in assenza di una rappresentanza sindacale interna, il datore di lavoro potrà rivolgersi alla Direzione Territoriale del Lavoro (DTL) competente, con la quale concorderà non solo le modalità d’uso, ma anche le modalità di installazione dello strumento. Nel caso di sedi dislocate in diverse province occorrerà presentare diverse istanze indirizzate alle diverse DTL competenti. L’istanza dovrà contenere: a) l’indicazione delle ragioni per le quali si rende necessaria l’installazione di telecamere (come ad

esempio la necessità di garantire la sorveglianza e la sicurezza dei luoghi di lavoro); b) l’indicazione del posizionamento delle telecamere, allegando le planimetrie di ciascun piano ove

vengono collocate le telecamere; c) l’indicazione delle modalità di registrazione e conservazione dei dati.In caso di violazione delle disposizioni contenute nell’art.4 citato, lo Statuto dei Lavoratori prevede, all’art.38, l’irrogazione al datore di lavoro di un’ammenda di importo compreso tra € 154,00 e € 1.549,00 o l’arresto da 15 giorni a un anno, salvo che il fatto non costituisca un più grave reato. Preme rilevare che l’inosservanza delle suddette procedure comporta, oltre all’applicabilità delle sanzioni penali sopra menzionate, l’altrettanto grave conseguenza dell’inutilizzabilità di qualsiasi dato che il datore di lavoro abbia ottenuto per mezzo di detti strumenti. Il controllo operato mediante l’utilizzo dei dati illegittima-mente acquisiti non potrà, dunque, essere posto a fondamento né di sanzioni disciplinari conservative né, tanto meno, di licenziamenti.

2. In relazione ai profilo di diritto alla privacy, il Garante per la protezione dei dati personali, ribadendo che la videosorveglianza deve avvenire nel rispetto delle norme riguardanti la tutela dei lavoratori, è intervenuto in materia con alcune specificazioni, emanando il Provvedimento generale in materia di videosorveglianza dell’8 aprile 2010.In particolare ha ritenuto opportuno fissare alcuni principi:• principio di liceità: la videosorveglianza deve avvenire nel rispetto, oltre che della disciplina in ma-

teria di protezione dei dati, di quanto prescritto da altre disposizioni di legge, con particolare ri-guardo alle vigenti norme dell’ordinamento civile e penale in materia di interferenze illecite nella vita privata, di tutela della dignità, dell’immagine e con particolare attenzione, per il caso che qui interessa, alle norme sulla tutela dei lavoratori;

• principio di necessità: deve escludersi ogni utilizzo superfluo o eccessivo del sistema di videosor-veglianza;

• principio di proporzionalità: tali impianti possono essere installati solo qualora altre misure siano ponderatamente valutate insufficienti o inattuabili;

• principio di finalità: possono essere perseguite solo finalità determinate e correttamente riportate nell’informativa.

Con riferimento alle condizioni di liceità dell’utilizzo di un sistema di videosorveglianza si rileva la ne-cessità di fornire agli interessati l’informativa ex art.13, D.Lgs. n.196/03.Il Garante ha, al riguardo, individuato un modello semplificato di informativa definita “minima” (doc. web. 2179097), idoneo in caso di aree esterne, rappresentato da un cartello con un’immagine di una telecamera e la segnatura area videosorvegliata. In presenza di più telecamere è opportuno, in consi-derazione della vastità dell’area e delle modalità delle riprese, predisporre più cartelli.

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Videosorveglianza: tempi e termini per la conservazione delle immagini

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Qualora le telecamere siano collocate in luoghi chiusi, tale modello di informativa (doc. web. 2179097) dovrebbe essere oggetto di un’integrazione che, ai sensi dell’art.13 codice privacy, indichi le finalità perseguite e le modalità di conservazione.Il supporto con l’informativa:• deve essere collocato prima del raggio di azione della telecamera, anche nelle sue immediate vici-

nanze e non necessariamente a contatto con gli impianti;• deve avere un formato e un posizionamento tale da essere chiaramente visibile in ogni condizione

di illuminazione ambientale, anche quando il sistema di videosorveglianza sia eventualmente atti-vo in orario notturno;

• può inglobare un simbolo o una stilizzazione di esplicita e immediata comprensione, eventualmen-te diversificati al fine di informare se le immagini sono solo visionate o anche registrate.

La rilevazione delle immagini può avvenire senza il consenso dell’interessato, qualora sia effettuata con la finalità di perseguire un legittimo interesse del titolare o di un terzo attraverso mezzi di prova o finalità di tutela delle persone e beni rispetto a possibili aggressioni, furti, rapine, danneggiamenti, atti di vandalismo o finalità di prevenzione di incendi o di sicurezza sul lavoro.

2. L’accesso alle immagini registrate

Il Garante per la protezione dei dati personali è intervenuto anche delimitando il novero dei soggetti cui è consentito l’accesso alle immagini registrate nelle figure degli incaricati e dei responsabili del trattamento dei dati. Al riguardo, si ribadisce la necessità che il titolare provveda alla designazione per iscritto di coloro che saranno incaricati del trattamento, autorizzati a utilizzare gli impianti e, nei casi in cui sia indispensabile per gli scopi perseguiti, a visionare le registrazioni.

3. I termini per la conservazione delle immagini

Nei casi in cui sia stato scelto un sistema che preveda la conservazione delle immagini, anche l’even-tuale conservazione temporanea dei dati deve essere commisurata al tempo necessario - e predeter-minato - a raggiungere la finalità perseguita. La conservazione deve essere limitata a poche ore o, al massimo, alle ventiquattro ore successive alla rilevazione, fatte salve speciali esigenze di ulteriore con-servazione in relazione a festività o chiusura di uffici o esercizi, nonché nel caso in cui si debba aderire a una specifica richiesta investigativa dell’autorità giudiziaria o di polizia giudiziaria. Solo in alcuni casi, per peculiari esigenze tecniche o per la particolare rischiosità dell’attività svolta dal titolare del trattamento (ad esempio, per alcuni luoghi come le banche può risultare giustificata l’esigenza di identificare gli autori di un sopralluogo nei giorni precedenti una rapina), può ritenersi ammesso un tempo più ampio di conservazione dei dati che, sulla scorta anche del tempo massimo legislativamente posto per altri trattamenti, si ritiene non debba comunque superare la settimana.In tutti i casi in cui si voglia procedere a un allungamento dei tempi di conservazione per un periodo superiore alla settimana, una richiesta in tal senso deve essere sottoposta a una verifica preliminare del Garante e, comunque, essere ipotizzato dal titolare come eccezionale nel rispetto del principio di proporzionalità. Le richieste di allungamento dei tempi di conservazione debbono essere valutate alla luce dei principi di necessità, proporzionalità, finalità e correttezza previsti dal codice (artt.3 e 11 del codice), espressamente richiamati anche nel Provvedimento Generale in materia di videosorveglianza dell’8 aprile 2010 sopra citato, e posti alla base di numerose decisioni del Garante (tra le ultime e più significative si veda anche il doc. web n.2340448).A tal riguardo, il Garante, tramite i chiarimenti sull’interpretazione dei paragrafi 3-4 del 20 agosto 2013, sottolinea come la conservazione delle immagini, essendo soggetta al rispetto del principio di propor-

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zionalità fissato dall’art.11 del D.Lgs. n.196/03, non può durare all’infinito, ma può protrarsi solo per un periodo di tempo prefissato, che sia effettivamente necessario al raggiungimento dello scopo cui essa è preordinata.

Nei chiarimenti del 20 agosto 2013, il Garante ha ribadito che il tempo di conservazione delle immagini deve essere limitato a poche ore o, al massimo, alle 24 ore successive alla loro rilevazione.Si osserva come lo stesso Garante, nel provvedimento generale, evidenzi come la congruità di un ter-mine più ampio di conservazione vada adeguatamente motivata “con riferimento ad una specifica esi-genza di sicurezza perseguita, in relazione a concrete situazioni di rischio riguardanti eventi realmente incombenti e per il periodo di tempo in cui venga confermata tale eccezionale necessità”. Il termine più ampio di conservazione può altresì essere ricollegato alla necessità di aderire a una spe-cifica esigenza di custodire o consegnare una copia specificamente richiesta dall’autorità giudiziaria o dalla polizia giudiziaria in relazione a un’attività investigativa in corso.Il Garante, tramite i chiarimenti sull’interpretazione dei paragrafi 3-4 del 20 agosto 2013, meglio illustra i casi - già indicati negli stessi par. 3-4 del provvedimento generale - in cui il termine di conservazione delle immagini può essere ampliato. Tale allungamento potrà essere concesso qualora:a) ricorrano speciali esigenze di ulteriore conservazione delle immagini, in relazione a festività o chiu-

sura di uffici o esercizi. È il caso, ad esempio, della chiusura di un esercizio commerciale o di un uf-ficio che si protragga per un certo periodo di tempo (ad esempio per festività, chiusura estiva etc). In questo caso, nel momento in cui viene meno l’esigenza che ha temporaneamente determinato la necessità di procedere alla conservazione delle immagini oltre i termini previsti, scatta l’obbligo immediato, in capo al titolare del trattamento, di conformarsi nuovamente alla regola generale (conservazione limitata a poche ore o, al massimo, alle 24 ore successive alla rilevazione);

b) il titolare del trattamento debba “aderire ad una specifica richiesta investigativa dell’autorità giudi-ziaria o di polizia giudiziaria”. In tal caso, la conservazione delle immagini non può protrarsi oltre il termine indicato nel provvedimento dell’autorità giudiziaria;

c) il titolare del trattamento svolga un’attività lavorativa o produttiva particolarmente rischiosa o sus-sistano specifiche esigenze tecniche ad essa connesse. In tal caso, la conservazione delle immagini può estendersi oltre le 24 ore, ma non può comunque superare la settimana. Il requisito della “particolare rischiosità” dell’attività svolta dal titolare del trattamento può essere ravvisato anche in relazione a diverse realtà quali, ad esempio, banche, supermercati, centri commerciali etc.

Di fatto, la concreta valutazione dei tempi - comunque entro i 7 giorni - reputati necessari per la conser-vazione delle immagini è rimessa al titolare del trattamento. Tuttavia, nel caso in cui dall’installazione degli impianti audiovisivi possa derivare, seppur in via indiretta, un controllo a distanza sull’attività dei lavoratori, la valutazione dei tempi necessari per la conservazione delle immagini non sarà unicamente rimessa alla mera volontà del titolare del trattamento, ma dovrà essere oggetto dell’eventuale accordo con le RSA/RSU o con la commissione interna; ovvero, in difetto di accordo, o in assenza di una rappre-sentanza sindacale interna, dovrà essere condivisa dalla Pubblica Autorità nell’ambito delle procedure di cui all’art.4 della L. n.300/70, come sopra descritta.Qualora, per obiettive esigenze connesse alla tutela del patrimonio aziendale o alla sicurezza dei lavo-ratori o di terzi (es. clienti o fornitori), oppure in ragione di altre specifiche esigenze o disposizioni di settore la conservazione delle immagini per una settimana si riveli insufficiente (si veda, ad esempio, il provvedimento del 7 marzo 2013 del Garante doc. web n.2340448 in riferimento alla tutela del patri-monio aziendale, oppure i provvedimenti del 12 marzo 2009, doc. web n.1605521; dell’8 marzo 2012, doc. web n.1891026; del 18 ottobre 2012, doc. web n.2138277, in riferimento a siti di interesse cultu-rale), il titolare del trattamento ha comunque la facoltà di presentare al Garante un’istanza di verifica preliminare (art.17 del codice) con l’obiettivo di allungare i tempi di conservazione. Il documento sopra

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Videosorveglianza: tempi e termini per la conservazione delle immagini

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citato del 7 marzo 2013, doc. web n.2340448, è un tipico esempio di accoglimento della richiesta di verifica preliminare relativa all’allungamento, oltre i sette giorni, dei tempi di conservazione delle im-magini registrate. Infatti, la richiesta è stata adeguatamente motivata “con riferimento ad una specifica esigenza di sicurezza perseguita, in relazione a concrete situazioni di rischio riguardanti eventi realmen-te incombenti e per il periodo di tempo in cui venga confermata tale eccezionale necessità”.Da ultimo, si osserva come il provvedimento generale del Garante disponga che il sistema impiegato debba essere programmato in modo da operare al momento prefissato l’integrale cancellazione auto-matica delle informazioni allo scadere del termine previsto da ogni supporto, anche mediante sovra-registrazione, con modalità tali da rendere non riutilizzabili i dati cancellati. In presenza di impianti basati su tecnologia non digitale, o comunque non dotati di capacità di elaborazione tali da consentire la realizzazione di meccanismi automatici di expiring dei dati registrati, la cancellazione delle immagi-ni dovrà comunque essere effettuata nel più breve tempo possibile per l’esecuzione materiale delle operazioni dalla fine del periodo di conservazione fissato dal titolare. Il mancato rispetto dei tempi di conservazione delle immagini raccolte e del correlato obbligo di cancellazione di dette immagini, oltre il termine previsto, è sanzionato dall’art.162, co.2-ter, del codice, che prevede la sanzione amministra-tiva del pagamento di una somma da € 30.000,00 a € 180.000,00.

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SPROPORZIONATO IL LICENZIAMENTO PER IL LAVORATORE CHE UTILIZZA UN SOFTWARE DI SCARICO FILE DURANTE IL LAVORO

a cura di Francesco Natalini

La sentenza n.26397 del 26 novembre 2013 della Corte di Cassazione torna ancora sulla vexata quaestio (rappresentando verosimilmente l’ultima pronuncia in ordine temporale) della licenziabilità o meno del lavoratore resosi responsabile, durante l’attività lavorativa, di aver installato e fatto uso di prodotti/servizi informatici o tecnologici, di norma riconducibili al vasto mondo di internet.Dall’analisi delle motivazioni della sentenza, che spesso non trovano riscontro nella sintesi della mas-sima, emerge come la Suprema Corte non abbia introdotto nuovi principi o interpretazioni innovative, ma applicato principi e orientamenti consolidati in materia.

MassimaRapporto di lavoro ‒ licenziamento individuale ‒ licenziamento disciplinare ‒ installazione software peer to peer ‒ legittimità ‒ non sussiste

Non può essere licenziato il dipendente che scarica gratuitamente programmi direttamente dal perso-nal computer d'ufficio anche se l'azienda non aveva autorizzato l'installazione.Il giudizio di merito applicativo di norme elastiche è soggetto al controllo di legittimità al pari di ogni altro giudizio fondato su norme di legge. Ciò perché, nell'esprimere il giudizio di valore necessario per integrare una norma elastica, il giudice di merito compie un'attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa, dando concretezza a quella parte elastica della medesima, in-trodotta al fine di consentire alla norma de qua di adeguarsi ai mutamenti del contesto storico-sociale.Ai fini della configurabilità del vizio di omessa pronuncia, non è sufficiente la mancanza di un'espressa statuizione del giudice, essendo necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto. Orbene, ciò non si verifica allorquando la deci-sione adottata implichi la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendosi ravvisare una statuizione implicita di rigetto se la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l'impostazione logico-giuridica della pronuncia.

1. Premessa

Come anticipato nell’abstract, la pronuncia n.26397 dello scorso 26 novembre della Corte di Cassa-zione torna ancora sulla vexata quaestio della licenziabilità o meno del lavoratore resosi responsabile, durante l’orario di lavoro, di installare e utilizzare prodotti/servizi informatici o tecnologici, di norma

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Sproporzionato il licenziamento per il lavoratore che utilizza un software di scarico file durante il lavoro

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riconducibili al vasto mondo di internet. Le sentenze però vanno “contestualizzate” e, come sosteneva il compianto Prof. Gino Gorla14, è sempre opportuno “leggere le carte” del processo per meglio com-prendere perché il giudice è arrivato a un certo tipo di decisione e ci si accorgerà che, com’è avvenuto nel caso specifico, la pronuncia della Suprema Corte di fatto non introduce nuovi principi o interpre-tazioni innovative e non può definirsi nemmeno una sentenza “figlia della tecnologia”, in quanto essa giunge a considerare illegittimo il licenziamento (rigettando quindi il ricorso proposto dell’azienda e confermando la decisione della Corte d’Appello), sulla base di principi e orientamenti consolidati in materia, sui punti di seguito elencati: • il concetto di illecito disciplinare;• il rispetto della procedura di licenziamento, basata sulla sequenza: contestazione-giustificazione-

provvedimento; • la genericità delle contestazioni;• il principio di proporzionalità tra infrazione e sanzione.A questi temi si aggiunge anche un’altra interessante disamina (pur questa già affrontata più volte dalla Corte di Cassazione)15 sull’ultrattività di una procura in assenza di revoca.Volendo cominciare da quest’ultima problematica, visto che la difesa del lavoratore aveva eccepito, preliminarmente, l’inammissibilità del ricorso, in quanto il licenziamento sarebbe stato sottoscritto da soggetto delegato da una persona che non rivestiva più la carica di amministratore della società, la Cassazione ha ritenuto infondata l’eccezione, in quanto, come più volte affermato dalla stessa Corte, se la procura è proveniente da una società e, per essa, da un organo abilitato a conferirla, la stessa resta imputabile all’ente medesimo anche in futuro e finché non venga revocata, “indipendentemente dalla sorte che nel frattempo abbia potuto subire l’organo che l’ha rilasciata, atteso che l’atto negoziale della persona giuridica, posto in essere per il tramite del competente organo di rappresentanza esterna, è atto del rappresentato e non del rappresentante e, come tale, resta in vita fino a quando non intervenga una diversa manifestazione di volontà del primo, a prescindere dal mutamento del secondo”.

2. Ilcasooggettodelladecisione

Venendo invece all’oggetto della vicenda contenziosa, come già anticipato, essa prende le mosse dal comportamento tenuto da un lavoratore che avrebbe installato sul PC aziendale la nota procedura “Emule” e che durante l’orario di lavoro avrebbe scaricato file (verosimilmente musicali, audio ecc), in violazione – secondo l’azienda – sia della policy aziendale che del codice di comportamento.A questa motivazione, però, se ne aggiunge un’altra che, secondo i giudici, è risultata ancor più pre-gnante (anzi decisiva) ai fini della (asserita) compromissione del vincolo di fiducia sulla quale l’azienda ha fondato il provvedimento espulsivo: cioè il fatto che il lavoratore avesse continuato a negare di aver commesso la mancanza, nonostante le circostanze avessero poi dimostrato la sua responsabilità.Riportando testualmente un passo della sentenza in commento, la Corte di Cassazione fa rilevare che già la Corte di Appello di Roma aveva riscontrato: “che il chiaro tenore letterale della missiva di licenzia-mento evidenziava come a fondamento dello stesso era stata posta non solo (e non tanto) l’avvenuta installazione ed utilizzo del programma “eMule” ma anche, ed in modo determinante, la negazione dei fatti contestati, da parte del dipendente, (in) sede di giustificazioni”. C’è però un particolare determinante da tenere in considerazione e che, di fatto, ha orientato la senten-za della Suprema Corte in modo sfavorevole per l’azienda (e che già aveva determinato la soccombenza in appello): cioè che tale comportamento negatorio non può essere ascritto ‒ in via generale ‒ quale

* Francesco Natalini è anche docente a contratto presso l'Università Ca' Foscari di Venezia.14 G. Gorla, Dovere professionale di conoscere la giurisprudenza e mezzi di informazione, in D.Parrotta (a cura di), G.Gorla e il Foro Italiano.15 Cass. n.11847/07, n.8281/06, n.2636/05, n.13434/02.

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illecito disciplinare, in quanto rientra nel diritto di difesa posto a favore del lavoratore, cioè nella facol-tà, da esprimere anche in sede disciplinare, di negare l’addebito.Diverso forse sarebbe stato se il lavoratore avesse negato l’accaduto in risposta a una missiva aziendale indirizzatagli a meri fini istruttori ‒ non avente quindi valenza di contestazione preventiva ex art.7 della L. n.300/70 – finalizzata a conoscere se il lavoratore avesse installato e utilizzato o meno il software in questione, di guisa che la negazione avrebbe potuto essere oggetto di successiva contestazione ex art.7 e cumularsi, quale illecito disciplinare, con l’installazione e l’utilizzo non autorizzato del programma Emule.

3. Negazionedeifatticontestatiepossibileincidenzadisciplinare

In ogni caso ‒ aggiunge sempre la sentenza ‒ anche ammettendo e non concedendo che il comporta-mento negatorio, nella prospettazione e nella valenza ad esso attribuita dall’azienda, potesse essere inquadrato quale illecito disciplinare “non poteva essere posta(o) a base del provvedimento espulsivo in assenza di previa contestazione” .In buona sostanza l’aver evidenziato l’atteggiamento di negazione tenuto dal lavoratore nella sola let-tera di licenziamento e non in quella di contestazione disciplinare (e non poteva essere diversamente visto che il medesimo ha negato i fatti solo nell’“intermedia” lettera di giustificazioni, prodotta cioè prima del licenziamento e dopo la contestazione ex art.7, L. n.300/70), determina l’irrilevanza della condotta, che non può essere presa in considerazione ai fini del provvedimento espulsivo.L’obbligo per il datore di lavoro di contestare preventivamente sempre e comunque l’addebito, per permettere il legittimo espletamento del diritto di difesa, si ricorderà, è stato elevato a principio ge-nerale16 e trova la sua applicazione non solo nella ristretta area dei licenziamenti ad nutum, ma anche per i c.d. dirigenti “apicali”, dopo la nota sentenza n.7880 del 30 marzo 2007 delle SS.UU., nella quale, riprendendo peraltro un orientamento della Corte Costituzionale17, si è stabilito che “devono essere assicurate tutte le garanzie procedurali della L. n. 300 del 1970, art. 7 nel caso di lavoratore investito dalla più grave delle sanzioni disciplinari ed indipendentemente dal numero dei dipendenti del datore di lavoro, perché non vi è dubbio che il licenziamento per motivi disciplinari, senza l’osservanza delle garanzie suddette, può incidere sulla sfera morale e professionale del lavoratore e crea ostacoli o ad-dirittura impedimenti alle nuove occasioni di lavoro che il licenziato deve poi necessariamente trovare” e che nell’esercizio di un potere disciplinare ‒ riferito allo svolgimento di qualsiasi rapporto di lavoro subordinato (di diritto privato o di pubblico impiego) ovvero persino di lavoro autonomo e professiona-le ‒ al principio di proporzione deve coniugarsi la regola del contraddittorio, “secondo cui la valutazione dell’addebito, necessariamente prodromica all’esercizio del potere disciplinare, non è un mero processo interiore ed interno a chi tale potere esercita, ma implica il coinvolgimento di chi versa nella situazione di soggezione, il quale - avendo conosciuto l’addebito per essergli stato previamente contestato - deve poter addurre, in tempi ragionevoli, giustificazioni a sua difesa, sicché -sotto questo secondo profilo - è necessario il previo espletamento di un procedimento disciplinare che, seppur variamente articolabile, sia rispettoso della regola audiatur et altera pars”18.

4. Rilevanzadisciplinaredell’installazionenonautorizzatadisoftware

Tornando alla sentenza, una volta assodato che il comportamento negatorio tenuto dal lavoratore non può quindi essere eccepito e considerato a giustificazione del recesso, resta da chiarire e capire se la

16 In dottrina, sull’argomento: v. L. Ficari, Le sanzioni disciplinari e la procedimentalizzazione del potere disciplinare del datore di lavoro, in R. Pessi (a cura di) Codice commentato del lavoro, Torino, 2011, pagg.282 ss..17 Cfr. C Corte Cost. sentenza 25 luglio 1989, n.427.18 Su questo ultimo passaggio: cfr. Corte Cost., 1° giugno 1995, n.220.

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mera installazione non autorizzata del software e il suo utilizzo, altrettanto indebito, possano da soli giustificare la sanzione espulsiva. La Cassazione, conformandosi a quanto aveva già deciso la Corte d’Appello, ritiene di no.Che il fatto sia, se provato, disciplinarmente rilevante è fuori dubbio ma, com’è noto, la sanzione disci-plinare deve essere – ex art.2106 c.c. – improntata al principio della proporzionalità rispetto all’infra-zione, di talché la mancanza avrebbe potuto essere punita anche con una sanzione conservativa, ma-gari effettivamente più adeguata all’entità della medesima, visto che il licenziamento disciplinare (sia in ipotesi di giusta causa che, in subordine, di giustificato motivo soggettivo) è da considerarsi applicabile, quale extrema ratio, nelle mancanze più gravi19.Non a caso, l’art.3 della L. n.604/66, nel disciplinare i casi che legittimano il (meno grave) licenziamento per giustificato motivo soggettivo (che prevede il diritto al preavviso, non integrando un comportamen-to che non consente, come per la giusta causa ex art.2119 c.c., la prosecuzione, nemmeno provvisoria, del rapporto di lavoro) parla comunque di “notevole inadempimento degli obblighi contrattuali”.Va ricordato che, a scanso di equivoci, anche il giudizio di merito, quando è applicativo di norme c.d. elastiche (nel caso di specie la valutazione della proporzionalità tra infrazione e relativa sanzione disciplinare)20 può essere ugualmente soggetto al vaglio di legittimità da parte della Cassazione, in quanto:“nell’esprimere il giudizio di valore necessario per integrare una norma elastica (che, per la sua stessa struttura, si limita ad esprimere un parametro generale) il giudice di merito compie un’attività di inter-pretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa, dando concretezza a quella parte mobile (elastica) della stessa, introdotta per consentire alla norma stessa di adeguarsi ai mutamenti del contesto storico-sociale”21. è chiaro che, in questo caso, il giudizio di merito espresso dai giudici del gravame non è impugnabile in sede di legittimità, in quanto ritenuto sufficientemente motivato22, atteso che secondo la Suprema Corte:“la Corte di appello è pervenuta alla affermazione della mancanza di proporzionalità tra addebito e sanzione irrogata sulla scorta di un ragionamento che non risulta essere stato sviluppato in violazione del richiamato principio, bensì attraverso una valutazione in concreto del fatto così come contestato (installazione ed utilizzazione del programma “eMule”) ritenuto generico in relazione alla parte relativa alla utilizzazione del programma, solo enunciata astrattamente, e, in quanto tale, non idonea a con-sentire una adeguata valutazione della sua effettiva gravità. La Corte ha pure precisato che erano non rilevanti le ulteriori specificazioni di tale indebita utilizzazione contenute nella memoria di costituzione e risposta della società ed individuate all’esito di una perizia fatta espletare sul pc del C. dopo il licenzia-mento” così come, aggiunge sempre la sentenza in commento:”ha valutato la condotta contestata in relazione al contenuto degli artt. 51 e 52 del CCNL di settore nonchè in relazione alle disposizioni della “Policy” evidenziando come la sanzione del licenziamento non fosse una conseguenza obbligata della generica installazione ed improprio uso di un programma, ma una possibile conseguenza, evidentemente da integrare con ulteriori elementi che ne delineassero la effettiva gravità in concreto”.

19 In dottrina, M. De Angelis, Il licenziamento disciplinare e l’applicazione del criterio di proporzionalità, in Corti salernitane, 2005, 702; S. Figurati, Osservazioni in materia di insubordinazione del lavoratore e graduazione della sanzione disciplinare, in Mass. giur. lav., 2004, 700; L. Forte, Il licenziamento, in quanto sanzione massima, deve sempre sottostare al principio di proporzionalità, in Riv. giur. lav., 2004, II, 739; G. Girardi, Provvedimenti disciplinari e proporzionalità tra addebito e sanzione, in Lav. giur., 2006, 545.20 M. Garattoni, La proporzionalità del licenziamento disciplinare e la nozione di giusta causa tra norme elastiche e clausole generali, in Arg. dir. lav., 2006, 907.21 Cass. n.10058/05; Cass. n.8017/06.22 "In materia di licenziamento disciplinare compete al giudice di merito procedere alla valutazione della proporzionalità della sanzione espul-siva rispetto alla condotta addebitata al lavoratore con riferimento a tutte le circostanze del caso concreto, secondo un apprezzamento di fatto che non è rinnovabile in sede di legittimità, bensì censurabile per vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione”. Così, Cass. n.21965/07, in Foro it. Rep., 2007, voce Lavoro (rapporto), n.1461.

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Peraltro, chi scrive concorda con il giudizio di “sproporzionalità” espresso dalla Corte d’Appello in quan-to, a pensarci bene, l’installazione e l’utilizzo di un software come Emule potrebbe essere, in astratto, inquadrato, a livello di illecito disciplinare, come operazione che sottrae tempo dedicato all’attività lavorativa. Va però detto che una siffatta procedura non necessita di un’assidua dedizione da parte dell’operatore, diversamente da chi resta collegato a internet per lungo tempo (magari nell’ambito di un social net-work), nel senso che, una volta avviato, esso scarica i file richiesti e si interviene solo ad operazione terminata23. In ogni caso va valutata anche la frequenza degli accessi, seppur brevi, compiuti dal lavoratore, la recidi-va e l’associazione con altri comportamenti similari, aspetti che i giudici hanno ritenuto non sussistenti o comunque non tali da giustificare il recesso, visto che, ad esempio per quanto riguarda la recidiva, il lavoratore aveva un solo unico precedente disciplinare in 15 anni di anzianità di servizio. Non dimenti-chiamo che, in siffatte situazioni (anche se non sembra interessare direttamente la vicenda in commen-to), un altro elemento da considerare è la “tolleranza” del datore di lavoro verso certi comportamenti. Paradigmatica è una sentenza del 2007, sempre della Corte di Cassazione, nella quale si dispone che:”Non può essere disposta la sanzione del licenziamento nell’ipotesi in cui il lavoratore subordinato ab-bia utilizzato beni informatici aziendali al fine di “navigare” in internet su siti estranei all’oggetto della propria prestazione lavorativa, laddove l’intensità dell’elemento soggettivo della condotta del lavorato-re sia sminuito dalla tolleranza aziendale all’accesso, da parte dei dipendenti, alla rete Internet anche per motivi extralavorativi”24.

23 In ordine alla sussistenza dell’assiduità quale giusta causa di licenziamento: cfr Trib. Milano, sentenza del 14 giugno 2001, secondo cui “sussi-ste la giusta causa di licenziamento nel caso in cui il lavoratore abbia trascorso il tempo destinato al lavoro, e come tale retribuito, a collegarsi per scopi personali ad Internet ed a consultare i documenti scaricati, con la rete telefonica pagata dall’azienda, integrando tale comportamen-to una grave violazione degli obblighi contrattuali”. Ovvero come sancito da altra sentenza successiva, sempre del Tribunale milanese, il quale ha ritenuto integrante la giusta causa di licenziamento, “il comportamento della lavoratrice, consistito in un collegamento quotidiano alla rete Internet per più ore al giorno in assenza di effettive necessità lavorative" (Trib. Milano, 11 gennaio 2008).24 Cass. civ., Sez. lavoro, sent. n.153/07.

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IL PATTEGGIAMENTO NEI PROCEDIMENTI PENALI E SUA INCIDENZA NELLE CONTROVERSIE DI LAVORO

a cura di Evangelista Basile

Due recenti sentenze della Corte di Cassazione sul tema del patteggiamento e della sua rilevanza in ordine alla prova di fatti che costituiscono al tempo stesso addebiti disciplinari e ipotesi di reato – le n.3912 del 18 febbraio 2013 e n.7675 del 27 marzo 2013 – ci consentono di fare il punto sulla relazione tra responsabilità disciplinare e responsabilità penale del lavoratore e sulla rilevanza, nel processo del lavoro, delle prove acquisite nel corso del procedimento penale o delle indagini.

1. Premessa

Senza avere la pretesa di esaurire tutti i temi connessi alla complessa questione dell’incidenza della re-sponsabilità penale del lavoratore sul rapporto di lavoro, traendo spunto dalle due sentenze menziona-te in epigrafe, verrà esaminato anzitutto il principio generale dell’“indipendenza” della responsabilità disciplinare del lavoratore rispetto all’eventuale responsabilità penale per il medesimo fatto contesta-to. In secondo luogo, esaminando due recenti casi giurisprudenziali, vedremo il rilievo nel processo del lavoro – soprattutto sotto il profilo probatorio – della sentenza di applicazione della pena su richiesta (patteggiamento).

2. Inadempimentodellavoratoreerilevanzacivile,amministrativaepenale

Incominciamo col dire che il comportamento del lavoratore che si assuma inadempiente rispetto agli obblighi contrattuali assunti col datore di lavoro potrebbe rilevare non solo sotto il profilo disciplinare, ma anche sotto il profilo penale, civile e amministrativo. Infatti, non v’è dubbio che il dipendente che si appropri indebitamente di beni aziendali per vantaggio personale commette, da un lato, una grave infrazione dal punto di vista disciplinare, sanzionabile anche con la massima sanzione del licenziamen-to per giusta causa; dall’altro, ricorrendone i presupposti, la condotta può certamente integrare anche il reato di furto o appropriazione indebita, a seconda delle circostanze di fatto specifiche (ex art.624 o art.646 c.p.) e generare infine un danno economico al datore di lavoro, risarcibile in base alle norme generali sull’inadempimento contrattuale ex art.1218 e ss. c.c.. Per fare un esempio, il cassiere che si appropria volontariamente del denaro custodito in cassa per vantaggio personale potrà essere sanzionato sul piano disciplinare col licenziamento; per la medesima mancanza potrà altresì essere ritenuto responsabile penalmente del reato di appropriazione indebita ex art.646 c.p. e, infine, chiamato dal datore di lavoro danneggiato a risarcire il pregiudizio economico patito, pari ai denari indebitamente sottratti all’azienda. Ovviamente, non tutte le condotte scorrette del dipendente o, comunque, rilevanti sul piano discipli-nare danno necessariamente luogo anche a responsabilità sul piano penale o civilistico, e viceversa,

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perché questi tre profili di responsabilità viaggiano su binari distinti e ognuno di essi ha regole e disci-pline proprie. Anche in questo caso l’argomento è più facilmente comprensibile passando dall’astratto ai casi concreti. Se durante il turno di servizio un lavoratore rifiuta, magari rispondendo con modi sgarbati, di esegui-re un ordine legittimo datogli dal superiore gerarchico commette senza dubbio un’insubordinazione rilevante sotto il profilo disciplinare, che – nei casi più gravi – potrebbe anche essere sanzionata col re-cesso per giusta causa o giustificato motivo soggettivo (ovvero con preavviso). Per contro, non è detto che tale condotta abbia rilevanza sul piano penale o faccia scaturire un diritto del datore di lavoro al ri-sarcimento del danno; anzi, nel caso che si è ipotizzato, è assai probabile che la responsabilità si arresti al profilo disciplinare. Infatti, una risposta anche molto sgarbata o inurbana del dipendente al proprio diretto superiore potrebbe integrare un reato solo nell’ipotesi in cui il lavoratore si spinga a ingiuriare il collega (ex art.594 c.p.) oppure a minacciarlo (ex art.612 c.p.); tuttavia, in assenza degli elementi sog-gettivi e oggettivi integranti il reato di ingiuria o di minaccia, il rifiuto di eseguire un ordine del diretto superiore dovrebbe integrare la mera insubordinazione, priva di qualsivoglia rilievo penale. Parimenti, è assai probabile che la condotta de quo – pur integrando inadempimento contrattuale – non dia luogo a responsabilità risarcitoria ex art.1218 c.c., perché l’insubordinazione potrebbe non aver generato alcun danno economicamente rilevante al datore di lavoro. Proseguendo negli esempi si può fare il caso della condotta che comporta una sanzione disciplinare lieve, che non rileva penalmente e che – tuttavia – genera un risarcimento elevatissimo sul piano civi-listico. Si pensi al dipendente addetto alla movimentazione della merce col muletto che – per sbadataggine, ma non volontariamente – urta la vetrata d’ingresso dell’azienda per cui lavora e la danneggia, causan-do un pregiudizio economico di migliaia di euro (ossia il costo che il datore di lavoro deve sopportare per il rifacimento della vetrata). Non v’è dubbio che la condotta del dipendente rilevi dal punto di vista disciplinare, anche se – trattandosi di comportamento colposo e non doloso (l’errore di manovra col muletto è stato commesso per negligenza, non con la volontà di danneggiare il datore di lavoro) – è probabile che la sanzione disciplinare più appropriata sia di natura conservativa (biasimo, multa o so-spensione) e non espulsiva. Infatti, come noto, sul piano disciplinare non rileva tanto l’entità del danno cagionato dal dipendente al datore di lavoro, quanto la lesione del vincolo fiduciario, ossia la scarsa fiducia nel corretto adempimento futuro degli obblighi contrattuali; perciò, di norma, la mancanza commessa dal dipendente per negligenza è meno grave della mancanza volontaria, anche se la prima dovesse generare in ipotesi danni superiori alla seconda. Ciò detto, è del tutto evidente che il compor-tamento del lavoratore non ha alcun rilievo sotto il profilo penale, perché il reato di danneggiamenti (art.635 c.p.) è integrato solo da condotta dolosa, che nel caso di specie abbiamo escluso. Per contro, sul piano civilistico, non v’è alcun dubbio che il lavoratore dovrà risarcire al datore di lavoro l’intero danno cagionatogli, giacché per integrare la responsabilità ex art.1218 c.c. è sufficiente che la condotta inadempiente sia imputabile a titolo di colpa, anche lieve (la guida del muletto disattenta e distrat-ta integra senz’altro l’ipotesi della condotta negligente e imprudente). Solo alcuni contratti collettivi prevedono limitazioni alla responsabilità per danni commessi dai lavoratori oppure condizionano la richiesta di risarcimento del danno all’avvio della procedura disciplinare: ma, in assenza di norme patti-zie di questo genere, il lavoratore risponde – senza limiti e in base alle norme generali – dei pregiudizi arrecati al datore di lavoro nel corso dell’esecuzione.

3. Ilcomportamentoextralavoropenalmenterilevanteedeffettidisciplinari

Infine, per concludere gli esempi e le possibili combinazioni tra i tre livelli di responsabilità, si può fare il caso del lavoratore che – fuori dall’orario e dall’ambito di lavoro – commetta un reato o tenga

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un comportamento disdicevole: se la condotta non incide sul vincolo fiduciario non rileverà sul piano disciplinare, quand’anche penalmente rilevante. Immaginiamo un lavoratore che, alla guida della propria automobile, investa una persona e venga poi condannato per lesioni personali. Nessun dubbio che il reato è grave, ma la condotta con ogni probabi-lità non rileverà sul piano disciplinare e il datore di lavoro non avrà motivo per dubitare che in futuro la prestazione lavorativa continuerà ad essere svolta correttamente dal proprio dipendente (pur condan-nato in sede penale per aver causato le lesioni al malcapitato pedone). Diversamente, può capitare che la condotta integrante il reato – sebbene commessa al di fuori dell’am-bito lavorativo – rilevi anche sotto il profilo disciplinare, perché in grado di mettere in discussione la fiducia che il datore di lavoro deve avere nella correttezza del dipendente. Così, con sentenza n.8716 del 17 giugno 2002, la Suprema Corte ha affermato che:“nell’ottica dell’autonomia fra il giudizio civile e quello penale, ha altresì sottolineato come la gravità delle condotte ascritte al F. può avere un sufficiente rilievo disciplinare ed essere idonea a giustificare il licenziamento per giusta causa anche ove le stesse non costituissero reato”. Nella specie, la sentenza di merito impugnata, confermata dalla S.C., aveva ritenuto giusta causa di licenziamento di un dipendente di un istituto bancario l’incriminazione penale per il delitto di spaccio di stupefacenti, sulla considerazione che il coinvolgimento in fatti di droga, nonché la mera detenzione di stupefacenti per uso personale, possano non solo recare discredito al datore di lavoro, ma anche compromettere l’elemento fiduciario sotteso al rapporto di lavoro nel settore bancario, attesa la deli-catezza e responsabilità delle mansioni esercitate. In altre parole, lo spaccio di stupefacenti – sebbene commesso al di fuori dall’ambiente lavorativo – può integrare la gusta causa di licenziamento, quando – per le caratteristiche delle mansioni e del ruolo aziendale del lavoratore – il datore di lavoro convinca il giudice della lesione insanabile del vincolo fiduciario. Sulla base del medesimo principio di tendenziale indipendenza della responsabilità penale e discipli-nare del lavoratore, è possibile anche la situazione inversa rispetto a quella in precedenza menzionata, in cui un comportamento – tenuto fuori dall’ambiente lavorativo – è passibile di essere sanzionato col licenziamento, sebbene non integri una fattispecie di reato (e anche all’esito del procedimento penale il lavoratore venga assolto). Ciò per la ragione più volte accennata che i requisiti oggettivi e soggettivi del reato sono diversi da quelli della sanzione disciplinare. Illuminante a tale proposito è il caso giuri-sprudenziale del lavoratore – licenziato per giusta causa – che aveva prestato denaro dietro notevole interesse a un collega di lavoro e aveva proceduto poi a tutti i conseguenti atti di recupero dei crediti. Tale condotta è stata ritenuta dalla Suprema Corte di gravità tale da turbare l’ordine della compagine aziendale, distolta dai suoi necessari moduli di solidarietà fra compagni di lavoro e di dedizione esclu-siva all’attività di lavoro, e aveva perciò reputato legittimo il recesso del datore di lavoro, anche se il lavoratore era stato assolto in sede penale dal contestato reato di usura. Infatti, afferma la Corte di Cassazione, con sentenza 5 agosto 2000, n.10315:“il giudice del lavoro adito con impugnativa di licenziamento, ove pure comminato in base agli stessi comportamenti che furono oggetto di imputazione in sede penale, non è affatto obbligato a tener conto dell’accertamento contenuto nel giudicato di assoluzione del lavoratore, ma ha il potere di ricostruire autonomamente, con pienezza di cognizione, i fatti materiali e di pervenire a valutazioni e qualificazioni degli stessi del tutto svincolate dall’esito del procedimento penale; ed in ogni caso, poi, la valutazione della gravità del comportamento del lavoratore, ai fini della verifica della legittimità del licenziamento per giusta causa, deve essere da quel giudice operata alla stregua della “ratio” degli art. 2119 c.c. e 1 l. 15 luglio 1966 n. 604, e cioè tenendo conto dell’incidenza del fatto commesso sul particolare rapporto fiduciario che lega le parti nel rapporto di lavoro, delle esigenze poste dall’organizzazione produttiva e delle finalità delle regole di disciplina postulate da detta organizzazione, indipendentemente dal giudi-zio che del medesimo fatto dovesse darsi ai fini penali, sicché non incorre in vizio di contraddittorietà

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la sentenza che affermi la legittimità del recesso nonostante l’assoluzione del lavoratore in sede penale per le medesime vicende addotte dal suo datore di lavoro a giustificazione dell’immediata risoluzione del rapporto”.Riassumendo: qualora da una medesima condotta del lavoratore possano scaturire responsabilità di natura diversa (penale, civile, amministrativa e disciplinare), il giudice chiamato a decidere nell’ambito della propria giurisdizione deve valutarne gli stessi aspetti per soppesarne le conseguenze sotto i diffe-renti profili, alla luce delle regole che ogni disciplina impone di osservare. In particolare, per quel che qui interessa, nel procedimento disciplinare l’indagine del giudice del lavoro sarà finalizzata all’accertamento dei fatti di rilievo disciplinare con modi diversi ed autonomi da quelli che contraddistinguono la ricerca della prova nel processo penale, in quanto tali condotte, ovviamente, possono anche non integrare alcuna ipotesi di responsabilità penale.

4. Larilevanzadelpatteggiamentoinsedepenalenelprocedimentodisciplinare

Fatta questa premessa generale, vediamo i due recenti casi giurisprudenziali che incuriosiscono per la vicinanza delle pronunce e l’esito apparentemente differente a cui giungono. Le due pronunce in com-mento hanno molti elementi in comune: 1. il fatto che il procedimento disciplinare e quello penale cui sono soggetti i lavoratori in questione

vertono sulla medesima condotta contestata; 2. la sanzione disciplinare comminata dal datore di lavoro è in entrambi i casi il licenziamento per

giusta causa; 3. il procedimento penale si conclude in tutti e due i casi con l’applicazione della pena su richiesta

dell’imputato, ossia con un patteggiamento. Di diverso c’è l’esito del processo del lavoro, perché in un caso la Corte di Cassazione ha dichiarato ille-gittimo il licenziamento, confermando la reintegra del dipendente, già pronunciata dai giudici di meri-to; nel secondo caso la Suprema Corte ha confermato invece la legittimità del recesso per giusta causa.L’esito opposto delle due controversie lavoristiche – che si sono concluse a distanza di appena un mese l’una dall’altra – non deve stupire, perché la differenza sta tutta nella valutazione della gravità discipli-nare delle singole mancanze addebitate ai dipendenti (e, del resto, non sarebbe certo una novità che la Corte di Cassazione decida in modo diverso casi analoghi, anche a breve distanza di tempo). Per contro, è interessante che in entrambi i giudizi la Suprema Corte ha confermato il rilevante, seppur non deci-sivo, valore probatorio del patteggiamento nella controversia lavoristica, cosicché, almeno su questo aspetto, si può dire che l’orientamento della Suprema Corte viene a consolidarsi.

Cassazione18febbraio2013,n.3912:equiparazionedelpatteggiamentoallasentenzadicondannaIn ordine cronologico, la prima pronuncia concerne il licenziamento per giusta causa di un dipendente che aveva patteggiato in sede penale una condanna per una colluttazione avuta con un agente muni-cipale, che, mentre era in servizio su un’autovettura aziendale, gli aveva contestato una violazione del codice della strada. I giudici di merito, nei due gradi di giudizio, avevano dichiarato l’illegittimità del licenziamento, trascurando – a detta del datore di lavoro ricorrente in Cassazione – il valore probato-rio della sentenza di patteggiamento ex art.444 c.p.p.. La Suprema Corte ha confermato l’illegittimità del licenziamento, ma, nel farlo, ha condiviso l’argomentazione del datore di lavoro in ordine al valore probatorio del patteggiamento. Nello specifico, il datore di lavoro aveva sostenuto che – in base agli ultimi aquis giurisprudenziali – la sentenza di patteggiamento doveva essere equiparata a una sentenza di condanna, pertanto i fatti contestati dovevano ritenersi ormai definitivamente acclarati e considerati idonei a giustificare il reces-so per giusta causa (nel Ccnl applicato al caso di specie si prevedeva il licenziamento per addebiti cui

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conseguiva una sentenza penale di condanna, purché i fatti costituenti reato assumessero rilievo ai fini della lesione del rapporto fiduciario).Come anticipato, sulla rilevanza del materiale probatorio acquisito nella fase di indagine e nel pro-cedimento penale, la Corte di Cassazione mostra di condividere la posizione della società ricorrente. Infatti, sebbene il patteggiamento ex art.444 c.p.c. non possa considerarsi una sentenza di condanna, è vero – afferma la Suprema Corte – che quando il contratto collettivo fa riferimento alla sentenza penale di condanna passata in giudicato come fatto idoneo a consentire il licenziamento senza preavviso, il giudice di merito può intendere che le parti sociali – nell’usare l’espressione “sentenza di condanna” – si siano ispirate al comune sentire, che a questa associa la sentenza di “patteggiamento” ex art.444 c.p.p.. Con questa scelta processuale l’imputato non nega la propria responsabilità, ma esonera l’accu-sa dall’onere delle relativa prova, in cambio di una riduzione di pena. Tuttavia, continua a trovare applicazione il principio di generale indipendenza tra responsabilità penale e disciplinare, di cui si è detto. Perciò, nonostante il patteggiamento e il cristallizzarsi dei fatti costituenti reato e della responsabilità per gli stessi dell’interessato, questi ultimi – per giustificare il licenziamen-to – devono comunque assumere rilievo ai fini della lesione del vincolo fiduciario, in relazione alla natura del rapporto, alle mansioni, al grado di affidamento che ci si deve aspettare e così via. Nel caso di specie, sostiene la Corte di Cassazione, la Corte Territoriale è incorsa in errore e la sua sentenza va corretta per non aver dato il giusto rilievo al materiale probatorio proveniente dal processo penale, ma la motivazione che sorregge il giudizio d’illegittimità del licenziamento non è viziata, perché non con-tiene carenze o illogicità gravi sugli snodi chiave della decisione. Il controllo che la Corte di Cassazione può fare è limitato alla coerenza logico-formale e alla correttezza giuridica delle argomentazioni svolte, mentre nel caso di specie il datore di lavoro ricorrente aveva chiesto, di fatto, una diversa ricostruzione della vicenda, incompatibile con la fase di legittimità. Sarebbe stato invece necessario – per invalidare la motivazione della sentenza impugnata in Cassazione – segnalare alla Suprema Corte i punti “dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento (…) o determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione”. In altri termini, la difettosa valutazione da parte dei giudici di merito del materiale probatorio di provenienza “penale”, non avrebbe inciso – dice la Corte di legitti-mità – in modo determinante sulla motivazione con cui essi hanno dichiarato legittimo il licenziamento.

Cassazione27marzo2013,n.7675:rilevanzaprobatoriadelpatteggiamentonelgiudiziocivileLa seconda pronuncia in esame riguarda il licenziamento disciplinare per giusta causa comminato a un dipendente reo di consistenti ammanchi di denaro, per i quali era passata in giudicato a suo carico sentenza penale di applicazione della pena (patteggiamento) della reclusione. La Corte di Cassazione ha confermato sia la legittimità del recesso che la condanna del lavoratore al risarcimento dei danni.Per quanto questa controversia lavoristica giunga a diverse conclusioni rispetto a quella precedente-mente esaminata – perché sancisce la legittimità del recesso – la pronuncia non è dissimile quanto ai principi affermati, perché anche in questo caso la Suprema Corte si “rifiuta” di trasformare il terzo grado di giudizio in un’ulteriore fase di merito, sul presupposto che al giudice di legittimità non è dato il potere di riesaminare nel merito l’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale delle argo-mentazioni svolte dal giudice del merito.Quindi, non ravvisando nella motivazione del giudice di merito vizi di illogicità e contraddittorietà, la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte territoriale e, dunque, il giudizio di estrema gravità degli addebiti contestati al lavoratore e di proporzionalità con la sanzione del licenziamento. Ma la parte più interessante della sentenza è certamente quella relativa alla valenza probatoria della sentenza di patteggiamento e delle risultanze istruttorie raccolte nel giudizio penale.

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Sposando un precedente orientamento, non interamente condiviso in giurisprudenza25, la Corte di Cas-sazione ha ritenuto che la sentenza penale di applicazione della pena ex art.444 c.p.p. (c.d. patteggia-mento) costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito, il quale, ove intenda disco-noscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità e il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione, cosicché tale riconoscimento, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall’efficacia del giudicato, ben può essere utilizzato come prova26.Al contempo, sempre in ordine alla valenza probatoria della fase penale per processo del lavoro (civile), la Corte di Cassazione ribadisce come il giudice del lavoro, nell’accertamento della sussistenza dell’ad-debito disciplinare, può fondare il proprio convincimento sulle prove raccolte nel corso delle indagini preliminari, ivi comprese le dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di som-marie informazioni testimoniali, anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento, ove il procedi-mento penale sia stato definito ai sensi dell’art.444 c.p.p., ovvero per intervenuta amnistia, potendo la parte, del resto, contestare, nell’ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale27.Interessanti sono poi le motivazioni della sentenza in esame, nella parte in cui la Suprema Corte – anche qui rifacendosi a un orientamento precedente – ha confermato l’inesistenza, anche in ambito disciplinare, del principio di parità di trattamento. Infatti, all’eccezione mossa dal lavoratore in ordine al fatto che addebiti analoghi a quelli a lui contestati non erano stati puniti col licenziamento, la Cor-te di Cassazione ha risposto che la questione relativa alla pretesa disparità di trattamento con altri dipendenti doveva ritenersi immotivata e inconferente ai fini del decidere, essendo oggetto del pro-cedimento la verifica della sussistenza dei presupposti di legittimità del licenziamento irrogato al ricor-rente, a prescindere quindi dalla posizione assunta dalla parte datoriale pubblica nei confronti di altri dipendenti (eventualmente coinvolti in vicende simili). Al riguardo, occorre rammentare che la Corte di legittimità ha confermato svariate volte che, in materia di sanzioni disciplinari (ancor più che in tema di trattamento economico), il datore di lavoro privato non è vincolato al principio di parità di trattamento, per cui non è tenuto a motivare di volta in volta perché un’analoga inadempienza è stata valutata in modo differente: “ai fini della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento, qualora risulti accertato che l’inadempimento del lavoratore è tale da compromettere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, è irrilevante che analoga inadempienza, commessa da altro dipendente, sia stata diversa-mente valutata dal datore di lavoro, atteso che solo l’identità delle situazioni potrebbe privare il provve-dimento espulsivo della sua base giustificativa, non potendosi porre a carico del datore di lavoro l’onere di fornire, per ciascun licenziamento, la motivazione del provvedimento adottato, comparata a quelle assunte in fattispecie analoghe”28.

5. Indipendenza tra responsabilità penale e disciplinare

In altri termini, nelle due sentenze esaminate è stato ribadito il principio generale secondo cui nel no-stro sistema giuridico v’è sostanziale indipendenza tra responsabilità penale e disciplinare (oltre che civile e amministrativa). E infatti, sebbene entrambe le vicende si siano concluse in sede penale col patteggiamento della pena (ossia con una sentenza equiparabile a una condanna in sede definitiva), i

25 La questione del valore della sentenza di patteggiamento nel giudizio civile è strettamente connessa alla sua natura giuridica; secondo un in-dirizzo giurisprudenziale –opposto a quello seguito dalle sentenze in commento – l’applicazione di pena su richiesta delle parti non comporta un accertamento positivo e costitutivo della responsabilità dell’imputato, ma soltanto la rinuncia di questo a far valere le proprie eccezioni e difese; ne consegue – secondo questa impostazione – che non potrebbe farsi discendere dalla sentenza di cui all’art. 444 c.p.c. la prova della ammissione di responsabilità da parte dell’imputato e ritenere che tale prova sia utilizzabile nel procedimento civile. 26 Cfr., ex plurimis, Cass., nn.19505/03; 10847/07; 23906/07; 24587/10; 26263/11.27 Cfr., ex plurimis, Cass., nn.132/08; 22020/07; 16592/05.28 Cass. 4 aprile 2004, n.5371; nello stesso senso, tra le moltissime, anche Cass. 8 marzo 2010, n.5546.

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processi del lavoro si sono conclusi nel primo caso con la reintegra del lavoratore e, nel secondo caso, invece, con la conferma della legittimità del licenziamento. Invece, quanto alla valenza del materiale probatorio raccolto in sede penale, le due pronunce della Corte di legittimità ne hanno confermato il grado elevato di importanza e attendibilità, senza tuttavia dedurne l’esclusività, essendo sempre possi-bile al lavoratore, in sede civile, convincere il giudice del lavoro a disconoscere tale efficacia probatoria, spiegando le ragioni per cui egli avrebbe ammesso un’insussistente responsabilità e il giudice penale avrebbe prestato fede a tale ammissione oppure ad ammettere nuovi mezzi istruttori. Perciò, di fronte a una sentenza di applicazione della pena su richiesta (patteggiamento), il giudice del lavoro è certamente vincolato dall’esito del procedimento penale sotto il profilo della ricostruzione del fatto storico e della relativa responsabilità del lavoratore, ma ciò non preclude una sua autonoma va-lutazione sull’incidenza dei medesimi fatti sul rapporto di lavoro e sulla proporzionalità della sanzione rispetto all’addebito disciplinare. Proprio in applicazione di tali principi, in altra precedente occasione, la Suprema Corte aveva conferma-to la legittimità del licenziamento di un dipendente pubblico che aveva patteggiato una condanna per il reato di favoreggiamento della prostituzione e pornografia minorile, dando atto, in motivazione, che il lavoratore aveva avuto la possibilità (non sfruttata) nel processo di lavoro di fornire elementi idonei a smentire la gravità sul piano disciplinare della sua condotta. Infatti – afferma la Corte di legittimità – la sentenza penale, se vincola il giudice disciplinare quanto alla ricostruzione del fatto storico e della relativa responsabilità, non preclude un’autonoma valutazione dell’incidenza dei medesimi fatti sul rapporto d’impiego, dovendosi escludere che vi sia incompatibilità tra la necessaria autonomia del pro-cedimento disciplinare, che riflette garanzie fondamentali della persona del lavoratore (quali l’esigenza che nessuna sanzione venga adottata in violazione del principio “audietur et altera pars”, nonché dei canoni di effettiva lesività dell’interesse del datore di lavoro e di proporzionalità e adeguatezza rispetto alla mancanza addebitata) e le connessioni che si instaurano con la giurisdizione penale, in funzione delle esigenze di economicità dei giudizi e di salvaguardia dei principi di imparzialità, correttezza ed efficacia dell’azione della P.A. anche quale datore di lavoro pubblico. Nella specie, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso del lavoratore, rilevando che l’accertamento dei fatti non risultava basato solo sulla sentenza ex art.444 c.p.p. – relativa ai reati di favoreggiamento della prostituzione e pornografia mino-rile – ma anche sugli atti di indagine penale che, in difetto di allegazione da parte del lavoratore nel cor-so del processo penale di una diversa ricostruzione, legittimamente il datore di lavoro aveva ritenuto integrassero una grave violazione dei doveri di servizio “per il coinvolgimento di minori e trattandosi di fatti commessi dal lavoratore nell’edificio scolastico approfittando delle proprie funzioni di custode”29.Su questo tema, la posizione della Corte di Cassazione si è negli ultimi anni assestata soprattutto a seguito della sentenza 18 dicembre 2009, n.336, della Corte Costituzionale, che ha confermato la le-gittimità costituzionale degli artt.445, co.1-bis, e 653, co.1-bis c.p.p., nella parte in cui – equiparata la sentenza ex art.444, co.2, del medesimo codice a una sentenza di condanna – prevede che essa abbia efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità, quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, alla sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso. Le scelte adottate dal legislatore sul versante dei rapporti fra giurisdizioni – dice il giudi-ce delle leggi – non appaiono manifestamente irragionevoli o prive di una qualsiasi causa giustificatrice, giacché se da un lato, con l’avvento del nuovo codice di rito, è tramontato il principio della prevalenza della giurisdizione penale, a tutto vantaggio dell’autonomia dei procedimenti e delle giurisdizioni e della rigorosa limitazione delle questioni pregiudiziali, è altrettanto vero che una “ricomposizione” di sistema doveva essere prefigurata proprio sul versante dei rapporti tra il giudicato penale e le diverse (ma interferenti) sfere di giurisdizione civile, amministrativa o disciplinare davanti alle pubbliche au-

29 Cassazione civile, sez. lav., 19 gennaio 2011, n.1141.

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torità, mentre la scelta del legislatore di mantenere ferma la previgente disciplina con riferimento al giudizio civile o amministrativo di danno non costituisce indice di un’incoerenza normativa, giacché nel giudizio civile o amministrativo di danno si versa in tema di giudizio contenzioso tra parti paritetica-mente contrapposte, per le quali gli effetti extrapenali del giudicato di condanna devono tenere conto della possibilità che entrambe le parti abbiano avuto di “misurarsi” in contraddittorio in sede penale; né sono violati gli artt.24, co.2, e 111, co.2 Cost., in quanto la scelta del patteggiamento rappresenta un diritto per l’imputato, al quale si accompagna la naturale accettazione di tutti gli effetti – sia favorevoli che sfavorevoli – che il legislatore ha tassativamente previsto, tra i quali non irragionevolmente è in-cluso anche il valore di giudicato sul fatto, sulla relativa illiceità e sulla responsabilità, ai fini del giudizio disciplinare davanti alle pubbliche autorità.Se è vero che la pronuncia si riferisce a un ambito specifico, il ragionamento del giudice delle leggi è uti-le per capire e giustificare l’orientamento della Corte di Cassazione in ordine alla valenza del materiale probatorio assunto nel procedimento concluso col patteggiamento. Ovviamente, l’indipendenza tra il piano penale e quello civile-disciplinare vale anche per le ulteriori formule assolutorie, proprio perché i presupposti della responsabilità disciplinare seguono regole di-stinte. In altre parole, se il patteggiamento (o la condanna in sede penale) non comporta necessaria-mente la legittimità del licenziamento irrogato per gli stessi fatti (ferma restando la valenza probatoria dell’istruttoria assunta in sede penale, nei termini sopra evidenziati), è altrettanto vero che la sentenza di assoluzione non significa – automaticamente – l’esclusione della responsabilità disciplinare del la-voratore per gli stessi fatti. Per stare a qualche esempio, oltre a quelli già esposti nei paragrafi prece-denti, è stato correttamente osservato che nel caso di assoluzione o proscioglimento “perché il fatto non costituisce illecito penale” non è esclusa la materialità del fatto né la sua riferibilità al dipendente (pubblico, nel caso di specie), ma solo la sua rilevanza penale; pertanto è stato ritenuto legittimo il li-cenziamento intimato a un dipendente dell’Agenzia delle Dogane che pure era stato assolto nell’ambito di un procedimento penale30. Nello stesso senso, seppur in un caso parzialmente diverso, è stato detto che, nell’ambito del giudizio civile in forza dell’art.654 c.p.p., nessun effetto preclusivo ha l’ipotesi in cui l’assoluzione sia determinata dall’insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o l’attribuibilità di esso all’imputato; ne consegue che, seppure la valutazione disciplinare è autonoma rispetto a quella fatta dall’autorità giudiziaria penale, gli stessi fatti, irrilevanti in sede pe-nale, possono essere invece idonei a ledere i principi della deontologia professionale, dando luogo conseguentemente a responsabilità disciplinare31.

30 Cassazione civile, Sez. lav., 8 gennaio 2013, n.206.31 Corte Appello L’Aquila, Sez. lav., 4 luglio 2011, n.459.

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POTERI ISTRUTTORI D’UFFICIO E LICENZIAMENTO DISCIPLINARE

a cura di Luca Failla

La Corte di Cassazione, con la sentenza del 19 agosto 2013, n.19205, focalizza l’attenzione sui poteri istruttori del giudice, ribadendo il principio secondo il quale il giudice, nel caso in cui reputi insufficienti le prove già acquisite, ha il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori necessari al fine di superare le incertezze dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti.In secondo luogo, in tema di verifica giudiziale della correttezza del procedimento disciplinare, la Corte ribadisce che il principio di proporzionalità tra l’infrazione contestata e la sanzione adottata si concre-tizza nella valutazione della gravità dell’inadempimento del lavoratore, questione attinente al merito che, ove risolta dal giudice di appello con apprezzamento in fatto adeguatamente giustificato e motiva-to, si sottrae al riesame in sede di legittimità.

1. Poteriistruttorid’ufficioelegittimitàdellicenziamentodisciplinare:Cassazionen.19205/13

La Suprema Corte, con la sentenza in commento, ribadisce quell’orientamento giurisprudenziale in base al quale, nel rito del lavoro, allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice ha il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori, al fine di superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione e, ove ritenga insufficienti le prove già acquisite, non può limitarsi a una meccanica applicazione della regola formale del giudizio sull’onere della prova.La vicenda processuale in esame trae origine dalla sentenza dell’11 luglio 2011 della Corte d’appello di Torino la quale, confermando la pronuncia del Tribunale, ha rigettato la domanda della lavoratrice, dipendente della cassa di risparmio di Asti, la quale contestava la legittimità delle sanzioni disciplinari irrogatele, consistenti nella sospensione dal lavoro e dalla retribuzione della durata di 10 giorni e nel licenziamento disciplinare per giusta causa. La prima sanzione conservativa veniva irrogata a seguito dell’autorizzazione, da parte della dipendente, di due addebiti su un conto corrente eseguiti su richiesta di un soggetto non autorizzato ad operare su quel conto; la seconda sanzione “espulsiva” veniva comminata come conseguenza del mancato con-trollo dell’identità di un cliente durante un’operazione di prelievo.I Giudici di merito hanno ritenuto che, in considerazione della gravità dell’inadempimento, le sanzioni risultassero proporzionate al comportamento commesso, a nulla rilevando il differente trattamento riservato ad altri dipendenti per ammanchi di cassa.La lavoratrice contro tale pronuncia ricorreva in Cassazione deducendo, in primis, un abuso dei poteri istruttori d’ufficio, con il conseguente svuotamento del principio secondo cui incombe sul datore di lavoro l’onere di provare la sussistenza degli elementi legittimanti le sanzioni disciplinari in questione, nonché una violazione e falsa applicazione della legge in relazione al procedimento disciplinare di cui all’art.7 della L. n.300/70 e dell’art.2119 c.c. relativo al licenziamento per giusta causa. La pronuncia de qua, nel rigettare il ricorso della lavoratrice, ribadisce che nel rito del lavoro il potere d’ufficio del giudice di cui all’art.421 c.p.c., può superare la preclusione (riguardante le prove costituen-

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de e precostituite), nel caso in cui il giudice, sulla base del potere discrezionale di cui gode nel rito del lavoro, ritenga tali mezzi di prova, non indicati dalle parti tempestivamente, comunque ammissibili poiché rilevanti e indispensabili ai fine della decisione e del giudizio di secondo grado. Infatti, nella sentenza stessa, richiamando precedenti pronunce, viene affermato che:“è carattere tipico del rito del lavoro il contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale, di guisa che, allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice ove reputi insufficienti le prove già acquisite non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o di decaden-ze in danno delle parti”32.è necessario ricordare che nel rito del lavoro, a norma dell’art.421, co.2, c.p.c., il giudice, oltre i mezzi istruttori richiesti dalle parti, può altresì disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche al di fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, ad eccezione del giuramento deci-sorio. Secondo gli ultimi orientamenti giurisprudenziali33, il potere istruttorio d’ufficio può essere esercitato anche quando l’onere di chiedere l’assunzione delle prove incombe sulle parti e queste ne siano deca-dute, oltre che nei casi in cui il giudice ritenga autonomamente di assumere la prova. In materia di prove l’art.437 c.p.c., co.2 (relativo al giudizio di appello nelle controversie di lavoro), prevede che “non sono ammessi nuovi mezzi di prova, tranne il giuramento estimatorio, salvo che il collegio, anche d’ufficio, li ritenga indispensabili ai fini della introduzione della causa”; da ciò si evince chiaramente come nel rito del lavoro è previsto un potere di carattere generale di ammissione delle prove anche d’ufficio.In merito all’interpretazione delle disposizioni del codice di rito sull’ammissione di nuove prove in ap-pello, si ritiene opportuno segnalare le pronunce delle Sezioni unite, rispettivamente con le sentenze del 20 aprile 2005, n.8202, e 20 aprile 2005, n.8203. In particolare quest’ultima sentenza, facente spe-cifico riferimento al rito civile ordinario, si è focalizzata sull’interpretazione della nozione di indispensa-bilità delle nuove prove ai fini della decisione della causa. L’altra pronuncia, relativa al rito del lavoro, ha preso in particolare considerazione gli aspetti specifici di tale rito, sia nel motivare la non giustificabilità di una sottrazione dei documenti al campo di applicazione della regola generale sull’ammissione di nuove prove in appello, sia nell’esaminare i presupposti del superamento in appello delle decadenze in materia probatoria verificatesi in primo grado.Tale pronuncia conclude il suo esame rilevando che tale rito si caratterizza per una diversa individuazio-ne, rispetto al rito ordinario, del punto di equilibrio tra le esigenze di celerità e quelle di accertamento della verità materiale34.Al fine di meglio comprendere la decisione cui è pervenuta la Cassazione con la sentenza in commento, in merito ai poteri di cui gode il giudice nel processo del lavoro, è utile sottolineare la distinzione dei tre modelli processuali esistenti:1. modello dispositivo il quale prevede che le prove possano essere acquisite solo su iniziativa delle

parti;2. modello inquisitorio che pone sul medesimo piano il ruolo svolto dalle parti e quello svolto dal giu-

dice, attribuendo a quest’ultimo gli stessi poteri in ordine alla ricerca dei mezzi di prova;3. modello misto in cui vengono contemperati elementi tipici del modello dispositivo con gli elementi

tipici del modello inquisitorio.

32 Cass. Civ., Sez. Lav., 24 ottobre 2007 n.22305, in Cassazione civile Massimario 2007, 10.33 Cass. Civ. n.13371/12; Cass. Civ., Sez. Lav., 24 ottobre 2007, n.22305, in Giustizia civile massimario 2007, 10.34 In merito vedasi Cass. Civ., 27 luglio 2012, n.13371.

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In Italia vige un modello processuale in cui l’impianto generale dispositivo è semplicemente temperato da una serie di poteri ufficiosi del giudice35. I suddetti poteri, finalizzati al contemperamento del principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale, non possono essere esercitati dal giudice in modo arbitrario e sulla base del suo sape-re privato, ma incontrano alcuni limiti: a) da una parte devono rispettare il principio della domanda e dell’onere di deduzione in giudizio dei

fatti costitutivi, impeditivi o estintivi del diritto controverso; b) dall’altra, devono rispettare, come suddetto, il divieto di utilizzazione del sapere privato da parte

del giudice. Sul punto, la Cassazione è salda nell’affermare che il giudice qualora verta in una condizione di semipie-na probatio, ha il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione36.

2. Il procedimento disciplinare e la proporzionalità tra infrazione e sanzione

In merito al giudizio di proporzionalità tra le infrazioni commesse e le sanzioni irrogate, la Suprema Corte, nella sentenza de quo, rigettando la richiesta della lavoratrice e confermando la legittimità del licenziamento disciplinare irrogatole, ribadisce quell’orientamento costante secondo cui:“il giudizio di proporzionalità tra violazione contestata e provvedimento adottato si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento del lavoratore e dell’adeguatezza della sanzione, tutte questioni di merito che ove risolte dal giudice di appello con apprezzamento in fatto adeguatamente giustificato con motivazione esauriente e completa, si sottraggono al riesame in sede di legittimità”37.A tal proposito è fondamentale richiamare la disposizione di cui all’art.2106 c.c., la quale prevede che l’inosservanza delle norme riguardanti l’obbligo di fedeltà (art.2105 c.c.) e la diligenza del prestatore di lavoro (art.2104 c.c.) può dar luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell’in-frazione.Presupposto necessario per l’attivazione del procedimento disciplinare è la concreta sussistenza del fatto addebitato; in conformità con le regole generali in materia di distribuzione dell’onere della prova (art.2697 c.c.) spetterà al datore di lavoro provare la sussistenza del fatto nonché l’imputabilità dello stesso al prestatore di lavoro .Grava invece sul lavoratore l’onere di difendersi, con la possibilità di provare l’eventuale riconducibilità del fatto a una situazione a lui non imputabile. A garanzia del diritto di difesa del lavoratore, l’art.7 dello Statuto dei Lavoratori ha introdotto precise garanzie procedimentali, indicando i vincoli cui è subordinata l’irrogazione delle sanzioni disciplinari, ossia: la predeterminazione delle infrazioni sanzionabili (co.1, art.7 St.Lav.), la preventiva contestazione al lavoratore dell’addebito e il diritto di difesa (co.2, art.7 St.Lav.), il diritto di assistenza sindacale del lavoratore (co.3, art.7 St.Lav.), la determinazione delle sanzioni (co.4, art.7 St.Lav.), la decorrenza di cinque giorni per l’applicazione delle violazioni più gravi del rimprovero verbale (co.5, art.7 St.Lav.), la possibilità di promuovere l’intervento di un collegio di conciliazione extragiudiziale nei venti giorni suc-cessivi l’applicazione della sanzione disciplinare (co.6, art.7 St.Lav.), la sospensione della sanzione fino alla definizione del giudizio se il datore di lavoro adisce l’autorità giudiziaria, (co.7, art.7 St.Lav.), limite alla rilevanza della recidiva (co.8, art.7 St.Lav.).La norma suddetta sancisce innanzitutto l’obbligo del datore di lavoro di applicare le previsioni dei con-tratti collettivi solo “ove esistano”, ove cioè la regolamentazione del potere disciplinare sia contenuta in

35 Sul punto vedasi P. Bellocchi, Il processo del lavoro, Giuffrè, 2013, 315 ss..36 Cass. Civ. 6 agosto 2012, n.14146.37 Cass. Civ., Sez. Lav. 7 aprile 2011, n.7948, in Giustizia civile Massimario 2011, 4, 554.

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un contratto collettivo applicabile allo specifico rapporto di lavoro. Viene pertanto chiarito che il potere disciplinare compete al datore di lavoro e questi può esercitarlo anche in carenza di regolamentazione collettiva38.In secondo luogo è importante sottolineare che la legittimità del procedimento di irrogazione delle sanzioni disciplinari è subordinata alla previa contestazione degli addebiti e ciò al fine di consentire al lavoratore di esporre le proprie difese in relazione al comportamento ascrittogli.Il diritto di difesa non implica in ogni caso l’obbligo per il datore di lavoro di convocare il lavoratore al fine di permettergli di discolparsi oralmente, atteso che è nella facoltà di quest’ultimo esercitare il suo diritto di difesa nella più completa libertà di forma e, dunque, anche per iscritto o mediante l’assistenza di un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisca o conferisca mandato39. L’addebito deve essere contestato al lavoratore con immediatezza e specificità; in merito la Cassazione ha statuito che:“in materia di contestazione disciplinare di cui al comma 2 dell’art. 7 l. 300/1970, la tempestività della stessa va valutata con riguardo al momento in cui i fatti da contestare appaiano ragionevolmente sus-sistenti, nell’interesse, da un lato, del datore di lavoro a promuovere il procedimento disciplinare una volta acquisiti importanti elementi di fatto della vicenda, e, dall’altro, del lavoratore al più rapido avvio del procedimento, a tutela dell’integrità delle proprie difese e per evitare il perpetuarsi di una situazione di incertezza in ordine alla sorte del rapporto di lavoro”40. Infine, altro principio fondamentale per l’esercizio del potere disciplinare è la proporzionalità tra l’infra-zione commessa e la sanzione inflitta; quest’ultima, in caso di contestazione, è suscettibile di controllo da parte del giudice. La giurisprudenza è conforme nel ritenere che, al fine di determinare la gravità della mancanza posta in atto dal lavoratore, il giudice di merito deve valutare l’intensità dell’elemento intenzionale del com-portamento, considerando tutte le circostanze del caso concreto e la sussistenza del requisito della proporzionalità41.Nella sentenza in commento la lavoratrice denuncia una violazione del principio di proporzionalità tra l’illecito disciplinare e la sanzione irrogatale, ma la Corte ritiene infondato tale motivo di ricorso, poiché in tema di verifica giudiziale della correttezza del procedimento disciplinare, il giudizio di proporzio-nalità tra violazione contestata e provvedimento adottato si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento del lavoratore e dell’adeguatezza della sanzione; questioni di merito, ribadisce la Corte, che ove risolte dal giudice di appello con apprezzamento in fatto adeguatamente giustificato, si sottraggono al riesame in sede di legittimità42.

3. IllicenziamentodisciplinareeladisciplinaintrodottadallaL.n.92/12

Per completezza dell’argomento trattato, pare opportuno ricordare le modifiche apportate dalla L. n.92/12, c.d. Riforma Fornero, sia in merito alle conseguenze giuridiche concernenti l’illegittimità del licenziamento, in base alle nuove disposizioni di cui all’art.18 St.Lav., sia in merito al nuovo rito intro-dotto per l’impugnazione dei licenziamenti ricadenti in regime di tutela reale (sul punto vedasi il Qua-derno n.1 pubblicato dal Ministero del Lavoro, riguardante “Il primo anno di applicazione della legge 92/2012”). Infatti, come è noto, a decorrere dal 18 luglio 2012, alle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi in cui trova applicazione l’art.18 dello Statuto dei Lavoratori si applicano le disposizioni dell’art.1, co.48 ss, L. n.92/12. La stessa legge, al co.67, art.1, specifica che “I commi da

38 Sul punto vedasi F. Carinci, Il rapporto di lavoro subordinato, Utet, 2013, 278.39 Cass. Civ., Sez.Lav., n.1661/08 in Guida al diritto, 2008, 11, 50.40 Cass. Civ., Sez. Lav. 28 novembre 2008, n.28448 in Guida al diritto, 2009, 6, 81.41 Cass. Civ., Sez. Lav., 11 gennaio 1993, n.215 in Rivista italiana di diritto del lavoro, 1994, II, 221, nota di Poso Mammone.42 Cass. Civ., Sez. Lav. 15 novembre 2006, n.24349, in Giustizia Civile Massimario 2006, 11.

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47 a 66 si applicano alle controversie instaurate successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge”. È indubbio, quindi, che la disciplina processuale si applichi alle controversie instaura-te dopo l’entrata in vigore della legge; perplessità sono state sollevate in merito all’applicazione della disciplina sostanziale.Infatti, la L. n.92/12, mentre dispone espressamente che le modifiche processuali hanno effetto solo per i licenziamenti successivi all’entrata in vigore della legge stessa, ovverosia 18 luglio 2012, nulla dispone in merito agli effetti sostanziali. Sul punto, la Cassazione, con la recentissima sentenza del 9 gennaio 2014, n.301, ha affermato, ribadendo quanto già sostenuto da altre pronunce nonché dalla dottrina maggioritaria, che le nuove norme sostanziali contenute nella L. n.92/12 non sono applicabili ai licenziamenti anteriormente intimati: infatti, secondo il ragionamento seguito dalla Cassazione, in considerazione che il citato co.67 prevede espressamente l’applicabilità delle nuove nome processua-li solo alle controversie instaurate dopo l’entrata in vigore della legge stessa, non si può dedurre, a contrariis, che le nuove norme sostanziali in essa contenute siano applicabili ai licenziamenti anterior-mente intimati, concludendo, invece, che quest’ultime seguano, in assenza di un’esplicita disposizione contraria, la regola dell’irretroattività sancita dall’art.11 disp. prel. al c.c., regola cui può derogarsi solo se espressamente previsto da apposita disposizione che, appunto, nel caso de quo manca. Così, infatti, si legge nella citata pronuncia:“in assenza di espressa disposizione derogatoria, il principio di irretroattività della legge previsto dall’art. 11 disp. prev. al c.c. fa sì che la nuova legge non possa essere applicata, oltre ai rapporti giuri-dici esauritisi prima della sua entrata in vigore, a quelli sorti anteriormente e ancora in vita ove, in tal modo, si disconoscano gli effetti già verificatisi nel fatto passato o si venga a togliere efficacia, in tutto o in parte, alle conseguenze attuali o future di esso; ed è appunto questa l’ipotesi del licenziamento già giudicato illegittimo”. “Lo ius superveniens ‒ continua la Corte ‒ è invece applicabile ai fatti, agli status e alle situazioni esi-stenti e sopravvenute alla data della sua entrata in vigore, come statuito dalla giurisprudenza di le-gittimità, secondo cui la nuova legge è applicabile ai fatti, agli “status” e alle situazioni esistenti o so-pravvenute alla data della sua entrata in vigore, ancorché conseguenti a un fatto passato, quando essi, ai fini della disciplina disposta dalla nuova legge, debbano essere presi in considerazione in se stessi, prescindendosi totalmente dal collegamento con il fatto che li ha generati, in modo che resti escluso che, attraverso tale applicazione, sia modificata la disciplina giuridica del fatto generatore43. Passando all’impianto dell’art.18 così come novellato dalla L. n.92/12, si ricorda che esso non prevede più un’unica reazione all’illegittimità del licenziamento, ma predispone un regime sanzionatorio più articolato che distingue diverse tipologie di tutela. Ai licenziamenti disciplinari (per giusta causa e giustificato motivo) ritenuti illegittimi dal giudice per “insussistenza del fatto contestato” ovvero “perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari ap-plicabili” si applica un tutela reintegratoria con indennità limitata. È pertanto prevista la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, ma l’indennità risarcitoria dovuta dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione è limitata a un massimo di 12 mensilità, da cui si detrae non solo l’aliunde perceptum (ciò che è stato altrimenti/in altro modo percepito), ma anche l’aliunde percipie-dum (quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire cercando con diligenza una nuova occupazione). Tale forma di tutela prevista è stata denominata “tutela reintegratoria con indennità limitata”44, in virtù della limitazione dell’indennità risarcitoria dovuta in quanto non si procede alla liquidazione dell’in-dennità “commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento

43 Si veda in merito anche Cass. Civ. 3 luglio 2013, n.16620, in Guida al diritto, 2013, 40, 53.44 F. Carinci, Diritto del lavoro, il rapporto di lavoro subordinato, Utet, 2013.

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a quella dell’effettiva reintegrazione”. Occorre però rilevare che l’impianto sanzionatorio di cui al no-vellato art.18, prevedendo un regime sanzionatorio assai più articolato del precedente, demanda alla magistratura del lavoro la valutazione di taluni concetti (quali, ad esempio l’insussistenza del fatto con-testato), così come di taluni elementi (quali, ad esempio, la corrispondenza o meno del licenziamento disciplinare alle previsioni della contrattazione collettiva ovvero dei codici disciplinari applicabili) di non sempre agevole interpretazione; con ciò accentuando il ruolo interpretativo da parte dei giudici45. Volendo sintetizzare, la giurisprudenza di merito maggioritaria pare considerare il fatto posto alla base del licenziamento in termini di “unicum”, facendo rientrare sia la componente oggettiva che quella soggettiva46. Ai casi di illegittimità del licenziamento disciplinare, fatte salve le ipotesi di insussistenza del fatto con-testato e di previsione di una sanzione conservativa da parte dei contratti collettivi di lavoro, il giudice può riconoscere al lavoratore una tutela indennitaria in una misura che può variare da un minimo di 12 a un massimo di 24 mensilità dall’ultima retribuzione globale di fatto, tenendo conto di varie cir-costanze, quali: l’anzianità di servizio del lavoratore, il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti. L’indennità riconosciuta è onnicomprensiva, comprendente quindi anche i profili previdenziali. Conformemente a quella che è stata l’intenzione del legislatore della riforma, la tutela indennitaria dovrebbe essere considerata la regola generale, in sostituzione della tutela reintegratoria, che resta però applicabile in determinati casi espressamente indicati, tuttavia le numerose pronunzie dal luglio del 2012 ad oggi sono lì a testimoniare che la reintegrazione nel posto di lavoro quale sanzione in caso di licenziamento illegittimo rimane ben presente nel contenzioso sul territorio.In ultimo è necessario ricordare anche che, a seguito delle modifiche apportate dalla riforma all’art.18 dello Statuto, nell’ipotesi di licenziamento inefficace in quanto colpito da un vizio della procedura di-sciplinare prevista dall’art.7 dello Statuto dei Lavoratori, al lavoratore sarà riconosciuta un’indennità compresa tra sei e dodici mensilità, la c.d. tutela indennitaria ridotta47.Ad oggi, quindi, ove il giudice ritenga ingiustificato il licenziamento, non può limitarsi ad annullarlo ordinando la reintegra “piena” come era abituato a fare, ma deve valutare caso per caso quale sia la tutela da riconoscere. Nel caso in esame il giudice ha rigettato le domande del lavoratore, confermando la legittimità del licenziamento disciplinare, sulla base del principio di proporzionalità sopra esplicitato.

45 In merito alle problematiche derivanti dall’art.18 e alle prime soluzioni applicative da parte della giurisprudenza rimandiamo a L. Failla, Il licenziamento disciplinare: le applicazioni giurisprudenziali post Riforma Fornero, in Speciale La Riforma Fornero un anno dopo: l’intervento correttivo del Decreto Lavoro, supplemento a Il giurista del lavoro n.8-9/13; in merito alle pronunce giurisprudenziale si veda M.Barbieri e D.Dalfino, Il licenziamento individuale nell’interpretazione della legge Fornero, Cacucci editore, 2013.46 Tribunale di Bologna, 15 ottobre 2012, secondo cui “nel nuovo testo dell’art. 18, comma 4, della legge n. 300/1970, come novellato dalla leg-ge n. 92/2012, per “insussistenza del fatto contestato” si deve intendere il cd. “fatto giuridico”, cioè il fatto globalmente accertato, nell’unicum della sua componente oggettiva e nella sua componente inerente all’elemento soggettivo, e non invece il solo “fatto materiale"”.47 F. Carinci, Diritto del lavoro, il rapporto di lavoro subordinato, Utet, 2013, 426.

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COMPENSAZIONE TRAMITE CREDITI DEL DANNO CAUSATO DAL LAVORATORE

a cura di Daniele Iarussi

L’articolo, prendendo marginalmente spunto da una recente pronuncia della Suprema Corte (sentenza 29 agosto 2012, n.14688), analizza il controverso tema della compensazione tra risarcimento del danno causato dal dipendente/collaboratore (nel caso oggetto della sentenza, agente) e crediti verso lo stesso. Partendo poi dall’origine e dallo sviluppo della nozione di compensazione, ne individua i tratti distintivi e la sua reale portata nell’ordinamento interno. L’autore ragiona, inoltre, sul concetto di “compensazione impropria”, sui cui la giurisprudenza ha, tal-volta, creato confusione accostando tale “procedimento” giudiziale alla compensazione civilistica, ricer-candone il fondamento dogmatico. Il contributo, infine, non è scevro dall’avanzare rilievi critici in ordine a tale istituto di creazione pretoria.

1. Nozione di compensazione

La recente giurisprudenza di legittimità offre lo spunto per riaprire il dibattito, in realtà mai sopito, che ha a lungo appassionato la dottrina e, soprattutto, la giurisprudenza, sull’interessante tema della compensazione tramite crediti datoriali del danno causato dal lavoratore. La materia coinvolge diritti confliggenti, oltre che importanti principi quale quello della “giusta retribuzione” e della “parità di trattamento” tra creditori.L’indagine deve, inevitabilmente, partire dalla nozione civilistica di compensazione.Com’è ben noto, afferma il nostro codice civile che quando due persone sono obbligate l’una nei con-fronti dell’altra i due debiti si estinguono per le quantità corrispondenti (art.1241 c.c.), qualunque sia il titolo dell’uno o dell’altro debito (art.1246 c.c.)48. In questo senso, la compensazione (la cui natura era stata in passato accostata a istituti “affini” - ad esempio al pagamento, all’exceptio non adimpleti contractus, alla rinuncia bilaterale, alla datio in solutum)49 viene intesa nelle norme riferite sia come fattispecie sia come effetto50. Più precisamente, la compensazione quale modo di estinzione satisfattorio dell’obbligazione è una fat-tispecie ad effetti estintivi nella quale le elisioni dei reciproci debiti per quantità corrispondenti che pre-

48 In argomento, si rimanda alle trattazioni a carattere generale di G. Ragusa Maggiore, voce Compensazione, in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, 17 ss.; P. Schlesinger, voce Compensazione, in Noviss. dig. it., III, Torino, 1967, 722 ss.; P. Perlingieri, “Modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento”, in Comm. cod. civ., a cura di Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1975, 256 ss.; N. Di Prisco, “I modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento”, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, 9, Torino, 1984, 290; G. Zuddas, voce Compensazione, in Enc. giur. Treccani, VII, Roma, 1988, 1 ss.; V. De Lorenzi, voce Compensazione, in Dig. disc. priv., Sez. civ., III, Torino, 1988, 65 ss.; M.C. Dalbosco, “La compensazione per atto unilaterale (la c.d. compensazione legale) tra diritto sostanziale e processo”, in Riv. dir. civ., 1989, I, 357; U. Breccia, Le obbligazioni, in Tratt. dir. priv., a cura di Iudica-Zatti, Milano, 1991, 716 ss.; C.M. Bianca, Diritto civile, 4, L’obbligazione, Milano, 1991, 477; L. Bigliazzi Geri, U. Breccia, F.D. Busnelli, U. Natoli, Diritto civile, 3, Obbligazioni e contratti, Torino, 1992, 177 ss.; E. Guerinoni, in Le obbligazioni, I, di Franzoni (a cura di), Le obbligazioni in generale, Torino, 2004, 507 ss.; F. Galgano, Diritto civile e commerciale, II, 1, Padova, 2004, 104 ss.49 Per un approfondimento si veda G. Ragusa Maggiore, voce Compensazione, cit., 18.50 P. Schlesinger, voce Compensazione, cit., 722; P. Perlingieri, “Modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento”, cit., 256; G. Zuddas, voce Compensazione, cit., 1; C.M. Bianca, Diritto civile, 4, L’obbligazione, cit., 478.

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suppongono l’omogeneità delle prestazioni contrapposte51 sono in funzione reciproca, logica-mente coessenziali e cronologicamente contestuali52. I presupposti economici che giustificano il fenomeno giuridico de quo sono individuabili nel principio dell’economia degli adempimenti53; ovvero nell’age-volazione dei rapporti giuridici e nella maggiore possibilità di soddisfare gli interessi dei creditori54. Vi è dunque un intreccio tra interesse privato e interesse pubblico, il primo insito nel vantaggio per le parti di risolvere le loro questioni e il secondo nell’evitare la moltiplicazione delle liti tra le stesse parti.

2. Creditiedebitinascentidaununicorapportoobbligatorioelororilevanza

La regula iuris che emerge dal provvedimento da cui trae spunto il presente commento afferma che, quando tra due soggetti i rispettivi debiti e crediti hanno origine da un unico rapporto obbligatorio (un rapporto fondamentale, si aggiunga, che indica l’insieme delle obbligazioni sorte al tempo del com-pletamento della fattispecie principale55), non vi è luogo a un’ipotesi di compensazione “propria” ex art.1241 ss. c.c., che presuppone l’autonomia dei rapporti da cui nascono i contrapposti crediti delle parti, bensì ad un mero accertamento di dare e avere (c.d. compensazione impropria)56. La giurisprudenza più recente giunge ad affermare che è del tutto irrilevante la pluralità o unicità dei rapporti posti a base delle reciproche obbligazioni, essendo invece necessario che le obbligazioni, “qua-le che sia il rapporto da cui prendono origine, siano “autonome” ovvero non legate da nesso di sinallag-maticità, posto che in ogni altro caso non vi sarebbe motivo per escludere l’applicabilità della disciplina prevista dall’art. 1246 c.c.”57.Affermata l’esigenza, ai fini della configurabilità della compensazione, dell’autonomia dei rapporti ob-bliga-tori da cui nascono i rispettivi crediti, la Corte ha altresì affermato l’inapplicabilità per il caso, inverso, nel quale i contrapposti crediti abbiano origine da un unico rapporto obbligatorio, delle regole sia processuali (non rilevabilità d’ufficio ex art.1242, co.1 c.c.) sia sostanziali (non compensabilità del credito impignorabile ex artt.1246, n.3 c.c., e 545 c.p.c.; arresto della prescrizione ex art.1242, co.2 c.c.) in tema di compensazione. L’orientamento riferito è piuttosto pacifico nella giurisprudenza della nostra Suprema Corte58, seppu-re alcune pronunce abbiano statuito che è configurabile la c.d. compensazione impropria o atecnica allorché i rispettivi crediti e debiti abbiano origine da un unico rapporto, la cui identità non è pertanto esclusa dal fatto che uno dei crediti abbia natura risarcitoria derivando da inadempimento59. In particolare, la giurisprudenza di legittimità ha fatto applicazione del principio esposto per i con-trapposti crediti derivanti da un contratto di lavoro, con l’ulteriore corollario che l’unicità della fonte obbligatoria e la reciprocità dei crediti tra datore di lavoro e lavoratore sono stati ravvisati anche nel

51 N. Di Prisco, I modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento, cit., 310.52 G. Zuddas, voce Compensazione, cit., 1.53 C.M. Bianca, Diritto civile, cit., 479, che richiama Pomponio (D. 16. 2. 3): “Ideo compensatio necessaria est, quia interest nostra potius non solvere quam solutum repetere”.54 U. Breccia, Le obbligazioni, cit., 717.55 P. Stanzione, voce Rapporto giuridico, II) Diritto civile, in Enc. giur. Treccani, XXV, Roma, 1991, 13; S. Palazzolo, voce Rapporto, I) Rapporto giu-ridico, in Enc. dir., XXXVIII, Milano, 1987, 289 ss.; C.A. Cannata, Le obbligazioni in generale, in Tratt. dir. priv., 9, diretto da Rescigno, Torino, 1984, 18; v. in particolare, con riferimento all’importanza della distinzione tra la nozione di “fonte” e di “titolo” del rapporto, P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, 2006, 528: “Mentre la fonte dell’obbligazione si riferisce, prevalentemente, alla fattispecie in quanto struttura, come atto o insieme di atti e di fatti antecedenti all’effetto, ai quali il legislatore ricollega la produzione di effetti; il titolo ha la sua autonomia rispetto alla fattispecie, pur costituendone la sostanza, la funzione”.56 Per tutte Cass. 25 agosto 2006, n.18498, in Giust. civ., 2006, I, 1990.57 Cass. 29 agosto 2012, n.14688 in CED Cass., 2012. Nello stesso senso Cass., sez. un., 16 novembre 1999, n.775, in Nuova Giur. Civ., 2000, I, 265; Cass. 9 maggio 2006, n.10629, in CED Cass., 2006.58 Cass. civ., 25 novembre 2002, n.16561, in Contratti, 2003, 478; Cass. civ., 17 aprile 2004, n.7337, in CED Cass., 2004; Cass. civ., 3 agosto 2004, n.14808, in CED Cass., 2004; Cass. civ., 29 marzo 2004, n.6214, in CED Cass. 2004.59 Cass. 5 dicembre 2008, 28855 in CED Cass., 2008; Cass. 30 marzo 2010, n.7624, in CED Cass., 2010; Cass. 19 aprile 2011, n.8971, in CED Cass., 2011.

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caso in cui il debito di quest’ultimo sia derivato da obbligazione risarcitoria per fatto illecito60. E, non diversamente, in tema di possesso, nel rapporto tra il possessore che deve restituire i frutti al proprie-tario e quest’ultimo, che deve al primo l’indennità per i miglioramenti61.Nello stesso ordine di idee, si afferma in dottrina la necessità che i debiti e i crediti ineriscano a rapporti giuridici diversi, intercorrenti fra le medesime parti in forza di autonome fonti di obbligazione62. Alla compensazione deve cioè attribuirsi natura di effetti scaturenti da fattispecie non riducibili ad unità63. Non può essere così accostata alla compensazione qualsiasi ipotesi di conteggio di poste attive e passi-ve64. L’autonomia dei rapporti ai quali i crediti e i debiti delle parti si riferiscono è, in definitiva, presup-posto della compensazione65.

3. Fondamentodogmaticodellaricostruzionegiurisprudenziale

Rinvenire negli studi teorici il fondamento dogmatico di tale ricostruzione non è per nulla agevole. Sembra, infatti, che la dottrina prevalente si sia impegnata più a dare giustificazione teorica alla de-scritta tesi giurisprudenziale che a sottoporla al vaglio della critica, al fine di verificarne la coerenza con l’ordinamento positivo. Questa impressione è giustificata dal fatto che, quando in dottrina si analizza l’istituto della compen-sazione, si sostiene che è necessario, come accennato, che i crediti e i debiti delle parti nascano da rapporti giuridici autonomi, perché, altrimenti, “crediti e debiti inerenti allo stesso rapporto costituiscono voci attive e passive che vanno accertate in unico conteggio di dare e avere al di fuori dei limiti posti dalla disciplina della compensazione”66.

Se la compensazione operasse “tra debiti inseriti in un rapporto obbligatorio nascente da un contrat-to con prestazioni corrispettive [...] sarebbe in netto contrasto con la stessa causa del contratto e, quindi, con la funzione cui esso assolve e che consiste nell’assicurare a ciascuna parte la prestazione convenuta”67.Per quanto attiene al rapporto di lavoro, quindi, tali principi inducono a concludere che “non costituisce compensazione in senso proprio, bensì mero conguaglio di dare/avere non soggetto ad alcuna limita-zione, l’operazione che il datore di lavoro compie detraendo dalla retribuzione l’importo corrispondente a un proprio credito verso il lavoratore nascente dallo stesso rapporto di lavoro”68.

A dire il vero, i casi in cui l’unicità del rapporto da cui traggono origini debiti e crediti è stata soltanto presunta, più che accertata, come nelle ipotesi in cui si è esclusa la compensazione in presenza di

60 Per tutte, tra le meno recenti, Cass. 4 luglio 1997, n.6033, in CED Cass., 2007.61 Cass. civ., 12 febbraio 1993, n.1784. In argomento v. le trattazioni di C.M. Bianca, Diritto civile, 6, La proprietà, Milano, 1999, 774; A. Masi, Il possesso e la denuncia di nuova opera e di danno temuto, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, 8, Torino, 2003, 606; R. Sacco; R. Caterina, Il possesso, in Tratt. dir. civ. comm., già diretto da Cicu, Messineo, continuato da Mengoni, Milano, 2000, 463; B. Troisi, C. Cicero, I possessi, in Tratt. dir. civ. Cons. naz. Notariato, diretto da Perlingieri, Napoli, 2005, 118.62 Galgano, Diritto civile e commerciale, cit., 106; D. Barbero, Il sistema del diritto privato, Torino, 2001, 690.63 Si veda P. Rescigno, voce Obbligazioni (nozioni), in Enc. dir., XXIX, Milano, 1979, 204.64 Sul punto Cass. civ., 28 settembre 2005, n. 18947 statuisce che: “tra i risultati di operazioni di segno opposto registrate nel corso di un rapporto di conto corrente non si verifica compensazione, trattandosi di un unico rapporto soggetto, nel suo svolgimento, a modificazioni quantitative, per cui il saldo che da esse consegue è il risultato contabile dei movimenti del conto operati dal correntista nell’ambito della sua disponibilità. È risaputo che gli addebiti e gli accreditamenti sul conto comportano operazioni di conguaglio che non si possono considerare frutto di compensazione, ma costituiscono un semplice effetto contabile dell’esercizio del diritto del cliente di variare la disponibilità del con-to mediante versamenti e prelievi”. Così come accadeva nel diritto romano classico, nel quale la compensatio partendo dalla definizione di Modestino (D. 16, 2, 1: debiti et crediti inter se contributio) indicava l’operazione contabile che determinava l’ammontare della riduzione dei rispettivi crediti e debiti: v. E. Volterra, Istituzioni di diritto privato romano, s.d., 616.65 C.M. Bianca, Diritto civile, 4, L’obbligazione, cit., 487.66 C.M. Bianca, Diritto civile, 4, L’obbligazione, cit., 487-488.67 L. Bigliazzigeri, U. Breccia, F.D. Busnelli, U. Natoli, Diritto civile, 3, Obbligazioni e contratti, cit., 177-178.68 P. Ichino, Il contratto di lavoro, II, Tratt CM, 2003, 245.

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obbligazioni derivanti da rapporti complessi, come quello di lavoro, ovvero in caso di contratti tra loro autonomi, sebbene collegati. Il mero criterio dell’unicità del rapporto (o dell’assenza di autonomia tra le obbligazioni), come sembra ribadire la prevalente giurisprudenza69, non è invero sufficiente ad escludere la compensazione.Il vero limite all’operatività dell’istituto si deve invece rintracciare nella sua funzione estintiva, in quan-to, come è stato osservato, “a fondamento della compensazione [...] vi è il principio della economia degli adempimenti, inteso a evitare che le parti siano costrette l’una verso l’altra ad esigere prestazioni per realizzare un risultato economico direttamente realizzabile mediante il venir meno delle reciproche pretese”70. L’unica ipotesi, quindi, in cui tale interesse non può logicamente configurarsi è quella relativa ad obbli-gazioni legate tra loro da un vincolo di reciprocità e di corrispettività.

4. Ulterioriargomenti“sostanziali”

A sostegno dell’ampliamento del novero delle situazioni da sussumere nella c.d. compensazione im-propria e, dunque, da affrancare dai limiti di cui all’art.545 c.p.c. (sulla limitata pignorabilità dei crediti), milita un argomento sostanziale: può, in determinate circostanze, essere contrario a equità che il lavo-ratore dipendente, licenziato in tronco perché responsabile nei confronti del proprio datore di lavoro per avere causato un danno ingente, possa pretendere l’immediato pagamento dei quattro quinti del trattamento di fine rapporto, in applicazione degli artt.1246 c.c. e 545 c.p.c.. La parte datoriale si troverebbe, infatti, nella condizione di dover adempiere un obbligo a fronte del quale ha un diritto che molto probabilmente non vedrà mai soddisfatto; verrebbe a trovarsi, così, nell’al-ternativa tra licenziare il lavoratore gravemente colpevole, facendogli godere del premio immeritato del pagamento di quattro quinti del Tfr, e rinunciare al licenziamento per poter lentamente recuperare, mediante la ritenuta del quinto sullo stipendio, il risarcimento per il danno subito.Viceversa, in senso contrario all’orientamento giurisprudenziale prevalente, milita l’osservazione che al credito (per lo più di natura risarcitoria o nascente da contratto di mutuo accessorio al rapporto di lavoro) vantato dal datore nei confronti del prestatore di lavoro non può riconoscersi un rango su-periore rispetto al credito vantato verso lo stesso prestatore da qualsiasi soggetto terzo; se, dunque, quest’ultimo subisce il pregiudizio del limite di compensazione, per la salvaguardia della funzione ali-mentare della retribuzione, non si vede per quale motivo lo stesso pregiudizio non debba essere subìto dal credito del datore di lavoro, essendo in gioco anche in questo caso lo stesso interesse alimentare contrapposto e costituzionalmente sovraordinato.

5. Rilievicriticisull’ammissibilitàdell’istituto

Il vero punctum dolens della problematica che attiene alla compensazione impropria sembra proprio essere rappresentato dalla dubbia ammissibilità del ricorso a una tale figura, che va apprezzata - come del resto testimoniato dalla stessa decisione da cui prende spunto questa riflessione - con riguardo alle ricadute, sia di rilievo sostanziale che processuale, che direttamente discendono dall’applicazione dello schema della compensazione atecnica.Tanto si è preoccupata di sottolineare la dottrina più recente, la quale è giunta ad affermare la stessa

69 Cass. 29 agosto 2012, n. 14688 in CED Cass., 2012. Nello stesso senso Cass., sez. un., 16 novembre 1999, n. 775, in Nuova Giur. Civ., 2000, I, 265; Cass. 9 maggio 2006, n. 10629, in CED Cass., 2006.70 C.M. Bianca, Diritto civile, 4, L’obbligazione, cit., 479.

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“inammissibilità di una siffatta forma di compensazione accanto a quella legale, in quanto la compen-sazione c.d. impropria consentirebbe al giudice di disporre dello scopo pratico dell’istituto giuridico svincolandolo, nel contempo, dal rispetto della disciplina inderogabile prevista per quest’ultimo”71.

E rilievi del genere sono stati operati anche dalla dottrina francese, secondo cui, sotto l’apparenza del “compte”, si dà ingresso a una compensazione, per così dire, selvaggia, svincolata cioè dalle regole le-gali che ne definiscono l’ambito di operatività72.Osservazioni che meritano ancor più di essere vagliate, specie considerando che autorevole voce non ha esitato a mettere in dubbio il ragionamento esplicitato dai fautori dell’ammissibilità della figura di compensazione in esame, relativo (per quanto già riferito) alla frustrazione della stessa funzione sinal-lagmatica del contratto (a prestazioni corrispettive), conseguente all’operatività della compensazione (propria) tra debiti derivanti dallo stesso titolo, sostenendo che “non si può escludere in forma assoluta che anche l’immediata, logicamente successiva, estinzione per compensazione non possa soddisfare l’interesse attuativo”, potendo le parti “avere interesse a far risultare l’assunzione e subito dopo l’estin-zione delle reciproche obbligazioni”73.

Tuttavia, per poter affermare l’illiceità74 o meno (per contrarietà a norme imperative)75 del congegno creato dalla giurisprudenza, occorre risalire alla sua intima essenza, al fine di comprendere il perché una figura che si fonda sul presupposto dogmatico della necessaria autonomia dei crediti contrapposti (che non sembra trovare un addentellato normativo) sia assurta a vero e proprio principio giurispru-denziale.È opportuno, in altri termini, «isolare» il principio giurisprudenziale dalla sua premessa, che risulta fuorviante al fine di individuare la ragione pratica sottesa al consolidato orientamento giurisprudenzia-le espressione del principio.Quasi che la problematica vada affrontata dal punto di vista del giudice alle prese con il caso concreto, seguendo un procedimento logico che potrebbe dirsi di tipo entimematico, in quanto si identifica in una sorta di sillogismo privo della premessa maggiore, costituita, appunto, dal “totem” della necessa-ria autonomia dei crediti contrapposti, che non sembra trovare legittimazione nel dettato legislativo76. Procedimento logico, quindi, sganciato dalla sua premessa. Ed è così che è possibile risalire all’essenza ultima di cui è imbevuta la compensazione impropria che, in effetti, si sostanzia in un mero accerta-mento di dare e avere, meglio in una sorta di operazione contabile tra i rispettivi saldi attivi e passivi delle parti, così come del resto avviene nel contratto di conto corrente77. Anzi è proprio la disciplina

71 G. De Santis, “Debiti derivanti da un medesimo rapporto giuridico e applicabilità della c.d. compensazione “impropria””, in Corriere giur., 2007, 813 ss.72 Dei rilievi operati dalla dottrina francese in argomento parla F. Nappi, Contributo alla teoria della compensazione. Per una rivisitazione dell’istituto in una prospettiva transnazionale, Torino, 1999, 98 ss.73 P. Perlingieri, op. cit., 264 ss., il quale evidenzia che “anche se le obbligazioni reciproche costituiscono il nucleo del sinallagma le parti possono poter concordare sia preventivamente che successivamente la compensabilità (art.1252). L’autonomia privata infatti può derogare - quando ciò sia meritevole di tutela - qualsiasi eventuale requisito richiesto dalla legge”.74 Circa i criteri di valutazione dell’illiceità come contrarietà del negozio a norme imperative, ordine pubblico e buon costume, v. Mar. Nuzzo, Negozio giuridico. IV) Negozio illecito, in Enc. giur., XX, Roma, 1988, 3 ss..75 Le norme imperative avrebbero sia naturale processuale (art.1242, co.1 c.c.) che sostanziale (art.1246 c.c.). In proposito, si è affermato come “non sembra molto coerente con la logica del sistema attribuire al giudice, da una parte, la facoltà di far beneficiare le parti, compen-sando in via di fatto, dell’effetto pratico dell’istituto e, dall’altra, di superare i limiti della sua operatività, limiti fondati su di una scelta di valori, relativa ad interessi in conflitto, esclusivamente rimessa a scelte di politica giuridica del legislatore” (G. De Santis, op. cit., 810).76 Cfr Addis, Note introduttive ai Principi Unidroit, in Materiali e commenti sul nuovo diritto dei contratti, a cura di Vettori, Padova, 1999, 930, a fornire esempio circa l’accostamento del procedimento logico che mette capo al giudizio entimematico in rapporto alla decisione del giudice secondo equità, affermando che “l’equità s’identifica essenzialmente con la giustizia del caso concreto, dando luogo ad un giudizio entimematico, vale a dire ad un sillogismo privo della premessa maggiore (la regula iuris generale e astratta)”.77 In questi termini si esprime C.M. Bianca, Diritto civile, 4, L’obbligazione, cit., 487 che rileva come il richiamo al presupposto dell’autonomia dei rapporti ai quali i crediti e i debiti delle parti si riferiscono “è costante in giurisprudenza ed è spiegato nel senso che crediti e debiti inerenti allo stesso rapporto ne costituiscono voci attive e passive che vanno accertate in un unico conteggio di dare e avere, al di fuori dei divieti e dei limiti posti dalla disciplina della compensazione (come nel conto corrente bancario)”.

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positiva dettata per l’operare della compensazione nel conto corrente (art.1853 c.c.) - che potrebbe annoverarsi quale “prototipo” e schema positivo di compensazione impropria - che può tornare utile come dato chiarificatore in ordine all’effettivo rilievo che viene ad assumere la compensazione c.d. atecnica nel sistema giuridico. È infatti significativo, in tale prospettiva, che la norma di cui all›art.1853 c.c., rubricata “compensazioni tra i saldi di più rapporti o più conti”, si riferisce, per l’appunto, come risulta evidente dallo stesso tenore letterale della rubrica, a “più rapporti o più conti”, prevedendo la compensazione automatica (“salvo patto contrario”) tra i “saldi attivi e passivi” relativi a questi ultimi.La legge, quindi, nel fornire la disciplina di quella sorta di compensazione impropria che opera nel rapporto di conto corrente che lega l’istituto creditizio e il cliente, non considera la premessa giuridica da cui, invece, muove il ragionamento seguito dalla giurisprudenza (ossia l’unicità del rapporto da cui originano i rispettivi crediti e debiti), menzionando espressamente “più rapporti o più conti”, quasi a lasciar intendere che la compensazione impropria, in quanto operazione squisitamente contabile tra i “saldi attivi e passivi”, prescinda affatto da qualsivoglia premessa di natura giuridica, tant’è vero che opera automaticamente e, di conseguenza, indipendentemente da qualunque eccezione di parte. Ciò vuol dire che la compensazione impropria non partecipa della natura di alcuna delle tre tipologie di compensazione legislativamente determinate (compensazione legale, giudiziale e volontaria) e, svol-gendo all’estremo il ragionamento, non sarebbe giuridicamente da considerare una compensazione (quale istituto regolato dal codice civile), come indirettamente dimostrato dalle stesse pronunce giu-risprudenziali che hanno portato ad emersione la figura, laddove si evidenzia sempre la circostanza pratico-contabile per cui la compensazione c.d. atecnica si risolve in un mero accertamento di dare ed avere (cui il giudice può quindi procedere senza che sia necessaria l’eccezione di parte o la domanda riconvenzionale)78.Dunque, nel fenomeno della compensazione impropria non vi sarebbe nulla di effettivamente giuridi-co, risolvendosi il tutto in una mera operazione contabile. Se è così, allora, si spiega come la compen-sazione impropria possa anche non andare soggetta alla relativa disciplina tipica della compensazione, senza del resto che ciò rappresenti deroga ad essa e senza che integri una qualche forma di illiceità alle norme inderogabili in materia di compensazione. Una tale spiegazione del fenomeno sembra attagliarsi particolarmente a quelle ipotesi in cui la giurisprudenza ha ravvisato la compensazione impropria nel caso in cui i reciproci crediti al risarcimento dei danni derivino da un unico evento prodotto dalle conco-mitanti azioni colpose di entrambi i soggetti coinvolti, potendo in tal caso la compensazione impropria anche identificarsi con le operazioni di calcolo compiute dal giudice per stabilire l’equo compenso o, comunque, in senso lato, nel potere di equità di cui il giudice può fare uso (ex artt.2056, co.2, e 1226 c.c.) nella valutazione dei danni79.

6. Sortadi“ossimoro”giuridico?

Ebbene, la problematica sottesa alla figura giurisprudenziale della compensazione impropria sembra sostanziarsi nell’elusione delle disposizioni in tema di compensazione legale, che si determina nel mo-mento in cui il giudice procede, d’ufficio, nella sua applicazione.Ciò posto, è dunque ora di domandarsi se tutta la questione non si risolva in un equivoco di fondo, forse da ricercare nella “confusione” nominalistica creata dalla giurisprudenza con il ricorso al termine compensazione per individuare un fenomeno (materiale-contabile) che nulla ha a che vedere con la

78 In tal senso si esprime anche Cass. 29 agosto 2012, n.14688 in CED Cass., 2012, oltre a Cass. 5 dicembre 2008, 28855 in CED Cass., 2008; Cass. 30 marzo 2010, n.7624, in CED Cass., 2010; Cass. 19 aprile 2011, n.8971, in CED Cass., 2011.79 Del resto, non sembra che la spiegazione del fenomeno possa mutare con riferimento a quei casi in cui la tendenza che si palesa con mag-giore evidenza pare quella di applicare la compensazione anche dove ne difettino i presupposti legali di operatività, prima fra tutte le ipotesi nelle quali, in un rapporto di lavoro subordinato, il credito corrispondente al Tfr viene compensato con quello sorto dallo stesso rapporto a favore del datore di lavoro (Cass., 17.4.2004, n.7337, in Rep. Foro it., 2004, Obbligazioni in genere, n. 69; Cass., 25.11.2002, n. 16561, ivi, n. 88).

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compensazione così come disciplinata dal codice civile, quale una tra le modalità di estinzione dell’ob-bligazione diverse dall’adempimento80.La compensazione impropria, infatti, e con questo non si vuole mettere in discussione l’utilità dell’i-stituto, non è altro che un modus procedendi con il quale il giudice, conoscendo di un unico rapporto nella sua totalità, regola le poste attive e passive, di dare e avere, tra i soggetti fra i quali quell’unico - ancorché complesso - rapporto intercorre. Accertamento di un unico rapporto, insomma, che si tra-duce in un unico conteggio di dare e di avere e che il giudice compie al di fuori dei divieti e dei limiti posti dalla disciplina della compensazione (senza che ciò possa integrare una forma di illiceità), proprio perché trattasi di un meccanismo giudiziale che nulla ha in comune con la compensazione in senso tecnico-giuridico, se non il risultato finale a cui perviene.E nella natura, per così dire, “non” giuridica della c.d. compensazione atecnica potrebbe trovare spie-ga-zione anche il perché tale figura non sembra trovare legittimazione - almeno nell’ambito di un’inter-preta-zione letterale - nel disposto del dettato codicistico (art.1246 c.c.), nonché il dato della necessaria unitarietà della fonte da cui derivano i reciproci crediti, richiamato da una certa giurisprudenza quale presupposto per l’operatività della compensazione impropria. Sotto tale aspetto, difatti, si è evidenzia-to come quello individuato costantemente dalla giurisprudenza quale presupposto per il ricorso alla compensazione impropria (ossia l’unicità del rapporto), pare rappresentare soltanto un “dogma”, dal momento che l’unicità della fonte genetica dei crediti reciproci consente al giudice di far uso del potere “contabile” e di equità nel calcolo delle partite di dare e di avere, ma non sembra giustificare la nota scriminante rispetto alla compensazione tout court, che risulta istituto (giuridico) dotato di caratteristi-che sostanzialmente e processualmente differenti.Dunque, la formula “compensazione impropria” pare evocare un ossimoro giuridico, se si considera che, nel nostro ordinamento, la compensazione o è “propria”, ossia quella regolata dagli artt.1241 ss. c.c., oppure, semplicemente, non lo è.Questa sembra la spiegazione più plausibile per tentare di fornire soluzione alla contraddizione espres-sa dalla locuzione “compensazione impropria”, resa palese dal dato inconfutabile che essa giunge allo stesso risultato pratico della compensazione, pur senza soggiacere alle norme che segnano i limiti di operatività dell’istituto compensativo.Contraddizione che potrebbe dipanarsi soltanto ritenendo praticabile la via di un’applicazione analogi-ca - o comunque diretta, per l’assenza del requisito dall’autonomia dei titoli81 - delle disposizioni sulla compensazione (propria) alla figura “atipica” della compensazione impropria82.

80 Diversamente, G. De Santis, op. cit., 812 s., per la quale sarebbe inutile ed inammissibile una distinzione tra una forma di compensazione impropria e quella legale, che avrebbe il solo risultato di svincolare il giudice dal rispetto della disciplina inderogabile prevista per quest’ulti-ma.81 Cfr Addis, La fornitura di beni di consumo: «sottotipo» della vendita?, in Obbl. e contr., 2006, 591, con riferimento alla fornitura di beni di consumo, sottolineando i contorni precisi che individuano l’ambito dell’applicazione diretta, osserva come l’interprete, nell’ipotesi in cui non trovi applicazione la disciplina sulla vendita prima di quella dedicata al contratto in generale, “è semmai chiamato a svolgere l’applicazione pura e semplice, che per tale ragione non ha senso chiamare “diretta”, delle sole regole del tipo cui è realmente riferibile la singola fattispecie che ha prodotto l’effetto della alienazione del bene di consumo” (e ivi la nota 38, in cui si richiama l’autorevole dottrina che ha elaborato il concetto di applicazione diretta, distinguendolo da quello di applicazione analogica). Esempio del criterio di compatibilità (da distinguere rispetto al procedimento analogico) è costituito dalla clausola di compatibilità di cui all’art.2230 c.c., in ordine alla cui breve disamina, anche con riferimento al nesso di compatibilità tra gli artt.2230 e 2226 c.c., sia consentito il rinvio a L. Follieri, Obbligazioni di mezzi e di risultato nella prestazione del progettista-direttore dei lavori, in Obbl. e contr., 2006, 724 ss.82 Così si è infatti al riguardo sostenuto: “allo stato attuale dell’elaborazione della nostra materia è possibile comunque censurare quelle de-cisioni giurisprudenziali che escludono l’applicazione della normativa sulla compensazione (compresi naturalmente i divieti di compensazione) solo sulla base del rilievo della non identificabilità dello schema compensativo. Occorrerebbe invece, come si è detto, (almeno) verificare, in ipotesi per così dire concettualmente contigue, la praticabilità dell’applicazione analogica della disciplina in parola; oppure - ma quest’ultima è un’operazione che richiederebbe un forte supporto dottrinale ed un pericoloso allontanamento dalla logica contrattuale - azzardare un’ap-plicazione della normativa sulla compensazione disancorata dalla logica esclusiva del concetto ed agganciata invece alla logica del tipo - se-condo l’approccio metodologico notoriamente adottato in materia di contratti atipici -, che imporrebbe di verificare, di volta in volta, se una fattispecie concreta estranea al modulo concettuale della fattispecie compensativa, per l’assenza del requisito dell’autonomia dei titoli, sia ciò nondimeno rapportabile alla compensazione come categoria tipologica, con la conseguente applicazione (diretta) della disciplina compatibile con la mancanza del requisito dell’autonomia” (F. Nappi, op. cit., 114).

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Quello che, però, induce ad allontanarsi da una simile soluzione interpretativa attiene non tanto alla premessa sulla quale essa dovrebbe fondarsi, relativa alla teorizzazione circa una pluralità di fattispecie compensative (fra le quali annoverare quella c.d. atecnica), quanto alla circostanza che, così proceden-do, si contravviene alla ragione pratico-contabile, piuttosto che giuridica (per le ragioni già esplicitate), che ha condotto la giurisprudenza ad individuarne la figura, quale procedimento compensativo che prescinda dalle regole che disciplinano, invece, l’operare della compensazione come tipica modalità di estinzione dell’obbligazione diversa dall’adempimento. Un procedimento compensativo, potrebbe dirsi, “essenzialmente non compensativo”. Ecco perché è forse preferibile considerare la c.d compensa-zione impropria quale esempio, fortunato, di “ossimoro” giuridico.

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IL LICENZIAMENTO PER SVOLGIMENTO DI ATTIVITÀ LAVORATIVE O EXTRA-LAVORATIVE DURANTE LA MALATTIA

a cura di Marco Novella

La malattia è uno degli eventi, inerenti alla sfera del prestatore, che impediscono il normale svolgimen-to del rapporto di lavoro. L’impossibilità parziale temporanea determina la sospensione dell’esecuzione della prestazione lavorativa. In ragione della necessità, accolta dall’ordinamento, di tutelare la posizio-ne del lavoratore malato, quest’ultimo, ai sensi dell’art.2110 c.c., conserva il diritto alla retribuzione e, entro il periodo di comporto, alla conservazione del posto di lavoro. Sarebbe tuttavia errato ritenere che, durante il periodo di malattia, e prima del termine del periodo del comporto, il rapporto di lavoro goda di stabilità assoluta. Infatti, nel caso in cui si verifichi “giusta causa” di licenziamento (art.2119 c.c.), secondo l’unanime giurisprudenza, il datore di lavoro può recedere dal contratto senza preavviso, non ostando all’efficacia del recesso lo stato di malattia della controparte. Lo scritto che segue affronta l’ipotesi di gran lunga più discussa nelle aule giudiziarie: quella del licen-ziamento adottato a fronte dello svolgimento da parte del lavoratore di attività lavorative, sportive o ricreative durante la malattia. Secondo l’orientamento giurisprudenziale più diffuso, lo svolgimento di simili attività durante la malattia non costituisce automaticamente giusta causa di licenziamento. Il comportamento del lavoratore può giustificare il recesso per giusta causa quando si riveli incompatibile con lo stato di malattia e/o contribuisca a ritardare la guarigione e il rientro al lavoro del prestatore. In tali casi si ritiene che la condotta sia lesiva dei doveri di correttezza e buona fede che gravano sul prestatore di lavoro.

1. Malattiaelicenziamentopergiustacausa

La malattia del lavoratore determina la sospensione del rapporto di lavoro e inibisce – prima dello spirare del periodo di comporto o della fine della malattia – il potere di recesso del datore di lavoro (art.2110 c.c.). Il licenziamento motivato dalla malattia, e quindi adottato a causa della malattia, è ritenuto, secondo la ricostruzione più diffusa in giurisprudenza, nullo83. è questa, tuttavia, un’ipotesi in concreto marginale, essendo infrequente che il recesso sia motivato con la malattia stessa, salvo il caso, in verità non così insolito, in cui il recesso avvenga nell’erronea convinzione che sia ormai stato superato il periodo di comporto (ad esempio in ragione di un errore nel calcolo del periodo stesso).Oltre al caso del licenziamento nullo perché motivato dalla malattia, il recesso nel periodo protetto, pur motivato da giustificato motivo soggettivo o oggettivo, è ritenuto, per costante giurisprudenza, inefficace fino al termine della malattia o del comporto84. Per lungo tempo tale fattispecie pareva non

83 Cfr. Cass. 2 luglio 2009, n.15501; Cass. 26 ottobre 1999, n.12031; Cass. 8 luglio 1997, n.6171; Cass. 21 settembre 1991, n.9869.84 Cass. 7 gennaio 2005, n.239; Cass. 20 giugno 2003, n.9896; Cass. 4 luglio 2001, n.9037; Cass. 20 dicembre 1997, n.12915; Cass., 26 settem-bre 1994, n.7868; Cass. 14 ottobre 1993, n.10131; Cass. 10 febbraio 1993, n.1657; Cass. 26 febbraio 1990, n.1459; Cass. 2 luglio 1988, n.4394; Cass. 17 dicembre 1987, n.9375; Cass. 29 giugno 1985, n.3909; Cass. 15 marzo 1984, n.1781; Cass. 29 giugno 1981, n.4225; Cass. 19 gennaio

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trovare una specifica disciplina che dettasse le conseguenze sul piano strettamente sanzionatorio (dato che l’inefficacia non rappresenta di per sé una sanzione). Oggi, alla luce dell’art.18 St.Lav., co.7, come riformulato dalla L. n.92/12, l’ipotesi pare disciplinata specificamente, almeno nell’ambito di appli-cazione di tale disposizione. è infatti prevista la reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore ille-gittimamente licenziato durante il periodo di comporto con corresponsione dell’indennità risarcitoria pari, al massimo, a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, dedotto l’aliunde perceptum e l’aliunde percipiendum.Nonostante la presenza dei divieti di licenziamento di cui si è detto, sarebbe un errore ritenere che nel periodo di comporto viga un regime di stabilità assoluta del rapporto di lavoro.Il licenziamento del lavoratore in malattia prima dell’esaurimento del periodo di comporto è infatti ritenuto legittimo ove sia sorretto da giusta causa e tale orientamento è assolutamente robusto e con-solidato in giurisprudenza85. La giusta causa, infatti, per definizione, è causa che non consente la prosecuzione temporanea del rap-porto (art.2119 c.c.). Essa quindi – ove ricorra – non consente la prosecuzione temporanea neppure del rapporto sospeso (ancorché la prestazione lavorativa, nel periodo di comporto, non sia dovuta). L’avere stabilito, in linea di principio, la licenziabilità per giusta causa del lavoratore durante la malattia, non significa tuttavia avere risolto il problema dal punto di vista applicativo.Nel passaggio tra l’elaborazione della regola di diritto e l’applicazione della stessa si produce infatti un’area di incertezza operativa. Tale margine di incertezza non sorprende, dato che la nozione di giusta causa è strutturalmente larga e dai confini non immediatamente identificabili. Il legislatore si limita, nell’art.2119 c.c., a definire come “giusta” (ai fini della cessazione immediata del rapporto, senza pre-avviso) la causa che non consente la prosecuzione provvisoria del rapporto, stabilendo, in negativo, che non costituiscono giusta causa il fallimento dell’imprenditore e la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda. Manca dunque, nell’art.2119 c.c., la definizione di “causa” di licenziamento. La giurisprudenza ha cercato di rimediare all’omissione valutando – come è noto – se la condotta del lavoratore sia idonea a rompere il vincolo fiduciario che lega datore di lavoro e lavoratore. La fiducia, infatti, è assunta ad elemento essenziale del rapporto di lavoro, e la negazione del vincolo fiduciario legittima il recesso per giusta causa86.Ma anche la nozione di fiducia cela ambiguità. Essa può essere intesa in senso soggettivo, e quindi ri-guardare il rapporto fiduciario e personale che lega le parti di un rapporto di lavoro, oppure può essere intesa in senso oggettivo, in relazione alla fiducia del datore di lavoro nel corretto adempimento per il futuro degli obblighi contrattuali87. Ma v’è di più. Si consideri infatti che sovente in giurisprudenza la giusta causa è ricondotta – esplicita-mente o implicitamente – alla categoria delle “clausole generali”. Si ritiene infatti, conformemente alla teoria delle clausole generali, che la regola da applicare al caso concreto sia intenzionalmente devoluta dal legislatore alla decisione del giudice di merito, il quale orienta la propria decisione tenendo presen-ti parametri di giudizio (o standard) extragiuridici (attinenti la sfera sociale, morale, economica etc) o giuridici (cioè ricavati dai principi e dalle trame normative dell’ordinamento)88. Così, ad esempio, nelle pronunce che affrontano la nozione di “giusta causa” di licenziamento, la gravità del comportamento

1981, n.451; Cass. 14 dicembre 1977, n.5447. 85 Cass. 5 novembre 2008, n.26571; Cass. 1° giugno 2005, n.11674; Cass. 25 agosto 2003, n.12481; Cass. 28 settembre 2002, n.14074; Cass. 6 agosto 2001, n.10881; Cass. 20 ottobre 2000, n.13903; Cass. 27 febbraio 1998, n.2209; Cass. 22 febbraio 1995, n.2019; Cass. 2 novembre 1995, n.11355; Cass., 7 giugno 1995, n.6399; Cass. 27 aprile 1992, n.5006; Cass. 14 dicembre 1991, n.13490; Cass. 7 febbraio 1987, n.1314.86 Tra le molte, Cass. 15 febbraio 2008, n.3865; Cass. 8 settembre 2006, n.19270; Cass. 15 maggio 2004, n.4061.87 Cass. 12 aprile 2010, n.8641; Cass. 22 giugno 2009, n.14586.88 Al giudice di legittimità è invece riconosciuta la sindacabilità dell'interpretazione e applicazione delle clausole generali compiuta dal giudice di merito. Secondo la Cassazione, la valutazione compiuta dal giudice di merito, anche quando si configuri quale valutazione integrativa del precetto legale, non si esaurisce in un mero accertamento del fatto, ma si configura come attività di qualificazione del fatto e di sussunzione del fatto nella fattispecie astratta, configurandosi quindi come questione di diritto (e non di fatto), con conseguente possibilità di controllo della eventuale violazione o falsa applicazione della legge e della logicità della motivazione. Così Cass. 18 gennaio 1999, n.434.

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Il licenziamento per svolgimento di attività lavorative o extra-lavorative durante la malattia

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del lavoratore è talvolta ragguagliata al rispetto della regole della c.d. civiltà del lavoro, ricavate dai giudici dai principi generali dell’ordinamento e dall’osservazione delle regole di comportamento vigenti nella realtà del mondo del lavoro89.

2. Losvolgimentodiattivitàlavorativa,ricreativaosportivadurantelamalattia

Tanto detto, ci si potrebbe attendere che le controversie relative al licenziamento per giusta causa del lavoratore malato si giochino sul filo della nozione di giusta causa, e più precisamente sul filo del con-cetto di vincolo fiduciario. In realtà, se si considera la fattispecie largamente più rilevante nella materia che ci occupa, quella cioè della licenziabilità per giusta causa del lavoratore che svolga attività (lavorative o anche ricreative o sportive) durante il periodo di malattia, ci si avvede che, almeno formalmente, così non è. La massima ricorrente in materia recita infatti: ”lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una fraudolenta simulazione, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio”90.Il richiamo alla lesione del vincolo fiduciario non è dunque esplicitamente presente.Il motivo di questa assenza può forse rinvenirsi nella volontà dei giudici di negare la sussistenza di qualsiasi automatismo tra lo svolgimento di attività durante il periodo di malattia e la giusta causa di licenziamento. Il mero svolgimento di attività durante la malattia non è infatti considerato – per giurisprudenza con-solidata – comportamento di per sé integrante gli estremi della giusta causa di licenziamento91. In altri termini, il fatto che il lavoratore ammalato si dedichi ad altri lavori o ad altri impegni di carattere non lavorativo non è necessariamente sintomo di una lesione del vincolo fiduciario. Pare superato il vecchio orientamento che, invece, riconduceva la fattispecie alla giusta causa, intravedendovi tout court una lesione del vincolo fiduciario92.Secondo i giudici, affinché sia integrata la giusta causa di licenziamento occorre che l’attività compiuta durante la malattia riveli la simulazione fraudolenta della malattia oppure contribuisca a ritardare la guarigione del lavoratore o addirittura la pregiudichi.In applicazione di tale principio, in una recente occasione è stato ritenuto illegittimo il licenziamento del dipendente di un’azienda che era stato notato, in tre giornate nelle quali era assente dal lavoro per malattia, abbigliato da cacciatore93. L’attività svolta, in questo caso extra-lavorativa, secondo la Corte non costituiva indice di scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute e ai relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione. Anche nel caso deciso dalla Cassazione il 6 dicembre 2012, con sentenza n.21938, l’attività svolta dal dipendente durante la malattia non è stata giudicata tale da ritardare la guarigione. In particolare: nel periodo oggetto di indagine non si era registrata una continuità nell’esercizio dell’attività fisica e lavo-rativa svolta dal dipendente, tanto che si era potuto constatare che, per più della metà dei giorni di

89 Cass. 18 gennaio 1999, n.434. 90 Cass. 21 aprile 2009, n.9474; Cass. 14 settembre 2012, n.15476; Cass. 29 novembre 2012, n.21253; Cass. 8 marzo 2013, n.5809; Cass. 22 febbraio 2013, n.4559.91 Per tutte, Cass. 27 febbraio 2008, n.5106.92 Cass. 14 giugno 1985, n.3578; Cass. 29 luglio 1986, n.4868.93 Cass. 28 febbraio 2014, n.4869.

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controllo da parte di un investigatore privato, il dipendente non aveva nemmeno svolto una concreta attività che potesse anche solo ipoteticamente recare nocumento alla sua guarigione o apparire lesiva dei principi di buona fede e correttezza verso il datore di lavoro, mentre solo per tre giorni il medesimo aveva svolto attività edili per il suo fondo e sul terreno circostante.Ma in una fattispecie simile, decisa sempre dalla Corte di Cassazione (sentenza 22 febbraio 2013, n.4559), la conclusione è stata opposta. Nel caso, infatti, è stato ritenuto che l’attività del lavorato-re assente a causa di lombalgia, il quale si era recato a caccia in due diverse mattine, esponendosi a temperature fredde, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, potesse pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio.Non sfugge che, se portato alle estreme conseguenze, il ragionamento della Corte di Cassazione, se-condo cui ad essere rilevante non è il fatto in sé di svolgere attività (lavorativa o extra-lavorativa) nel periodo di malattia, ma l’effetto eventualmente da essa prodotto di ritardare la guarigione, possa con-durre al risultato, a prima vista paradossale, di ritenere esercitabili durante la malattia tutte le attività fisiche funzionali al pieno recupero dello stato di salute. E, in effetti, non mancano casi nei quali i giudici seguono proprio tale ragionamento.Si consideri, ad esempio, la controversia decisa da Cassazione 8 marzo 2013, n.5809. La dipendente, che era assente per infortunio a una caviglia, aveva svolto attività lavorativa presso un bar appartenen-te a una società di cui era socia, limitandosi a fare gli scontrini alla cassa con impegno modesto, anche per lo scarso afflusso di clienti, senza alcun pregiudizio per la sua guarigione. L’attività era limitata ai tre giorni finali del periodo di malattia e, secondo la valutazione del giudice di merito, non solo non aveva interferito con la guarigione, ma, anzi, il moderato esercizio svolto poteva dirsi funzionale al pieno re-cupero fisico94.

3. Potenzialitàlesivadellacondotta,oneredellaprova

In sintesi, dunque, lo svolgimento di attività durante la malattia non costituisce comportamento tale da rendere sempre e comunque legittimo il licenziamento. Per integrare gli estremi della giusta causa, il comportamento deve essere tale da poterne dedurre una simulazione fraudolenta della malattia o comunque essere tale da posticipare la guarigione del malato. A tale ultimo proposito occorre aggiungere, rispetto a quanto sinora detto, due ulteriori osservazioni.

La prima riguarda la valutazione dell’impatto dell’attività svolta dal lavoratore malato sui tempi di guarigione. Secondo l’orientamento prevalente, quel che conta ai fini di tale valutazione non è l’effetti-vo ritardo prodotto, ma l’idoneità in astratto del comportamento a produrre il ritardo. La valutazione di tale pregiudizio o ritardo – è infatti precisato dai giudici – avviene “con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte”, rimanendo indifferente, ad esempio, se il lavoratore abbia effettivamente ripreso il lavoro al termine del periodo di malattia. Ad essere rilevante è dunque il mero aggravamento potenziale95.

La seconda osservazione riguarda invece l’onere della prova. La Cassazione ha recentemente affer-mato (sentenza 28 febbraio 2014, n.4869) che la prova dell’idoneità della diversa attività lavorativa o extralavorativa a ritardare o pregiudicare la guarigione nel corso della malattia, è a carico del datore di lavoro. Se da un alto, dunque, rilevano anche le potenzialità lesive della condotta del lavoratore (sotto il profilo del possibile ritardo nella guarigione), è il datore di lavoro che deve assolvere al relativo onere proba-torio.

94 Nello stesso senso, tra le più recenti, Cass, 15 ottobre 2013, n.23365.95 Cass. 19 dicembre 2006, n.27104.

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Il licenziamento per svolgimento di attività lavorative o extra-lavorative durante la malattia

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L’orientamento però non è consolidato, se è vero che in precedenti pronunce96 è stato ritenuto invece gravare sul lavoratore la prova della compatibilità dell’attività svolta con la malattia e con il recupero dello stato di salute.

4. Violazionedeidoveridibuonafedeecorrettezzadellavoratore

Qualche riflessione, infine, merita di essere formulata con riferimento alla costruzione teorica che pare sottostare all’adozione, da parte della giurisprudenza, della massima più diffusa. Secondo quest’ultima, il licenziamento può ritenersi legittimo in quanto, attraverso la fraudolenta simulazione della malattia o il comportamento volto a prolungare i tempi della guarigione, si configura “violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà e dei doveri generali di correttezza e buona fede”. La formula utilizzata, di non immediata decodificazione, merita di essere meglio chiarita.Si consideri, anzitutto, il riferimento agli obblighi di diligenza e di fedeltà.Relativamente all’obbligo di diligenza, occorre osservare che la prestazione, in malattia, è sospesa. Dunque, di violazione di obblighi di diligenza può parlarsi con riferimento non all’esecuzione della pre-stazione lavorativa, per il semplice fatto che la prestazione non è dovuta, ma in relazione agli obblighi preparatori o accessori della prestazione. Tali obblighi, nei casi che ci interessano, possono ritenersi violati, ad opinione della Cassazione, ove la condotta del lavoratore rallenti o pregiudichi la guarigione, allontanando la ripresa del lavoro.Relativamente all’obbligo di fedeltà si può osservare che se il richiamo dovesse essere inteso a una con-cezione ristretta di quest’ultimo, quale risultante dalla lettera dell’art.2105 c.c., si dovrebbe concludere che le sole attività svolte durante la malattia configuranti violazione dell’obbligo di fedeltà sarebbero quelle che violano i divieti di divulgare dati e di agire in concorrenza con il datore. Ma questa nozione di obbligo di fedeltà non riuscirebbe a “catturare” la maggior parte delle condotte contestate. Pertanto, o si ritiene che il richiamo all’obbligo di fedeltà sia poco più che rituale, oppure si ammette che, seppure in modo implicito, i giudici accolgano una nozione “allargata” ed extra-testuale dell’obbligo di fedeltà, che si avvicina all’idea di “fedeltà aziendale”. E, così facendo, riattribuiscono, seppure in modo implici-to, rilevanza alla lesione della componente fiduciaria del rapporto di lavoro quale elemento essenziale del contratto. Volendo sintetizzare, si potrebbe dire che il lavoratore che simula la malattia o che, con il proprio comportamento, prolunga i tempi di guarigione, ha un comportamento “non fedele” nei con-fronti dell’azienda, e dunque può essere licenziato. Se si passa poi a considerare il riferimento, anch’esso presente nella massima sopra riportata, alla vio-lazione dei doveri generali di correttezza e buona fede, emerge come sia volontà dei giudici concedersi uno spazio di decisione che permetta, in ragione della peculiarità del caso di specie, di valutare se la condotta del lavoratore, pur conforme agli obblighi di diligenza e di fedeltà, sia comunque contraria alla clausole generali di correttezza e buona fede.L’impressione che se ne deriva è che, in concreto, l’autentico parametro di valutazione sia, in molte circostanze, proprio quello della buona fede e della correttezza, che addirittura, in ragione della sua ampiezza, pare assorbire sia la fattispecie della violazione degli obblighi preparatori della prestazione sia quella della violazione dell’obbligo “allargato” di fedeltà. In ogni caso, il richiamo congiunto degli obblighi specifici e generali del lavoratore ha l’effetto di rico-noscere largo spazio al giudice, sino a consentirgli una valutazione secondo il parametro di giudizio formalmente non citato: e cioè la negazione dell’elemento fiduciario del rapporto di lavoro. Non ogni attività compiuta durante la malattia rompe il vincolo fiduciario, ma se la condotta rivela la simulazione della malattia o ne ritarda la guarigione, allora il licenziamento è legittimo.

96 Cass. 19 dicembre 2000, n.15916; Cass. 13 aprile 1999, n.3647; Cass. 29 luglio 1998, n.7467.

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