Risarcimento Da Ingiusta Detenzione Due Casi Della Giurisprudenza
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Progetto Giuristudiando - Forum dei Diritti
Risarcimento da ingiusta detenzione.
Due casi dalla giurisprudenza
05/10/2011
Giuristando
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Collage di documenti per le esercitazioni di laboratorio
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A. LA PERSONA FISICA - I diritti della personalità
Rif. Indice generale delle questioni A1a
a. PRIMA QUESTIONE (A1a)
Indice dei documenti del fascicolo:
Parte comune ai vari casi:
Prospettazione di due casi normativamente simili;
Documento allegato n. 1 (Commento a sentenza della Corte diCassazione tratto da Cassazione.it);
Documento allegato n. 2 (Approfondimenti teorico-pratici
tratti dal sito del Ministero della Giustizia e della Corted’Appello di Catania);
Documento allegato n. 3 (Approfondimenti teorico-praticitratti dal sito della Corte d’Appello di Catania);
Documento n. 4 (testo integrale di sentenza della Corte diCassazione, tratto dal sito Penale.it)
Parte relativa al primo caso (TIZIO contro/ STATO ITALIANO):
Memorie del primo caso
Memorie di replica del primo caso
Parere di Giuristando nel primo caso
Atto di impugnazione nel primo caso
Parte relativa al secondo caso (CAIO / STATO ITALIANO)
Memorie del secondo caso
Memorie di replica del secondo caso
Parere di Giuristando nel secondo caso
Atto di impugnazione nel secondo caso
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PROSPETTAZIONE DEI CASI:
Più alta l’indennità per l’ingiusta detenzione ai giovani
incensurati
Primo caso:
Tizio, ventenne, viene accusato di rapina e detenuto in carcere a
titolo di custodia cautelare, in quanto i giudici temono che possa
occultare le prove del reato. Il processo si conclude però con il
proscioglimento dell’imputato per non aver commesso il fatto.
Tizio ha però nel frattempo subito delle perdite: oltre ad aver
ingiustamente scontato un lungo periodo di carcerazione
preventiva, è stato licenziato dal posto di lavoro, è stato lasciato
dalla moglie e non riesce più a mettersi in contatto con i suoi amici,che sistematicamente non gli rispondono al telefono, e si sente
depresso.
Può Tizio fare causa allo Stato per avere il risarcimento di alcune
delle seguenti voci di danno:
danno morale soggettivo,
danno biologico
danno esistenziale?
Secondo caso:
Caio, ventenne, viene accusato di estorsione e detenuto in carcere
a titolo di custodia cautelare, in quanto i giudici temono possa
ripetere azioni di questo genere essendo individuo già dichiarato
socialmente pericoloso. Il processo si conclude però con il
proscioglimento dell’imputato perché il fatto non costituisce
reato.
Caio ha però nel frattempo subito delle perdite: lamenta di non
venire assunto da alcun datore di lavoro, di non avere un rapporto
sereno con la moglie e con i figli, di vivere in una continua
situazione di agitazione e di stress e di aver contratto una patologia
reumatica durante il periodo di ingiusta detenzione.
Può Caio allora fare causa allo Stato per avere il risarcimento di
alcuna delle seguenti voci di danno:
danno morale soggettivo,
danno biologico,
danno esistenziale?
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Documento allegato n. 1
CASSAZIONE - MERCOLEDI' 27 GENNAIO 2010
Lievita l’indennità per l’ingiusta detenzione di persone giovani e incensurate.
Infatti, oltre al calcolo aritmetico il giudice deve aggiungere anche i danni
sopportati dal ragazzo sia sul piano fisico che su quello morale.
Lo ha sancito la Corte di Cassazione che, con una sentenza destinata
all’ufficio del massimario, ha sottolineato l’importanza della valutazione
equitativa dei danni sofferti in caso di ingiusta detenzione confermando la
decisione della Corte d’Appello di Napoli che per tre giorni di carcere e undici di
detenzione domiciliare aveva previsto un indennizzo (in favore di una giovaneuniversitaria incensurata) di oltre 33 mila euro.
"Posto che quel il criterio aritmetico - si legge in sentenza - deve essere
tenuto presente quanto meno come dato di partenza della relativa valutazione
indennitaria ponendosi esso come dato oggettivo di equità valutabile dal giudice,
anche in riferimento alle modalità, più o meno affllittive, della detenzione - ove il
giudice intenda sensibilmente discostarsi dalla misura dell'indennizzo in tal guisa
determinabile, deve fornire adeguata motivazioni idonea a dare contezza delle
circostanze specificamente apprezzate, sotto il profilo personale e familiare, che aquel sensibile allontanamento abbiano condotto; motivazione che non richiede
necessariamente espressioni particolareggiate - trattandosi pur sempre di una
liquidazione indennitaria e non risarcitoria equitativa - ma che, nondimeno,
deve sufficientemente svolgersi in maniera, pur se sintetica, tuttavia tale da
consentire il controllo di' legittimità sulla logicità del convincimento espresso.
Vero è, in sostanza, che la liquidazione dell'indennizzo in questione deve dal
giudice essere effettuata in via equitativa; ma il giudice stesso, nell'esercitare in
concreto tale potere discrezionale, deve pur sempre dare adeguata e congrua
contezza della propria statuizione indicando il processo logico e valutativo seguito
e solo quando la motivazione del provvedimento dia adeguata ragione di tanto, il
convincimento espresso non è suscettibile di sindacato alcuno in sede di
legittimità, ex art. 606.1, letta e), c.p.p." (Casi di ricorso per Cassazione).
In questo caso, i giudici hanno ritenuto di liquidare in favore della ragazza,
in aggiunta alla somma determinata sulla base del mero calcolo aritmetico, una
somma ulteriore, pari a circa 33.000,00 euro, per le conseguenze personali e
familiari derivate dalla detenzione – anche in considerazione della giovane età di
lei e della sua condizione di studentessa incensurata - nonché per le conseguenze
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dannose subite, sul piano fisico e psichico, quali documentate anche per quel che
riguarda la loro riconducibilità alla sofferta detenzione.
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Documento allegato n. 2
Dal sito del Ministero della Giustizia:
Ingiusta detenzione
La custodia cautelare è ingiusta (art. 314 codice di procedura penale,
1°comma) quando un imputato all’esito del processo viene
riconosciuto innocente per:
non aver commesso il fatto;
perché il fatto non costituisce reato;
perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
La custodia cautelare è illegittima quando questa è stata vissuta
da un imputato prosciolto per qualsiasi causa, o da un condannatoche nel corso del processo è stato sottoposto a custodia cautelare
senza che ne sussistessero le condizioni di applicabilità. (art. 314 c.p.p.,
2° comma).
La domanda per avviare l’azione di riparazione va proposta
dall’interessato presso la Corte d’Appello competente.
La domanda deve essere proposta entro due anni:
dal giorno in cui la sentenza di proscioglimento o di
condanna è diventata irrevocabile; da quando la sentenza di non luogo a procedere
diventa inoppugnabile;
da quando il provvedimento di archiviazione viene
notificato alla persona interessata.
Chi ha subito una ingiusta detenzione ha la possibilità di fare richiesta
di equa riparazione.
L’entità della riparazione non può eccedere € 516.456,90.
(..)
Scheda pratica (dalla stessa fonte):
Chi è stato sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere
ed è stato poi, all’esito del procedimento penale, prosciolto con
sentenza di assoluzione diventata irrevocabile, ha diritto a ricevere un
equo risarcimento del danno subito.
Stesso risarcimento spetta a:
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- chi ha patito ingiustamente carcerazione per effetto di un ordine di
esecuzione erroneo
- chi ha subito custodia cautelare in carcere sulla base di un
provvedimento emesso o mantenuto in mancanza delle condizionirichieste dalla legge, sia in caso di successiva assoluzione che di
condanna.
Inoltre, chi è stato licenziato dal posto di lavoro che occupava prima
della custodia cautelare e per tale causa, ha diritto di essere
reintegrato nel posto di lavoro se viene pronunciata in suo favore
sentenza di assoluzione, di proscioglimento o di non luogo a procedere
ovvero viene disposta l’archiviazione.
Il ricorso va proposto (a pena di inammissibilità) entro due anni dalgiorno in cui la sentenza di assoluzione o condanna è diventata
definitiva alla Corte d’appello nel cui distretto è stata pronunciata la
sentenza.
Si applicano le norme per la riparazione dell’errore giudiziario.
E’ obbligatoria l’assistenza di un legale munito di procura speciale.
La parte che si trovi nelle condizioni di reddito previste dalla legge può
chiedere il patrocinio a spese dello Stato.
Normativa di riferimento:
artt. 314 - 315 - 629 c.p.p.;
art. 102 disp.att. c.p.p.
Art. 5 comma 5 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle libertà fondamentali,
firmata a Roma il 4 novembre 1950 (Testo coordinato con gli
emendamenti di cui al Protocollo n. 11 firmato a Strasburgo l'11
maggio 1994, entrato in vigore il 1° novembre 1998).
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Documento allegato n. 4
(Fonte: dal sito internet Penale.it)
Corte di Cassazione, Sezione IV Penale, Sentenza 11 luglio 2007
(dep. 29 ottobre 2007), n. 39815
Riparazione per ingiusta detenzione: il danno esistenziale non costituisce voce autonoma di
pregiudizio indennizzabile in quanto si esaurisce nella stessa privazione della libertà personale
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. COCO Giovanni Silvio - Presidente
Dott. CAMPANATO Graziana - Consigliere
Dott. BRUSCO Carlo Giuseppe - Consigliere
Dott. ROMIS Vincenzo - Consigliere
Dott. FOTI Giacomo - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da B.D., nato a ...
contro
Ministero dell’Economia e delle Finanze;avverso l'ordinanza 23 giugno 2005 della Corte d'Appello di Catanzaro;
Sentita la relazione del Consigliere Dott. Brusco;
Lette le conclusioni del Procuratore generale con le quali si chiede l'annullamento con rinvio dell'ordinanza
impugnata.
La Corte
OSSERVA
1) Il provvedimento impugnato.
La Corte d'appello di Catanzaro, con ordinanza 23 giugno 2005, ha riconosciuto a B.D. il diritto alla riparazioneper l'ingiusta detenzione subita, dal 5 luglio 2001 all'8 luglio 2002 (per 368 giorni), a seguito dell'applicazione,
nei suoi confronti, della misura cautelare della custodia in carcere per reati dai quali era stato
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successivamente assolto con sentenza divenuta definitiva.
La Corte ha escluso che l'istante avesse dato causa alla detenzione per dolo o colpa grave e che fossero state
provate conseguenze diverse dalla mera detenzione; in particolare ha escluso che la detenzione avesse
provocato un danno all'immagine dell'istante in considerazione della sua pericolosità sociale
emergente dai numerosi precedenti penali.Ha quindi, la Corte di merito, liquidato l'indennizzo in Euro 54.000,00, non provvedendo sulle spese tra le
parti per non esservi stata opposizione all'accoglimento della richiesta da parte del Ministero convenuto.
2) I motivi di ricorso.
Contro questa ordinanza ha proposto ricorso B.D. il quale ha dedotto un unico motivo di censura nei confronti
dell'ordinanza impugnata denunziando la violazione degli artt. 314 e 315 c.p.p., nonchè la contraddittorietà e
insufficienza della motivazione, con riferimento ai criteri utilizzati per determinare l'indennizzo riconosciuto.
In particolare, secondo il ricorrente, la Corte di merito si sarebbe limitata a valorizzare esclusivamente la
durata e la forma della misura sofferta senza prendere in considerazione le conseguenze ulteriori dell'ingiusta
detenzione subita limitandosi ad affermare l'inesistenza della prova di tali conseguenze e senza considerare
che esistono conseguenze della detenzione che costituiscono una conseguenza normale di essa per le quali
non è richiesto di fornire la prova della loro esistenza.
Secondo il ricorrente tra queste conseguenze dovrebbe essere ricompreso il danno esistenziale invece
erroneamente disconosciuto dalla Corte di merito.
Con memoria successivamente depositata il difensore del ricorrente ha insistito sulle considerazioni svolte in
ricorso - ed in particolare sulla necessità che la riparazione ricomprenda anche il danno esistenziale - e ha
richiamato recenti pronunce della Corte di Cassazione Civile e del Consiglio di Stato in merito al
riconoscimento di questa tipologia di danno con particolare riferimento al danno derivante dalla forzata
astensione dai rapporti sessuali tra coniugi.
3) Natura della riparazione e criteri di liquidazione dell'indennizzo.
Va premesso che la riparazione per l'ingiusta detenzione, come quella per l'errore giudiziario, non
ha natura di risarcimento del danno ma di indennità o indennizzo e trova il suo fondamento su principidi solidarietà sociale per chi sia stato ingiustamente privato della libertà personale.
L'origine solidaristica della previsione dei due casi di riparazione non esclude però che ci si trovi in presenza di
diritti soggettivi qualificabili di diritto pubblico cui corrisponde, specularmente, un'obbligazione dello
Stato da qualificare parimenti di diritto pubblico.
Il criterio seguito dalla legge, diretto ad escludere una tutela obbligatoria di tipo risarcitorio, risponde ad una
precisa finalità: se il legislatore avesse costruito la riparazione dell'ingiusta detenzione come risarcimento dei
danni avrebbe dovuto richiedere, per coerenza sistematica, che il danneggiato fornisse non solo la
dimostrazione dell'esistenza - nelle persone che hanno concretamente agito - dell'elemento soggettivo,
fondante la responsabilità per colpa o per dolo, ma anche la prova dell'entità dei danni subiti.
Ciò si sarebbe peraltro posto in un quadro di conflitto con l'esigenza (fondata non solo su una precisa
disposizione della nostra Costituzione - art. 24, comma 4 - ma anche sull'art. 5, comma 5 della Convenzione
europea dei diritti dell'uomo, oltre che sull'art. 9, n. 5 del Patto internazionale dei diritti civili e politici) di
garantire un adeguato ristoro a chi sia stato comunque ingiustamente condannato o privato della libertà
personale senza costringerlo a defatiganti controversie sull'esistenza dell'elemento soggettivo di chi aveva
agito e sulla determinazione dei danni subiti per queste condotte.
Se la scelta del legislatore è da ritenere condivisibile deve però rilevarsi come essa non sia scevra da
inconvenienti.
Il primo è costituito dalla circostanza che il significato di indennità e di indennizzo (che peraltro il codice in
questo caso non usa: di qui alcune opinioni che contestano questa costruzione teorica) non è utilizzato dal
legislatore in senso univoco.
In alcuni casi l'indennità è intesa come un corrispettivo per la perdita o la limitazione di un diritto; sono i casidi espropriazione, servitù coattive, occupazioni di fondo altrui (per es. art. 938 c.c.).
In altri casi come prestazione derivante dalla conclusione di un contratto (per es. i casi nei quali l'assicuratore
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gode di un limite alla sua responsabilità).
In un terzo gruppo di casi il pregiudizio deriva da una condotta conforme all'ordinamento che però ha
prodotto un danno che deve comunque essere riparato; alcuni esempi possono trarsi dal codice civile:
art. 2045 c.c. (indennità per il danneggiato a carico di chi abbia agito in stato di necessità), art. 2047 c.c.,
comma 2 (danno cagionato dall'incapace), art. 843 c.c., comma 2 (accesso al fondo per costruire, riparare,
ecc.).
La riparazione per l'errore giudiziario o per l'ingiusta detenzione sembra avvicinarsi a questa terza specie di
indennità, per la quale si è fatto ricorso alla figura dell'atto lecito dannoso: l'atto è stato infatti emesso
nell'esercizio di un'attività legittima (e doverosa) da parte degli organi dello Stato anche se, in tempi
successivi, ne è stata dimostrata (non l'illegittimità ma) l'erroneità o l'ingiustizia.
Un altro inconveniente del sistema delineato è costituito dalla necessità di utilizzare, prevalentemente se non
esclusivamente, criteri equitativi per la liquidazione dell'indennizzo.
Il giudice, per limitare il margine di discrezionalità, ineliminabile in questa forma di liquidazione, può soltanto
utilizzare parametri, non previsti normativamente, che valgano a rendere razionali, trasparenti e
non casuali i criteri utilizzati.
4) Criteri utilizzati dal giudice di merito.
Dall'esame del ricorso non sembra che il ricorrente si dolga della quantificazione dell'indennizzo relativo alla
mera detenzione malgrado la Corte di merito abbia liquidato una somma inferiore a quella risultante dal
parametro usualmente utilizzato che fa riferimento alla durata massima della custodia cautelare .
In ogni caso va rilevato che la natura di indennizzo della somma liquidata a titolo di riparazione conduce a
importanti conseguenze anche nel giudizio di legittimità perchè i criteri, necessariamente
equitativi, utilizzati dal giudice di merito non possono essere sindacati in questo giudizio se non nei limiti di
seguito indicati e non certo quando, con il ricorso, si intende in realtà non denunziare la violazione di legge o
un vizio di motivazione del provvedimento impugnato ma evidenziare l'insufficienza della somma liquidata a
favore dell'istante.
Il controllo sulla congruità della somma liquidata a titolo di riparazione - quale tipico giudizio dimerito - è dunque sottratto al giudice di legittimità che puo' soltanto verificare se il giudice di merito
abbia logicamente motivato il suo convincimento e non certo sindacare la sufficienza, o insufficienza, della
somma liquidata a titolo di riparazione a meno che, discostandosi in modo assai
sensibile dai criteri usualmente seguiti - che fanno riferimento al tetto massimo liquidabile correlato alla
durata massima della custodia cautelare - il giudice non abbia adottato criteri manifestamente arbitrari o
immotivati ovvero abbia liquidato in modo simbolico la somma dovuta.
Nel caso in esame non è ravvisabile alcuno di questi casi; il giudice ha motivato sull'applicazione dei criteri di
liquidazione e la somma liquidata, di poco inferiore al parametro indicato, non assume carattere arbitrario e
tanto meno simbolico ed è pervenuto alla determinazione di un indennizzo che si discosta da quello indicato
ma non in modo tale da assumere caratteristiche di arbitrarietà (Euro 54.000,00 a fronte di un parametro di
circa Euro 86.000,00); questa valutazione si sottrae dunque al vaglio di legittimità involgendo una valutazione
di natura equitativa riservata al giudice di merito.
Quanto alle ulteriori conseguenze della detenzione è incensurabile la valutazione di inesistenza della prova
della loro esistenza; d'altro canto neppure con il ricorso vengono indicati specifici pregiudizi di cui si sia fornita
la prova.
5) Criteri di riparazione dell'errore giudiziario e dell'ingiusta detenzione.
Preliminare all'esame del tema proposto con il ricorso (danno esistenziale) è la soluzione del problema se
possa tenersi conto, per la liquidazione dell'indennizzo, anche dei criteri usualmente utilizzati per il
risarcimento del danno.
E' infatti evidente che se questa possibilità non esistesse il problema del danno esistenziale sarebbe risolto
(negativamente) in radice.
Su questo tema vanno anzitutto sottolineate alcune differenze nella disciplina normativa in tema di
riparazione per l'ingiusta detenzione rispetto a quella riguardante la riparazione dell'errore
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giudiziario.
Mentre l'art. 314 c.p.p. parla infatti di "equa" riparazione dovuta per l'ingiusta detenzione, questo aggettivo
non compare nell'art. 643 c.p.p. in tema di riparazione a seguito di revisione.
La necessità di utilizzare criteri equitativi non è peraltro esclusa, nel caso della riparazione dell'errore
giudiziario, dall'eliminazione dell'aggettivo che qualificava la riparazione e che più non compare nell'art. 643c.p.p., comma 1 a differenza di quanto previsto dall'art. 571 dell'abrogato codice di rito e, appunto, dall'art.
314 c.p.p. in tema di riparazione per l'ingiusta detenzione.
Dottrina e giurisprudenza sono infatti concordi nel non attribuire eccessivo rilievo al mancato espresso
richiamo all'equità e questa opinione è confermata anche dalla relazione al progetto preliminare del codice: è
proprio la natura indennitaria della riparazione che rende ineliminabile l'uso di criteri equitativi per
determinare in concreto, con la successiva traduzione in termini monetari, le conseguenze dell'ingiusta
condanna.
Il mancato richiamo all'equità da parte dell'art. 643 c.p.p. può però consentire di affermare che non è inibito
al giudice della riparazione dell'errore giudiziario fare riferimento anche a criteri di natura risarcitoria che
possono validamente contribuire a restringere i margini di discrezionalità inevitabilmente esistenti nella
liquidazione di tipo esclusivamente equitativo.
E infatti in dottrina si è affermato che "attraverso la procedura di riparazione dell'errore giudiziario, la vittima
può in definitiva ottenere la liquidazione dei danni provocati dall'ingiusta condanna".
Più di un autore, d'altra parte, ha ravvisato nella riparazione per l'errore giudiziario una componente
indennitaria e una risarcitoria, quasi si trattasse di un tertium genus rispetto alle due forme di ristoro. Fermo
restando che, anche in questo caso, la riparazione non diverrà di tipo risarcitorio ma continuerà a mantenere
il carattere di indennizzo utilizzando questi criteri per la determinazione quantitativa del ristoro di un
pregiudizio con la liquidazione di una somma che però conserva il carattere indennitario.
Seguendo questo ordine di idee la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto corretto applicare criteri di
liquidazione di tipo risarcitorio al danno cagionato dall'errore giudiziario limitando il criterio
equitativo alle voci di danno non esattamente quantificabili.
Trattasi di criterio già adottato dalle Corti di merito (v., per es. App. Palermo 15 febbraio 2000, in Foro it.,2001, 2, 41) e ritenuto corretto dalla giurisprudenza di questa Corte (vedi Sez. 4, 25 novembre 2003, n.
2050, Barillà, in Giur. It., 2004, 1025).
In altri casi è stato invece utilizzato un criterio esclusivamente equitativo con una liquidazione
globale di tutte le conseguenze dell'errore giudiziario (si veda in particolare App. Perugia 24 gennaio
1996, in Giur. it., 1996, 366) e questo procedimento deve ritenersi parimenti corretto ove il giudice di merito
abbia comunque dato adeguato conto dei criteri seguiti nella liquidazione, ancorchè di natura esclusivamente
equitativa, e questi criteri non appaiano manifestamente illogici.
Naturalmente il giudice che ritenga di utilizzare i criteri risarcitori deve procedere con il rispetto delle regole
civilistiche applicabili al risarcimento del danno.
Non potrebbe quindi, il giudice della riparazione dell'errore giudiziario, dopo aver optato per il criterio
risarcitorio, liquidare danni che, in base alla disciplina applicabile ai danni civili, non siano ritenuti risarcibili o
con criteri confliggenti con tali regole; ferma restando, ovviamente, la possibilità di applicare criteri equitativi
per la liquidazione di un danno che non può essere provato nel suo preciso ammontare (art. 1226 c.c. e art.
2056 c.c., comma 1).
Questo assetto non è però immediatamente trasponibile alla riparazione per l'ingiusta detenzione per la quale
il criterio risarcitorio sembra proprio escluso, quanto alle conseguenze della sola privazione della libertà
personale, non solo dall'uso dell'aggettivo "equa" ma altresì dal riferimento alla sola custodia cautelare subita
(di per sè riparabile con meri criteri indennitari) e dall'esistenza di un "tetto" che rendono questa liquidazione
di ardua compatibilità con criteri risarcitori.
6) Il danno non patrimoniale.
Premesse queste considerazioni va esaminata la censura proposta dal ricorrente che denunzia la mancata
liquidazione del danno esistenziale da parte della Corte di merito.
Questo esame richiede una precisazione e una premessa.
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La precisazione è costituita dal rilievo che l'art. 314 c.p.p., con il richiamo alla custodia cautelare
subita, intende innanzitutto garantire l'indennizzo per il danno derivante dalla mera privazione
della libertà personale e dalle dirette conseguenze di questa privazione sul piano delle attività e
dei rapporti personali.
Ma l'art. 315 c.p.p., comma 3, richiama, in quanto compatibili, anche le altre norme sulla riparazione
dell'errore giudiziario e ciò consente di affermare, come del resto sempre riconosciuto dalla giurisprudenza dilegittimità, che sia applicabile anche alla riparazione per l'ingiusta detenzione - sempre all'interno del tetto
massimo previsto - la possibilità di commisurare l'entità della riparazione non solo alla durata della
detenzione ma altresì alle "conseguenze personali e familiari" da essa derivanti (art. 643 c.p.p.,
comma 1).
Peraltro, per queste conseguenze ulteriori (gli esempi sono noti: la perdita del lavoro, l'obbligata cessazione di
un'attività economica, ma anche una significativa compromissione delle condizioni di salute) è richiesto - a
differenza di quanto avviene per il pregiudizio derivante dalla mera privazione della libertà personale – che
l'istante fornisca la prova della loro esistenza anche se non del danno subito la cui liquidazione
può avvenire equitativamente.
Il tema proposto con il ricorso - autonoma riparabilità del danno esistenziale conseguente alla privazione della
libertà personale - richiede però l'esame di alcuni aspetti rilevanti in tema di riparabilità del danno non
patrimoniale in generale e dei danni che normalmente vengono ritenuti far parte di questa categoria di danni
(morale soggettivo, biologico ed esistenziale). Tema che ha subito, negli ultimi anni, un'evoluzione
giurisprudenziale particolarmente accelerata e che presenta maggiori difficoltà teoriche e ricostruttive rispetto
al danno patrimoniale.
Tradizionalmente i danni non patrimoniali erano ritenuti risarcibili nei ristretti limiti previsti dall'art. 2059 c.c.
che, prevedendone il ristoro nei soli casi previsti dalla legge, limitava la loro risarcibilità alla sola ipotesi in cui
il danno fosse stato cagionato da un reato (art. 185 c.p., comma 2) perchè questo era l'unico caso previsto
dalla legge: cd. danno morale soggettivo.
In tempi più recenti, rispetto all'approvazione del codice penale, sono state introdotte, con innovazioni
legislative, ulteriori forme di risarcimento di danni non patrimoniali (vengono richiamati, da dottrina e
giurisprudenza, la L. 13 aprile 1988, n. 117, art. 2, sui danni derivanti dalla privazione della libertà personalecagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie; la L. 31 dicembre 1996, n. 675, art. 29, comma 9
sull'impiego di modalità illecite nella raccolta di dati personali; il D.Lgs. 25 luglio 1998, n.286, art. 44, comma
7, per gli atti discriminatori per motivi razziali, etnici e religiosi; la L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 in tema di
mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo; si aggiunga il disposto dell'art. 89 c.p.c.,
comma 2 nel caso di espressioni sconvenienti o offensive contenute negli scritti difensivi).
Una diversa evoluzione teorica ha condotto il danno morale a perdere, o vedere attenuato nel tempo,
l'originario carattere sanzionatorio per assumere sempre più una veste anche riparatoria estesa, dalla
più recente giurisprudenza di legittimità, a danni provocati da condotte che solo astrattamente possono
costituire reato (il "reato" commesso dall'incapace; i casi di presunzione di concorso di colpa ecc.; vedi Cass.,
sez. 3, civ., 12 maggio 2003 n. 7283, per est. in Danno e Responsabilita', 2003, 713).
Anzi la sentenza n. 8827 della terza sezione civile di questa Corte, cui si accennerà più avanti, ha compiuto un
ulteriore passo per svincolare sempre più dal reato il danno morale soggettivo avendo
ritenuto che, nel caso di pregiudizi derivanti dalla lesione di un interesse costituzionalmente
protetto, "il pregiudizio consequenziale integrante il danno morale soggettivo (patema d'animo) è
risarcibile anche se il fatto non sia configurabile come reato".
L'evidente iniquità della limitazione della risarcibilità del danno non patrimoniale alle ipotesi di reato (e alle
altre limitate ipotesi via via introdotte dal legislatore) aveva del resto già da tempo indotto dottrina e
giurisprudenza a costruire ipotesi di danni risarcibili ex art. 2043 c.c. anche in casi nei quali la lesione
patrimoniale era assai poco evidente e comunque poteva mancare: ci si riferisce in particolare al danno
biologico - costituito dalla lesione dell'integrità psico-fisica della persona - che è stato fondato sulla diretta
violazione del diritto alla salute e all'integrità psico fisica della persona, garantito dall'art. 32 Cost., ma con il
richiamo all'art. 2043 c.c., e non all'art.2059 c.c., anche dopo che ne è stata riconosciuta la natura non
patrimoniale.
7) In particolare: il danno esistenziale.
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Più complesso è stato il percorso ricostruttivo utilizzato per affermare la risarcibilità del danno esistenziale la
cui natura non patrimoniale, a differenza di quello biologico, è sempre stata indiscussa ma per il quale era
meno agevole rinvenire il fondamento normativo (difatti ancora oggi
importanti orientamenti dottrinari - ma anche giurisprudenziali - dubitano della risarcibilità, o riparabilità, del
danno esistenziale).
Va premesso che la tendenza diretta ad ampliare l'ambito di risarcibilità (ma spesso si preferisce parlare di
riparabilità) dei danni non patrimoniali si è sviluppata lungo due direttrici:
1) l'affermazione del concetto che il danno non patrimoniale risarcibile non può essere riduttivamente
ricondotto al cd. "danno morale soggettivo" (che peraltro nè l'art. 2059 c.c. nè l'art. 185 c.p. menzionano) e
quindi può estendersi ad altre forme di danno non patrimoniale (danno biologico e danno esistenziale in
particolare);
2) l'estensione del danno morale soggettivo a casi di danno non provocato da reato.
Questo processo ha avuto come prima conseguenza quella di consentire di estendere la risarcibilità del danno
non patrimoniale anche a soggetti diversi dalle persone fisiche (in questo senso vedi Cass.
civ., sez. 3, 3 marzo 2000 n. 2367, per est. in Danno e Responsabilità, 2000, 490 e, della medesima sezione,
la recentissima sentenza 4 giugno 2007 n. 12929, per est. in Guida al Diritto, 2007, n. 25, p. 14).
Non ignora la Corte che nella giurisprudenza penale di legittimità questi principi siano stati posti in discussione
(v. Cass., sez. 6, 12 luglio 2001 n. 32957 che così si esprime: "non è ravvisabile, come ritenuto dal giudice
del merito, un "danno all'immagine”, riconducibile al comune, giacchè esso per la sua natura di danno morale,
come tale correlabile ad una sofferenza fisica o psichica è più propriamente riferibile al soggetto privato
danneggiato e non ad un ente della PA.").
E' peraltro da rilevare che la prevalente giurisprudenza penale di legittimità è nel senso accolto da quella civile
(v. Cass., sez. 1, 8 luglio 1995; 22 giugno 1992 n. 8381; sez. 1, 11 novembre 1992 n.
9105; sez. 1, 14 dicembre 1988 n. 13850) di talchè l'orientamento ricordato, anche se più recente, deve
ritenersi isolato (oltre che smentito dalla giurisprudenza comunitaria: v. sentenza della Corte di
giustizia delle Comunità Europee 12 marzo 2002, causa C-168/00, per est. in Foro it., 2002, 4, 329).
Ma l'evoluzione giurisprudenziale più significativa in tema di danno non patrimoniale è più recente. Con due
sentenze depositate il medesimo giorno (31 maggio 2003 nn. 8828 e 8827, entrambe in Foro it., 2003, 1,
2272) la terza sezione civile di questa Corte ha ribadito innanzitutto come non possa più essere
ricondotto, il concetto di danno non patrimoniale, al mero danno morale soggettivo e ha
interpretato l'art. 2059 c.c. in esame nel senso che "il danno non patrimoniale deve essere inteso
come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona".
Ha ritenuto che una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. imponga di ritenere inoperante il
limite posto da tale norma "se la lesione ha riguardato valori della persona costituzionalmente garantiti" ed in
particolare i diritti inviolabili dell'uomo riconosciuti e garantiti dall'art. 2 Cost..
Il giudice civile di legittimità sembra quindi propendere per un concetto unitario di danno non
patrimoniale e ritiene non proficuo "ritagliare all'interno di tale generale categoria specifiche
figure
di danno etichettandole in vario modo: ciò che rileva, ai fini dell'ammissione al risarcimento, in
riferimento all'art. 2059 c.c., è l'ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, dal quale
conseguano pregiudizi non suscettivi di valutazione economica".
In questa ottica le sentenze citate della 3^ sezione civile evitano di fare espresso riferimento al danno
esistenziale ma l'esame dei casi presi in considerazione conferma che i danni accertati erano riferiti a questo
tipo di danno (in un caso riguardavano la perdita del rapporto parentale; nell'altro lo sconvolgimento delle
abitudini dei genitori conseguente alle gravissime lesioni subite dal figlio ridotto allo stato vegetativo) perchè
si riferivano a casi che la precedente giurisprudenza, anche di legittimità, collocava tra i danni di natura
esistenziale proprio perchè ricollegati ad un mutamento profondo e negativo delle proprie abitudini di
vita e alla perdita delle relazioni interpersonali.
E' peraltro doveroso ricordare che - dopo che le sezioni unite civili avevano riconosciuto la categoria del dannoesistenziale e la sua risarcibilità (v. sentenza 24 marzo 2006 n. 6572, in Giur. it., 2006, 1359) - la terza
sezione civile di questa Corte ha di recente rimesso in discussione (si veda la sentenza 9 novembre 2006 n.
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23918, in Foro it., 2007, 1, 71) la stessa possibilità di configurare il danno esistenziale.
Ciò premesso, e prescindendo da questi ulteriori sviluppi giurisprudenziali dagli esiti non ancora prevedibili, va
dunque precisato, in sintesi, che le tre tipologie di danno non patrimoniale che allo stato possono
astrattamente essere prese in considerazione sono costituite:
- dal danno morale soggettivo tradizionalmente costituito da una sofferenza psicologica o dal turbamentotransitorio provocato dal fatto illecito; da sempre è considerato l'esempio tipico (una volta l'unico) di danno
non patrimoniale;
- dal danno biologico che costituisce il frutto di elaborazione giurisprudenziale (ma recentemente ha trovato
significative conferme a livello legislativo con l'entrata in vigore del D.Lgs. n.38 del 2000 e della L. n.57 del
2001) ed è costituito dalla compromissione, di natura areddituale, dell'integrità psicofisica della persona.
Generalmente è ritenuto necessario che a questa compromissione si accompagni una perdita o riduzione di
funzioni vitali, anche non definitiva.
La lesione del bene giuridico tutelato non necessariamente comporta un pregiudizio di natura patrimoniale ed
è anzi svincolata da tale pregiudizio;
- dal danno esistenziale che è invece ricollegato ad un peggioramento non temporaneo della qualità della
vita del danneggiato con un conseguente mutamento radicale delle sue abitudini e dei suoi rapporti personali
e familiari.
Anche se il problema forma oggetto di vivaci dispute, soprattutto in dottrina, non sembra corretto
affermare che il danno morale soggettivo sarebbe di fatto assorbito dal danno esistenziale perchè,
con questa affermazione, si confonde la natura delle due tipologie di danno: il danno morale soggettivo (pati)
si esaurisce nel dolore provocato dal fatto dannoso, è un danno transeunte di natura esclusivamente
psicologica; il danno esistenziale (non facere ma anche un facere obbligato che prima non esisteva), pur
avendo conseguenze di natura psicologica, si traduce in cambiamenti peggiorativi permanenti, anche se
non sempre definitivi, delle proprie abitudini di vita e in un mutamento peggiorativo
tendenzialmente irreversibile delle relazioni interpersonali.
8) Danno esistenziale e riparazione per l'ingiusta detenzione.
La non sovrapponibilità tra le due categorie di danno (morale soggettivo ed esistenziale) emerge chiaramente
proprio in relazione all'ingiusta detenzione: la privazione della libertà personale per un solo giorno puòprovocare un gravissimo danno morale ma il danno esistenziale, in questi casi, è quasi sempre
inesistente.
Al contrario una lunga carcerazione preventiva per un soggetto, poi assolto, da sempre inserito in
un'organizzazione criminale e con plurime esperienze carcerarie è idonea a provocare un grave
danno esistenziale ma quello morale può mancare del tutto.
Come già affermato da questa sezione nella già citata sentenza 25 novembre 2003 n. 2050, Barillà, le ipotesi
di riparazione per l'ingiusta detenzione e per l'errore giudiziario costituiscono casi emblematici di riparazione
delle conseguenze provocate dallo sconvolgimento esistenziale che procurano una detenzione, una
sottoposizione a processo e una condanna ad una lunga pena da espiare, poi rivelatesi ingiuste, e da cui
conseguono la privazione della libertà personale, l'interruzione delle attività lavorative e di quelle
ricreative, l'interruzione dei rapporti affettivi e di quelli interpersonali, il mutamento radicale
peggiorativo, e non voluto, delle abitudini di vita e altre che è superfluo precisare.
Non v'è quindi alcun dubbio che entrambe le situazioni - ingiusta detenzione e ingiusta condanna -
siano astrattamente idonee a provocare quello sconvolgimento della vita personale e affettiva che
va sotto il nome di danno esistenziale.
E' però da rilevare che - mentre la riparazione per l'ingiusta detenzione è diretta a riparare le conseguenze di
questo evento esauritosi nella privazione della libertà personale - la riparazione dell'errore giudiziario è diretta
a ripristinare (per quanto possibile) una situazione antecedente ad una condanna passata in giudicato, a
limitare le conseguenze dell'essere stato sottoposto a processo e condannato in via definitiva, a ristorare
un'eventuale privazione della libertà personale conseguente non ad un accertamento provvisorio, quale quello
connaturato alle misure cautelari, ma a seguito di un accertamento definitivo della colpevolezza.
In questa più ampia dimensione della riparazione dell'errore giudiziario può trovare posto anche
una voce riferita al danno esistenziale subito a seguito della privazione, per un periodo
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consistente, della libertà personale per l'espiazione della pena; ma anche per la sottoposizione al
processo e per la condanna quando abbiano avuto caratteristiche tali da provocare lo
sconvolgimento permanente delle abitudini di vita di cui si è parlato .
Nel caso dell'ingiusta detenzione il "danno" subito si esaurisce invece nella mera privazione della libertà
personale di per sè idonea, da sola, a sconvolgere per un periodo consistente le abitudini di vita della persona.
9) Conclusioni.
Può quindi in conclusione rilevarsi che il danno esistenziale, nel caso di ingiusta detenzione protrattasi
per un periodo di tempo consistente, sia astrattamente configurabile ma che non possa
autonomamente formare oggetto di riparazione per la sua coincidenza e sovrapponibilità al danno
derivante dalla mera privazione della libertà personale.
E' vero che la privazione della libertà per un periodo consistente di tempo produce inevitabilmente quelle
conseguenze negative che il diritto civile inquadra nel danno esistenziale ma la riparazione della mera
detenzione mira appunto a indennizzare questi effetti pregiudizievoli per cui neppure potrebbe configurarsi
questo effetto negativo quale conseguenza ulteriore della detenzione trattandosi della medesima fonte di
pregiudizio.
Deve quindi ritenersi che l'art. 315 c.p.p., u.c., richiamando l'art. 643 c.p.p., rende applicabile anche il comma
1 di questa norma – che prevede la riparazione delle ulteriori conseguenze personali e familiari cagionate dalla
privazione della libertà personale – si riferisca alle conseguenze diverse da quelle derivanti da questa
privazione.
Indennizzare tra queste conseguenze il danno esistenziale equivarrebbe dunque a riparare due volte il
medesimo danno perchè il danno esistenziale per l'ingiusta detenzione non è diverso dalle
conseguenze derivanti dalla mera privazione della libertà personale in base ad un titolo
provvisorio.
Analogo discorso può essere fatto anche per la riparazione dell'errore giudiziario: non potrebbe il giudice
ritenere distintamente riparabili la carcerazione subita per l'espiazione di pena e il danno esistenziale
conseguente alla mera privazione della libertà personale.
La conferma della conclusione che ritenere indennizzabile il danno esistenziale equivarrebbe a duplicare il
danno derivante dalla mera privazione della libertà personale è contenuta proprio nelle
considerazioni svolte nella già ricordata sentenza Barillà invocata dal ricorrente a conferma della propria
pretesa.
In quel caso la Corte di merito - utilizzando parametri di tipo risarcitorio (che, come si è già visto, questa
Corte ha ritenuto essere consentiti nel caso della riparazione dell'errore giudiziario) - aveva liquidato un danno
non patrimoniale costituito per una parte dal danno biologico ritenuto provato in base ad una perizia e per
altra parte dal danno esistenziale costituito dallo sconvolgimento della vita personale, familiare, affettiva ecc.
provocata (con una durata complessiva superiore a sette anni e mezzo) dalla detenzione cautelare e,
successivamente, dall'espiazione della pena.
Ma, in quel caso, alcuna riparazione era stata richiesta (o riconosciuta) per il pregiudizio subito dall'espiazione
della pena.
Dunque nel caso Barillà il problema della sovrapponibilità delle due forme di pregiudizio (e della necessità di
evitare il rischio di duplicare il ristoro delle conseguenze derivanti dalla mera detenzione con la riparazione del
danno esistenziale) neppure si era posto perchè l'istante non aveva chiesto un'autonoma riparazione del
danno derivante dall'espiazione della pena nè il giudice - che aveva liquidato la riparazione con criteri
risarcitori - aveva fatto riferimento ad un danno diverso derivante dalla detenzione per questa causa.
In base alle considerazioni svolte deve quindi escludersi che tra le conseguenze ulteriori
indennizzabili dell'ingiusta detenzione possa essere ricompresa una voce a titolo di danno
esistenziale perchè il pregiudizio che con questa tipologia di danno non patrimoniale viene
evidenziato non è diverso da quello conseguente alla mera privazione della libertà personale.
Ne consegue il rigetto del ricorso con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, Sezione Quarta Penale, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 11 luglio 2007.
Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2007
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Parte relativa al primo caso (TIZIO contro/ STATO ITALIANO)
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Rif. Indice generale delle questioni A1a
MEMORIE DEL PRIMO CASO:
TIZIO / STATO ITALIANO
DIFENSORI: ……………………………………………………………………………………….. (per Tizio)
………………………………………………………………………………………… (per Caio)
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Rif. Indice generale delle questioni A1a
MEMORIE DI REPLICA DEL PRIMO CASO:
TIZIO / STATO ITALIANO
DIFENSORI: ………………………………………………………………………………….. (per TIZIO)
……………………………………………………………………............... (per lo STATO ITALIANO)
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Rif. Indice generale delle questioni A1a
PARERE DI GIURISTANDONEL CASO:
TIZIO / STATO ITALIANO
DIFENSORI: ………………………………………………………………………………….. (per TIZIO)
……………………………………………………………………............... (per lo STATO ITALIANO)
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Rif. Indice generale delle questioni A1a
ATTO DI IMPUGNAZIONE NEL PRIMO CASO:
TIZIO / STATO ITALIANO
DIFENSORI: ………………………………………………………………………………….. (per TIZIO)
……………………………………………………………………............... (per lo STATO ITALIANO)
PRIMO PARERISTA …………………………………………………………………………..
SECONDO PARERISTA……………………………………………………………………….
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Parte relativa al secondo caso (CAIO / STATO ITALIANO)
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Rif. Indice generale delle questioni A1b
MEMORIE DEL SECONDO CASO:
CAIO / STATO ITALIANO
DIFENSORI: …………………………………………………………………………………….. (per Caio)
…………………………………………………………………………………….. (PER LO STATO)
PRIMO PARERISTA: GIURISTANDO
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Rif. Indice generale delle questioni A1b
MEMORIE DI REPLICA DEL SECONDO CASO:
CAIO / STATO ITALIANO
DIFENSORI: ………………………………………………………………………………….. (per CAIO)
……………………………………………………………………............... (per lo STATO ITALIANO)
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A. LA PERSONA FISICA - I diritti della personalità
Rif. Indice generale delle questioni A1b
PARERE DI GIURISTANDONEL SECONDO CASO:
CAIO / STATO ITALIANO
DIFENSORI: ………………………………………………………………………………….. (per CAIO)
……………………………………………………………………............... (per lo STATO ITALIANO)
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Rif. Indice generale delle questioni A1b
ATTO DI IMPUGNAZIONE NEL SECONDO CASO:
CAIO / STATO ITALIANO
DIFENSORI: ………………………………………………………………………………….. (per CAIO)
……………………………………………………………………............... (per lo STATO ITALIANO)
PRIMO PARERISTA …………………………………………………………………………..
SECONDO PARERISTA……………………………………………………………………….