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ACHAB Rivista di Antropologia 2004 numero III Università degli Studi di Milano-Bicocca

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ACHAB

Rivista di Antropologia 2004 numero III

Università degli Studi di Milano-Bicocca

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Editoriale

Con questo terzo numero festeggiamo il primo anno di Achab e ci proiettiamo in una nuova stagioneche promettiamo essere ricca di nuovi spunti di riflessione, incontri ed attività: il "viaggio" di Achabcontinua e ci auguriamo, come per la stagione passata, di coinvolgere il maggior numero possibiledi lettori.

Achab è un progetto che mira a raccogliere la sfida (culturale ed intellettuale) di unacontemporaneità sempre più complessa e che, proprio per questo motivo, necessita della collaborazionee della commistione di prospettive ed entusiasmi diversi. In questo senso vogliamo continuare adoffrire il nostro contributo proponendo temi di discussione, riflessioni e approfondimenti che sianoespressione di un profondo desiderio di conoscenza e condivisione.

Partecipiamo, dunque, alla negoziazione di significati che dà luogo alle forme del saperecontemporaneo consapevoli del fatto che "l'importanza della produzione di senso per la vita umana èriflessa in un campo concettuale affollato: idee, significato, informazione, saggezza, capacità dicomprendere, intelligenza, consapevolezza, capacità di apprendere, fantasia, opinione, conoscenza,credenze, mito, tradizione…" [Ulf Hannerz "La complessità culturale" p. 5]. .

La Redazione

Achab - Rivista di Antropologia dell'Università di Milano-Bicocca - Anno I , Numero III

Redazione: Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi, William Pioltelli

Impaginazione: Amanda Ronzoni

Grafica copertina: Lorenzo D'Angelo

Responsabile del sito: Antonio De Lauri

Tiratura: 600 copie

Se desiderate collaborare al progetto della rivista con vostri lavori o commentare gli articoli, potete scrivere a:[email protected] oppure [email protected]

La rivista è disponibile anche in formato pdf sul sito: www.studentibicocca.it/achab

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Indice

Zygmunt Bauman: riflessioni a partire dai suoi testi La Società dell'Incertezza e Voglia di Comunità di Daniela Carosio pag. 2

Da idoli della tribù a idolo del foro: riflessioni sul concetto di cultura di Ugo Fabietti pag. 9

Il razzismo di Antonio De Lauri pag. 14

Una recensione riflessiva di un'etnografia dialogica:Il Quilombo di Frechal di Michele Parodi pag. 22

La coltivazione di papavero da oppio dilaga inAfghanistan di Elisa Giunchi pag. 37

Alla confluenza di due oceani Sincretismi, ibridazioni e compresenze tra tradizioneindù e mussulmane in India

di Giulia Bellentani pag. 38

Luti e Liwat di William Pioltelli pag. 54

Achab segnala: Seminario sull’Africa pag. 63

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Zygmunt Bauman: riflessioni a partire dai suoi testi La Società dell'Incertezza e Voglia di Comunità

di Daniela Carosio1

Il presente articolo riflette sui temi dell'identità e dell'incertezza,che Bauman tratta in La Società dell'Incertezza, Il Mulino, 1999('SI') e ciò che rappresenta il loro contrappeso, ossia , il desideriocrescente di comunità, che Bauman descrive in Voglia diComunità, Laterza, 2001 ('VC'), come reazione al vuoto cheemerge dai percorsi identitari moderno e post-moderno.In Bauman il testo scientifico stesso fluisce come formazionediscorsiva nel raccontarci il nostro mondo contemporaneo2. Maè il mondo stesso che nell'interpretazione post-moderna emergecome complessa interrelazione di "processi locali in continualotta e negoziazione sui significati, valori e risorse…siamo tuttiarchitetti della 'modernità' e cannibali dell'ordine sociale3".Bauman stesso afferma pessimisticamente che "mancano glistrumenti concettuali per risistemare un quadro contorto eframmentato, per immaginare un modello coerente e integratoche emerga da una esperienza confusa e incoerente, per legare etenere insieme gli elementi disseminati" (pag. 12 SI). Si avvertenei suoi testi non tanto la "Sehnsucht" della felicità di un mondopiù sicuro , quanto, piuttosto, l'affermazione di un principio direaltà, che tiene conto della società e in particolare dell'Altro,contro il prevalente principio del piacere, quello del collezionistadei piaceri che dimentica l'alterità o la trova al massimointeressante per i propri fini individualistici. Ne risulta unprofondo senso etico e civile nell' 'intelligere' la realtà e nelsottolineare la responsabilità di ciascuno di noi. Per Bauman, infine, la responsabilità passa dal principio direaltà e non da quello del piacere e "assumersi la responsabilitàverso l'alterità, l'identità e l'autonomia dell'Altro è unacondizione cruciale per la realizzazione di ogni individuo ed èuna parte indispensabile di ogni autentica 'pragmatica delloscambio' (pag. 125 SI)".

La Società dell'incertezza

Bauman definisce la società contemporanea o "post-moderna"come "la società dell'incertezza", quella stessa incertezza il cuispettro era stato esorcizzato nell'epoca moderna attraverso unarigida regolamentazione. Se la modernità emerge come unarisposta non scelta e non voluta al crollo dell'ancien regime , ilpost-moderno emerge come "effetto non desiderato" o paradossodella modernità, risultato dello svuotamento progressivo deivalori, rappresentazioni e istituzioni dell'epoca moderna, cheossessionata dal terrore dell'incertezza aveva prodotto un"eccesso di ordine" e regolamentazione al prezzo della restrizionedella libertà. In questo senso Bauman richiama esplicitamente S.Freud, che in "Das Unbehagen in der Kultur" del 1929 sottolineacome la modernità e la civiltà, fondandosi sulle categorie dibellezza, pulizia e ordine, siano costruite sulla restrizione delle

pulsioni e dell'istinto. L'epoca moderna, positivista e utilitarista,che aveva massima fiducia nelle capacità della scienza e dellaragione, nemica di ogni processo di degenerazione (fisico,sociale, morale) ha sacrificato il principio del piacere (libertà) innome del principio di realtà (sicurezza), tuttavia, comeammonisce Freud, "forse è bene abituarsi a pensare che ci sonoalcune difficoltà intrinseche alla natura della civiltà in grado diresistere a qualsiasi tentativo di intervento".Qualcosa di simile è avvenuto nell'incontro coloniale con i c.d.paesi non civilizzati e poi con il mito dello sviluppo del TerzoMondo, in realtà si è giustificato l'intervento civilizzante dellepotenze coloniali prima e quello pianificante della cooperazioneallo sviluppo dell'Occidente poi, al fine di portare la civiltà e losviluppo ai c.d. popoli nativi o selvaggi. Il prezzo è stato lostravolgimento delle società tradizionali, delle lororappresentazioni, tradizioni e amministrazioni e la nascita difenomeni di resistenza locali o movimenti identitari (come imovimenti messianici, i profetismi, nuove forme di feticismi dellemerci in Sud America, i riti del cargo in Oceania, ecc.).In "Voglia di comunità" Bauman chiarisce come la comunità, laGemeinschaft, intesa come reciproca comprensione di tutti i suoimembri in contrapposizione alla nascente società moderna, laGesellschaft5, una volta distrutta, non può essere più ricostruitaartificialmente, come hanno cercato di fare vari filantropi o teoriciilluminati dell'organizzazione industriale sulla scia di EltonMayo, "scuola dei rapporti umani" (pag. 36 VC), inutili tentatividi 'reimpiantare gli sradicati ' (disembedded).

In epoca moderna "il regime della 'regolamentazione', di cuifabbrica ed esercito erano i principali strumenti e modelliistituzionali, sostituisce l'originaria paura moderna dell'incertezzacon la paura della trasgressione delle norme, il timore delladevianza e delle sanzioni derivanti (pag. 107 SI)". L'epocamoderna era quella dell'uomo produttore, della fabbrica e dellacaserma, del panopticon6 e delle altre istituzioni totali (la scuola,l'ospedale, la caserma, il carcere, il manicomio, ecc.). L'epoca deipopoli nazione, della costruzione delle identità nazionali,attraverso la creazione dei confini e dell'allontanamento dellostraniero. L'epoca dell'ingegneria sociale delle fabbriche e dellavita organizzata, della biotecnologia, della medicina e dello studiosistematico volto a confinare l'ultimo dei nemici, la morte. Così lasalute pubblica diventò prioritaria e ben delineata secondo confinispecifici. In quell'epoca lo straniero e il vagabondo erano dellefigure devianti, che procuravano incertezza perché sfuggivano alcontrollo della società. In particolare, lo straniero, non avendouna collocazione precisa ed essendo cognitivamente ambivalente,incrinava la chiarezza delle divisioni, delle classificazioni e deiconfini ed ostacolava la realizzazione dei compiti dello Stato

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moderno. Nei suoi confronti venivano intraprese due tipi distrategie da parte dello Stato e della società: una antropofagica odi assimilazione , consistente nell'eliminare le distinzioni ediversità e assimilare completamente gli stranieri rendendoli unacopia di sé e la seconda antropoemica o di esclusione, consistentenel confinare e ghettizzare gli stranieri, fino alla loro eliminazionefisica nella sua forma più estrema (olocausto).Se la modernità fin dall'inizio si è connotata per un eccesso dimezzi rispetto ai fini, nel nostro tempo postmoderno, i mezzi sonogli unici strumenti di potere rimasti sul campo ormai abbandonatodai fini. L'epoca postmoderna si porta dietro la crisi delleistituzioni e la loro privatizzazione, lo smantellamento dei sistemidi Welfare e la 'deregulation' in ogni ambito dell'economia e dellasocietà. Nell'epoca moderna la responsabilità sociale erademandata allo Stato, alle burocrazie e alle varie istituzioni c.d.responsabili. Ma quella responsabilità era una responsabilità difunzione o di finzione, in Modernità e Olocausto, Bauman parladi burocratica "legge di nessuno", che consente di commettere ipiù terribili misfatti in nome dell'ingranaggio e della macchinamoderna. Questa tendenza a dispensare gran parte delle azioni dalgiudizio morale e addirittura dal significato morale, cresce comeindifferenza morale o "adiaforizzazione"7 in epoca post-moderna.Nelle strategie di vita postmoderna, l'Altro è oggetto divalutazione estetica e non morale. Il risultato è una crescentedistanza tra l'individuo e l'Altro, con un prevalere dell'autonomiaindividuale sulle responsabilità morali8, un prevalere dellerelazioni tattili, con la separazione del valore d'uso/piacere daogni impegno e coinvolgimento che riguardi amore, onore,obbedienza…è la completa adiaforizzazione (mediata daglisnapshot e dalla burocrazia moderna). Nel mondo globalizzato lanuova élite cosmopolita economica e intellettuale vive unacondizione di massima libertà in un'area priva di comunità elontano dalla vischiosità che minaccia la gran parte degli abitantidel mondo, i deboli, gli individui de iure, ma non individui defacto. Si tratta di un mondo dai confini sempre più confusi, conmappe di potere sempre più contorte e aggrovigliate, dai confiniindefiniti (blurred). I centri urbani che erano stati pianificati in etàmoderna a griglia o accampamento romano come proiezioni sulpaesaggio della razionalità ordinata e classificatoria, sono oggidisseminati di aree ghetto "no go area" con valenza duplice…"nogo in" e "no go out"9. Il rapporto con lo straniero nella societàpostmoderna è ambivalente10, da un lato c'è chi gode di maggiorelibertà e minore incertezza o vischiosità e trova lo stranierointeressante ed esotico, dall'altro ci sono invece coloro che hannopoche risorse e capacità e vedono nello straniero una minaccia.Per interpretare l'ambiguità con la quale viene affrontata la figuradello straniero nella società postmoderna si può utilizzarel'immagine di una retta dove su di un polo viene riportata lamassima precarietà economica e dall'altro la massima possibilitàdi scelta, accompagnata da una bassa paura dell'inadeguatezza.Mentre tra coloro che hanno ampie possibilità prevale la curiositàper lo straniero, portatore di qualcosa di diverso, di una identitàaltra e per questo interessante. Lo straniero viene percepito comeun concorrente dove alta è la precarietà e la paura di

inadeguatezza. Qui lo straniero è colui che porta via il lavoro, chedisgrega ulteriormente ciò che è già disgregato e degradato, coluiche incarna tutte le paure derivanti dalla massima incertezza eancora una volta il responsabile di tutti i mali. Si innesca dunqueuna guerra tra poveri. Si teme lo straniero perché è anche coluiche non ha i nostri schemi mentali. "La vischiosità cheattribuiscono agli stranieri è il riflesso della loro mancanza dipotere che cristallizza nei loro occhi la terrificante forza deglistranieri" (pag. 71 SI). Bauman in sostanza ci dà unainterpretazione del razzismo dei poveri e dei deboli, di coloro chesi sentono inadeguati e denuncia come questa debolezza possavenire facilmente strumentalizzata per scopi demagogici. "Lapaura del 'vischioso' sedimentata dagli individui senza potere, èsempre un'arma allettante da aggiungere all'arsenale di coloro chehanno sete di potere…per arruolare i senza potere al servizio degliabili di potere. Occorre solo ricordare loro la vischiosità deglistranieri…" (pag. 72 SI).

L'identità come problema: dal moderno al postmoderno

Bauman definisce l'identità postmoderna una nozioneambivalente. Parla di identità "riciclata"11, in quanto continuaricostruzione e ridefinizione del sé, gioco liberamente scelto epresentazione teatrale del sé (Goffman). Come emergechiaramente in Voglia di Comunità, la comunità rappresental'humus da cui viene estratta la nozione di identità. La ricercadell'identità, come sradicamento (disembedding), uscire dalmazzo, essere diversi e in quanto tale unici, non può che divideree separare, smembrare la comunità. Il paradosso è che per poterefornire un modesto livello di sicurezza, l'identità deve tradire lapropria origine e negare di essere un surrogato, deve evocare unfantasma di comunità identica a quella che va a sostituire. Ed èinfatti paradossale, che nel momento in cui la comunità crollaviene inventata la nozione di identità (pag. 16 VC). Significativoè che, nonostante ciò, entrambi i termini vengano oggi evocati inmodo ossessivo. "Mai il termine 'comunità' è stato usato in modotanto insensato e indiscriminato come nei decenni in cui lecomunità in senso sociologico del termine sono diventate semprepiù difficili da trovare nella vita reale"12. E ancora Bauman: "Oggisi sente parlare di identità e di problemi connessi più di quanto sene sia parlato nei tempi moderni. E nonostante ciò, ci si puòchiedere se l'ossessione del momento non sia semplicemente unaltro di quei casi che seguono la regola generale secondo la qualele cose si scoprono soltanto ex post facto, quando svaniscono,falliscono o cadono a pezzi (pag. 27 SI)".

Per chiarire la specificità dell'analisi di Bauman può essere utileriprendere la sintesi di Loredana Sciolla13 dei vari contributi delpensiero sociologico sul tema dell'identità. Sciolla evidenzia unaconvergenza dei vari approcci su tre dimensioni fondantil'identità: la dimensione locativa (ossia il campo, anchesimbolico, che delimita i confini del sé), quella selettiva (ossia ilsistema d'ordine tra più alternative all'interno dei confinidelineati) e quella integrativa (il quadro interpretativo che collega

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le esperienze passate, presenti e future nell'unità di una biografia.Da questa impostazione derivano due considerazionifondamentali, ossia la funzione conoscitiva dell'identità, in quantopercezione e organizzazione del campo delle possibilità, e lafunzione normativa, in quanto fornisce le "mappa" di significatoper l'azione e l'interazione sociale e rappresenta il criterio chiaveper comprendere i processi decisionali degli individui. Inoltre,una distinzione fondamentale è quella tra identità individuale(identità come predicato di un soggetto individuale) e identitàcollettiva (identità come predicato di gruppi di individui). Lariflessione contemporanea privilegia un'analisi dell'identità noncome persistenza dell'unità del soggetto al variare degli attributi(definizione filosofica aristotelica), ma come insieme di relazionie di rappresentazioni e sottolinea la crescente importanzadell'elemento simbolico e culturale 14 nella dimensione locativa edei c.d. confini simbolici. L'attenzione viene data agli aspetti dicomplessità, alle modalità imprevedibili e sempre in ridefinizionein cui l'organizzazione e l'interazione sociale influenzano lemappe di significato degli individui 15 (fenomeni di ibridazione emeticciato).Bauman, pur avendo presenti nella sua analisi tutti questi aspetti,ci dà una visione quasi mitico-simbolica del processo identitariodal moderno al postmoderno, e parte da uno sguardo molto estesoche si avvale di diverse chiavi interpretative, anche mutuate dallapsicanalisi16 e dalla letteratura, per leggere il disagio diffuso, alivello sociale e individuale, attraverso i microeventi dellaquotidianità, le mode, da quella della cura del corpo a quella dellediete alimentari o dei viaggi, il mondo delle relazioni occasionalie del sesso plastico, della fuga dai sentimenti e del divorzio facile,il mondo segregato degli emarginati con tutta la carica esplosivadi violenza e di frustrazioni che coltiva in sé.

La dinamica identitaria nella società moderna epostmoderna: da pellegrino a turista

Bauman afferma che l'identità è un'invenzione moderna, perché èil risultato senza peso e consistenza dello sradicamento("disembedding"17) del singolo dalla comunità che lo teneva inuna sorta di humus comune. L'identità è nata come un problema(anche questa parola è utile intenderla etimologicamente, dalgreco 'gettare in avanti'), nel senso di questione cui dare unasoluzione, che si origina da quella sottodeterminazione o liberofluttuare risultante dallo sradicamento. Ha lo statuto ontologico diun progetto e contiene in sé una idea di futuro. Nella società deglisradicati, la società del XIX secolo, quella della GrandeTrasformazione (Polanyi), della distruzione della comunità, "diquella intricata rete di interazioni umane che dava un senso allavoro dell'uomo, che trasformava la mera fatica in attivitàlavorativa densa di significato, in un'azione finalizzata (pag. 29VC)", l'identità entra nella pratica moderna come "compito"individuale o un "problema" cui dare una soluzione. "Si pensaall'identità quando non si è sicuri della propria appartenenza,quando non si sa come inserirsi nella varietà di stili e modulicomportamentali esistenti, di come le persone intorno ci accettino

(pag. 28 SI)" e quindi la preoccupazione per l'identità rappresentaun tentativo di sfuggire a questa incertezza. Diviene compitodell'individuo trovare una via di uscita dall'incertezza. L'identitàdiventa una proiezione critica di ciò che è richiesto da e/o si cercain ciò che esiste. "E' un'asserzione obliqua dell'inadeguatezza oincompletezza" e giustifica il formarsi di una pletora diconsulenti, allenatori, guide, insegnanti…tutti interessati adaffermare una conoscenza superiore tale da guidare e consigliare'in loco parentis '.

Per descrivere questo compito dell'uomo moderno Baumanutilizza la suggestive metafora del pellegrino . Il pellegrino non èuna figura moderna, bensì dei primi tempi del cristianesimo,eppure incarna la strategia di vita moderna , preoccupata dalcompito inquietante di costruire una identità, perché la verità èaltrove. "La cultura giudaico cristiana riguarda, alle sue vereradici, esperienze di dislocazione spirituale e vagabondaggio"18. Igrandi monoteismi nascono da culture nomadi con l'esperienzadel deserto. Il deserto è la terra dell'autocreazione, contrapposta ailegami della quotidianità mondana, ricca di posti, di regole etradizioni. Gli eremiti sono sgravati e sradicati (disembedded),simili a Dio perché qualunque cosa facciano la fanno ab nihilo19.Attraverso la metafora del pellegrino c'è un richiamo esplicito aL'Etica Protestante e lo Spirito del Capitalismo di Max Weber.Bauman stesso definisce il protestante, come la figura modellodell'uomo moderno. Infatti, i protestanti sono divenuti pellegriniall'interno del mondo, assumendo la vita-intramondana comecompito e il dovere professionale come strumento per ottenere lasalvezza dell'anima. Il mondo è stato trasformato in un deserto,senza posti, senza tentazioni seducenti. Impersonalità, freddezza evuoto sono assurte a virtù, nel tentativo di combattere letentazioni del mondo e di rendere il mondo esterno insignificantee privo di valore. Bauman afferma con una frase emblematica che richiamal'interpretazione di Max Weber20 che "i pellegrini hanno perso laloro battaglia vincendola!". Ovvero, i protestanti nel ridurre ilmondo ad un deserto, ad un luogo ventoso21, dove è difficilelasciare traccia, hanno perso la loro battaglia spirituale. Se primail pellegrino e il deserto in cui camminava acquistavanosignificato l'uno dall'altro. Ora, in un mondo in cui il deserto èfuori dalla casa , ante portas, il pellegrinaggio non è più una sceltaeroica o santa, ma una necessità per evitare di perdersi nel desertoe questa versione moderna del compito o pellegrinaggio si è apoco a poco trasformata in un vagabondare senza meta, ossia ilfine ultimo che dà significato al pellegrinaggio. Infatti, è ladistanza che permette ai progetti di esistere, le coordinate spazio-temporali sono i vettori del senso e dell'identità. In terminioggettivi la distanza è spazio; in termini soggettivi èinsoddisfazione, ossia quella differenza tra piacere agognato equello ottenuto, lo iato tra l'ideale dell'ego e la realtà presente. Lafede stessa richiede un salto nel vuoto22. La distanza misurata intermini di tempo consente di costruire e dare significatoall'identità. Dà forma alla gratificazione differita che traccial'inizio dello sviluppo personale e della costruzione identitaria. Il

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differimento della gratificazione (nonostante la frustrazionemomentanea) fornisce lo stimolo alla costruzione dell'identità seesiste la fede nella linearità e cumulatività del tempo e la fiduciache il futuro ripaghi i risparmi con gli interessi! Senza questafiducia non ci potrebbe neanche ipotizzare l'attività economica eun mercato.

Nel mondo post-moderno tanto le persone che le cose hanno persosolidità, definitezza e continuità. Il mondo fatto di oggetti duraturiè stato sostituito da beni di consumo dalla rapida obsolescenza.Una volta nascosto e non più vettore, il tempo non struttura più lospazio, ogni differimento, incluso il differimento dellagratificazione perde di significato. Il compito di oggi è quello dievitare che una ogni fissazione duratura di identità ci siappiccichi. La frammentazione del tempo e dello spazio e il loro"collassamento"23 in epoca di società dell'informazione e diglobalizzazione hanno come riflesso rapporti umani frammentarie discontinui, contrari alla costruzione di reti di doveri e obblighireciproci che siano permanenti. Nell'epoca postmoderna anche latensione morale assume connotati diversi, viene meno l'adesioneincondizionata a una morale a priori, ad una verità assoluta, nelmondo dell'ambiguità e dell'incertezza dei singoli individui anchela responsabilità e la visione etica fanno parte di una conquistaidentitaria. Si cerca di evitare di impegnare la propria vita per unavocazione o rapporti lunghi e duraturi, di evitare di sistemarsi elegarsi alle persone e a un posto. Nell'età della 'razionalizzazione'del posto di lavoro, del lavoro flessibile o interinale che hasoppiantato il posto fisso, dell'amore confluente, della sessualitàplastica, è importante imparare a vivere alla giornata,possibilmente dimenticare il futuro e isolare il presente daentrambi i lati, separandolo dalla storia24.

Il flaneur, il vagabondo, il turista e il giocatore sono le metaforeutilizzate da Bauman per descrivere la strategia di vitapostmoderna. Il flaneur è il "pittore della vita moderna" di Baudelaire(Benjamin lo trasformò in simbolo della città moderna), colui chevive la vita "come se", costruisce a piacimento delle storie con iframmenti sfuggenti della vita degli altri. Il flaneur è ilconsumatore di oggi, colui che si aggira nel regno sicuro edillusorio degli shopping malls, caratterizzati dalla episodicità eapparenza degli incontri, dall'illusione di essere registi, puressendo oggetto di regia. I flaneurs sono gli abitanti delle cittàpure e senza macchia, sorvegliate dalle videocamere, iconsumatori della TV assolutamente non impegnativa. Nella lorovita la dipendenza si stempera nella libertà e la libertà va in cercadella dipendenza.Il vagabondo, figura non tollerata dalla modernità, perché senzapadroni e senza controllo, è un estraneo ovunque vada. Il suocammino è erratico a differenza di quello del pellegrino. Mentrein passato il vagabondo vagava attraverso luoghi ordinati, oggisono pochi i luoghi ordinati e sistemati per sempre, ora ilvagabondo non è tale per la sua riluttanza o difficoltà a sistemarsi,ma per la scarsità di luoghi organizzati, perché il mondo si sta

'riconfezionando' a misura di vagabondo. Il turista è come il vagabondo in movimento, ma differisce ladirezione dello stimolo al movimento. Il vagabondo è per lo piùcacciato via. Il turista è invece attratto da esperienze di novità e didifferenza. Cerca un mondo strutturato su criteri estetici, unmondo dove anche l'avventura sia dosata, addomesticata e sicura.Il turista ha una casa ovunque vada. Il vagabondo è un senza tetto.La casa del turista è percepita in modo ambivalente come rifugioo prigione, a seconda del momento. Si sente stretto a casa, ma nesente la nostalgia in viaggio.Il giocatore vive in un mondo soffice ed elusivo; ogni partita èuna "provincia di significato" per sé. Non deve lasciareconseguenze durevoli, eppure il gioco deve essere senza pietà.Simile alla guerra….la guerra come gioco assolve gli individuidalla mancanza di scrupoli. Ironicamente …"il segno dellamaturità postmoderna è la volontà di abbracciare il gioco a cuoreaperto, come fanno i bambini!" (pag. 48 SI) .

Identità e alterità in epoca postmoderna

In epoca postmoderna l'identità e il fenomeno identitario è moltopiù ambiguo, segue percorsi molto frammentarie in continuodivenire, non è data una volta per sempre ma è in continuoformarsi, come nella metafora della matita dove la gommacancella contemporaneamente ciò che scrive sul foglio bianco. Lacosa più fastidiosa e pericolosa è oggi avere una identitàimmutabile, perché c'è il rischio che diventi obsoleta, seguendo iltasso di obsolescenza delle macchine e delle merci. Le stesseistituzioni, un tempo intramontabili, tramontano lasciando dietrouna forte dose di incertezza e precarietà in tutti coloro che vihanno lavorato o che a distanza le hanno mitizzate (la crisi dellaFIAT, l'insolvenza di primarie società americane come Enron,WorldCom, la caduta degli eroi come il mitico Jack Welch, CEOdi General Electric). Nel postmoderno cambia anche l'elencodelle paure. Horkheimer e Adorno individuano il nucleo centraledelle angosce moderne nella paura del vuoto…tutto vieneordinato, organizzato e costruito in modo da eliminare il vuoto,sperimentata come paura di essere diversi e separati. La madredelle paure postmoderne è, invece, l'inadeguatezza. "La mentalitàpostmoderna si è allontanata dalle coordinate fornite dall'ideale diuna verità universalmente fondata e accettata; la nostra è unamentalità insicura dei propri fondamenti, della proprialegittimazione e funzione. Un tipo di mentalità che può solosuggerire comportamenti eccentrici, inconsueti, irregolari,aggiungendosi al già ampio elenco delle incertezze" (pag. 140 SI).

L'incertezza comporta costi individuali, sociali ed economici25

elevatissimi in quanto relativizza le mappe di significato, porta aduna "crisi di intelligibilità" e ad una esperienza costante diambivalenza nelle rappresentazioni e nelle interazioni.

Nel relativismo dell'identità postmoderna, cambia l'alterità. Nellacittà, il luogo rappresentativo della vita postmoderna, ciascuno dinoi è straniero quando esce di casa. L'alterità è data dalla distanza

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tra le nostre mappe cognitive e quelle degli altri. La distanza traciò che occorre per sapere navigare e ciò che si sa o si crede disapere circa i problemi reali e probabili del prossimo. Lo spaziovuoto generato dalla separazione attrae e allo stesso temporespinge, è un territorio ambivalente di libertà e pericolo, che puògenerare sia avventura eccitante sia confusione paralizzante.La costruzione delle città ha rispecchiato i due poli opposti delproblema: nostalgia della communitas e paura di smarrire lapropria identità. La vita di città assume significati differenti perpersone differenti, così come l'immagine dello straniero, checome Giano bifronte ha due facce: una sexy, promettegratificazione senza chiedere alcun patto di lealtà (per il flaneur)e l'altra misteriosa, ma in senso sinistro dello straniero anteportas (per coloro che si trovano nelle 'no go out' areas e chevivono sulla propria pelle un elevato grado di vischiosità) .

Conclusioni

In epoca post-moderna si è conquistata maggiore libertà al prezzodi maggiore incertezza. Di fatto, va precisato che la maggiorelibertà è di pochi, ma al prezzo dell'incertezza di molti. Baumansolleva esplicitamente il punto interrogativo di quanto godibile siaquesta libertà di pochi. Alla lunga tale maggiore libertà non saràgodibile, perché "la libertà senza comunità diventa pazzia e lacomunità senza libertà diventa schiavitù". Come è allora possibilesacrificare quel poco di libertà al fine di rendere il tormentodell'incertezza tollerabile?

Bauman suggerisce in alcuni punti del suo testo che l'unicarisposta può venire dall'impegno morale e civile. Nel nostro mondo l'Altro viene visto come oggetto di valutazioneestetica e non morale, di gusto e non responsabilità. Non sono gliattributi dell'Altro ad essere oggetto della nostra attenzione, ma leemozioni che ci suscita l'incontro, in termini di interesse epiacere. Lo stesso atteggiamento che tiene il consumatore alsupermercato, passa in rassegna gli oggetti sugli scaffali e se nonlo soddisfano, passa oltre. E' chiaro che questa è una funzionecognitiva fondamentale, quella di essere selettivi, ma diventa unproblema quando dalla sfera cognitiva si passa a quellanormativa.Si cerca per lo più di evitare il coinvolgimento nel destinodell'altro e di impegnarsi per il suo benessere. Tuttavia, il culto deirapporti personali e della sensualità rappresentano compensazionipsicologiche per la solitudine che affligge i soggetti orientati daldesiderio estetico e dal principio del piacere. In tale sistema che ha assorbito tutto, persino la pratica militanteè stata assorbita da una pratica difensiva. L'unico dovere delcittadino postmoderno è di condurre una vita piacevole e lo Statosi deve preoccupare di fornirgli le risorse giudicate necessarie pertale compito e non mettere in dubbio la fattibilità di tale compito(fondamentale è il ruolo della macchina del consenso e inparticolare del capitalismo stampa, dei media). Non si tratta peròdi un panorama idilliaco, in quanto lo scontento cresce quandoemergono questioni che vanno oltre la cura ordinaria del sé

(quella che in economia viene definita la manutenzioneordinaria). Perché per la costruzione di un'autostrada, larazionalizzazione di una scuola o di un ospedale, ecc. si generanocosti straordinari, conflitti di interesse, che generano malcontentie rivendicazioni diffuse. Per lo più tali rivendicazioni non sisommano o condensano, ma sono conflittuali le une con le altre ecompetono le une con le altre per attirare le scarse risorsedell'attenzione pubblica.

Un quadro desolante frutto di un'analisi attenta alle variesfumature del reale. Ma è sempre in nome del principio di realtàche Bauman mette in guardia sulla necessità di trovare unequilibrio tra libertà e sicurezza, tra identità e comunità; laconsiderazione dell'Altro, ci porta nella sfera etica e solo unarelazione piena può essere morale.

Due accenni conclusivi a due temi che Bauman non trattaesplicitamente in 'La società dell'incertezza': la figura dellopsicanalista e il ruolo dell'economia.

Bauman, pur parlando di Freud, non parla esplicitamente dellopsicanalista, ma tutto il discorso identitario lo dà per scontato. Ilsuccesso della psicanalisi nelle nostre società postmoderne è unaulteriore conferma della lettura sociale di Bauman. Lopsicanalista è cercato per dare una risposta a questo sentimento diansia e inquietudine di fronte all'incertezza privatizzata, riportatapesantemente sui singoli , dopo la fine della utopia moderna…sitratta sicuramente di un lusso per chi se lo può permettere,indicativo della privatizzazione della salute nella nostrasocietà…se sei ricco ti puoi permettere di stare male in più modi.Se sei povero, no. E per il momento, nell'assenza di certezze esistemi di regolamentazione e riduzione dell'incertezza, anzi conla sua crescita, dovuta allo smantellamento dei sistemi di Welfaree al venire meno dei 'mediatori' tradizionali, come il sacerdote e ilrabbino nella cultura ebraica, lo psicanalista diventa un sostitutoprivato a pagamento.

L'economia si occupa dell'allocazione ottimale delle risorse,queste ultime influenzano i mezzi e le capacità individuali,nonché la possibilità di esercitare le libertà individuali,nell'interazione con la natura e l'ambiente, da una parte e nellaproduzione e scambio di contenuti simbolici dall'altro. Da unaparte, il potere si sta spostando sempre di più dalla meraappropriazione delle risorse, al controllo delle condizioni diriproduzione dell'identità collettiva e del consenso. Dall'altral'incertezza crescente del mondo sta minando alla base l'economiache si fonda sulla certezza e la dimensione del futuro comemotore degli investimenti e dell'attività economica, nonché dellacertezza e trasparenza degli scambi sul mercato. Fenomeni dicorruzione e mancanza di trasparenza minano alla basel'economia di mercato, che da una parte non gradisce laregolamentazione, dall'altra in assenza della stessa collassa su séstessa per le imperfezioni intrinseche al mercato (contrariamenteal mito della concorrenza perfetta e degli equilibri endogeni).

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Nel mondo esiste sempre di più un sentimento diffuso di impegnomorale e civile (es. Fondo Sociale Mondiale di Porto Alegre chesi è svolto quest'anno per il secondo anno consecutivo incontemporanea al World Economic Forum di Davos, in evidentepolemica con lo strapotere dell'ideologia economica nel nuovoordine mondiale), ma questo impegno deve emergere sempre dipiù in quelle élites economiche e intellettuali che con il loroisolamento meritocratico accrescono le situazioni disperequazione tra individui de iure e de facto. L'erigere comunitàfortificate rende più difficile ricomporre l'odierna guerra dei "noicontro loro", lo "scontro delle civiltà" teorizzato da S.P.

Huntington e rende tutti bersagli più facili in baliadell'insicurezza. La guerra del petrolio porterebbe solo ad uninasprimento incontrollabile delle attuali tensioni. In conclusione, ci auspichiamo con Bauman che il principio direaltà porti ad una svolta del pensiero meritocratico verso uncrescente impegno etico e civile e che nel mondo globale, cometra i Baruya della Nuova Guinea, le capacità e il meritoaccrescano 'la responsabilità sociale e cosmica degli individui edei gruppi'26.

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NOTE

1 Daniela Carosio ([email protected]) è un analista finanziario indipendente che ha approfondito tra l''altro i temi della CorporateGovernance e della Corporate Social Responsabilità, anche con attenzione agli aspetti culturali delle aziende.2 Per chiarire meglio l'approccio di Bauman, mi sembra utile associarlo a quello di alcuni antropologi post-moderni, Fergusson, Hobarte Escobar, influenzati dall'opera di Foucault, che affrontano gli oggetti di analisi in termini di formazione discorsiva. Così JamesFergusson nel descrivere il fallimento della politica di sviluppo in Lesotho "I sistemi di discorso e i sistemi di pensiero sono così legatiin una complessa relazione causale con il flusso di eventi pianificati e non pianificati che costituisce il mondo sociale. La sfida consistenel trattare questi sistemi di pensiero e di discorso come ogni altro tipo di pratica sociale strutturata, non scartandoli come effimeri eneppure cercando nelle loro produzioni le chiavi di lettura per quegli elaborati e seminascosti meccanismi di produzione e riproduzionestrutturale in cui sono coinvolti come parti componenti." The anti-politics machine, Cambridge Univ. Press, 1990.3 Alberto Arce and Norman Long, Consuming modernity, Anthropology, Development and Modernities: Exploring Discourses,Counter-Tendencies and Violence, Routledge, London, 2000.4 In quanto la felicità è effimera e non può essere il fine di una società, citando Freud, "ciò che chiamiamo felicità deriva dallasoddisfazione di bisogni che sono stati accuratamente repressi e per sua natura è possibile solo in quanto fenomeno episodico".5 F. Toennies, Gemeinschft und Gesellschaft, 1963.6 "The Panopticon of Jeremy Bentham is an architectural figure which "incorporates a tower central to an annular building that isdivided into cells, each cell extending the entire thickness of the building to allow inner and outer windows. The occupants of the cells. . . are thus backlit, isolated from one another by walls, and subject to scrutiny both collectively and individually by an observer inthe tower who remains unseen. Toward this end, Bentham envisioned not only venetian blinds on the tower observation ports but alsomazelike connections among tower rooms to avoid glints of light or noise that might betray the presence of an observer. ThePanopticon thus allows seeing without being seen. Such asymmetry of seeing-without-being-seen is, in fact, the very essence of powerfor Foucault because ultimately, the power to dominate rests on the differential posession of knowledge. According to Foucault, thenew visibility or surveillance afforded by the Panopticon was of two types: The synoptic and the analytic. The Panopticon, in otherwords, was designed to ensure a 'surveillance which would be both global and individualizing" (pag. 138 e 162). Barton, Ben F., andMarthalee S. Barton. Modes of Power in Technical and Professional Visuals, 1993. 7 Da "adiaforia", ideale etico dei filosofi cinici e stoici, consistente nell'indifferenza verso le cose che non sono né virtù né vizio.8 Vari antropologi hanno riscontrato come in varie comunità tradizionali il merito si accompagnasse alla responsabilità nei confrontidegli altri membri della comunità. E ciò si traducesse in una assenza di disuguaglianza economica, proprio perché le risorseeconomiche venivano godute in forma comunitaria. L'antropologo marxista Maurice Godelier nel suo saggio del 1972 sui Baruya dellaNuova Guinea sottolinea come "la disuguaglianza tra i lignaggi, alcuni dei quali avrebbero ricevuto dagli antenati il potere di fornirealla società i migliori guerrieri o gli sciamani migliori, non contraddice, anzi rafforza la responsabilità sociale e cosmica degli individuie dei gruppi".9 Questo è particolarmente vero per le megalopoli del c.d. Terzo Mondo, in particolare dell'America Latina, ma anche dei Paesi c.d.sviluppati, ad es. New York, Londra, Parigi. Interessante in proposito il nuovo film di Martin Scorsese, Gangs of New York.10 "Per coloro che nella città postmoderna leggono l'avvertimento no go area (strade e quartieri degradati) come 'no go in' area, iltermine straniero ha un significato differente rispetto a quelli per i quali no go si traduce in 'no go out' area" (pag. 70 SI).11 Si potrebbe dire l'identità riciclata di "gente di plastica", per usare il titolo suggestivo di un lavoro teatrale di Pippo Delbono, che ha

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messo insieme una compagnia teatrale di c.d. marginali che però sta ottenendo il riconoscimento del pubblico e della critica.12 Eric Hobsbawn, The Age of Extremes, London, 1994, pag. 428.13 Teorie dell'Identità (Introduzione), Percorsi di Analisi in Sociologia, a cura di Loredana Sciolla, 1983. L. Sciolla elenca tra i filoniin sociologia che hanno elaborato maggiormente il concetto di identità: il funzionalismo, l'interazionismo simbolico e la fenomenologiasociale.14 Clifford Geertz e sua definizione di simbolo e cultura.15 Per quanto riguarda una interpretazione antropologica collegata si veda l'approccio actor-oriented e "l'analisi delle situazioni di"interfaccia" dove i differenti mondi della vita interagiscono e si compenetrano", N. Long, Battlefields of Knowledge, Routledge,London 1992.16 Ci sembra che la presenza della chiave interpretativa della psicanalisi prevalga rispetto ad autori come Melucci, che pratica laprofessione di psicanalista. Ma ciò è coerente con l'impostazione metodologica di attenzione alla complessità e difficile intelligibilitàdel mondo contemporaneo., esplicitata dall'autore stesso. 17 Il cui senso letterale è quello di estrarre e tirare via qualcosa da un tutto composito e ben amalgamato come la terra (to embed = tofix firmly in sorrounding mass). 18 R. Sennet, The conscience of the Eye: the Design and social life of Cities, London, Faber & Faber, 1993.19 La Chiesa ufficiale ha sempre avuto un rapporto difficile con i movimenti eremitici e spiritualisti e ha sempre cercato di riportare asé le loro forze centripete.20 "Gli effetti culturali della Riforma furono in buona parte conseguenze non previste e addirittura non volute del lavoro dei Riformatori,spesso lontane o addirittura contrastanti rispetto a ciò che essi vagheggiavano (pag. 78)". L'Etica Protestante e lo Spirito delCapitalismo. Max Weber, 1904.21 Weber parla di gabbia d'acciaio e di pietrificazione meccanizzata adornata da un convulso desiderio di sentirsi importante…di unmondo con specialisti senza spirito e gaudenti senza cuore.22 Come afferma Clifford Geertz , la conoscenza religiosa è un credere per conoscere, presuppone un atto di fede. Inoltre, sempreGeertz che il simbolo plasma la realtà e così il pensiero protestante e la sua valenza simbolica hanno plasmato il mondo moderno.23 Interessante la definizione utilizzata da Fabietti per descrivere il cambiamento del rapporto con lo spazio ed il tempo che hanno avutole società indigene venendo a contatto con la colonizzazione e che le ha portate a ripensarsi in termini identitari, un'altra spiegazionedei fenomeni di profetismo, millenarismo o messianismo che si sono sviluppati in gran parte del mondo colonizzato, quali "i riti delcargo" in Oceania, "l'harrismo" in Costa d'Avorio, la riscossa dell'identità afro-americana attraverso una serie infinita di sette econfraternite.24 Questo tipo di disposizione è spiritualmente più vicina alla visione orientale o al misticismo di paesi meticci quali il Brasile. Guidespirituali e guru di varia estrazione predicano questo tipo di atteggiamento stoico attraverso i più svariati pacchetti di offerta corsi eseminari. 25 Bauman tratta il discorso economico, in particolare come evoluzione delle teorie organizzative aziendali e guardando alla figura deitop managers nella società contemporanea che si sono sempre più deresponsabilizzati delle sorti delle istituzioni che guidano. Leistituzioni stesse devono diventare flessibili sotto la guida di tali personalità, pronte a cambiare strategia rapidamente, ad essereristrutturate e a cedere all'esterno gran parte delle attività che prima venivano svolte al loro interno (outsourcing).26 Cfr. nota 6.

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Da idoli della tribù a idolo del foro:riflessioni sul concetto di cultura

di Ugo Fabietti

Quando qualche tempo fa un collega mi ha chiesto di intervenirein un convegno con qualche riflessione sul concetto di cultura, hoprovato una certa esitazione, una specie di "ritrazione" di fronteall'idea di dover dire qualcosa su questo tema. La mia esitazionepotrà sembrare paradossale: in fondo chi, più degli antropologi siè occupato della "cultura"? Ma la verità è che da circa tre decenninon esiste, per gli antropologi, una nozione più imbarazzante diquesta.Tale imbarazzo si è tradotto in una serie di espressioni e dimetafore dotate di un diverso spessore denotativo con cui gliantropologi hanno cercato di sfuggire (insoddisfatti) a ciò che lorostessi hanno ritenuto essere via via un insieme complesso dicostumi, un'entità superorganica, una risposta all'ambiente, unaconfigurazione di valori, un processo comunicativo, un testo, unarete di significati, un'invenzione e, infine, un impiccio e unimbroglio. Ultimo, e in certo senso riassuntivo di tutti gli altridisagi, quello di uno dei più noti antropologi di oggi, ArjunAppadurai, che così esprime il suo personale imbarazzo:"Mi trovo spesso a disagio con il sostantivo cultura… Se pensoalla ragione di ciò mi rendo conto che gran parte del disagiodovuto al sostantivo ha a che fare con il preconcetto che la culturasia un qualche oggetto, una cosa o una sostanza, fisica ometafisica. Questa sostanziazione sembra riportare la culturaentro lo spazio discorsivo della razza, e cioè proprio entroquell'idea per contrastare la quale era stata in origine concepita.Se implica una sostanza mentale, il sostantivo cultura privilegiadi fatto quell'idea di condivisione, accordo e compiutezza checontrasta fortemente con quel che sappiamo sui dislivelli diconoscenza e sul prestigio differenziale degli stili di vita edistoglie l'attenzione dalle concezioni e dall'azione di coloro chesono emarginati e dominati. Se è invece vista come una sostanzafisica, la cultura comincia allora a puzzare di qualche varietà dibiologismo, inclusa la razza, che abbiamo sicuramente superatocome categorie scientifiche".E' da un disagio di questo tipo che deriva il mio timore a direqualcosa sulla cultura, ma anche la necessità, credo, di "ripensarela cultura".Partiamo da una statistica, frutto di una rapida ricerca su internetcondotta un paio di anni fa negli Stati Uniti: il termine "cultura"rinviava a più di cinque milioni di pagine web (tolte tutte quelleche facevano capo a pratiche agricole - in inglese agricolturasuona "agri-culture").Ma in riferimento alle discipline antropologiche, il numero dellepagine crollava a sessantamila, mentre il sito di Amazon, la piùgrande libreria on-line del mondo, riportava oltre ventimila titolicon il temine cultura di cui però solo milletrecento erano testi diantropologia (culturale).Questa statistica è sicuramente congruente al disagio degli

antropologi perché significa chiaramente che oggi il terminecultura lo si ritrova per lo più "fuori" dell'antropologia.A prima vista gli antropologi sembrerebbero doversene rallegrare.In fondo hanno sudato sette camicie, e almeno sette decenni, perimporre questo concetto all'attenzione delle scienze sociali e delpensiero occidentale. Certamente in parte è così. Ma seguardiamo che cosa ha davvero significato, per il concetto dicultura, questo ritrovarsi fuori dall'antropologia, scopriremo chegli antropologi hanno molte meno ragioni di sentirsi soddisfatti.Sia chiaro che il concetto di cultura, così come è stato elaborato eutilizzato dall'antropologia ha avuto (ed ha) alcuni meriti chenessuno potrebbe negare. Senza farne una genealogia, si può direche il concetto di cultura consentì di pensare il genere umanocome capace di esprimere ovunque, in ogni epoca e luogo, unacreatività materiale, comunicativa e simbolica che, per quantodiversa da luogo a luogo, da epoca a epoca, presentavacaratteristiche di assoluta commensurabilità1. Concettualizzata come cultura umana, questa creatività ricevetteletture e specificazioni particolari, legate a contesti storici, sociali,linguistici individuali (le "culture umane"). Il concetto, usato inmaniera estensiva o universalista (la cultura umana) consentìinfatti di ricomprendere, stavolta usato in maniera intensiva (oparticolaristica), le forme locali che questa cultura umanaassumeva in punti diversi del pianeta (le culture umane). Sorvolando sulle implicazioni epistemologiche di questa mossaintellettuale che fu l'elaborazione del concetto antropologico dicultura, possiamo dire che si trattò di una mossa politicamenteimportante, perché in questo modo si cominciarono a prendereseriamente in conto delle realtà umane distribuite nello spazio cheuna visione eurocentrica aveva praticamente ignorato comeelementi utili per una migliore comprensione della storiacomplessiva del genere umano. Dalla elaborazione del concetto di cultura l'antropologia, da partesua, trasse un vantaggio: quella di presentarsi come la primaforma di riflessione socialmente riconosciuta, e accademicamenteautorizzata a trattare di forme di vita culturali e sociali "altre".Così come è stato impiegato dagli antropologi anche in relazionealla pratica etnografica, il concetto di cultura è venuto asignificare un comportamento umano strutturato in modelliappresi. Proprio l'idea che la cultura consista di modelli mentali ecomportamentali strutturati e appresi costituisce oggi il caposaldoultimo dell'idea antropologica di cultura. Così definita, però, lacultura deve essere "spiegata", e questo non può avvenire se nongrazie ad analisi particolari e circostanziate, cioè grazieall'etnografia (senza la quale l'antropologia, è bene ricordarlo, nonavrebbe senso).Come ci dice la statistica però, i contesti d'uso extra-antropologicidel termine cultura sono di gran lunga più numerosi rispetto di

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quelli in cui il concetto è impiegato dagli antropologi. I concettinon sono le parole che li evocano, e infatti il loro significatocambia a seconda del contesto in cui vengono usati. Se nelcontesto antropologico cultura rinvia a un complesso dicomportamenti mentali e pratici strutturati e appresi, che deveessere sempre spiegato, cioè descritto e reso coerente, "fuoridall'antropologia" cultura è venuta a significare qualcosa didiverso, non di completamente diverso, ma diverso quel tanto chebasta per rovesciarne a volte le finalità con cui gli antropologi lohanno da sempre usato.Nel contesto non-antropologico la cultura non deve ad esempioessere spiegata, ma è qualcosa che "spiega": spiega ilcomportamento, i gusti, le idee politiche, quelle relative alrapporto tra i sessi, e naturalmente l'economia, l'organizzazionesociale e le visioni del mondo, sia del mondo sensibile che diquello ultrasensibile. Spiega le guerre etniche in Africa e neiBalcani, spiega le difficoltà di inserimento degli immigrati deipaesi poveri nelle megalopoli europee e nordamericane, spiega letensioni tra bianchi e neri e ispanici nelle città degli Stati Uniti,spiega tanto i "miracoli economici" di alcuni paesi asiatici quantole loro crisi ricorrenti. Spiega l'11 settembre e, naturalmente, lo"scontro delle civiltà".Com'è allora che un concetto elaborato dall'antropologia comeguida per la pratica etnografica, cioè per descrizioni e spiegazionilocalmente circostanziate di comportamenti e di disposizioniumane socialmente apprese, al di fuori dell'antropologia èdiventato un "concetto-spiega-tutto"? L'elaborazione del concetto di cultura da parte degli antropologirappresentò, ho detto prima, non solo un'importante mossaintellettuale, ma anche una mossa politica significativa, ilconcetto ebbe altri risvolti "politici", e non solo nel senso chemediante esso una cultura (quella europea) si aprì allacomprensione delle culture "altre". Formulato per la prima voltain Inghilterra nel 18712, divenne particolarmente centralenell'antropologia americana dei primi del Novecento, per poidispiegarsi nuovamente nell'antropologia europeasuccessivamente alla II guerra mondiale. Senza stare a dire iperché e i percome di questo "giro", fu in America che il concettodi cultura sviluppò le caratteristiche di un "anti-concetto", cheerano già contenute nella sua formulazione originaria del 1871. Quello di cultura è infatti un concetto con forti valenze anti-. Pergli antropologi "cultura" non indica solo tutto ciò che non ènatura, ma anche, e soprattutto, tutto ciò che non può esseredescritto e spiegato mediante nozioni e discorsi che fanno capo auna idea di eredità culturale biologicamente trasmessa.Negli anni di formazione di questo concetto l'idea in voga eraquella di "razza" la quale veniva usata per distinguereindifferentemente delle diversità, tanto di carattere culturale chesomatico.Il carattere peculiare del contesto in cui tutto ciò avvenne(l'antropologia culturale e le scienze sociali americane della primametà del Novecento) ebbe un impatto decisivo sullo stileintellettuale degli antropologi. Se la cultura era ciò che dovevadifendere le scienze sociali americane dalla razziologia e la

società americana dal razzismo, gli antropologi si guardarono difatto dall'esportare questa loro posizione nella sfera pubblica, epreferirono, per una serie di ragioni anche comprensibili,mantenere questo discorso entro i limiti del campo disciplinare.Queste ragioni sono da ricondurre all'uso del concetto di "cultura"come concetto simbolo dell'antropologia, il portabandiera dellalotta contro i darwinisti sociali, i razziologi e i razzisti; ma ancheun'opzione-rifugio, un bastione dietro al quale trincerarsi perdistinguersi dalle discipline che proprio in quel periodoriuscivano, attraverso l'adozione e l'applicazione di metodiquantitativi, a presentarsi come "più scientifiche"dell'antropologia culturale.L'effetto lungo di questo "arrocco" (tanto per usare una metaforascacchistica) fu che cultura non indicò più soltanto ciò che non eranatura o razza, ma anche ciò che avrebbe potuto essereconcettualizzato in termini di "storia" e di "classe sociale".Diventò una specie di punto di vista auto-legittimato da cuiosservare un campo distinto dell'attività umana. Diventò un modoper guardare ai popoli in una loro astratta "totalità", senzaspecificare quelle differenze e disomogeneità di prospettive, dipotere e di interessi che sempre esistono all'interno di "unacultura".E' vero che non fu sempre così, soprattutto in Europa3. Se peròconsideriamo il ruolo che gli Stati Uniti hanno avuto, nellaseconda metà del Novecento, nella diffusione in Europa e nelmondo di idee e di modelli di consumo, compreso il consumodelle idee, non dobbiamo stupirci se tra queste idee esportatetroviamo anche il concetto antropologico di cultura (o almeno unalettura particolare di esso).Diventato un punto di riferimento irrinunciabile perl'antropologia, e assunte le caratteristiche di un vero e proprioparadigma scientifico, il concetto di cultura, si trasformò, unavolta messo in circolazione fuori dell'accademia, in un concettorigido, autoesplicativo e capace di denotare qualcosa di moltoconcreto, proprio come il mercato, l'arte, lo stato, l'economia ecc.della cui esistenza nessuno poteva dubitare.Reificata, la cultura da concetto descrittivo divenne esplicativo,mentre più spiegava più si irrigidiva, e più si irrigidiva piùspiegava, come altre idee reificate: da idolo della tribù (lacomunità antropologica) si trasformò in idolo del foro (lo spaziopubblico).Una volta reificata, la cultura è diventata non solo ciò che spiegatutto: conflitti, differenze, interessi, atteggiamenti ecc. ma ancheun appiglio per giustificare tutto e tutti, secondo una malintesaidea di relatività culturale. Sul versante opposto la cultura vieneoggi chiamata in causa per sostenere la tesi dello scontro diciviltà, per promuovere politiche educative spesso retrive, perriproporre in chiave debiologizzata nuove forme di razzismo, perprogettare nuove forme di segregazione sociale, così come persostenere le tesi di quegli ambienti iperliberisti che fanno unamissione di civiltà del loro desiderio di esportare ovunque, e conqualsiasi mezzo, le proprie vedute in materia di politicaeconomica.E' sconfortante, per chi frequenta le discipline antropologiche,

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assistere oggi a una simile utilizzazione del concetto di culturaquando si credeva che il suo destino fosse invece quello diliberarci dal biologismo e dal razzismo, di promuovere ilpluralismo e affermare una disposizione etica ed intellettualeall'ascolto della diversità. Esportato al di fuori dell'antropologia, il concetto di cultura nonha certo contribuito a eliminare il biologismo dalle scienzesociali, né il razzismo dal discorso comune e della politica.Piuttosto li ha trasformati. Il biologismo si è abbarbicato all'ideadi cultura, dal momento che non si vede come certe dinamichebiologiche potrebbero sostanzializzarsi se non in comportamenticulturali; il razzismo invece, ne è uscito de-biologizzato, dalmomento che non si presenta più come una teoria che pretende difondarsi su dati biologici. Il neo-razzismo si avvale dell'ideaantropologica di relatività culturale per estremizzarla al punto dasostenere che le culture umane sono tra loro radicalmente diverse,incommensurabili e per questo incomunicanti.Questo razzismo infatti fa leva, rovesciandone il senso, su dueassunti emersi, guarda caso, proprio dal discorso antropologico: ilprimo è quello per cui le culture umane, per quanto diverse e perquanto diversamente organizzate, hanno tutte diritto aconsiderazione e riconoscimento. Il secondo afferma che se allediverse culture è riconosciuta una pari dignità di esistenza, alloradeve essere anche riconosciuto, a chi lo rivendica, il diritto alladifferenza e alla propria identità. È dal "bricolage ideologico" traquesti due assunti e l'idea che le culture umane sonoincommensurabili che il neorazzismo trae le proprieargomentazioni per proporre l'esclusione e la segregazione delleculture.Nel contesto esterno all'antropologia il concetto di cultura èdiventato infatti un modo per impacchettare velocemente razza,etnia, lingua, religione e utilizzarle come marcatori delladifferenza. Preoccupa il fatto che questo modo di maneggiare il concetto stiadiventando una merce d'esportazione in tutto il mondo. SamuelHuntington, già noto anche da noi per il suo libro Scontro diciviltà (1995), ha curato nel 2000 un libro intitolato CultureMatters, ("Questione di cultura"). La tesi di fondo degli autori chehanno contribuito a questo libro è che i divari e gli squilibri socio-economici tra differenti regioni del pianeta, sarebbero il prodottodi eredità e disposizioni culturali, il tutto in barba alle teorie delloscambio ineguale e delle strutture della dipendenza. Su altri versanti la cultura è spesso invocata per rivendicare unproprio diritto alla differenza, ma anche per affermare la propriasupposta superiorità nei confronti di altri. Anche quando si prestaa un uso relativistico, la cultura propria e degli altri è oggetto didiscorsi che evocano una scala graduale di importanza e di valore,come avviene ad esempio nei discorsi sullo sviluppo.In questo gli antropologi hanno, come ho detto, le lororesponsabilità. Sorvolo su quelle teorico-epistemologiche piùcomplesse. Una di queste responsabilità è però senz'altro quella diaver utilizzato il termine cultura in riferimento a unità d'analisisempre più piccole e al tempo stesso estremamente generiche:non solo la cultura trobriandese o balinese, ma anche la cultura

dei contadini, dei pescatori, del cibo, del turista e dell'impresa. Secon il termine cultura si vuole indicare una entità circoscritta,localizzata e descrivibile nella totalità dei suoi elementicomponenti, è evidente che oggi tale concetto è destituito difondamento. Qualcuno ha parlato di "esagerazione della cultura",qualcun altro di "eccesso". Questa "esagerazione" fu il frutto diintenzioni originariamente non del tutto disprezzabili, perchécorrispose al tentativo di presentare ai lettori occidentali i popolialtri come capaci di elaborare esperienze umane ampiamentecondivise e dotate di senso4. Ma questa "esagerazione" ebbeeffetti di reificazione e, trasportata nella sfera pubblica, andò adalimentare il culturalismo. Il fatto è che non furono più solo gliantropologi a "esagerare" le culture, ma anche, e soprattutto,coloro che si sentirono, grazie a questo concetto, in grado diperseguire finalità e interessi propri.Un problema connesso all'uso indiscriminato del concetto dicultura consiste proprio nel fatto che le stesse nuove forme disoggettività che emergono oggi nei vari luoghi del pianeta(soggettività religiose, etniche, politiche, sessuali, giuridiche, digenere ecc.) sono le prime a fare riferimento alla "cultura" comead un parametro di legittimazione del diritto alla differenza,autonomia, indipendenza, riconoscimento ecc. La risposta dell'antropologia, di fronte a queste utilizzazioni delconcetto è ovviamente critica, ed è consistita nel sottolinearecome tali soggettività siano non solo delle costruzioni, maaddirittura delle invenzioni spesso finalizzate a produrre nuove escandalose esclusioni. Ma cosa si è guadagnato col dire chequeste soggettività sono delle invenzioni e delle costruzioni?Spesso, quello che gli antropologi hanno guadagnato da questacritica è nientemeno che l'accusa di….razzismo o, nel miglioredei casi, quella di voler negare agli altri il diritto di rivendicare lapropria autenticità. Meglio sarebbe allora analizzare come questesoggettività si producono nella dialettica della vita reale enell'immaginario che, grazie alla diffusione planetaria dei media,sta diventando una delle più potenti risorse nella costruzione diqueste soggettività.Forse la principale ingenuità da parte degli antropologi è stataquella di pensare che, operando nello spazio neutrodell'accademia, avrebbero potuto influenzare positivamente lasocietà politica e civile, mentre invece mettendo in circolazioneun concetto come quello di cultura, hanno soltanto contribuito, inmaniera del tutto paradossale, a rafforzare i pregiudizi dellasocietà o a ridicolizzare la stessa idea di cultura, come nel caso diuna pubblicità che mi è capitato di vedere di recente, in cui unaditta di sanitari magnificava la propria….. "cultura del bagno".Sono infatti ben pochi coloro che ormai si prendono la briga dichiedere agli antropologi cosa sia la cultura (e tra questi vi è ilcollega che mi ha sollecitato a compiere qualche riflessione inmerito). Ma non è questo il punto. Mi sembra importante infatti far notare come al di fuoridell'accademia gli antropologi abbiano reso un miglior servizioalla società e all'antropologia tutte le volte che non si sonoaccontentati di arzigogolare sul concetto di cultura, ma quandohanno invece investito teoricamente alcune categorie culturali

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politicamente significative. Non nel senso che si sarebbero datialla politica, ma nel senso che hanno analizzato le pratiche e idiscorsi del culturalismo, del razzismo e dell'etnicità senzalimitarsi a dire che in fondo la cultura, la razza e l'etnia sonosoltanto delle invenzioni. Se si pensa alla frequenza con cui la cultura è tirata in ballo perspiegare ciò che accade nel mondo, dovremmo forse chiederci senon sia il caso di cominciare a mettere tra parentesi il concettostesso di cultura. E' un concetto a cui gli antropologi (mecompreso) sono particolarmente affezionati proprio per le ragioniche ne hanno promosso l'elaborazione e l'utilizzazione e cheprima ho cercato di riassumere brevemente. Tuttavia bisognachiedersi se il fatto di perseverare nella sua utilizzazione nongeneri una sorta di legittimazione, di assuefazione o addirittura,dell'uso del concetto in contesti extra-accademici.Cosa voglio dire quando mi azzardo (e non sono certo il solo) adire che forse il concetto di cultura dovrebbe essere messo traparentesi? Infatti non vorrei essere frainteso. Spiegare le recenti diatribe sul crocifisso nelle scuole italiane, osull'opportunità di evocare Babbo Natale ai giovani studentimusulmani invocando la diversa "cultura" delle parti in causa,appare altrettanto inadeguato che riferirsi alla cultura per spiegarele diverse concezioni giuridiche presenti nelle diverse aree delpianeta. Abbiamo bisogno della "cultura" per spiegare le seviziesui prigionieri iracheni? O per comprendere i motivi che un paiod'anni fa spinsero delle donne cecene a cercare di farsi saltare peraria con gli ostaggi in un teatro di Mosca, oppure quando unaventina di anni fa centinaia di adepti di una setta guidata da unpredicatore americano scelsero di compiere un suicidio di massa?Tutto questo ha forse a che vedere con cose come "la cultura"occidentale e quella orientale, quella cristiana e quellamusulmana? Prendiamo un esempio concreto: la distruzione dellestatue del Budda avvenuta nel 2000 nella Valle di Bamyan, inAfghanistan per opera dei taleban . Certo possiamo rifarci alla"iconofobia" della "cultura" musulmana… Ma a parte il fatto cheanche il cristianesimo ha una lunga tradizione iconofobica che vadall'VIII al XIX secolo, i veri motivi per cui i talebani fecerosaltare le statue è perché queste rientravano nel patrimoniodell'umanità stilato dall'UNESCO, una categoria costruita, agiudizio dai talebani, da una cultura, quella occidentale, coi cuiprincipi i talebani non avevano nessuna intenzione di identificarsi.Se i talebani non sono gli unici musulmani a non riconoscersi in

questa "cultura", tuttavia non a tutti i musulmani sarebbe venutoin mente di distruggere le statue. Se dovessimo applicare ilmodello culturalista, cosa dovremmo dire dei movimentiestremisti ebraici che vorrebbero radere al suolo il Tempio dellaRoccia costruito a Gerusalemme dal califfo Omar e poi ricopertod'oro dai crociati per sostituirlo con un nuovo Tempio? Se nonaffrontiamo analisi puntuali e articolate delle motivazioni sociali,politiche, psicologiche che muovono gli esseri umani, e cirifugiamo nella "cultura" avremo fatto il gioco solo di quanti loscontro delle civiltà lo vogliono davvero.Allo stesso modo, non è sufficiente dire che i film che vediamoalla televisione, la diffusione della coca-cola e dei MacDonald nelmondo sono il segno dell'esportazione della cultura americana suscala planetaria: forse sarebbe meglio interrogarsi sugli interessiche muovono questi fenomeni, sui discorsi che li promuovono,sui modelli di accettazione o di rifiuto nei loro confronti e sullemotivazioni e sull'immaginario che stanno alla base di questiopposti atteggiamenti…Poiché il valore d'uso dei concetti dipende dal contesto storico-politico del loro impiego, del concetto di cultura vannocertamente mantenuti i suoi significati di base, cioè quelli chefanno capo all'idea di modelli di comportamento e diragionamento strutturati e appresi. Questa idea va declinata peròattraverso descrizioni di come questi modelli siano costruiti,selezionati, utilizzati per produrre progetti che si confrontanotanto con la dimensione della vita locale quanto con le forze dellaglobalizzazione (tecnologie, media, modelli di consumo,rappresentazioni del mondo); e su come queste forze venganoutilizzate, manipolate e reinterpretate localmente in funzione delleesperienze, delle aspettative, degli interessi, dell'immaginario edei progetti egemonici o di resistenza degli interessati.Concludo queste mie riflessioni con una domanda retorica. Perchégli antropologi (ma non solo loro) dovrebbero affidare la propriacomprensione del mondo a una parola che l'uso extra-antropologico ha trasformato in un idolo del foro e in un feticcio?

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NOTE

1 Tale commensurabilità risultò possibile per via del progetto dell'antropologia di allora: disponendo su una ideale scala temporale leculture, le società e le loro istituzioni, queste apparivano ordinabili per maggiore o minore complessità, essendo ciascuna di esse"rappresentante" di una fase evolutiva della cultura umana generale. Successivamente, quando gli studi etnografici si defezionarononei metodi e nella teoria, apparve sempre più chiaro che tali semplicistici raffronti non erano più adeguati. Le culture cominciarono ad

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essere studiate nella loro particolare singolarità, per cui apparvero non più commensurabili, ma piuttosto incommensurabili, in quantole loro specificità non potevano più dare luogo a raffronti basati su criteri superficiali e spesso del tutto privi di aggancio con la realtà.Questa idea di incommensurabilità delle culture, che favorì l'adozione di una prospettiva relativistica in antropologia, fu un "progresso"nello studio delle culture", dal momento che faceva piazza pulita di prospettive teoriche basate sulla speculazione e su giudizi di valoreimpliciti del tutto euro-centrici. Introducendo l'incommensurabilità e il relativismo metodologico gli antropologi si disposero aproblematizzare lo studio delle culture in direzione di un lavoro di traduzione e di ripensamento delle categorie (euro-centriche) dellaloro disciplina.2 "La cultura o civiltà, considerata nel suo più ampio significato etnografico, è quell'insieme complesso che comprende il sapere, lecredenze, l'arte, i principi morali, le leggi, le usanze e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisite dall'uomo quale membro di unasocietà". Edward B. Tylor, Primitive Culture, London 1871.3 Nell'antropologia europea il concetto di cultura ha conosciuto utilizzazioni più articolate e specificazioni che hanno tenuto conto dellastratificazione interna, dei dislivelli, e della natura storica delle culture. Ripreso negli anni Ottanta in Gran Bretagna dalla tradizionedei Cultural Studies, il concetto di cultura è stato utilizzato in una prospettiva che reintegrava le problematiche del potere, della storia,dell'egemonia.4 Oltre che il frutto dello sforzo di costruire degli oggetti di riflessione che fossero in qualche modo comparabili tanto tra loro quantocon l'esperienza culturale dell'osservatore.

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Il razzismodi Antonio De Lauri

Il razzismo nacque come pratica prima ancora che ci fosse untermine o una categoria che ne designasse l'atto. ParafrasandoTouraine, che lo definì una malattia sociale dei tempi moderni, edEtienne Balibar, potremmo considerare il razzismo come un fattosociale totale, un fenomeno nel quale sono implicate pratiche,discorsi, rappresentazioni e razionalizzazioni.Il razzismo è un concetto che fa la sua comparsa nel contestosociale europeo verso negli anni venti del ventesimo secolo. Nel1925 l'aggettivo "razzista" veniva usato nella pubblicisticafrancese con riferimento alla destra del partito nazionale tedesco;nel 1927 Edmond Vermeil coniò il sostantivo "razzismo", usatocome sinonimo di xenofobia, imperialismo, nazionalismosoggettivista.Tuttavia gli scienziati sociali europei e statunitensi raramenteusarono il concetto di razzismo, erano preferite espressioni quali"relazioni razziali", "società di casta" e altre. La prima ad usare iltermine razzismo per designare fenomeni di sfruttamento,subordinazione ed esclusione fu Ruth Benedict. Nel suo lavoro"Race: Science and Politics", pubblicato nel 1940, l'antropologasi proponeva di definire il razzismo, vale a dire quel fenomenosociale, politico ed ideologico, come il "nuovo calvinismo", cheasserisce che un determinato gruppo ha le stigmate dellasuperiorità e un altro quelle dell'inferiorità. Sulla base delleconoscenze antropologiche, sociologiche e biologiche del tempo,la Benedict tentava di togliere valore alle principali affermazionidel razzismo; ella sosteneva infatti che vi fosse una totale assenzadi relazioni fra la "razza", che è una classificazione fondata sutratti ereditari, la lingua, che è un comportamento acquisito e lacultura, che è un comportamento trasmesso socialmente. Il lavorodell'antropologa si concentrava essenzialmente sul problema dellanatura del razzismo, della sua nascita e della sua diffusione. LaBenedict riteneva la categoria di "razza" uno strumento utile aifini dello studio scientifico della storia umana, ma questa sua fedein una sorta di scienza oggettiva, priva di implicazioniideologiche e di valori, non permetteva all'antropologa di rendersiconto "che proprio nella categoria di razza si nascondeva untentativo di classificare e ordinare il mondo, per disciplinare epianificare una società moderna attraversata da conflitti eambivalenze" [Alietti, Padovan: 40].

"I fenomeni razzisti sono onnipresenti nella storia […] l'odiorazziale è ancorato nella natura umana" [Taguieff: 9]. Questeaffermazioni dello storico Joel Kovel, riprese da Taguieff,rimandano a quella che è la visione continuistica del razzismo:"essa consiste nell'identificare l'etnocentrismo, fenomenoantropologico universale, come fonte o origine del razzismo, ilquale viene ridotto, di conseguenza, a una delle suemanifestazioni storiche, al suo ultimo derivato moderno" [ibidem:9]. Il sociologo W. G. Sumner propone una definizione dietnocentrismo: "il punto di vista secondo il quale il gruppo a cuisi appartiene è il centro del mondo e il campione di misura a cuisi fa riferimento per giudicare tutti gli altri" [ibidem: 10]. In ognisocietà è presente una certa idea di che cosa sia l'uomo, unadeterminata concezione dell'umanità e di ciò che non è umano, inaltre parole una particolare concezione dell'alterità, del diverso.L'etnocentrismo è un fenomeno comune ad ogni società, essoconsiste in "un atteggiamento che porta a giudicare i modi dicomportarsi, le credenze e le idee sul mondo, il sapere degli altrinei termini dei propri valori e della propria tradizione culturale"[Fabietti, Malighetti, Matera: 12]; possiamo quindi considerarlocome un fenomeno che limita o, comunque, che rende difficile lacomprensione degli altri. L'etnocentrismo ci conduce adisumanizzare l'altro, nella modernità ciò si realizza con lacreazione politico-scientifica di categorie di sotto-uomini."L'etnocentrismo conduce ogni popolo a esagerare, ad accentuarei tratti particolari che appartengono ai propri costumi e che lodistinguono dagli altri popoli" [Taguieff: 10]. Tenendo inconsiderazione una definizione ampia del pregiudizio razzialecome "gli altri popoli sono inferiori a noi in quanto sono differentida noi", questo risulterà come un derivato dell'etnocentrismo.Tuttavia, vedremo che il pregiudizio razziale non è sufficente perspiegare il razzismo, sarebbe quindi un errore ridurre il razzismoall'etnocentrismo. Come sostiene Clara Gallini, "ciascun popoloha l'etnocentrismo che si merita" [Gallini: 8]; le categorie e imodelli che utilizziamo, gli schemi mentali che siamo in grado dimettere in atto, sono frutto di una logica e di un sapere bendeterminati culturalmente e storicamente, non è possibile dunqueimmaginarsi al di fuori di tale processo, "non è pensabile porsi aldi fuori della propria storia, di quei contesti che comportano

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C'è solo lo sforzo continuo e necessario per ridurre l'opacità,per diminuire l'ingiustizia, per rendere più vivibile il pianeta che abitiamo,

in definitiva per diventare un po' di più esseri umani.Alberto Melucci "Culture in gioco"

Letteratura, arti figurative, filosofie più o meno misticheggiantidenunciano il disagio moderno, ma assieme non lo sanno oltrepassare.

Ernesto De Martino "La fine del mondo"

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necessariamente una certa dose di etnocentrismo" [Siebert: 158].Tuttavia, suggerisce la Gallini, ciò che possiamo fare è porci inuna prospettiva di "etnocentrismo critico": "la relazione con l'altronon si gioca in uno spazio neutro, al di là e al di sopra della storiae dei rapporti di forza economici e politici" (Siebert: 159). Lanostra attenzione deve orientarsi, quindi, sia alle contingenzestoriche, sia ai meccanismi di costruzione e di rappresentazionedei diversi universi simbolici che danno senso alla percezione ealla comprensione dei fenomeni umani.

Il razzismo come fenomeno moderno

Per ciò che concerne la teoria del razzismo come fenomenomoderno è possibile distinguere tre varianti.· La teoria modernista ristretta. Questa identifica il razzismo come"un immediato successore dell'attività di classificazione dellerazze umane diffusasi nel corso del diciottesimo secolo"[Taguieff: 20]. Le "razze" vengono distinte in base ai loro caratterimorfologici, considerati ereditari. Le classificazioni sono di tipogerarchico, una determinata "razza" viene collocata in un precisopunto in base ad una scala di valori, più precisamente il nero vieneposto al gradino più basso della scala ed il bianco a quello piùalto. La collocazione in questa scala gerarchica è irreversibile e datale posizione derivano l'esclusione, la discriminazione e lasegregazione.Coloro che sostengono questa teoria ritengono che non vi possaessere razzismo senza tenere in considerazione il modernoconcetto di "razza". In questo particolare caso, il razzismo sipoggia sulle tassonomie dei primi naturalisti-antropologi qualiBuffon, Camper etc. Occorre fermarsi, prima di proseguire, sui termini di segregazionee discriminazione. Il primo può essere applicato a realtà diverse,in particolare etniche, razziali e sociali. La segregazione razzialevede l'emarginazione di un gruppo dislocato in spazi ad essoriservati, una separazione geografica quindi a cui di solito siaffiancano un certo tipo di misure restrittive più o meno rigide:ghetti ed enclavi sono un classico esempio di segregazione. Ladiscriminazione razziale può essere applicata a tutti i campi dellavita sociale: scuola, lavoro, etc. e si manifesta anche nel modo incui i discriminati vengono trattati dai media o dal cinema. Ladiscriminazione corrisponde ad una logica di gerarchizzazionementre la segregazione coincide con una logica didifferenziazione.· La teoria modernista ultraristretta. Qui il razzismo è ridotto adottrina del determinismo delle attitudini, cioè dei comportamentie degli atteggiamenti utili per fornire un fondamento scientificoalla tesi della "disuguaglianza delle razze umane". La teoriaultraristretta del razzismo riduce quest'ultimo alle "teorizzazioniscientifiche della razza e alle loro conclusioni normative,osservabili nel diciannovesimo secolo e durante la prima metà delventesimo secolo" (ibidem: 27). La "razza", nel quadro di undeterminismo ereditario di specifiche caratteristiche, vienedefinita in base ad un'origine e allo stesso tempo ad una forma,negando in tal modo l'unità del genere umano. Il razzismo è

quindi una teoria basata sul determinismo biologico delleattitudini, delle disposizioni e degli atteggiamenti propri di unaparticolare "razza", in rapporto alla sua cultura, civiltà eintelligenza. Da questo punto di vista, il termine razzismorimanda alle dottrine ed alle pratiche che rimandano alle teorieantropologiche della fine del diciottesimo secolo e sviluppatesipoi nel diciannovesimo. Il razzismo è essenzialmente nonegualitario e pretende di fondarsi sulla conoscenza scientifica; nesono un esempio il "razzialismo" di Gobineau e il "razzialismoevoluzionista" di Le Bon, Haeckel e Vacher de Lapouge, i qualiprendono a prestito alcuni termini della teoria darwiniana. Ilfondamento del razzismo dunque è la disuguaglianza degliuomini, dove alcuni sono ritenuti di valore inferiore, in base allanaturale appartenenza ad una "razza", ritenuta anch'essa di valoreinferiore. · La teoria modernista ampia. Quest'ultima fa riferimento a tremodelli di "protorazzismo" i quali hanno in comune il mito dellapurezza del sangue e la mixofobia, ossia la fobia per gli incroci frale "razze". Tali modelli sono: il mito del "sangue puro" in Spagnae Portogallo; lo schiavismo e il colonialismo europei; la dottrinadelle "due razze", ossia la dottrina aristocratica francese. Inquest'ultimo caso, il termine "razza" significa stirpe, lignaggio: iFranchi, cioè la nobiltà, e i Galli o i Gallo-romani, cioè il terzostato, costituivano nel loro conflitto la popolazione francese. Il mito del "sangue puro" nella penisola iberica può essereconsiderato la prima forma di protorazzismo occidentale che fecela sua comparsa tra il quindicesimo e il sedicesimo secolo, nelsecolo d'oro spagnolo. Si basava fondamentalmente su dueaspetti: una visione negativa degli ebrei e la convinzione che i"difetti" attribuiti agli ebrei fossero legati alla loro natura, cioètrasmessi ereditariamente come una "incancellabile macchia".Siamo quindi di fronte ad una forma di "antisemitismo razziale",in cui il mito del "sangue puro" è il fulcro ideologico atto agarantire gli interessi della classe dirigente e a difenderne iprivilegi, attraverso pratiche di esclusione e di discriminazione. Inquesta società cattolico-monarchica, nel quindicesimo secolo sisostituì una legislazione discriminatoria basata sulla "purezza"della fede, con una basata sulla "purezza" del sangue. Questaipotesi di un pre-razzismo antiebraico mette in discussione lateoria modernista ristretta con i suoi assunti, in quanto precede dicirca due secoli la comparsa delle prime classificazioni delle"razze". Lo schiavismo, lo sfruttamento coloniale dei popoli di colore e ilrazzismo aristocratico francese, si muovono nella stessadirezione. Il razzismo schiavista e antinegrista si basa sullasuperiorità razziale dei conquistatori: idolatria, cannibalismo,resistenza al cristianesimo, sono le "accuse" mosse contro iconquistati; stigmatizzate e giudicate negativamente divengono letesi su cui si fonda la superiorità dei conquistatori. Secondo EricWilliams, la schiavitù sta all'origine del razzismo: il pregiudiziodel colore è visto in chiave funzionalista, proprio per il fatto diessere nato dalle esigenze economiche delle piantagioni, la suafunzione è quella di legittimare lo sfruttamento e consolidare unsistema di dominio per renderlo "naturale". Ciò non significa che

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prima della comparsa dello schiavismo non vi fossero deipregiudizi europei contro i neri ma, con lo sfruttamentocapitalistico della manodopera di colore, tali pregiudizi furonolegittimati e resi coerenti in una ideologia. In questo contestoschiavista razzializzato, le relazioni tra padroni e schiavi vengonoregolamentate dal Codice nero, promulgato dall'amministrazioneregia nel 1685 e ripreso nel 1724. Tale Codice rappresentò ilmanifesto delle paure, per esempio del diffondersi dei meticci aseguito dei matrimoni interrazziali, della società bianca; mediantaquesto Codice si esprimeva la volontà di mantenere la "barrieradel colore" inalterara e invalicabile. In questo modo nella societàschiavista venne a crearsi una "linea del colore" per separare ibianchi dai neri e dai mulatti, a loro volta gerarchizzati sulla basedi più piccole differenze.La teoria modernista ampia appare quindi più conforme alla realtàstorica: sebbene il sapere scientifico moderno abbia contribuitoalla legittimazione ed alla diffusione del razzismo moderno, nonlo si può porre all'origine ed alla base di quest'ultimo.

Il pregiudizio

Un punto di arrivo in quella che è la tradizione di studi psico-sociologici degli anni trenta-quaranta sul pregiudizio èrappresentato dall'opera di Gordon Allport: "La natura delpregiudizio", 1954.Con il termine pregiudizio, secondo Allport, possiamo indicare"un atteggiamento di rifiuto o di ostilità verso una personaappartenente ad un gruppo, semplicemente in quanto appartenentea quel gruppo, e che pertanto si presume in possesso di qualitàbiasimevoli generalmente attribuite al gruppo medesimo"[Allport: 10]. Il risultato maggiormente significativo che ilpregiudizio comporta è il fatto di mettere il suo oggetto in unaposizione di svantaggio, immeritato, sulla base delcomportamento obiettivo. Vi sono secondo Allport alcuni fattorisocio-culturali che favoriscono il diffondersi e il riprodursi delpregiudizio in una determinata società; è possibile quindi elencaredieci punti:- eterogeneità della popolazione;- facilità dei movimenti verticali;- rapide variazioni sociali con concomitante anomia;- ignoranza e barriere alla comunicazione;- densità relativa della popolazione che costituisce il gruppominoritario;- esistenza di rivalità e conflitti reali;- sfruttamento a sostegno di importanti interessi della comunità;- sanzioni per combattere la coalizione contro capri espiatori;- leggende e tradizioni sostenenti l'ostilità del gruppo;- atteggiamenti sfavorevoli sia verso l'assimilazione, sia verso ilpluralismo culturale.Per poter meglio comprendere la dimensione del pregiudizio, èutile tornare alla teoria dell'identità sociale di Tajfel ripresa ancheda Alietti e Padovan: un individuo che appartiene ad uno specificogruppo, sfruttato sulla base di precise linee di differenziazionesociale, come per esempio la "razza", agisce nei confronti di un

gruppo esterno sentendosi legittimato a comportarsi seguendouno schema collettivamente condiviso. Quindi il pregiudizio èsostenuto e riprodotto dal continuo confronto tra sé e il propriogruppo di appartenenza da una parte, e tra il gruppo diappartenenza e gli altri gruppi, situati geograficamente nellostesso spazio, dall'altra. Seguendo tale ragionamento, seprendiamo per esempio in considerazione una società divisa dalcriterio del colore della pelle, i contenuti dell'identità sociale di unmembro del gruppo bianco dominante forniranno le motivazioniideologizzate dell'inferiorità degli individui con la pelle nera.In "Caste and Class in a Southern Town", John Dollard affermache il pregiudizio dei bianchi nei confronti dei neri si inscrive inun rapporto di dominazione che influisce sul perpetuarsi di unasituazione di casta e di "inferiorizzazione". Gli atteggiamenti deibianchi appaiono all'autore "determinati non tanto dal contattofisico con i neri, quanto dal contatto con l'atteggiamentoprevalente nei loro confronti" [Wieviorka: 42]. Il pregiudizioperciò è il risultato dell' "evoluzione della personalità razzista,delle frustrazioni vissute nell'infanzia, delle difficoltà incontratenella vita adulta" [ibidem: 42], tale ostilità non riesce a sfogarsinel gruppo dei bianchi e si orienta verso i neri. Una simile concezione del pregiudizio la ritroviamo nell'opera diGunnar Myrdal, "An American Dilemma. The Negro Problem andModern Democracy" del 1944. Qui il problema del razzismo ponegli americani davanti al dilemma fra il loro credo, ricco di valorimorali legati alla nazione e alla democrazia, e l'oppressione deineri, alimentata dall'ignoranza. "Il nero è presentato in manierastereotipata, continuamente distorta, sempre nel senso di unasvalutazione; il razzismo contro i neri è carico di concetti e diimmagini che le caratteristiche del bersaglio che colpisce nonbastano a spiegare" [ibidem: 42].Diverse critiche sono state mosse nei confronti dell'analisi delrazzismo che parte dal pregiudizio per studiare tale fenomeno.Bisogna dire, infatti, che non sempre un comportamento razzistaè preceduto dal formarsi di un pregiudizio razzista, può essere unareazione che nasce dalla paura, da disagi, da conflitti etc. Inparticolar modo, inoltre, una visione del razzismo che prendepiede a partire dal pregiudizio, non tiene in considerazione quelloche è il fenomeno collettivo del razzismo: l'ideologia razzista,l'esistenza di gruppi razzisti, le politiche di segregazione ediscriminazione, etc., sono aspetti cruciali del razzismo, chediventano ancor più gravi nelle loro conseguenze e nelle loromanifestazioni.

Verso un modello di intelligibilità( Taguieff )

Secondo Taguieff ciò che chiamiamo razzismo si distribuisce intre diverse dimensioni: le attitudini, ossia le credenze, le opinioni,etc; i comportamenti e quindi le pratiche e le azioni; le costruzioniideologiche.Differenti lavori sono giunti alla conclusione che non esiste unarelazione causale tra razzismo-pregiudizio e razzismo-comportamento, cioè tra la dimensione delle credenze, delle

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opinioni e quindi tra il razzismo-ideologia e le pratiche didiscriminazione, di persecuzione, di violenza.Non sarebbe dunque corretto unire causalmente ciò chepotremmo definire pregiudizi razziali, con i comportamentisociali razzisti, o meglio, tali comportamenti non derivanosolamente da opinioni razziste o xenofobe. Un altro punto importante è che il razzismo si muove conriferimento alla "razza" in senso biologico, "razzismo classico", oriferendosi alle categorizzazioni elaborate sulla base dei tratticulturali, "razzismo culturale". Bisogna poi distinguere il "razzismo sfruttamento", vale a direquello coloniale e schiavista, dal "razzismo dello sterminio", ilquale auspica al totale annientamento di un determinato gruppoumano. Il primo può essere spiegato con la teoria marxista,ovvero la teoria della scelta razionale, sulla base di interessieconomici, in cui è legittimato lo sfruttamento delle "razzeinferiori". Nel secondo caso, lo "straniero" è visto come il nemicoassoluto che minaccia la sopravvivenza della propria identità. Un'altra distinzione che viene proposta è quella tra "razzismoconcorrenziale", cioè delle relazioni razziste connesse ad interessicontrastanti, e "razzismo del contatto", della fobia del contatto,del contagio, della contaminazione. Si possono mettere in evidenza le due forme del razzismo-ideologia: il "razzismo universalista", il quale rifiuta la differenzae si fonda sulla negazione dell'identità; il "razzismodifferenzialista", basato sulla negazione dell'unità del genereumano. Prendendo in considerazione le caratteristiche in comune tra levarie forme di razzismo elencate, è possibile ipotizzare un"modello ideale di razzismo", partendo dalla distinzione tra lecaratteristiche cognitive e le caratteristiche pratiche del razzismo.Per quel che riguarda le prime vi sono tre generi di operazioniricorrenti:- una categorizzazione essenzialista degli individui e dei gruppi,la quale riduce l'individuo a membro di un gruppo, la cuiappartenenza è normativa e implica il possesso di particolari tratticomuni ai membri del medesimo gruppo. Da ciò deriva lanegazione della comune natura degli esseri umani.- Una stigmatizzazione degli individui, ossia l'esclusionesimbolica dei membri ritenuti appartenenti ad un determinatogruppo, con la conseguente creazione di una serie di stereotipinegativi.- La convinzione che alcune categorie di esseri umani non sianocivilizzate, ne tanto meno civilizzabili.Sono due quindi i principi al centro del pensiero razzista: gliesseri umani differiscono tra loro in maniera non egualitaria, cisono cioè delle categorie di uomini ritenuti ad un più basso livellodi umanità; questi gruppi umani che differiscono sono consideratiinutili e pericolosi, perciò rifiutati e inammissibili.Per quel che concerne le caratteristiche pratico-sociali delrazzismo è possibile distinguere tre ordini di azioni:- la segregazione, la discriminazione, l'espulsione dei "nonaccettati";- la persecuzione, attraverso l'uso della violenza, nei confronti dei

membri di un gruppo, proprio in quanto membri di quel gruppo;- lo sterminio di tutti gli appartenenti ad una determinata categoriadella popolazione.Il razzismo non si riduce ad un discorso ideologico-politico ma"costituisce anche un'esperienza vissuta, mista di motivazioni noncoscienti e di "buone ragioni" legittimatorie per il razzista,un'esperienza vissuta nella quale si intrecciano affetti (emozioni,passioni), racconti leggendari, convinzioni e interessi legati adelle situazioni, a dei contesti istituzionali, così come a dellepratiche sociali dotate di valore funzionale (legittimare,razionalizzare)" [Taguieff: 69].

La violenza razzista

Nel momento stesso in cui viene a costituire la negazione di unindividuo, il razzismo è violenza. È una violenza simbolicaquando tocca l'integrità morale di una persona, quando si esprimeattraverso il disprezzo, il pregiudizio, le manifestazioni di odio,senza dirette conseguenze sull'integrità fisica di una persona. Laviolenza razzista può essere, dunque, essenzialmente simbolica,oppure manifestarsi in forma di microviolenza, comportamenti dilogoramento e anche in forme ancor più brutali come la violenzaomicida.Rob Witte, ripreso da Wieviorka, nel suo lavoro sulla violenzarazzista e lo Stato, del 1966, individua quattro fasi nel fenomenodella violenza razzista. Può trattarsi, secondo Witte, di unproblema individuale, sociale, un problema che rientra in undeterminato dibattito politico oppure un problema conseguente adun'azione da parte dello Stato. "Il suo ragionamento, che siapplica alle democrazie, non prevede il passaggio ad una quintafase, in cui sarebbe lo Stato stesso a mettere in atto una politicarazziale" [Wieviorka: 52].Tenendo in considerazione il livello da cui scaturisce la violenza

razzista, possiamo sostenere che questa può innescarsi a livelloinfrapolitico, dove è messa in atto da attori definiti in terminiculturali, economici e sociali, che stanno al di fuori dello spaziopolitico o quanto meno dovrebbero ufficialmente essere fuori datale ambito. L'estensione e la gravità della violenza sonodeterminate in questo caso dall'atteggiamento e dalla capacità diintervento dei poteri pubblici, ma anche da una eventualelegittimazione del fenomeno, oppure, per esempio il caso dellaFrancia con il Front National, dalla presenza di partiti politici chela sostengono più o meno apertamente. In quanto fenomenoinfrapolitico, la violenza razzista è strettamente legata alletensioni che si generano nell'ambito socio-culturale. La violenza razzista può essere anche di tipo politico, ossiarealizzata e coordinata da attori politici chiaramente intenzionatia condizionare la vita politica di una determinata società. Inquesto caso alle spalle vi è un'organizzazione che, sia dal punto divista ideologico che pratico, guida la violenza per raggiungereprecisi obiettivi, i quali possono essere conseguiti più o menolegalmente, anche se quasi sempre si trasforma in violenzaincontrollata. Le cause principali della violenza razzista rimandano a due piani

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di analisi essenziali: sociale da un lato e identitario, culturale,dall'altro. Nel primo caso, sul piano sociale, gli episodi di violenza sonoposti in relazione ai meccanismi di funzionamento di una datasocietà, dove alcuni gruppi cercano di mantenere una posizionedominante o di evitare l'indebolimento, l'esclusione dal quadrosociale. In alcuni casi la violenza può essere strumentale, cioèfunzionale al mantenimento di un determinato ordine sociale:"qui, la violenza non mira a distruggere o a escludere del tutto ilgruppo che prende di mira; intende semplicemente interiorizzarlo[…] Tutto questo, in Sudafrica, è stato una caratteristicaimportante dell'apartheid" [ibidem: 56]. In maniera diversa, laviolenza razzista può essere legata a situazioni di crisieconomiche, in cui un gruppo, privo di risorse, si contrappone adun'altro gruppo per escluderlo dal mercato del lavoro, "permantenere la propria occupazione e le proprie condizioni di vita,per stabilire, attraverso la razza, una differenza sociale che rischiadi venire abolita" [ibidem: 57]. Tuttavia, la violenza razzista puònon rimandare a rapporti di dominazione o di sfruttamento equindi ad una logica di declino sociale ma, al contario, può esseredeterminata dall'assenza di rapporti sociali e quindi da una logicadi esclusione."La violenza razzista può maturare anche a partire da significatiprevalentemente culturali, secondo una modalità offensiva oppuredifensiva" [ibidem: 60], in quest'ultimo caso può esprimersi comeuna reazione ad una minaccia che mina l'identità collettiva, chesia in termini di nazione, di comunità o di religione. In chiaveoffensiva può essere letta come un'identità collettiva cheaccompagna un processo di espansione, il razzismo coloniale ne èun esempio. "L'appello a un'identità nazionale, religiosa, etnica, oaltro, nelle sue espressioni concrete non è di per sé né razzista néviolento. Ma quando lo diviene, la sua peculiarità è di esseresoprattutto differenzialista e di poter sfociare in una violenzasenza limiti" [ibidem: 60].

Quattro livelli di razzismo

· Infrarazzismo. Corrisponde al primo livello, qui il razzismo èdebole e si manifesta senza una specifica unità, la violenza èdiffusa, localizzata e i pregiudizi e le opinioni spesso non hannoconseguenze pratiche. Raramente hanno luogo processi disegregazione e gli atti di discriminazione, quando avvengono,sono il più delle volte contenuti. · Razzismo dispiegato. In questo caso il fenomeno èmaggiormente consolidato, si verificano più frequentemente attidi violenza, i quali sono più brutali e messi in atto da gruppi attivi,come per esempio gli skinheads. A questo secondo livello ilrazzismo non è più un fenomeno marginale anche se le suediverse espressioni non sono ancora collegate e integrate nellasfera politica.· Razzismo istituzionalizzato. A questo livello il fenomeno entra afar parte della vita delle istituzioni, le quali più o menoattivamente, in maniera implicita o esplicita, contribuiscono adattuare la segregazione e la discriminazione. Il razzismo diventa

tema di dibattiti politici, sostenuto da partiti che organizzano edirigono la loro politica adottandolo come nucleo dei loro discorsie progetti.· Razzismo totale. Il quarto livello infine è quello in cui ilrazzismo penetra in ogni parte del corpo sociale, vengono attuatiprogrammi ispirati ad una dottrina razzista, mobilitandoeventualmente le forze attive del paese, organizzate in funzione ea sostegno di alcuni principi razzisti fondamentali. L'esperienzanazista, o quella dell'apartheid in Sudafrica, sono esempi diattuazione di un razzismo totale.Il pericolo maggiore è quindi rappresentato dalla possibilità che ilrazzismo penetri nelle sfere istituzionali e politiche, poiché si aprecosì la via alla sua progressiva integrazione e a nuove prospettivedi mobilitazione. "Legittima i comportamenti che vi si ispirano,mette a sua disposizione le risorse dei partiti politici al potere odelle istituzioni, risveglia nuove vocazioni nella vita intellettuale.Si tratta quindi di qualcosa di più di un semplice cambio di scala:rappresenta un salto di qualità" [ibidem: 66].

I mass media

"Se non si è mai avuta diretta esperienza di individui originari dialtri popoli, nell'incontro casuale che si può avere con talipersone, la loro percezione da parte degli attori sociali avverrànell'ambito dell'orizzonte culturale costruito con le immagini e lerappresentazioni ricevute dai mezzi di informazione a cui essihanno avuto accesso. Queste immagini strutturano lasocializzazione anticipatoria dell'altro. Se esse sono positive, vipuò essere un'apertura verso l'altro; viceversa, se sono negative,vi può essere chiusura ed ostilità" [Cotesta: 263]. I media, in alcune situazioni, contribuiscono a riprodurre ilrazzismo, ciò accade per esigenze di scoop, per ottenere lecosiddette informazioni-spettacolo, dando di conseguenza uncerto peso e visibilità ad alcuni "attori" razzisti. Bisogna subitoprecisare che non sempre i media diventano "portatori dirazzismo", in molti casi tentano di farsi attori dichiaratidell'antirazzismo. Non è dunque corretto incolpareeccessivamente i media per il loro contributo all'evoluzione delrazzismo, così come non si bisogna esonerarli da qualsiasiresponsabilità nel suo perpetuarsi.Ai media può essere riconosciuta una certa capacità di garantireriproduzione e diffusione al razzismo, quest'ultimo "è oggetto dicomunicazione, è un'ideologia che i media riproducono ediffondono, perpetuando gli stereotipi e i pregiudizi chetraversano la società considerata" [Wieviorka: 91]. In un'altraprospettiva le scienze sociali attribuiscono ai media laresponsabilità della nascita dell'odio e dei pregiudizi razziali. Imezzi di comunicazione di massa sono visti come parte di unmondo a sé stante, come sostiene Patrick Champagne: "leggendoil giornale, la gente crede di apprendere ciò che accade nelmondo; in realtà […] non apprende altro che ciò che accade algiornale" [ibidem: 92]. In quest'ottica, il razzismo appare come ilprodotto del lavoro della società su sé stessa e allo stesso tempo ilrisultato di una particolare attività di comunicazione, sviluppatasi

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in maniera indipendente. Tuttavia, "nel circoscrivere il sistema deimedia a uno spazio che tende a rendersi autonomo dal lavoro dellasocietà su sé stessa, si trascura quel che è proprio dei media indemocrazia, vale a dire il ruolo che essi svolgono nellacomunicazione moderna, che non si riduce certo né a unafunzione di specchio, né a un'attività autonoma. Avviene per ilrazzismo quel che avviene per molti altri fenomeni sociali: imedia non agiscono né in maniera omogenea né unidimensionale:fanno parte di sistemi d'azione che li vedono collegati a ogni sortadi attori" [ibidem: 93-94]. In "Sociologia dei conflitti etnici", Cotesta mostra come esempiodell'influenza dei media sulla formazione di pregiudizi e disentimenti negativi, il caso dei giornali italiani riguardo alfenomeno dell'immigrazione. Secondo il sociologo leinformazioni sull'immigrazione sono spesso impostate sustereotipi: "vi è una semplificazione eccessiva dell'immaginedell'altro tutta giocata in termini di allarme sociale […]Un'immagine imperniata sulla contrapposizione "noi"/"loro" e suitratti di una caratterizzazione positiva per "noi" e negativa per"loro". "Noi" implica ordine, razionalità, solidarietà; "loro"invece implica disordine, irrazionalità, bisogno. […] Lacomunicazione sull'immigrazione legittima la "nostra" superioritàe la "loro" inferiorità" [Cotesta:].

L'antirazzismo

La lotta contro il razzismo per poter essere veramente efficacedeve seguire, o meglio, deve adeguarsi alle trasformazioni dellerappresentazioni "razzistizzanti" e alle continue riformulazioni ditali argomenti, pensare quindi ad una pluralità di razzismi, e allemetamorfosi che subiscono le concezioni razziste. Nel Luglio del 1950 e nel Giugno del 1951, le dichiarazionidell'UNESCO si impegnavano a denunciare il razzismo come un"mito assurdo", basato su convinzioni scientificamente false,proponendo un programma fondato sull'istruzione scientifica esulla lotta intellettuale; l'antirazzismo era così auspicabilemediante l'istruzione e l'educazione. Tuttavia diverse ricerche suipregiudizi e gli stereotipi di alcuni psicologi sociali hanno messoin evidenza il carattere irrazionale connesso al pregiudiziorazziale: l'individuo soggetto a tali pregiudizi si rifiuta di accettarela "verità" dei fatti scientifici e rimane ancorato alle sue idee,contrastando con l'ottimismo dell'antirazzismo portato avantidall'UNESCO legato all'ideale educativo. In periodi più recenti si è passati da un programma universalistadi educazione scientifica, alla pratica sistematica della sanzionegiuridica, vedendo come unico metodo di lotta al razzismo larepressione giuridica: un ritorno al pessimismo nell'ambitoantirazzista, un ritorno legato alla visione del razzismo comefenomeno inscindibile dalla natura umana. "Se lo spirito umanoha queste tendenze a essere razzista, è molto probabile che unsimile comportamento si perpetui. […] La cosa naturale è ilrazzismo, non l'antirazzismo: quest'ultimo può essere solo unaconquista" [Taguieff: 83]. In questa prospettiva la lotta alrazzismo diventa un'infinita lotta contro la natura umana, una

continua opposizione al ritorno della natura cattiva nel deboleordine della cultura. Un errore in cui è facile cadere è l' "errore fondamentale diattribuzione", ossia la propensione a rimandare al comportamentodi un soggetto sulla base delle disposizioni di quest'ultimo senzatenere in considerazione la situazione. Tale errore è spiegabileattraverso "l'efficacia simbolica di una teoria "disposizionalista"generale, intrecciata alla trama della cultura occidentale" [ibidem:85]. Una teoria apertamente antirazzista può cadere nell'illusionedisposizionalista. Ciò appare più chiaro prendendo come esempiola spiegazione di Memmi sulle cause del sistema coloniale: "glieuropei hanno conquistato il mondo perché la loro natura li hapredisposti a farlo, i non europei sono stati colonizzati perché laloro natura li condannava ad esserlo" [ibidem:87]. Da ciò sipotrebbe concludere che i conquistatori sono di natura superiore,mentre i conquistati sono di natura inferiore. La seguentecitazione di Taguieff spiega chiaramente questo errore diinterpretazione disposizionalista: "non si è razzisti, lo si diventa edunque si può anche non esserlo più, pur essendolo stati. Ilrazzismo manifestato dal comportamento di un attore sociale nonpuò essere spiegato attraverso le tendenze o le disposizioni diquest'ultimo. […] L'illusione disposizionalista va di pari passocon le pseudospiegazioni essenzialiste e con il ricorso a modellidi legittimazione attraverso la naturalizzazione dei fenomenisociali" [ibidem: 88]. Taguieff si pone un'ulteriore domanda, apparentemente banale:perchè essere antirazzisti? Egli distingue sei differenti risposte.- In nome dell'Illuminismo, della civiltà, del progresso, lottandocontro la barbarie, mettendo fine alle disuguaglianze fra gli esseriumani, alla discriminazione e alla segregazione. L'antirazzismodiviene un tentativo di "riumanizzazione" di una umanità viziata,ma può anche presentarsi come una forma di progressismo.Quello che è implicito in tale ragionamento è l'inevitabilegerarchizzazione tra ciò che viene riconosciuto come civile,contro ciò che viene considerato barbaro: esiste un confine trabarbarie e non-barbarie? Esiste quindi una scala di valori condiversi gradi di umanità? In questa prospettiva, l'antirazzismo, adopera di un effetto perverso, offre i propri contenuti per un contro-razzismo: "l'antirazzista pone se stesso, grazie alla sua posizioneantibarbarica, tra i civilizzati e i civilizzatori; si attribuisce il titolodell'essere più umano tra gli esseri umani; e pone i razzisti, coloroche egli percepisce come tali, tra i semiumani da controllare"[ibidem: 91].- In nome della verità scientifica e del progresso della conoscenza,con la continua lotta alla falsità, ai giudizi erronei, ai ragionamentiinfondati, stringendo così l'antirazzismo alla verità scientificasempre in evoluzione. Non è comunque sufficiente aggrapparsi adaffermazioni che smentiscono scientificamente il razzismo.Pierre-Henri Gouyon pone il problema da un altro punto di vista,egli domanda a chi crede di poter lottare contro il razzismolimitandosi a dire che le teorie sulle razze umane non possiedonoun fondamento genetico, a questi si chiede: e se invece neavessero uno? Bisognerebbe in quel caso essere razzisti? Larisposta a questa domanda è no, ma può essere un buono spunto

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per poter valutare la plausibilità della posizione antirazzistafondata sulla verità scientifica. - In nome del bene, della volontà di mettere fine all'infelicitàumana e a tutto ciò che ferisce gli uomini, un antirazzismo moraleche auspica il raggiungimento di un mondo fraterno e pacifico.Questo antirazzismo affonda le sue radici nella tradizionegiudaico-cristiana, in una posizione ostile ad ogni pluralismo,quindi proiettata al riconoscimento di un unico Dio, di un'unicaverità, non riconoscendo la diversità e operando contro questa unaviolenza simbolica. "La dolcezza fraterna ha un proprio rovescio:la durezza dell'unica via implicata nella triplice tesi del Dio unico,della verità unica e dell'unicità dell'umanità" [ibidem:96].- In nome del fatto di evitare il peggio; un'altra risposta di ordinemorale, in cui l'obiettivo non è quello di eliminare ogni forma dimale, ma di evitare, o limitare le sue manifestazioni peggiori. Ilmale peggiore va eliminato e ciò che rimane comunque fuoridall'ambito del bene va tollerato. Tale tolleranza può esseredistinta a tre livelli: sopportare gli insopportabili; riconoscere ilvalore di tutto ciò che differisce; sopportare solo le differenze chedifferiscono bene. Il problema nasce nella misura in cui non èpossibile evitare il relativismo e il soggettivismo che rendonoarbitrario qualsiasi tentativo di definizione di intollerabilità. Cosapuò essere tollerato? Quale ordine morale può stabilire la linea diconfine tra bene e male? - In nome della pace e dell'uguaglianza, attraverso l'eliminazionedi tutte le barriere razziali, etniche, culturali che da sempredividono gli uomini e li mantengono in conflitto tra loro. Il fineultimo è quello di giungere ad una "civilizzazione mondiale",ogni divisione o differenziazione è un male, le identità nazionalial pari delle identità culturali diventano degli ostacoli. Questaposizione porta ad un inevitabile paradosso, ossia il fatto che glistessi antirazzisti arrivano a praticare l'eterofobia, a rifiutare ladifferenza, proprio come i razzisti.- In nome del diritto alla differenza, del rispetto delle identitàcollettive, sostenendo che la diversità culturale sia un attributoessenziale della natura umana. Riconoscere la dignità al gruppo diappartenenza di un uomo vuol dire riconoscere la sua dignità diessere umano, dando valore alla sua identità collettiva. Lanegazione dell'identità è il compimento della disumanizzazionedell'uomo, l'antirazzismo è così un differenzialismo, pluralista.Tuttavia tale ragionamento implica una radicale posizione anti-universalista, con la convinzione che il razzismo sia proprio unaforma di universalismo, riducendolo così ad un'eterofobiabiologizzante, un etnocentrismo mascherato.Facendo un confronto tra le ultime due risposte, giungiamo allaformulazione del "fondamentale dilemma dell'antirazzismo",ossia alla scelta fra il rispetto delle differenze, allo scopo digarantire la diversità umana, oppure il tentativo di creare una"unità della specie umana", attraverso la mescolanza. Taguieff nelle sue considerazioni conclusive mette da parte leproblematiche che stanno dietro alle definizioni di razzismi eantirazzismi: "le difficoltà speculative incontrate nel tentativo difondare la lotta contro il razzismo possono e devono essere messetra parentesi in tutti quei casi in cui l'azione non può farsi

attendere. In breve, per le situazioni in cui bisogna agire d'urgenzasi possono fare delle scelte assiologiche e normative. […] Lafinalità è unicamente quella di ottenere alcuni risultati,adattandosi alle condizioni del contesto" [ibidem: 109-110]. Ilsociologo pone la questione da un punto di vista operativo,tuttavia "in tutti quei casi in cui l'azione non può farsi attendere"si agisce a partire da presupposti di tipo emotivo ed ideologico. Irisultati ottenuti sono la diretta conseguenza delle scelte operate e,tali scelte, derivano dalla posizione che decidiamo di assumerenel "discorso sul razzismo". L'analisi dei fenomeni razzisti e delleragioni antirazziste deve essere condotta attraverso una riflessionestorica e logica attenta ai processi di formazione e ditrasformazione delle società. Tale riflessione, tuttavia, sarànecessariamente anche ideo-logica, il frutto delle convinzionisoggettive ragionate e rappresentate.

Conclusioni

Alla luce di questa analisi del razzismo, appare appropriatal'affermazione di Taguieff il quale, prendendo spunto da Hegel,afferma: "il noto in genere, appunto perchè noto, non èconosciuto" [ibidem: 1]. Il razzismo è ben noto eppure non lo siconosce. È infatti diffusa una generica opinione su questofenomeno, difficilmente si trova qualcuno che non sappia nullasul razzismo, ciò però non significa che ci sia una realeconoscenza delle sue implicazioni, delle sue origini, del suoperpetuarsi nella storia con continue trasformazioni e delle sueconseguenze a livello sociale, politico, economico e culturale.In ultima analisi, il razzismo (ma sarebbe più corretto parlare dirazzismi) è una sfida che non va trattata né per eccesso, né perdifetto, ossia, non va drammatizzata e considerata come una lottainsostenibile, né banalizzata o minimizzata. Il razzismo, in quantoparte dei meccanismi di funzionamento e di cambiamentosociale, è in grado di allargarsi ogni volta che le istituzioni el'apparato politico risultano incapaci di gestire le difficoltà socio-culturali in maniera democratica, o ancora meglio in manieraresponsabile. Il rischio di razzismo è altrettanto evidente quandotalune comunità prosperano, ed impongono ai propri membri "lalegge del gruppo", senza rispettare i diritti e le generali modalitàdella vita della "civitas", arrivando nei casi estremi alla suadistruzione.Renate Siebert afferma che "la nostra responsabilità, se vogliamocontribuire a disimparare il razzismo, dovrebbe anche consisterein un'attenzione al linguaggio. Le razze non esistono? Bene, alloranon ne usiamo neanche più la parola" [Siebert: 19]. Questoatteggiamento, che parafrasando Alberto Melucci potremmodefinire come un processo di nominazione responsabile erinnovata, può condurci su strade diverse da quelle che fino adoggi abbiamo percorso: mettere in discussione un certo tipo dilinguaggio non è solamente un esercizio accademico ma puòessere un buon punto di partenza verso una migliorecomprensione di noi stessi e del mondo che ci circonda."Il problema, in ultima istanza, rimanda ad un'etica dellaresponsabilità che possa comprendere la dimensione della

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differenza e soprattutto cogliere in anticipo quali possono essere i"fatti sociali" che danno forma e sostanza al razzismo"

[Alietti, Padovan: 187].

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BIBILIOGRAFIA

Alietti, Padovan "Sociologia del Razzismo" (2000) Carocci, Roma.Allport "La natura del pregiudizio" (1973) La Nuova Italia, Firenze.Bauman "Modernità e olocausto" (1992) Il Mulino, Bologna.Cotesta "Sociologia dei conflitti etnici" (2001) Laterza, Roma-Bari.Fabietti, Malighetti, Matera "Dal Tribale al Globale" (2000) Bruno Mondadori, Milano.Gallini "Giochi pericolosi. Frammenti di un immaginario alquanto razzista" (1996) Manifestolibri, Roma.Melucci "Culture in gioco" (2000) Il Saggiatore, Milano.Siebert "Il Razzismo" (2003) Carocci, Roma.Wieviorka "Il Razzismo" (2000) Laterza, Roma-Bari.Taguieff "Il Razzismo" (1999) Raffaello Cortina, Milano.

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Una recensione riflessiva diun'etnografia dialogica:

Il Quilombo di Frechaldi Michele Parodi

Se l'analogia testuale invita ad analizzare le culture come deitesti, possiamo anche pensare, invertendo i termini dell'analogia,di analizzare un testo come una cultura. L'idea alla base di questolavoro è stata allora quella di provare a realizzare una recensionecome se fosse una sorta di etnografia. In questo caso, tuttavia,volendo analizzare un testo etnografico, Il Quilombo di Frechal,si trattava, inoltre, di creare un'etnografia di un'etnografia,un'antropologia dell'antropologia, coinvolgendo direttamenteanche l'autore del testo e i suoi lettori in un complesso gioco diruoli. Ciò che mi interessava era soprattutto tentare di renderenella mia recensione gli aspetti performativi, illocutivi del testoetnografico che intendevo studiare.L'impresa si è rivelata sin dall'inizio estremamente difficile e

intricata per i numerosi, sovrapposti, intrecciati piani di analisi:i nativi dell'etnografia di Frechal, il testo del Quilombo, il miomedesimo testo in costruzione, le idee dell'autore del Quilombosul tipo di sperimentazione che intendevo svolgere. Soprattutto siè rivelata così difficile perché le mie interpretazioni critiche delleinterpretazioni dell'autore si mescolavano con le mieinterpretazioni teoriche generali che invece utilizzavano leinterpretazioni dell'autore per sostenere le proprie tesi. Quipresento i risultati di questa esperienza timidamente abbozzata ecertamente incompiuta.

1. Premessa

Oggi è il primo Maggio. Finalmente mi decido a mettere periscritto in una forma coerente le tante idee che ormai da un meseho iniziato a registrare tra i miei appunti. Una raccolta di note e ditracce disordinate che ora cercherò di percorrere fino in fondo,seguendo i differenti piani da me seguiti nelle diverse letture delQuilombo di Frechal . Tutto ha avuto inizio quando ho deciso di frequentare il corso diMetodi e teorie della ricerca antropologica, corso tenuto dalprofessore Roberto Malighetti all'interno della LaureaSpecialistica in Etnologia e Antropologia Culturale. Conoscevogià il professore da parecchio tempo e mi interessava il fatto che

nella bibliografia d'esame avesse inserito Il Quilombo di Frechal 4,il libro in cui pubblicava i risultati delle sue ricerche su unacomunità brasiliana di discendenti di schiavi, ricerche di cuiavevo già letto alcuni resoconti preliminari 5.

Fig. 1

Tradizionali case di Frechal (taipas)6.

Per fare in modo che il corso di etnografia, che ho poieffettivamente frequentato tra marzo e aprile 2004, non rimanessesolo una lunga discussione teorica di principi metodologici,avevo pensato di mettere in pratica direttamente le questioniepistemologiche che sarebbero emerse dalle lezioni, adottando unatteggiamento riflessivo e ponendo la massima attenzione allaprocessualità delle mie successive letture, alla dinamica dei mieipunti di vista, nel dialogo tra i vari testi che avrei dovutoaffrontare: i miei ricordi e i miei appunti delle lezioni, i testiteorici proposti, le monografie etnografiche, le mie note e le mieidee trascritte e organizzate in una sequenza apparentementedisomogenea, ma fedele alla temporalità effettiva e contestualedel mio pensiero; in pratica i miei testi "liminari", i miei "pre-testi"7.

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A Frechal il passato persisteva nel presente [...] come "modello perla realtà" e come strumento per rivendicare la proprietà della terra.In questo senso era "storia viva"1

"Non sono monumenti [...] Frechal è una cosa viva [...] Il quilombo2 non è la sfinge, non è una piramide"3

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Verso il termine del corso nacque infine l'idea di raccogliereinsieme questi materiali orientandoli ad un obiettivo concreto: lascrittura di una recensione dialogica di una etnografia dialogica:Il Quilombo di Frechal . Ciò mi avrebbe così permesso diinaugurare un rapporto realmente dialogico con il docente delcorso, docente al medesimo tempo autore del testo che miinteressava affrontare. Ciò significava impegnarmi a sostenereinnanzitutto le negoziazioni, i fraintendimenti, le manipolazioni,le complicità, le collusioni, che l'incontro tra me e l'autore-docente avrebbero necessariamente sviluppato8.

2. Prima lettura

La mia prima lettura del Quilombo è stata profondamenteinfluenzata dalle lezioni tenute dal professore Malighetti, lezioniimpostate inizialmente9 su una critica epistemologica moltoserrata dell'osservazione partecipante e sulla decostruzione dellarivoluzione mitopoietica prodotta, all'interno della comunitàaccademica degli antropologi, dalla pubblicazione dei resocontietnografici delle ricerche di Malinowski nelle isole Trobriand. Ineffetti anche successivamente le mie interpretazioni del Quilombosi sono sempre posizionate in rapporto dialettico con Malinowski,con le concomitanti letture dei suoi diari segreti10 e della sua primaimportante etnografia, gli Argonauti del Pacifico occidentale11.Nelle mie interpretazioni, Malinowski/Malighetti, presentavanodue differenti strategie di superamento dell'opacità dei nativi,strategie che io intendevo però considerare complementarimettendo in evidenza gli aspetti poietici contenuti in entrambi ipunti di vista metodologici. Nella lettura dei primi capitoli del Quilombo sono statoinizialmente colpito dalla poca attenzione con cui l'autore si eraimpegnato a ritrarre un quadro particolareggiato della comunità diFrechal. Uno stile etnografico del tutto diverso dalla straordinariaprofusione di descrizioni contenute nelle monografie diMalinowski. In effetti mi sembrava che la sindrome della tribùnoiosa di cui Malighetti si dichiarava affetto12, fosse prodotta dagriglie interpretative che non erano interessate a cogliere i dettaglidella vita sociale, famigliare e comunitaria degli abitanti diFrechal. Lo stesso autore ne era cosciente13, ed anzi questoproblema costituiva il punto di partenza del suo lavoroetnografico. Questa mancanza di descrizioni, di dati osservativi esaurienti miirritava poiché non forniva appigli alla mia immaginazione nutritadalle letture di Amado e Garcia Marquez, dai miti di Zumbi doPalmares14, del "marronaggio" e delle rivolte nere, dal mito deiremoti tam-tam dei negri che svegliavano i viaggiatori europei15.In qualche modo ero anch'io sofferente di una patologia che miobbligava alla "frustrante ricerca di tratti o eventi eccezionali [...]una sorta di "malattia infantile dell'antropologismo" 16 . Però, la mia inquietudine aveva anche una ragione metodologicapiù profonda. L'interpretazione critica di Malighettidell'osservazione partecipante, nei termini di un'impossibile eparadossale immedesimazione totale con i nativi, di unamiracolosa e mistificante empatia attraverso cui il ricercatore sul

campo, simile al camaleonte, poteva raggiungere gli anfratti piùintimi della psicologia nativa, mi sembrava molto riduttiva.

Fig. 2

Zumbi.

Il mio punto di vista era differente. Ad un certo momento ilproblema dell'osservazione partecipante mi si è in parte chiarito.La prolungata "co-presenza" dell'osservatore e dell'oggetto diricerca, l'intimità che si sviluppa da tale vicinanza forzata, rendepossibile connettere tra loro una grande quantità di dati concreti,osservazioni che il pensiero organizza gradualmente in quadri piùo meno coerenti. E' da questa forma di intuizione che a mio avvisodipendeva l'inspiegabile "magia dell'etnografo" di cui parlava lostesso Malinowski17. Come dice Clifford, la Verstehen, "lacomprensione degli altri, stando all'autorevole punto di vista diDilthey (1914), scaturisce inizialmente dal mero fatto dellacoesistenza in un mondo condiviso"18, mondo costruito sulla basedi indizi, tracce, gesti, schegge di senso, attraverso un contattosensoriale che suggerisce una conoscenza cumulativa eprocessuale19. Si tratta dunque, secondo questa prospettiva di un'operazionemolto lontana dall'immedesimazione empatica. Nell'introduzioneagli Argonauti Malinowski insiste sull'importanza di organizzarele osservazioni di campo in carte sinottiche capaci di evidenziarei problemi irrisolti. Insiste sull'importanza di non trascurare né ifatti banali della quotidianità, né gli eventi eccezionali, che unaprolungata permanenza permette di osservare. E' questo accumulodi informazioni ridondanti che sviluppa la possibilità analogica dideterminare somiglianze, associando tra loro il quotidiano el'eccezionale. Ed è da questo contatto concreto con il campo, chenasce la capacità stessa di osservare in profondità, la capacità,potremmo dire forzando la nostra interpretazione, di esercitareuno sguardo anche "ermeneuticamente" addestrato. E' lo stessoMalinowski, nell'introduzione agli Argonauti, che sottolineal'importanza di compilare dettagliati e sistematici diari etnograficidove tenere conto della processualità delle proprie osservazioni:

"E' importante che questo lavoro di raccogliere e fissare le

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impressioni cominci abbastanza presto [...], perché certi piccoliparticolari che fanno impressione finché costituiscono una novitànon si notano più appena diventano famigliari, altri invece sipossono percepire solo con una migliore conoscenza dellecondizioni locali. Un diario etnografico, tenuto sistematicamenteper tutto il corso del lavoro in un distretto, sarà lo strumentoideale per questo tipo di studio". 20

La raccolta della più ampia possibile quantità di dati determina,inoltre, la loro irriducibilità ad uno schema unico, implicandodigressioni, fuori tema, riaggiustamenti contraddittori e quindiforme di analisi che assomigliano, più che a classificazioniscientifiche, alla classificazione dei giochi di Wittgenstein:"Questi fenomeni non hanno affatto in comune qualcosa, in baseal quale impieghiamo per tutti la stessa parola, ma sonoimparentati l'uno con l'altro in molti modi differenti. [...] Se liosservi, non vedrai certamente qualche cosa che sia comune atutti, ma vedrai somiglianze, parentele, e anzi ne vedrai tutta unaserie. Come ho detto non pensare ma osserva!" 21. Possiamo così"veder somiglianze emergere e sparire. E il risultato di questosuona: vediamo una rete complicata di somiglianze che sisovrappongono e si incrociano a vicenda"22. Nella mia idea, Malinowski nel costruire le sue categorie, adesempio nel trattare le tipologie dello scambio e della magiatrobriandese, metteva in campo una molteplicità di interpretazioniche più che assomigliare a rigide definizioni scientifiche, miparevano "somiglianze di famiglia", interpretazioni dinamicheall'interno di un processo di progressivo approfondimento delmateriale etnografico accumulato. Secondo Clifford con Malinowski "ci troviamo di fronte ad unostile etnografico che non è ancora ‘autoritario’, negli specificimodi messi oggi in questione sul piano politico edepistemologico. [...] Malinowski costituisce un complesso caso ditransizione. [...]. [Negli Argonauti, in Coral Gardens 23] ciimbattiamo in pagine e pagine di formule magiche, nessuna dellequali, in sostanza, espressa con le parole dell'etnografo"24. Miti,formule, dettagli che per sua stessa ammissione Malinowski nonsempre riusciva a comprendere e che determinano il carattere"aperto", suscettibile di molteplici interpretazioni, delle suemonografie. Durante l'esame che ho sostenuto subito dopo la fine del corso25,ricordo di aver discusso con il docente il mio punto di vista suMalinowski invocando all'incirca gli stessi argomenti qui esposti.Alla fine il professore un po' dubbioso mi ha chiesto: "In cosa puòservirti spiegare in questo modo la metodologia di Malinowski?Quale è lo scopo di questa operazione?". Senza sbilanciarmitroppo risposi che il mio fine principale era stato quello di cercaredi svolgere un esercizio di decostruzione del suo punto di vistacritico su Malinowski, esercizio che mi aveva permesso diindividuare una serie di tracce con cui leggere e interpretare i testidi Malinowski e di conseguenza in opposizione anche ilQuilombo . Ma era tutto qui? Un'altra domanda ha continuato adassillarmi per lungo tempo: Perché Malinowski aveva ritenutonon significative, da un punto di vista etnografico, le vicissitudini

autobiografiche che invece aveva annotato con così grandeimpegno e fatica nei suoi diari? L'idea che Malinowski avesseespulso quei dati in quanto soggettivi e quindi non scientifici nonmi sembrava risolvere del tutto la questione.

3. Opacità, spaesamento e loro soluzione: una recensioneperformativa

A lezione, una volta, Malighetti ci ha narrato un episodio che gliè capitato a Frechal. Una notte una donna che era caduta in unostato di trance era scappata nella foresta. Il villaggio si mobilitòper cercarla e riportarla a casa. Malighetti si unì alla spedizionenotturna con tutto il suo armamentario di macchine fotografiche,torce elettriche per illuminare il sentiero, quaderni. Come ci hadetto si sentiva molto a disagio nel dover documentare unasituazione per certi versi anche drammatica. Il suo raccontovoleva commentare la natura intrusiva e violenta del lavoro sulcampo. Leggendo il Quilombo mi sono stupito di non aver ritrovatoquesto racconto. Mi sembrava potesse essere molto significativonel descrivere il contesto relazionale in cui erano implicatil'antropologo e gli abitanti di Frechal. Ma proprio qui stava ilpunto di non ritorno che giustificava anche la mia difficoltà nelloscrivere una recensione tradizionale. I continui tentativi disvicolare dall'affrontare il compito che mi ero io stesso assegnato,la recensione del libro, le continue digressioni fuori tema (adesempio i ricorrenti riferimenti a Malinowski), il mio sentirmitroppo vincolato da un progetto simile si poteva capire infatti,proprio a partire dalla natura del testo del Quilombo , dal suo stiledifficile da decifrare ad una prima lettura. Tutto il suo impiantoteorico era infatti teso a cogliere il complesso gioco intellettualedi scambi dialogici tra il punto di vista dell'antropologo e il puntodi vista nativo. Gli aspetti relazionali, affettivi, sociali eranosacrificati ad un'analisi più astratta e concettuale delle soggettivitàin campo. Ma di questo ultimo punto ho preso coscienza solomolto dopo la mia prima lettura del Quilombo .Il problema principale per me era trovare il modo di scrivere unarecensione che non fosse solo un breve riassunto, ma che riuscissead esprimere effettivamente qualcosa di ciò che la lettura delQuilombo aveva "prodotto" in me. Consisteva nel fare in modoche il lettore di queste righe potesse sperimentare un'esperienzasimile. Il mio ambizioso progetto si proponeva di rendere attivinel mio stesso testo quei meccanismi, quei dispositivi, che lalettura del Quilombo aveva innescato sviluppando euristicamentein me una comprensione superiore di tutta una serie di questioniteoriche e pratiche riguardanti la ricerca sul campo e la sua resaetnografica. Questa specie di "empatia interpretativa" tra ilQuilombo e la sua recensione, a cui aspiravo, faceva parte di unmio più ampio progetto che coinvolgeva il problema di comerestituire in un testo etnografico esperienze di tipo estetico oreligioso, senza privarle del loro significato più profondo 26. Nella mia idea per rendere il senso di un testo, di una pratica, diun rito, occorreva cercare di riprodurre i dispositivi che mettevain azione. Mettere in scena le procedure logiche con cui operava.

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Non era sufficiente descriverli. Bisognava riuscire a farli agirenella scrittura lasciando che qualcosa del loro senso operativopervenisse fino al lettore ultimo. Ed è proprio in ciò che misembrava di essere in sintonia con l'autore del Quilombo. Se il suoobiettivo era quello di rendere il senso e la processualità della suaesperienza etnografica non servivano descrizioniparticolareggiate, al limite fuorvianti, occorreva rimanere fedeli aquella esperienza in un modo più profondo e "reale","fenomenologico", occorreva riuscire a dire qualcosa di ciò cherealmente era accaduto nell'incontro tra lui e alcuni abitanti diFrechal. Successivamente mi sono accorto che il mioatteggiamento attento ai fenomeni illocutivi, pragmatici potevaessere frainteso. Poteva sembrare voler attivare dei meccanismigià inscritti nel testo da tradurre, delle specie di essenze edispositivi in esso contenuti ancor prima dell'incontro con il lorointerprete, così contraddicendo l'idea, alla base del paradigmaermeneutico, secondo cui l'oggetto di analisi è già sempre il fruttodi una interpretazione, di una "reciproca appartenenza di soggettoe oggetto"27.

4. L'iniziazione alla comunità di Frechal

Il primo capitolo, Dal punto di vista dell'antropologo, ècertamente il più divertente. Contiene la parte diaristica del libro:le vicissitudini di un antropologo sul campo. L'iniziazione alvillaggio di Frechal.

Fig. 3

Mappa del Brasile.

Frechal è una comunità, situata nel Nord del Brasile, nell'areaamazzonica dello stato di Maranhão ed è stata riconosciutaufficialmente dal governo federale comunità discendente dagliantichi quilombos. La denominazione Reserva ExtrativistaQuilombo do Frechal adottata dal decreto federalesuccessivamente trasformato in legge nel 1994, sottolinea ilcarattere economicamente orientato, di "area estrattiva", dellezone protette dall'istituzione della riserva. Dal punto di vista dell'antropologo narra il primo contatto, iprimi fraintendimenti, le prime negoziazioni tra l'etnografo e i

nativi. Gli sforzi dell'autore di fondare la propria autorità diantropologo sul campo. Narra i problemi d'igiene e dialimentazione, i disagi sofferti a causa del clima terribilmentecaldo umido della stagione delle piogge (da gennaio a giugno), iproblemi dell'isolamento e della mancanza di energia elettrica; ipiccoli egoismi messi in atto per "sopravvivere" ad una situazioneambientale piuttosto difficile; le fughe mensili a Guimarães (lacittadina più vicina a Frechal) per telefonare in Italia, nutrirsi,rilassarsi e mettere al sicuro le note di campo; le ansietà inizialidel non saper cosa fare, gli imbarazzi paralizzanti prodotti dallasua intrusione nella vita dei nativi, gli ambigui atteggiamentimanifestati nei suoi confronti da interlocutori che spesso loevitavano e si sottraevano alle sue interviste28; i tentativi diaffermare il proprio ruolo di ricercatore cancellando leassociazioni fittizie con i meccanismi assistenziali dellacooperazione in cui era stato precedentemente coinvolto 29.

5. La ricerca dell'oggetto di ricerca

Alla fine di questa complessa fase iniziatica, è venuto fuoril'oggetto di ricerca scelto dall'autore: il tema dell'identità. Macome è emerso effettivamente? Mi sembrava che questa sceltafosse stata il frutto di una specie di ripiegamento su un argomentosufficientemente astratto e vago da lasciare l'autorecompletamente libero di continuare il discorso teorico o meta-etnografico che gli stava più a cuore. In seguito tuttavia mi èsembrato di capire che è stata invece l'opacità dei nativi, ladifficoltà nello stabilire con essi un contatto effettivo a motivarequesta scelta. Le sue ragioni a mio avviso erano state quindispecificatamente etnografiche, cioè dipendenti dal contestopragmatico che l'autore aveva dovuto affrontare. L'operazioneconoscitiva non poteva fondarsi unicamente sulla "complicitàontologica" e sui vincoli di "affinità" o di "co-appartenenza" chelegano interprete e interpretato, sullo sforzo di incrociare leinterpretazioni dei nativi con quelle dell'antropologo, gli aspettiemici con quelli etici, i concetti vicini all'esperienza con i concettidistanti30. E' l'autore medesimo a spiegare questo punto: "Nelcorso del lavoro mi resi conto che era proprio il modelloepistemologico a non funzionare. L'opacità dei miei interlocutorie le difficoltà del lavoro mettevano in crisi l'ottimismo cognitivosu cui si basava. [...] Il mio approccio interpretativo non arrivava,cioè, a concepire il sottile gioco d'interferenza fra le componentipersonali e autobiografiche e le componenti disciplinari dellaricerca"31. Malighetti ha così operato una traslazionemetodologica decisa a riconsiderare la pratica etnografica inquanto pratica sociale e il lavoro sul campo come il fondamentodistintivo della disciplina . Il tema dell'identità è diventato, quindi,il tema decisivo attraverso cui penetrare all'interno di Frechal,coinvolgendo i suoi abitanti in una processualità effettivamentedialogica e polifonica. Come dice l'autore:

"Il tema dell'identità si imponeva in qualche modo ed è statoparticolarmente fortunato da tanti punti di vista, ma soprattuttoda quello della bifocalità. Il libro si intitola: Identità e lavoro sul

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campo33 dove identità è ambiguamente plurale e non singolare.Non è solo l'identità di Frechal ad essere considerata. Sono leidentità, la mia e la loro, il gioco delle nostre identità. [...] Tuttala dialogicità si inserisce molto bene nel tema dell'identità e nonè un caso che sia un tema molto sfruttato, molto ricercato inquesti ultimi decenni".34

Diverse cose però non mi erano ancora del tutto chiare. Perché eracosì importante testualizzare la processualità della praticaetnografica, la successione degli errori, dei tentativi incompleti,dei fraintendimenti, delle manipolazioni reciproche? E se era cosìimportante come mai ad un certo punto gli aspetti affettivi, socialidel contesto relazionale sparivano dalla scena del Quilombo ,mentre le interviste progressivamente occupavano quasi tutto lospazio? In principio mi pareva che dopo la drammatizzazioneiniziale i soggetti, i protagonisti di quell'incontro che era avvenutoa Frechal, fossero tornati nuovamente dietro le quinte, estromessidalla scena dell'azione. Le simpatie, le amicizie, le strategie, letensioni erano state ancora una volta rimosse (ed ero sinceramentecosì apodittico nelle mie interpretazioni!). Tutto ciò mi ricordavainfatti il combattimento dei galli di C. Geertz 35, dove, come diceClifford il "primitivo senso di alienazione dai balinesi [...] vienesuperato grazie all'accattivante storiella dell'incursione dellapolizia e della sua [di Geertz] mostra di complicità"36. Subitodopo, l'autore (Geertz), in questo caso insieme alla moglie, sieclissavano per dare spazio all'etnografia vera e propria, condottasecondo i principi standard del paradigma interpretativogeertziano. Come dice lo stesso Malighetti, parlando del modellodi analisi di Geertz, ancora una volta emergono i significati manon i soggetti 37. Nel caso del Quilombo, il seguito era però moltodiverso e se il contesto relazionale era espulso dal testo, lesoggettività erano incorporate in un assemblaggio molto denso earticolato di interviste. Erano stati i miei pre-giudizi che miavevano impedito di vedere chiaramente questo fatto cosìevidente? E' solo interrogando il medesimo autore che hocompreso infine con chiarezza le ragioni della sua strategia:

"Si è lasciato che fosse l'andamento della lettura [...] la qualitàdell'intervista, il tipo di domande, rivelatori di questi rapporti.Certo sarebbe stato interessante e importante anche descrivere ilcontesto di ogni singola intervista, però avrebbe reso il testodavvero [...] molto complesso, molto articolato, molto difficile[...]. Ammesso che qui ci sia un tentativo di negoziazione, [...] inGeertz non c'è proprio, sparisce l'antropologo ma sparisconoanche i nativi. Qui l'antropologo c'è attraverso le sue interviste,[...]. Ho privilegiato la negoziazione dei significati sul campo, hoprivilegiato l'antropologo che continua a modificare i propriparadigmi, le proprie idee in relazione ai testi, alle interviste ecc.,rispetto alla descrizione dei contesti... Anche perché si snocciolaun discorso teorico che si articola processualmente.L'inserimento di parti che, come dire, contestualizzavanol'intervista avrebbe fatto perdere la processualità della ricercache andava avanti, l'avrebbe proprio interrotta... Continuamente.E' stato invece fatto un grosso lavoro [...] per rendere il testo

scorrevole, fruibile, leggibile e questo, come sempre, ha impostodelle scelte".38

La risposta alla prima domanda (perché è così importantetestualizzare la processualità della pratica etnografica?), che eragià presente nel libro 39, è maturata in me stranamente solo moltotardi, mentre ero già impegnato in una seconda lettura delQuilombo ed avevo ormai completato lo studio di Dal tribale alglobale , e di Il filosofo e il confessore 40, i testi a cui il corso siaffidava come riferimento teorico di base. Inizialmente misembrava del tutto paradossale riuscire a controllare i propripresupposti, i propri pre-giudizi, attraverso l'analisi dellaprocessualità delle proprie esperienze di campo. In quanto "pre-"dovevano essere considerati fuori dalla portata delle propriepossibilità di comprensione. La testualizzazione dellaprocessualità mi sembrava importante solo per minare lo stileetnografico troppo "autoritario" delle monografie tradizionali,creando resoconti resistenti ad interpretazioni totalizzanti41,monografie aperte a una molteplicità non conclusiva diinterpretazioni; una sorta di incompletezza capace di preservarel'alterità del campo e il suo carattere poietico e mutante. Questa mia interpretazione riduttiva del ruolo delle descrizioniautobiografiche e dialogiche mi permette ora di capire l'originariadifficoltà che avevo provato nel localizzare le aporie diMalinowski. Se una raccolta intensiva di dati "concreti", "il piùcompleta possibile" e quindi ipoteticamente interminabile,determina una sorta di processualità anche nel paradigmadell'osservazione partecipante 42, o anche in un tipo diosservazione etologica attenta a non compromettere l'oggettodella ricerca con l'osservatore, questa specie di circolaritàinterpretativa difficilmente riesce a mettere in discussione ipregiudizi su cui gli stessi protocolli osservativi si basano. Laprocessualità delle interpretazione è limitata al livello referenzialesuperficiale, ai differenti modi di incrociare e selezionare i dati,mentre non giunge a coinvolgere i pre-concetti che guidano laricerca, il livello meta in cui si organizzano i fenomeni diprecomprensione attraverso cui i medesimi dati prendono senso. Risulta così chiaro, a questo punto, anche la ragione per cuiMalinowski considerò i suoi diari del tutto privi di interesse ai finidella ricerca etnografica, occultando nella sua monografia tutta laproblematicità esistenziale della sua vita alle Trobriand. La suaingenuità epistemologica non gli permetteva di coglierel'importanza ermeneutica di quei testi, la loro capacità di metterein discussione la rigidità delle sue presupposizioni, gli scopi, leragioni storiche contingenti e psicologiche più o meno inconsceche motivavano le sue scelte e il suo lavoro. Il paradigma etologico e il paradigma dell'osservazionepartecipante risultano quindi del tutto insufficienti per fondareuna metodologia della ricerca etnografica non viziata da unatteggiamento che essendo incapace di mettere in discussione ipropri pregiudizi, risulta inevitabilmente etnocentrico. Unamaggiore attenzione al "punto di vista del nativo", combinata conla rinuncia dialogica ad una parte della propria autorità in favoredi forme di eteroglossia, diventa così essenziale e decisiva per il

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discorso antropologico. Questa mescolanza di elementi personaliautobiografici, di componenti disciplinari, il punto di vistadell'antropologo, e contestuali nativi, il punto di vista dei suoiinterlocutori, innesca una complessa dinamica interattivaall'interno di un particolare spazio sociale43, una specificamodalità di scambio e di comunicazione caratterizzata da unariflessività cognitiva ed epistemologica che a sua volta genera ladialettica fra anticipazioni di senso e comprensione, un linguaggiodi compromesso, una sorta di "pensiero meticcio" e "mutante", discrittura "interculturale"44. E' in questa maniera che può realizzarsiuna fusione di orizzonti, un innalzamento a una universalitàsuperiore45, che, sebbene sempre precaria e intrinsecamenteinstabile, rappresenta forse il significato più profondo del tipo diincontro attivato dalla ricerca etnografica, il suo valoreepistemologico e relazionale, mediazione di culture e visioni delmondo in origine reciprocamente inconcepibili.

6. Interviste e negoziazioni

La metodologia di ricerca etnografica dell'autore, coerentementecon il paradigma dialogico da lui adottato, si è quindi basatasoprattutto su interviste o meglio su conversazioni fissate suappuntamento, strutturate dalla presenza del registratore. Comedice egli stesso: "il mio lavoro sul campo è statofondamentalmente relazionale e solo superficialmenteosservativo, condotto from the door of my tent"46. Inizialmente, nelle sue pratiche di campo, l'autore era ancoracatturato dalla "trappola oggettivante"47 che considera il testoculturale preesistente alla sua interpretazione: "pretendevoinconsciamente che fossero loro a fornire le interpretazioni equindi per certi versi a produrre la monografia che invece erochiaramente io a dover elaborare... Ne ero chiaramente coscientequando misuravo su di me l'effetto delle mie domande a cuispesso io stesso non avrei saputo rispondere"48. I suoiinterlocutori, sottoposti alle sue interrogazioni incalzanti einsistenti, sul significato di essere quilombola, non potevanodirettamente formulare le interpretazioni che invece eral'antropologo a dover elaborare. Questo fu segnalato all'autoreanche da molti dei suoi interlocutori:

"Roberto. Sei tu che devi dire [...]. Come era, come non era. [...].Vedi tutti questi panni. Io devo lavarli e tornare a casa [...]. Sei tuche devi scrivere il libro".49

Possiamo così vedere che se l'osservazione partecipantechiaramente non consente di assistere al miracolo di nativi chediscutono della propria identità, un simile problema non èfacilmente risolvibile neppure attraverso i tentativi dialogici cheprescindono dai loro interessi e dai loro scopi. Questo perché iprogetti indigeni e i progetti dell'antropologia sono molto spessoconflittuali. Certo si può “comprare” il coinvolgimento dei nativinell'impresa antropologica, ma in mancanza di altre motivazioni irisultati di tale strategia sono molto aridi e privi della forzaeuristica in grado di guidare l'interpretazione.

Fig. 4

Donne di Frechal mentre pilano il riso.50

Durante la lezione conclusiva del corso, alla critica di alcunistudenti che denunciavano l'assenza nel Quilombo di "dialoghinativi", cioè della osservazione-registrazione delle elaborazionidegli abitanti di Frechal non provocate direttamente dalledomande dell'antropologo, Malighetti giustamente rispose:

"Voglio parlare molto praticamente [...], lo scambio dialogico trai nativi di solito è del tipo: "Ciao come stai? Bene grazie. Doveandiamo a coltivare il campo oggi?" [...] E' difficile [...] Non sose lei con le persone a lei intime parla molto spesso dell'identitàitaliana o della sua identità o dell'identità di sua moglie...Soprattutto è difficile che l'antropologo riesca a esserci proprio inquel momento [...] come una spia che esce dal cespuglio e catturala frase sul quilombo mentre sta avvenendo [...]. Certo che ancheloro [i nativi] ne parlano [...] è il momento in cui arrival'avvocato. Allora si siedono, ma non parlano di comecostruiscono la danças do Congo 51, fanno discorsi specifici"52

A questa critica volutamente provocatoria dell'osservazionepartecipante - si potrebbe obiettare che ogni parola, anche la piùbanale e quotidiana, può svelare molte cose dell'identità di chi lapronuncia (e qui la linguistica antropologica ci può insegnaremoltissimo) - possiamo ora affiancare quanto detto in precedenza,la medesima critica che l'autore formula a se stesso: se è difficilecapitare al momento esatto in cui le cose che ci servono accadonoe sono dette, può anche essere difficile suscitarle con le nostredomande. La circolarità ermeneutica "gira a vuoto" e nonfunziona efficacemente operando su materiali passivi 53. E' alloranecessario intraprendere un lungo percorso iniziatico formato dauna sequenza tortuosa di compromessi, collusioni eincomprensioni, malintesi e reciproci aggiustamenti. "Decisiquindi, di tenere presente la successione degli errori e deitentativi, le interpretazioni false o incomplete e tutto quell'insiemecomplesso di sentimenti, qualità e occasioni che fondano laspecificità del ‘metodo di lavoro’ antropologico" 54. E' il percorso

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di processi e negoziazioni, costruzioni e decostruzioni,semantizzazioni e risemantizzazioni narrato nel Quilombo. E' unmetodo, per quanto paradossale possa sembrare, in un certo sensosimile alla partecipazione empatica (l'autore non sarebbed'accordo con questa analogia), almeno per l'intensità delcoinvolgimento emotivo, cognitivo, esistenziale che richiede.Certo non si cercherà di trasformare se stessi in contadinidiscendenti di schiavi, ma lo sforzo di mettere in tensione i propripregiudizi con quelli nativi avrà la stessa intensità e sarà guidatodalle stesse intenzioni di fusione e comprensione dell'altro cheforse hanno motivato il sogno romantico di una perfetta adesionedel proprio se ad una diversa cultura.Riassumendo il percorso fin qui seguito, possiamo enunciaresinteticamente la catena di implicazioni che ha caratterizzato laprocessualità del lavoro sul campo a Frechal: le implicazioni tral'inadeguatezza del metodo interpretativo inizialmente adottatodall'autore e l'opacità e la passività dei nativi, quindi tra questaopacità e la sua scelta di riconsiderare il proprio modellometodologico in chiave processuale, dialogica e infine tra lanuova prassi metodologica e la scelta del tema dell'identità, omeglio delle identità, della sua e dei suoi interlocutori, comecavallo di Troia con cui penetrare all'interno di Frechal. La logicaun po' troppo rigida e formale con cui ho cercato di ricostruirequesta serie di nessi causali è stata discussa con l'autore. Quisarebbe stato importante, avendo più tempo a disposizione,chiarire i nostri punti di vista innescando un'ulteriore possibilitàdialogica.

7. Descrizioni dense

Mi interessa chiarire a questo punto un'altra questione. Forse hodato l'impressione di pensare che il Quilombo sia povero didescrizioni. Non è così. Il Quilombo non è povero di descrizioni.O meglio, fedele all'ispirazione geertziana che lo guida 55, lecontinue descrizione che formano il suo tessuto sono dirette inprofondità, descrizioni dense56 in cui il particolare e il generale sirichiamano reciprocamente in una specie di simbiosi. NelQuilombo , "non essendoci generalizzazioni attraverso i casi, masolo al loro interno, l'elaborazione teorica procede a sprazzi,percorrendo un sentiero wittgensteiniano tortuoso e pieno dideviazioni ed incroci"58. Così le varie interpretazioni dell'identitàquilombola vi emergono e svaniscono nell'intrecciarsi con glieventi descritti, nel loro contesto "naturale", nessuna di essegiusta o sbagliata eppure tutte valide da un certo punto di vista,valide anche nel loro insieme nel loro accordarsi al tutto: "unasequenza sconnessa ma intellegibile di sortite sempre piùapprofondite"59.L'apparente banalità, la semplicità istituzionale e cerimonialedell'identità degli abitanti di Frechal - priva di possibili prese peri miti di fondazione dell'antropologia (la parentela, l'animismo, lapossessione, la stregoneria, il dono... )60- inizialmente attribuita daMalighetti, anche se con incerta convinzione, al processo dirimozione del passato coloniale che li aveva discriminati e allepolitiche di annullamento, dispersione, omogeneizzazione delle

identità messe in atto dalle istituzioni schiaviste61, nel descriverein seguito le sue difficoltà di adattamento alle condizioni dicampo, viene attribuita dall'autore a se medesimo e alla sterilità,all'inefficacia dei paradigmi teorici e metodologici da lui adottati. Nel Quilombo è continuamente messa a profitto questa strategiaoscillante, strategia anch'essa di ispirazione geertziana, in cuiconcetti lontani dall'esperienza62 (in questo caso il concetto diidentità) sono chiariti attraverso i particolari che li incorporano, ivissuti esistenziali e fenomenologici più contingenti, mentre iparticolari sono pensati con i concetti teorici che li spiegano: "nonpossiamo segare il ramo sul quale siamo seduti.. non possiamoche usare teorie generali, è lì che parte il circolo ermeneutico, dalsapere [...]. Se c'è un contributo teorico sull'identità è che l'identitàè un modello teorico [...] l'identità è un concetto, un fuocovirtuale"63. E questo fuoco virtuale nel Quilombo non è indagatoin relazione al rapporto tra struttura e processo, ma è ricercatodall'interno, "analizzandone la dinamica [...] a partire dagli attorisociali, dal loro vissuto, dalle loro rappresentazioni"64.

8. La dinamica di un incontro dialogico

Torniamo ora alla domanda cruciale a cui ancora non abbiamofornito una risposta decisiva: Come è stata superata nel Quilombol'opacità di Frechal? Nonostante l'autore in più momenti affermila fondamentale "eterotopia"65 tra discorso nativo e discorsoantropologico e quindi la costitutiva ed inconciliabile opposizionetra i progetti nativi e i progetti del ricercatore sul campo,opposizione decisiva soprattutto nel fondare la sua autoritàetnografica, a mio avviso il successo della ricerca di Malighetti aFrechal è dovuto proprio alla sua capacità di trasformaresituazionalmente le proprie aspettative, i propri scopi adattandolial contesto di campo, ai progetti nativi, alla loro logica e ai lorobisogni. Abbandonate tutte le velleità di riscoprire a Frechal i mitifondatori dell'antropologia e nello specifico ad esempio laricchezza culturale dei culti afro-brasiliani, l'autore nel sceglierel'identità come polo decisivo attorno a cui articolare tutta ladialogia del suo incontro con i nativi, dimostra la strategicanecessità di coniugare tale concetto astratto ai problemi più vividei suoi abitanti, al problema ad esempio di come costituireun'identità comune capace di rappresentare a se stessi e agli altrila propria unità. Esigenza questa per i quilombolas del tuttopolitica, motivata a sua volta dalla volontà di opporsi alladrammatica realtà del latifondo, ai soprusi di un fazendeiroincapace di continuare la consolidata relazione di armonia e pacevigente con i precedenti proprietari di Frechal; dalla necessità didare peso giuridico alla legittimità delle proprie rivendicazioniappellandosi a dispositivi costituzionali che riconoscono aisuccessori degli antichi schiavi fuggiti il possesso della terra sullaquale vivono. L'identità a Frechal non è stata allora studiatadall'autore nei suoi aspetti culturali o folklorici ma nella suavalenza essenzialmente politica. Sono questi problemi concretiche hanno motivato, secondo il mio punto di vista, il crescenteinteresse di Malighetti per la storia sociale ed economica dellaregione di Frechal, per i documenti processuali della causa con il

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fazendeiro, per le attività del Centro di Cultura Negra (CCN) diSão Luís e della Sociedade Maranhense de Defesa dos DireitosHumanos (SMDDH). Risultano ora chiare le ragioni che hanno guidato l'autore nelselezionare i materiali etnografici da includere nel testo finale. Adesempio possiamo comprendere la scelta di scartare argomentianche molto interessanti e significativi come la possessione66 o ilcarattere endo-gamico delle relazioni di parentela a Frechal.Questi temi non erano decisivi per la strategia etnografica adottatadall'autore, esattamente come per Malinowski non apparivanocruciali i fatti descritti nei suoi diari.In definitiva proprio le questioni che in teoria avrebbero dovutomaggiormente compromettere l'antropologo nelle faccende locali,incrinando la sua autorità, si sono rivelate le più efficacinell'attivare l'interesse nativo nei suoi confronti. Inizialmente larelazione dei nativi con l'autore si è caratterizzata per le reticenze,i sospetti, gli sviamenti e per una sorta di patto del silenzio.All'inizio gli informatori avevano solo una vaga idea di ciò chel'autore intendeva fare a Frechal67. Ma con il crescere dellaconfidenza hanno iniziato ad apprezzare la possibilità diraccontare i loro problemi e le loro riflessioni (Ibidem). Durantele interviste l'identità quilombola rappresentandosi all'autore e aloro stessi, in un reciproco scambio interattivo di manipolazioni ecollusioni, andava trasformandosi e definendosi con maggioreprofondità. L'antropologo, in questo preceduto dalle associazioni(CCN, SMDDH) che avevano aiutato gli abitanti di Frechal adistituire la causa contro il fazendeiro , ha acquisito un ruolomaieutico capace di indurre nei nativi nuove modalità strategichecon cui confrontarsi con l'alterità, con il mondo più vasto checircondava Frechal; un ruolo anche terapeutico, capace disuscitare nuove aspettative, nuove speranze, nuove energie. Nita,una giovane donna di Frechal, così descrive il suo incontro conl'autore:

"Penso che il tuo lavoro sia ottimo perché ci sta aiutando amostrare a noi stessi la nostra importanza. Attraverso le intervisteci obblighi ad approfondire le cose [...] Roberto sta aiutandoci enoi aiutiamo Roberto a portare Frechal in Italia... " 68.

Se però inizialmente mi era parso di scorgere un crescendo diintensità, un progressivo avvicinarsi e comprendersi, il gradualeistituirsi di una sorta di alleanza interpretativa tra l'autore e i suoiinformatori, successivamente mettendo più attenzione alle datedei brani delle interviste inserite nel testo, in cui il prima e il doposi alternano senza sosta in un continuo oscillare difficilmentecontrollabile, mi sono dovuto parzialmente ricredere. La fusionetra i modelli interpretativi dell'autore e dei nativi si è svolta senzaseguire una logica semplicemente sequenziale ma subendo deisalti, affrontando nel suo svilupparsi delle accelerazioni e dellecontrazioni. L'illusione da cui ero stato sedotto era anche l'effettodi un procedimento retorico: la messa in scena delle successivestratificazioni della scrittura, della sua processualità temporale,dello scarto tra ""l'essere là" (sul campo), e "l'essere qui" (araccontare del campo)" 69.

9. A cosa serve l'antropologia?

Ma il lavoro etnografico sul campo in cosa si è distintodall'attività delle associazioni che hanno operato nello stessoterritorio? Quale è stato il suo specifico impatto sui nativi e cosaè stato in grado di raccogliere e portare a casa? Inizialmente si è istituita una doppia manipolazione, dei nativi sulprogetto antropologico e dell'antropologo sui progetti nativi. Gliabitanti di Frechal, addestrati dalle logiche giuridiche messe inatto dagli avvocati durante il processo contro il fazendeiro , hannousato Malighetti come un documento, un supporto su cuiappoggiare una rappresentazione condivisa dell'identità70, oppuresemplicemente come un mezzo per acquisire un prestigio, daspendere soprattutto con gli estranei e derivante dall'esserestudiati da un antropologo italiano71. Hanno anche influenzatol'autore nelle sue scelte riguardo l'oggetto di ricerca, almenodeterminando in parte il contesto relazionale in cui il loro incontroè avvenuto.

Fig. 5

Inácio.72

Allo stesso tempo è stato l'autore a coinvolgerli nel processodialogico, stabilendo i luoghi e i tempi di tale incontro. Inoltre ilmedesimo bisogno di un sapere controllabile che portaval'antropologo ad insistere sulle tracce scritte ha poi indottoun'analoga attenzione e valorizzazione da parte dei nativi per leattestazioni documentarie 73. Ma questo non è tutto. L'insistenteattenzione dell'autore per la processualità, per il carattereinterpretativo essenzialmente contestabile di ogni costruzioneculturale, e quindi sul carattere fittizio di ogni identità, ha finito,secondo me, per contagiare sottilmente il punto di vista nativo.Questa mia interpretazione, molto azzardata, è difficilmentedimostrabile sulla base delle interviste inserite nel Quilombo. Seaccolta mi sembra però chiarire il differente modo in cui lapresenza a Frechal dell'antropologo ha influenzato i suoiinterlocutori rispetto invece al ruolo svolto dalle varieassociazioni che hanno operato a Frechal. Qui è come se ioprovassi a ribaltare l'asimmetria tra l'antropologo e i suoi

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interlocutori, tentando di guardare il processo di fusione dal puntodi vista dei nativi. In una prospettiva dialogica la fusione si generaanche tra di essi74. La mia idea è che alcuni complessi concettidisciplinari: il carattere costruttivo, fenomenotecnico dei processiinterpretativi, la loro funzione strategica e manipolatoria, si sianoinsinuati pragmaticamente tra alcuni nativi realizzando così unaforma di fusione tra concetti vicini, la terra, la comunità e lontanidall'esperienza, la storia. La storia di Frechal inizialmente eraconcepita in modo sostanzialistico, come qualcosa da conoscere oda scoprire attraverso le tracce lasciate nelle persone, neidocumenti, nel territorio. Come racconta Inácio, uno dei leaderdella comunità di Frechal: "Quando arrivò Dimas75[...] noi glimostrammo i vari rifugi, le rovine. Loro furono lì a vedere eAlfredo Wagner76 disse che lì era il quilombo" 77. Nel corso delprocesso e successivamente, la storia del quilombo è statarielaborata dagli abitanti di Frechal in termini narrativi, ma sottogli stimoli dell'autore, a mio avviso, è affiorato, in un certo senso,anche il carattere fittizio delle storie narrate, carattere che si èinfiltrato inscrivendosi sottilmente nei loro discorsi.Parallelamente è emerso il valore vitale, utopico, orientato versoil futuro del narrare:

"Ora io conosco l'altro lato della storia [...]. Questo è nato da mea partire da alcune riflessioni con me stesso [...]. Sarà che illavoro degli schiavi fece questo Paese chiamato Brasile un Paesericco?78 Così iniziai a studiare i libri [...] e a vedere che era unastoria che non era raccontata dallo schiavo, ma che eraraccontata dagli storici bianchi. Mi chiedevo: "Sarà che chiscrisse questo fu qualche schiavo?"79 Essere quilombolassignifica essere [...] lottatori, conquistatori, negri che hanno unaconoscenza maggiore delle altre comunità80".

"Mundoca lasciò una storia viva [...] Ciò che lei sapeva,raccontato dal marito, lo passava a noi.81 Se non fosse per iracconti di questa schiavitù [...] forse non avremmo avuto unastoria che potesse concretizzarsi [...]. Perché che cosa avremmodetto se non fossimo stati schiavi?82".

Che la storia passata sia una costruzione del presente non emergemai spontaneamente nelle risposte degli abitanti di Frechal.Sembra però esserci un filo sotterraneo che scorre nei discorsinativi registrati dall'autore e che indirettamente segnala quell'idea.Nei dialoghi si manifesta pienamente anche il ruolo attivo,ironico, provocatorio dell'antropologo.

"Il mio assunto teorico è che il presente crea il passato. Se nonincontravate l'articolo 68, la parola quilombo non sarebbe stataimportante per voi [...]. Il presente vi obbliga a riconsiderare unacosa del passato come molto importante."Realmente. E' una verità. Tu hai detto in pochi minuti ciò che èimportante [...] il presente è tanto importante per il passato e iopenso anche così: io penso che anche il passato è importante peril presente."Si. Ma senza presente non hai conoscenza del passato. Il passato

si dimentica.‘Esatto’" 83.

Se protocolli di intervista non direttivi possono essere utili nel faremergere risposte inaspettate e destabilizzanti è chiaro che unatotale non direttività, impedendo qualsiasi negoziazione tral'antropologo e i suoi interlocutori non può innescare alcunaefficace dialogia. Il mestiere dell'antropologo, la sua "magia",consiste allora proprio nell'acquisire la capacità di gestire questodilemma, di capire quando forzare le proprie interpretazioni equando lasciarsi conquistare dalle interpretazioni native:

" Inácio diceva... ‘No, no è il passato che crea il presente’, e però‘storia viva’ è nata da lì. Non è che Inácio andasse in girodicendo: ‘storia viva, storia viva, la nostra è una storia viva’ [...].C'è un anno di vita in comune lì [...] però si, c'è anche quello, laforzatura. [...] E' il tuo mestiere... Il fare ricerca è acquisirequella sensibilità di capire cosa puoi provocare, cosa non puoiprovocare, si potrebbe dire, cosa sei in grado di contenere, cosanon puoi contenere"84

Intervistando sul Quilombo due compagne di corso,sorprendentemente, sono emerse contemporaneamente le duepossibili interpretazioni dell'operazione condotta dall'autore.L'interrogativo, anche se ingannevole, era molto semplice: "dadove arriva il concetto di ‘storia viva’? è un'invenzione diMalighetti o dei nativi?". Mentre la prima si era convinta che "lachiave di lettura lui [l'autore] l'aveva già"85, la seconda erapersuasa che "la convergenza è stata si creata dall'autore, ma si ècreata proprio nello scambio tra le interviste e le elaborazioni"86,cioè nello scambio dialogico. Per lei anche i momenti piùdirettivi, quando Malighetti sembrava incalzare i suoiinterlocutori imponendo provocatoriamente le sue idee (come nelbrano sopra citato), rappresentavano "un momento in cui ildialogo funzionava, [...] uno dei punti in cui il gioco vienefuori"87. Anche se l'autore possedeva sin dall'inizio questa "chiavedi lettura" ciò rappresentava solo il punto di partenza su cuiinnestare un discorso dialogico che manteneva una propriaindipendenza e che poteva produrre sia fenomeni di convergenzache viceversa incomprensioni e contrasti. Ecco cosa ci dicel'autore sul ruolo avuto nell'influenzare la realtà di Frechal:

"In che modo ho influenzato la realtà di Frechal? Questo è unproblema molto complesso [...], dovrei riflettere molto su questacosa. […] Parlare a fondo di cosa abbia significato la miapresenza a Frechal potrebbe essere oggetto di una ricerca. Ancheperché la mia presenza si è accompagnata a tante altre presenze.Non è facile isolare il mio contributo" 88 .

Nel Quilombo di Frechal il carattere negoziale dell'identità èesplorato con grande meticolosità, potremmo dire, citando la frasedi Geertz con cui si conclude il libro, con "la precisione con cui citormentiamo a vicenda"89. E' indagato il suo configurarsi comefenomeno precario, funzione instabile, luogo di concorsi cui

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partecipano in misura ogni volta infinitesima le forze della naturae della storia90, l'identità come spazio in continua effervescenzache manifesta un valore doppiamente pratico: mezzoperformativo per legittimare i propri obiettivi e strumentoeuristico capace di isolare in un nome, in uno schema concettualela polisemia del dato empirico; categoria della pratica che puòessere detta solo in termini narrativi91. Ma tutto questo potrebbesembrare solo accademia se nel Quilombo non fosse praticato,sperimentato etnograficamente sul campo. Ciò che risultasignificativo nel Quilombo è infatti soprattutto la narrazionedell'incontro dialogico, il luogo in cui tutte le sofisticate teorieantropologiche sull'identità, prima accennate, si incarnano in untessuto esistenziale più reale: sono le dinamiche dimanipolazione, fusione avvenute nel contesto etnografico. Ma torniamo alla questione iniziale: il lavoro etnografico sulterreno in cosa si è distinto dall'attività delle associazioni chehanno operato nello stesso territorio? A mio avviso, il lavoroantropologico dell'autore, attraverso le pratiche di costruzione edecostruzione che ha manifestato anche sul campo nel tipo didomande proposte ai suoi interlocutori, è stato in grado didistanziarsi dalle strumentalizzazioni attraverso cui ad esempio iconcetti essenzialistici di "territorialità", "anzianità dioccupazione", "genealogia", "razza", si erano cristallizzati aFrechal durante le varie fasi del processo giudiziario. In questaprospettiva possiamo leggere quindi anche le differenze di puntidi vista, le tensioni, le inquietudini tra l'antropologo ricercatoreaccademico (Malighetti) e l'antropologo militante al servizio diassociazioni per la difesa dei diritti umani di minoranze etnichediscriminate (Alfredo Wagner):

"Alfredo Wagner De Almeida è un'autorità in Brasile. [...] Lavoraanche nel movimento dei Sem Terra... E' una persona che gira ilmondo. [...] Abbiamo avuto discussioni, abbiamo avuto anchetensioni. Lui è un militante, a lui interessa che Frechal abbia laterra... [...] Usare politicamente certe categorie, come razza,gruppo etnico ecc. [...] è un grande problema. Non ho dubbi sullabuona fede di Alfredo, però se metti in gioco categorie comerazza, colore ecc. poi se queste categorie che tu hai messo ingioco vengono usate da altri, che non sempre hanno le tue stessefinalità, la cosa diventa pericolosa. Specie per queste categorieche hanno una lunga storia. [...] Sono stato invitatodall'associazione degli antropologi brasiliani ad un convegno equi ho fatto un discorso sull'etica, sulla ricerca... Sull'attenzioneche bisogna avere nell'usare i concetti, perché prenderli e usarli,anche per finalità nobilissime, è comunque una questionedelicata. [...] Ciò che voglio sottolineare è un problema etico.Non ho soluzioni. Voglio solo dire di fare attenzione".92

Possiamo così concludere che l'impegno peculiare di Malighetti,più che riportare a casa nuove conoscenze monografiche, haportato indietro un'idea, un esempio di cosa significa fareantropologia oggi. Un dubbio però ancora rimane: Malighetti ha realmente attivatoun processo riflessivo capace di decostruire anche i propri

pregiudizi? Oppure è solo riuscito a impartire, senza volerlo, lanuova lezione del sapere occidentale, in questo caso una lezionedi antropologia interpretativa, a nativi ancora una volta troppopassivi? I concetti di creatività, poieticità, il concepire la storiacome costruzione pragmatica, non fanno anch'essi parte delgrande mito occidentale del progresso, dell'individuo demiurgoimprenditore di se stesso? Sono convinto che a questi ultimiinterrogativi si possa rispondere negativamente e cheprobabilmente siano anche interrogativi mal posti e sbagliati. Mapreferisco mantenerli, mantenere il dubbio capace di minare le piùocculte inclinazioni con cui imponiamo i nostri discorsi agli altri.Qui probabilmente ci scontriamo con i limiti e le forme generalidella dicibilità: i discorsi, citando Foucault, sono pratiche cheformano sistematicamente gli oggetti di cui parlano e in ciòmanifestano la loro specifica irriducibilità e la "perpetuaarticolazione del potere sul sapere e del sapere sul potere" 93. Ma infine potremmo ancora chiederci: saremo mai capaci digiungere al limite di noi stessi, fino a veder sorgere il vuoto in cuiobliandosi sopravvivere alla propria scomparsa?

10. Capire l'antropologia a partire da cosa fanno gliantropologi

Le narrazioni autobiografiche di campo, la descrizione dellacomplessa fase di ricerca dell'oggetto di ricerca, contenute neiprimi paragrafi del Quilombo , svolgono, secondo le paroledell'autore, delle "strategie testuali di costruzione di un'autorità edi introduzione al discorso. Ci sono anche strategie retoriche chehanno a che fare con la messa in intrigo, con la costruzione diqualcosa di leggibile, di fruibile"94. Ma vi è qui pure un'altraragione più specificamente pedagogica:

"Come dire, c'è tutta la ricerca dell'oggetto di ricerca. A unostudente che vuole fare ricerca potrebbe interessare... Non stodicendo che sia la cosa più bella del mondo... Però si può dire:"Guarda Malighetti, anche lui aveva questo problema". MentreMalinowski sembra che già il primo giorno sapesse cosa fare ecome farlo... "95.

"E' pesante fare ricerca, ti stressa. Per questo hai bisogno discrivere [...]. Il messaggio allo studente allora è: guarda che sestai male perché c'è tensione è normale... Nel rapportointerpersonale si arriva a casa distrutti... Se poi ci sono anche 60°all'ombra e in più i tuoi interlocutori non parlano e sei anchestanco e magari mangi poco... Si fa ancora più fatica. […]Quando alcuni studenti mi dicono di voler fare ricerca sul campoli avverto delle difficoltà, anche economiche, e del rischio ditornare a casa a mani vuote"96.

"C'è sempre un po' di pudore e timidezza nel tirare fuori ilquaderno degli appunti, nel fare le domande. [...] Penso quantoil libro sia stato scritto anche per gli studenti, per coloro che...Sono imbarazzati a tirare fuori il quaderno degli appunti, chepensano che estraendo il quaderno in qualche modo tradiscono i

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propri interlocutori, il loro rapporto di amicizia. Non si tratta diessere amici. Non si è amici. Si è lì perché si è antropologi el'antropologo tira fuori il quaderno degli appunti. E questa èviolenza. Penso a quanto il libro possa essere un libro introduttivoper capire cosa fanno gli antropologi, cosa è l'antropologia apartire dal vedere cosa fanno gli antropologi. Anche per vianegativa dicendo: ‘L'antropologia deve essere il contrario diquello che fa Malighetti".97

Fig. 6

Bambini quilombolas. 98

Tutte le tematiche più complesse che deve affrontarel'antropologo sul campo - il problema di come stabilire la propriaautorità, le possibili strategie retoriche con cui affermarla sulcampo e nel testo, il problema dell'opacità dell'oggetto di ricerca,la violenza dell'intrusione etnografica e la conflittualità tra iprogetti nativi e i progetti antropologici, il carattere costruttivo,manipolatorio, processuale dell'impresa etnografica e della suatestualizzazione, le oscillazioni problematiche delleinterpretazioni dell'antropologo tra il generale e il particolare, traconcetti lontani dall'esperienza e concetti vicini - sono affrontatenel Quilombo svolgendo direttamente, nella processualità dellascrittura, le ingarbugliate articolazione attraverso cui si

intrecciano nella pratica etnografica. Ma il valore formativo del Quilombo , a mio avviso, va oltrequesto intento esemplare ed educativo. Il Quilombo con il suocomplesso intreccio di interpretazioni costituisce un testo aperto,"un testo vivo" che suscita continuamente nuove possibilità dilettura. Così ne parla una compagna di corso:

"Più lo leggevo, più mi piaceva, nel senso che leggendolo eracome se... Mi sono vista così... Mi sono vista in circolaritàermeneutica con il libro [...]. Mi sembrava ogni volta di capiredelle cose in più [...]. Se non avessi letto questo libro non so seavrei capito adeguatamente Dal tribale al globale, magari siavrei capito più o meno..." 99

Potremmo dire, continuando le sue parole: "si avrei capito, manon così concretamente, così praticamente, così fisicamente". Il Quilombo costituisce perciò un testo poietico, un testoestetico100, la cui bellezza è inscritta nella potenzialitàinterpretativa che risveglia nei suoi lettori, nella suaincompletezza che induce a soffermarsi e a riflettere su di essa.Un testo creativo attraverso cui prendere coscienza dei propripregiudizi e sviluppare le proprie capacità critiche. Tutto il miointento è stato allora quello di manifestare questa proprietàprofonda del Quilombo cercando di riattivarla nella miarecensione. Molte cose che ho scritto costituiscono delleinterpretazioni estremamente personali del libro, interpretazionipiù o meno condivisibili, spesso provocatorie. La mia adesione altesto va però cercata nel suo esito performativo: una recensioneaperta, di un'etnografia aperta, di una storia viva.

11. Saudades

Questa Estate sono andato in Brasile101, un mese in viaggio tra SãoPaulo e São Luís. São Luís la capitale dello stato di Maranhão, apoche ore di viaggio da Mirinzal e Frechal. Ma non ho avuto ilcoraggio o la volontà di colmare quella distanza. Come se avessiavuto paura di superare lo spazio virtuale che ancora mi separavada Frechal e nutriva le mie aspettative, i miei desideri, le mieillusioni. Prima o poi ci tornerò. A São Luís ho incontrato Ivo102,quasi per caso. Ho incontrato Elenice, figlia di Inácio e sorella diHélio marito di Márcia madre di Kindè103 e Kindara104. Forse nonmi sentivo ancora pronto per incontrarli di persona... Poi una seraho conosciuto Dimas, uno degli avvocati di Frechal come se ildestino mi avesse guidato in quel bar sulla spiaggia, la praia doCalhau a São Luís... 105

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NOTE

1 R. Malighetti, Il Quilombo di Frechal, Cortina, Milano, 2004, Pag. 211.2 La parola portoghese quilombo deriva dai termini bantu quibundo, kilombu, espressioni con cui si indica l'accampamento, la tenda.Originariamente, la parola quilombos era usato dai portoghesi per denotare i campi di concentramento provvisori dove venivanoradunati gli africani sulle coste dell'Angola e dell'Africa occidentale, prima di essere imbarcati per le Americhe. Successivamente iltermine passo a designare le comunità di schiavi fuggiti dalle piantagioni e dalle aziende agricole delle colonie portoghesi in Brasile(Malighetti 2004, op. cit., p. 74). Il vocabolo derivato quilombolas, "abitanti del quilombo", ha un significato analogo a quello di bushnegros ad Haiti, o di marrons nella Guiana e nel Suriname (Malighetti 2004, op. cit., p.14). Al di la della definizione storica edetimologica, la definizione di quilombo possiede una polisemia di connotazioni dinamiche che si sono modificate storicamente estrategicamente anche in tempi recenti a seconda degli scopi di coloro che hanno avuto il potere di stabilirla e di affermarla (Malighetti2004, op. cit., pp.101, 199-200). 3 Malighetti 2004, op. cit., p. 177. Intervista dell'autore ad Alfredo Wagner De Almeida, 23 Aprile 1996. 4 Malighetti 2004, op. cit. 5 R. Malighetti, Identità e lavoro sul campo nel Quilombo Frechal, 2000. In La ricerca Folklorica, n. 41, pp.97-111.6 Foto gentilmente messa a disposizione da Roberto Malighetti. 7 Malighetti 2004, op. cit., pp. 3-4.8 Per una serie di impegni contingenti e per la mancanza di tempo determinata dai termini di consegna della recensione, un'effettivadialogia tra me e Malighetti non è stata alla fine realmente possibile limitandosi solo ad un'intervista molto strutturata effettuata a fineGiugno, ad alcuni brevi incontri informali e alla discussione del testo finale della recensione. Per questa ragione il titolo dell'articoloche doveva essere: Una recensione dialogica di una etnografia dialogica, è stato trasformato nel titolo attuale: Una recensioneriflessiva di una etnografia dialogica. Nonostante ciò, posso però anche dire che nell'analisi e nella comparazione tra i vari testiaffrontati, le lezioni del docente e le successive interviste, almeno una forma abbozzata di dialogia si è infine realizzata. 9 In particolare le lezioni del 17 e 19 marzo. 10 B. Malinowski, Giornale di un antropologo [A Diary in the Strict Sense of the Terme], Armando, Roma, 1992 [1967].11 B. Malinowski, Argonauti del Pacifico occidentale, Bollati Boringhieri, Torino, 2004 [1922]. Entrambi i volumi, gli Argonauti e idiari, erano parte della biografia d'esame che comprendeva anche: U. Fabietti, R. Malighetti, V. Matera, Dal tribale al globale, BrunoMondadori, Milano, 2000.12 Malighetti 2004, op. cit., p. 43.13 Ibidem, p. 52.14 Gli storici riportano l'esistenza di molti quilombos. Il Quilombo dos Palmares fu però il più grande per estensione e durata. La suaorigine é anteriore al 1600, e resistette più di 100 anni alle incursioni militari di olandesi e portoghesi. L'epopea di Palmares è legataalle imprese dei leggendari condottieri Zumbi (1655-1695) e Ganga Zumba. Nato in uno dei villaggi di Palmares, Zumbi, catturatoancora bambino (c.1660), fu consegnato ad un prete di Porto Calvo, padre Antonio Melo, che lo allevò insegnandoli a servire messada chierichetto. Con il suo aiuto Zumbi apprese anche il portoghese e il latino. A 15 anni però fuggi a Palmares e ancora molto giovanefu capo di una delle tribù del quilombo, fino a diventare nel 1678 il capo delle forze armate dello stato. Dal 1670 al 1680 furonorealizzati dai portoghesi moltissimi attacchi al Quilombo di Palmares. Nel 1694 ci fu un grande combattimento con molte morti dalledue parti. Infine il quilombo fu distrutto dai cannoni. Nel 1695 Zumbi fu visto nella foresta dello stato di Alagoas comandare un gruppodi ribelli alla ricerca di armi e munizioni. Il 20 novembre del 1695 Zumbi, tradito da un compagno, fu catturato e assassinato. La suatesta fu tagliata ed esposta in una piazza pubblica, a Recife. Le terre di Palmares furono divise tra i signori che avevano finanziato labattaglia finale. Nel 1986, ascoltando le rivendicazioni della comunità nera, le terre in cui esistette il Quilombo di Palmares, nella Serrada Barriga, furono acquisite dal Governo Federale, creando sul posto il Memoriale Zumbi, dove tutti gli anni, il giorno 20 Novembre,si realizzano atti pubblici, celebrazioni e commemorazioni. I fatti memorabili qui riportati sono il frutto di una sintesi di una serie ditesti da me raccolti su alcuni siti Internet brasiliani (ad esempio http://www.vidaslusofonas.pt/) mobilitati nel rivalutare la storia deglischiavi in Brasile. Non hanno quindi un valore storico rigoroso e scientificamente documentato. Possono però essere utili per illustrareuno dei modi e il tipo di testi attraverso cui oggi si produce un idea diffusa e condivisa della storia e della cultura delle comunità nereafro-brasiliane. 15 "I grandi proprietari chiudevano un occhio: per loro, quel che importava era esclusivamente la produzione, e purché il negroconservasse la propria vitalità e la capacità di lavoro, tanto valeva che si divertisse". R. Bastide, I culti afro-americani . In H.-C. Puech,Storia delle religioni. Colonialismo e neocolonialismo, Laterza, Bari, 1978, p. 49.16 R. Malighetti 2004, op. cit., p. 52. 17 Malinowski 2004, op. cit., p. 15.

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18 J. Clifford, I frutti puri impazziscono , Bollati Boringhieri, Torino, 1999 [1988], p. 51.19 Cfr. Ibidem, p.52.20 Malinowski 2004, op. cit., p. 29.21 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1995 [1953], p. 46.22 Ibidem, p. 47.23 B. Malinowski, Coral Gardens and Their Magic, 1935.24 J. Clifford 1999, op. cit., pp.62-63.25 Il giorno 26 Aprile 2004.26 Cfr. M. Parodi, Arte, Religione e Medicina: il ruolo terapeutico e soteriologico dell'alterità presente, in Achab, Rivista Studentescadi Antropologia della Università Statale di Milano Bicocca, N.1, 2004, pp. 13-20. versione online: www.studentibicocca.it/achab.27 Malighetti 2004, op. cit., p.6.28 Cfr. Ibidem, pp. 26-34.29 Cfr. Ibidem, pp.17-18.30 Malighetti 2004, op. cit., pp. 56-57.31 Malighetti 2000, op. cit.; vedi anche Malighetti 2004, op. cit., pp. 64, 67 32 Questa trasformazione paradigmatica sembra qui dimostrare nel modo più evidente e concreto come la dicotomia tra teorico edescrittivo sia fittizia, la teorizzazione rimandando sempre alla pratica, ai problemi concreti di una particolare situazione di campo eviceversa l'immediatezza irriducibile dell'evento risultando comprensibile e dotata di senso solo attraverso l'attività teorico-interpretativa dell'antropologia. Cfr. Fabietti, Malighetti, Matera 2000, op. cit., p. 139-140.33 Si tratta del sottotitolo del Quilombo di Frechal: Identità e lavoro sul campo in una comunità brasiliana di discendenti di schiavi.34 Cassetta 4, 32'45"- 33'45". La Cassetta 4 contiene la registrazione dell'intervista a Malighetti da me eseguita il 29 Giugno 2004.35 C. Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna, 1987 [1973], pp. 399-44936 Clifford 1999, op. cit., p. 57.37 Malighetti 2004, op. cit., p. 65.38 Cassetta 4, 23'- 25'.39 Cfr. ad esempio Malighetti 2004, op. cit., p. 69.40 R. Malighetti, Il filosofo e il confessore. Antropologia ed ermeneutica in Clifford Geertz, Unicopli, Milano, 1991.41 Cfr. Clifford 1999, op. cit., pp. 62-64.42 Può essere utile, per chiarire il mio punto di vista su Malinowski, citare ancora l'introduzione agli Argonauti: "Nel lavoro effettivosul campo la comparazione dei dati e il tentativo di metterli insieme riveleranno crepe e lacune nell'informazione che guideranno anuove indagini. Per mia esperienza personale posso dire che molto spesso un problema mi sembrava risolto e ogni cosa ben ferma echiara finché non cominciavo a buttar giù un breve abbozzo preliminare dei miei risultati. Solo allora mi accorgevo delle enormideficienze, che mi indicavano dove vi erano nuovi problemi e mi guidavano ad un nuovo lavoro [...]. Questa fertilizzazione incrociatafra lavoro costruttivo e osservazione l'ho trovata preziosissima e penso che senza non avrei potuto compiere alcun reale progresso"(Malinowski 2004, op. cit., pp. 22-23). Riguardo al ruolo della teoria nella ricerca sul campo dice ancora Malinowski: "L'etnografonon deve solo tendere le sue trappole al posto giusto e aspettare quello che ci cadrà dentro. Deve essere anche un cacciatore attivo [...]guidato dai più moderni risultati dello studio scientifico [...]. Più problemi porterà con se sul terreno, più sarà disposto a plasmare lesue teorie in accordo con i fatti e a considerare i fatti come sostegno della teoria" (Malinowski 2004, op. cit., p. 18). Bisogna peròammettere che Malinowski non è sempre molto lineare nel descrivere il suo punto di vista metodologico: le sue esperienze personalidi ricerca, il suo metodo pratico, contraddicono spesso la sua impostazione teorica. Così, nell'introduzione agli Argonauti , parlandodel ruolo del ricercatore sul campo, afferma in sostanza il contrario di quanto sostenuto solo qualche pagina prima riferendosi alla suaesperienza personale: "Naturalmente egli può essere insieme un pensatore teorico e uno che lavora sul terreno, e in questo caso puòtrarre stimoli da se stesso, ma le due funzioni sono separate e nella ricerca effettiva devono essere separate sia come momenti sia comesituazioni di lavoro" (Malinowski 2004, op. cit., p. 19).43 Malighetti 2004, op. cit., p. 71.44 Ibidem, p. 7.45 Ibidem, p. 56.46 Ibidem, p. 57.47 Ibidem, p. 53.48 Ibidem, p. 53.49 Ibidem, p. 59. Intervista dell'autore a Marisete, 26 Febbraio 1996.50 Foto gentilmente messa a disposizione da Roberto Malighetti.51 Manifestazione che mette in scena la lotta tra due regni africani (Malighetti 2004, op. cit., nota 44, p.43).52 Cassetta 1, 4'56"- 8'25". Le cassette 1 e 2 si riferiscono alla registrazione integrale della lezione finale del corso tenutasi il 16 Aprile

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2004. Le indicazioni di tempo indicano l'inizio e la fine del brano citato nel testo.53 Cfr. Malighetti 2004, op. cit., p.65.54 Cfr. Ibidem, p.68.55 Nonostante l'autore sia anche molto critico del tipo di analisi etnografica condotta da Geertz, dove, come abbiamo già evidenziato,e qui è ancora Malighetti a suggerirci le parole, "l'antropologo non è considerato un attore sociale che faccia parte della scena e gliinterlocutori semplicemente sono assenti, o, al più, oggettivati in modo generico" (Malighetti 2004, op. cit., p.69-70). 56 Cfr. Geertz 1987, op. cit.; in particolare il primo capitolo: Verso una teoria interpretativa della cultura (nell'edizione originaleinglese: Thick Description. Toward an Interpretative theory of Culture).57 Durante l'esame che ho sostenuto con l'autore, l'ultima domanda del professore è stata la seguente: "Mi parli del rapporto tra il casoparticolare e la teoria generale nel Quilombo". Non ricordo più bene cosa gli ho risposto, ma questa domanda ha continuato adassillarmi per lungo tempo.58 Malighetti 1991, op. cit., p.96. Cfr. Geertz 1987, op. cit., p.64.59 Geertz 1987, op. cit., p. 6460 Malighetti 2004, op. cit., p.43.61 Ibidem, p.48.62 Cfr. C. Geertz, Antropologia interpretativa, Il Mulino, Bologna, 1988; in particolare il capitolo terzo: "Dal punto di vista dei nativi":sulla natura della comprensione antropologica.63 Cassetta 2, 42'20"- 42'50".64 Malighetti 2004, op. cit., p.137.65 Ibidem, p.59.66 "C'era tutto un capitolo, che è stato omesso, che era un capitolo divertentissimo dal mio punto di vista, sulla storia della trance, dellapossessione. C'era tutta la storia delle persone di Frechal che entravano in trance. Il mio problema era che quando ero con loro questepersone non cadevano mai in trance, ma appena andavo via un attimo, andavano in trance. I miei interlocutori allora mi dicevano: "Haivisto sei andato via e Mundica è andata in trance". Naturalmente cercavo di capire per loro cosa fosse la trance e se praticavano iltambor das minas [culto afro-brasiliano basato sulla possessione simile al candomblé di Bahia]. A Frechal non ne parlavano. Così eroarrivato a pensare che avessero un pensiero esoterico che non volevano rivelare. Se andavo da Mundica e le chiedevo di parlare deltrance lei mi rispondeva dicendo che aveva vergogna a parlarne. Quando le chiedevo cosa facesse mentre era in trance, replicava dinon saperlo appunto perché era in trance. Questa parte intendeva chiarire cosa volesse dire fare ricerca. Poi invece questo capitolo èstato omesso. Non c'era spazio. Bisogna fare delle scelte sempre dolorose" (Cassetta 2, 24'20"-28'35").67 Malighetti 2004, op. cit., p.42.68 Ibidem, p.141. Intervista eseguita dall'autore il 31 Marzo 1996.69 Fabietti, Malighetti, Matera 2000, p.154.70 Cfr. Malighetti 2004, op. cit., pp.140-141.71 Cfr. Ibidem, p.42.72 Inácio: uno dei leader della comunità di Frechal e il principale informatore dell'autore. Foto gentilmente messa a disposizione daRoberto Malighetti. 73 Malighetti 2004, op. cit., p.140.74 Bisogna però ricordare, per non essere fraintesi, che, come dice l'autore, "la fusione di orizzonti è [sempre] fatta da qualcuno, inquesto caso dall'autorità dell'autore che ha autorizzato quella fusione. [...] Non è una fusione che accade nel mondo. Il meticciamentonon è un processo naturale, è il prodotto artificiale di un autore che si è posto in quella prospettiva" (Cassetta 4, 36'20- 36'50").75 Avvocato dell'associazione SMDDH impegnato nella causa di Frechal contro il fazendeiro.76 De Almeida Alfredo Wagner: antropologo brasiliano consulente della SMDDH e del PVN (Projecto Vida de Negro); autore dinumerosi libri sui conflitti per la terra nello stato di Maranhão (vedi la biografia in Il Quilombo di Frechal). 77 Malighetti 2004, p. 204. Intervista eseguita dall'autore il 6 Maggio 1996.78 Ibidem, pp.196-197. Intervista dell'autore a Hélio, 30 Maggio 1996.79 Ibidem, p.198. Intervista dell'autore a Hélio, 24 Febbraio 1996.80 Ibidem, p.198. Intervista dell'autore a Hélio, 30 Maggio 1996.81 Ibidem, p.211. Intervista dell'autore a Inácio, 21 Aprile 1996.82 Ibidem, pp.211-212. Intervista dell'autore a Inácio, 21 maggio 1996.83 Ibidem, pp. p.216-217. Intervista dell'autore a Inácio, 21 Maggio 1996.84 Cassetta 2, 21'26"-24'05".85 Cassetta 3, 4'. La Cassetta 3 contiene 4 interviste eseguite il 16 Giugno 2004 ad alcuni compagni di corso.86 Cassetta 3, 6'.87 Cassetta 3, 12'.

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88 Cassetta 4, 37'- 38'05".89 Geertz 1987, op. cit., p. 69.90 Cfr. C. Lévi-Strauss, L'identità , Sellerio, Palermo, 1980 [1977], p.131.91 Cfr. Malighetti 2004, pp.225-226.92 Cassetta 2, 29'25"- 37'. Vedi anche Malighetti 2004, op. cit., pp. 206- 208.93 M. Foucault, Microfisica del potere, Einaudi, Torino, 1977, p.133.94 Cassetta 4, -22'25"- 22'40". 95 Cassetta 2, 41'50"- 42'15".96 Casetta 2, 47'10"- 50'40".97 Cassetta 1, 19'40- 21'20".98 Foto di Riccardo Teles, dal libro Terra de preto. 99 Cassetta 3, 44'20"- 47'05".100 Cfr. U. Eco, Trattato di semiotica generale, Edizioni Bompiani, Milano, XII ed. 1991 [I ed. 1975], cap. 3.7. 101 Dal 19 Luglio al 19 Agosto 2004.102 Ivo Fonseca Silva attualmente lavora per l'Associação das Comunidades Negras Rurais Quilombolas do Maranhão (ACONERUQ-MA). Associazione fondata nel 1997, successivamente al periodo di permanenza dell'autore a Frechal, in occasione del V Encontro deComunidades Negras Rurais, Quilombolas e Terras de Preto do Maranhão. L'associazione ha sede in São Luís. 103 La partenza dell'autore, verso la fine del 1996, fu festeggiata (!) con una grande festa di tambor de crioula (danza realizzata in circoloesclusivamente dalle donne di fronte ai tamburi suonati dagli uomini che battono il tempo e cantano). In quella occasione fu anchecelebrato l'ingresso dell'autore nella comunità come padrino di un nuovo membro del villaggio: Kindè (1995) figlio di Márcia e diHelio figlio di Inácio (Malighetti 2004, op. cit., p.18).104 Nome di origine africana che significa abitante del quilombo (Malighetti 2004, op. cit., p.198).105 Si ringrazia Roberto Malighetti per la disponibilità con cui ha assecondato questa strana esperienza di scrittura "etnografica". Inoltretutti gli studenti della Specialistica di Antropologia Culturale che si sono sottoposti pazientemente alle mie assillanti domande sulQuilombo .

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La coltivazione di papavero da oppiodilaga in Afghanistan

di Elisa Giunchi

Elisa Giunchi (tratto da: E. Giunchi, "Ridefinizione dell'identitànazionale e ricostruzione in Afghanistan", in C. Molteni, F.Montessoro, M. Torri, a cura di, Le risposte dell'Asia alla sfidaamericana , Bruno Mondadori, Milano, 2004).

Nel 1999 l'Afghanistan era diventato il maggior produttore dioppio al mondo, superando il cosiddetto "triangolo d'oro" -Thailandia, Birmania e Laos. L'anno successivo il mullah Omaraveva emesso un decreto che vietava la coltivazione del papavero,ma non il suo commercio. La produzione si era drasticamenteridotta, determinando l'aumento dei prezzi dell'oppio e dei suoiderivati sul mercato internazionale. Nell'autunno del 2001,approfittando dell'assenza di un'autorità centrale, in varie regionidel paese i contadini avevano ricominciato a seminare papaveroda oppio. Nel gennaio successivo Karzai aveva vietato laproduzione, la raffinazione, l'uso e l'esportazione di oppio,fornendo nel contempo incentivi ai contadini che distruggevano ipropri raccolti. Ma dinnanzi al limitato controllo centrale sulleprovince e in mancanza di colture alternative altrettantoredditizie, il divieto di Karzai non ha avuto alcun effetto e laproduzione di oppio è continuata ad aumentare. Già nel 2002 sonostate prodotte 3.422 tonnellate di oppio. Nel 2003 il raccolto ècresciuto del 6%, arrivando a 3.968 tonnellate, vicino ai livellirecord del 1999. A questi sviluppi hanno contribuito le condizioniclimatiche, che hanno migliorato la produttività del terreno, el'aumento della superficie coltivata a papavero da oppio, resopossibile dall'assenza di un controllo capillare del governo e dialternative economiche serie. Nel 2003, in effetti, la coltivazionedi oppio si è estesa su 28 province rispetto alle 24 del 2002,passando da 30.750 ettari a 61.000. Un altro sviluppopreoccupante è rappresentato dal fatto che l'oppio afgano viene

sempre più spesso raffinato nel paese, tanto che, ormai, solo il30% è esportato allo stato grezzo. Il valore delle esportazione dioppiacei, inclusi i loro derivati, è oggi di 2,3 miliardi dollari, unacifra equivalente al 50 % del Pil afgano. I contadini coinvolti nellaproduzione, circa il 7% della popolazione, ne ricavano introiti bensuperiori al reddito medio. Ma i principali beneficiari delnarcotraffico sono altri: signori della guerra, commercianti etrasportatori, militanti islamici. Le aree di Helmand, Kandahar eNangarhar, tradizionalmente centri della coltivazione di papaveroda oppio, sono controllate dai talibani, mentre la produzione dioppio nella provincia settentrionale di Badakhshan, che nel 2003è diventata la terza provincia produttrice, è controllata dal partitoestremista Hezb-i-Islami. Ed è proprio il legame tra estremismo eoppio che ha convinto Washington ad assumere nell'autunno del2003 un ruolo più attivo nella lotta al narcotraffico, finora guidatadalla Gran Bretagna. Non è ancora nota la strategia che saràseguita dagli Stati Uniti, ma è chiaro che la distruzione dellecoltivazioni, qualora non sia parte di una strategia più vasta dicollaborazione regionale e di incentivazione economica, rischia diessere poco efficace, se non addirittura controproducente. Laquestione dell'oppio afgano è complessa e presenta un dilemma didifficile soluzione: non vi può essere ricostruzione e sviluppoeconomico (e, quindi non è realistico pensare di poter offrireopportunità economiche alternative alla coltivazione dell'oppio)senza che sia ristabilita la sicurezza e senza che vi sia un governocentrale stabile; ma, in mancanza di opportunità economichealternative, la coltivazione di oppio continuerà e, di conseguenza,rafforzerà i signori della guerra e gli estremisti, cioè coloro chehanno solo da guadagnare dall'attuale instabilità eframmentazione del potere.

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Alla confluenza di due oceaniSincretismi, ibridazioni e compresenze fra tradizioni indù e musulmane in India

di Giulia Renata Maria Bellentani

1. Una cartolina dall'India, terra di scontro e d'incontro

Kolkata, West Bengal, fine Marzo 2003.E' il capodanno Sind.Un corteo di persone festanti si snoda lungo la strada. C'è "l'areadelle danze", rigorosamente al maschile, ci sono gli immancabiliportatori di lampade a gas sulla testa, ci sono carri con personeche offrono cibo; carri che portano immagini, credo, di santimusulmani; carri che portano generatori per illuminare altri carri.Conosco ben poco della storia e dell'iconografia di tradizioneislamica perciò non riesco a comprendere quali siano lepersonalità omaggiate, ma non ho alcun dubbio sull'immaginetrasportata per prima: è una divinità indù.E' Ganesh, è Ganapati, il dio dalla testa d'elefante, il figlio di

Parvati, "colui che rimuove gli ostacoli", il "Signore dellasaggezza", ecc… ed è qui con la comunità Sind festante! Capiscoil perché della sua presenza: il suo carro è bellissimo, con neonmulticolori intermittenti, veramente degno di aprire il corteo.Perciò perché formalizzarsi e non farlo partecipare, stracarico dibimbi nei loro abiti più belli? D'altronde al Durga Puja insieme alle immagini di Durga vieneportata in processione anche la Madonna cristiana,opportunamente adornata!1

Questa è l'India di cui voglio parlare.

L'India non è solo terra di fondamentalismi, di scontri tragici fraappartenenti alle varie tradizioni. Non c'è solo Ayodhya, simboloestremo del fanatismo religioso e delle tragedie che questocomporta, anche se i nostri mezzi di comunicazione solo questoriportano.L'India è anche un luogo dove numerose tradizioni religiosecoesistono, spesso influenzandosi reciprocamente non solo nellatradizione popolare di oggi ma anche nella storia di questo paese,che è caratterizzato non tanto da scontri quanto da coesistenze eibridazioni.

Voglio parlare non dell'India dei fondamentalismi, ma dell'Indiache sa essere sia indù che musulmana. Per questo cercherò nellasua storia i momenti in cui le due tradizioni religiose si sonoincontrate, e non scontrate, dando anche talvolta origine a nuoveespressioni di sentimento religioso. Perché il confronto conl'Altro non può risolversi solo in reciproca chiusura ma anche indialogo, in ricerca di somiglianze e creazione del nuovo.

Scelgo di trascurare il periodo in cui nel dialogo fra indù e

musulmani venne ad inserirsi una terza voce, quella della potenzacoloniale perché questa sarebbe un'altra storia ancora daraccontare. La storia di come gli indù impararono a considerarsisempre più indù, separati dai musulmani e i musulmaniimpararono a considerarsi sempre più musulmani, separati dagliindù; e i due gruppi non parlarono più l'industani, ma l'hindi el'urdu, censiti come diversi nello stesso territorio. Questa sarebbedavvero un'altra storia da raccontare. Una storia tragica.

2. Storia dell'India ANCHE islamica

2.1 L'arrivo dell'islam in terra indiana

La tradizione vuole che l'Islam sia stato introdotto in India da unmercante dell'attuale Kerala, Cheramen Perumal, di ritornodall'Arabia dove era stato convertito dal Profeta alle cuipredicazioni aveva assistito. Cheramen Perumal sarebbe ilfondatore della prima moschea indiana, situata nella cittadina diCranganur, nei pressi di Cochin.Effettivamente la comunità musulmana del Kerala è la più anticadell'India; la sua origine risale molto prima dell'epoca delleconquiste musulmane e, soprattutto, occorre ricordare che questenon avvennero mai in questa zona meridionale dell'India.Questo ci dimostra che l'arrivo dell'Islam in India fu un processoche non avvenne solo con la forza militare, con lo scontro diculture narrato nei testi degli storici, ma fu anche un'ovviaconseguenza degli intensi scambi commerciali che l'Indiaintesseva con le altre terre con viaggi di merci, uomini,ma anchedi idee, pensieri, approcci.2

Anche il nord dell'India vide la penetrazione del pensiero islamicoprima della sua definitiva conquista. Infatti l'islam cominciò adiffondersi sia nella vallata del Gange sia nel Gujarat nei decennicentrali del XI secolo, cioè in un periodo in cui né l'una né l'altradi queste regioni erano ancora passate sotto il controllo di statiretti da monarchi islamici. Qui la conversione fu opera dei misticisufi, di cui parleremo più avanti.Il processo di conversione fu quindi indipendente dal processo diconquista.

Per quanto riguarda l'arrivo dell'islam in armi, le prime incursioniavvennero nel Sind, conquistato da Muhammad bin Qasim nel711 - 712. Successivamente i governatori arabi del Sind, dopo aver ultimatola conquista della valle dell'Indo, avevano lanciato una serie discorrerie e tentativi di invasione contro il resto dell'India, a cui iprincipi rajput3 si opposero con successo. Più difficile fu

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fronteggiare le invasioni dei signori della guerra turchi cheavevano Ghazni (Afganisthan) come capitale4. Questi riuscironoad impossessarsi di Peshawar e delle zone circostanti e da qui,successivamente compirono una serie di incursioni che misero aferro e fuoco una larga parte della vallata indo-gangetica, conl'obbiettivo non tanto della conquista quanto della razzia(soprattutto delle grandi ricchezze accumulate nei templi). Circa due secoli dopo questi avvenimenti ci fu un altroconquistatore turco - afgano che penetrò nella vallata gangetica:Muhammad, principe di Ghur, che pose le fondamenta di quelloche sarà il primo regno musulmano in India, il Sultanato di Delhi.Muhammad Ghuri penetrò nella valle dell'Indo nel 1175,conquistandone uno dopo l'altro i principati arabo-islamici e daqui proseguì arrivando a conquistare rapidamente le immensedistese della pianura gangetica. Con la sua morte, e con la mortedel fratello, questi territori non fecero più parte del sultanato diGhur ma vennero affidati ai generali di Muhammad e il piùpotente di questi nel 1206 assunse il titolo di sultano iniziandocosì la storia del sultanato di Delhi, anche se questa divenne lacapitale solo col suo successore. Il periodo del sultanato di Delhi gettò le basi di una societàislamica caratterizzata da una commistione di aspetti islamici enon islamici nell'ideologia dello stato e nella cultura popolare.Dopo la disgregazione del sultanato di Delhi e dopo un trentenniodi guerre venne creato un nuovo stato imperiale musulmano:quello mughal, così chiamato perché il fondatore Sahir ud-DinMuhammad, detto Babur ("tigre"), di stirpe timuride vantavaun'assai incerta parentela con Gengis Khan, il conquistatoremongolo. L'egemonia mughal durò circa duecento anni: dal 1526 fino allaconquista coloniale britannica.

L'ascesa al potere temporale di sovrani musulmani determinò unanuova situazione per cui l'islam divenne la religione della nuovaclasse dominante e convertirsi ad essa divenne per le classi agiateil passaporto per accedere ai vertici della società. Anche le classi più povere, in particolare dalit e tribali avevanouna forte motivazione sociale per convertirsi all'islam: quella disfuggire alla rigida classificazione indù che li vedeva comeintoccabili fuori casta. Questo processo vede una progressivaislamizzazione della popolazione con l'espandersi dell'agricoltura.Ciò avvenne specialmente nel Punjab occidentale (al tempo delsultanato di Delhi) e nel Bengala orientale (con l'impero mughal)a seguito della colonizzazione interna promossa dai nuovidominatori musulmani interessati ad ampliare gli insediamentiagricoli. Le popolazioni sedentarizzate vennero incoraggiate aconvertirsi all'islam; incoraggiate, ma mai obbligate poiché lareligione islamica non venne mai imposta con l'uso della violenza.La conversione all'islam si diffuse progressivamente con lacreazione di stati retti da dinastie islamiche, ma ciò non portò maialla completa conversione degli abitanti del subcontinente:sembra poco probabile che più del 20 - 25 per cento dellapopolazione sia mai divenuto musulmano. Inoltre le varie fonti dacui l'islam era giunto (le migrazioni dal Medio Oriente e dall'Asia

interna e le conversioni locali) fecero sì che fossero presenti tuttele varianti dell'islam: comunità religiose sunnite e comunità sciite,con un pluralismo di gruppi etnici e di movimenti, che siispiravano alle concezioni degli ulama, dei sufi e dei riformatori. L'India mantenne sempre la sua caratteristica di presentare unacoesistenza, talvolta sofferta e talvolta serena, di numerosetradizioni religiose.

2.2 Il buongoverno, fra indù e islam

I governi musulmani nel subcontinente indiano si caratterizzaronoda subito per l'attiva partecipazione di esponenti indù. Già ilconquistatore arabo del Sind, Muhammad bin Qasim (sec. VIII) sirese conto che l'uso puro e semplice della forza era improponibileper governare una popolazione assai più numerosa per cui scelsela collaborazione con le precedenti classi dirigenti, stabilendo ilmodus operandi poi usato dal sultanato di Delhi e,successivamente, dal regno moghul. A tutte le popolazioni conquistate venne esteso lo status didhimmi (cioè individui "protetti" in cambio del pagamento di unatassa pro capite) nonostante l'interpretazione letterale del Coranolo riservasse ai "popoli del libro", cioè ebrei e cristiani. 5

I conquistatori dovettero appoggiarsi ai brahmani, detentori delprestigio e delle conoscenze necessarie al governare, per creareun'amministrazione ordinata, efficiente e potente. Si stabilì cosìun rapporto d'interdipendenza fra l'élite brahmana e i regnantiislamici.

Gli indù furono coinvolti attivamente: nelle loro mani c'eral'amministrazione, i vertici dell'apparato fiscale e molte delleattività legate all'economia e al commercio, incluso il conio dinuove monete. L'influenza di questa elite era così forte che forsequesto spiega il fatto che le monete coniate nel sultanato di Delhi,dal tempo di Muhammad fino al 1290, se presentavano da un latola shahada (la dichiarazione dell'unicità di Dio) in caratteri arabi,dall'altro portavano impressi simboli religiosi indù quali la deaLakshmi 6 o il toro Nandi 7. Obiettivo prioritario dei regnanti era il buon funzionamento delloStato, piuttosto che la diffusione dell'islam. Già Balban (sultano di Delhi dal 1266 al 1287) ammetteva concinico realismo che la realizzazione pratica di un governo basatosulla sharia non era più attuabile nel mondo contemporaneo; Ala-ud-din Khaliji (sultano dal 1296 al 1316) esplicitamenteconfermava: "Per quanto non abbia studiato la Scienza (religiosa)o il Libro (il Corano), sono un musulmano discendente damusulmani. Per prevenire la ribellione, nella quale a migliaiamuoiono, io promulgo quegli ordini che ritengo buoni per lo statoe per il bene del popolo. Non so se ciò sia secondo la legge(islamica) o a essa contrario (ma) qualsiasi provvedimento ioritenga essere per il bene dello stato o adatto in un caso diemergenza, quello io decreto." 8

Dovere, e scopo, del monarca era guardare soltanto al benepubblico.

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L'adattamento fra la nobiltà sultaniale e gli strati privilegiati dellasocietà indù (mercanti, finanzieri e aristocrazia rurale) fece sì cheessa, pur continuando a sentirsi parte integrante dell'umma(comunità) musulmana si indianizzasse sempre di più dal punto divista culturale.9

Ci furono così un numero crescente di traduzioni in linguapersiana di opere sanscrite, trattati in persiano sulle espressioniartistiche indiane e una produzione poetica che esaltava questaterra e i suoi abitanti. Sultani musulmani come Muhammad binTughlak presero l'abitudine di osservare festività indù, diintrattenersi con yogi indù e di onorare gli asceti jaina. Fino adarrivare al tentativo d'un colto principe moghul10 di trovare lacompleta identità fra sufismo islamico e vedanta indù.

Questo processo di adattamento e riconoscimento dell'Altro fututt'altro che fluido e uniforme, presentò una serie dicontraddizioni clamorose ma diede anche vita a interessantisperimentazioni di convivenza e incontro.

3. Gli ingredienti della religiosità nel subcontinente

In India si incontrarono quindi induismo e islam: una tradizionereligiosa antichissima ricca di innumerevoli variazioni e un credoassai recente ma non per questo privo di una pluralità diatteggiamenti.

3.1 Cenni sull'induismo ( e non solo)

Induismo è un insieme di religioni così variegato e complesso cheè più corretto parlare di tradizione indù11, all'interno della quale sipossono inserire anche buddismo e jainismo, considerate dai nonindù come religioni autonome, ma viste dagli indù come variantipiù o meno eterodosse della tradizione.

3.1.1 All'origine: i Veda

All'origine vi sono i Veda, composti probabilmente intorno al1500 - 800, per la tradizione sono molto più antichi e privi diautore: non composti dagli uomini e neppure dettati da un Dio, mavisti dai veggenti.I Veda contengono inni dedicati a numerose divinità, cantiliturgici per la celebrazione dei sacrifici, descrizioni dellamagnificenza delle divinità, formule magiche, incantesimi,preghiere con richieste di beni e felicità. In essi viene anchepresentata una prima riflessione sull'origine e composizione delmondo, da cui si evince una concezione estremamente stratificatadella società che pone ai vertici del prestigio la classe sacerdotalebramana.

3.1.2 I Vedanta, "fine dei Veda" e inizio della riflessionemonistica. Il pensiero di Shankara.

Nel corso della seconda metà del primo millennio a. C. lacrescente insoddisfazione nei confronti di una ritualità vedica

sempre più complessa e i cambiamenti sociali dovuti all'emergeredi una nuova classe mercantile portarono alla nascita di nuovecorrenti di pensiero. La tradizione vedica, vissuta ormai come ovvia e limitata vennerinnovata con nuovi testi e commentari e nacquero anche nuoveforme di pensiero eterodosso che da essa si discostavano (oaddirittura la rifiutavano), quali il buddismo 12 e il jainismo13.A questo movimento di rinnovamento appartengono i Vedanta14,ovvero "fine dei Veda": reinterpretazione delle loro veritàuniversali e ultimo dei commenti considerati come scritturerivelate dagli indù ortodossi Nei Vedanta viene enunciato il "grande segreto" dell'identità traanima universale (brahman) e anima individuale (atman) per cuitutti gli esseri e tutte le cose sono compartecipi dell'animacosmica15, da essa hanno origine e a essa faranno ritorno.Oltre al pensiero monistico le Upanishad apportarono l'idea deldistacco dal mondo, la concezione ciclica della vita, l'attenzionededicata alla contemplazione attraverso particolari tecniche dimeditazione e molti secoli dopo furono alla base del pensiero diuno dei più importanti filosofi indù: Shankara (788-820),massimo esponente della scuola Vedanta (o Advaita: "senza unsecondo") che per il suo monismo sarà una delle principaliinterlocutrici della tradizione islamica16.)

Shankara, brahmano del Kerala, diede un contributofondamentale alla sistematizzazione filosofica dell'induismo:tramite integrazione, selezione e sintesi delle tradizionipreesistenti elaborò un sistema filosofico omogeneo di granderaffinatezza, dando giustificazione intellettuale alle varie forme direligiosità popolare inglobate nella tradizione brahmanica. Rifacendosi alle Upanishad , Shankara afferma che esiste un'unicarealtà, il Brahman, e ogni manifestazione di pluralità èun'illusione. La pluralità degli esseri viventi è avvertita comerealtà a sé stante e l'anima individuale è vista come differentedall'anima universale solo a causa di una scorretta percezione.Questa illusione di dualità lega l'anima individuale al ciclo senzafine di morte e rinascite e va superata attraverso la correttapercezione, attraverso la conoscenza. Sono possibili due vie per arrivare all'unione con l'Assoluto. Laprima è quella del superamento dell'illusione e della completaidentificazione nel Brahman. La seconda, per chi non ha grandidoti intellettuali, è quella della religiosità popolare: la devozioneed unione con la divinità Brahma, che, come ogni manifestazionedi pluralità, è illusione ma che attraverso essa permette ilraggiungimento dell'Assoluto di cui anche Brahma è parte.

3.1.3 Il brahamanesimo "classico"

A partire dal V sec. a C, come si è detto, vi fu una crescenteinsoddisfazione nei confronti della religione vedica e lafondazione di due nuovi pensieri spirituali: jainismo e buddismo,che si diffusero rapidamente in tutta l'India, evolvendosi emodificandosi. Dopo circa un millennio la tradizione dei Veda, preservata dai

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bramani, ritornò ad essere la religione principale, seppurprofondamente modificata.I numerosi dei vedici quasi scomparvero, relegati a ruolo disecondo piano rispetto a nuove divinità legate a culti locali. Fra inuovi dei assunsero primaria importanza Brahma (il dio creatore),Vishnu (il dio conservatore) e Shiva (associato al preesistenteculto fallico della fertilità e considerato il distruttore). Si formòuna tradizione religiosa secondo cui Vishnu e Shiva17

discendevano periodicamente su questa terra, sotto varie formecol fine di ristabilire l'ordine e di eliminare il male (lo stessoBuddha venne cosiderato manifestazione di Vishnu.) Vennero riproposti i concetti presenti nelle Upanishad dibrahman e di incarnazione. Vi furono anche derivazioni dalpensiero buddista e jaina: il concetto di "non violenza" dei jaina el'importanza data al retto comportamento morale conl'introduzione della necessità di una via etica per congiungersi albrahman18. Permaneva però la subordinazione alla classe sacerdotalebrahmanica; il processo di rinnovamento infatti non coinvolse lasuddivisione sociale, confermata se non ulteriormente irrigidita.

3.1.4 La via dello Yoga

All'interno dell'induismo, ma basata sui culti preesistenti, è lapratica dello yoga, che si vuole fondata da Shiva, chiamato ancheil Grande Yogi.Il termine yoga significa "atto di aggiogare ad un altro": aggiogaremente e corpo al fine di ottenere una perfetta unità al di là deilimiti del pensiero e del linguaggio. Solo in un secondo tempoquesta unione sarà intesa anche come unione col Divino.Durante il suo sviluppo lo yoga si servì di diversi strumenti perraggiungere i propri scopi: dagli incantesimi all'osservanza didoveri religiosi e condotte morali fino alle pratiche di ascetismo.In particolare ricordiamo le tecniche per il controllo del corpo edel respiro; la ripetizione di formule magiche e il completoassorbimento di sé nella contemplazione di un oggetto.

3.1.5 La venerazione della Devi: il pensiero tantrico

Altro grande periodo di rinnovamento del pensiero religioso fu ilmedioevo indiano (intorno al VII sec.) con la speculazionefilosofica di Shankara e la diffusione di nuove correnti cheproponevano metodiche di avvicinamento al divino senzal'intermediazione brahmanica. In quest'epoca si diffuse il tantrismo19 che si declinò sia in formaindù che in forma buddista (soprattutto in Tibet).Caratterizzato da un forte esoterismo, il tantrismo prevedeval'utilizzo di riti magici e di incantesimi che, attraverso il controllodel corpo e dell'universo fisico, permettono di ottenere laliberazione dalla realtà materiale e l' interruzione del ciclo dimorte e rinascita. Data la forte componente esoterica era unapratica riservata ai soli iniziati, di non importa che casta o genere,a cui veniva anche prescritta l'infrazione delle regole moralidell'epoca.

Una caratteristica fortemente innovatrice del tantrismo, forsederivata da preesistenti culti autoctoni, era l'enfasi data alla formafemminile della divinità, che ebbe come conseguenza l'emergeredella Devi (la Dea) e la comparsa accanto alle divinità maschiledi dee dotate di grandi poteri (sia in ambito indù20 che buddista21). Anche il tantrismo si proponeva come via per il conseguimentodella liberazione attraverso il superamento della dualità per ilraggiungimento dell'Unione, ma questa non era necessariamentesolo metaforica.

3.1.6 Solo amore e devozione: la bhakti

Nel medioevo indiano nacque e si diffuse un'altra corrente indù:la bhakti, dottrina della liberazione attraverso la fede, in esplicitaopposizione alla dottrina vedica della liberazione attraverso leopere o la conoscenza. Libera dalle raffinate speculazionifilosofiche di Shankara e non interessata all'esoterismo deiTantra, presentava un solo scopo: amare, amare profondamente ilDivino, perdendosi in questo amore, smarrendo il proprio io pergiungere all'Assoluto.

Il termine bhakti significa "devozione", "venerazione" e a suavolta deriva da bhaj che, in contesto religioso, vale peradorazione amorosa o devozione, ma ha anche il valore di"condividere, prendere parte, godere". Implica quindi devozioneverso una singola divinità ma anche magica associazione frasacrificante e divinità, reciproca partecipazione..Dando l'accento alla mistica unione col divino in un rapportopersonale d'amore il movimento bhakti rende inutilel'intermediazione rituale del bramino22 e introduce l'uso dell'iconacome livello di congiunzione tra fedele e il suo dio 23.

Sotto il termine induismo convivono quindi una pluralità disentimenti religiosi, articolati e complessi, che hanno conosciutoinfinite variazioni e rielaborazioni nel corso dei millenni. In particolare le teorie del vedanta e del tantra, nonché letradizioni popolari della bhakti, seppero dare vita a fedi inun'Unica Realtà Assoluta le quali si intrecciarono col lato piùmistico dell'islam, il sufismo, accomunate dalla ricercadell'unione con l'Assoluto rimanendo nell'esistenza.

3. 2 Cenni sull'islam (soprattutto sul sufismo)

3.2.1 L'islam

Col termine islam si definisce sia la religione islamica sia lacomunità dei fedeli che la professano.La parola deriva dalla radice slm che significa "essere incolume","essere sicuro" e più specificatamente "affidare", "rimetterequalcosa al giudizio di qualcuno" ed esprime una "concreta eattiva sottomissione alla volontà di Dio".24

Il termine muslim, che solo in un secondo tempo designò gliappartenenti all' islam, significa essenzialmente "monoteista" epone così l'accento sull'aspetto fondamentale di questa dottrina

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religiosa.Il punto centrale della dottrina islamica è espresso nelladichiarazione di fede islamica (la shahada, "testimonianza") cherecita: "non c'è altro dio all'infuori di Dio e Muhammad è il suoprofeta". L'islam è quindi una religione fortemente monoteisticaannunciata sulla terra da un profeta, Muhammad, che si ponevacome ultimo in una tradizione cominciata con Adamo econtinuata coi profeti della tradizione ebraica.Muhammad ibn Abdullah (570 - 632 d. C.) 25 all'età di quarant'anniricevette la prima rivelazione divina per bocca di Gabriele. Larivelazione continuò negli anni successivi.Le parole di Dio recitate da Muhammad ai fedeli, espresse inversetti articolati in sura, vennero da questi raccolte e trascrittedopo la morte del profeta, dando origine al Sacro Corano26. IlCorano raccoglie quindi la parola stessa di Dio, da Lui trasmessaattraverso l'angelo Gabriele27 al Profeta affinché questi la rendessenota agli uomini. Il messaggio è rivolto ad ogni essere umanoperché ogni essere umano è uguale agli occhi di Dio.Questa eguaglianza viene ribadita dal Profeta nel suo testamentospirituale, il Discorso d'Addio dove afferma: "tutti voi discendeteda Adamo, e Adamo era fatto d'argilla. Non c'è superiorità di unarabo su un non arabo, né di un non arabo su di un arabo, né vi èquella di un bianco su di un negro, né quella di un negro su di unbianco, se non la superiorità guadagnata attraverso laconsapevolezza di Dio. In verità, il più nobile fra di voi è coluiche è più profondamente consapevole di Dio." 28 Ma vengonostabilite anche delle disuguaglianze: tra musulmano e dhimmi; traricchi e poveri, tra padrone e schiavo e tra maschio e femmina. Fondamentale è il rispetto delle virtù raccomandate: moderazione,equilibrio, timore di Dio, rispetto per la conoscenza, clemenza,protezione dei deboli, decoro personale, e l'adempimento deipropri doveri verso Dio, verso la comunità e verso la società ingenere.Centrale è il concetto di dovere. Ad esempio, la preghiera è intesacome adempimento di una precisa volontà divina, rispetto delcontratto che l'uomo ha con Dio e non come momento diavvicinamento del credente alla divinità.

3.2.2 La tradizione sufi

Ci interessa in particolare la tradizione sufi poichè ebbe un ruolodi primo piano nell'islamizzazione dell'India e,contemporaneamente, dall'altro venne da questa influenzata.Secondo alcuni il termine sufi è derivato dall'arabo safa,"purezza"; secondo altri da suf, lana poiché nei primi tempi gliasceti indossavano vesti di lana come simbolo della volontariapovertà. Ma c'è anche chi sostiene che questo termine è tropposublime per essere derivato da alcunché: esso ha valore per la suapregnanza acustica, è una sillaba sacra. Questo vocabolo iniziò ad essere usato intorno al 815 d. C., maciò a cui si riferisce, l'esoterismo islamico, era già presente allamorte del Profeta.Il sufi ritiene che Muhammad ricevette due rivelazioni: una,contenuta nel Corano, è accessibile a tutti; l'altra, invece, venne

conservata nel cuore del Profeta e trasmessa solo ad alcunepersone scelte. La prima conoscenza è presente nell'insegnamentodottrinale degli ulama mentre la seconda, strettamente esoterica,è il mistico percorso sufi che rappresenta quindi la dimensioneinteriore ed esoterica dell'IslamIl sufismo si sviluppò attraverso diverse fasi. I primi sufi erano musulmani ortodossi nel loro credo e nelle loropratiche: non avevano ancora iniziato le speculazioni metafisichee teologiche ed erano caratterizzati solamente dall'intenso timoredi Dio e del suo giudizio e dalla rinunzia ai piaceri del mondo.Rinuncia e povertà erano però viste non come meritorie in sé, macome espressione della devozione verso Dio. Importante erainfatti non tanto l'assenza di beni, e quindi la mortificazione (chenon è mai richiesta dall'islam), quanto il completo superamentodel loro desiderio perché l'unico vero appagamento viene dalladevozione a Dio.In un secondo periodo i sufi, pur non abbandonando il loro idealeascetico, centrarono sempre di più la propria attenzione sullagnosi. In questo cambiamento giocarono un ruolo gli influssi delneo-platonismo, gli insegnamenti parsi, indiani e buddisti edanche il misticismo speculativo cristiano. Il criterio discriminanteè stato quello di accogliere nella propria tradizione quegli aspettiche fossero di supporto al concetto fondamentale dell'unicitàdell'esserci. E' caratteristica del sufismo la costante tendenza ditentare la riconciliazione dell'islam ufficiale con pratiche etendenze di origine non musulmana, come ben vedremo nellevicende indiane di epoca moghul.L'approccio al divino dei maestri sufi era basato sull'esperienzadiretta di Dio da parte del singolo, in un rapporto estatico cheveniva descritto come un totale rapporto d'amore del fedele neiconfronti dell'Assoluto. La realizzazione di questo rapporto eraperseguita anche attraverso l'utilizzo di tecniche particolari, fracui il controllo del respiro e l'invocazione dei nomi di Dio, basatasull'utilizzo di parole o sillabe che venivano affidate dai maestri aidiscepoli.

3.2.3 Confraternite sufi in India

Come abbiamo visto, l'Islam era già presente in India all'inizio delVIII sec., ma si diffuse in particolare nel periodo XII - XIII sec,proprio con la predicazione dei maestri sufi che non solo si erainserita nel sentimento religioso popolare della bhakti, ma godevaanche di una particolare predilezione da parte dei regnantimusulmani. Questi infatti si trovavano a dover dare coesioneculturale e ideologica ad un vasto territorio con una culturaoriginaria profondamente diversa. Tentarono quindi di attenuarele rivalità fra le fazioni, consolidare l'unione tra i musulmani eintegrare gli indù al potere. Per fare ciò l'ideale era appoggiarsialle confraternite sufi perché erano ben integrate nella mentalitàdell'epoca e avevano una concezione gerarchica del potere.Nel subcontinente indiano furono così presenti numeroseconfraternite sufi e vennero fondate anche diverse loro sedi,chiamate khanqa, comprendenti oltre alle sale per le riunioni e perl'audizione mistica, anche cucina29, celle per il ritiro dei residenti

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e alloggi per gli ospiti, nonché, a volte, la tomba del maestro.Costruite spesso ai margini delle città, le khanqa fungevano dacentri di accoglienza per pellegrini di tutte le religioni.

L'ordine che ebbe sempre maggior importanza in India fu laCishtiya, fondata da un maestro sufi proveniente da Samarcanda:Mu'in - ud - Din Chisti (1141 - 1236) che, dopo molti anni distudio e peregrinazioni, si era stabilito in India, ad Agmir, dove siera sposato ed aveva fondato la sua khanqa. L'ordine, attivoancora oggi, è improntato ad ampia tolleranza, non violenza ecarità.

Particolarmente attivi in ambito politico furono la Suhrawardiya ela Naqshbandiya. La Suhrawardiyya, fondata da 'Abu al-Qahin AbuNagib al-Suhrawardi (morto nel 1168) e diffusa in India ad opera delnipote, ammetteva più degli altri ordini il coinvolgimento delfedele nella vita sociale e politica.Alla Naqshbandiya.faceva riferimento uno dei più noti pensatorisufi indiani: Shah Wali Ullah, esponente della corrente opposta aquella che andiamo ad analizzare. Scopo di Shah Wali Ullah eraepurare il misticismo islamico di tutte le influenze esterne etrassformarlo in una concezione teo-politica per la supremaziadell'islam e il potere sunnita.Diffuse particolarmente fra i ceti alti legandosi alle elite locali erala Sattariya, fondata da 'Abd Allah Sattari (morto nel 1485),giunto in India dall'Iran.Fra gli ordini che, invece, rifiutavano la vita mondana ed erravanoper il paese ricordiamo la Malamatiyya e la Qalandariyya.I Malamati, "quelli del biasimo" facevano voto di povertà nonaccettando neppure l'elemosina ed erano contro le manifestazioniesteriori della fede (in un certo senso anche contro i sufi secondoil concetto per cui è vanagloria palesare anche la santità).La Qalandariyya deriva il nome da qalandar: "vagabondo che siattira il biasimo con una condotta scandalosa e libertina". Sonoconsiderati una discendenza dalla Malamatiya, oggi sonoriassorbiti dalla Cishtiyya e spesso ricordati nei testi di musicaqawwali.

3.3 Cenni, discorsi e conversioni fra sufi e indù

Gli insegnamenti sufi ben si armonizzavano con la dottrina indùdella bhakti poiché identificano in Dio l'oggetto dell'amoredell'asceta. Inoltre, questa non è la sola analogia riscontrabile frale due dottrine e le figure ad esse collegate.La concezione sufi di Dio è simile a quella indù di brahaman.30. La relazione fra il murid (discepolo) col suo pir (precettorespirituale) presenta strette similitudini con la devozione deldiscepolo verso il proprio guru: così come nessuno può diventaresufi senza l'aiuto di un pir, allo stesso modo fra gli indù chidesidera intraprendere un cammino spirituale deve in primaistanza cercare il proprio guru. Il sufi e il rinunciante indù, lo yogi distaccato dal mondo dotato dipoteri magici, hanno lo stesso ruolo: ambedue hanno accesso al

divino con tecniche mistiche e, possedendo poteri sovrannaturali,aiutano fedeli e anche sovrani nei problemi del mondo.A livello di credenza popolare c'è corrispondenza fra le devozioniche si effettuano sulle tombe dei santi ed i culti indù31.

" Spesso le analogia fra le concezioni, le tecniche e il modo di vitadei sufi rispetto a quelle dei locali sant'uomini bhakta erano cosìforti che i maestri sufi furono in grado di portare avanti il loroapostolato in India senza essere percepiti dal popolo comunecome diversi dai maestro bhakta.32"

E così Muin-ud-din Chisti non solo riuscì a convertire il rajalocale, Ram Deo, con la sua predicazione ma la tradizioneracconta anche che, coinvolto in una sfida dialettica col bhakti yogi

shaiva Jaipal33, riuscì a convertire Jaipal stesso, che grandereputazione di santità.Uno dei discepoli di Muin-ud-din Chisti, Farid-ud-din Gan-iShakr34, stabilitosi in un piccolo villaggio del Punjab per condurrein perfetto isolamento la vita da santo eremita, venne dapprimavenerato dagli abitanti indù del villaggio che poi preserol'abitudine di andare da lui per consiglio e successivamente la suafama si estese e attorno a lui si raccolse un cerchia di discepoli chelo appellarono Baba Farid.Baba Nur ad-Din (1377-1438) fu addirittura soprannominatorishi, "veggente"35, ma anche "colui che fa vedere" perché èl'ideale per tramite del quale gli altri uomini possono godere diuno sviluppo spirituale. Ricevette questo epiteto riservato ai piùgrandi sant'uomini indù grazie all'aderenza del suo credo e dellasua regola di vita ai canoni dei sadhu e dei rishi indù. I suoiseguaci diedero vita alla Rishiyyah, confraternita sufi ancora oggipresente in Kashmir, che porta quindi un nome di origine vediche.

Finora abbiamo parlato di sufi, ma bisogna ricordare anche il casoanalogo dei dai, missionari appartenenti alla setta eterodossa eminoritaria degli ismaeliti (o sciiti settimani) che operaronosoprattutto in Gujarat convertendo anche interi gruppi castali. Secondo un'antica tradizione il primo dai, il mulla Muhamad Ali,giunto in India via mare, era divenuto discepolo di un santobhakta locale che aveva grande seguito in zona. Muhammad Aligiunse quindi a convertire all'islàm sia il suo maestro sia molti deisuoi discepoli, nonché alcuni membri della locale corte raj'put.

4. Monoteismi indiani in salsa mistica

Nella terra del politeismo indù vi furono anche sentimentireligiosi monoteisti: il pensiero vedanta, il movimento bhakti e ilmisticismo islamico sufi. Questi si intrecciarono e si confusero tanto che c'erano discepolibhakta con maestri sufi, discepoli sufi con maestri bhakta ediscepoli che non avevano ben chiaro a quale correnteappartenesse il proprio maestro.Nel Nord dell'India l'influsso della predicazione bhakti e di quellasufi, unito all'insofferenza per la rigidità dell'induismo classico ealla sua inderogabile suddivisione gerarchica, originò a partire dal

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XI sec. anche due nuovi percorsi per avvicinarsi al divino: il Nathpanth e il Sat mat, di cui Kabir e Guru Nanak sono consideratiesponenti .

4.1 Nath panth.

Sviluppatosi nel XI-XII sec. e ancora oggi praticato, il Nathpanth, fa risalire i propri insegnamenti al dio Shiva in persona(viene infatti chiamato Adi-nath, "primo maestro") e le proprieorigini al leggendario Gorakhnath, considerato il più grande deinove maestri nath che, secondo la leggenda, raggiunserol'immortalità e si ritirarono sull'Himalaya. Questa credenza,assieme all'utilizzo di pratiche esoteriche volte a conseguire poterimagici, evidenzia il forte influsso del buddismo tantrico a cui siaccompagna il monoteismo di derivazione bhakti. Il nath panth era incentrato sul culto di Shiva e ricercava ildominio del mondo sensoriale per poter giungere attraverso diesso alla liberazione. Rifiutava tutte le regole formalidell'induismo, quali le divisioni catastali, i pellegrinaggi ai luoghisanti, i riti, le visite ai templi, ecc… e si apriva al sufismo tantoda intrecciarsi ad esso sostenendo che Muhammad era statodiscepolo di Gorakhnath, e che alcuni profeti nominati nelCorano non erano altro che maestri nath. La sostanziale analogiadei due insegnamenti fece sì che ci furono non solo prestiti ditermini e di metafore simboliche fra le due fedi, ma ancheconversioni di maestri nath al sufismo e di mistici musulmani alnath panth.

4.2 Sant Mat

Accanto al Nath panth si sviluppa un'altra corrente mistica: il SantMat.Caratterizzata da un forte monoteismo, a differenza dei nath (cheveneravano Shiva) o dei bhakta (che facevano oggetto dellapropria devozione uno dei molteplici avatar di Visnu epraticavano anche il culto degli idoli) prescriveva ai seguaci diriservare il proprio amore devozionale all'Essere assoluto einconoscibile, senza attributi, privo di forma, omnipervadente epresente nell'intimo di ogni uomo, non pensabile in forma umanae identificabile con la Verità (Sat). A volte i fedeli,polemicamente, usavano contemporaneamente il nome di AllahRam e Hari ma consideravano appropriati per identificare il Diotermini come Nam (nome) Shabd (parola) e Ek (uno). Nel Sant Mat la meditazione assume il ruolo centrale: colprogressivo ritirarsi dalle percezioni sensoriali è possibile "morirevivendo", cioè iniziare il cammino mistico verso la Divinità; mal'aiuto di un maestro è indispensabile per il corretto uso di questetecniche. Anche nel Sant Mat c'era il rifiuto della divisione catastale

4.2.1 Kabir

Fra i principali maestri del Sant Mat vi è Kabir36, che ebbe ancheuna grande familiarità con le tecniche yogiche del Nath panth.

Egli apparteneva ad un umile casta di tessitori recentementeconvertitesi all'islam residenti nella zona di Varanasi, la città santadegli indù.La sua personalità emerge di volta in volta come quella di un sufie di bramino, di un paria e di un vaishnavita37, mentre la suaspeculazione filosofica assume gli atteggiamenti più disparati converosimile disinvoltura 38. Egli si considera "il rampollo di Rama e di Allah" implicando cosìche il Brahman, il Non-Essere omipervadente, può avere più di unnome pur restando Uno; così chiama il Divino con una sequelainterminabile di nomi: Allah, Rama, Shunya (Vuoto), la misticasillaba Aum rappresentante la realtà suprema, Jagannath (Vishnu),Kartara (il Creatore), Rahim (il Compassionevole) e con tutti gliappellativi di Krishna39 quali Govinda, Gopinath, Madhava,Murari, ecc… Kabir talvolta personifica il Dio che il Sant Mat vorrebbe senzaattributi, facendone un'Entità a cui ci si può rivolgere come Padreo come Madre o, meglio, come Sposo Amatissimo 40; Dio divienepertanto il Supremo Oggetto d'amore, secondo la pura tradizionesufica. A minare questo amore c'è maya, "illusione", la tentatrice,l'ammaliante cortigiana che torna e torna ancora a sedurre ildevoto, la liana che si avviticchia all'albero e vive della sua linfa,il pesante tendaggio che impedisce di vedere il sole. Lapersonificazione emblematica della maya è direttamentederivante dal Satana sufico, il Demonio che rappresenta le buieforze del male e che ostruisce la via della fede. Ma una voltadebellata maya appare ciò che è in realtà: una semplicemanifestazione limitata dell'Illimitato, come espresso nel vedanta.Visto come tentativo di fusione di tradizioni indù e musulmane, ilpercorso di Kabir fu qualcosa di più: fu la ricerca di superamentodelle religioni esistenti e dei loro testi, incapaci di avvicinare ilfedele a Dio.Kabir combatté tutta la vita contro la strumentalizzazione di ognitipo di religione, impartì i propri insegnamenti a indù emusulmani senza distinzione e non diede mai vita ad una vera epropria setta. Ma dopo la sua morte, raccolti i suoi insegnamentiin forma scritta, crebbe intorno alla sua figura una setta dalleregole rigide ed anche ossessive.

4.2.2 Guru Nanak

Esponente del Sant Mat e fortemente influenzato dallapredicazione di Kabir, Guru Nanak (1469-1539) fu anche ilfondatore della religione sikh. Di casta alta, proveniva da ungruppo sociale privilegiato e ricevette una solida istruzionefrequentando nel suo villaggio sia gli insegnamenti del pandit41

sia, forse, quelli del mulla42 allo scopo di apprendere il persiano.Nanak avrebbe mostrato fin dalla fanciullezza una spiccatainclinazione alla vita meditativa andando continuamente in cercadella compagnia di sadhu indù e di faqir musulmani. Ma la suapredicazione mostra non tanto un tentativo di sintesi delle duetradizioni, quanto un atteggiamento antitetico ad ambedue,ritenute incapaci, coi loro formalismi e superstizioni, di

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avvicinare il fedele a Dio.Fortemente in rottura con le due tradizioni è l'usanza del langar,la cucina pubblica per il pasto serale che vedeva riunita tutta lacomunità, senza differenze né di casta né di genere; infrangendocosì sia le inflessibili proibizioni indù riguardo la consumazione epreparazione del cibo, sia l'isolamento delle donne proprio dellatradizione musulmana. Nanak, come Kabir predicò sia a indù che a musulmani43

insegnando le tecniche della meditazione come via principale perarrivare all'unione col Dio ineffabile già in questa vita ma, adifferenza del mistico di Varanasi, pose le basi per una verareligione istituzionalizzata quando designò il proprio successorealla guida della comunità religiosa. L'insegnamento di GuruNanak si trasformò nelle generazioni successive in una religioneistituzionalizzata, attenta ai segni esteriori di appartenenza, edopo due secoli pure militarizzata.I guru sikh divennero non solo guide spirituali di una comunitàreligiosa, ma anche capi temporali di uno stato e spesso siscontrarono coi regnanti musulmani.Ma nel Guru Granth Sahib, Libro sacro dei sikh e loro autoritàreligiosa sono contenuti oltre agli insegnamenti di Guru Nanak,raccolti in forma scritta dai suoi discepoli, degli altri Guru e branidi mistici indù nonché di Kabir, anche versi di un misticomusulmano, Sheikh Farid.Nel sacro testo sikh viene affermata l'unicità di Dio 44, che è anam ,"senza nome", perché sono infiniti i nomi con cui gli uomini sisono rivolti a lui; nomi che lo stesso Nanak talvolta usa benchépreferisca chiamarlo Nam, "nome", o anche Sat-nam, "veronome". Obbiettivo del fedele è immergersi totalmente nella naturadi Dio, sconfiggendo l'ignoranza con l'aiuto del Guru 45. Occorreliberarsi dall'egoismo. Nel percorso sikh non è contemplata larinuncia al mondo e alle sue leggi, non viene indicato di cercarenella solitudine la via maestra per la salvezza, come invece erapratica degli asceti indù e talvolta sufi. Infatti il compito delcredente sikh è quello di imparare a rimanere puro pur vivendo frale impurità del mondo.

5. Moghul masala

L'impero Moghul fu caratterizzato, come già il Sultanato di Delhi,da un'attiva partecipazione degli intellettuali indù alla corteislamica, non solo per quanto riguarda la complessaamministrazione dell'impero ma anche nel campo intellettuale eartistico. Questa pluralità di tradizioni di pensiero ed espressione, a cui siaggiunsero anche influssi europei, creò un particolare "masala",miscela46 in cui erano presenti sia la tradizione sufi (si trattava diun impero islamico) declinata nelle sue più diverse forme, siaquella autoctona indiana, in particolare nelle sue espressionimonoteiste del vedanta e delle pratiche mistico-esoteriche delloyoga, soprattutto di origine nath e tantra. L'unione delle varie tradizioni è evidente nelle espressionifigurative, dove i canoni delle ritrattistica indù si fondono con ladecorazione islamica, e nelle espressioni poetiche di cui

ricordiamo il Padmavat di Malik Muhammad Jayasi doveracconti locali di resistenza all'espansione musulmana divengonoanche una rappresentazione del percorso mistico sufi nonché yogi.Da questo clima di commistione e di ricerca sincretica non ne èesente la famiglia imperiale: il più grande imperatore Moghul sipropone come maestro sufi della "pace universale" e, più tardi, ilgiovane principe Dara Shikoh ritiene che le differenze fra Coranoe Vedanta siano solo a livello linguistico.

5.1 Akbar. Il tentativo di una religione universale per un grandeimpero.

All'interno di un discorso sul sincretismo religioso, meritaun'attenzione particolare il secondo imperatore moghul, Akbar47,che con le sue brillanti campagne militari e con lo splendore dellasua corte fu il vero creatore della potenza moghul.Fin dall'inizio accolse nel suo seguito sia indù che musulmani,infatti la sua prima azione politica fu il matrimonio, nel 1561, conuna principessa raj'put, figlia del raja Bihara Mahal di Amber(Jaipur) il quale chiedeva protezione offrendo in moglie la propriafiglia (presso i raj'put questo comportava un rapporto d'alleanzain cui il padre della sposa aveva una posizione subordinata neiconfronti del proprio genero). I familiari della sposa vennero adassumere degli importanti ruoli a corte.Fu consuetudine di Akbar accettare la sottomissione dei variprincipi e capi militari indiani ammettendoli a fare parte dellanobiltà moghul. Questa non era una novità: sempre negli imperimusulmani in India erano presenti a corte anche indù e parsi, mala loro accettazione non era mai stata così sistematica e frequente.Consapevole che il potere, per essere durevole ed effettivo, devesposarsi al consenso Akbar cercò in un primo tempo di darsi unalegittimazione ideologica indossando il manto del ghazi, delcombattente per la fede. Di conseguenza l'assedio e presa dellagrande fortezza raj'put di Chittor (1568) venne presentata comevittoria dell'islam contro gli "infedeli" e furono prese misurerestrittive contro gli indù. Ma tale presa di posizione non eraaffine alla personalità di Akbar e non durò a lungo. Infattiriportano le cronache dell'epoca che Akbar "fin dalla più teneraetà conobbe i riti religiosi più disparati e con grande talento siimpossessò del sapere a lui indispensabile, collezionando anchelibri che si faceva leggere ad alta voce48. Lentamente crebbe in luila convinzione che in tutte le religioni ci fossero uomini daisentimenti profondi e pensatori eccellenti e in tutti i popolipersone con grande capacità. Se si poteva trovare la verità in ognidove, perché farla diventare patrimonio esclusivo di un'unicareligione, addirittura di una fede giovane com'è l'Islam, conappena mille anni di vita?"49. L'imperatore, dotato di una culturastraordinaria, di vivacità e curiosità intellettuali estreme ecircondato da un gruppo di amici e consiglieri sia indù chemusulmani, tutti di vedute eccezionalmente aperte, avevaincominciato ad interrogarsi sulla validità delle varie religioni.Nel 1575 fu fatta costruire nella nuova capitale, Fatehpur Sikri, lacosiddetta "casa delle preghiere" che divenne sede di dibattiti,presieduti dallo stesso imperatore, che coinvolgevano esperti

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rappresentanti dell'islam e delle altre religioni (indù, jaina,seguaci di Zoroastro, alcuni dotti padri gesuitie, pare, addiritturadegli ebrei). Vennero anche fatte tradurre le principali operereligiose indù: il Mahabharata, il Ramayana, la Bhagavad Gita50,l'Atharva Veda e anche altri testi come il Pancatantra 51.Il sincretismo religioso dell'imperatore Akbar era tale che un suocontemporaneo disse di lui: "Per i musulmani era un indù, per gliindù un cristiano e solo per i cristiani un musulmano"52. Nel 1579 fu emessa la Dichiarazione (mahzar, poi definita daglistorici "Decreto dell'infallibilità") che dava l'ultima parolaall'imperatore nelle dispute teologiche proclamando la capacità diAkbar sia di arbitrare in caso di controversie interpretative tradottori della legge islamici, sia di dare nuove interpretazioni e,pertanto di promulgare leggi su base religiosa. Nello stesso anno Akbar enunciò la dottrina del sulh-i-kull (la"pace generale") una dottrina di "universale tolleranza odiata daimusulmani ortodossi" 53 che aveva come cardine il principio dellatolleranza verso tutti. Coerentemente vennero abolite le impostediscriminanti quali la jizya, tassa procapite pagata dai dhimmi e letasse imposte agli indù in pellegrinaggio. Venne abolito anche ilregolamento che prescriveva una distinzione tra il modo divestirsi degli indù e dei musulmani. Tra loro non ci fu più nessunadifferenza ufficiale54. La posizione di Akbar non era più limitata dai principi della leggeislamica, bensì solo dalle esigenze del buon governo che, nellasua opinione, si fondavano sulla tolleranza verso tutte leconfessioni religiose e sul perseguimento della gioia e dellaconcordia.L'imperatore a partire dal 1582 cominciò a dare espressione allapropria religiosità praticando apertamente rituali di suainvenzione e proponendo un insieme di credenze i cui puntichiave erano il monoteismo e il ruolo sulla terra di un maestrosupremo (ruolo ricoperto da Akbar). Questo viene visto da alcunistorici come abbandono dell'islam e tentativo di creare unapropria religione (la "religione di Dio", dîn-i-ilâhi). Ma è piùprobabile che Akbar si considerasse un sufi, ovvero un maestromistico che, pur rimanendo nell'ambito dell'islam, presentavamolte analogie con la pratica devozionale della bhakti. Forse la sua identificazione con la figura di maestro sufi era ilpasso culminante del tentativo di dare una legittimità anchereligiosa al proprio potere55. Alcuni cortigiani seguirono percompiacenza il sulh-i-kull ma sostanzialmente nello stato rimasevalidissimo il principio della libertà di religione. Questatolleranza rimase una delle caratteristiche dello stato moghul,tranne che durante il regno del quinto sovrano, Aurangzeb.

5.2 Malik Muhammad Jayasi. Il racconto del re innamorato,che è guerriero, è yogi, è sufi.

In questa epoca di tentativi di riconciliazione dell'islam ufficialecon pratiche e tendenze delle tradizioni popolari di prevalenzaindù un ruolo privilegiato spetta alla composizione della poesiaspirituale.Un esempio è il poema Padmavat composto verso la metà del

XVI sec. e considerato uno dei capolavori delle letteratureindiane di ogni tempo.L'autore è Malik Muhammad Jayasi56, seguace della Cisthiya eispirato dai racconti popolari sulla caduta di Cittor, rielabora le"canzoni di eroi" del Rajasthan fino a comporre un poema che èal medesimo tempo un avvincente racconto di amore e di guerrae un'appassionata esposizione dei principi della dottrina sufinonché del pensiero yogi. Nel Padmavat la narrazione delle gesta del re di Cittor si fadescrizione degli stadi della pratica spirituale sufi, dall'abbandonodel mondo all'unione con Dio, fino al ritorno al mondo e allacomprensione della natura illuminante della propria vitaquotidiana.Il primo capitolo si apre con una lauda al Divino, al Profeta, e agliimperatori: "In principio rammento quell'unico creatore, che diede la vita eche creò il mondo. Creò lo splendore della prima luce e, peramore di quella, il paradiso; creò il fuoco, l'aria, l'acqua e la terrae li dipinse di molteplici colori. Creò questo mondo, i cieli e gliinferi e generò svariate incarnazioni; creò l'uovo cosmico (…)57" .Ci si muove quindi in un contesto rigidamente monoteista,evidentemente islamico: la "prima luce" è il profeta Muhammad;ma contemporaneamente "l'uovo cosmico" fa riferimento ad unodei più antichi miti cosmogonici indiani.Il poema narra del re Ratan'sen, sovrano di Cittor, che dopo averudito un pappagallo - brahmano magnificare la bellezza diPadmavati, principessa di Simhal, decide di partire perconquistarne il cuore. Abbandona così il suo regno e i suoi beni,nonché la sua sposa Nag'mati, per farsi asceta e mettersi incammino. È il tema, del tutto convenzionale nella poesia sufi,dell'abbandono del mondo e morte dell'io.Tutti mettono in guardia il giovane sovrano contro i pericoli diquella ricerca d'amore. Lo stesso pappagallo, che è "esperto deiquattro veda" afferma "Amare è un'impresa difficile (….). Perconoscere il loto, bisogna essere come quell'ape che, purdepredata lungo il sentiero, e pur rinunciando alla propria vita,non se ne allontana mai (…) Solo chi abbandona il mondo puòpercorrere quel sentiero: lo yogi, l'anacoreta, l'asceta, l'eremita."58

Il re compie questa scelta: indossa il saio da asceta e si mette inmarcia perché "per chi è pazzo d'amore non esiste né sole néombra"59, perché "fin quando non si giunge a perdere sé stessi nonsi ottiene nulla"60. È un "sentiero su cui spuntano germogliacuminati, sui quali verrà impalato un ladro o un nuovo Mansur"61

il mistico martire dell'islam che venne messo a morte per avereaffermato la propria "identificazione amorosa" con Dio. È anchela via mostrata dalla tradizione spirituale indiana che, sin dalleUpanishad, considera il distacco dal mondo come requisitonecessario per il raggiungimento della salvezza e dellaliberazione. Sopprimere il proprio sé, morire a sé stessi. Sopprimere l'"io"62.Rinunciare a tutto. Quando Ratan'sen, incapace di accostare l'amata, decide diimmolarsi sul rogo gli appare Shiva, dio degli asceti, che gli rivela

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il segreto della pratica spirituale "soggiogare il respiro e diventarepadrone della tua mente e se devi morire, allora uccidi il tuo "io!" La resa di sé è completa. Come un sufi nella suo percorso verso il Divino, come uno yoginella sua ricerca dell'Assoluto, così è Ratan'sen nel suo camminoverso la bella Padmavati" 63. Il tema dell'annullamento di sé nell'amore per il Divino uniscetradizioni mistiche musulmane e tradizioni religiose piùpropriamente indiane.La figura di Ratan'sen, il re che annulla il proprio io sul camminodell'amore, fonde insieme temi, personaggi e ammaestramentispirituali.Ratan'sen è allo stesso tempo il sufi - asceta figura che prevalsenei primi secoli del sufismo nei paesi arabi e nelle regioni diconfine, e il sufi - mistico innamorato di Dio, figura che si affermòsoprattutto in Persia. Mostra anche atteggiamenti propri dellaMalamatiya quando condotto di fronte al re del paese ove vivePadmavati e condannato al patibolo, potrebbe salvarsi rivelandodi essere anch'esso un sovrano, ma invece dice: "perché chiedetela mia casta? Sire, io sono uno yogi mendicante, un'asceta senzacasta, che non si adira per le ingiurie né si vergogna per lepercosse (…) Come potrebbe non ridere, alla vista del patibolouno come me, che vive dimorando nella morte?"64. È la tendenzaa compiere atti disdicevoli per conquistare il disprezzo della genteo, comunque, di celare a tutti le proprie conquiste spirituali. Inoltre la figura del penitente - innamorato sufi viene interamentesovrapposta a quella dell'asceta indiano, in particolare con lo yogidi tradizione gorakh'nati: le corrispondenze con la dottrina deinath sono tante e tali che tutta la prima parte del poema sembrauna illustrazione didascalica. Quando Ratan'sen intraprende ilsentiero d'amore la sua immagine esteriore corrisponde fin neidettagli a un discepolo del Nath path65.D'altronde quasi contemporaneo a Malik Muhammad Jayasi èShaikh 'Abdu'l-Qudddus 'Gangohi (m. 1573), i cui insegnamentitendono a identificare completamente le nozioni sufi basatesull'idea dell'"unità dell'essere" con le dottrine formulate daGorakhnath fino all'asserita corrispondenza dello stato di "vuoto"(shunya) con quello di "permanenza in Dio" (baqâ') tanto caroalla mistica sufi.Anche il pensiero tantrico è presente nel poema: la donna amataviene assimilata al guru , al maestro66. C'è anche l'eco della Bhagavad Gita dove Krishna insegnava adArjuna che la via non sta nell'astenersi dall'azione, ma nell'esseretotalmente presenti in essa senza attaccarsi ai suoi risultati e all'ioche la compie. Così Shiva esorta Ratan'sen a non rinunciareall'azione, ma ad immergersi totalmente in essa.Il sufismo sottolineava come le stesse conquiste spiritualiandavano intese come strumento per partecipare in manierafinalmente libera e illuminata a quelle medesime "cose delmondo" dalle quali, in partenza si era generato un disgusto per lavita quotidiana.Il fine del percorso non è l'abbandono del mondo: è la capacità diandare oltre alle sue illusioni, pur rimanendovi all'interno. Cosìcome la liberazione è chiusa nell'amore, così la verità è contenuta

nelle cose di ogni giorno.Nel Padmavat prima è raccontato il distacco dal mondo, dal suoinganno, consumando il proprio io nel fuoco dell'amore; poi ilritorno nel mondo: Ratan'sen, unitosi a Padmavati, rimane nelmondo, cogliendone la vera natura. Nel poema viene celebrata la vita intera intesa come vera epropria realizzazione della emancipazione spirituale. Essere nelmondo, non essere del mondo. Come aveva raccomandato Shiva a Ratan'sen: "uccidi il tuo io!Fuori, continua a parlare delle cose del mondo, ma in segretodedicati a Quello che la tua anima ama"67.Superato l'io; affrancatosi dai vincoli individuali di attaccamentoe avversione; Ratan'sen ritorna a Cittor. Ha percorso il camminod'amore e raggiunta la completezza, simboleggiata dall'unione disé con l'amata.Nel palazzo lo aspetta l'altra sua sposa, Nag'mati. Così ora vi sonodue regine: Nag'mati la scura e Padmavati la chiara, come laGanga e la Yamuna68, come le correnti energetiche del corpoumano che finalmente fluiscono libere e s'incontrano nell'istantedella Consapevolezza. Ritornato a Cittor il re, come Arjuna, deve andare in battaglia. In quest'ultima parte del poema vengono conservati gli elementidella leggenda popolare con l'esaltazione del guerriero raj'put,della sua etica e del suo coraggio.Se Ratan'sen aveva già enunciato il motto "per la mia propria vita,non ho brama" ora le stesse parole riecheggiano sulle labbra ditutti i guerrieri impegnati nella battaglia di Cittor. Difensori eassalitori vanno incontro alla morte senza timore: si sono giàaffrancati da essa, sono dei "liberati in vita" ( jivan - mukta). Sonocome l'asceta innamorato: capaci del totale sacrificio di sé, liberatidai vincoli della vita umana. Pur combattendosi ferocemente,sono affratellati dal comune sacrificio di sé. La cruenta battagliaviene descritta con immagini che rimandano alla festa di Holi,ovvero la gioiosa festa indù della primavera.Ed è così che "tutte le donne si uccisero nel fuoco e tutti gliuomini uscirono in battaglia; l'imperatore distrusse la fortezza, eCittor divenne musulmana"69.

5.3 Dara Shikoh. Islam e vedanta come un'unica verità nellaprospettiva d'un principe moghul.

Dara Shikoh, nato nel 1615, figlio prediletto del quintoimperatore moghul, come il suo antenato Akbar manifestò grandevivacità intellettuale e vivo interesse per le religioni comparatema, a differenza di questi, tale attenzione non era motivata daalcun calcolo politico, anzi. Dara dedicò tutto il suo tempo allostudio e alle traduzione dei testi sacri, così che giunse totalmenteimpreparato alla lotta per la successione al trono. In quanto figlioprimogenito era designato a ereditare il potere del padre, ShahJahan, ma nella lotta per il regno si dimostrò di scarso talentostrategico e politico: era "ingenuo come un lattante" comeaffermò fratello Aurangzeb che lo sconfisse, lo fece condannare"per ripetute offese alla religione" e quindi decapitare nel 1659 70. Dara ricevette una classica educazione da principe moghul con lo

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studio del Corano ma da subito ne rifiutò i commentari ortodossie cercò la compagnia dei saggi sia musulmani che indù; venneiniziato all'ordine sufi dei Qadiri e ne seguì l'insegnamentoesoterico che comportava la ritenzione del respiro e l'invocazionedel Nome supremo; si interessò alla filosofia comparata e studiòla Torah, i Vangeli, i Salmi e i testi del sufismo, sempre attento acoglierne la dottrina dell'unità. Il suo scopo era studiare tutti i testisacri al fine di conoscere la verità attraverso la parola divina,poiché egli riteneva che solo questa fosse l'interprete del propriomistero e si presentasse talvolta velata e talvolta in modoaccessibile a tutti. E fu nei testi sacri dell'India, nella filosofia del vedanta, che Daratrovò esposta chiaramente la dottrina dell'unità di cui il suo cuoreaveva sete71. Tradusse in persiano cinquanta Upanishad72 e forse anche laBhagavat Gita e compose diverse opere, tutte a caratterereligioso, fra cui la più rappresentativa del suo pensiero è laMajma 'al-Bahrayn, ovvero La confluenza dei due oceani, studiocomparativo sulle nozioni filosofiche indiane e islamiche. Il testopresenta una esposizione dei termini tecnici delle due religionitrovando fra essi precise corrispondenze e identità. Dara infattisosteneva che fra l'induismo e l'islam, sul piano trascendente dellagnosi, non ci fossero che delle "divergenze verbali". Egli aveva laprofonda convinzione che la realtà è una, ma appare sotto formemultiple rivestite da particolarità inerenti alle singole religioni.Ma molte conclusioni sono semplicistiche perché vengono vistesolo le concordanze e manca invece lo spirito critico per coglieredifferenze e incompatibilità. Inoltre le affermazioni fatte nonvengono sufficientemente giustificate. Pare quindi esserci nontanto una ricerca metodica, un'analisi comparata delle duereligioni, quanto un percorso intimo di visioni intuitive basate suuna credenza a priori: la dottrina dell'unità universale. Questostudio appare pertanto come uno sforzo per confermare la suavisione di due religioni identiche fino ai loro minimi dettagliconcettuali.Così la resurrezione islamica è analoga al pralaya73 perchéambedue denotano la fine di una condizione; poco importa che laprima segni il divenire post-mortem dell'anima nel suo passaggionegli intermondi e che l'altra si rapporti alla creazione edissoluzione dei mondi secondo la dottrina dei cicli cosmici.L'arcangelo Gabriele, angelo della rivelazione, non è altro cheBrahma74, divinità della creazione e poco importa che uno sia unangelo e l'altro una divinità perché ambedue denotano sul pianocosmogonico l'Intelligenza cosmica.Dara non trova alcuna differenza tra le dottrine indù e quelleislamiche poiché le realtà spirituali sono universali; masoprattutto, perché non voleva trovare differenze: su di esse sibasa l'ostilità fra ulama, bramani e pandit. Dara voleva appianarele discordanze, voleva estirparle per promuovere il sistemaarmonioso dell'unità universale scorto nel vedanta .Il sogno grandioso di Akbar di realizzare una religione universaledove indù e musulmani si potessero riunire liberati da tutti ipregiudizi confessionali e quello, più elevato, di Dara Shikoh chesi sforzò di comprovare la stretta identità della gnosi speculativa

dell'Islam e del monismo Advaita, non raggiunsero lo scopo diintegrare pensiero indiano e cultura islamica. Però essicaratterizzano comunque "un'epoca privilegiata i cui valori sonolontani dall'essere conosciuti" 75. Ma Dara venne condannato a morte, nel dolore della folla, el'incoronazione ufficiale di Aurangzeb fu l'ultimo barlume displendore della corte moghul.

6. Conclusioni. Oggi.

L'India, il subcontinente indiano di cui si è parlato nel 1947, conl'indipendenza dagli Inglesi, venne suddiviso in due: uno Statomusulmano76 e uno Stato che taluni vogliono laico e altri indùRisulta un po' difficile portare avanti questo discorso disincretismi e convivenze, quando ambedue si sono dotati diarmamenti atomici destinati al vicino. In più dai dotti islamici vengono criticamente messi indiscussione la dottrina dei santi e quegli aspetti che permettevanoun dialogo con l'induismo sostenendo che "se vogliamo farrivivere l'islam (…) occorre che i musulmani si astengano daquesto abuso, come il diabetico deve rinunciare allo zucchero" 77. Ma i dolci indiani sono dolcissimi e la commistione continua.Così ancora oggi in due dei principali santuari sufi di Delhipossono essere osservati atti d'origine indù, se non indù che vigiungono a pregare l'intercessione dei santi.Il santuario naqshbandi fondato a Delhi contenete la tomba diMirza Mazhar Jan-i Janan78 è aperto agli asceti indù che vengonoper pregare (a anche agli occidentali tanto che è noto come il"dargah79 degli italiani"). Numerosi indù vanno a pregare anche nel complesso sacro chishtichiamato Nizamuddin dove ogni anno si onorano quattro grandifeste: tre seguono il calendario lunare musulmano e la quarta è lafesta di primavera, improntata all'induismo e fissata secondo ilcalendario luni-solare indù. E la circodeambulazione della tombadi Nizamu'd-Din Awliyya, ragione d'essere del complesso, vienefatta in senso orario com'è costume indù e non in senso inversocom'è uso nell'islam. Si diffondono nuovi movimenti sincretici quali la Warithiya, natadurante il periodo coloniale. Il suo fondatore, Warith Ali Shah(1818-1905), aveva viaggiato in Medio Oriente e in Europa,indossava l'ihram, il vestito del pellegrino alla Mecca, sicomparava a Gesù e a Krishna. Il movimento, che non ha alcunrituale prefissato e semplicemente prescrive l'Amore, conta circa400.000 discepoli fra musulmani (sciiti come sunniti), cristiani,ebrei, parsi e indù di tutte le caste.

A questo punto non so più a quale gruppo religioso i Sind festantivisti a Kolkata possano appartenere. Ma non importa. Mi hannodato l'opportunità di riflettere su alcune pagine della storia indianache sono ben più ricche di quanto la teoria dello "scontro diculture" aveva scritto. Mi hanno fatto vedere un altro aspetto diquesto paese, come se mi avessero mostrato un altro mondo. "Unaltro mondo possibile", come discutevano i delegati indù epakistani al social forum di Mumbai?80

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NOTE

1 Ringrazio Stefano Caldirola per la sua testimonianza del Durga Puja di Jabalpur.2 Ricordiamo che sempre in Kerala esiste anche la più antica comunità cristiana dell'India, la cui evangelizzazione viene attribuita aSan Tommaso.3 I raj'put, gruppo a cui appartenevano pressoché tutte le dinastie regnanti del Nord India dalla fine del VIII sec., non erano grupporazziale ben definito. Le loro origini derivano da un agglomerato di clan e di bande guerriere con in comune una sola caratteristica:essere coloro che nell'India del nord si dedicavano alla professione delle armi. Successivamente questi vari gruppi cominciarono alegarsi fra loro con rapporti matrimoniali, crearono una nuova classi nobiliare regolata da una rigida etica guerriera e i brahmanicostruirono per loro delle nuove grandiose genealogie.4 Si tratta di: Alptigin, che nella seconda metà del X secolo fece di Ghazni la sua capitale, e dei suoi successori: Sabuktigin prima eMahmud poi. 5 Ma già in Persia erano considerati dhimmi anche i seguaci di Zoroastro.6 Dea indù dell'abbondanza.7 Cavalcatura della divinità indù Shiva e anche sua rappresentazione zoomorfa.8 Cit. in: Torri Michelguglielmo, Storia dell'India, Laterza, Bari, 2000, p. 214.9 Vedi: Torri Michelguglielmo, Storia dell'India, Laterza, Bari, 2000, p. 218.10 Dara Sikoh, di cui parleremo più avanti.11 Inoltre il termine indù venne usato per la prima volta dagli invasori arabi nel VII sec. per definire la popolazioni autoctone delsubcontinente.12 Il buddismo, una delle nuove dottrine "eterodosse", fu fondato da Siddartha o Gautama, detto il Buddha (l'"Illuminato"), vissuto trala metà del VI sec. e la metà del V sec. a.C.La predicazione del Buddha si basava sulla constatazione che la vita è dolore, e che il dolore è l'inevitabile conseguenza del desiderio.Al dolore si può porre termine attraverso l'eliminazione del desiderio; il desiderio si può eliminare solo percorrendo il nobile ottuplicesentiero (retta visione, retta decisione, retto stile di vita, retto sforzo, retta attenzione, retta concentrazione). Buddha non si pronunciasull'esistenza del divino, ma prende atto della sofferenza insita nel vivere e cerca una via per ovviare a questa dolorosa verità. Alla base del pensiero buddista c'è la constatazione che il desiderio ha origine dall'illusione che vi siano permanenza e individualitàladdove né l'una né l'altra esistono. Il mondo è flusso e cambiamento continuo e anche il singolo non è altro che un'instabile aggregatodi componenti che dopo la sua morte si riaggregheranno a formare altri individui, che però saranno condizionati dalle precedentiesperienze dei propri elementi costitutivi. Il fine del singolo deve essere quello di interrompere questo processo attraverso ilraggiungimento del Nirvana, l'"Estinzione", pari all'estinguersi di una fiamma della candela, fine dell'esistenza individuale eraggiungimento di una suprema beatitudine.Col cambiamento della situazione socio - politica il buddismo, che nel frattempo aveva subito numerose modificazioni, scomparsepressoché totalmente dall'India ma si diffuse in tutta l'Asia.13 Il jainismo fu fondato da Vardhamana Mahavira ("Grande Eroe") conosciuto come Jina ("Conquistatore"), contemporaneo delBuddha con cui presenta molte coincidenze.Il pensiero cardine del jainismo è che tutto ha un'anima propria, individuale: tutti i viventi e anche tutti gli oggetti apparentementeinanimati. Quest'anima, caratterizzata da purezza, beatitudine, omniscienza e autosufficienza, è immersa e compenetrata dalla materiaattraverso un legame, il karma. Il karma incatenando l'anima individuale alla materia la condanna alla sofferenza della vita e al cicloperenne delle reincarnazioni E' possibile agire su questo legame: gli atti egoistici e crudeli lo consolidano, mentre all'oppostol'ascetismo e la volontaria sofferenza lo alleggeriscono. Da qui l'enfasi sull'altruismo e sulla non violenza. L'ideale massimo del jainismo è quello dell'asceta che, per non nuocere ad alcunché, si lascia morire di fame e pare che anche uno deipiù grandi antichi imperatori indiani scelse questa strada. 14 I Vedanta sono chiamati anche Upanishad, termine composto da upa, che significa "complementare", "aggiuntivo" e ni-sad "sedereai piedi di un maestro".15 Ma questa affermazione non comporta un'etica della fratellanza. 16 Vedi l'opera di Dara Shikoh.17 Brahma ha un ruolo minore nel culto. Non è stato abbandonato il pensiero "utilitaristico" dell'epoca vedica e quindi si considerainutile venerare e omaggiare il dio creatore quando non c'è più bisogno di lui dato che il mondo è già stato creato.18 Non solo quindi la via della conoscenza e dell'adempimento degli obblighi rituali come era in precedenza.19 Da Tantra, "trama e ordito", ovvero i testi religiosi di questa corrente.20 Nei Veda era invece presente una sola divinità femminile.

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21 Il buddismo, che all'inizio non si era pronunciato sul divino, aveva assunto all'epoca la forma di religione dotata di divinità proprie,fra cui la figura divinizzata di Buddha (che era anche entrato nel pantheon indù).22 Il movimento non critica il sistema brahmanico, ma si esprime al di fuori di esso.23 Nel medioevo si iniziò la costruzione di edifici sacri templi proprio per accogliere le icone.24 Vedi Vercellin Giorgio, Istituzioni del mondo musulmano , Einaudi, Torino, 199, pp. 6-7.25 Muhammad ibn Abdullah è un personaggio storico su cui abbiamo notizie relativamente accurate ed abbondanti.26 Il quale contiene 114 sura (6536 versetti), ordinate per lunghezza decrescente, fatta eccezione della prima.27 Gabriele nella tradizione islamica viene chiamato angelo e non arcangelo come presso i cristiani.28 Cit. in: Torri Michelguglielmo, Storia dell'India, Laterza, Bari, 2000, p. 174.29 Langar, come nella tradizione sikh.30 E come fra i sufi oltre alla scuola monistica c'è anche quella shuhudi che presenta un moderato panteismo, così nell'induismo abbiamoil non-dualismo advaita (o vedanta) e la dottrina vishishtadaivita della dualità non differenziata.31 " Per i musulmani i santi rimpiazzano i numerosi dei degli indù" Garcin de Tassy 1831 cit in: Gaborieau Marc, Le Soufisme et lesConfréries dans l'Inde contemporaine , intervento alla Conferenza Internazionale The role of sufism and Muslim brotherhoods incontemporary Islam. An alternative to political Islam?, Centro Edoardo Agnelli per gli Studi Religiosi Comparati, Torino, 20-22Novembre 2002, p. 14.32 Torri Michelguglielmo, Storia dell'India, Laterza, Bari, 2000, p. 176.33 Nella tradizione indiana la comparsa di un nuovo maestro comportava la sua sfida dialettica da parte degli esponenti degli altripensieri religiosi.34 m. 1245.35 I rishi erano coloro che in virtù della perfezione dell'ascesi avevano "visto" i Veda.36 Vissuto probabilmente tra il 1398-1448.37 Seguace di Vishnu.38 Vedi Mishra Laxman Prasad (a cura di), Mistici Indiani Medievali, UTET, Torino 1971, pp. 35 - 36.39 Krishna, come Rama, era per gli indù uno degli avatar di Vishnu.40 "Hari è il mio Amante / ed io sono la sua sposa, / tanto piccola / quant'Egli è immenso". Pada 117 in Mishra Laxman Prasad (a curadi), Mistici Indiani Medievali, UTET, Torino 1971, p. 39.41 L'autorità religiosa e intellettuale indù.42 Dotto erudito nelle discipline religiose musulmane.43 Una strofa popolare lo ricorda così: Baba Nanak shah faqir / hindu ka guru musal'man ka pir : "Il venerabile padre Nanak, sovranofra i santi, maestro degli hindu e precetttore dei musulmani" ( Giorgio Milanetti, Il Dio senza attributi, Ubaldini, Roma, 1984, p. 47)44 Il Guru Granth Sahib si apre con: "Uno è l'Essere supremo. Il suo Nome è "colui che veramente è". E' un Dio personale, creatore, privo di paura e inimicizia. Non soggetta al tempo tempo è lasua immagine. Non generato, esistente per se stessa, Egli è il maestro dispensatore di grazia". (in Piano Stefano, Canti Religiosi deiSikh, Bompiani, Milano 2001).45 Il maestro. La tradizione sikh vede dieci Guru succedersi alla guida della comunità. Sucessivamente il ruolo del Guru è stato affidatoal testo sacro, il Guru Granth Sahib. 46 Masala è la miscela di spezie usata nella cucina indiana. Usiamo scherzosamente questo termine per indicare quanto questo momentofosse ricco di molteplici apporti che, fusi insieme, crearono quel momento culturale unico che è il periodo moghul.47 Akbar regnò dal 1556 al 1605. 48 Akbar era analfabeta. Gli storici danno diverse motivazioni a questo fatto. Alcuni spiegano ciò con l'infanzia passata fra campi dibattaglia, con un'educazione militare ma non intellettuale. Altri, appartenenti alla tradizione musulmana ortodossa che tutt'ora nonesprime grandi simpatie per Akbar, affermano che semplicemente egli si è sempre disinteressato di leggere e scrivere (ma allora perchéla biblioteca di 28.000 volumi e la grande considerazione in cui teneva i libri?) Più probabile l'ipotesi che il sovrano fosse dislessico.49 Abu al-Fazl, storiografo alla corte di Albar. In Behr Hans-Georg, I moghul. Splendore e potenza degli imperatori d'India dal 1369al 1857, Garzanti, 1987, p. 114.50 Mahabharata e Ramayana sono i due grandi poemi epici-religiosi della tradizioni indù e contengono la descrizione delle gesta didue avatar di Vishnu. La Bhagavad Gita è parte del Mahabharata e contiene la predica che Krishna, avatar di Vishnu, fa al principeguerriero Arjuna esortandolo ad andare in battaglia. Viene qui proclamato che solo tramite le azioni disinteressate, la devozione e lafede nella grazia divina si può giungere alla comunione col brahman.51 Raccolta di racconti aventi lo scopo di educare il giovane principe all'arte del governo. Si presume che questo testo, giunto in Europatramite le tradizioni islamiche, diede l'ispirazione a Baccaccio per il suo Decameron.52 al-Badaoni , in Behr Hans-Georg, I moghul. Splendore e potenza degli imperatori d'India dal 1369 al 1857 , Garzanti, 1987, p. 115.

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al-Badoni, sunnita ortodosso, fu storiografo di corte, prima che l'imperatore lo licenziasse come storiografo a causa delle sue ideeortodosse e gli affidasse il compito di tradurre il Mahabharata!53 Behr Hans-Georg, I moghul. Splendore e potenza degli imperatori d'India dal 1369 al 1857, Garzanti, 1987.54 E al-Badaoni nei suoi scritti così commenta "segno più che certo che l'imperatore aveva definitivamente abbandonato la vera via".(Cit. in Behr Hans-Georg, I moghul. Splendore e potenza degli imperatori d'India dal 1369 al 1857 , Garzanti, 1987, p. 131).al-Badaoni nei suoi appunti era sempre fortemente critico nei confronti dell'imperatore e del sincretismo dell'epoca. Ad esempio,commentava così quanto avveniva a corte: "il motivo fondamentale è la grande quantità d'ogni colore e setta venuti a corte da tutte leparti. Sua maestà ascolta l'opinione di ciascuno, ma tiene conto soltanto di quelle a lui favorevoli e respinge le altre. Così Akbarraccolse tutto ciò che gli esseri umani possono trovare nei libri, con uno spirito di osservazione in contrasto con i principi dell'Islam.In seguito l'imperatore rifiutò la verità rivelata e diede retta a tutte le bestemmie dei cortigiani contro la nostra gloriosa religione".55 Così ipotizza Marc Gaborieau (in Le Soufisme et les Confréries dans l'Inde contemporaine, intervento alla Conferenza InternazionaleThe role of sufism and Muslim brotherhoods in contemporary Islam. An alternative to political Islam?, Centro Edoardo Agnelli per gliStudi Religiosi Comparati, Torino, 20-22 Novembre 2002.56 Nato nel 1495 d. C.57 Padmavat I.1 (in Giorgio Milanetti, Il poema della donna di loto , Marsilio, 1995, p. 67).58 Padmavat XI.5 (p. 127).59 Padmavat XV.2 (p. 143).60 Padmavat XI.6 (p. 127).61 Padmavat XI.6 (p. 127).62 Padmavat XXII.10 (p. 176).63 Afferma: "Il mio viaggio avrà fine solo quando la potrò incontrare. Allora mi strapperò la vita, chinerò la fronte a terra, e le darò untrono nel cuore. (…) Se mi chiedesse la vita, gliela offrirei in sacrificio; se volesse la mia testa, gliela donerei assieme al collo; se mivolesse uccidere, mi inchinerei ancora di più. Per la mia propria vita, non ho brama: sto davanti alla porta dell'amore e chiedo a lei perelemosina. La sua sola vista è una lucerna e io, il mendicante, sono la falena: se pure mi passasse una sega sulla testa, morirei senzapiegare un dito XXIV p 191.64 Padmavat XXV.2 (p. 198).65 "Si coprì di cenere il viso bello come la luna e le membra profumate di sandalo, finché tutto il suo corpo parve fatto di terra; quindiprese il cordone d'asceta, lo zufolo, l'anello e il gorakh'dhandha (il bastone dell'asceta shivaita) il panno per meditare, la collana dirudraksha (rosario shivaita ) e la gruccia, indossò il saio, strinse il bastone in una mano e, come un Perfetto (siddha), cominciò adinvocare Gorakhnath". Padmavat XXII.1 (p. 129).66 Ratan'sen afferma: " È Padmavati il mio maestro: io sono il suo discepolo, e solo per lei ho praticato l'ascesi". Padmavat XXIV.8 (p.191).67 Padmavat XXII. 10 (p. 176).68 I due principali fiumi sacri hindu, ma anche metafore del femminile - maschile, sinistro - destro, ecc…69 Padmavat LVII.4 (p. 400).70 La vittoria del terzogenito Aurangzeb comportò la sconfitta (con battaglie od inganni) e uccisione anche degli altri fratelli - rivali ela condanna di Dara appare totalmente strumentale agli scopi politici di Aurangzeb e niente affatto rappresentativa del clima tollerantedell'epoca. Clima che d'altronde finì con l'ascesa di Aurangzeb, musulmano ortodosso con spiccata tendenza al bigotto, che creò unmostruoso apparato di inquisizioni e spionaggio. 71 Shayegan Daryush, Hindouisme et Soufisme. Une lecture du Confluent des Deux Océans, Albin Michel, Paris, 1997 p. 13.72 Le Upanishad vennero tradotte col titolo Sirr-e Akbar, "Il più grande dei misteri", e Dara scrisse anche una prefazione che cominciacon la formula indù convenzionale Om Shri Ganesha Namoh (omaggio a Ganesh).In esse Dara trovò pienamente espressi e spiegati i segreti che aveva cercato a lungo con un'intensa lettura dei testi sacri di tutte lereligioni. Dara chiama le Upanishad "il primo dei libri celesti" e "la fonte delle corrente monoteistiche" e ritiene addirittura che siano statemenzionate nel Corano nel seguente verso: "Questo è l'onorevole Corano, nel libro nascosto, che nessuno lo tocchi se non il puro. Essoè una rivelazione dal Signore dei mondi". Per Dara Shikoh l'nsegnamento nascosto nel cuore del Profeta, il sapere che nessuno tranne il puro poteva comprendere era il testodelle Upanishad, che permettono di conoscere lo sconosciuto e di comprendere il non capito. 73 Pralaya: "dissoluzione", letteralmente un processo (pra) di fusione (laya), e dunque di dissoluzione e distruzione, in particolareriferimento alla distruzione dell'universo al termine di ogni era cosmica. A ciò segue un nuovo processo di creazione o emanazione.Mahapralaya: la distruzione dell'universo che si ripete al termine di ogni era cosmica.Dara nel suo testo afferma:"I monisti indiani ritengono che dopo un lungo soggiorno al paradiso e all'inferno avverrà il maha parala (mahapralaya) che è la

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resurrezione maggiore, come si deduce dal versetto "Quando verrà il cataclisma molto grande (Corano LXXXIX:35) e "Allora saràsoffiato nella tromba (una prima volta) e coloro che sono nel cielo e sulla terra saranno fulminati, tranne quelli che Allah vorràrisparmiare" (Corano XXXI: 68). Coloro che Allah vorrà risparmiare sono i gnostici che sono protetti contro l'incoscienza e l'ignoranzain questo mondo come nell'altro. Dopo la distruzione dei cieli e della terra e l'annullamento dell'inferno e del paradiso, e la conclusionedell'età di brahmanda e l'assenza di questo, le genti del paradiso e dell'inferno raggiungeranno la liberazione mokt (mukti), ovvero i duegruppi diverranno uno con l'Essenza divina, come dice questo versetto: "Tutti coloro che sono sulla terra sono perituri, quandosussisterà il volto del tuo Signore che detiene la maestà e la magnificenza" (Corano LV : 26, 27).Majma 'al-Bahrayn, cap. XIX, "La descrizione della Resurrezione" (in Shayegan Daryush, Hindouisme et Soufisme. Une lecture du

Confluent des Deux Océans, Albin Michel, Paris, 1997).Mukti, o moksha, significa "liberazione" e consiste nel riassorbimento nel brahman , nell'Assoluto divino.Di essa Dara così scrive: "La mukti consiste nel riassorbimento e annullamento di tutte le particolarità nell'Essenza divina come apparein questo versetto: "la Soddisfazione di Allah è più grande. Là è l'Immenso Successo" (Corano IX : 72). Entrare nel rîzwân-e akbarche è il Paradiso è la liberazione, mukti (…)".Majma 'al-Bahrayn, cap. XX.74 Majma 'al-Bahrayn, cap. XXI.75 Shayegan Daryush, Hindouisme et Soufisme. Une lecture du Confluent des Deux Océans, Albin Michel, Paris, 1997, p. 12.76 Che poi diverrà due stati musulmani.77 Abul A'là Maududi 1903-1979 il teorico dello stato islamico Pakistan cit in Gaborieau Marc, Le Soufisme et les Confréries dans l'Indecontemporaine, intervento alla Conferenza Internazionale The role of sufism and Muslim brotherhoods in contemporary Islam. Analternative to political Islam?, Centro Edoardo Agnelli per gli Studi Religiosi Comparati, Torino, 20-22 Novembre 2002, p. 16.78 Mirza Mazhar Jan-i Janan (1699-1781) poeta e mistico, noto per le sue simpatie per gli indù. Egli considerava gli avatar indù comedei profeti. 79 Santuario.80 Ancora una volta ringrazio Stefano Caldirola per i suoi lunghi resoconti dall'India.Inoltre ringrazio Marilia Albanese, Alessandra Consolaro, Elisa Giunchi e Jolanda Guardi per le preziose indicazioni bibliografiche.

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Luti e Liwat di William Pioltelli

Olio su tela di Jones Michel. Immagine digitale tratta da Gaymiddleeast Community

Introduzione

Parlare di omosessualità nel mondo arabo-mussulmano vuol direaffrontare una questione antropologica rilevante perché in essaconfluiscono tematiche classiche di questa disciplina quali irapporti tra i generi, il nesso tra sessualità e potere, la questionecoloniale, lo scontro (più ideologico che realmente fondato traoriente e occidente) e anche quello relativo alla Umma virtuale.Tutta questa complessità non era sfuggita agli antropologifrancesi già a partire dagli anni settanta, quando cominciarono adenunciare pubblicamente i rapporti di potere che si venivano acreare tra i giovani europei e gli operai arabi, prevalentementemagrebini, ma non solo, e che si esprimevano appunto in relazionidi tipo omosessuale. Nomi quali quello di Michel Foucault, Jean-Paul Sartre, Felix Guattarì, Gilles De Leuze e molti altri hannoanalizzato la questione in una rivista monografica "Recherches"con il titolo "Trois Milliards de Pervers. Grande Encyclopédie des

Homosexualités", stampata in Francia nel marzo del 1973 eimmediatamente ritirata dal commercio. Il capitolo di immediato interesse è il secondo dal titolo "LesArabes et Nous", probabilmente a cura di Michel Foucault, chepoi è anche diventato un libro indipendente. Entrambi sonopraticamente introvabili e quel che è più interessante è il fatto chein Francia questi libri sembrano non esistere e non essere maiesistiti, non risultando infatti in nessun catalogo bibliotecarionazionale regionale o cittadino. Una sorta di rimozionedall'inconscio collettivo.

Il senso politico dell’omosessualità nel mondo arabo

La teoria o quella che l'autore definisce "..encore moins commeune théorie" è quella che lega la pratica omosessuale al campodell'indagine politica: "…présence diffuse et mobile d'un de désir,mise à jour d'un rapport de forces, d'une violence et d'une mortau sein du désir même, dans l'instauration d'un code érotiquespécial: ‘je sens toujours la mort, j'ai l'expérience de la mortchaque fois que je me fais enculer. Surtout avec les Arabes’…découvre au contraire une sexualité qui, sous cette forme ousous une autre, appartient de toutes manières au champ socialpolitique, et investit les lignes des force constitutives de cechamp".La lettura politica dell'omosessualità può essere affrontata sudifferenti livelli ; tale pratica esprime una sorta di affermazionedei rapporti di dominazione (coloniale e non solo) attraversol'inversione. La pratica omosessuale con uomini del mondo arabosembra talvolta presentarsi come un rituale che prevede tre fasiassimilabile a quelle del Diwan; va precisato però che se nepossono osservare gli elementi tipici ma in modo diffuso e nonritmicamente1 sequenziali.

1 - la pianificazione del viaggio e del soggiorno,all'interno di un movimento esotico del pensiero e delle proiezionidell'immaginario, che possono essere riscontrate non solo nelleinterviste somministrate a viaggiatori abituali, ma anche nelflusso pubblicitario che le agenzie specializzate propinano nei

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Attraverso il prisma dell'amore omosessuale ciò che si tenta dicogliere sono tutte quelle possibili relazioni, spesso già tessute trauna cultura orientale profondamente pervasa di religiosità e unasocietà occidentale che deve trovare altri modi per rapportarsi edialogare con essa. L'amore gay e le contraddizioni attraverso lequali è vissuto e praticato, forse può allora rappresentare unadelle nuove porte d'Oriente. Da costruire e da aprire.

Arabi e noi, Gianni De Martino

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circuiti mediatici televisivi, quali tv satellitari (si pensi a gay TV)o a riviste di interesse.

2 - la ricerca in strutture turistiche di qualche ragazzo ouomo arabo per consumare l'atto sessuale in qualche albergo.

3 - la richiesta immancabile di " regali occidentali " emagari di un visto per andare in Europa.

L'occidentale è, secondo ricerche effettuate e secondo laconsuetudine di pensiero della comunità omosessualeoccidentale, prevalentemente, se non esclusivamente coinvolto,su esplicita richiesta, in qualità di maschio ricettivo. Il maschiopenetratore è l'arabo, per il quale comunque non è concepibile unruolo (femminile ?) di passività/sottomissione, poiché egli è ildetentore del deposito virile e quando anche questi consumasseun atto sessuale con un con-sessuale mussulmano, quest'ultimofinirebbe per venire classificato sotto una categoria sociale chenon è quella del maschio (arab).

Nella pratica omosessuale con un maschio occidentale si assistead una inversione, almeno psicologica, dei rapporti (coloniali/neoeconomici) di potere, finalizzato però alla riaffermazioneperversa, della disuguaglianza politica, culturale, sociale. Il brevee fugace atto di sottomissione sessuale del maschio occidentale è,inversamente, una riaffermazione, violenta a tratti del poteredell'uomo bianco. Questo rituale, per quanto molto diverso daquelli ai quali siamo abituati quando poniamo altrove la nostraattenzione, come tutti i rituali di inversione pone una questione ditipo politico, sul rapporto economico tra zone diverse del pianeta;parafrasando Marc Augé, esso mette in scena il potere(economico, tecnologico e occidentale) bianco, contro lasottomissione araba. Questa struttura, che lo stesso M. Augédefinisce perversa, mette in scena parossisticamente, la mutazionedella sorgente del potere (l'occidentale è il passivo sottomesso,l'arabo è il penetratore che, almeno nel contesto di una camera dialbergo, domina). Quello che in realtà avviene, e lo sottolineabene Michel Foucault, ha a che fare con la morte, quella delmaschio arabo, e metonimicamente della cultura/civiltà/storia cheesso porta e rappresenta, quale " Altro", ha a che fare con la suaoggettivazione e la sua trasformazione. L'affermazione

(omo)sessuale occidentale, nella logica perversa e inversa dellapassività tra le lenzuola, sembra essere il prolungamento (M.Foucault direbbe "fallocratico") del territorio nazionale,dell'impero coloniale, nel senso delle categorie socio-cognitiveche esso ha generato e continua a generare, pur in modi differentie meno evidenti. (in questa direzione sembra leggersi la figuratratta dal libro sopra citato).Che la pratica omosessuale sia una questione squisitamentepolitica e non morale, non solo nell'analisi antropologica, maanche, dialogicamente nelle convinzioni dei protagonistimussulmani, si vede bene nel cortometraggio, presentato alCinefestival di Torino nel 2003, all'interno di una rassegna sulcinema di genere arabo, dal titolo Yawmiyat A'hir (Diary of aMale Whore) di Tawfik Abu Wael, prodotto in Palestina, a colorinel 2001. Il cortometraggio, il lingua palestinese, e doppiata in inglese, è latrasposizione del romanzo autobiografico Il pane nudo diMouhammed Shukri, scritto sulle disavventure di un giovanemarocchino molto povero, il quale picchiato dal padre, è costrettoda fame e povertà a lasciare il proprio villaggio, per andare nellacapitale, dove giunto, tra i molto espedienti adottati persopravvivere, c'è anche quello della prostituzione omosessuale(con un anziano occidentale). Nel cortometraggio però il giovanemagrebino (eterosessuale) diventa un giovane palestinese, Esam,che non si trova più il Marocco ma a Tel Aviv e il suo prostituirsi,finalizzato alla sopravvivenza, è con un maturo israeliano. Daquesto adattamento traspare chiaramente una lettura politicadell'omosessualità, vista da un arabo.

Storia, Corano e omosessualità

Il termine che designa l'omosessuale è luti. L'accanimento che siosserva nelle Scritture è tale da far pensare che in passato,soprattutto tra i militari, fosse molto praticata quale forma dicoercizione.Secondo M. Chebel i termini arabi utilizzati variamente perdescrivere la pratica della sodomia non stanno ad indicarel'omosessualità addomesticata e civilizzata, quale viene intesaoggi, ma è relativa piuttosto ad una pratica sessuale bruta, didominanza, una specie di omosessualità panica allo stato grezzo,la quale trasgredisce contemporaneamente i codici dell'ospitalità(si trova eco di ciò anche nel libro della Genesi), della naturasovrana e della morale tribale.Tale forma di violenza sessuale, applicata indifferentemente aimaschi e alle femmine, e che si concretizzava in stupri sui vintidurante battaglie e razzie, sembra fosse particolarmente diffusatra i nomadi ai tempi del Profeta. La norma coranica è daintendersi probabilmente come una prima forma di legislazioneprogressista che intendeva tutelare i più deboli.Leggiamo infatti che tutti i rapporti extramatrimoniali eranofortemente condannati dalla Sharia, e in particolare, per quantoriguarda quelli omosessuali nel Corano: VII, 80-81: "E Lot,quando disse al suo popolo: ‘Compirete forse voi questaturpitudine, tale che mai nessuno la commise prima di voi al

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mondo? Poiché voi vi avvicinate per libidine agli uomini anzichéalle donne, anzi voi siete popolo senza freno alcuno’. E anche:XXVI, 165-166: “V'accosterete voi ai maschi fra le creaturedell'Universo? E avrete un commercio carnale con gli uomini,abbandonando le spose che per voi ha creato il Signore? In veritàsiete un popolo di trasgressori ignoranti ed empi”. Un hadith diceche ‘…quando un uomo monta un altro uomo, il trono di Allah siagita’; tale comportamento è ritenuto come una forma diribellione (fitna) ed e associata anche alla seduzione. Inparticolare il liwat (maschio recettivo) è considerato unmaledetto, un folle che fa danno a se stesso.La Sharia, all'articolo 307, decreta che "…ogni mussulmanomaggiorenne che avrà commesso un atto impudico, o innaturale,con un individuo dello stesso sesso, sarà punito con la pena dimorte da attuarsi tramite pubblica lapidazione".La pratica omosessuale era comunque molto diffusa, cometestimonia anche la fiorente letteratura araba in materia dierotismo. La quantità e la qualità delle produzioni è tale chealcuni antropologi hanno suggerito di considerare l'esistenza di unterzo genere, quello dei prostituti (khanith), per i quali però ècomplesso trovare un analogo equivalente culturale occidentale. L'aspetto importante che suggerisce l'utilizzo di questo termine èche nel mondo mussulmano sembra che in passato fossericonosciuta all'uomo una maggiore libertà nell'assunzione delgenere e del ruolo, non essendo esso legato ad una fenomenologiabiologica statica e dinamica troppo e pubblicamente evidente. Laperdita progressiva di questa flessibilità potrebbe essere legataall'incontro con altre culture. L'antropologia comparativa sembraportare prove in questa direzione.La proibizione dell'omosessualità maschile è comunque benradicata nell'Islam fin dalle origini e a nulla sono valsi tentativisuccessivi di studio e approfondimento per cercare di introdurrespazi di variante o di possibilità. Nel XIV secolo assistiamo allanascita di un discorso laico sulla questione, peraltro molto rigidoche vede in questo comportamento una causa di decadenza,rimproverando la mancanza di generazione, in un momentostorico di grande incertezza perché i Mongoli cominciavanol'aggressione all'impero dei califfi. Proprio questo discorsosembra riportarci ad una dimensione politica dell'omosessualità.

Diwan e omosessualità: il caso palestinese

E' necessario precisare ai fini di una corretta comprensione chenel mondo arabo non esiste una omosessualità inquadrabilesecondo le categorie culturali più vicine al pensiero occidentale.Si parla di comportamento e pratica dell'omosessualità ma non diidentità e di identificazione. Persone omosessuali mussulmaneesistono, come esistono comunità gay squisitamente arabe maquesto è un fenomeno decisamente recente, al riguardo del qualedirò più avanti.La pratica omosessuale acquisisce la forma di un idioma di genereparticolare ma sempre e comunque maschile. E' raro se nonimpossibile trovare, nel medio oriente, omosessuali effemminati,salvo il loro inserimento in altre categorie culturali locali (il

bianco passivo non è considerato maschio nel senso di Arab,come non lo è l'adolescente che presta sé al piacere dei coetanei).L'omosessualità intesa come forma eterodossa dell'idiomamaschile si pone nelle dinamiche dei rapporti di genere inparticolare credo per quanto riguarda il controllo critico della ri-produzione dello spazio pubblico (maschile) e dei quello privato(femminile), perché la discrepanza spaziale all'interno del Diwansi pone come elemento di rottura formalmente non integrabile nelconcetto di Arab, pur presentando tutti gli altri requisiti socialiche ne legittimerebbero la presenza contestuale. Un maschio chepratica l'omosessualità, in privato, è tollerato purché il suocomportamento non abbia visibilità (potere) nella sfera pubblica.Quando questo avviene siamo di fronte, non tanto ad unaperversione di tipo morale, quanto piuttosto di una perversione-inversione di tipo politico, una pesante critica al potere pubblicodei maschi (anziani). La pratica omosessuale in Palestina, nellasua evidenza fenomenologica, sembra essere prevalentementegiovanile (tra i 18 e i 34 anni). In essa sembrano confluire, almenodalle risposte degli intervistati una critica ai padri anziani,colpevoli dell'incapacità di aprirsi ad un mondo in rapidocambiamento.Said, un omosessuale palestinese di circa 30 anni, esprime la suarabbia rivolta verso l'anziano padre, che sente ogniqualvolta vi èuna recrudescenza negli attacchi israeliani. Nonostante l'affettoche traspare dalle sue parole, emerge anche la sofferenza per unconflitto culturale, quando egli si definisce "gay man andPalestinian" e quando afferma la sua paura che il padre " flight…toescape me, the gay son he could never embrace". L'annullamentodello spazio (l'abbraccio), quando questo è in un contestopercepito come extra tribale, determinerebbe la distruzionedell'idioma della maschilità, e significherebbe il riconoscimentodella critica stessa alla società ed in particolare allaconfigurazione dei rapporti di genere. Said sembra bencomprendere questo processo, che forse non è completamentecosciente, ma è interessante osservare come esso vengaapertamente messo in relazione con la guerra (War, Fight). Inmedio oriente le comunità omosessuali più visibili, potenti esviluppate sembrano essere fiorite in quei paesi che hannoincorporato e sperimentato un lungo periodo di guerra sul proprioterritorio. Il caso più emblematico è forse quello libanese.L'esistenza pubblica di un maschio, che deliberatamente scegliedi non aderire ai canoni riproduttivi sia in senso sociale chebiologico, è dotata di una forza così distruttiva, che rischia diminare l'assetto stesso della società; per questo motivo spesso gliomosessuali vengono uccisi dagli stessi familiari, secondo ilrapporto delle associazioni gay, in particolare di AGUDAH e diAmnesty International. Secondo Malek Chebel, antropologo psicoanalista, "...attraverso iproblemi sessuali, certo molto complessi, della gioventù arabaimpegnata in una dinamica di mutazione sociale, la questioneomosessuale non cessa di porre la problematica dei processi dicostruzione e di articolazione dei cambiamenti personali,istituzionali e politici in una struttura tradizionale, conservatriceper definizione"2.

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L'omosessualità in Palestina rappresenta anche, nonostante i suoialti costi, il miraggio di "un biglietto aereo per l'Europa(Occidente)"; esso però non è un processo cosciente e strumentalecome si può osservare in Marocco, ma qualcosa di estremamentepiù sottile, forse incorporato, inconsciamente idiomatizzato nellacostruzione dei giovani. L'impossibilità di un Coming out3 inpatria e la paura mortale di un Outing4 danno origine ad un flussomigratorio, che interessa immediatamente Israele.Infatti, secondo un accordo firmato nel 1951 all'ONU, anche daIsraele, la persecuzione per motivi sessuali permette di faredomanda di asilo politico; ma per un omosessuale palestinese nonè facile. Sono circa trecento i giovani gay conosciuti, che hannoscelto di fuggire dalla Cisgiorrdania o dalla Striscia di Gaza, perandare a vivere, ma spesso a sopravvivere in Israele. Qui giunti,sempre secondo quanto riferisce Amnesty International,dimenticano la lingua araba e imparano alla perfezione l'ebraico,si atteggiano come giovani israeliani: pizzetto, pantaloni militarisdruciti e indossando anche medaglioni e ciondoli con la stella diDavid. Rimane però forte il senso di colpa, l'asciumà , il senso divenire meno ai propri doveri riproduttivi e quindi anche materialiverso il proprio clan. Per un palestinese questo equivale a essereun collaborazionista perché l'omosessualità è innanzitutto untradimento sociale verso la propria patria. La vita dei giovani gayemigrati in Israele è così fragile, perché ricattabili in ognimomento; spesso, continua Amnesty International, vengonocomprati come informatori in cambio di una promessa didocumenti. Rani, 19 anni, ricorda come, scoperto dai parenti,fosse scappato a Tel Aviv, dopo che dei militanti palestinesi lovolevano obbligare a partecipare ad un attentato suicida per"espiare la sua colpa"5. Nonostante la seconda Intifada, e nonostante essa rendacertamente difficoltosa la vita dei giovani palestinesi omosessuali,le coppie miste che vedono un palestinese e un israeliano "farefamiglia" sono veramente molte. Ma come si spiega che un odio,se non atavico certamente molto radicato e complesso, vengasuperato in situazioni marginali come queste, inteso in senso siasociologico che antropologico?Ad una prima osservazione puramente visiva, tutte le coppiesembrano ricalcare il modello occidentale di "Gay Pride", manessuno dei ragazzi con i quali sono venuto in contatto èdecisamente effeminato. Il modello del maschio (Arab) ècertamente lontano, e per questi giovani normalmente vieneutilizzato il termine tanguy, che probabilmente vuol direimmaturo, debole, infantile, ma che non rimanda immediatamentead una pratica o a una condizione omosessuale; esso sta adindicare i giovani che vestono secondo i canoni europei,sottolineando quindi che i giovani gay palestinesi e israeliani, nelseguire tale modello, non esprimono che una possibile condizionegiovanile e non uno specifica rivendicazione in chiave di genereo orientamento. Ma allora qual è il senso di queste coppie?Semplice opportunismo? O movimento culturale?Bisogna sapere, che nonostante il forte veto dei religiosiortodossi, e una opinione pubblica abbastanza contraria, come mispiega Nir, il mio amico informatore a Tel Aviv, le coppie

omosessuali sono riconosciute e due giovani maschi possonounirsi attraverso un contratto matrimoniale, dal 1997.La complessa situazione politica sembra accanirsi proprio versole coppie miste, nonostante lo status di rifugiato politico deipalestinesi omosessuali; i permessi di soggiorno rilasciati dalministero dell'interno e dal quello degli affari sociali non vengonoprogressivamente rinnovati, a motivo del veto dei servizi disicurezza, gettando però nella clandestinità centinaia di giovani,che peraltro rischiano seriamente la vita, non potendo piùrientrare in Palestina.La questione è di estrema gravità ed è presa molto seriamente nonsolo dalle associazioni omosessuali locali, tra le quali la piùimportante è Agudah che fornisce questi dati, ma anche dalleassociazioni per la tutela dei diritti umanitari.Shaul Gonen, membro di Agudah riferisce che la condizione degliomosessuali palestinesi è drammatica e che le coppie miste spessodecidono di vivere in clandestinità, inosservate, rimanendo chiusein casa dopo ogni attentato per paura di forme di rappresaglia. Prima dell'11 Settembre gli omosessuali palestinesi erano costrettia nascondersi solo in quei luoghi e in quelle comunità dove igruppi di integralisti islamici erano particolarmente forti e insoprattutto in zone quali Nablus, Hebron, i villaggi nei dintorni enei campi profughi da Gaza; mentre in città quali Ramallah ed ElBireh era tollerata dall'Autorità palestinese. A seguito dellaseconda Intifada, le coppie miste (visibili) sembrano diminuite inIsraele, per i timori di espulsioni e rappresaglie, ma ad un rapidocalcolo statistico potrebbero essere circa meno di 290.Samir e Shlomi, israeliano e palestinese hanno circa trent'anni evivono insieme da cinque. La loro unione è sancita da un contrattomatrimoniale ed è rispettata e tollerata. Purtroppo il permesso disoggiorno di Samir è scaduto e non è stato possibile rinnovarlo,nonostante i suoi 14 anni di residenza in Israele e l'interessamentodi numerose persone. Samir non può tornare nel suo villaggio inCisgiorrdania perché verrebbe arrestato, probabilmente torturato,accusato di collaborazionismo e anche ucciso dai suoi stessifamiliari, nonostante la legge palestinese preveda meno di 5 anniper il reato di sodomia e pratiche omosessuali.Said invece vive nei Territori occupati ed è fornito della carta disoggiorno, o meglio dell'autorizzazione a risiedere il Israele; ciònonostante è costretto a vivere quasi come un clandestino6. Ha 27anni, parla un ottimo ebraico ma un pessimo inglese. Anche lui haper compagno un israeliano con il quale convive e lavora. Hapreso consapevolezza di sé durante l'adolescenza ed è venuto aconoscenza della comunità gay israeliana attraverso i media. Ilsuo primo approccio con Israele è passato per la prostituzione, finquando, scoperto dai parenti, è stato costretto alla fuga, ancheperché il fatto è avvenuto al ritorno del padre dal pellegrinaggioalla Mecca. Sa di non poter tornare a Ramallah perchéprobabilmente verrebbe ucciso e l'unico modo per evitarlosarebbe quello di uccidere Shlomo, per espiare il peccato,dimostrarsi pio, e salvare l'onore della sua famiglia, riscattandosicosì dalla maledizione che il padre gli ha fatto.Quando si affronta la questione religiosa dice "...mi sentomussulmano e praticante. Lo so che l'omosessualità è un peccato,

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ma questa è una cosa tra Allah e me . (N.d.A. fuori dal Diwan).Per il resto sono un buon mussulmano".Riconosce di avere rapporti migliori con gli ebrei e spera ungiorno di poter vivere in pace e poter considerare gli ebrei allastregua di fratelli. Non nasconde la speranza che la Palestinapossa diventare uno Stato pienamente sovrano in sensodemocratico, e spera che il contributo del movimentoomosessuale possa servire in tal senso. Anche Shlomo fatica avedere la differenza tra il combattere per il riconoscimento deidiritti degli omosessuali, fare pressione sul governo perchéaccolga i profughi ed essere contro l'occupazione.L'aspetto interessante, con dati di prima mano raccolti(virtualmente), è che l'omosessualità sembra esseresignificativamente diffusa tra i giovani militari israeliani e comesi legge anche in uno studio a cura dell'esercito di Israele; mi èdifficile comprendere se in termini di comportamento o diidentità, ma la questione è comunque interessante poiché sembrapresentare una analogia con la critica che i giovani omosessualipalestinesi incorporano nei confronti del Diwan. Uno Statofortemente militarizzato, e, nei suoi dirigenti, molto in difficoltà atrovare "vie terze" per una pacifica convivenza e una reciprocatutela, viene criticato attraverso forme sotterranee dicomportamenti eterodossi anche dal punto di vista della pratica odell'identità sessuali; un recente film ha affrontato la questione 7.Possiamo allora trovare in queste linee di indagine un primopunto fermo. Una coppia mista, pubblicamente riconosciuta cheintegra la cultura israeliana e quella palestinese, meticciandole,anche tra Oriente e Occidente, rappresenta, non solo una critica,ma in senso funzionalista, un processo dicreazione/trasformazione e di adattamento/ibridazione dicomunità culturali costrette a condividere ecologicamente spazisociali e territori.Il fenomeno è molto simile all'inoculazione tra gli alberi. Duepiante, anche di specie differenti, venendo in contatto, e sfregandola corteccia fino a consumarla e a mettere in contatto la loro parteviva, finiscono spesso con dare origine a un innesto naturale.Inoltre, considerando una qualunque società, non come un bloccostatico, ma come l'espressione di un mutamento in continuaevoluzione, dinamico e non totalmente ciclico, l'omosessualità,sia il comportamento omosessuale, che la vera e propriaidentificazione di gruppo e di orientamento, hanno una funzionemolto simile alle anse di espansione dei fiumi, nei periodi dipiena. Mi spiego: nella logica dell'inversione l'esistenza di gruppiomosessuali o di pratiche di tale natura è funzionale allariaffermazione, alla ri-produzione e al mantenimento dei valoridel gruppo dominante (in questo caso di matrice eterosessuale,maschile e femminile). L'emersione di una modalità permanente,in termini identitari e culturali, è certamente questione complessae non solo dal punto di vista antropologico, ma è forse inrelazione all'anomalo periodo di anomia che stiamoattraversando, alla generale insicurezza e alla conseguenteipertrofia di valori e modelli che i media diffondono ormai alivello planetario.Dunque l'omosessualità sembra avere tre funzioni importanti: la

prima è quella della creazione di uno spazio intimo, che non èperò quello privato associato alla femminilità, uno spazio che nongode di una valenza pubblica (maschile) e dei diritti conseguentima che risulta essere funzionale alla riproduzione della società intermini di idiomi, per una ri-appropriazione perversa dei confini.La seconda funzione è simmetricamente correlata alla prima ecertamente più evidente: riguarda l'aspetto critico dellariproduzione degli idiomi di genere e dello spazio (potere inrelazione a ) ad esso associato. Essa rappresenta lo spazio dirottura, di incommensurabilità, di distanza tra l'ideale e il reale, lanecessità continua della "parola", dell' "idioma" detti e ri-detti,continuamente ri-affermati. E' una funzione critica al potere, ilquale rischierebbe altrimenti di essere autoreferenziale, a rischiodi incancrenimento, funzione che lo obbliga a riaggiustarecontinuamente il tiro in relazione all'individuo, all'economia, alleparole, e a tutti gli input e ai suoi stessi output, nel processo diretroazione, nella logica di un equilibrio, di una complessitàcaotica e contingente8. La terza funzione è quelladell'inoculazione, che potremmo anche chiamare "ponte". Unacoppia omosessuale mista, proprio per la sua marginalità sociale,non in senso morale ma funzionale, crea legami deboli9 e(socialmente) ritrattabili, perché, avendo la funzione di apripista,avvia il processo di creazione di categorie e prassi sociali nuove eterze, ma non avendo una generazione biologica che sia la sintesidelle due provenienze, non rischia di inserire nel tessuto socialeforze "altre", potenzialmente pericolose per l'identità del sistemae in definitiva per la sua stessa esistenza, pur permettendoappunto esperimenti e pratiche di tipo sociale, quali, banalmente,la convivenza. Le statistiche qualitative e quantitative sullacomposizione delle coppie omosessuali sembrano confermarequesta ipotesi, nonché il materiale etnografico raccolto eanalizzato.

Corpi, Islam e omosessualità

La categoria dell'impuro

L'incontro del mondo arabo con il messaggio del profeta haradicalizzato una bipolarità che forse prima era più flessibile,come detto, almeno per l'orientamento di genere o semplicementeper le pratiche sessuali in generale. Assumiamo dal medioevoislamico come l'universo sociale, peraltro rimasto immutato daallora10 fosse stato distinto dalla teologia e dalla giurisprudenza indhakar (sesso maschile) e ountha (sesso femminile), entitàcomplementari ma ordinate secondo una gerarchia religiosa.Dhakar è un termine che rimanda l'idea di membro virile, dimemoria e di radice, costruendo culturalmente il maschio comecolui che ha ricevuto il deposito virile da Dio per la trasmissionedel messaggio divino, come essere forte e sintesi di pene, ragionee fede. L'uomo è difettosamente memoria di Allah, che comunquerimane l'unico, pura trascendenza, verticalità assoluta e chesoprattutto non va in coppia. Ountha rimanda invece l'idea didebolezza, erba verde, smemoratezza, ed è associatainconsciamente a Iblis, il senza pene per eccellenza.

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Il giovane omosessuale, cresciuto nella pedagogia tribale, anchequando accetta di vivere come un luti, ha con il proprio corpo unrapporto molto particolare, quasi ossessivo; infatti fin da piccoloapprende la categoria dell'impurità. I suoi atti sonoinconsapevolmente guidati dall'assimilazione del Corano.Bisogna però precisare che tale comportamento non affonda leradici nella psicologia individuale è proprio unasovradeterminazione culturale, uno spazio performativo ecognitivo. Non è l'atto sessuale, neanché se omofilo, ad essereconsiderato impuro, quanto piuttosto i liquidi organici quali ilsangue (in analogia con il mestruo femminile), il liquido seminalemaschile, gli escrementi, l'urina, le cui tracce devono essere lavatedal corpo per una esigenza metafisica.La cura del corpo occupa molto tempo nel giovane omosessuale,come in tutti i credenti, poiché, al di là della pratica, è necessarioper mettersi davanti a Dio nella preghiera, attraverso le abluzioni(rituali)11.

AIDS

Nonostante questa cultura di cura del corpo, e la presenza deimedia, la prevenzione ad opera delle associazioni omosessualiisraeliane e non, secondo l'agenzia Reuters la diffusione del virusHIV tra gli arabi omosessuali negli strati più poveri dellapopolazione palestinese (e israeliana) è maggiore di quella chel'OMS ha stimato essere fino ad oggi in questa regione.L'ostilità culturale peggiora costantemente l'epidemia e lapressione sociale non migliora lo stato delle cose, poiché l'AIDSè tabuizzato e considerato, soprattutto dagli anziani, un castigodivino a motivo del proprio comportamento. Secondo il direttoredel Centro AIDS di Hadassah i sieropositivi presenti nei territoripalestinesi sono circa 200.

Tortura

Spesso in Palestina, come in altri paesi mussulmani quali l'Iran el'Egitto, quando un omosessuale viene arrestato viene sottopostoa tortura. E' difficile capire - ci vorrebbe un indagine approfonditasul campo- se le forme di tortura, delle quali porterò esempi diseguito, possano inquadrarsi in un qualche discorso.Probabilmente sì. E' molto impressionante sentire parlaredell'argomento e sorge spontaneo chiedersi il perché di tanto odio,non giustificato a mio avviso neanche dalle categorie culturali checostituiscono l'identità di genere.

Ahmed ha 23 anni e vive in Israele dal 1998. In occasione deifunerali del padre è tornato in Cisgiorrdania, dove è stato fermatodalla polizia, condotto in caserma e picchiato. Ha passato l'interanotte immerso in una fossa piena di acqua di fogna, poi, inassenza di prove e di una confessione, è stato rilasciato.

Mohamed racconta, e sono ancora ben visibili i segni delle ultimeore trascorse nella casa della sua famiglia, di essere stato legatoad una colonna dai fratelli e dai genitori, che hanno iniziato a

picchiarlo con ogni possibile oggetto, compresi ferri arroventati,perché sorpreso in compagnia di un amico.

Le immagini del processo della Queen Boat (celebratosi inEgitto), e salito all'attenzione per la grande quantità di imputatiaccusati12 di "atti immorali" 13, circolate clandestinamente sullarete, pur sfocate, riportano particolari raccapriccianti. Le brevitestimonianze riportate sull'Internazionale e apparse su Telquelcon i titolo di "Détenus pour déviance sexuelle" parlano da sole:"…una volta arrestati, i sospetti vengono torturati. In tre casi,dove si era stabilito che la vittima di un assassinio aveva avutorapporti omosessuali, centinai di gay sono stati arrestati etorturati per strappargli confessioni e anche per sadicherappresaglie…”. "Eravamo 300 o più. Ho visto tortureincredibili. I lineamenti di un ragazzo, si chiamava Shadi, sidistinguevano a malapena: aveva gli occhi gonfi, il voltosembrava un pallone da calcio per tutte le percosse che avevaricevuto. Abbiamo visto un altro gay al quale avevano slogatouna spalla. Gli avevano legato le mani dietro la schiena el'avevano appeso al telaio della porta. Poi gli avevano legato unabombola di gas alle gambe. Dopo, nella cella, lo avevanoammanettato ad un anello conficcato per terra. Gli impedivano diandare al gabinetto. Lo hanno lasciato così per quattro giorni".L'articolo continua con i racconti di ustioni inferte, di scariche emorse nei genitali per tempi infiniti, di bottiglie impropriamenteutilizzate.Il parlamento palestinese sta preparando una legge, che prevedeperò un iter lunghissimo prima della presentazione al premier, mal'opposizione è grande poiché, spiega Isam Abdeen, docenteuniversitario e consulente governativo, "se venisse approvata unalegge simile, scoppierebbe una guerra civile", poiché continua"...non può essere considerata una forma di libertà, è piuttostoun'offesa...". Un teologo iraniano, recentemente interrogato sultema da uno studente durante una conferenza universitaria, haaffermato che la giusta condanna per chi pratica gli attiomosessuali condannati da Corano e Sharia, dovrebbe "...esseretagliato in due partendo dalla testa".

La Umma virtuale: The Gaymiddleeast Community

Molti omosessuali arabi e mussulmani sono emigrati all'estero,sia negli USA che in Europa e questo ha permesso recentementela nascita di una fragile rete Web tutta palestinese. Il 21 marzo èstato deciso il suffisso che distinguerà i siti palestinesi (.ps).Mailing List appositamente dedicate esistono da tempo quali:[email protected], o la più [email protected] e numerose altre divise per regionegeografica di provenienza e accomunate dalla comune matriceomosessuale, islamica e anche a volte palestinese. Esistono anchechat dedicate e siti che mettono in contatto omosessualimussulmani tra loro, nel più puro stile occidentale. Decido diiscrivermi alla Mailing List [email protected] e dopopoco tempo vengo ammesso nel gruppo, nonostante le mie originiitaliane e cristiane. Scelgo di non intervenire mai e semplicemente

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di osservare gli argomenti che vengono trattati. La Mailing List inquestione rappresenta un'assoluta novità ed esiste da poco più diun anno. I parteciparti coprono tutto il medio oriente ed è apertacome leggiamo sullo stesso sito ai mussulmani dei seguenti paesi(Middle East). E' interessante notare la presenza di Israele.Il gruppo sembra essere di circa 40. Tre sono i sottogruppi.

Quello dei moderatori e fondatori, gli assidui e gli occasionali chesi dividono in arabi e non arabi. Sembra esserci una correlazioneil numero dei presenti per Stato, la forma di governo el'atteggiamento politico omofobico o omofilo di questi. In queipaesi dove vi è una persecuzione maggiore, troviamo nellaMailing List più rappresentanti, (es. Egitto, Siria, Iran), mentresono praticamente assenti o quasi quelli dove vi è una comunitàomosessuale con potere politico, visibilità o riconoscimentolegale (es. Libano, Israele). L'età dei partecipanti va dai 18 ai 54anni ma con una concentrazione e una moda attorno ai 27-32. Icasi over 40 sembrano essere mussulmani europei naturalizzatiall'estero, generalmente nei paesi anglofobi o avventurieri"esotici" occidentali. Gli argomenti trattati sono i più vari: dallamercificazione sessuale, alla politica interna, alle vicende legateai rapporti internazionali, prevalentemente statunitensi, allareligione e al rapporto tra vita mussulmana e omosessualità,nonché un buon livello di animazione culturale dedicata14. Il mio incontro con Nadr avviene una sera di quelle piovose inchat; sono solo e agli inizi della raccolta del materiale sugliomosessuali palestinesi. Dopo giorni di appostamento, durante iquali sperimento costantemente un senso di frustrazione nelvedere la stanza (Room) sempre vuota, e ad attendere invano cheil responsabile di Agudah mi rinvii le risposte alle domande per lequali si era così gentilmente prestato, compare il suo nome e locontatto. E' cordiale ma sembra avere una grande fretta.Nonostante ciò riusciamo a chattare la prima volta circa un'ora eanche altre volte. Ci scambiamo saltuariamente scarne e-mail.Scopro in seguito che riesce ad avere la disponibilità di unaconnessione una o due volte la settimana. Parla un pessimoinglese molto elementare. Mi chiede di inviargli una fotografia esembra essere molto contento del fatto che un ragazzo italiano siinteressi a lui per conoscere la vita dei palestinesi. Vive a Gaza esi definisce (sessualmente) top "…looda: i am top…". Riporto diseguito stralci di conversazione.

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Conclusioni

Il cambio della condizioni di vita degli omosessuali palestinesi enon, e il riconoscimento dei loro diritti civili non potrà nonpassare attraverso un generale miglioramento della situazione inMedio Oriente, e attraverso un'evoluzione in senso pluralista edemocratico degli stati islamici, in particolare della Palestinafonte di tanti conflitti.L'assetto democratico e parlamentare non è in ogni caso garanzia

del buon esito di questo processo, come dimostrano le vicendepolitiche recenti. La vera sfida, come sempre è quella del dialogoculturale, e quello della costruzione di una via terza che sappiavalorizzare gli aspetti migliori di tutte le parti in causa, per lacostruzione di un nuovo umanesimo (poiché credo che questaparola non sia proprietà esclusiva di nessuna cultura, quantopiuttosto l'affermazione della bontà ontologica dell'essere umanoe della sua capacità creativa).

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NOTE

1 Cfr Mauro Van Aken2 Chebel Malek, Le corp dans la tradition au Magreb, Parigi, PUF, 19843 Rivelazione spontanea pubblica o privata della propria omosessualità.4 Situazione per la quale la condizione omosessuale di una persona diviene di dominio pubblico, anche in un contesto più privato, permotivi che prescindono dal suo consenso e dalla sua volontà.5 Rani è misteriosamente scomparso dopo aver rilasciato questa breve intervista, secondo quanto riportano i suoi amici.6 La carta rilasciata a chi gode dello status di rifugiato per discriminazione sessuale non è un vero e proprio permesso di soggiorno mafornisce uno status ibrido e spesso non è rispettato dalla polizia.7 Youssi and Jagger, Israele 20028 "Contingente" nel senso utilizzato da K. Popper9 I legami deboli per loro natura creano ponti, secondo le recenti acquisizioni della teoria delle reti cfr. M. Bukanan 200410 Stesso destino per il Cristianesimo se si pensa che i manuali di morale sui quali si formano generazioni di sacerdoti fa ancorariferimento, per quanto guarda l'omosessualità, alle parole di San Girolamo (?) che nel Medioevo scriveva come …Dio la notte primadi incarnarsi nel seno della vergine Maria avesse voluto sterminare tutti i pervertiti sodomiti, per poter nascere in un mondo di puri … 11 Ritorna l'idea dell'incontro sessuale leggibile in chiave rituale.12 I media riportano che le persone coinvolte negli arresti erano almeno 300.13 Si parla di "atti immorali" perché l'omosessualità ufficialmente non esiste; essa è un'invenzione occidentale.14 Così ben organizzata che a volte mi veniva il sospetto fosse stata commissionata da Amazon.com.

L'operato delle associazioni israeliane, di quelle dei diritti umani,dell'OMS per quanto riguarda la prevenzione dell'AIDS e lariflessione antropologica (sessuale, politica e medica) porteràcertamente quei frutti, i cui primi germogli cominciano adintavvedersi.L'augurio è che ci si renda conto che i diritti degli omosessualipalestinesi non sono che uno dei tanti aspetti dei diritti dell'uomo,per migliore i quali è necessaria una adeguata attenzione politicae antropologica anche su questo argomento così specifico e forsepoco accademico.Se anche alla comunità omosessuale mediorientale verrà offerta lapossibilità di integrarsi nel rispetto del ruolo che tale forma dipratica e di identità incorporata sembra avere all'interno di tutti igruppi umani, di tutte le società e non solo quelle islamiche elocalizzate nell'area del Medio Oriente, avremo forse un mattone

in più per pace e giustizia.Per ora ci rimane un campo di indagine antropologica interessantee fecondo per la comprensione non solo dei ruoli di genere, maanche di come i sistemi e gli idiomi possono mutare anche incontesti fortemente religiosi e ortodossi.

BIBLIOGRAFIA

LibriAugè Marc, Poteri di vita poteri di morte. Introduzione a un'antropologia della repressione , Cortina editore, Milano, 2003.Chebel Malek, Le corp dans la tradition au Magreb, Parigi, PUF, 1984Eickelmann, Antropologia del Medio Oriente.Fabietti Ugo, Culture in bilico antropologia del Medio Oriente, Bruno Mondadori, Milano, 2002.Herdt Gilbert, Guardian of the flutes, University of Chicago Press, 1994.Internazionale, "Essere gay nel mondo arabo", n° 546 - Anno 11Mouhammed Shukri, Il pane nudo.Patanè Vincenzo, Arabi e noi. Amori gay nel Magreb, Derive Approdi, Roma, 2002.Recherches, Trois Milliards de Pervers. Grande Encyclopédie des Homosexualités, Francia, marzo 1973.

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Said Edward, Orientalismo , Edizioni Feltrinelli.Van Aken Mauro, Facing Home. Palestinian Belonging in a Valley of Doubt, Shaker Publishing, 2003.Vercellin Giorgio, Istituzioni del mondo mussulmano, Einaudi, Torino 1996.

Siti internetwww.amnestyinternational.comwww.gay.itwww.gayarab.orgwww.gay.tv

FilmatiYossi and Jagger, Israele, 2002.Filmati sul caso della Queen Boat.Tawfik Abu Wael, Yawmiyat A'hir, Diary of a Male Whore, video '14 col, Palestina, 2001, Middle Easter Cinemas.

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Afriche in movimento: seminari sull´Africa in Bicocca

A partire da quest´anno, nell´ambito degli insegnamenti di antropologia della facoltà disc. della formazione, verrà organizzato un seminario permanente sull´Africa dal titolo

"Afriche in movimento". Si tratterà di una serie di incontri con studiosi italiani e straniericon l´obiettivo di discutere sulle dinamiche politiche sociali e culturali dell'Africa

contemporanea. Qui di seguito riportiamo i primi 3 incontri. Altri 3 verranno organizzatinel corso del secondo semestre. Luogo e orario verranno comunicati in seguito.

28 ottobre - Francesco Remotti (Università di Torino)Putrefazione e rigenerazione della vita nel bananeto nande

25 novembre - Ivo Quaranta (Università di Bologna)Politiche del silenzio:

AIDS e nuove soggettività giovanili a Nso’ (Camerun)

14 dicembre - Georg Klute (Università di Bayreuth)La poesia della rivolta tuareg

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