2003-12-03 Paura e Terrorismo

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LA REPUBBLICA 43 MERCOLEDI 3 DICEMBRE 2003 D IA R IO di Parigi «L a paura è sempre cattiva consigliera», ricorda Marc Augé, che da più di vent’anni analizza instancabil- mente la società in cui viviamo, mostrando le trasformazioni del- lo spazio urbano e l’evoluzione dei comportamenti. E’ per questo che oggi osserva con preoccupa- zione le conseguenze di un clima di paura diffuso, prodotto e ali- mentato dalle minacce reali o so- lo potenziali del terrorismo: «Nel- le nostre città oggi cresce la paura. Essa è presente in maniera diffu- sa, anche se non sempre è perce- pibile. E’ una presenza sottotrac- cia, impalpabile, ma pronta ad esplodere alla prima occasione o al primo allarme. Spesso l’indice di tale paura è proprio la presenza della polizia in un luogo conside- rato a rischio». Quali sono questi luoghi? «Sono soprattutto le stazioni, gli aeroporti, la metropolitana, ma anche i grandi magazzini o i centri commerciali. Sono quelli che in passato ho chiamato ‘non- luoghi’, vale a dire luoghi senza identità, senza memoria e senza relazioni. Luoghi di passaggio e di consumo molto frequentati, che proprio per questo diventano obiettivi potenziali del terrori- smo. In questi spazi asettici en- triamo in relazione con il resto del mondo, sul piano simbolico come su quello concreto. In aeroporto o in metropolitana, sappiamo che stiamo abbandonando lo spazio privato che di solito garantisce la nostra sicurezza, mettendoci sim- bolicamente in contatto con la to- talità del mondo esterno, anche quello magari lontanissimo, da cui però sentiamo provenire un rimbombo minaccioso. Su tali luoghi proiettiamo più facilmente le nostre paure, anche quelle che hanno poco a che ve- dere con il terrori- smo». Vuole dire che la paura del terrorismo è più simbolica che reale? «Accanto alle mi- nacce concrete, non mancano mai i fanta- smi alimentati dalla nostra perce- zione della realtà. Con la globaliz- zazione dell’economia e del- l’informazione, sappiamo ormai che ciò che accade in un luogo del pianeta può avere ricadute in un altro luogo a migliaia di chilome- tri di distanza. Il mondo è percepi- to come un’unica città dove tutto comunica, anche i pericoli. Gli at- tentati terroristici in Asia possono allora essere sentiti come una mi- naccia diretta per il nostro spazio urbano. Abbiamo l’impressione di avere la guerra in casa. Diven- tiamo tutti più vigilanti e sospet- tosi, ci sottomettiamo ai controlli senza pro- testare e perfino ci la- mentiamo quando ci sembrano troppo blandi». Le città occidentali non sono più luoghi inviolabili e la prote- zione si rivela difficile di fronte al terrorismo... «Dopo l’11 settembre, non esi- stono più luoghi preservati dal terrorismo. Non ci sono più san- tuari intoccabili. L’idea stessa di zona protetta è scomparsa. Oggi ci sentiamo minacciati in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, an- che se per fortuna non ci pensia- mo di continuo. Ma c’è anche un effetto paradossale. Attraverso l’attentato o la minaccia, i nonluo- ghi ritrovano una sorta d’identità. Il World Trade Center, ad esem- pio, era un vero e proprio nonluo- go. Con l’attentato è diventato un luogo tragicamente fondatore, un luogo di commemorazione. Da un certo punto di vista, ha acqui- stato un’identità e un senso che prima non aveva, si è caricato di simboli e di storia che lo hanno trasformato in un ve- ro luogo. Allo stesso modo, le minacce e la paura conferiscono ai nonluoghi inediti si- gnificati simbolici». La paura del terro- rismo non è l’unica presente nel- le moderne metropoli... «E’ vero, diversi tipi di paura si sovrappongono e si alimentano a vicenda. Da un lato, temiamo le minacce esterne, dall’altro, alme- no nella nostra immaginazione, il pericolo proviene pure dall’inter- no. Accanto ai terroristi stranieri, temiamo i nemici interni che met- tono in pericolo il nostro ordine e le nostre sicurezze. Spesso confondiamo gli uni e gli altri, isti- tuendo un legame tra la minaccia del terrorismo e le zone d’insicu- rezza e povertà presenti nelle città. Si teme l’esplosione nelle periferie, come l’esplosione del- l’attentato, ma a poco a poco la di- stinzione tra pericoli esterni e in- terni viene meno. E alla fine la paura è sempre paura dell’altro». Con quali conseguenze? «La minaccia viene sentita co- me onnipresente e la paura diven- ta un sistema d’interpretazione del mondo che genera fantasmi. Solo che i fantasmi sono spesso più pericolosi delle minacce reali. Un attentato, infatti, resta un inci- dente circoscritto, una fatto tragi- co che non rimette in discussione le sorti della nostra società. Al con- trario, un fossato sempre più profondo nell’immaginario, e quindi nella realtà, tra un parte e l’altra della collettività, rischia di avere conseguenze molto negati- ve per il futuro di tutti». La paura trasforma le città? «Certamente. Le nostre metro- poli si riempiono di telecamere, di controlli e di barriere, anche se na- turalmente questa era una ten- denza in atto già prima degli ulti- mi episodi terroristici. Nelle città assistiamo a un processo di com- partimentazione che produce zo- ne protette con ogni mezzo dal mondo esterno. Sono immobili, gruppi di case o interi quartieri che erigono barricate per isolarsi dal resto della città. La piazza ces- sa di essere uno spazio pubblico d’incontro e di discussione. Prefe- riamo chiuderci in casa, da dove comunichiamo con l’esterno gra- zie a internet, sebbene poi anche quello stia diventando uno spazio sempre più minacciato dai virus, dagli hackers e dai cyberterrori- sti». La paura può produrre effetti positivi? «Di solito no. Quando si agisce in preda alla paura, non si ragiona e le decisioni sono molto spesso avven- tate. A volte però le mi- nacce generano an- che nuove solidarietà. Per esorcizzare la pau- ra, la gente sente la ne- cessità di partecipare al dolore degli altri, sente il bisogno di par- lare, di confrontarsi, di uscire dal- l’isolamento. E questo è senz’altro un aspetto positivo. Tuttavia, se è giusto tenere conto di queste pau- re, per evitare che crescano a di- smisura, ciò che mi sembra im- portante è un lavoro di analisi che contribuisca a decostruirle e a di- scuterle. Solo così sarà possibile superarle, evitando che diventino paralizzanti per la società». Intervista a Marc Augé sociologo dei non-luoghi e delle città Spazi un tempo protetti si dimostrano oggi sempre meno inviolabili Mai come oggi le nostre vite appaiono insicure. Un senso di impotenza e di angoscia ci invade. Da quando i terroristi hanno minacciato di compiere attentati in Europa, le città non sembrano più inviolabili e protette come in passato. Quali sono i luoghi delle metropoli, reali e simbolici, a rischio, in cui la paura può avere il sopravvento e come vincere il nuovo sentimento di angoscia che sovrasta l’Occidente? Rispondono tre scrittori, un filosofo e un antropologo LE MINACCE CONCRETE E QUELLE SIMBOLICHE GLI OBIETTIVI POTENZIALI SONO QUELLI SENZA IDENTITÀ HO SEMPRE pensato che la paura della morte fosse la Paura Assolu- ta. Muori e che succede? Che c’è? Niente. Il buio. No. Non ci sei e basta. Era qualcosa di talmente grande da im- maginare che mi dava la nausea. Per un attimo. Un attimo infinito che cercavo di scacciare via sbuffandolo fuori co- me un gas velenoso. C’era chi mi diceva che non è così, che la gente spirata e poi tornata in vita, acciuffata all’ul- timo istante dai medici, aveva visto il proprio cadavere sul tavolo operatorio e loro, anima per un momento, si allon- tanavano verso l’alto. Con un senso di pace e armonia con il creato mai provato in vita. E dopo c’era un’altra vita. Mi- gliore. Io non ci ho mai creduto. Sapevo, come sapevo di esistere, che dopo c’era il niente. E non era la paura di mo- rire che mi agghiacciava, ma l’impossibilità di immagina- re il niente. Questo terrore non passerà, è legato come un virus al DNA, ma credo di aver trovato un vaccino che mi aiuta a conviverci. Storie dove la morte cala inesorabile e spesso inaspettata, ma lascia negli scampati un sen- so di abbandono impossibile da colmare. NICCOLÒ AMMANITI PAURA. Lenuoveangoscemetropolitane FABIO GAMBARO PAURA PAURA COME IL TERRORISMO CI HA RESI PIÙ INSICURI

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LA REPUBBLICA 43MERCOLEDI 3 DICEMBRE 2003

DIARIOdi

Parigi

«La paura è sempre cattivaconsigliera», ricordaMarc Augé, che da più di

vent’anni analizza instancabil-mente la società in cui viviamo,mostrando le trasformazioni del-lo spazio urbano e l’evoluzionedei comportamenti. E’ per questoche oggi osserva con preoccupa-zione le conseguenze di un climadi paura diffuso, prodotto e ali-mentato dalle minacce reali o so-lo potenziali del terrorismo: «Nel-le nostre città oggi cresce la paura.Essa è presente in maniera diffu-sa, anche se non sempre è perce-pibile. E’ una presenza sottotrac-cia, impalpabile, ma pronta adesplodere alla prima occasione oal primo allarme. Spesso l’indicedi tale paura è proprio la presenzadella polizia in un luogo conside-rato a rischio».

Quali sono questi luoghi?«Sono soprattutto le stazioni,

gli aeroporti, la metropolitana,ma anche i grandi magazzini o icentri commerciali. Sono quelliche in passato ho chiamato ‘non-luoghi’, vale a dire luoghi senzaidentità, senza memoria e senzarelazioni. Luoghi di passaggio e diconsumo molto frequentati, cheproprio per questo diventanoobiettivi potenziali del terrori-smo. In questi spazi asettici en-triamo in relazione con il resto delmondo, sul piano simbolico comesu quello concreto. In aeroporto oin metropolitana, sappiamo chestiamo abbandonando lo spazioprivato che di solito garantisce lanostra sicurezza, mettendoci sim-bolicamente in contatto con la to-talità del mondo esterno, anchequello magari lontanissimo, dacui però sentiamo provenire unrimbombo minaccioso. Su taliluoghi proiettiamo più facilmentele nostre paure, anche quelle chehanno poco a che ve-dere con il terrori-smo».

Vuole dire che lapaura del terrorismoè più simbolica chereale?

«Accanto alle mi-nacce concrete, nonmancano mai i fanta-smi alimentati dalla nostra perce-zione della realtà. Con la globaliz-zazione dell’economia e del-l’informazione, sappiamo ormaiche ciò che accade in un luogo delpianeta può avere ricadute in unaltro luogo a migliaia di chilome-tri di distanza. Il mondo è percepi-to come un’unica città dove tuttocomunica, anche i pericoli. Gli at-tentati terroristici in Asia possono

allora essere sentiti come una mi-naccia diretta per il nostro spaziourbano. Abbiamo l’impressionedi avere la guerra in casa. Diven-tiamo tutti più vigilanti e sospet-

tosi, ci sottomettiamoai controlli senza pro-testare e perfino ci la-mentiamo quando cisembrano troppoblandi».

Le città occidentalinon sono più luoghiinviolabili e la prote-zione si rivela difficile

di fronte al terrorismo...«Dopo l’11 settembre, non esi-

stono più luoghi preservati dalterrorismo. Non ci sono più san-tuari intoccabili. L’idea stessa dizona protetta è scomparsa. Oggi cisentiamo minacciati in qualsiasimomento e in qualsiasi luogo, an-che se per fortuna non ci pensia-mo di continuo. Ma c’è anche uneffetto paradossale. Attraversol’attentato o la minaccia, i nonluo-ghi ritrovano una sorta d’identità.Il World Trade Center, ad esem-pio, era un vero e proprio nonluo-

go. Con l’attentato è diventato unluogo tragicamente fondatore, unluogo di commemorazione. Daun certo punto di vista, ha acqui-stato un’identità e un senso cheprima non aveva, si ècaricato di simboli e distoria che lo hannotrasformato in un ve-ro luogo. Allo stessomodo, le minacce e lapaura conferiscono ainonluoghi inediti si-gnificati simbolici».

La paura del terro-rismo non è l’unica presente nel-le moderne metropoli...

«E’ vero, diversi tipi di paura sisovrappongono e si alimentano avicenda. Da un lato, temiamo leminacce esterne, dall’altro, alme-no nella nostra immaginazione, ilpericolo proviene pure dall’inter-no. Accanto ai terroristi stranieri,temiamo i nemici interni che met-tono in pericolo il nostro ordine ele nostre sicurezze. Spessoconfondiamo gli uni e gli altri, isti-tuendo un legame tra la minacciadel terrorismo e le zone d’insicu-

rezza e povertà presenti nellecittà. Si teme l’esplosione nelleperiferie, come l’esplosione del-l’attentato, ma a poco a poco la di-stinzione tra pericoli esterni e in-terni viene meno. E alla fine lapaura è sempre paura dell’altro».

Con quali conseguenze?«La minaccia viene sentita co-

me onnipresente e la paura diven-ta un sistema d’interpretazionedel mondo che genera fantasmi.Solo che i fantasmi sono spessopiù pericolosi delle minacce reali.Un attentato, infatti, resta un inci-dente circoscritto, una fatto tragi-co che non rimette in discussionele sorti della nostra società. Al con-trario, un fossato sempre piùprofondo nell’immaginario, equindi nella realtà, tra un parte el’altra della collettività, rischia diavere conseguenze molto negati-ve per il futuro di tutti».

La paura trasforma le città?«Certamente. Le nostre metro-

poli si riempiono di telecamere, dicontrolli e di barriere, anche se na-turalmente questa era una ten-denza in atto già prima degli ulti-mi episodi terroristici. Nelle cittàassistiamo a un processo di com-partimentazione che produce zo-ne protette con ogni mezzo dalmondo esterno. Sono immobili,gruppi di case o interi quartieriche erigono barricate per isolarsidal resto della città. La piazza ces-sa di essere uno spazio pubblicod’incontro e di discussione. Prefe-riamo chiuderci in casa, da dovecomunichiamo con l’esterno gra-zie a internet, sebbene poi anchequello stia diventando uno spaziosempre più minacciato dai virus,dagli hackers e dai cyberterrori-sti».

La paura può produrre effettipositivi?

«Di solito no. Quando si agiscein preda alla paura, non si ragiona

e le decisioni sonomolto spesso avven-tate. A volte però le mi-nacce generano an-che nuove solidarietà.Per esorcizzare la pau-ra, la gente sente la ne-cessità di partecipareal dolore degli altri,sente il bisogno di par-

lare, di confrontarsi, di uscire dal-l’isolamento. E questo è senz’altroun aspetto positivo. Tuttavia, se ègiusto tenere conto di queste pau-re, per evitare che crescano a di-smisura, ciò che mi sembra im-portante è un lavoro di analisi checontribuisca a decostruirle e a di-scuterle. Solo così sarà possibilesuperarle, evitando che diventinoparalizzanti per la società».

Intervista aMarc Augésociologo deinon-luoghi edelle città

Spazi un tempoprotetti sidimostrano oggisempre menoinviolabili

Mai come oggi le nostre viteappaiono insicure. Un sensodi impotenza e di angoscia ci

invade. Da quando iterroristi hanno minacciato

di compiere attentati inEuropa, le città non

sembrano più inviolabili eprotette come in passato.Quali sono i luoghi delle

metropoli, reali e simbolici,a rischio, in cui la paura puòavere il sopravvento e comevincere il nuovo sentimento

di angoscia che sovrastal’Occidente? Rispondono

tre scrittori, un filosofo e un antropologo

LE MINACCECONCRETEE QUELLESIMBOLICHE

GLI OBIETTIVIPOTENZIALISONO QUELLISENZA IDENTITÀ

HO SEMPRE pensato che la pauradella morte fosse la Paura Assolu-

ta. Muori e che succede? Che c’è? Niente. Il buio. No.Non ci sei e basta. Era qualcosa di talmente grande da im-maginare che mi dava la nausea. Per un attimo. Un attimoinfinito che cercavo di scacciare via sbuffandolo fuori co-me un gas velenoso. C’era chi mi diceva che non è così,che la gente spirata e poi tornata in vita, acciuffata all’ul-timo istante dai medici, aveva visto il proprio cadavere sultavolo operatorio e loro, anima per un momento, si allon-tanavano verso l’alto. Con un senso di pace e armonia conil creato mai provato in vita. E dopo c’era un’altra vita. Mi-gliore. Io non ci ho mai creduto. Sapevo, come sapevo diesistere, che dopo c’era il niente. E non era la paura di mo-rire che mi agghiacciava, ma l’impossibilità di immagina-re il niente. Questo terrore non passerà, è legato come unvirus al DNA, ma credo di aver trovato un vaccino che miaiuta a conviverci. Storie dove la morte cala inesorabile espesso inaspettata, ma lascia negli scampati un sen-so di abbandono impossibile da colmare.

NICCOLÒ AMMANITI

PAURA.

Le nuove angosce metropolitaneFABIO GAMBARO

PAURAPAURA

COME IL TERRORISMO CI HA RESI PIÙ INSICURI

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44 LA REPUBBLICA MERCOLEDI 3 DICEMBRE 2003

I LIBRI

LE CITTA’COLPITE

MARTINHEIDEGGEREssere etempo,Longanesi1976

SOERENKIERKEGAARDTimore etremore,Rizzoli 1986

JEANBAUDRILLARDLo spirito delterrorismo,RaffaelloCortinaEditore 2002

SIGMUNDFREUD L’angoscia, inIntroduzioneallapsicoanalisi ealtri scritti,BollatiBoringhieri1989

ROSELLINABALBIMadre paura:quell’istintoantichissimoche dominala vita epercorrela storiaMondadori1984

ZYGMUNTBAUMANLa societàdell’incertezza,il Mulino1999

THOMASHOBBESLeviatano,Laterza 1997

ELIASCANETTIMassa epotere,Adelphi 1981

NICCOLÒAMMANITIIo non hopaura,Einaudi 2001

AUGUSTSTRINDBERGInferno,Adelphi 1972

THOMASBERNHARD

Perturbamento,Adelphi 1981

La chiamano «paura», in realtà è«angoscia». La paura è un ottimomeccanismo di difesa che, di

fronte a un pericolo determinato,adotta strategie di attacco o di fuga.L’angoscia, invece, è un sentimentoche insorge di fronte all’indetermina-tezza di una minaccia non identifica-bile, non localizzabile, non prevedibi-le, ma vissuta come certa, come qual-cosa che, prima o poi, capiterà. Dal-l’angoscia non ci si può difendere.

L’arma del terrorismo, che è poi l’ar-ma di chi non ha eserciti per combat-tere ad armi pari, è la distribuzionedell’angoscia, la stessa arma dei giova-ni che, non potendo competere con gliadulti (i genitori) ad armi pari, li ricat-tano seminando angoscia con i lorocomportamenti imprevedibili, le loronottate senza ritorno, le loro trasgres-

sioni nascoste, i loro discorsi al limitedi una improbabile o probabile de-vianza.

Dopo la guerra in Iraq e non dopol’11 settembre, anche molti italiani vi-vono nell’angoscia. Non te la dichiara-no, perché nella nostra cultura non bi-sogna ostentare paura o debolezza,ma la rivelano i loro comportamentiche disertano la metropolitana, i viag-gi aerei, gli assembramenti di massa.Una mano alla diffusione dell’ango-scia la danno anche i nostri politiciche, nel propagare i successi delle ope-razioni di polizia, ti fanno anche sape-re che il terrorista abita la tua città, e dalì opera per i suoi disegni di distruzio-ne. Un po’ di segretezza in questo sce-nario non sarebbe male. Ma che vole-te. Un «ve l’avevo detto» dopo unastrage accredita sempre chi governa.

LA NOSTRA ANIMA

CHE SI DIFENDE

DALL’ANGOSCIA

COME REAGIRE AL SENSO DI INSICUREZZA

Proprio la paura dellebestie feroci fu quella cheper tempo lunghissimo fuinstillata nell’uomo,compresa la belva che egliporta e teme dentro di sé

Così parlò Zarathustra,Adelphi 1968

FRIEDRICH NIETZSCHE

Aver paura significapensare continuamente asé. Il pauroso si crede,assai più degli altriuomini, il bersaglio diavvenimenti ostili

Sommario di decomposizione,Adelphi 1996

E. M. CIORAN

Il 2 agosto, alle 10,25, alla stazione,sala d’attesa di seconda classe,esplode un ordigno ad altissimopotenziale: ottantacinque i mortie duecento i feriti.

L’11 aprile, all’imbrunire, esplodeun’autobomba nella City londinese,vicino alla Borsa: tre morti e oltrenovanta feriti. L’attentato vienerivendicato dall’Ira

Il 20 marzo, al mattino, sedici stazionidella metropolitana diventano camerea gas: dodici morti e tremilatrecentointossicati. La strage è rivendicatadalla setta religiosa Aum Shinri Kyo.

credenti». Qualcuno l’ha inter-pretato come una profezia mi-nacciosa che va avverandosi. Inrealtà si lega a una battaglia per-sa dai guerrieri di Maometto,che avrebbero potuto essereannientati se i nemici non aves-sero avuto timore di infierire:Dio, si sostiene, mise la pauranelle loro anime per proteggerei suoi fedeli. Ma chi crede nonconoscerà mai quella sensazio-ne. Vale anche per chi ha una fe-de diversa dall’Islam. Qui la re-ligione è tutto. Scaccia la logicae apre la porta al fatalismo.

Come al funzionario dellaBanca centrale non veniva inmente di evitare il ponte dei

IL SENTIMENTO DI TERRORE

CHE IL FATALISMO ANNULLA

PERCHÉ IL MONDO ISLAMICO HA IMPARATO A CONVIVERE CON LA PAURA

GABRIELE ROMAGNOLI

Beirut

C’è — quest’uomo cheincontro spesso in unapalestra nel centro

storico di Beirut. E’ un alto fun-zionario della Banca centrale li-banese. Come tutti qui, amaraccontare i tempi della guerracivile. Dice che il suo ufficio eranella parte occidentale dellacittà, l’abitazione in quellaorientale. Andare dall’una al-l’altra rappresentava unascommessa, spesso mortale. Labanca aveva attrezzato stanzedormitorio, ma lui preferivaprendere l’auto e viaggiare ver-so casa. Per farlo doveva passa-re ogni sera sotto un ponte sulquale si appostavano i cecchini.Senza prevedibilità alcuna,quelli sparavano.

«Perché insisteva a correrequel rischio? – gli ho domanda-to – Non aveva paura?».

Mi ha guardato con sincerostupore e una punta di compas-sione. Ha risposto: «Non c’èniente di cui avere paura, le co-se succedono quando è il loromomento. Ognuno ha il suogiorno per morire e fino a quel-la data non rischia. Poi, quandoarriva, niente lo può salvare».

Il suo modo di pensare è dif-fuso in Medio Oriente. La pauraè un concetto che non esiste e seaffiora viene respinto. Sul sitoIslamonline.net, a uno studen-te che gli chiedeva che cosa fos-se e che effetti avesse, un pro-fessore di studi islamici ha ri-sposto: «Avendo paura impri-gioniamo l’organo che ci con-sente l’equilibrio, il cuore. Loimpregniamo di sfiducia e di ri-dicolo, atrofizzando la partemigliore di noi. Non dobbiamoavere paura. Di più: non possia-mo, perché il destino è già deci-so e possiamo solo rimetterci adesso».

Gli antidoti che cancellano lapaura sono tre: la fede religiosa,il fatalismo e la convivenza quo-tidiana con il pericolo.

Con fede si intende principal-mente, ma non esclusivamen-te, quella musulmana. Nell’I-slam l’ignoto non spaventa,perché è noto alla volontà divi-na, quindi è la cosa migliore perl’uomo che gli va incontro. Qas-sem, uno dei fondatori di Hez-bollah, movimento religioso ecombattente del Libano, hadetto: «La data della nostramorte viene scritta da Dio e re-gistrata dagli angeli. Accadequando è dovuta. Uno può star-sene nascosto in cantina, attra-versare la strada o andare acombattere. Nessuna di questeazioni può ritardare o anticipa-re la sua fine: muore quando è ilsuo momento. Questo vale an-che per i martiri: scelgono sol-tanto il modo in cui morire, iltempo era già destinato. Perquesto non hanno paura». Ed èvero: basta guardare i video-messaggi che lasciano prima disuicidarsi. Sono sereni. Lo era-no gli uomini del commandodell’11 settembre. Lo era, perfi-no, la giovane Sanaa, la cui fineera stata “pre-scritta” a soli 17anni, quando, all’inizio degliAnni Ottanta, si fece esploderelasciando un nastro in cui para-gonava il giorno della sua mor-te a quello di un matrimoniocon il destino. Come può averepaura chi crede che tutto siaineluttabile? Un discusso passodel Corano afferma: «Instillere-mo il terrore nei cuori dei non

momento. Se una madre perdetre figli in combattimento, nonmaledice la guerra, perché pen-sa che sarebbe successo co-munque. E se anche il quarto fi-glio decide di arruolarsi, ne ac-cetta la volontà perché riflessodi una più grande, che ne ha giàstabilito la sorte. Poi non dirà:«Me li hanno portati via tutti»,ma «Sono tornati insieme». Alfondo di questo atteggiamentoc’è un misto di speranza e di-sperazione. Sostituisce la paurae ha per fattore ultimo l’abitudi-ne a convivere con avvenimen-ti violenti e con la sofferenza chene deriva. Quello che per noi inOccidente è l’eccezione, qui è laregola. E non si può avere pauraper sempre e per tutto. Il traumadi New York è nato dalla sgo-mento della prima, imprevista,volta. Città come Beirut e Bag-dad hanno una “ground zero” alposto del cuore. La gente rac-conta che, durante la guerra ci-vile, un palazzo veniva sventra-to al mattino e al pomeriggio,mentre ancora le ambulanzeraccattavano cadaveri, i negoziaccanto riaprivano, gli ambu-lanti parcheggiavano di fronte iloro carretti e strillavano i nomidelle merci, nel caffè gli uominifumavano lenti guardando lemacerie e parlando d’altro. E’una forma di esorcismo così ne-cessaria e potente da essere pe-netrata nel Dna di interi popoli.

Ho scritto questo articolo suun aereo che volava da Beirut aParigi. Al momento del decolloho notato che due passeggerisi sono fatti il segno della cro-ce e poi si sono avvinghiati aibraccioli delle poltrone. In se-guito li ho sentiti parlare: unoera francese, l’altro italiano.Qualche musulmano ha pre-gato, ma nell’ora stabilita,mentre eravamo tranquilla-mente in alta quota e nessunopiù aveva paura.

cecchini, nessuno mai pense-rebbe di stare alla larga dalle zo-ne dove si trovano i Mc Do-nald’s per timore dei minaccia-ti attentati anti americani. Pen-sano: «Se qualcosa deve acca-dere, accadrà quando e dove èdovuto». Non esistono proba-bilità più o meno alte, esiste unsolo possibile destino: alloraperché allarmarsi? Si può tenta-re di attraversare il mare su unabagnarola per arrivare in Euro-pa, perché il naufragio non è unrischio, non nella maniera incui l’intendiamo noi. Se qual-cuno annega, significa che sa-rebbe morto anche restandonel suo villaggio, in quell’esatto

HENRY MOORELe immagini

di questo Diariosono disegni

di Henry Moore,eseguiti durantei bombardamenti

di Londranella Seconda

guerra mondiale

UMBERTO GALIMBERTI

In tutto il Medio Orienteè diffuso pensare checiò che accade dovevadi necessità accadere

La fede religiosa e laconvivenza quotidiana

con il pericolo sonoantidoti al timore

Bologna 1980 Londra 1992 Tokyo 1995

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LA REPUBBLICA 45MERCOLEDI 3 DICEMBRE 2003

LA MIA VITA RUBATAAL TEMPO DEI KAMIKAZE

PERCHÉ HO DECISO DI NON AVERE NESSUN TIMORE RISPETTO A CIÒ CHE ACCADE

NATHAN ENGLANDER

(segue dalla prima pagina)

Soltanto un paio di settimanefa, ho saputo, leggendo unsaggio di Adam Cohen, che

la frase è d’attribuirsi, invece, alpoeta romano Orazio e che suo-na, più poeticamente: “Dulce etdecorum est propatria mori” (È dol-ce e dignitoso mori-re per la propria pa-tria), e inoltre, che,durante la PrimaGuerra Mondiale,essa era stata adot-tata dagli inglesiper esemplificarel’onore di andare acombattere ( lastessa Inghilterranella quale Trum-peldor soggiornòprima di partire perla Palestina dove fuucciso). La frase èentrata nella linguaebraica in manieraquasi naturale e siadatta bene all’incessante neces-sità di nuove truppe che vadanovolentieri a combattere.

Mi trasferii in Israele propriodurante un periodo in cui, perbreve tempo, si ebbe la sensazio-ne che quella frase potesse passa-re di moda. Assieme alla promes-sa di una pace vera e duratura, inIsraele si diffondeva l’individuali-smo e sempre più persone comin-ciavano a ritenere che la propriamorte in battaglia forse non era,dopotutto, cosa dolce e buona.

Arrivai a Gerusalemme dopol’assassinio di Rabin e durante unsusseguirsi senza sosta di sangui-nosi attacchi contro i civili (unaserie di attentati suicidi, che inquel glorioso periodo di pace ap-parve come una vera ondata diterrore). Avevo un per me insolitoatteggiamento positivo. Quandosi trattava di accettare certi fattiovvii, sfoggiavo apertamente un

consapevole della violenza chemi circondava, avrei detto e riba-dito a chiunque, che il posto doveegli viveva era altrettanto perico-loso. Se qualcuno preoccupatoper me avesse chiamato da Cittàdel Vaticano, gli avrei risposto chelì la vita era altrettanto a rischio,

giacché in ognimomento avreb-be potuto cader-gli in testa un pez-zo d’opera d’arte.

Vi dirò quandoricominciai a pro-vare paura. Vi diròquando, di conse-guenza, smisi difare discorsi suquanto fosse si-cura Gerusalem-me, quanto fossenormale la vita lì ecome, per me, an-dare a mangiare almercato il giornodopo un attentatodiventò sempremeno un atto di

sfida e sempre più un modo di di-mostrare a me stesso che avevo laforza di andare avanti, come se lavita, il giorno dopo, fosse statanormale – anche se non lo era –. Ilcambiamento avvenne con la se-conda Intifada, quando ben pre-sto diventò chiaro, secondo me,che decisioni terribili, terribili,venivano prese, che i leader di en-trambe le parti stavano sacrifi-cando i loro cittadini. Vite non sa-crificate su una strada che condu-ceva alla pace, ma in una campa-gna tesa a spezzare la volontà del-l’altra parte. Ebbi paura quandomi resi conto che la tanto ovvialegge della causa-effetto era igno-rata. Non fu l’intensificarsi dellaviolenza, ma il mio improvvisocapire le intenzioni, a portare consé la paura.

Non trovavo niente di eroiconell’andare al cinema, nessunavera presa di posizione nell’usci-re per andare a mangiare un pez-zo di pizza (anche se si saltava peraria).

Per quanto sia grande il perico-lo, non credo che la frase «è cosabuona morire per il proprio pae-se» si adatti alla vita quotidiana aGerusalemme. È sempre stata, esarà sempre, una frase di guerrie-ri e di campi di battaglia.

Il sacrificio di questi giorni èpassivo, e il bilancio delle vittimeè composto solo di persone chesemplicemente svolgevano lapropria vita. La minaccia è cam-biata quando i soldati partono percombattere un nemico chiamatosemplicemente terrore, e quan-do, sempre di più, si ha l’impres-sione che le vittime abitino nellenostre città e stiano solo aspet-tando di essere tirate fuori dai rot-tami di un bus a Gerusalemme odalle macerie di edifici a New Yorko a Istambul o a Riyadh.

Da due anni e mezzo sono ri-tornato a Manhattan, e come aGerusalemme, ora vivo in quelloche è una costante situazione diallarme contro il terrore. Qui ci ar-riva dal Homeland Security De-partment e ha un codice a colori,così che noi possiamo calibrare lanostra paura, come ci istruisconodall’alto. Ma ho trovato un modoa New York per vivere sotto unacostante minaccia senza sentirmiminacciato. È semplicementequello di vivere la vita per la pro-pria città e per se stessi. Animatoda questo spirito, ho deciso di nonavere paura di niente. (Traduzione di Guiomar Parada)

SHININGPadre, madree figlio in unhotel deserto,tra apparizioniinquietanti eleggitemporalistravolte. DiStanleyKubrick 1980

PROFONDOROSSOUn pianista èil testimoneinvolontariodell’omicidiodi unamedium. DiDario Argento1975

PSYCOGiovanedonna finiscenell’hotel diunopsicopaticoche la uccidesotto ladocciaDi AlfredHitchcock1960

ROSEMARY’SBABYI servizievolie invadentivicini di untetrocondominiodi New Yorksono in realtàuna settasatanicaDi RomanPolanski1968

NONAPRITEQUELLAPORTANel profondoTexas cinqueragazzi siimbattono inuna famigliadi pervertitideditiall’omicidioe alcannibalismoTobe Hopper1974

LA SCALA ACHIOCCIOLAUna tranquillacittadina delNew Englandè funestata dauna catena didelitti controgiovani donnemenomate.Di RobertSiodmak1946

I FILM

Ma, notizia dopo notizia, avverti-mento dopo avvertimento, l’angosciadilaga e, come nei deliri paranoici, sidissemina su tutte le cose che diventa-no terribilmente sospette. Si eleva inciascuno di noi la soglia di vigilanza,diventiamo più guardinghi, più so-spettosi. Il luogo pubblico, che è poi illuogo della socializzazione, diventa illuogo del pericolo, mentre il privato, lafamiglia diventa il luogo della sicurez-za. Dentro casa ci si fida. Fuori si diffi-da.

E così il sociale collassa, e col socialeparte dell’essenza umana che gli anti-chi greci avevano individuato quandodefinivano l’uomo «animale sociale».Svilupperemo egoismi, solitudini, dif-fidenze, sospetti. Prima del disastroterroristico avremo creato una societàcosì poco fiduciaria e solidale che sarà

il vero disastro senza vittime di san-gue.

Conviveremo comunque abbastan-za decentemente anche con il terrori-smo, perché, siccome l’angoscia è co-stitutiva della nostra struttura psichi-ca, basterà trasferirla dal piano psichi-co a quello reale: non più angoscia delfuturo, della mancanza di lavoro, del-l’amore che non c’è, dei figli che chis-sà come crescono, ma angoscia delterrorismo. Un evento esterno ai no-stri angoscianti vissuti psichici. Qual-cosa di preciso che fa pulizia dei fanta-smi della nostra mente. Il nemico è là enon chissà dove.

Finiremo per liberarci dall’angosciaed avere semplicemente paura. Impo-verimento psichico, senz’altro. Maforse anche la nostra anima aveva bi-sogno di semplificazione.

Il 25 luglio una bomba esplode nellastazione della metropolitana di Saint-Michel. I morti sono 7, i feriti 60.L’attentato è attribuito ai terroristialgerini del Gia.

Comincia la “Seconda Intifada”.Inizia un’escalation tra attentatisuicidi palestinesi e rappresaglieisraeliane. I morti israeliani sono piùdi 800, i palestinesi più di 2000.

L’11 settembre due arei dirottati dakamikaze abbattono le “TwinTowers”. I morti sono circa 3000, gliattentatori fanno parte della rete “alQaeda” di Osama Bin Laden.

La vera vittoria delterrorismo consistenell’aver precipitatol’intero Occidentenell’ossessione dellasicurezza

Power infernoRaffaello Cortina 2003

JEAN BAUDRILLARD

atteggiamento di sfida e un’as-senza di paura che un giorno si sa-rebbe presa un’ampia rivincita.

Ero convinto, con un certo spi-rito spavaldo, che ci fossero coseper le quali valeva la pena morire,e che se una persona veniva ucci-sa a Gerusalemme mentre si oc-cupava delle proprie faccende – ementre israeliani e palestinesi sisforzavano sinceramente per ar-rivare a una pace – si trattava diuna perdita accettabile. E pur

L’origine delle grandie durevoli società deveessere stata non giàla mutua simpatiadegli uomini, ma ilreciproco timore

De Cive, Utet 1988

THOMAS HOBBES

Come a New York misono appropriato del

vecchio senso di sfida cheavevo a Gerusalemme

Niccolò Ammaniti, scrittore, è autore del bestseller Ionon ho paura, pubblicato da Einaudi.

Marc Augé ha diretto l’Ecole des Hautes Etudes diParigi. Tra i suoi libri Nonluoghi (Eletheura).

Nathan Englander, scrittore americano, ha pubblicatoda Einaudi Per alleviare insopportabili impulsi.

Parigi 1995 Gerusalemme 2000-2003 New York 2001