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Il mondo bizantino i

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Il mondo bizantino

i

L’Impero romano d’Oriente (330-641)a cura di Cécile Morrisson

ii

L’Impero bizantino (641-1204)a cura di Jean-Claude Cheynet

iii

L’Impero greco (1204-1453)a cura di Angeliki Laiou

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Il mondo bizantinoi

L’Impero romano d’Oriente (330-641)

a cura di Cécile Morrisson

Edizione italianaa cura di Silvia Ronchey e Tommaso Braccini

Giulio Einaudi editore

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Redazione: Paolo Stefenelli.

Ricerca iconografica: Maria Virdis.

Traduzioni: Tommaso Braccini, pp. xxiii-lxxxiii, 5-322, 487-91;Massimo Scorsone, pp. 325-485.

Titolo originale Le monde byzantin, I. L’Empire romain d’Orient (330-641)© 2004 Presses Universitaires de France

© 2007 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

www.einaudi.it

ISBN 978-88-06-18610-4

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Indice

p. xvii Presentazione dell’edizione italiana di Silvia Roncheyxxii Nota editoriale di Tommaso Braccinixxiii Prefazionexxvii Introduzione metodologica e bibliografica

lxxxv Avvertenza

L’Impero romano d’Oriente (330-641)

parte prima La continuità dell’Impero romano in Oriente

cécile morrisson

i. Gli avvenimenti: prospettiva cronologica5 1. Costantino, fondatore dell’Impero cristiano7 2. Costanzo II, Giuliano, la guerra persiana e il ritorno all’unità dell’Impero (337-63)

11 3. La dinastia valentiniana e Teodosio (363-95)19 4. Dall’unità alla divisione dell’Impero romano (395-410). I Goti e i Vandali in

Occidente e la presa di Roma (410)21 5. L’Impero d’Oriente sotto Teodosio II (408-50): ortodossia e salvezza dell’Impero24 6. I successori di Teodosio II. Goti e Isaurici al potere a Costantinopoli (450-91)27 7. La fine dell’Impero d’Occidente. Teodorico e gli Ostrogoti in Italia28 8. La stabilizzazione all’inizio del vi secolo (491-527)30 9. Giustiniano: i primi anni, il Codice e la rivolta di Nika (527-32)31 10. Gli inizi della riconquista: la guerra vandalica e i primi successi in Italia (533-40)33 11. La peste, la guerra persiana e il seguito della lunga guerra gotica. Le prime on-

date sclavene e cutrigure nei Balcani (540-54)36 12. Nuovi assalti nei Balcani. La pace con la Persia (554-67)37 13. Giustino II e Tiberio. L’arrivo dei Longobardi e degli Slavi (565-82)39 14. Maurizio e il ritorno all’equilibrio delle forze sulla frontiera orientale e balcanica

(582-602)42 15. Foca e gli inizi dell’ultima guerra persiana (602-10)44 16. Eraclio di fronte alla conquista persiana della Siria e dell’Egitto (610-23)46 17. La controffensiva di Eraclio in Armenia e la vittoria sulla Persia (623-30). La sla-

vizzazione dei Balcani49 18. L’emergere dell’Islam e gli inizi della conquista araba (631-41)

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bernard flusin

ii. Trionfo del cristianesimo e definizione dell’ortodossiai. la cristianizzazione dell’impero

p. 53 1. La lotta contro il paganesimo58 2. L’ebraismo60 3. Manicheismo, gnosi, cristiani dissidenti

ii. la definizione dell’ortodossia

62 1. La crisi ariana69 2. Le lotte cristologiche: Efeso e Calcedonia (431-51)75 3. La crisi calcedoniana

parte seconda Le istituzioni dell’Impero

denis feissel

iii. L’imperatore e l’amministrazione imperiale85 1. Introduzione: il regime imperiale e i compiti dello Stato88 2. L’imperatore e le sue funzioni96 3. L’ordine senatorio al servizio dello Stato99 4. Funzioni e organi del governo centrale

109 5. I quadri territoriali e l’amministrazione locale

bernard flusin

iv. Le strutture della Chiesa imperialei. il vescovo, la sua chiesa, la sua città

119 1. Chiesa locale e città120 2. Laici e chierici122 3. Il vescovo124 4. Sacerdoti, diaconi, chierici subalterni125 5. Finanze e beni della Chiesa127 6. Istituzioni caritatevoli

ii. la gerarchia dei vescovi: metropoliti e patriarchi

127 1. Province e metropoli128 2. Le istituzioni sovrametropolitane

iii. roma e costantinopoli

130 1. Roma136 2. Costantinopoli

viii Indice

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iv. alessandria, antiochia, gerusalemme; altre circoscrizioni

p. 141 1. Alessandria143 2. Antiochia145 3. Gerusalemme146 4. Cipro; Africa

v. l’imperatore, i concili, il diritto canonico

147 1. L’imperatore149 2. Concili ecumenici150 3. Il diritto canonico

constantin zuckerman

153 v. L’esercitoi. le strutture dell’esercito: il dispositivo e gli effettivi

154 1. Una frontiera fortificata158 2. L’esercito da campagna: la fanteria e la cavalleria165 3. I soldati-frontalieri: il fallimento di un modello socio-militare173 4. Verso un nuovo sistema di difesa territoriale177 5. Un nuovo esercito da campagna

ii. le condizioni del servizio

181 1. Il reclutamento184 2. Equipaggiamento, addestramento e paga187 3. Lo svolgimento della carriera e il congedo

190 iii. la chiesa di fronte al servizio militare

192 iv. epilogo. verso l’epoca mediobizantina

parte terza La civiltà bizantina e i suoi fondamenti

cécile morrisson

vi. La capitale197 1. Da Bisanzio a Costantinopoli: le origini (330-60)201 2. Lo sviluppo della capitale (360-542)205 3. Riflusso e declino (metà del vi - metà del vii secolo)

cécile morrisson

vii. Popolamento, economia e società dell’Oriente bizantinoi. spazio e clima, popolamento e demografia

207 1. Spazio e clima208 2. Risorse naturali e minerarie

Indice ix

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p. 209 3. Una popolazione numerosa ed eterogenea210 4. La ripartizione della popolazione213 5. La demografia213 6. La peste di Giustiniano e il calo della popolazione

ii. economia e società rurale

215 1. Produzioni agricole218 2. Proprietà e sfruttamento219 3. Organizzazione sociale

iii. economia e società urbana

221 1. La società urbana: diversità, disuguaglianze, assistenza e violenza224 2. Le città e il loro declino224 3. L’economia urbana e la sua organizzazione225 4. Le relazioni città-campagna

iv. commercio e scambi

226 1. Percorsi e trasporti terrestri227 2. Le rotte fluviali e marittime228 3. Gli scambi sulla base dei testi e della ceramica229 4. L’annona e il suo trasporto230 5. Il commercio

231 v. la moneta, strumento delle finanze imperiali e degli scambi economici

234 vi. conclusione

bernard flusin

viii. La vita religiosa. I cristiani nel mondo, il monachesimoi. i cristiani nel mondo

237 1. Sacramenti, liturgia241 2. Nuove forme di pietà247 3. Verso una città cristiana?

252 ii. il monachesimo

253 1. L’Egitto e i suoi modelli: anacoresi e cenobitismo260 2. La Siria263 3. La Palestina e Gerusalemme269 4. L’Asia Minore270 5. Costantinopoli271 6. Istituzionalizzazione: il tagma monastico

bernard flusin

273 ix. La cultura scrittai. una cultura dominante: l’ellenismo cristiano

274 1. Paideia ellenica e cristianesimo

x Indice

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p. 275 2. Oralità e scrittura277 3. Il greco, lingua dominante

ii. l’insegnamento e le sue istituzioni

278 1. I tre gradi dell’insegnamento280 2. Il ruolo della città e dello Stato282 3. Principali centri d’insegnamento

284 iii. la letteratura di lingua greca

285 1. Importanza della letteratura profana286 2. Vitalità della letteratura cristiana

iv. le letterature copta e siriaca

289 1. Letteratura copta291 2. Letteratura siriaca

293 v. verso i secoli oscuri

jean-michel spieser

297 x. L’arte imperiale e cristiana: unità e diversità

i. un’arte «profana»

299 1. L’arte nelle città300 2. Un’arte imperiale302 3. Un’arte per un’élite raffinata

304 ii. il cristianesimo nell’arte

306 1. Lo sviluppo dell’architettura cristiana310 2. La decorazione delle chiese315 3. Le arti suntuarie

iii. dalla fine del vi alla metà del vii secolo

317 1. Icone ed eulogie319 2. Una nuova sensibilità cristiana

parte quarta Le province

bernard bavant

xi. L’Illirico

i. l’illirico nel contesto delle strutture amministrative

325 1. L’Illirico nel contesto dell’Impero: incertezze dell’assetto amministrativo329 2. Strutture amministrative dalla fine del iv al principio del vii secolo

Indice xi

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ii. costanti della vita regionale fino alle invasioni slave

p. 335 1. L’ambiente e le vie di comunicazione338 2. L’assetto antropico del territorio342 3. Il radicamento del cristianesimo

iii. dalla fine del iv all’inizio del v secolo: una prosperità regionale fragile

e insicura

344 1. Gli avvenimenti: incursioni gotiche e unniche346 2. Le città e il contesto urbano351 3. Le campagne353 4. La produzione e gli scambi358 5. La politica difensiva: ruolo del limes e difesa in profondità

iv. da giustiniano a eraclio: l’epoca dei grandi sconvolgimenti

359 1. Incursioni e successivi insediamenti graduali degli Slavi367 2. L’Illirico nella politica imperiale371 3. Conseguenze dell’insediamento degli Slavi

jean-pierre sodini

xii. L’Asia Minorei. lo zoccolo anatolico: il suolo e gli uomini

377 1. Definizione geografica: estensione e diversità379 2. Diversità di popolamento

ii. l’amministrazione

380 1. L’amministrazione centrale e regionale381 2. Le vie di comunicazione terrestri, l’amministrazione e la difesa del territorio383 3. Amministrazione locale: città e villaggi

389 iii. il cristianesimo

390 1. La lotta contro il paganesimo392 2. La lotta contro il giudaismo392 3. Le sette e le eresie394 4. L’ascesa del monachesimo394 5. Il prestigio spirituale delle mete di pellegrinaggio

iv. produzione, demografia e vita economica

395 1. Produzione agricola398 2. La produzione artigianale

401 v. importazioni e trasporti marittimi

401 vi. conclusione

xii Indice

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georges tate

xiii. La Siria-Palestinai. dati costanti: unità e diversità fisiche e antropologiche

p. 403 1. Le condizioni naturali404 2. Lingue e identità407 3. Il quadro amministrativo408 4. I paesaggi

416 ii. economia e società

417 1. Le città422 2. Le campagne424 3. I rapporti città-campagna

iii. espansione e mutamenti (330 - metà del vi secolo)

425 1. Crescita demografica ed economica426 2. Espansione e divisioni nella cristianità428 3. Cambiamenti nei rapporti sociali428 4. La crescita del dissenso

iv. le difficoltà e la fine della siria bizantina (540-636)

429 1. I flagelli432 2. I cambiamenti

435 v. conclusione

jean gascou

xiv. L’Egitto bizantino (284-641)437 1. Periodizzazione, generalità storiche440 2. Il contesto geografico442 3. Stili di vita marginali443 4. La vita rurale444 5. Lavoro e servizi445 6. Caratteri etnici446 7. Greci e Copti447 8. Greco e copto449 9. Latinizzazione e romanizzazione450 10. I comprensori provinciali451 11. Il governo452 12. Le città455 13. Finanze pubbliche457 14. L’esercito459 15. La società461 16. Educazione e vita intellettuale

Indice xiii

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p. 462 17. Il cristianesimo464 18. Monachesimo467 19. I rivali del cristianesimo469 20. Alessandria471 21. L’Egitto e Bisanzio

475 Conclusioni

481 Sintesi cronologica

487 Glossario

493 Indice analitico

xiv Indice

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Indice delle illustrazioni

nel testo:

p. 8 1. Le dinastie costantiniana, valentiniana, teodosiana e relativi legami matrimo-niali.

Carte.

12-13 1. Le divisioni amministrative dell’Impero secondo la Notitia Dignitatum.

41 2. La frontiera orientale.

200 3. Costantinopoli nel vi secolo.

267 4. I monasteri nei pressi di Gerusalemme.

327 5. L’Illirico orientale.

378 6. L’Asia Minore.

405 7. La Siria-Palestina.

439 8. L’Egitto.

fuori testo, tra le pp. 130 e 131:

1. Veduta della «colonna bruciata», ossia di Costantino, a Istanbul, 330 circa.(Foto DeAgostini / Archivi Alinari).

2. L’obelisco di Teodosio nell’Ippodromo a Istanbul, 390 circa.(Foto Werner Forman Archive / Scala, Firenze).

3. L’imperatore Teodosio e la sua corte al Circo, particolare dell’obelisco di Teodosio nel-l’Ippodromo a Istanbul, 390 circa.(Foto Werner Forman Archive / Scala, Firenze).

4. La Porta Curva, veduta delle mura di Teodosio a Istanbul, prima metà del v secolo.(Foto Werner Forman Archive / Scala, Firenze).

5. La Porta d’Oro, veduta delle mura di Teodosio a Istanbul, prima metà del v secolo. (Foto Werner Forman Archive / Scala, Firenze).

6. Veduta esterna di Santa Sofia a Istanbul, vi secolo (con aggiunte successive).(Foto Werner Forman Archive / Scala, Firenze).

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7. Veduta interna di Sant’Irene a Istanbul, vi secolo (ristrutturata nell’viii).(Foto Werner Forman Archive / Scala, Firenze).

8. Veduta interna di Santa Sofia a Istanbul, vi secolo.(Foto Werner Forman Archive / Scala, Firenze).

9. Gruppo dei tetrarchi in piazza San Marco a Venezia, porfido, primo quarto del ivsecolo.(Foto Scala, Firenze).

10. Testa del cosiddetto «colosso di Costantino», bronzo, prima metà del iv secolo.Roma, Musei Capitolini. (Foto The Art Archive).

11. Frammenti del «colosso di Costantino», marmo, prima metà del iv secolo.Roma, Musei Capitolini, cortile. (Foto Scala, Firenze).

12. Il cosiddetto «colosso di Barletta», bronzo, v secolo.(Foto Lessing/Contrasto).

13. Testa dell’imperatore Arcadio, marmo, fine iv secolo.Istanbul, Museo Archeologico. (Foto Lessing/Contrasto).

14. Sarcofago imperiale, porfido, v secolo.Istanbul, Museo archeologico, cortile. (Foto The Art Archive).

15-17. Testa in intreccio di viti; Uomo che munge le capre; Uomo con asino e cesto.Particolari dei mosaici dal Gran Palazzo di Istanbul, 500 circa.Istanbul, Museo dei Mosaici. (Foto Scala, Firenze).

18. Cristo nell’abside, mosaico, vi secolo.Salonicco, Hosios David. (Foto Ullstein / Archivi Alinari).

19. Icona di Cristo, encausto su tavola, vi secolo.Sinai, Museo di Santa Caterina. (Foto Bridgeman / Archivi Alinari).

20. Icona di San Pietro, encausto su tavola, vi secolo.Sinai, Museo di Santa Caterina. (Foto Photoservice Electa).

21. Icona della Vergine, encausto su tavola, vi secolo.Sinai, Museo di Santa Caterina. (Foto Bridgeman / Archivi Alinari).

22. Anta del dittico consolare di Areobindo, avorio, vi secolo.Parigi, Musée national du Moyen Âge - Thermes de Cluny. (Foto Gérard Blot, RMN / ArchiviAlinari).

23. Arianna, avorio, prima metà del vi secolo.Ibidem.

24. Giacomo e Rebecca, pagina miniata dalla cosiddetta «Genesi di Vienna», vi secolo.Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. (Foto AKG Images / Photoservice Electa).

25. L’entrata di Cristo a Gerusalemme, pagina miniata dal codice purpureo di RossanoCalabro, vi-vii secolo.Rossano Calabro, Museo Diocesano. (Foto Archivi Alinari).

26. Pilato mostra Cristo e Barabba alla folla, pagina miniata dal codice purpureo di Ros-sano Calabro, vi-vii secolo.Ibidem.

xvi Indice delle illustrazioni

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Presentazione dell’edizione italiana

1. Un fantasma si aggira per l’Europa.

Un fantasma si aggira per l’Europa del xxi secolo, dopo che il Seco-lo Breve, il xx, ne ha liquidato sanguinosamente gli ultimi discendenti.È il fantasma di Bisanzio ad aleggiare sulle zone incandescenti del no-stro mondo attuale, sulle sue aree di conflitto, sulle sue faglie d’attrito,dai Balcani al Caucaso, dall’Anatolia alla Mesopotamia.

È stato un grande storico francese, Fernand Braudel, a insegnarci aguardare la storia, in particolare la storia cosiddetta medievale, indivi-duando come sua unità centrale il Mediterraneo e chiamando in causaquello che ha denominato il Mediterraneo Maggiore: la «zona spaziodi-namica, che rievoca un campo di forze magnetico o elettrico», estesa fi-no al Mar Rosso, al Golfo Persico, all’Oceano Indiano, in cui si è irra-diata la civiltà mediterranea. Una civiltà che, secondo Braudel, si misu-ra da questi irradiamenti, poiché «il destino della civiltà mediterraneaè più facile a leggersi nei suoi margini esterni che non al centro».

Non è un caso che il Mediterraneo Maggiore di Braudel coincida conle zone di attrito, di contrapposizione etnica, di crisi del nascente xxi

secolo. Che proprio quelle zone rappresentino oggi il problema maggio-re per la storia presente, di cui, da contemporanei, non possiamo chefare la cronaca evenemenziale, quella «degli eventi singoli visti dai con-temporanei al ritmo della loro breve vita». Una storia, quindi, non del-le onde lunghe, ma delle increspature brevi, di superficie: una storia-racconto soggetta alla nostra contingente visione e filosofia della storia,se non all’ideologia e alla propaganda politica.

Le cose cambiano, però, se smettiamo di ignorare che queste areegeopolitiche sono abitate dal fantasma dell’Impero «romano» di Bisan-zio, essendo le stesse in cui per undici secoli l’Impero bizantino, nellasua continuità con l’Impero romano, ha composto i conflitti e amalga-mato le continue migrazioni di popoli, considerate causa della cosiddet-ta caduta dell’Impero romano d’Occidente nel 476, in un’unica civiltà:quella romana d’Oriente, appunto, ai cui primi secoli è dedicato il pri-mo volume di questa monumentale opera.

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xviii Presentazione dell’edizione italiana

Prodotto ultimo della scuola del grande Paul Lemerle, curato daun’autorità della bizantinistica mondiale come Cécile Morrisson e scrit-to insieme a lei dagli altri massimi bizantinisti francesi facenti capo al-l’ormai leggendario Centre d’Histoire et Civilisation de Byzance dellarue Cardinal Lemoine a Parigi, L’Impero romano d’Oriente è dedicatonon solo alla narrazione cronologica, ma anche e soprattutto all’analisidelle strutture e delle istituzioni, alla ricognizione delle realtà materia-li e alla ricostruzione delle categorie spirituali, espresse sia nella politi-ca, sia nella cultura letteraria e artistica, e sia nel centro sia nelle crucia-li e fervide periferie di quella che per consuetudine gli studiosi delimi-tano come la prima fase storica dell’Impero, dall’inaugurazione dellacapitale di Costantino sul sito dell’antica Bisanzio nel 330 sino agli ini-zi della conquista araba, alla metà del vii secolo.

2. L’Impero romano non è mai caduto.

Un’oceanica distesa di antiche colonne e statue investita da un’im-mensa onda di mosaici, una foresta d’oro e di reliquie fiorita di cupole,invasa da una moltitudine di santi, ma incessantemente percorsa ancheda mercanti di ogni razza, sommersa da una circolazione monetaria va-riegata, solcata da un’inestinta rete viaria, costellata di fortezze e sta-zioni di posta e posti di dogana, cosparsa di monasteri e biblioteche tra-boccanti di innumerevoli icone e inestimabili libri in cui la tradizioneletteraria e filosofica classica non cessò mai di rinascere e moltiplicarsi:Bisanzio, a chi si accosta abbastanza da vicino alla sua civiltà da coglier-ne le dimensioni e osservarne le sfaccettature, come consente di fare giàil primo volume di quest’opera destinata a restare normativa per l’inse-gnamento a ogni livello della storia e della cultura bizantine, può sem-brare un mondo a sé, esotico, metafisico, quasi un’allostoria.

Ma se guardiamo la nostra civiltà mettendo al suo centro il Mediter-raneo e tenendo conto degli eventi della sua sponda orientale, non pos-siamo non constatare anzitutto che Costantinopoli, la città che Costan-tino fondò, non era una Seconda Roma solo di nome, o solo perché l’im-peratore suo eponimo, si dice, volle costruirla come un vero e proprioclone della prima, e i suoi primi successori vi individuarono perfino –pur con qualche forzatura – sette colli. Lo era e lo sarebbe stata di fat-to, perché la tradizione statale e l’eredità giuridica dell’Impero romanotardoantico vi si trasferirono per resistervi fino al 1453 – e, in realtà,forse anche oltre.

Gli spostamenti di popoli, le Völkerwanderungen cui si ritiene dovu-

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ta la cosiddetta caduta dell’Impero romano nel 476, non hanno interes-sato solamente l’Europa occidentale, ma anche l’entità geopolitica in cuil’Impero romano si era trasferito, la stessa che da quel momento in poichiamiamo «Impero bizantino». Se consideriamo anzitutto questa cir-costanza, come gli autori del nostro libro fanno, analizzandone singo-larmente le casistiche, non possiamo non riconoscere che quel partico-lare accidente, la caduta in mano «barbarica» della dismessa Prima Ro-ma e dell’Italia, non è poi così importante dal punto di vista di una storiadel Mediterraneo che non sia strettamente eurocentrica, o cattocentri-ca, o francocentrica, come di fatto è troppo spesso stata.

Nel v secolo l’ondata di genti straniere o «barbariche» che travolsela pars Occidentis investì anche la pars Orientis. Ma fu inglobata all’in-terno delle sue strutture di potere, che erano per l’appunto le strutturedell’Impero romano tardoantico; cosicché non solo non ne provocò lafine, ma, mescolandosi alle sue élites e rinnovandole, inaugurò nell’Im-pero romano d’Oriente un meccanismo di ricambio e ibridazione socia-le ed etnica – quello che un grande storico come Alexander Kazhdan hachiamato il «dinamismo verticale delle élites bizantine» – che avrebbealimentato il suo protrarsi lungo tutto quello che chiamiamo il Medioe-vo e fino alle soglie di quella che chiamiamo Età moderna.

Fu così che in tutte le sue strutture amministrative e burocratichel’Impero fu un melting pot, un calderone in cui la paideia greca e la cul-tura statale romana amalgamavano una varietà di razze e popoli: greci ebalcanici, serbi, dalmati, bulgari, ungari, peceneghi, russi e variaghi, cu-mani, alani, georgiani, càzari, turchi selgiuchidi, armeni e curdi, oltre-ché gli ebrei, i molti arabi, i mercenari normanni e italiani, e dopo ilDuecento gli eredi dei crociati franchi. Destinati a divenire, sempre ecomunque, rhomaioi.

Fu così che l’aristocrazia bizantina divenne fin da subito multiraz-ziale, provenendo dal grande crocevia di un Impero euroasiatico, inter-nazionale per vocazione geografica oltre che politica e diplomatica. Sele alleanze matrimoniali delle dinastie porfirogenite e dei grandi gene co-stantinopolitani immisero nella genealogia imperiale di Bisanzio sanguefranco, germanico, slavo, turco, mongolo, circasso, nei mille e cento an-ni di vita dell’Impero il principio dell’assimilazione etnica aveva riguar-dato non solo le dinastie coronate, ma tutta la classe notabile bizantina.Per le vie di Costantinopoli si potevano incontrare i russi, gli svedesi, ibaltici insieme agli orientali. Si mescolavano, come scrive ancora unostorico turco quattrocentesco, «le bellezze greche, franche, russe, un-gheresi, cinesi, khotanesi … le belle dai morbidi capelli, uguali alle chio-me degli idoli, appartenenti alle razze più diverse». La mescolanza raz-

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xx Presentazione dell’edizione italiana

ziale dà una fisionomia non mediterranea ai giovani «che suscitano tur-bamento, incontri paradisiaci … ragazzi dall’alta taglia e dalle gote tin-te di rosa … dalle ciglia simili ad arcate … dal naso affilato … dalle tem-pie ricurve»; conferisce una bellezza soprannaturale alle «fanciulle si-mili alle stelle della Lira, fresche come il gelsomino, dalle guance violette,dai capelli ondulati, dalla statura di cipresso, dal volto simile al sole, dal-la fronte paragonabile alla luna … hanno la cintura del Sagittario, le ci-glia della costellazione della Vergine e i capelli dei Pesci…»

Ma che l’Impero romano non sia in effetti mai caduto i sudditi di Co-stantino e dei suoi successori ne erano consapevoli da sempre. Non a ca-so continuavano a considerare e chiamare «romano», a buon diritto, illoro formidabile stato. Se guardiamo la nostra storia come questo artico-lato manuale ci consente di fare, inforcando, per così dire, occhiali bi-zantini, adottando cioè l’ottica della superpotenza militare, economica,politica e anche culturale egemone nel Medioevo mediterraneo (anche seoggi la nostra memoria collettiva occidentale ha censurato o rimosso que-sto dato, se solo si pensa all’accezione negativa, dura a morire, che han-no assunto i termini «bizantino» e «bizantinismo»), non possiamo nonarrivare alla conclusione che la cultura – nel senso più lato del termine –antica abbia semplicemente percorso un’ellissi, così come l’aveva com-piuta la sua capitale, rifondata spostando il baricentro dell’Impero un po’più a est. E non certo per un’ispirazione improvvisa e arbitraria, ma se-guendo il flusso degli investimenti della classe senatoria, e la molteplicitàdi cause e necessità di ciò che chiamiamo storia.

3. Perché, oggi, Bisanzio.

Se supponiamo che l’Impero romano e in generale la civiltà classicanon sia affatto finita in quello che viene considerato il momento della«fine dell’Antichità» e dell’inizio del Medioevo, ma abbia compiutoun’ellissi di undici secoli, ci sarà più facile realizzare quanto direttamen-te la grande civiltà umanistica di Bisanzio, con il suo susseguirsi di rina-scenze, abbia passato il suo testimone all’Europa, dando vita a ciò chechiamiamo «il» Rinascimento, e facendo tornare alla Prima Roma il cul-to dei classici e la filosofia platonica: quella che in età moderna si rico-stituirà, per usare l’espressione di Eugenio Garin, in «ideologia dell’e-versione europea», ma che a Bisanzio, contrariamente all’Occidente,non si era mai estinta, così come non aveva mai cessato di perpetuarsila trasmissione dei saperi e dei testi classici.

Riguardo poi alla parte propriamente politica dell’eredità del primo

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imperatore che rese il cristianesimo religione di Stato e tuttavia fondòil cosiddetto cesaropapismo – l’estromissione del clero dal potere tem-porale divinizzato nella figura dell’autocrate secolare – e riguardo all’e-redità civile del suo Impero – la multietnicità, la già citata capacità diamalgamare e integrare sempre diverse etnie in un’unica politeia ammi-nistrativa –, questa duplice eredità si sarebbe trasmessa, alla caduta del-la Polis di Costantino, in parte all’Impero ottomano, suo diretto con-quistatore, in parte a quello russo, suo immediato continuatore. Impe-ri multietnici, dove la sopravvivenza della cultura romano-bizantina fuapertamente assicurata.

Perché, se nel 1453 venne meno l’osmosi culturale tra Oriente e Eu-ropa occidentale, non si estinse, in quelle due propaggini nord- e sud-orientali, la vocazione imperiale di mediazione tra le etnie. I sultani nonsoltanto applicarono il diritto romano in quanto diritto consuetudina-rio dei popoli cristiani soggiogati, ma mutuarono con rispetto e preci-sione strutture amministrative e fiscali dell’Impero bizantino. Lo stes-so vale per il mondo russo. Ivan IV Groznij, com’è noto, fece discende-re il proprio potere da quello dei cesari, ossia da una successioneininterrotta di imperatori romani e bizantini.

Guardando la storia da questo punto di vista, è forse meno arduocomprendere il turbolento esordio del xxi secolo. Faglie di attrito anti-chissime, preromane e prebizantine, hanno ricominciato a entrare in mo-to complesso nel momento in cui gli eredi di Bisanzio si sono disgrega-ti. Il fantasma di Bisanzio aleggia in tutte le aree di irradiazione dellaciviltà multietnica romana, in cui gli imperi multinazionali subentratiavevano saputo tenere a freno gli scontri fra etnie, dall’Illiria al Cher-soneso nel caso del blocco sovietico, nelle antiche pianure della Sogdia-na e della Bactriana, che oggi chiamiamo Afghanistan, Iran e Iraq, perquello ottomano. Dopo il disgregarsi dei due Imperi, l’uno all’inizio el’altro alla fine del Novecento, ravvivare la memoria attraverso lo stu-dio del loro e nostro comune denominatore bizantino può e deve esse-re un punto di forza, quando parliamo oggi di «scontro di civiltà» traOriente islamico e Occidente cristiano.

silvia ronchey

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Nota editoriale

L’edizione italiana del primo volume di Le monde byzantin presentauna serie di significativi aggiornamenti e ampliamenti rispetto alla pub-blicazione originale.

In primo luogo, l’editore francese ha fornito un’ampia lista di corre-zioni e integrazioni; e anche alcuni degli autori dei saggi di cui è com-posta l’opera, oltre a verificare e approvare le scelte dei traduttori, han-no comunicato un’ulteriore serie di preziose emendazioni e aggiunte. Labibliografia (ove possibile italianizzata) e l’indice analitico del volume,questi strumenti indispensabili per la proficua fruizione dell’opera, so-no stati a loro volta rielaborati, in modo da renderli di più facile consul-tazione (in particolare, nel secondo caso, con l’inserzione di sottolemmiche aiutano a districarsi tra i molteplici riferimenti cui si rimanda per levoci principali). Alcuni estesi rimandi bibliografici presenti all’internodel testo, che rischiavano di affaticare il lettore e di interrompere il fi-lo della trattazione, sono stati convertiti, conformemente alla consuetu-dine scientifica, in note di chiusura.

Soprattutto, infine, grazie alla disponibilità dell’editore italiano si èpotuto creare ex novo un ampio inserto iconografico a colori, una sortadi «capitolo per immagini» aggiuntivo che introduce una dimensionecomplementare a quella del testo, per una più diretta comprensione divari aspetti inerenti l’architettura, l’urbanistica, la storia dell’arte e delcostume dell’Impero romano d’Oriente.

tommaso braccini

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Prefazione

Il fondatore della «Nouvelle Clio», il nostro maestro Paul Lemerle(1902-89), aveva evidentemente previsto di dedicare un volume dellacollana alla storia di Bisanzio, che tanto ha contribuito a rinnovare. Ildestino non l’ha voluto. Il nostro dovere era quello di consegnare al pub-blico universitario la necessaria messa a punto sulla questione. Ma par-liamo, piuttosto, di introduzione, giacché il materiale e la massa dellepubblicazioni sono così abbondanti, che nello spazio accordato si è do-vuto necessariamente concentrare e addensare l’esposizione, senza nuo-cere troppo, speriamo, alla sua chiarezza.

Questo primo volume della serie di tre che copriranno la storia del-l’Impero d’Oriente fino alla sua caduta nel 1453 è consacrato al perio-do fondante, che va dall’inaugurazione della capitale di Costantino sulsito dell’antica Bisanzio nel 330 agli inizi della conquista araba, alla metàdel vii secolo, dalla quale vengono determinati i limiti territoriali ridot-ti dell’Impero mesobizantino. La trattazione si conclude simbolicamen-te con la fine del regno di Eraclio nel 641, senza attribuire a quest’ulti-mo, come si faceva in precedenza, riforme sistematiche dell’amministra-zione e dell’esercito. Ogni scansione spaziale e temporale è in effetti piùo meno arbitraria e discutibile, e l’aggettivo «bizantino» – che derivadall’antico nome di Costantinopoli e dal xvii secolo serve per comoditàper designare l’Impero d’Oriente – ha ricevuto accezioni cronologicheassai differenti. Se il 1453 è una fine celebre e poco contestata, i puntidi partenza variano di parecchi secoli, dal periodo tetrarchico (Stein) edalle sue riforme, che innervano l’Impero di Costantino, alla spartizio-ne dell’Impero alla morte di Teodosio nel 395, all’inizio del vii secoloper Jones (602), se non addirittura all’incoronazione di Carlo Magnonell’800 per Bury. La nostra scelta sottolinea due avvenimenti o feno-meni notevoli: da un lato la fondazione di Costantinopoli, che alla finecomporta lo spostamento del centro di gravità dell’Impero verso il Me-diterraneo orientale, dall’altro la conversione dell’imperatore e la cri-

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xxiv Prefazione

stianizzazione progressiva dello Stato e della società; e noi analizziamole nuove linee di forza di un Impero che non ha niente di decadente.

L’Impero diviene progressivamente un impero greco e cristiano sen-za cessare di essere romano, come verrà affermato nella propria titola-tura dai sovrani che più tardi – e fino alla fine – si qualificheranno sul-le proprie monete come ek theou basileis Rhomaion (per grazia di Dioimperatori dei Romani). Queste linee di demarcazione politiche, religio-se e sociali non sono pertinenti per tutti i settori, e nello studio delloStato e dell’esercito D. Feissel e C. Zuckerman non hanno mancato dirisalire da una parte al 284, e dall’altra di spingere alcune analisi oltre il641. Ci saranno dunque inevitabilmente delle sovrapposizioni tra la fi-ne del presente volume e l’inizio del secondo, diretto da J.-C. Cheynet,e dedicato al periodo «mesobizantino» (641-1204).

Soprattutto, il periodo «protobizantino» trae le sue radici, senzaidentificarvisi totalmente, da quello che un tempo si chiamava, per unacontrapposizione cronologica con l’alto Impero, ma talora anche conqualche disprezzo e tenace pregiudizio, «basso Impero». Dopo i saggisuggestivi di H.-I. Marrou [134] e P. Brown [143], la nozione e le suestesse realtà sono state vigorosamente riabilitate a vantaggio del concet-to di «tarda Antichità» (lo spätrömisch inventato da A. Riegl nel 1901),esplorato in innumerevoli studi e in particolare nell’eccellente rivista«Antiquité Tardive» nata a Parigi nel 1993. Gli inizi di Bisanzio deri-vano evidentemente dalla storia della tarda Antichità; in questo caso,abbiamo cercato di ridurre il più possibile le prevedibili sovrapposizio-ni (concernenti la storia «evenemenziale», amministrativa e militare,economica e sociale) con studi riguardanti genericamente l’Impero ro-mano tardoantico, incentrando la nostra trattazione sulle province orien-tali, che risultano conseguentemente privilegiate anche per quanto ri-guarda le trattazioni regionali. Infatti, sul modello dei volumi della«Nouvelle Clio» dedicati all’alto Impero, il piano seguito in questo ca-so, dopo un’introduzione sugli avvenimenti politici e religiosi (capp. i eii), distingue le strutture e i tratti comuni (Stato, Chiesa, esercito, eco-nomia e società, vita religiosa, culturale e artistica, capp. iii-x) dallo stu-dio delle diversità regionali (capp. xi-xiv). In questa sede non è stata de-dicata una trattazione specifica all’Africa e all’Italia, riconquistate daGiustiniano nel vi secolo, ma il volume sul periodo mesobizantino di-retto da J.-C. Cheynet tornerà sulla situazione di queste province anco-ra bizantine per un tempo più o meno lungo dopo il 641.

Ogni sovrapposizione non è necessariamente un male, né ogni scon-finamento una manifestazione d’annessionismo. Dal tempo degli incon-tri del Collège de France del 1985, pubblicati in Hommes et richesses dans

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l’empire byzantin, I. ive-viie siècle [159], siamo convinti dell’utilità di un

approccio comune, di fronte a varie realtà, tra «occidentalisti» o «anti-chisti» e «bizantinisti», separati da etichette universitarie. In manieraanaloga ad altri studiosi (ne fanno testimonianza i volumi di Società ro-mana e impero tardoantico (SRIT ) diretti da A. Giardina [162], quelli del-la Storia di Roma, III [152] e i capitoli dei recenti volumi della Cam-bridge Ancient History diretti da A. Cameron e P. Garnsey [141]), datrent’anni a questa parte abbiamo visto le nostre prospettive rovescia-te e rinnovate dall’esplosione di nuovi dati dell’archeologia (in senso la-to, compresa la numismatica) o dell’archeometria o delle scoperte epi-grafiche. Questo volume dà loro lo spazio che meritano, in particolarenei capitoli riguardanti l’economia e le province.

I capitoli individuali sono stati coordinati per quanto possibile, la-sciando ai rispettivi autori la propria libertà di pensiero, in particolareper quanto riguarda i punti dibattuti dalla ricerca, sui quali si attira l’at-tenzione nel corso della trattazione. Pur in maniera troppo stringata,desideriamo infine ringraziare l’editore e i direttori della collana per lalunga pazienza, il Centre d’histoire et civilisation de Byzance per la pre-parazione delle mappe, e Dumbarton Oaks per l’ausilio procurato dallesue ricche risorse bibliografiche.

Prefazione xxv

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Introduzione metodologica e bibliografica

abbreviazioni di opere e riviste.

AASO «The Annual of the American Schools of Oriental Research»AB «Analecta Bollandiana»ABSA «The Annual of the British School at Athens»AFLN «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli»AHB «The Ancient History Bulletin»AnIsl «Annales islamologiques»AnnalesESC «Annales. Économies, Sociétés, Civilisations»ANRW Aufstieg und Niedergang der römischen WeltAnTard «Antiquité Tardive»APapyrol «Analecta Papyrologica»APF «Archiv für Papyrusforschung und verwandte Gebiete»AS «Anatolian Studies»BAR «British Archaeological Reports»BASP «The Bulletin of the American Society of Papyrologists»BCH «Bulletin de Correspondance hellénique»BEFAR «Bibliothèque des Écoles françaises d’Athènes et de Rome»BGU Ägyptische Urkunden aus den staatlichen Museen zu Berlin. Griechische

Urkunden, Berlin 1895 sgg.BHG Bibliotheca hagiographica graeca e Auctarium [40]BIFAO «Bulletin de l’Institut français d’Archéologie orientale»BMGS «Byzantine and Modern Greek Studies»BSAF «Bulletin de la Société nationale des antiquaires de France»ByzF «Byzantinische Forschungen»BZ «Byzantinische Zeitschrift»CahCM «Cahiers de civilisation médiévale»CahHistM «Cahiers d’histoire mondiale»CArch «Cahiers archéologiques»CCAB «Corsi di cultura sull’arte ravennate e bizantina»CE «Chronique d’Égypte»CFHB Corpus Fontium Historiae Byzantinae [62]ChHist «Church History»CI Codex Iustinianus [66]

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xxviii Introduzione metodologica e bibliografica

CIAC «Actes du Congrès International d’Archéologie Chrétienne»CIC Corpus Iuris CivilisCISAM Centro italiano di Studi sull’alto medioevo, SpoletoCRAI «Comptes rendus de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres»CRIPEL «Cahiers de Recherche de l’Institut de Papyrologie et d’Égyptologie de

Lille»CrSt «Cristianesimo nella Storia»CSCO Corpus Scriptorum Christianorum Orientalium [63]CSHB Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae [65]CTh Codex Theodosianus [67]CUF «Collection des Universités de France» [68]DOP «Dumbarton Oaks Papers»EA «Epigraphica Anatolica»EHB Economic History of Byzantium [518]EHR «English Historical Review»EO «Échos d’Orient»HLB «Harvard Library Bulletin»Hommes Hommes et richesses dans l’empire byzantin [159]HSPh «Harvard Studies in Classical Philology»ICS «Illinois Classical Studies»IGLSyr Inscriptions grecques et latines de la Syrie, 7 voll., Paris 1929-70IstMitt «Istanbuler Mitteilungen»JARCE «Journal of the American Research Center in Egypt»JbAC «Jahrbuch für Antike und Christentum»JEChrSt «Journal of Early Christian Studies»JHS «Journal of Hellenic Studies»JJP «The Journal of Juristic Papyrology»JJS «Journal of Jewish Studies»JMH «Journal of Military History»JÖB «Jahrbuch der österreichischen Byzantinistik» (prima del 1969, JÖBG)JRA «Journal of Roman Archaeology»JRAS «Journal of the Royal Asiatic Society»JRMES «Journal of Roman Military Equipment Studies»JRS «Journal of Roman Studies»JS «Journal des Savants»JTS «Journal of Theological Studies»Loeb «Loeb Classical Library» [72] MEFRA «Mélanges de l’École française de Rome. Antiquité»MEFRM «Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Âge»MGH Monumenta Germaniae Historica:

AA Auctores AntiquissimiEp Epistolae

MiChA «Mitteilungen zur chrislichen Archäologie»

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Introduzione metodologica e bibliografica xxix

Mirac. Dem. Les plus anciens miracles de saint Démétrius [211]NC «The Numismatic Chronicle»NMS «Nottingham Medieval Studies»Nov. Corpus Iuris Civilis, III. Novellae, a cura di Schoell-KrollOCP «Orientalia Christiana Periodica»ODB The Oxford Dictionary of Byzantium [13]PBSR «Papers of the British School at Rome»PCPhS «Proceedings of the Cambridge Philological Society»PG Patrologiae cursus completus. Series Graeca, a cura di J.-P. MignePL Patrologiae cursus completus. Series Latina, a cura di J.-P. MignePLRE The Prosopography of the Later Roman Empire [158]PO Patrologia Orientalis [78]RE Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft [14]REAug «Revue des Études Augustiniennes»REB «Revue des études byzantines»RechPap «Recherches de papyrologie»REG «Revue des études grecques»RH «Revue Historique»RIC The Roman Imperial Coinage [111]RIS «Rivista Italiana di Storia»RN «Revue Numismatique»RQH «Revue des questions historiques»RSR «Revue des Sciences Religieuses»RThL «Revue théologique de Louvain»SB Sammelbuch griechischer Urkunden aus AegyptenSC «Sources chrétiennes» [81]SCI «Scripta Classica Israelica»SCO «Studi classici e orientali»SO «Symbolae Osloenses»SEG Supplementum Epigraphicum Graecum, Leiden 1923 sgg.SRIT Società romana e impero tardoantico [162]TAPhA «Transactions of the American Philological Association»TIB Tabula Imperii Byzantini [31]TM «Travaux et Mémoires», Cnrs - Collège de FranceTRW «Transformation of the Roman World»VetChr «Vetera Christianorum»VTIB Veröffentlichungen der Kommission für die Tabula Imperii ByzantiniWIH «War in History»YClS «Yale Classical Studies»ZBB «Zentralblatt für Bibliothekswesen»ZKG «Zeitschrift für Kirchengeschichte»ZPE «Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik»ZRVI «Zbornik Radova Vizantolo‰kog Instituta»

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xxx Introduzione metodologica e bibliografica

strumenti bibliografici generali.

Si può consultare la bibliografia analitica e critica (brevi cenni nelle principali lingue eu-ropee) della «Byzantinische Zeitschrift» (due numeri all’anno). Questa bibliografia, ini-ziata nel 1892, è disponibile su cd-rom per il periodo 1991-2002 ed è aggiornata annual-mente (K. G. Saur, München-Leipzig 2002).

[1] karayannopoulos j., weiss g., Quellenkunde zur Geschichte von Byzanz, Wies-baden 1982, 2 voll. (invecchiato ma ricchissimo).

[2] boutet d. (a cura di), Guide interdisciplinaire des études médiévales, Paris-Genè-ve (in corso di stampa).

Cata loghi di bibl ioteche e informazioni onl ine.

www.college-de-france.fr/chaires/chaire23sito del Centre d’Histoire et Civilisation de Byzance, collegamenti con le istitu-zioni e i principali cataloghi bibliotecari, liste delle pubblicazioni francesi e bi-bliografia dei ricercatori.

portail.univ-lyon2.fr/z3950/pmc/page.phprete «Premier Millénaire Chrétien», catalogo delle principali biblioteche parigi-ne che offrono risorse su questo periodo.

quinet.college-de-france.frcatalogo delle biblioteche specializzate del Collège de France, tra cui le bibliote-che bizantine.

www.doaks.orgsito di Dumbarton Oaks (Washington DC), catalogo della sua eccezionale biblio-teca e versione elettronica di varie pubblicazioni importanti (vedi oltre).

www.unifr.ch/scantsito dell’Università di Friburgo (Svizzera), bibliografie e utili indicazioni per glistudenti.

www.fordham.edu/halsall/byzantiumsito americano che offre bibliografie, scelte di testi tradotti, programmi di corsie collegamenti.

dizionari, enciclopedie e atlanti.

[3] Dictionnaire d’archéologie chrétienne et de liturgie, 15 voll., Paris 1907-53 (invec-chiato, ma assai ricco).

[4] Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, a cura di Ch. Daremberg e E. Sag-lio, Paris 1877-1916.

[5] Dizionario enciclopedico del Medioevo, 3 voll., a cura di A. Vauchez (ed. it. a cu-ra di C. Leonardi), Roma-Parigi-Cambridge 1998.

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Introduzione metodologica e bibliografica xxxi

[6] Dictionnaire d’histoire et de géographie ecclésiastiques, a cura di A. Baudrillart, Pa-ris 1912 sgg.

[7] Dictionnaire de spiritualité, Paris 1936-95.[8] Dictionnaire de théologie catholique, Paris 1903-47 (confessionalmente schierato,

ma assai utile).[9] Encyclopédie de l’Islam, Leiden 1960 sgg.

[10] Lexikon des Mittelalters, Stuttgart 1977-99 (anche in cd-rom).[11] Der Kleine Pauly, München 1979 (sunto della RE).[12] Der Neue Pauly, Stuttgart-Weimar 1996 sgg. (già usciti: voll. 1-8 (A-Opus), 13-

14 (Rezeptions- und Wissenschaftsgeschichte, A-Fo, Fr-Ky).[13] The Oxford Dictionary of Byzantium, a cura di A. Kazhdan, 3 voll., Oxford 1991.[14] pauly-wissowa, Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, 83 voll.,

Stuttgart 1894-1972; Gesamtregister (con cd-rom).[15] andresen c., denzler g., Wörterbuch der Kirchengeschichte, München 1982.[16] cross f. l., Oxford Dictionary of the Christian Church, London 1957.[17] Reallexikon zur Byzantinischen Kunst, Stuttgart 1966 sgg.[18] Reallexikon für Antike und Christentum, Stuttgart 1950 sgg.

Lingue c lass iche.

Greco.[19] du cange, Glossarium ad scriptores mediae et infimae graecitatis, Paris 1688, rist.

Paris 1943, Graz 1958 (indispensabile).[20] liddell h. g., scott r., A Greek-English Lexicon, Oxford 1968.[21] lampe g. w. h., A Patristic Greek Lexicon, Oxford 1961-68.[22] sophocles e. a., Greek Lexicon of the Roman and Byzantine Periods (145 BC -

1100 AD), Boston 1870 (nuova ed. Cambridge Mass. 1914).[23] estienne h., Thesaurus linguae graecae, nuova ed. a cura di Ch. B. Hase e L. Din-

dorf, Paris 1831-65 (rist. Graz 1954, 9 voll.).[24] Thesaurus Linguae Graecae, Digital Library of Greek Literature, www.tlg.uci.edu

(fondamentale; più di 1800 autori dalle origini al xv secolo).[25] trapp e., Lexikon zur byzantinischen Gräzität besonders des 9.-12. Jahrhunderts,

Wien 1994 sgg., 4 voll. (da a a kÎfeusij).

Latino.Vedi jacques f., scheid j., Rome et l’intégration de l’empire, I. Les structures de l’Empi-re romain, Paris 1990, p. x.

Topograf ia .

[26] Dictionnaire d’histoire et de géographie ecclésiastiques, Paris 1912.[27] Großer historischer Weltatlas, I. Vorgeschichte und Altertum; II. Mittelalter, a cu-

ra di H. Bengtson e V. Milojãiç, München 1954.[28] talbert r. (a cura di), Barrington Atlas of the Greek and Roman World, Prince-

ton 2000 (il migliore per il nostro periodo, eccellente cartografia in scala1:500.000 e 1:1.000.000).

[29] Westermanns Atlas zur Weltgeschichte, a cura di H. Stier e E. Kirsten, Brunswick1956.

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xxxii Introduzione metodologica e bibliografica

[30] Tabula Imperii Romani (carte in scala 1:1.000.000 pubblicate secondo i Paesi mo-derni).

[31] Tabula Imperii Byzantini, Wien 1976 sgg. (repertorio e commenti dei siti cono-sciuti tramite i testi o l’archeologia, eccellenti carte in scala 1:800.000).

[32] jedin h., martin j., Atlas zur Kirchengeschichte. Die christlichen Kirchen in Ge-schichte und Gegenwart, Freiburg ecc. 1970.

[33] van der meer p., mohrmann c., Atlas de l’Antiquité chrétienne, Paris 1960.

fonti letterarie.

Le fonti letterarie per la storia del periodo protobizantino in greco, in latino e nelle lin-gue orientali sono troppo numerose per essere elencate in questa sede, e ogni selezionesarebbe arbitraria. Ci limitiamo a indicare i principali dizionari, repertori e storie dellaletteratura che ne facilitano la fruizione, nonché le principali collezioni. Il ThesaurusLinguae Graecae informatizzato [24], per quanto non sostituisca le edizioni critiche, èuno strumento di lavoro indispensabile, sia per la quantità di testi che include (in co-stante accrescimento), sia per la facilità di consultazione. Oltre agli strumenti bibliogra-fici segnalati più sopra, si farà ricorso all’«Année philologique» e, per i testi cristiani,alla bibliografia della «Revue d’histoire ecclésiastique» di Lovanio.

Dizionari , repertor i , stor ie del la letteratura.

[34] albert m. e altri, Christianismes orientaux. Introduction à l’étude des langues et deslittératures, Paris 1993 (introduzione alle fonti nelle varie lingue dell’Oriente cri-stiano).

[35] altaner b., stuiber a., Patrologie. Leben, Schriften und Lehre der Kirchenväter,Freiburg-Basel-Wien 19788 [trad. it. della settima ed. Torino 1992].

[36] assfalg j., krüger p. (a cura di), Kleines Wörterbuch des Christlichen Orients,Wiesbaden 1975.

[37] bardenhewer o., Geschichte der altkirchlichen Literatur, Freiburg im Breisgau1913-32 (rist. 1962).

[38] baumstark a., Geschichte der syrischen Literatur, Bonn 1922 (rist. 1968).[39] beck h.-g., Kirche und theologische Literatur im byzantinischen Reich, München

1959.[40] Bibliotheca hagiographica graeca, a cura di F. Halkin, Bruxelles 19572, e Aucta-

rium bibliothecae hagiographicae graecae, Bruxelles 1969.[41] Bibliotheca hagiographica latina, Socii Bollandiani, I-II, Bruxelles 1898-1901

(19492); Novum Supplementum, Bruxelles 1986.[42] Bibliotheca hagiographica Orientalis, Socii Bollandiani, Bruxelles 1910 (rist. 1954).[43] brunhölzl f., Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters, München 1975

sgg.[44] buchwald w., hohlweg a., prinz o., Tusculum-Lexikon griechischer und latein-

ischer Autoren des Altertums und des Mittelalters, München-Zürich 1982.[45] dekkers e., Clavis Patrum Latinorum, Steenbrugis 19612.

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Introduzione metodologica e bibliografica xxxiii

[46] geerard m. (a cura di), Clavis Patrum Graecorum, I-V, Turnhout 1974-87 (reper-torio fondamentale per i testi patristici; riporta numerose fonti narrative: vite disanti, storici della Chiesa).

[47] goulet r. (a cura di), Dictionnaire des philosophes antiques, Paris 1989 sgg.[48] hoyland r. g., Seeing Islam as others saw it. A survey and evalutation of Christian,

Jewish and Zoroastrian writings on early Islam, Princeton 1997.[49] hunger h., Die hochsprachliche profane Literatur der Byzantiner, I-II, München

1978 (il manuale fondamentale per la letteratura bizantina, dal periodo iniziale).[50] krumbacher k., Geschichte der Byzantinischen Literatur, München 1897 (invec-

chiato, ma classico).[51] le boulluec a., saïd s., treddé m., Histoire de la littérature grecque, Paris 1997

(comoda sintesi in francese).[52] moravcsik g., Byzantinoturcica, I. Die byzantinischen Quellen der Geschichte der

Türkvölker, Berlin 19582.[53] ortiz de urbina i., Patrologia Syriaca, Rome 19652.[54] quasten j., Patrologia, ed. it. Torino-Genova 1992-2000, 5 voll.[55] schmid w., stählin o., Geschichte der griechischen Literatur, 6. Auflage, II/2. Die

nachklassische Periode der griechischen Litteratur. Von 100 bis 530 nach Christus,München 1924.

[56] liébaert j., spanneut m., Introduzione generale allo studio dei Padri della Chiesa,ed. it. Brescia 1998.

Col lezioni .

[57] Acta Sanctorum, collecta... a Sociis Bollandianis, Paris 18633 sgg. (testi agiografi-ci greci e latini; alcune edizioni restano insostituite).

[58] Acta conciliorum oecumenicorum, a cura di E. Schwartz, Berlin 1914-40; J.Straub, 1970-74; R. Riedinger, 1990-92.

[59] «Bibliotheca Teubneriana» (collezione di autori greci e latini dall’Antichità alMedioevo, senza trad.).

[60] Corpus christianorum. Series Graeca, Turnhout-Leuven 1977 sgg. (testi patristici,senza trad.).

[61] Corpus christianorum. Series Latina, Turnhout 1953 sgg. (testi patristici, senzatrad.).

[62] Corpus Fontium Historiae Byzantinae, 1967 sgg. (varie serie, con diversi luoghi diedizione; edizioni di riferimento per numerosi storici bizantini; alcune serie so-no accompagnate da una trad.).

[63] Corpus Scriptorum Christianorum Orientalium, Paris-Louvain 1903 sgg. (ricca col-lezione di studi e testi nelle lingue dell’Oriente cristiano, con trad.).

[64] Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, Wien 1866 sgg.[65] Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae, Bonn 1828-97 (collezione di storici gre-

ci, con trad. latina; invecchiato, ma alcune edizioni restano insostituite).[66] Codex Iustinianus, a cura di P. Krüger, Berlin 19159 (numerose rist.).[67] Codex Theodosianus, a cura di Mommsen-Meyer, Berlin 1904-5 (rist. Hildesheim

1990 sgg.).[68] «Collection des Universités de France», Paris (coll. classica aperta alla Tarda An-

tichità; autori latini e greci con trad. e note).

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xxxiv Introduzione metodologica e bibliografica

[69] Die griechischen christlichen Schriftsteller der ersten drei Jahrhunderte, Leipzig 1897sgg.

[70] jacoby f., Fragmente der griechischen Historiker, Berlin-Leiden 1923 sgg.[71] joannou p. p., Discipline générale antique (ive-ixe s.), I/1. Les canons des conciles

oecuméniques; I/2. Les canons des synodes particuliers; II. Les canons des Pères grecs,Grottaferrata 1962-63.

[72] «Loeb Classical Library», Cambridge Mass. (autori greci e latini con trad. ingl.;aperta alla Tarda Antichità).

[73] mansi j. d., Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, Firenze-Venezia1759-98 (atti dei concili in greco e in latino).

[74] Patrologiae cursus completus. Series Graeca, a cura di J.-P. Migne, 161 voll., Paris1857-66 (la più ricca collezione di edizioni di testi patristici, con trad. latina; nu-merose fonti narrative; riprende i testi di CSHB).

[75] Patrologiae cursus completus. Series Latina, a cura di J.-P. Migne, 221 voll., Paris1844-55.

[76] Monumenta Germaniae Historica, Berlin 1826 sgg. (in parte digitalizzata pressowww.gallica.fr).

[77] «Le Monde Byzantin», Paris (collezione di studi; alcune edizioni di testi, contrad. fr. e commento).

[78] Patrologia orientalis, a cura di R. Graffin e F. Nau, Paris-Turnhout 1903 sgg. (te-sti nelle lingue dell’Oriente cristiano, con trad.).

[79] rhalles g. a., potles m., Syntagma ton theion kai hieron kanonon, 6 voll., Athe-nesin 1852-59 (testi canonici in greco).

[80] «Sources chrétiennes», Lyon-Paris 1941 sgg. (testi con trad. e note; autori gre-ci e latini, essenzialmente patristici; vite di santi; storici della Chiesa).

[81] «Studi e Testi», Città del Vaticano 1900 sgg.[82] «Subsidia hagiographica», Bruxelles (studi di agiografia; ed. di testi agiografici).[83] «Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur», Leip-

zig-Berlin 1882 sgg.

Antologie di test i .

Le principali fonti utilizzate sono citate nei capitoli corrispondenti.

[84] chastagnol a., Le Bas-Empire, Paris 19692 (con un’eccellente introduzione).[85] coleman-norton p. r., Roman State and Christian Church. A collection of legal

documents to AD 525, I-III, London 1966.[86] chastagnol a., La fin du Monde antique, Paris 1976 (v-vi sec.; eccellente intro-

duzione).[87] lee a. d., Pagans and Christians in Late Antiquity. A sourcebook, London 2000.[88] mango c., The Art of the Byzantine Empire. Sources and documents, Englewood

Cliffs NJ 1972, rist. Toronto 1986.[89] mathisen r. (a cura di), People, Personal Expression annd Social Relations in Late

Antiquity, I, Ann Arbor 2002.[90] palmer a., brock s., hoyland r., The Seventh Century in the West-Syrian Chro-

nicles, Liverpool 1993.

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Introduzione metodologica e bibliografica xxxv

fonti documentarie.

Papirologia.

[91] bataille a., Les papyrus, Paris 1955 (invecchiato; da completare e correggere conruprecht h. a., Kleine Einführung in die Papyruskunde, Darmstadt 1994).

Consultare scriptorium.lib.duke.edu/papyrus/texts/clist.html.

Diplomatica.

[92] dölger f., karagiannopoulos i. e., Byzantinische Urkundenlehre, I (unico appar-so), München 1968.

Epigraf ia .

[93] allen j. s., ‰evãenko i. (a cura di), Literature in Various Byzantine Disciplines.1892-1977, I. Epigraphy, Washington DC 1981.

[94] bérard f. e altri, Guide de l’épigraphiste. Bibliographie choisie des épigraphies an-tiques et médiévales, Paris 20003 (strumento di lavoro essenziale).

[95] feissel d., Les inscriptions des premiers siècles byzantins (330-641), documentsd’histoire sociale et religieuse, XI Congresso internazionale di epigrafia greca elatina, Roma 1997 [1999], pp. 577-89 (orientamento generale, con bibliografiarecente).

[96] feissel d., Recueil des inscriptions chrétiennes de Macédoine du iiie au vie siècle, Pa-

ris 1983.[97] feissel d., Bulletin épigraphique. Inscriptions chrétiennes et byzantines (dal 1987,

bibliografia analitica che appare ogni anno nella REG).[98] grégoire h., Recueil des inscriptions grecques chrétiennes d’Asie Mineure, I, Paris

1922.[99] kiourtzian g., Recueil des inscriptions grecques chrétiennes des Cyclades de la fin

du iiie au viie siècle après J.-C., Paris 2000.

[100] lefebvre g., Recueil des inscriptions grecques-chrétiennes d’Égypte, Le Caire 1907.[101] robert l., Hellenica, IV. Épigrammes du Bas-Empire, Paris 1948.[102] roueché c., Aphrodisias in Late Antiquity, London 1989.[103] sironen e., The Late Roman and Early Byzantine Inscriptions of Athens and Atti-

ca, Helsinki 1997.

Fonti g iur idiche.

Vedi jacques f., scheid j., Rome et l’intégration de l’empire, I. Les structures de l’Em-pire romain, Paris 1990, pp. xiv-xv; vedi anche 66-67.

[104] gaudemet j., La formation du droit séculier et du droit de l’Église aux ive et ve siè-cles, Paris 19792.

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xxxvi Introduzione metodologica e bibliografica

[105] van der wal n., lokin h. a., Historiae iuris graeco-romani delineatio. Les sourcesdu droit byzantin de 300 à 1453, Groningue 1985.

[106] van der wal n., Manuale novellarum Justiniani. Aperçu systématique du contenudes novelles de Justinien, Groningue 1963.

Fonti geograf iche ed amministrat ive.

[107] honigmann e., Le Synekdèmos d’Hiéroklès et l’opuscule géographique de Georgesde Chypre, Bruxelles 1939 (lista di città risalente al vi secolo, carte in scala1:2.000.000).

[108] darrouzès j., Notitiae episcopatuum Ecclesiae Constantinopolitanae, Paris 1981.[109] Notitia Dignitatum, a cura di O. Seeck, Berlin 1876, rist. Frankfurt 1962 (la No-

titia Urbis Constantinopolitanae figura in appendice; sulla datazione, vedi 356).[110] Expositio totius mundi et gentium, a cura di J. Rougé, Paris 1966 [testo latino,

trad. e commento it. in anonimo del iv secolo, Descrizione del mondo e delle suegenti, a cura di U. Livadiotti e M. Di Branco, Roma 2005].

Numismatica e metrologia.

[111] mattingly h., sydenham h. (a cura di), The Roman Imperial Coinage: VII. Con-stantine and Licinius: AD 313-337, a cura di P. Bruun, London 1966; VIII. Thefamily of Constantine I: AD 337-364, a cura di J. P. C. Kent, London 1981; IX.Valentinian I - Theodosius I: AD 364-395, a cura di J. W. E. Pearce, London 1997;X. The divided Empire and the fall of the Western parts: AD 395-491, a cura diJ. P. C. Kent, London 1994 (fondamentale; viene censita la totalità delle emis-sioni conosciute).

[112] kent j. p. c. e altri, Late Roman Bronze Coinage, London 1960.[113] grierson ph., mays m., Late Roman Empire Coinage in the Dumbarton Oaks Col-

lection, Washington DC 1992.[114] grierson ph. e altri, Catalogue of the Byzantine Coins in the Dumbarton Oaks Col-

lection and in the Whittemore Collection, I. 491-602; II. 602-717, WashingtonDC 1966-71 (collezione ricchissima; l’introduzione generale del vol. II è norma-tiva).

[115] hahn w., Moneta Imperii Byzantini, I. 491-565, Wien 1973; II. 565-610, Wien1975; III. 610-720, Wien 1981 (documentazione assai completa).

[116] hahn w., metlich m., Money of the Incipient Byzantine Empire, I. 491-565, Wien2001 (ed. ingl. aggiornata di 115; il vol. II è di prossima uscita).

[117] morrisson c., Catalogue des monnaies byzantines de la Bibliothèque nationale, Pa-ris 1970, 2 voll. (catalogo ragionato; brevi introduzioni).

[118] schilbach e., Byzantinische Metrologie, München 1970.[119] schilbach e., Byzantinische metrologische Quellen, Thessalonique 1982.

Sigi l lograf ia .

Numerosi articoli e indice di tutti i sigilli pubblicati dal 1931 nella serie degli «Studiesin Byzantine Sigillography» (8 voll. pubblicati 1987-2003).

[120] cheynet j.-c., Byzantine Seals, in collon d. (a cura di), 7000 Years of Seals, Lon-don 1997, pp. 107-23.

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Introduzione metodologica e bibliografica xxxvii

[121] cheynet j.-c., L’usage des sceaux à Byzance, in Sceaux d’Orient et leur emploi, Lou-vain 1997, pp. 23-40.

[122] laurent v., Le Corpus des sceaux de l’Empire byzantin, II. L’administration cen-trale, Paris 1981; V/1-3, L’Église, Paris 1963-72 (incompleto).

[123] nesbitt j., oikonomides n., Catalogue of the Byzantine Seals at Dumbarton Oaksand in the Fogg Museum of Art, I-IV, Washington DC 1991-2001 (catalogo ragio-nato della più grande collezione del mondo, organizzato per regioni, 8 voll. pre-visti).

[124] schlumberger g., Sigillographie de l’Empire byzantin, Paris 1884.[125] seibt w., Die byzantinischen Bleisiegel in Österreich, I. Kaiserhof, Wien 1978 (uni-

co vol. pubblicato, è previsto un seguito).[126] cheynet j.-c., morrisson c., seibt w., Les sceaux byzantins de la collection Hen-

ri Seyrig, Paris 1991.[127] zacos g., veglery a., Byzantine Lead Seals, I, Bâle 1972, 3 voll.

storie generali, manuali, miscellanee.

Da un punto di vista storiografico, si possono leggere i classici volumi del xvii-xviii se-colo, basati sugli autori bizantini pubblicati all’epoca:

[128] gibbon e., Storia della decadenza e caduta dell’impero romano (1776-88), 3 voll.,ed. it. Torino 1967.

[129] lebeau ch., Histoire du Bas-Empire, Paris 1757-86.

Sull’evoluzione della storiografia dall’Antichità ai nostri giorni:

[130] brown p. e altri, The World of Late Antiquity Revisited, SO, LXXII (1997), pp.5-90.

[131] cameron av., The perception of crisis, Settimane CISAM 45, Spoleto 1998, pp.9-34.

[132] demandt a., Der Fall Roms. Die Auflösung des römischen Reiches im Urteil der Na-chwelt, München 1984.

[133] liebeschuetz j. h. w. g., Late Antiquity and the Concept of Decline, NMS, XLV(2001), pp. 1-10.

[134] marrou h.-i., Décadence romaine ou antiquité tardive? (iiie-vie siècles), Paris 1977.

[135] mazzarino s., La fine del mondo antico, Milano 1959.[136] momigliano a., Problèmes d’historiographie ancienne et moderne, Paris 1983 (artt.

6-7, 11, 13-14).[137] C. Lepelley sulla controversia fra Andrea Giardina e Peter Brown, in vera d. e

altri, Antico e Tardoantico oggi, RIS, II (2002), pp. 368-76.

Manual i e introduzioni .

[138] rémondon r., La crisi dell’impero romano: da Marco Aurelio ad Anastasio, ed. it.Milano 1975.

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xxxviii Introduzione metodologica e bibliografica

[139] carrié j.-m., rousselle a., L’Empire romain en mutation, Paris 1999 (nuove con-siderazioni sul periodo 193-337; un II vol. è in preparazione).

[140] chastagnol a., L’évolution politique, sociale et économique du monde romain(284-363), Paris 1982, 19943.

[141] The Cambridge Ancient History: XIII. The Late Empire AD 337-425, a cura di Av.Cameron e P. Garnsey, Cambridge 1998; XIV. Late Antiquity Empire and Suc-cessors AD 425-600, a cura di Av. Cameron, B. Ward-Perkins e M. Whitby, Cam-bridge 2000 (opera di riferimento).

[142] The New Cambridge Medieval History, I. c. 500 - c. 700, a cura di P. Fouracre,Cambridge 2005.

[143] brown p., Genesi della tarda antichità, ed. it. Torino 2001.[144] brown p., The World of Late Antiquity AD 150-750, New York 19892 (un saggio

notevole; trad. it. di un’ed. precedente: Il mondo tardo antico: da Marco Aurelioa Maometto, Torino 1974).

[145] cameron av., Il tardo impero romano, ed. it. Bologna 1998; id., The Mediterra-nean World in Late Antiquity (AD 395-600), London 1993.

[146] cheynet j.-c., Byzance l’empire romain d’Orient, Paris 2001 (dal 330 al 1453;breve e chiaro).

[147] demandt a., Die Spätantike. Römische Geschichte von Diocletian bis Justinian 284-565, München 1989.

[148] demougeot e., La formation de l’Europe et les invasions barbares. De l’avènementde Dioclétien au début du vi

e siècle, Paris 1979, 2 voll.[149] jones a. h. m., Il tardo impero romano, 284-602 d.C., ed. it. Milano 1973-81, 3

voll. + cartine (indispensabile).[150] ostrogorsky g., Storia dell’impero bizantino, ed. it. Torino 1968 e successive

rist. (un classico, invecchiato ma non sostituito).[151] stein e., Histoire du Bas-Empire, a cura di J.-R. Palanque, 2 voll., Paris 1949-59

(indispensabile).[152] momigliano a., schiavone a. (a cura di), Storia di Roma, III. L’età tardo antica:

1. Crisi e trasformazione; 2. I luoghi e le culture, Torino 1993 (capitoli importanti).

Cronologia e regest i , prosopograf ia .

[153] grumel v., La chronologie, Paris 1958.[154] bagnall r. e altri, Consuls of the Later Roman Empire, Atlanta 1987.[155] seeck o., Regesten der Kaiser und Päpste für die Jahre 311 bis 476 n. Chr., Stutt-

gart 1919.[156] dölger f., Regesten der Kaiserurkunden des oströmischen Reiches von 565-1453, 5

voll., München 1924-65.[157] grumel v., Les regestes des actes du patriarcat de Constantinople, I/1. Les actes des

patriarches. Les regestes de 381 à 715, 2a ed. rivista e corretta da J. Darrouzès, Pa-ris 1972.

[158] The Prosopography of the Later Roman Empire: I. 260-395, a cura di A. H. M.Jones e altri, Cambridge 1971; II. 395-527, a cura di J. R. Martindale, Cam-bridge 1980; III. 527-641, a cura di J. R. Martindale, Cambridge 1992 (anche sucd-rom; fondamentale, include i funzionari e gli intellettuali ma non il clero, tratta-to in Prosopographie chrétienne du Bas-Empire: Afrique (303-633), a cura di A. Man-douze, Paris 1982; Italie (313-604), a cura di Ch. Pietri, 2 voll. Rome 1999-2000).

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Introduzione metodologica e bibliografica xxxix

Congress i , convegni , misce l lanee.

In occasione dei congressi internazionali di studi bizantini, ogni sei anni, vengono pub-blicati volumi di sommari e talora di atti. Le Settimane del CISAM trattano spesso diBisanzio nei suoi rapporti con l’Occidente o nella sua evoluzione comparata. La seriedegli incontri annuali della Society for the Promotion of Byzantine Studies annovera 8voll. tematici. Il programma di ricerca TRW della Fondation européenne pour la scien-ce ha pubblicato ad oggi 14 volumi, la maggior parte dei quali interessa la nostra mate-ria, benché l’Occidente vi occupi un posto privilegiato.

[159] Hommes et richesses dans l’empire byzantin, I. ive-viie siècles, Paris 1989; II. viii

e-xv

e siècles, Paris 1992.[160] bowersock g. w., brown p., grabar o. (a cura di), Late Antiquity: A Guide to

the Post-Classical World, Princeton 1999.[161] francovich r., noyé g. (a cura di), La storia dell’alto medioevo italiano (vi-x se-

colo) alla luce dell’archeologia, Siena 1994.[162] giardina a. (a cura di), Società romana e impero tardoantico, 4 voll., Roma-Bari

1986.

i. gli avvenimenti: prospettiva cronologica

Vedi anche 128-52.

Fonti pr incipal i .

Vedi anche 211.

[163] agazia, CFHB 2, 1967 (R. Keydell), con trad. ingl.[164] ammiano marcellino, CUF, Paris 1968-99, 6 voll. pubblicati (fino al libro

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[165] cassiodoro, Variae, MGH, AA, XII, trad. ingl. di S. J. B. Barnish, Liverpool1988.

[166] Chronicon Paschale 284-628, CSHB, trad. ingl. e commento di M. e M. Whitby,Liverpool 1989.

[167] constantin vii porphyrogénète, Le livre des Cérémonies, a cura di A. Vogt,CUF, Paris 1967 (solo libro I); De Cerimoniis, a cura di J. J. Reiske, CSHB (un’e-dizione completa con trad. e commento di G. Dagron e altri è in preparazione).

[168] corippe, Éloge de l’empereur Justin II, a cura di S. Antès, CUF, Paris 1981.[169] evagrio di epifania (evagrius scholasticus), Storia ecclesiastica, a cura di F. Car-

cione, Roma 1998.[170] eusebio, Sulla vita di Costantino, a cura di L. Tartaglia, Napoli 20012.[171] eusèbe de césarée, Histoire ecclésiastique, a cura di G. Bardy, 4 voll. (SC), Pa-

ris 1952-60 [trad. it. Storia ecclesiastica, a cura di S. Borzì e F. Migliore, Roma2001, 2 voll.].

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xl Introduzione metodologica e bibliografica

[172] flusin b., Saint Anastase le Perse et l’histoire de la Palestine au début du viie siè-

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[173] Histoire Auguste, a cura di A. Chastagnol, Paris 1994 [trad. it. Scrittori della Sto-ria Augusta, a cura di P. Soverini, Torino 1983].

[174] giovanni di efeso, Historia ecclesiastica, III, a cura di E. W. Brooks, CSCO, Lou-vain 1935-64.

[175] giordane, Storia dei Goti, trad. it. di E. Bartolini, Milano 1991.[176] malala, CFHB 35 (Thurn), Berlin 2000, trad. ingl. Melbourne 1986 [cfr. beau-

camp j. (a cura di), Recherches sur la chronique de Jean Malalas, Paris 2004].[177] The History of Menander the Guardsman, a cura di R. C. Blockley, Liverpool 1985.[178] marcellino comes, MGH, AA, XI; trad. ingl., dell’ed. Mommsen, Melbourne

1995.[179] orosio, Le storie contro i pagani, a cura di A. Lippold, trad. di A. Bartalucci e

G. Chiarini, Milano 1976, 2 voll.[180] Fragmentary classicising historians of the later Roman Empire Eunapius, Olympio-

dorus, Priscus and Malchus, trad. ingl. di R. C. Blockley, Liverpool 1981.[181] procopio di cesarea: l’opera omnia è tradotta in tedesco (O. Veh, 5 voll., Mün-

chen 1961-97) e in. inglese (Loeb); in fr. La guerre contre les Vandales (D. Roques,Paris 1990); in it. Carte segrete (L. R. Cresci Sacchini, Milano 1977), La guerragotica (D. Comparetti, Milano 1969); sul De Aedificiis cfr. Le De Aedificiis de Pro-cope: le texte et les réalités documentaires, AnTard, 8 (2000).

[182] ps. sebeos, The Armenian History attributed to Sebeos, a cura di R. W. Thomson,commento storico di J. Howard-Johnston, Liverpool 1999, 2 voll. [trad. it. Sto-ria, a cura di C. Gugerotti, Verona 1990].

[183] sinesio di cirene, Opere, a cura di A. Garzya, Torino 1989.[184] Chronicle of Theophanes Confessor Byzantine and Near Eastern history AD 284-813,

trad. ingl. e commento di C. Mango e R. Scott, Oxford 1997.[185] The “History” of Theophylact Simocatta, trad. ingl. e commento di M. e M.

Whitby, Oxford 1986.[186] zosime, Histoire Nouvelle, a cura di F. Paschoud, CUF, Paris 1971-89 [trad. it.

Storia nuova, a cura di F. Conca, Milano 1977].

Letteratura secondaria.

[187] arslan e. a., La struttura delle emissioni monetarie dei Goti in Italia, in Teodoricoil Grande e i Goti d’Italia, XIII Congresso CISAM, Spoleto 1993, pp. 517-53.

[188] barnes t. d., Athanasius and Constantius: Theology and politics in the Constanti-nian Empire, Cambridge Mass. 1993.

[189] barnes t. d., Constantine and Eusebius, Cambridge Mass. 1981.[190] barnish s. j. b., Taxation, land and barbarian settlement, PBSR, 54 (1986), pp.

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Power in Byzantine Italy, AD 554-800, London 1984.

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Introduzione metodologica e bibliografica xli

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[213] maraval p., L’empereur Justinien, Paris 1999.[214] modéran y., Les Maures et l’Afrique romaine ive-vi

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xlii Introduzione metodologica e bibliografica

[222] pringle d., The Defence of Byzantine Africa from Justinian to the Arab Conquest,Oxford 1981.

[223] stratos a., Byzance au viie siècle, I. L’empereur Héraclius et l’expansion arabe,

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re, a cura di M. Cesa).[230] zuckerman c., The early Byzantine strongholds in Eastern Pontus, TM, 11 (1991),

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[233] zuckerman c., Héraclius en 625, REB, 2002, pp. 189-97.[234] zuckerman c., Sur la liste de Vérone et la province de Grande Arménie, la division

de l’Empire et la date de création des diocèses, TM, 14 (2002), pp. 617-37.

ii. trionfo del cristianesimo e definizione dell’ortodossia

Vedi anche la lista degli strumenti di lavoro, 34-83; per un orientamento bibliograficopiù completo si farà riferimento a 252; la «Revue d’histoire ecclésiastique» di Lovaniofornisce un ricchissimo bollettino bibliografico sulla storia del cristianesimo.

Opere genera l i .

[235] andresen c., Die Kirche der alten Christenheit, Stuttgart 1971.[236] baker d. (a cura di), The Orthodox Churches and the West, Oxford 1976.[237] beck h. g., Geschichte der orthodoxen Kirche im byzantinischen Reich, Die Kirche

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e siècle, Paris 1925.

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Introduzione metodologica e bibliografica xliii

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[247] herrin j., The Formation of Christendom, Princeton 1987.[248] jedin h. (a cura di), Storia della Chiesa, II. baus k. e altri, L’epoca dei concili: la

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[249] lenain de tillemont s., Mémoires pour servir à l’histoire ecclésiastique des six pre-miers siècles, VI-XIV, Paris 1695-1712 (monumento dell’erudizione classica).

[250] lietzmann h., Geschichte der alten Kirche, III-IV, Berlin 1938-44.[251] marrou h. i., Nouvelle histoire de l’Église, I. Des origines à Grégoire le Grand, par-

te 2, Paris 1963 (rist. come L’Église de l’Antiquité tardive, Paris 1985).[252] maraval p., Le christianisme de Constantin à la conquête arabe, Paris 1997 (ope-

ra di sintesi che tratta contemporaneamente Oriente e Occidente, con bibliogra-fia dettagliata).

[253] meyendorff j., Unité de l’Empire et division des chrétiens. L’Église de 450 à 680,trad. rivista dall’autore, Paris 1993.

Paganesimo e cr ist ianizzazione.

Vedi anche 877.

[254] beaucamp j., Le philosophe et le joueur. La date de la fermeture de l’École d’Athè-nes sous Justinien, TM, 14 (2002), pp. 21-35.

[255] willers d. e altri (a cura di), Begegnung von Heidentum und Christentum im spätan-tiken Ägypten, Riggisbert 1993.

[256] bouffartigue j., L’empereur Julien et la culture de son temps, Paris 1992.[257] bowersock g. w., Julian the Apostate, Cambridge Mass. 1978.[258] cameron al., The last Days of the Academy of Athens, PCPhS, 195 (1969), pp.

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xliv Introduzione metodologica e bibliografica

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Manicheismo, gnosi , eres ie ant iche.

[282] lieu s. n. c., The Manichaeism in the Later Roman Empire and Medieval China.A Historical Survey, Manchester 1985.

[283] strobel a., Das heilige Land der Montanisten, Berlin 1980.[284] tardieu m., dubois j. d., Introduction à la littérature gnostique, I-II, Paris 1986,

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Introduzione metodologica e bibliografica xlv

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xlviii Introduzione metodologica e bibliografica

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iv. le strutture della chiesa imperiale

Vedi, oltre alle indicazioni al principio del cap. ii, 108, 157, 301, 321, 493.

I l vescovo, la chiesa, la c i ttà.

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l Introduzione metodologica e bibliografica

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Introduzione metodologica e bibliografica li

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Impero e Chiesa.

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lii Introduzione metodologica e bibliografica

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Trattat i mi l i tar i .

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Strutture ed evoluzione.

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man World, London 1987, pp. 107-33.[464] van berchem d., L’armée de Dioclétien et la réforme constantinienne, Paris 1952.[465] zuckerman c., Les «Barbares» romains: au sujet de l’origine des «auxilia» tétrar-

chiques, in vallet f., kazanski m. (a cura di), L’armée romaine et les Barbares duiii

e au viie siècle, Paris 1993, pp. 17-20.

La frontiera.

Numerosi articoli negli Atti dei congressi di Roman Frontier Studies (vari titoli, il vol.18 è uscito nel 2002) riguardano la nostra epoca.

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[469] isaac b., The Limits of the Empire. The Roman Army in the East, Oxford 1990.[470] johnson s., Late Roman Fortifications, London 1983.[471] luttwak e. n., La grande strategia dell’impero romano: dal 1. al 3. sec. d.C. , trad.

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Lake 1986.[473] parker s. th. (a cura di), The Roman Frontier in Central Jordan, BAR, 340 (1987).[474] reddé m., Dioclétien et les fortifications militaires de l’Antiquité tardive. Quelques

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liv Introduzione metodologica e bibliografica

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[478] wheeler e. l., Methodological Limits and the Mirage of Roman Strategy, JMH, 57(1993), pp. 7-41, 215-40.

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Reclutamento, equipaggiamento, remunerazione, carriera, religione.

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[481] dagron g., Byzance et le modèle islamique au xe siècle: à propos des Constitutionstactiques de l’empereur Léon VI, CRAI, 1983, pp. 219-43.

[482] drew-bear th., Les voyages d’Aurélius Gaius, soldat de Dioclétien, in La géographieadministrative et politique d’Alexandre à Mahomet, Leiden 1981, pp. 93-141.

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[487] Passio sanctorum LX martyrum, a cura di H. Delehaye, AB, 23 (1904), pp. 289-307, con la ricostruzione di pargoire j., Les LX soldats martyres de Gaza, EO, 8(1905), pp. 40-43.

[488] rea j., A Cavalryman’s Career, AD 384 (?) - 401, ZPE, 56 (1984), pp. 79-88.[489] whitby m., Recruitment in Roman Armies from Justinian to Heraclius (ca. 565-

615), in cameron av. (a cura di), The Byzantine and Early Islamic Near East, III.States, Resources and Armies, Princeton 1995, pp. 27-60.

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[491] zuckerman c., Les campagnes des tétrarques, 296-298. Notes de chronologie, An-Tard, 2 (1994), pp. 65-70.

[492] zuckerman c., Two reforms of the 370s. Recruiting soldiers and senators in the di-vided empire, REB, 56 (1998), pp. 79-139.

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Introduzione metodologica e bibliografica lv

vi. la capitale

Vedi anche 777.

[493] dagron g., Costantinopoli: nascita di una capitale, 330-451, trad. it. Torino 1991.[494] dagron g., mango c. (a cura di), Constantinople and its Hinterland, Aldershot 1995

(convegno importante; per il iv-vii secolo vedi i contributi di Dagron, Durliat,Feissel, Jobst, Magdalino, Mango, Mundell Mango).

[495] flusin b., Construire une nouvelle Jérusalem: Constantinople et les reliques, in amir-

moezzi m. a., scheid j. (a cura di), L’Orient dans l’histoire religieuse de l’Europe.L’invention des origines, Tournai 2000, pp. 51-70.

[496] jacoby d., La population de Byzance à l’époque byzantine: un problème de démo-graphie urbaine, «Byzantion», 41 (1961), pp. 81-109 (rist. in id., Société et démo-graphie à Byzance, London 1975).

[497] janin r., Constantinople byzantine. Développement urbain et répertoire topographi-que, Paris 1964 (indispensabile ma meno esaustivo di quel che sembra, e insuf-ficientemente critico).

[498] maguire h., ousterhout r. (a cura di), Constantinople: The fabric of the city,DOP, 54 (2000) (negli atti di questo simposio, per il iv-vii secolo vedi i contri-buti di Berger, Dagron, Jobst, Magdalino, Mango, Mundell Mango). Consulta-bile su www.doaks.org/DP54.html.

[499] koder j., Maritime trade and the food supply for Constantinople in the middle ages,in macrides r. (a cura di), Travel in the Byzantine world, Aldershot 2002, pp.109-24.

[500] lebek w. d., Die Landmauer von Konstantinopel und ein neues Bauepigramm, EA,25 (1995), pp. 107-53 (vedi commenti di Feissel, REG, 111 (1998), e di Mango,TM, 14 (2002), p. 449, nota 2).

[501] mango c., Le développement urbain de Constantinople, Paris 1985, 19902.[502] mango c., Studies on Constantinople, Aldershot 1993 (raccolta di articoli, tra cui

Constantine’s Mausoleum, BZ, 1990).[503] mango c., The water supply of Constantinople, in 494, pp. 9-18.[504] müller a. e., Getreide für Konstantinopel. Überlegungen zu Justinians Edikt XIII

als Grundlage für Aussagen zu Einwohnerzahl Konstantinopels im 6. Jh, JÖB, 43(1993), pp. 1-20; del medesimo autore, rec. di 587 e 589 ivi, pp. 380-82.

[505] müller-wiener w., Bildlexikon zur Topographie Istanbuls, Tübingen 1977.[506] mundell mango m., The Commercial Map of Constantinople, DOP, 54 (2000),

pp. 189-207.[507] necipoglu n. (a cura di), Byzantine Constantinople: monuments, topography and

everyday life, Leiden 2001.[508] saliou c., Le traité d’urbanisme de Julien d’Ascalon (vi

e siècle), Paris 1996.[509] ward-perkins b., Constantinople, imperial capital of the fifth and sixth centuries, in

ripoll g., gurt j. m. (a cura di), Sedes Regiae (ann. 400-800), Barcelona 2000,pp. 63-81.

[510] zuckerman c., Le cirque, l’argent et le peuple. À propos d’une inscription du Bas-Empire, REB, 58 (2000), pp. 69-86.

1_Bisanzio I_romane 12-06-2007 15:17 Pagina lv

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lvi Introduzione metodologica e bibliografica

vii. popolamento, economia e società dell’oriente bizantino

Vedi anche 159.

Aspett i genera l i .

[511] beaucamp j., Le statut de la femme à Byzance (ive-viie siècle), I. Le droit impérial,

II. Les pratiques sociales, Paris 1990-92 (fondamentale).[512] beaucamp j., La situation juridique de la femme à Byzance, CahCM, 20 (1977),

pp. 145-76.[513] laiou a., The Evolution of the Status of Women in Marriage and Family Law, «Ka-

non», 16 (2000), pp. 71-86.[514] brown p., Il corpo e la società: uomini, donne e astinenza sessuale nel primo cristia-

nesimo, ed. it. Torino 1992.[515] brown p., Povertà e leadership nel tardo impero romano, ed. it. Roma-Bari 2003.[516] hodges r., whitehouse d., Mahomet, Charlemagne et les origines de l’Europe, Pa-

ris 1996 (trad. fr. riveduta e ampliata dell’ed. ingl. London 1983).[517] hodges r., bowden w. (a cura di), The sixth century: Production, distribution, and

demand, TRW 3, Leiden 2002.[518] laiou a. (a cura di), The Economic History of Byzantium: From the Seventh throu-

gh the Fifteenth Century, 3 voll., Washington DC 2002 (sintesi fondamentale einnovativa disponibile anche su www.doaks.org/EHB.html, con la maggior par-te delle piante e illustrazioni; vedi la presentazione di laiou a., Nouvelles per-spectives sur l’histoire économique de Byzance, CRAI, 2003, pp. 821-60).

[519] laiou a., morrrisson c., The Byzantine Economy, Cambridge 2007.[520] lemerle p., The Agrarian History of Byzantium from the Origins to the Twelfth

Century: The Sources and the Problems, Galway 1979 (ed. riveduta degli articolicomparsi nella RH, 1958, e nei CahCM, 1959).

[521] mccormick m., The origins of the European economy. Communications and com-merce, c. 300 - c. 900, Cambridge 2001 (importante e innovativo ma più svilup-pato per il periodo medievale) (rec. di J.-M. Carrié in AnnalesESC, 58 (2003),pp. 1369-72).

[522] paroli l., delogu p. (a cura di), La Storia economica di Roma nell’alto Medioevoalla luce dei recenti scavi archeologici, Firenze 1993.

[523] patlagean é., Pauvreté économique et pauvreté sociale à Byzance, ive-vii

e siècles,Paris 1977 [trad. it. parziale Povertà ed emarginazione a Bisanzio: 4.-7. secolo, Ro-ma-Bari 1986].

[524] patlagean é., Structure sociale, famille, chrétienté à Byzance, London 1981 (rac-colta di articoli).

[525] rostovtzeff m., Storia economica e sociale dell’impero romano, ed. it., accresciu-ta di testi inediti, Milano 2003.

[526] wickham c., Framing the Early Middle Ages. Europe and the Mediterranean 400-800, Oxford 2005 (fondamentale per l’ampiezza delle informazioni e i commen-ti che integrano i dati archeologici).

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Introduzione metodologica e bibliografica lvii

Spazio e c l ima, popolamento e demograf ia .

Spazio e clima.

[527] geyer b., Physical Factors in the Evolution of the Landscape and Land Use, in EHB,I, pp. 31-46.

[528] christie n. (a cura di), Landscapes of Change. Rural Evolutions in Late Antiquityand the Early Middle Ages, Aldershot 2004.

[529] guidoboni e. e altri, Catalogue of the ancient earthquakes in the Mediterranean upto the 10th century, Rome 1994 (trad. riveduta dell’ed. it. del 1989).

[530] koder j., Der Lebensraum der Byzantiner, Historisch-geographischer Abriß ihres mit-telalterlichen Staates im östlichen Mittelmeerraum, Wien 2001 (rist. con suppl.bibl. dell’ed. 1984, eccellente introduzione; ed. greca rivista e aggiornata: Vy-zantio os choros: Eisagogi stin istoriki geographia tis Anatolikis Mesogeiou sti Vyzan-tini Epochi, Thessalonike 2005).

[531] koder j., Climatic Change in the Fifth and Sixth Centuries, in allen p., jeffreys

e. (a cura di), The Sixth Century. End or Beginning?, Brisbane 1996, pp. 270-85.[532] randsborg k., The First Millenium AD in Europe and the Mediterranean, Cambrid-

ge 1991 (riflessione e bilancio di un archeologo scandinavo; documentazione sto-rica discutibile).

[533] belke k. e altri (a cura di), Byzanz als Raum, Wien 2000.[534] telelès i. t., Meteorologika phainomena kai klima sto Byzantio, 2 voll., Athena

2003 (fenomeni meteorologici e clima a Bisanzio).

Miniere.

Vedi anche 831, 881, 993.

[535] matschke k.-p., Mining, in EHB, I, pp. 115-20.[536] vryonis s., The question of the Byzantine mines, «Speculum», 37 (1962), pp. 1-

17 (rist. in id., Byzantium: its internal history and relations with the Muslim world,London 1971).

Popolazione e popolamento; la peste di Giustiniano.

[537] stathakopoulos d. ch., Famine and Pestilence in the Late Roman and Early Byzan-tine Empire. A Systematic Survey of Subsistence Crises and Epidemics, Aldershot2004.

[538] conrad l., The Plague in Bilad al-Sham in Pre-Islamic Times, in bakhit m. a., as-

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[539] bagnall b., frier w., The Demography of Roman Egypt, Cambridge 1994 (stu-dio esemplare dei censimenti egiziani dei primi tre secoli; conclusioni applicabi-li a gran parte dell’Egitto protobizantino).

[540] bavant b., Cadre de vie et habitat urbain en Italie centrale et byzantine (vie-viii

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[541] callu j.-p., Antioche la Grande: la cohérence des chiffres, MEFRA, 109 (1997),pp. 129-69.

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lviii Introduzione metodologica e bibliografica

[542] dagron g., Entre village et cité: la bourgade rurale des ive-viie siècles en Orient,

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[543] delia d., The Population of Roman Alexandria, TAPhA, 118 (1989), pp. 275-92.[544] ditten h., Ethnische Verschiebungen zwischen der Balkanhalbinsel und Kleinasien

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Ancient Demography, Ann Arbor 1996.[549] scheidel w., Debating Roman demography, Leiden 2001 (rec. di D. Rathbone,

JRA, 14 (2001), pp. 558-60).[550] sharf a., Byzantine Jewry from Justinian to the Fourth Crusade, New York 1971.

Vedi anche 273.

Economia e società rura le .

Vedi anche j. lefort, The Rural Economy, Seventh-Twelfth Centuries, in EHB, I, pp.231-310.

[551] banaji j., Agrarian change in late antiquity: Gold, labour and aristocratic dominan-ce, Oxford 2001.

[552] kaplan m., Les hommes et la terre à Byzance, Paris 1992.[553] lefort j., morrisson c., sodini j.-p. (a cura di), Les villages dans l’empire byzan-

tin (ive-xve siècle), Paris 2005 (38 nuovi contributi su questa tematica, dall’Orien-

te all’Occidente).[554] noyé g., Économie et société dans la Calabre byzantine, JS, luglio-dicembre 2000,

pp. 209-80.[555] bowden w., lavan l., machado c. (a cura di), Recent Research on the Late An-

tique Countryside, Leiden-Boston 2004 (miscellanea di studi generali e regionali).

Produzioni e tecniche.

[556] bryer a., The Means of Agricultural Production: Muscle and Tools, in EHB, I, pp.101-13.

[557] teall j. l., Byzantine Agricultural Tradition, DOP, 25 (1971), pp. 35-59.[558] barcelò m., sigaut f. (a cura di), The Making of Feudal Agricultures, TRW 14,

Leiden-Boston 2004 (studi sull’evoluzione delle tecniche in Occidente dalla Tar-da Antichità al Medioevo).

Economia e società urbana.

Vedi anche 958.

[559] brogiolo g. p., ward-perkins b. (a cura di), The idea and ideal of the town betweenlate Antiquity and the early Middle Ages, TRW 4, Leiden-Boston 1999.

[560] carrié j.-m., Les métiers de la banque entre public et privé, Atti dell’Accademia

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Introduzione metodologica e bibliografica lix

Romanistica Costantiniana, XII Convegno in onore di M. Sargenti, Universitàdegli studi di Perugia, Napoli 1998, pp. 67-93.

[561] foss c., Cities, Fortresses and Villages of Byzantine Asia Minor, Aldershot 1996(raccolta dei principali articoli di uno storico aperto all’archeologia).

[562] liebeschuetz w., The Decline and Fall of the Roman City, Oxford 2001 (sintesiben informata dei dati testuali e archeologici e della ricerca recente).

[563] rich j. (a cura di), The City in Late Antiquity, London - New York 1992.[564] sodini j.-p., Habitat de l’Antiquité tardive, 1, «Topoi», 5/1 (1995), pp. 151-218,

e 2, «Topoi», 7/2 (1995), pp. 435-577.[565] sodini j.-p., Archaeology and LateAntique Social Structures, in lavan l., bowden

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[566] spieser j.-m., Urban and religious spaces in late antiquity and early Byzantium, Al-dershot 2001 (attenua le conclusioni dell’a. in Hommes, I, pp. 97-106).

[567] leader newby r. e., Silver and Society in Late Antiquity, Aldershot 2004.

L’economia urbana e la sua organizzazione.

[568] cracco ruggini l., Le associazioni professionali nel mondo romano-bizantino,in Artigianato e tecnica nella società dell’alto medioevo occidentale, SettimaneCISAM 18, Spoleto 1971, pp. 59-193.

[569] schreiner p., Die Organisation byzantinischer Kaufleute und Handwerker, in Un-tersuchungen zu Handel und Verkehr der vor- und frühgeschichtlichen Zeit in Mittel-und NordEuropa, VI. Organisationsformen der Kaufmannsvereinigungen in der Spät-antike und im frühen Mittelalter, a cura di H. Jankuhn e E. Ebel, Göttingen 1989,pp. 44-61.

[570] sodini j.-p., L’artisanat urbain à l’époque paléochrétienne, «Ktèma», 4 (1979), pp.71-119.

Commercio e scambi.

[571] sodini j.-p., Productions et échanges dans le monde protobyzantin (ive-viie siècles):

le cas de la céramique, in 533, pp. 181-208.[572] kingsley s., decker m. (a cura di), Economy and Exchange in the East Mediterra-

nean during Late Antiquity, Oxford 2001 (simposio con importanti contributi ar-cheologici).

Rotte e trasporti terrestri e marittimi.

[573] avraméa a., Land and Sea Communications, Fourth-Fifteenth Centuries, in EHB,I, pp. 57-90.

[574] parker a. j., Ancient Shipwrecks of the Mediterranean and the Roman Provinces,Oxford 1992.

[575] pryor j. h., Commerce, Shipping and Naval Warfare in the Medieval Mediterranean,London 1988 (vedi anche id., Geography, Technology and War. Studies in the Ma-ritime History of the Mediterranean 549-1571, Cambridge 1992).

[576] rougé j., Ports et escales dans l’Empire tardif, in La navigazione mediterranea nel-l’alto medioevo, Settimane CISAM 25, Spoleto 1973, I, pp. 67-128.

[577] van doorninck f. jr, Byzantine Shipwrecks, in EHB, II, pp. 899-905.

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lx Introduzione metodologica e bibliografica

[578] pomey p., tchernia a., Le tonnage maximum des navires de commerce romain, «Ar-chéonautica», 2 (1978), pp. 233-51.

[579] pomey p. e altri (a cura di), La navigation dans l’Antiquité, Aix-en-Provence 1998.[580] casson l., Ships and seamanship in the Ancient World, Princeton 1971 (rist. 1995)

(rimane essenziale).

Gli scambi.

[581] de ligt l., Fairs and Markets in the Roman Empire: Economic and Social Aspectsof Periodic Trade in a Pre-industrial Society, Amsterdam 1993.

[582] garnsey p., hopkins k., whittaker c. r. (a cura di), Trade in the Ancient Eco-nomy, London 1983 (interpretazione generalmente riduttiva nella tradizione diFinley e Jones).

[583] aerts e., andreau j., ørsted p. (a cura di), Models of Regional Economies in An-tiquity and the Middle Ages to the 11th Century, Louvain 1990.

[584] mundell mango m., The Archaeological Context of Finds of Silver in and Beyondthe Eastern Empire, XIII CIAC (Spalato-Parenzo 1994), Rome-Split 1998, II, pp.207-52.

[585] panella c., Merci e scambi nel Mediterraneo tardoantico, in 152, 1, pp. 613-97.

L’annona e il suo trasporto.

[586] carrié j.-m., Les distributions alimentaires dans les cités de l’empire romain tardif,MEFRA, 87 (1975), pp. 995-1001 (vedi anche id., L’institution annonaire de lapremière à la deuxième Rome: tradition et innovation, in marin b., virlouvet c.

(a cura di), L’approvisionnement alimentaire des villes du Bassin méditerranéen del’Antiquité à l’époque moderne, Aix-en-Provence 2003.

[587] durliat j., De la ville antique à la ville byzantine: le problème des subsistances, Ro-me 1990 (importante ma contestato, vedi la rec. di Delmaire, AnTard, 1 (1993),pp. 253-57).

[588] mccormick m., Bateaux de vie, bateaux de mort, maladie, commerce, transports an-nonaires et le passage économique du Bas-Empire au Moyen Âge, in Morfologie so-ciali e culturali in Europa fra tarda antichità e alto medioevo, Settimane CISAM45, Spoleto 1998, pp. 35-122.

[589] sirks b., Food for Rome. The Legal Structure of the Transportation and Processing ofSupplies for the Imperial Distributions in Rome and Constantinople, Amsterdam 1991.

[590] teall j. l., The Grain Supply of the Byzantine Empire, 330-1025, DOP, 13 (1959),pp. 87-190.

La moneta.

Vedi anche 111-19 e 349.[591] carrié j.-m., Observations sur la fiscalité du ive siècle pour servir à l’histoire moné-

taire, in L’inflazione nel iv secolo DC, Atti dell’Incontro di studio (Roma 1988),a cura di L. Camilli e S. Sorda, Roma 1993, pp. 115-54.

[592] hendy m. f., Studies in the Byzantine Monetary Economy, c. 300 - c. 1450, Cam-bridge 1985 (fondamentale; vedi rec. di C. Morrisson in RN, 1987, pp. 245-56).

[593] hendy m. f., The Economy, Fiscal Administration and Coinage of Byzantium,Northampton 1989 (importante per l’aspetto amministrativo e fiscale; vedi rec.in RN, 1991, pp. 307-10).

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Introduzione metodologica e bibliografica lxi

[594] morrisson c. e altri, L’or monnayé, I. Purification et altérations. De Rome à By-zance, Paris 1985.

[595] morrisson c., Byzantine Coinage. Production and Circulation, in EHB, III, pp.901-58.

[596] morrisson c. e altri, Les trésors monétaires des Balkans et d’Asie Mineure (491-717), Paris 2006.

[597] noeske h. c., Münzfunde aus Ägypten, I. Die Münzfunde des ägyptischen Pilgerzen-trums Abu Mina und die Vergleichsfunde aus den Dioecesen Aegyptus und Oriensvom 4.-8. Jh. n. Chr. Prolegomena zu einer Geschichte des spätrömischen Münzum-laufs in Ägypten und Syrien, 3 voll., Berlin 2000 (rec. di C. Morrisson in AnTard,12 [2005]).

viii. la vita religiosa. i cristiani nel mondo, il monachesimo

Vedi anche le indicazioni all’inizio del cap. ii.

I cr ist iani nel mondo.

Sacramenti, liturgia.

[598] bradshaw p. f., The Search for the Origins of Christian Worship. Sources andMethods for the Study of Early Liturgy, New York - Oxford 1992.

[599] cabié r., La Pentecôte. L’évolution de la cinquantaine pascale au cours des cinq pre-miers siècles, Tournai 1964.

[600] cantalamessa r. (a cura di), La Pasqua nella Chiesa antica, Torino 1978.[601] dujarier m., A history of Catechumenate. The first six centuries, New York 1979.[602] galtier p., Aux origines du sacrement de pénitence, Rome 1951.[603] kretschmar g., Die Geschichte der Taufgottesdienst in der alten Kirche, Kassel

1970.[604] ritzer k., Formen, Riten und religiöses Brachtum der Eheschliessung in den christ-

lichen Kirchen der ersten Jahrtausends, Münster 1962.[605] roll s. k., Toward the Origins of Christmas, Kampen 1995.[606] rordorf w., Der Sonntag. Geschichte des Ruhe- und Gottesdiensttages im ältesten

Christentum, Zürich 1962 [vedi anche Sabato e domenica nella Chiesa antica, ed.it. a cura di G. Ramella, Torino 1979].

[607] rush a. c., Death and Burial in Christian Antiquity, Washington DC 1941.[608] saxer v., Les rites de l’initiation chrétienne du iie au vi

e siècle. Esquisse historiqueet signification d’après leurs principaux témoins, Spoleto 1988.

[609] schulz h.-j., Die byzantinische Liturgie, Trier 1980.[610] taft r., La liturgia delle ore in Oriente e in Occidente: le origini dell’ufficio divino

e il suo significato oggi, trad. it. Cinisello Balsamo 1988.[611] taft r., The Byzantine rite: a short history, Collegeville 1992.[612] talley t. j., The origins of the liturgical year, New York 1986.[613] van de paverd f., Zur Geschichte der Messliturgie in Antiocheia und Konstantino-

pel gegen Ende des vierten Jahrhunderts, Rom 1970.

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lxii Introduzione metodologica e bibliografica

Nuove forme di pietà.

Vedi anche 773, 781; déroche v., L’Apologie contre les Juifs de Léonce de Néapolis, TM,12 (1993), pp. 45-104.

[614] borgehammar s., How the Holy Cross was found. From Event to Medieval Legend,Stockholm 1991.

[615] brown p., Il culto dei santi: l’origine e la diffusione di una nuova religiosità, ed. it.Torino 1983.

[616] cameron av., The Theotokos in the Sixth-Century Constantinople, JTS, 39 (1978),pp. 79-108.

[617] delehaye h., Sanctus. Essai sur le culte des saints dans l’Antiquité, Bruxelles 1927.[618] durand j., flusin b. (a cura di), Byzance et les reliques du Christ, Paris 2004.[619] fowden e., The Barbarian Plain: Saint Sergius between Rome and Iran, Berkeley

1999.[620] frolow a., La relique de la Vraie Croix. Recherches sur le développement d’un cul-

te, Paris 1961.[621] girardi m., Basilio di Cesarea e il culto dei martiri nel iv secolo, Roma-Bari 1990.[622] hunt e. j., Holy Land Pilgrimage in the Later Roman Empire AD 312-460, Oxford

1982.[623] kötting b., Peregrinatio religiosa. Wallfahrten in der Antike und das Pilgerwesen in

der alten Kirche, Münster 1950.[624] maraval p., Lieux saints et pèlerinages d’Orient. Histoire et géographie des origines

à la conquête arabe, Paris 1985.[625] mimouni s., Dormition et Assomption de Marie. Histoire des traditions anciennes,

Paris 1995.[626] papaconstantinou a., Le culte des saints en Égypte des Byzantins aux Abbassides.

L’apport des inscriptions et des papyrus grecs et coptes, Paris 2001.[627] walker p. w. l., Holy City, Holy Places? Christian attitudes to Jerusalem and the

Holy Land in the Fourth Century, Oxford 1990.

Verso una città cristiana.

Vedi anche 493, 511, 514, 523-24.

[628] bagnall r. s., Church, State and Divorce in Late Roman Egypt, in Florilegium Co-lumbianum. Essays in Honor of Paul Oskar Kristeller, New York 1987, pp. 41-51.

[629] baldovin f., The Urban Character of Christian Worship. The Origins, Developmentand Meaning of Stational Liturgy, Rome 1987.

[630] constantelos d. j., Byzantine Philanthropy and social Welfare, New Brunswick1968.

[631] coulie b., Les richesses dans l’œuvre de saint Grégoire de Nazianze. Étude littérai-re et historique, Louvain 1985.

[632] cracco ruggini l., Povertà e richezza nel cristianesimo antico, «Athenaeum», 65(1987), pp. 547-52.

[633] grant r. m., Early Christianity and Society. Seven Studies, San Francisco 1977.[634] miller t. s., The Birth of the Hospital in the Byzantine Empire, Baltimore 1985.

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Introduzione metodologica e bibliografica lxiii

[635] raspels b., Der Einfluß des Christentums auf die Gesetze zum Gefängniswesen undzum Strafvollzug von Konstantin dem Großen bis Justinian, ZKG, 102 (1991), pp.289-306.

[636] stötzel a., Kirche als «neue Gesellschaft». Die humanisierende Wirkung des Christ-entums nach Johannes Chrysostomus, Münster 1984.

[637] ville g., Religion et politique. Comment ont pris fin les combats de gladiateurs,AnnalesESC, 34 (1979), pp. 651-71.

I l monachesimo.

Studi d’insieme.

[638] brown p., The Rise and Function of the Holy Man in Late Antiquity, JRS, 61(1971), pp. 80-101 (rist. in 238).

[639] chitty d. j., The desert a city: an introduction to the study of Egyptian and Pales-tinian monasticism under the Christian Empire, Oxford 1966.

[640] delehaye h., Les saints stylites, Bruxelles 1923.[641] elm s., Virgins of God. The Making of Asceticism in Late Antiquity, Oxford 1994.[642] guillaumont a., Aux origines du monachisme chrétien. Pour une phénoménologie

du christianisme, Bégrolles-en-Mauges 1979.[643] heussi k., Der Ursprung des Mönchtums, Tübingen 1934.[644] lohse b., Askese und Mönchtum in der Antike und in der Alten Kirche, München-

Wien 1969.[645] schiwietz s., Das morgenländische Mönchtum, I-III, Mödling-Wien 1903-38.

Egitto.

Vedi anche 373.

[646] Antonius Magnus Eremita, 356-1956, Roma 1956.[647] daumas f. e altri, Kellia I, Kom 219, Le Caire 1969.[648] deseille p., L’esprit du monachisme pachômien, Bellefontaine 19802.[649] evelyn-white h. g., The Monasteries of the Wâdi’n Natrûn, I-III, New York 1926-

1933.[650] gascou j., P. Fouad 87: Les monastères pachômiens et l’État byzantin, BIFAO, 76

(1976), pp. 157-84.[651] goehring j. e., Ascetics, society and the desert: studies in early Egypt monasticism,

Harrisburg Pa. 1999.[652] kasser r. e altri, Kellia 1965. Topographie générale, mensurations et fouilles aux

Qouçour ’Isa et aux Qouçour el-’Abid, mensurations aux Qouçour el-Izeila, Genè-ve 1965.

[653] regnault l., La vie quotidienne des Pères du désert en Égypte au ive siècle, Paris1990.

[654] rousseau ph., Pachomius. The Making of a Community in Fourth-Century Egypt,Berkeley 1985.

[655] rubenson s., The Letters of St Antony. Origenist Theology, Monastic Tradition andthe Making of a Saint, Lund 1990.

[656] ruppert f., Das Pachomianische Mönchtum und die Anfänge des klosterlichenGehorsams, Münsterschwarzach 1971.

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lxiv Introduzione metodologica e bibliografica

[657] van cauwenbergh f., Étude sur les moines d’Égypte depuis le concile de Chalcé-doine jusqu’à l’invasion arabe, Paris 1914 (rist. Milano 1973).

[658] walters c. c., Monastic Archaeology in Egypt, Warminster 1974.

Palestina.

Vedi anche 172 e 741.

[659] binns j., Ascetics and Ambassadors of Christ: The monasteries of Palestine, 341-631,Oxford 1994.

[660] guillaumont a., Les «Képhalaia Gnostika» d’Évagre le Pontique et l’histoire del’origénisme chez les Grecs et les Syriens, Paris 1962.

[661] hirschfeld y., The Judaean Desert Monasteries in the Byzantine Period, New Ha-ven - London 1992 (soprattutto archeologico).

[662] patrich j., Sabas, Leader of Palestinian Monasticism, fourth to Seventh Centuries,Washington DC 1995.

[663] solzbacher r., Mönche, Pilger und Sarazenen. Studien zum Frühchristentum auf dersüdlichen Sinaihalbinsel. Von den Anfängen bis zum Beginn islamischer Herrschaft,Altenberge 1989.

Siria.

[664] canivet p., Le monachisme syrien selon Théodoret de Cyr, Paris 1977.[665] caquot a., Les couvents du massif calcaire dans quatre lettres monophysites du vi

e

siècle, in 978, III, pp. 63-106.[666] escolan ph., Monachisme et Église le monachisme syrien du ive au vii

e siècle: un mi-nistère charismatique, Paris 1999.

[667] harvey s. a., Asceticism and Society in Crisis: John of Ephesus and the “Lives ofEastern saints”, Berkeley 1990.

[668] palmer a., Monk and Mason on the Tigris Frontier. The Early History of Tur Ab-din, Cambridge 1990.

[669] ruggieri v., Il grande monastero di Tell ’Ade. Rapporto preliminare, OCP, 58(1992), pp. 157-84.

[670] vööbus a., The Institution of the benai qeiâmâ and benat qeiâmâ in the Ancient Syr-ian Church, ChHist, 30 (1961), pp. 19-40.

[671] vööbus a., A History of Asceticism in the Syrian Orient. A Contribution to the His-tory of Culture in the Near East, II-III. Early Monasticism in Mesopotamia and Syr-ia, CSCO 197 e 500, Louvain 1960 e 1988.

[672] festugière a.-j., Antioche païenne et chrétienne. Libanius, Chrysostome et les moi-nes de Syrie, Paris 1959.

Asia Minore.

[673] amand d., L’ascèse monastique de Saint Basile. Essai historique, Maredsous 1949.[674] auzépy m.-f., Les Vies d’Auxence et le monachisme «auxentien», REB, 53 (1995),

pp. 205-35.[675] clarke k. w. l., St. Basil the Great. A Study in Monasticism, Cambridge 1913.[676] gribomont j., Saint Basile. Évangile et Église, I-II, Bellefontaine 1984.

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Introduzione metodologica e bibliografica lxv

Costantinopoli.

[677] dagron g., Les moines et la ville: le monachisme à Constantinople jusqu’au concilede Chalcédoine (451), TM, 4 (1970), pp. 3-25 (rist. in id., La romanité chrétien-ne en Orient, London 1984).

[678] janin r., La géographie ecclésiastique de l’empire byzantin. Première partie: Le siè-ge de Constantinople et le patriarcat œcuménique, III. Les églises et les monastères,Paris 1969.

[679] pargoire j., Les débuts du monachisme à Constantinople, RQH, 65 (1889), pp. 67-153.

Condizione monastica.

[680] graniç b., Die rechtliche Stellung und Organisation der griechischen Klöster nachdem justinianischen Recht, BZ, 29 (1929), pp. 6-34.

[681] meester p. de, De monachico statu iuxta disciplinam Byzantinam. Statuta selectisfontibus et commentariis instructa, Sacra Congregazione per la Chiesa Orientale,Codificazione canonica orientale, Fonti, serie II, fasc. x, Città del Vaticano 1942.

[682] ueding l., Die Kanones von Chalkedon in ihrer Bedeutung für Mönchtum und Kle-rus, in 301, II, pp. 568-676.

ix. la cultura scritta

Per i manuali e le collezioni di testi vedi 34-90; vedi anche 143-44, 256, 672.

Aspett i genera l i .

[683] bowersock g., Hellenism in Late Antiquity, Ann Arbor 1990.[684] cameron av., Christianity and the Rhetoric of Empire: The development of Church

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Una cultura dominante.

Oralità e scrittura.

[689] cavallo g., Libro e pubblico alla fine del mondo antico, in id. (a cura di), Libri,editori e pubblico nel mondo antico. Guida storica e critica, Roma-Bari 19772, pp.81-133.

[690] blanchard a. (a cura di), Les débuts du codex, Atti della giornata di studi orga-nizzata dall’Institut de papyrologie de la Sorbonne e dall’Institut de rechercheet d’histoire des textes (Parigi, 3-4 luglio 1985), Turnhout 1989.

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lxvi Introduzione metodologica e bibliografica

[691] devreesse r., Introduction à l’étude des manuscrits grecs, Paris 1954.[692] hunger h., Antikes und mittelalterliches Buch- und Schriftwesen, in Geschichte der

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[693] macmullen r., The preacher’s audience (AD 350-450), JTS, n.s., 40 (1989), pp.503-11.

[694] skeat t. c., Early Christian Book production: Papyri and Manuscripts, in lampe

g. w. h. (a cura di), The Cambridge History of the Bible, II. The West from theFathers to the Reformation, Cambridge 1969, pp. 54-79.

Lingue.

Vedi anche 1013.

[695] dagron g., Aux origines de la civilisation byzantine: langue de culture et langue d’É-tat, RH, 241 (1969), pp. 36-46.

[696] hannick c., Le développement des langues régionales et l’introduction d’alphabetsdans des communautés illettrées, in chrysos e., wood i. (a cura di), East and West:Modes of Communication, TRW 5, Leiden 1999, pp. 205-21.

L’ insegnamento e le sue ist i tuzioni .

[697] bréhier l., Notes sur l’histoire de l’enseignement à Constantinople, «Byzantion»,3 (1926), pp. 73-94.

[698] hadot i., Arts libéraux et philosophie dans la pensée antique, Paris 1984.[699] kaster r. a., Guardians of Language. The Grammarian and Society in Late Anti-

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Centri.

[701] blumenthal h. j., Alexandria as a center of philosophy in later classical antiquity,ICS, 18 (1993), pp. 307-25.

[702] cameron al., The End of the Ancient Universities, CahHistM, 10 (1967), pp. 653-73.

[703] collinet p., Histoire de l’École de droit de Beyrouth, Paris 1925.[704] downey g., The Christian Schools of Palestine: A Chapter in Literary History, HLB,

12 (1958), pp. 297-319.[705] petit p., Les étudiants de Libanius, Paris 1956.[706] petit p., Libanius et la vie municipale à Antioche au ive siècle après J.-C., Paris 1955.[707] wendel c., Die erste kaiserliche Bibliothek in Konstantinopel, ZBB, 59 (1942), pp.

193-209.

Letteratura greca.

Letteratura profana: poesia, storia, retorica.

[708] cameron al., Wandering Poets. A Literary Movement in Byzantine Egypt, «Histo-ria», 14 (1965), pp. 470-509; id., Literature and Society in the Early ByzantineWorld, London 1985 (studio basilare).

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Introduzione metodologica e bibliografica lxvii

[709] cameron al., The Greek Anthology from Meleager to Planudes, Oxford 1993.[710] chuvin p., Mythologie et géographie dionysiaque. Recherches sur l’œuvre de Non-

nos de Panopolis, Clermont-Ferrand 1992.[711] fournet j.-l., Hellénisme dans l’Égypte du vi

e siècle: la bibliothèque et l’œuvre deDioscore d’Aphroditè, Le Caire 1999.

[712] garzya a., I generi poetici nella tarda antichità, AFLN, n.s., 18 (1987-88), pp.239-60.

[713] cameron av., Agathias, Oxford 1970.[714] cameron av., Procopius and the Sixth Century, Berkeley 1985.[715] croke b., emmett e. m., History and Historians in Late Antiquity, Sydney 1983.[716] momigliano a., L’historiographie païenne et chrétienne au ive siècle après J.-C., in

136, pp. 145-68.[717] paschoud f., Cinq études sur Zosime, Paris 1976.[718] brown p., Potere e cristianesimo nella tarda antichità, ed. it. Roma-Bari 1995.[719] dagron g., L’Empire romain d’Orient au ive siècle et les traditions politiques de l’hel-

lénisme: le témoignage de Thémistius, TM, 3 (1968), pp. 1-242.[720] kennedy g., Greek Rhetoric under Christian Emperors, Princeton 1983.[721] schouler b., La tradition hellénique chez Libanius, Paris 1984.

Neoplatonismo.

[722] athanassiadi p., Damascius. The Philosophical History, Athens 1999.[723] athanassiadi-fowden p., Julian and Hellenism. An Intellectual Biography, Oxford

1981.[724] hadot p., Le problème du néoplatonisme alexandrin: Hiéroclès et Simplicius, Paris

1978.[725] hadot p. (a cura di), Simplicius, sa vie, son œuvre, Atti del convegno internazio-

nale (Parigi, settembre-ottobre 1985), Berlin 1987.[726] hoffmann ph., «Damascius», in goulet r. (a cura di), Dictionnaire des philo-

sophes antiques, II, Paris 1994, pp. 541-93.

Letteratura cristiana.

[727] quasten j., Patrologia, ed. it. Torino-Genova 1992-2000, 5 voll.[728] allen p., Evagrius Scholasticus, the Church historian, Leuven 1981.[729] baur c., S. Jean Chrysostome et ses œuvres dans l’histoire littéraire, Louvain-Paris

1907.[730] bernardi j., Gregorio di Nazianzo: teologo e poeta nell’età d’oro della patristica, ed.

it. Roma 1997.[731] canévet m., Grégoire de Nysse et l’herméneutique biblique, Paris 1983.[732] chesnut g. f., The First Christian Historians: Eusebius, Socrates, Sozomen, Theo-

doret and Evagrius, Paris 1977.[733] grosdidier de matons j., Romanos le Mélode et les origines de la poésie religieuse

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lxviii Introduzione metodologica e bibliografica

[736] pouchet r., Basile le Grand et son univers d’amis d’après sa correspondance, Rome1992.

[737] sirinelli j., Les vues historiques d’Eusèbe de Césarée durant la période prénicéen-ne, Dakar 1961.

[738] wolska-conus w., La topographie chrétienne de Cosmas Indicopleustès. Théologieet science en Orient au vi

e siècle, Paris 1962.

Agiografia.

[739] delehaye h., Les Passions des martyrs et les genres littéraires, Bruxelles 19962.[740] déroche v., Études sur Léonce de Néapolis, Uppsala 1990.[741] flusin b., Miracle et histoire dans l’œuvre de Cyrille de Scythopolis, Paris 1983.[742] van uytfanghe m., L’hagiographie: un «genre» chrétien ou antique tardif?, AB,

111 (1993), pp. 135-88.

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Introduzione metodologica e bibliografica lxix

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lxx Introduzione metodologica e bibliografica

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Introduzione metodologica e bibliografica lxxi

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xi. l’illirico

Vedi anche 149, 185,208-9, 211, 227, 401, 564.

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lxxii Introduzione metodologica e bibliografica

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[851] popoviç v., Une invasion slave sous Justin II inconnue des sources écrites, «Numiz-maticar», 4 (1981), pp. 111-26.

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[853] sodini j.-p., Mosaïques paléochrétiennes de Grèce, BCH, 94 (1970), pp. 699-753;95 (1971), pp. 581-84; 102 (1978), pp. 557-61.

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Introduzione metodologica e bibliografica lxxiii

[854] soustal p., Nikopolis und Kephallenia (TIB, 3), Wien 1981[855] spieser j.-m., Les inscriptions de Thessalonique, TM, 5 (1973), pp. 145-80.[856] spieser j.-m., Thessalonique et ses monuments du ive au vi

e siècle. Contribution àl’étude d’une ville paléochrétienne (BEFAR, 254), Athènes 1984.

[857] travlos j., Bildlexikon zur Topographie des antiken Athens, Tübingen 1971.[858] uenze s., Die spätantiken Befestigungen von Sadovec, München 1992.[859] vasmer m., Die Slaven in Griechenland, Berlin 1941 (Leipzig 1970).[860] velkov v., Cities in Thrace and Dacia in Late Antiquity, Amsterdam 19772.[861] Villes et peuplement dans l’Illyricum protobyzantin, Rome 1984.

xii. l’asia minore

Fonti scr i tte.

[862] basilio di cesarea, Omelie, 18, PG 31, 489 b-c.[863] firmus de césarée, Lettres, a cura di M.-A. Calvet-Sebasti e P.-L. Gatier (SC,

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Brookline 1984.[867] Vita, educatio et miracula Sancti Theodori, in Acta Sanctorum novembris, IV (BHG,

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Iscr iz ioni .

Vedi anche 98.[869] chastagnol a., L’inscription constantinienne d’Orcistus, MEFRA, 93 (1981), pp.

381-416.[870] feissel d., L’«adnotatio» de Constantin sur le droit de cité d’Orcistus en Phrygie,

AnTard, 7 (1999), pp. 255-67.[871] kennell n. m., Heresy at Ephesus, EA, 24 (1995), pp. 131-36.[872] kennell n. m., An Early Byzantine Constitution from Ziporea, EA, 26 (1996), pp.

129-36; vedi il commento di D. Feissel in REG, 111 (1998), pp. 710-11.[873] feissel d., Deux grandes familles isauriennes du ve siècle d’après les inscriptions de

Cilicie Trachée, MiChA, 5 (1999), pp. 9-17.[874] feissel d., Öffentliche Straßenbeleuchtung im spätantiken Ephesos, in scherrer

p., taeuber h., thür h. (a cura di), Steine und Wege, Wien 1999, pp. 25-29.[875] di branco m., Lavoro e conflittualità sociale in una città tardoantica. Una rilettura

dell’epigrafe di Sardi CIG 3467 (= Le Bas-Waddington 628 = Sardis VII, 1, n. 18),AnTard, 8 (2000), pp. 181-208.

[876] zuckerman c., The Dedication of a Statue of Justinian at Antioch, in drew-bear

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lxxiv Introduzione metodologica e bibliografica

Storia e amministrazione.

Oltre alle opere generali 151 e 344, per l’Anatolia si farà riferimento a 348 e a due studispecifici:[877] mitchell s., Anatolia, Land, Men and Gods in Asia Minor, 2 voll., Oxford 1993.[878] carrié j.-m., Bryonianus Lollianus de Sidè ou les avatars de l’ordre équestre, ZPE,

35 (1979), pp. 213-24.

Risorse natura l i (marmi, metal l i ) .

[879] asgari n., The Proconnesian Production of architectural éléments in late antiquity,based on evidence from the marble quarries, in 494, pp. 263-88.

[880] monna d., pensabene p., Marmi dell’Asia Minore, Roma 1977.[881] pitarakis b., Mines anatoliennes exploitées par les Byzantins: recherches récentes,

RN, 153 (1998), pp. 141-85.[882] yener k. a., toydemir a., Byzantine Silver Mines: An Archeometallurgy Project in

Turkey, in 753, pp. 155-68.

Prospezioni e studi regional i .

[883] geyer b., lefort j. (a cura di), La Bithynie au Moyen Âge, Paris 2003.[884] hild f., restle m., Kappadokien (Kappadokia, Charsianon, Sebasteia und Lykan-

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(= 561, ii).[890] mitchell s., The Pisidian Survey, in matthews r. (a cura di), Ancient Anatolia.

Fifty Years’ Work by the British Institute of Archaeology at Ankara, London 1998,pp. 251-25.

Città e terr i tor io.

[891] marek c., Stadt, Ära und Territorium im Pontus-Bithynia und Nord-Galatia, Tübin-gen 1993.

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Infrastrutture stradal i .

[893] hild f., Das byzantinische Straßensystem in Kappadokien (VTIB, 2), Wien 1977.[894] french, d. h., The Site of Barata and Routes in the Konya Plain, EA, 27 (1996),

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Introduzione metodologica e bibliografica lxxv

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[900] belke k., Prokops De Aedificiis, Buch V, zu Kleinasien, AnTard, 8 (2000), pp.115-25.

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lxxvi Introduzione metodologica e bibliografica

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[918] ruggieri v., giordano f., Una città bizantina sul sito cario di Alakisla, OCP, 62(1996), pp. 53-88.

Paganesimo, g iudaismo e cr ist ianes imo.

Vedi anche 275, in particolare capp. vi (Afrodisia, II, pp. 52-73) e vii (Asia Minore, II,pp. 74-133).

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Economia e società.

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Shipwreck, Austin 1982.

xiii. la siria-palestina

Vedi anche 198, 400, 469, 472-73, 562, 571, 672, 705, 750.

[932] balty j. e altri (a cura di), Apamée de Syrie. Bilan des recherches archéologiques1965-1968, Atti del convegno (Bruxelles, 29-30 aprile 1969), Bruxelles 1969;id., Apamée de Syrie. Bilan des recherches archéologiques 1969-1971, Atti del con-vegno (Bruxelles, 15-18 aprile 1972), Bruxelles 1972; id., Apamée de Syrie: aspectsde l’architecture domestique d’Apamée. Bilan des recherches archéologiques 1973-1979, Atti del convegno (Bruxelles, 29-31 maggio 1980), Bruxelles 1984.

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Introduzione metodologica e bibliografica lxxvii

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lxxviii Introduzione metodologica e bibliografica

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iie au vii

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Introduzione metodologica e bibliografica lxxix

xiv. l’egitto bizantino (284-641)

Referenze papirologiche.

Vedi 91.

Opere genera l i , encic lopedie.

[985] atiya a. s. (a cura di), The Coptic Encyclopedia, 8 voll., New York 1991.[986] bowman a. k., Egypt after the Pharaohs, 332 BC - AD 642 from Alexander to the

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Stor ia genera le .

[987] altheim-stiehl r., Wurde Alexandreia im Juni 619 n. Chr. durch die Perser ero-bert? Bemerkungen zur zeitlichen Bestimmung der sasanidischen Besetzung Ägyptensunter Chosrau II. Parwez, «Tyche», 6 (1991), pp. 3-16.

[988] bagnall r. s., Egypt in Late Antiquity, Princeton 1993 (fondamentale per il iv eil v secolo, nonché per l’epoca ulteriore, con un’abbondante bibliografia; rec. diGascou in «Topoi», 6 (1996), pp. 333-49).

[989] borkowski z., Inscriptions des factions à Alexandrie, Varsovie 1981, pp. 9-70 (av-venimenti dell’inizio del vii secolo).

[990] butler a. j., The Arab Conquest of Egypt and the Last Thirty Years of the RomanDominion, a cura di P. M. Fraser, Oxford 19782 (include anche The Treaty ofMisr in Tabari (1913) e Babylon of Egypt (1914), una bibliografia ragionata e ul-teriore documentazione).

[991] maccoull l. s. b., Coptic Egypt during the Persian Occupation. The PapyrologicalEvidence, SCO, 36 (1986), pp. 307-13, 328.

Geograf ia .

Libia, Cirenaica.

[992] roques d., Synésios de Cyrène et la Cyrénaïque du Bas-Empire, Paris 1987 (vedi inparticolare pp. 217-34 sull’amministrazione militare delle Libie e 322-41 sulla lo-ro storia religiosa).

Deserti.

[993] bousquet b., Tell-Douch et sa région, géographie d’une limite de milieu à une fron-tière de l’empire, Le Caire 1996.

[994] meyer c., heidorn l. a., kaegi w. e., wilfong t., Bir Umm Fawakhir SurveyProject 1993: a Byzantine gold-mining town in Egypt, Chicago 2000.

[995] wagner g., Les Oasis d’Égypte à l’époque grecque, romaine et byzantine d’après lesdocuments grecs, Le Caire 1987 (importante rec. di reddé m., Les oasis d’Égypte,JRA, 2 (1989), pp. 281-90).

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lxxx Introduzione metodologica e bibliografica

Maremoto del 365.

[996] jacques f., bousquet b., Le raz de marée du 21 juillet 365. Du cataclysme local àla catastrophe cosmique, MEFRA, 96 (1984), pp. 423-61 (vedi lepelley c., L’A-frique du nord et le prétendu séisme universel du 21 juillet 365, ivi, pp. 463-91).

Idraulica nilotica, irrigazione.

[997] alleaume g., Les systèmes hydrauliques de l’Égypte pré-moderne. Essai d’histoiredu paysage, in décobert ch., martin m. (a cura di), Itinéraires d’Égypte: Mélan-ges offerts au Père Maurice Martin S.J., Le Caire 1992, pp. 301-22.

[998] bonneau d., Le régime administratif de l’eau du Nil dans l’Égypte grecque, romai-ne et byzantine, Leiden - New York - Köln 1993.

Generi di v ita.

[999] gascou j., La vie de Patermouthios, moine et fossoyeur, in décobert ch., mar-

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[1001] keenan j. g., Village Shepherds and Social Tension in Byzantine Egypt, YClS, 28(1985), pp. 245-59.

[1002] keenan j. g., Pastoralism in Roman Egypt, BASP, 26 (1989), pp. 175-200.[1003] giliberti g., Le comunità agricole nell’Egitto romano, Napoli 1993.

Lavoro.

[1004] morelli f., Time e misthos: vendita e prestazione di lavoro. Osservazioni sulle re-lazioni economiche tra artigiani e proprietà nell’Egitto bizantino, «Comunicazio-ni», Istituto Papirologico G. Vitelli, Firenze 1997, pp. 7-29 (studio di grandeperspicacia).

[1005] wipszycka e., L’industrie textile dans l’Égypte romaine, Wroclaw-Varsovie-Cra-covie 1965.

Dati etnic i .

[1006] bagnall r. s., palme b., Franks in Sixth-century Egypt, «Tyche», 11 (1996), pp.1-10.

[1007] demicheli a. m., Rapporti di pace e di guerra dell’Egitto romano con le popolazio-ni dei deserti africani, Milano 1976.

[1008] fikhman i. f., Les Juifs d’Égypte à l’époque byzantine d’après les papyrus publiésdepuis la parution du Corpus Papyrorum Judaicarum III, in Cotton h. m., price j.

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[1009] rea j., The Letter of Phonen to Aburni, ZPE, 34 (1979), pp. 147-62 (Blemmi,Nubadi).

[1010] sirat c. e altri, La «Ketouba» de Cologne, Opladen 1986.[1011] török l., Late Antique Nubia, Budapest 1988.

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Introduzione metodologica e bibliografica lxxxi

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Greco e copto.

[1013] rochette b., Sur le bilinguisme dans l’Égypte gréco-romaine, CE, 71 (1996), pp.153-68.

Lat inizzazione.

[1014] rochette b., Le latin dans le monde grec. Recherches sur la diffusion de la langueet des lettres latines dans les provinces hellénophones de l’Empire romain, Bruxel-les 1997.

Arte copta.

[1015] Ägypten, Schätze aus dem Wüstenland, Kunst und Kultur der Christen am Nil(catalogo della mostra con abbondante bibliografia), Wiesbaden 1996.

[1016] robert l., Sur un tissu récemment publié, CArch, 8 (1956), pp. 28-36.[1017] spieser j.-m., À propos du linteau d’Al-Moallaqa, in Orbis Romanis Christianu-

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[1020] alston r., The City in Roman and Byzantine Egypt, London 2002.[1021] gagos t., van minnen p., Settling a Dispute, toward a Legal Anthropology of Late

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[1028] bogaert r., La banque en Égypte byzantine, ZPE, 116 (1997), pp. 85-140.[1029] delmaire r., Le personnel de l’administration financière en Égypte sous le Bas-

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lxxxii Introduzione metodologica e bibliografica

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Esercito.

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[1034] keenan j. g., Evidence for the Byzantine Army in the Syene Papyri, BASP, 27(1990), pp. 139-50.

[1035] maspero j., Organisation militaire de l’Égypte byzantine, Paris 1912.[1036] rémondon r., Soldats de Byzance d’après un papyrus trouvé à Edfou, RechPap, 1

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Società.

Vedi anche 511 (il vol. II è essenzialmente dedicato all’Egitto).

[1038] keenan j. g., The Names Flavius and Aurelius as Status Designations in Later Ro-man Egypt, ZPE, 11 (1973), pp. 33-63, e 13 (1974), pp. 283-304 (vedi id., AnAfterthought on the Names Flavius and Aurelius, ZPE, 53 (1983), pp. 245-50).

[1039] fikhman i. f., Esclaves et colons en Égypte byzantine, APapyrol, 3 (1991), pp.7-17.

[1040] fikhman i. f., Sur quelques aspects socio-économiques de l’activité des corpora-tions professionnelles de l’Égypte byzantine, ZPE, 103 (1994), pp. 19-40 (riccabibliografia).

Vita inte l lettuale.

Vedi 708 e 711.

Crist ianes imo.

Per le questioni dottrinali che coinvolgono la Chiesa d’Egitto si farà riferimento, oltreal presente manuale, ai capitoli specifici di 246. Vedi anche 373-78 e 626.

[1041] martin a., Athanase d’Alexandrie et l’Église d’Égypte au ive siècle (328-373), Ro-me 1996 (fondamentale per il iv secolo).

[1042] frankfurter d. (a cura di), Pilgrimage and Holy Space in Late Antique Egypt,Leiden-Boston-Köln 1998.

[1043] schmelz g., Kirchliche Amtsträger im spätantiken Ägypten nach den Aussagen dergriechischen und koptischen Papyri und Ostraka, München-Leipzig 2002.

[1044] kramer j., Was bedeutet «koimeterion» in den Papyri?, ZPE, 80 (1990), pp.269-72.

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Introduzione metodologica e bibliografica lxxxiii

[1045] maspero j., Histoire des patriarches d’Alexandrie, Paris 1923.[1046] van minnen p., The Roots of Egyptian Christianity, APF, 40 (1994), pp. 71-85.[1047] wipszycka e., Le istituzioni ecclesiastiche in Egitto dalla fine del iii all’inizio del-

l’viii secolo, in camplani a. (a cura di), L’Egitto cristiano, aspetti e problemi inetà tardo-antica, Roma 1997, pp. 220-71.

[1048] zuckerman c., The Hapless Recruit Psois and the Mighty Anchorite, Apa John,BASP, 32 (1995), pp. 193-94.

I concorrenti del cr ist ianes imo.

[1049] gardner i. m. f., lieu s. n. c., From Narmouthis (Medinet Madi) to Kellis (IsmantEl-Kharab): Manichean Documents from Roman Egypt, JRS 86 (1996), pp. 146-169. Questi autori trascurano (e senza dubbio respingono) la datazione bassa(viii secolo) recentemente proposta per il «micro-codice» di Colonia (B. L.Fonkiç e F. B. Poljacov, BZ, 83 (1990), pp. 22-30).

[1050] brashear w., A Mithraic Catechism from Egypt, Wien 1992 (vedi tuttavia tur-

can r., Mithra et le mithriacisme, Paris 1993, pp. 152-56).[1051] Begegnung von Heidentum und Christentum im spätantiken Ägypten, Riggisberg

1993.[1052] frankfurter d., Religion in Roman Egypt. Assimilation and resistance, Prince-

ton 1998.

Alessandria.

[1053] bowersock g. w., Late Antique Alexandria, in Alexandria and Alexandrianism,Malibu 1996, pp. 263-70.

[1054] haas chr., Alexandria in Late Antiquity: Topography and Social Conflict, Balti-more-London 1997.

[1055] fraser p. m., Byzantine Alexandria, in swelim n. (a cura di), Alexandrian stu-dies in memoriam Daoud Abdu Daoud, Alexandria 1993, pp. 91-106.

L’Egitto e Bisanzio.

[1056] Survey archéologique des Kellia, Basse-Egypte, II. Explorations aux Qouçoûr er-Roubâ’îyât: rapport des campagnes 1982 et 1983, a cura di Ph. Bridel e N. Bos-son, Louvain 1994, n. 303, pp. 448-49 (J. Partyka, iscrizione datata di Giusti-niano II).

[1057] rutschowscaya m.-h., La peinture copte, Paris 1992, pp. 60-62 e fig. a coloria p. 12 (icona di Anthousa).

[1058] wipszycka e., Le nationalisme a-t-il existé dans l’Égypte byzantine?, JJP, 22(1992), pp. 83-128 (= 373, pp. 9-62).

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Avvertenza

In conformità a consuetudini ormai largamente condivise, si è prov-veduto alla trascrizione dei termini greci o grecizzati, sempre segnalatiin corsivo, osservando generali criteri di chiarezza in grado di esaltarnel’immediata perspicuità anche agli occhi del lettore non specialista. Purnel complessivo rispetto delle norme di traslitterazione tradizionali – inbase alle quali q corrisponde a th, x a x, f a ph, c a ch, y a ps; i ditton-ghi au, eu, ou ad au, eu, ou (ma u = y); i nessi gg, gk, gc rispettivamen-te a ng, nk, nch, ecc. – si è perciò omessa ogni indicazione relativa allaquantità sillabica (riducendo, di conseguenza, e ed h ad e, o e w ad o) oall’accentazione tonica delle parole, salvo nei casi di termini entrati nel-l’uso italiano quali agorà, bulè e simili. Più specificamente, si è ritenutoopportuno normalizzare l’uso trascrittorio degli antroponimi greci se-condo le convenzioni enunciate da Silvia Ronchey nella Nota sulla tra-slitterazione dei nomi bizantini contenuta in a. p. kazhdan e s. ron-

chey, L’aristocrazia bizantina dal principio dell’xi alla fine del xii secolo,Palermo 1998. Per quanto concerne l’ortografia dei toponimi – e, piùsporadicamente, degli etnonimi – antichi, è stata riprodotta di massimala forma italianizzata (Filippi, Sirmio, Amorio) e, ove ciò fosse possibilesenza determinare forzature eccessive, moderna (Durazzo anziché Dir-rachio o Dyrr[h]achium), mantenendo altrimenti la scrizione originale,traslitterata (Aizanoi, Byllis) o non traslitterata (Singidunum).

Anche per le occorrenze dal camito-semitico (arabo, ebraico/aramai-co, copto) ed eventualmente dall’iranico, frequenti in particolare nei ca-si degli antroponimi e dei toponimi indicizzati, sono state tenute pre-senti le norme di traslitterazione comunemente adottate, omologando-le nei limiti del lecito attraverso l’impiego minimo di pochi segnidiacritici strettamente indispensabili, in base alle corrispondenze con-suete – per cui: ’ = aleph (ebr./aram.) / alif, ovvero hamzÇ (ar.), ‘ = ‘ayn(ebr./aram. ar.), ® = ®Ç, kh = khÇ (ar.), ecc. –, ma anteponendo al rigo-re astratto della regola una prassi di sostanziale flessibilità in presenzadi varianti comuni, meglio note o più significative (e intelligibili) sotto

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lxxxvi Avvertenza

il profilo della trascrizione fonematica, che ha determinato ad es. occa-sionali oscillazioni tra j e _ nella resa di _¥m ar. – così Jabal (nei toponi-mi composti) e Jihad, ma Hi_iaz –, ovvero addirittura tra sh (‰ ) e sc, uti-lizzati tanto per esprimere ‰¥n ebr./aram. ar. quanto ‰ai copto, come inMishnà, Shbeyt [ Jabal ], ma Scenute. Per analoghi motivi di semplicità,nelle traslitterazioni dall’ar. si è evitato di rilevare le fricative interden-tali < £ (<®Ç’ e £®Çl ) come pure di distinguere i contoidi semplici t d s zdai corrispondenti enfatici. L’articolo determinativo usualmente pre-fisso ai toponimi copti è stato inoltre trascritto in forma vocalizzata,evidenziando lo ‰ewà in apice (così Pebou [ma lemmatizzato s.v. Bau],Tesmine [Zminis]).

M. S.

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L’Impero romano d’Oriente(330-641)

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parte prima

La continuità dell’Impero romano in Oriente

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cécile morrisson

i. Gli avvenimenti: prospettiva cronologica1

1. Costantino, fondatore dell’Impero cristiano.

La vittoria di Crisopoli su Licinio, nel 324, lascia Costantino unicopadrone dell’Impero. Tale evento mette fine all’ultima sopravvivenzadell’organizzazione tetrarchica, all’interno della quale l’Occidente e l’O-riente erano stati spartiti, rispettivamente, tra gli augusti Costantino eLicinio e i loro figli, i cesari, Crispo e Costantino II da una parte, Lici-nio il Giovane dall’altra. È in questa data che Costantino decide di fa-re di Bisanzio una città che avrebbe portato il suo nome e sarebbe sta-ta, se si presta fede a Eusebio, dedicata alla fede cristiana, grazie allaquale aveva riportato la vittoria (V. Const., 3.48).

Comprendendo il valore che l’unità della Chiesa rappresenta per loStato divenuto cristiano, Costantino convoca un concilio a Nicea, unadelle sue residenze. Si trattava essenzialmente di risolvere il dibattitoteologico che opponeva le Chiese di Antiochia e Alessandria sulla datadella Pasqua. Occorreva anche lottare contro il pericolo ariano, pren-dendo posizione tra i partigiani e gli avversari di Ario in merito alla na-tura di Cristo. Il concilio di Nicea proclama il Padre consustanziale (ho-moousios) al Figlio e condanna Ario, il quale, esiliato, torna tuttavia benpresto in auge e gode del sostegno dell’imperatore, e più tardi di quellodei suoi figli [cfr. cap. ii].

Costantino è frattanto divenuto personalmente cristiano, come mo-strano più indizi: sulle monete, l’abbandono dei riferimenti al culto so-lare e la sostituzione del titolo, a esso legato, di invictus con quello divictor, nonché il rifiuto, da parte dell’imperatore, di salire a celebrare iconsueti sacrifici sul Campidoglio, in occasione della sua visita a Romanel 326.

Le cerimonie di consacrazione di Costantinopoli, l’11 maggio 330,testimoniano tuttavia la permanenza di riti non cristiani, data la presen-za di uno ierofante e di un consacratore pagani e, forse, il trasferimen-to della statua di Atena (Pallade), il palladium di Roma [Dagron 493,pp. 35-41], mentre le fondazioni imperiali non sembrano avervi parti-

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6 La continuità dell’Impero romano in Oriente

colarmente favorito la nuova religione [cfr. cap. vi]. È soprattutto a Ro-ma (basiliche del Laterano e di San Pietro) e in Terra Santa che il cri-stianesimo dell’imperatore si fa notare, con la consacrazione nel 335 del-la basilica, riccamente dotata, del Santo Sepolcro, la quale dà l’avvio auna serie di costruzioni sui siti dei principali avvenimenti della vita diCristo (Natività a Betlemme, Ascensione ecc.) [cfr. cap. x]. Ciò contri-buisce allo sviluppo dei pellegrinaggi e all’insediamento in Palestina dicristiani benestanti, che vi praticano la devozione, se non l’ascetismo,in numero crescente a partire dalla metà del iv secolo [cfr. cap. viii].

La confisca dei tesori e delle statue dei templi, tra 331 e 336, per-mette di finanziare tali munificenze; insieme all’istituzione di nuove im-poste in metallo prezioso (collatio glebalis, collatio lustralis, chrysargyron),facilita inoltre la comparsa della nuova moneta d’oro [cfr. cap. vii]. Nonè certo, comunque, che abbia avuto il significato religioso che le attri-buisce Eusebio (V. Const., 3.54). Malgrado la distruzione di qualche tem-pio e l’interdizione della prostituzione sacra, l’esercizio della religionepagana resta infatti autorizzato, e i rituali e gli edifici continuano a es-sere sostenuti e mantenuti dallo Stato. Tuttavia, il favore personale mo-strato dall’imperatore verso i cristiani, e soprattutto la legislazione cheesentava gli ecclesiastici dalle funzioni curiali (CTh, 16.2.1-2), accordan-do ai vescovi poteri giudiziari [cfr. cap. iv], ebbero certamente un ruo-lo importante – anche se non mancarono altre cause – nella diffusionedel cristianesimo all’interno della società. La religione minoritaria a ma-lapena tollerata e talora perseguitata, alla quale si aderiva non senza ri-schi, era divenuta un’istituzione riconosciuta e ricca, che da quel mo-mento in poi attirò progressivamente sempre più convertiti, fino a do-minare la società, nel corso del cinquantennio seguente. Perciò, gli autoripagani del iv secolo (Giuliano, Ammiano Marcellino, Eunapio) fanno diCostantino il responsabile del declino della religione tradizionale non-ché della decadenza romana, mentre la tradizione cristiana ne fa un san-to a partire dal iv secolo.

Santità postuma e alquanto imperfetta, a occhi moderni, dal momen-to che nel 326, in circostanze oscure – il sospetto di adulterio forse nonera che un pettegolezzo –, Costantino fece uccidere il suo figlio di pri-mo letto Crispo e la sua seconda moglie Fausta. La successione dinasti-ca già tracciata da Costantino e Licinio non è per questo messa in cau-sa: nel 333, Costantino aggiunge come cesari agli altri figli, CostantinoII e Costanzo II (proclamato nel 324), il proprio figlio più piccolo Co-stante e il nipote Dalmazio. Alla sua morte, sopraggiunta l’11 maggio337, dopo che ebbe ricevuto da un vescovo ariano il battesimo in extre-mis, secondo una pratica allora assai diffusa, il potere spetta dunque a

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questi quattro cesari [cfr. fig. 1, p. 8]. L’esercito si ribella, probabilmen-te istigato da Costanzo, dichiara di non volere come augusti altri che ifigli di Costantino e massacra i loro zii Dalmazio e Giulio Costanzo, ei loro cugini, il cesare Dalmazio e Annibaliano.

Il 9 settembre 337, alla loro proclamazione come augusti, i figli diCostantino si spartiscono l’Impero: Costanzo regnerà sull’Oriente, Co-stante su una gran parte dell’Occidente, ad eccezione di Gallia, Spagnae Britannia, appannaggio del figlio primogenito, Costantino II, che sem-bra aver goduto d’una certa precedenza. Si nota già il relativo fraziona-mento dell’Occidente, spartito tra due augusti e diviso in più prefettu-re, di contro all’Oriente, governato da un solo imperatore e dal suo uni-co prefetto del pretorio. L’eredità politica di Costantino risiede in effettinella trasformazione progressiva (piuttosto che in una «riforma»), a par-tire dal 324, dell’organizzazione amministrativa dell’Alto Impero, tra-sformazione che prosegue, con qualche modifica, l’opera di Dioclezia-no [cfr. cap. iii; Delmaire 335].

La sua eredità militare è in apparenza positiva, contraddistinta dallacreazione dell’esercito mobile del comitatus [cfr. cap. v], e gli ultimi ven-ti anni di regno sono relativamente pacifici: gli Alamanni sono contenu-ti sul limes renano, i Sarmati e una parte dei Goti (i Tervingi) sono vintinel 332 e poi insediati nell’Impero, dietro l’impegno di fornire 40 000uomini a ciascuna requisizione [Giordane 175, 21.52]. Sul fronte persia-no, tuttavia, la situazione si degrada a partire dalla persecuzione dei cri-stiani sotto Sapore II (310-79). La conversione dell’Armenia, nel 312, ela sua annessione da parte di Costantino poco tempo dopo [Zuckerman234] avevano segnato, infatti, un certo allontanamento del paese dallasfera iranica, in coincidenza con l’inizio di tensioni costanti, in merito aciò, tra Roma e la Persia.

2. Costanzo II, Giuliano, la guerra persiana e il ritorno all’unità del-l’Impero (337-63).

Costante si libera dal 339 della tutela di Costantino II, che è vintoe ucciso ad Aquileia nel 340. La separazione dura fino al 350, accresciu-ta da un’opposizione religiosa tra i due fratelli: Costanzo sostiene l’aria-nesimo in Oriente, mentre Costante vi si oppone; infine, il reinsedia-mento del vescovo cattolico Atanasio ad Alessandria porta a una rappa-cificazione provvisoria nel 346 [cfr. cap. ii]. Nel 350, dopoché Costanteera stato rovesciato e ucciso in Gallia da Magnenzio, un ufficiale di ori-gine germanica (leto), che viene proclamato imperatore, Costanzo si met-

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costantino ii costanzo ii costante Elena Costantina Dalmazio Gallo giuliano Licinioil Giovane

Giulio Costanzo Costanza licinioDalmazioCrispo

costantino i MinervinaFausta

costanzo cloro TeodoraElena

Graziano il Vecchio

valentiniano i GiustinaMarinavalente magnenzio

grazianoCostanza

Teodosio il Vecchio

valentiniano iiGallateodosio iElia FlaccillaOnorio GiustaGrata

Serena Stilicone BAUTONE

EudossiaonorioMaria Graziano Pulcheria arcadio Galla Placidia costanzo iii

Eudociateodosio iiFlaccillaPulcheriamarciano?

Eudossia valentiniano iii Onoria

Eudocia olibrioPlacidia

GENSERICO

UNERICO

ILDERICOantemio

Verinaleone i

Ariannaanastasio iMarciano Leonzia zenone Marco

Basilisco Zenonide

Leone II

Annibaliano

La tavola è schematica e parziale; dati più completi in PLRE. Gli elementi barbarici sono in corsivo.

Figura 1. Le dinastie costantiniana, valentiniana, teodosiana e relativi legami matrimoniali.

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te in viaggio verso l’ovest e ottiene l’abdicazione del magister militumdell’Illirico, Vetranione, che è stato similmente proclamato imperatoredalle truppe. Dopo aver vinto Magnenzio a Mursa (sulla Drava, oggiOsijek) il 28 settembre 351, ristabilisce il proprio potere sull’Italia nel352. Nel 353 Magnenzio, definitivamente vinto in Gallia, si suicida aLione; Costanzo, ormai unico padrone dell’Impero, può celebrare ad Ar-les un trionfo che coincide con i suoi tricennalia, e prosegue poi senzagrandi successi la lotta intrapresa da Costante contro gli Alamanni.

Costanzo è descritto da Ammiano Marcellino (21.16) come pieno del«solenne aspetto dell’autorità imperiale», da lui esercitata con l’impie-go – quando, geloso del proprio potere, lo riteneva minacciato – d’unaferocia spietata, mentre per il resto era di costumi sobri e moderati, conla pretesa di essere colto ma dotato in verità di uno «spirito ottuso»,mescolando «la chiarezza e la semplicità della religione cristiana con su-perstizioni da vecchiette». Ammiano Marcellino, ufficiale pagano ori-ginario di Antiochia, testimone oculare di numerosi avvenimenti, è l’au-tore delle Res Gestae scritte in latino a Roma alla fine del iv secolo, e«merita di essere paragonato a Tacito» [Cameron 141, XIII, p. 686]. Cisono pervenuti solo i libri che coprono gli anni dal 353 al 378; la loropotenza è tale che numerosi elementi o personaggi di quei tempi saran-no sempre visti per il tramite della sua narrazione. È il caso del suo ri-tratto di Costanzo, nel quale si vuole ancora vedere, forzandone i trat-ti in maniera caricaturale, «il primo degli imperatori bizantini, per il suogusto di un fasto freddo e ieratico, il suo distacco dai propri sudditi, lasua debolezza davanti agli intrighi degli eunuchi e delle donne»2.

Dal 337 al 350, Costanzo II si dedica in Oriente, dalla propria resi-denza di Antiochia, alla lotta contro i Persiani, ristabilendo l’influenzaromana in Armenia e impedendo le incursioni persiane in Mesopotamiagrazie a una strategia prudente, che si limitava alla difesa delle città for-tificate ed evitava finché possibile le battaglie campali. Alla sua parten-za per l’Occidente, affida l’Oriente al proprio cugino, Gallo, nominatocesare nel 351. La mancanza di accortezza e gli eccessi di Gallo, chegiungono fino a far assassinare ad Antiochia gli inviati dell’imperatore,lo fanno richiamare in Italia, dov’è decapitato nel 354. L’anno seguen-te Costanzo, che non ha figli, è obbligato a scegliere un altro cesare,Giuliano, il fratellastro di Gallo, scampato come quest’ultimo al massa-cro del 337 [cfr. fig. 1]. Esiliato nella sua infanzia, insieme a Gallo, inBitinia, poi in Cappadocia, Giuliano aveva ricevuto un’educazione cri-stiana, ma, una volta autorizzato a rientrare a Costantinopoli, aveva fre-quentato gli ambienti mistici neoplatonici a Nicomedia, Pergamo, Efe-so e Atene, e aveva aderito al paganesimo in segreto, con una conver-

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ioane

io

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10 La continuità dell’Impero romano in Oriente

sione che gli valse poi il soprannome di «Apostata». Nel 355, Costan-zo gli affida la difesa della Gallia, minacciata da Franchi e Alamanni.Giuliano vi fa prova di grandi qualità militari e amministrative, rimet-tendo le città in grado di difendersi, battendo con forze inferiori unagrande armata di Alamanni a Strasburgo (357), mostrando che si pote-vano raccogliere le tasse con efficacia e giustizia, lottando contro la cor-ruzione abituale in quest’ambito (Ammiano Marcellino, 16.5.14-15 e17.3.1-6). Così, quando Costanzo, inquieto per questa popolarità cre-scente, vuole richiamare una parte delle sue truppe in Oriente, i solda-ti si rivoltano e proclamano Giuliano augusto (febbraio 360). Dopo chela ricerca di un compromesso è fallita, Giuliano avanza con le proprietruppe in Illirico e apprende a Naisso (Ni‰) la notizia della morte di Co-stanzo, sopraggiunta in Cilicia (3 novembre 361) quando l’imperatoreaveva lasciato Antiochia e il fronte persiano, momentaneamente calmo,per un confronto inevitabile.

Ultimo erede della dinastia costantiniana, Giuliano è ormai il solopadrone dell’Impero. Dopo aver celebrato i funerali cristiani di Costan-zo, che è sepolto ai Santi Apostoli (dicembre 361), prende subito un cor-so contrario a quello del proprio predecessore, affetta la semplicità delfilosofo al posto della solennità imperiale, procede a riduzioni di perso-nale a Corte e nell’amministrazione, rafforza gli effettivi dei curiali e lefinanze delle città. Questa contrapposizione si manifesta soprattutto incampo religioso (Ammiano Marcellino, 22.5.2): abolisce le misure per-secutorie di Costante e Costanzo, come l’interdizione dei sacrifici pro-mulgata nel 341 (CTh, 16.10.2) o la chiusura dei templi (CTh, 16.10.4),nel 346, reiterate nel 356-57. Emette un editto di tolleranza generale,che comprendeva pagani, ebrei e cristiani di tutte le sette, che avrebbe-ro dovuto essere indeboliti, pensava, dalle proprie discordie. Le agevo-lazioni per gli ecclesiastici sono soppresse, i templi pagani riaperti o ri-costruiti a spese dei cristiani, e l’imperatore progetta di ricostruire ilTempio di Gerusalemme. Il culto pubblico degli dèi è ristabilito, men-tre Giuliano cerca di organizzare una Chiesa pagana gerarchizzata, e in-cita a praticare la carità verso i poveri, sul modello della Chiesa cristia-na. Infine, proibisce ai cristiani d’insegnare la retorica e la grammatica(CTh, 13.3.5, da integrare con Giuliano, Ep., 61, e Gregorio di Nazian-zo, Disc., 4.5, PG 35). Questo cambiamento di politica non è privo dieccessi o azioni legali talora ingiustificate, che scatenano passioni e som-mosse. Ad Antiochia, dove passa quindici mesi, dal marzo 362 al mag-gio 363, Giuliano si scontra con un’opinione pubblica ostile, in maggio-ranza schierata col cristianesimo, e tanto più malcontenta in quanto in-furia una crisi frumentaria, in parte provocata – o in ogni caso accentuata

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– dalla concentrazione di truppe nella regione. È grazie alla satira (Mi-sopogon) da lui stesso dedicata a queste critiche e fatta affiggere a unportico vicino al palazzo, che questi incidenti sono particolarmente benconosciuti.

Sempre per reazione contro Costanzo, Giuliano decide di lanciare,nella tradizione di Alessandro e Traiano, una grande offensiva contro iPersiani che non aveva molte giustificazioni. In effetti, dopo aver pre-so e distrutto Amida nel 359 e Singara nel 360, Sapore si era contenta-to di tenere Bezabda e si era ritirato lontano dalla frontiera. Respingen-do i consigli di prudenza della sua cerchia, Giuliano avanza verso l’Eu-frate e scende verso Ctesifonte. Vincitore dell’esercito persiano, rinunciatuttavia ad assediare la capitale e, bruciando i battelli della spedizione,decide di risalire lungo il Tigri nella speranza di raggiungere un altrocontingente romano. In un territorio ostile e devastato, sotto un caloreopprimente, l’avanzata dell’esercito, logorato dai Persiani e dai loro au-siliari arabi, è assai difficile.

Dopo che Giuliano è stato ucciso nel corso di uno scontro (il 27 giu-gno 363), l’esercito proclama imperatore Gioviano, un ufficiale cristia-no di una trentina d’anni che non era legato ad alcuna delle fazioni esi-stenti. Occorre firmare una pace vergognosa, con la quale l’Impero ri-nuncia a cinque province della Mesopotamia a est del Tigri, a suo tempoconquistate da Massimiano e Diocleziano, e cede Nisibi, insieme ad al-tre fortezze di frontiera che fino ad allora avevano resistito vittoriosa-mente ai tentativi di Sapore.

3. La dinastia valentiniana e Teodosio (363-95).

Dopo il decesso di Gioviano ad Ancira, a dicembre, i capi dell’eser-cito e gli alti funzionari scelgono per suo successore un altro ufficiale pan-nonico e cristiano, Valentiniano, che proclama personalmente augusto ilproprio fratello Valente (28 marzo 364). L’estinzione della dinastia co-stantiniana provoca il ritorno alla prassi di una «monarchia militare» deliii secolo e, come ai tempi della Tetrarchia, la divisione tra l’Oriente, sot-to Valente, e l’Occidente, compreso l’Illirico, sotto Valentiniano. L’at-taccamento, tuttavia, di una parte dell’esercito alla famiglia di Costanti-no spiega il successo dell’usurpazione di Procopio, un parente di Giulia-no, che, con l’appoggio delle truppe di Tracia e Bitinia, riesce a impadro-nirsi momentaneamente di Costantinopoli (365-66).

Ammiano Marcellino loda «l’imparzialità di cui Valentiniano feceprova in mezzo alla diversità delle religioni» (30.9), un’attitudine che

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Londra

LuteziaTreviri

Lione

ArlesTolosa

MilanoTicino

Aquileia Emona

Siscia Sirmio

Salona

Ravenna

Roma

Napoli

Cartagena

Tangeri Septem Cartagine

Leptis MagnaApol

tarraconense

galizia

lusitania

betica

cartaginiense

narbonense

mauretania

tingitana

mauretania

cesariana

mauretania

sitifense

numidia

proconsolare

bizacena

tripolitania

mesia

i

epiro

nuovo

epir

vecch

dard

prevalitan

ia

dalmazia

savia

valeria

pannonia

norico

tuscia-

umbria

valeria

sannio

campania apulia-

calabria

lucania-

bruzio

sicilia

sardegna

Reno

Danubio

Drava

Sava

BRITANNIA

GALLIE

SETTEPROVINCE

SPAGNA

ITALIAANNONARIA

ITALIASUBURBICARIA

AFRICA

DACI

MACE

PANNONIA

600 km0 300

Diocesi

Provincia

Confini delle diocesi

Confini delle province

Impero d’Occidente

Impero d’Oriente

TRACIA

tracia

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Carta 1. Le divisioni amministrative dell’Impero secondo la Notitia Dignitatum.

a Sirmio

agnaApollonia

CireneAlessandria

Efeso

Antiochia

Cherson

Costantinopoli

Tessalonica

libia ilibia ii

egitto

arcadia

tebaide

augustamnica

palestina iii

palestina

ii

palestina

i

arabia

fenicia

i ii

ii

i siria

ii

i

cilicia

cappadocia i

cappadocia

ii

armenia

i

armenia

ii

mesopotamia

osroeneeufr

atesia

cipro

licia

creta

isole

caria

asia

lidia

ellesponto

panfilia

isauria

licaonia

pisidia

bitinia

frigia

iii

galazia

i

ii

onoriade

paflagonia

elenoponto

ponto

polemoniacogrande

armenia

europa

emimonto

rodope

tracia

mesia

imesia ii

scizia

tessaglia

epiro

nuovo

epiro

vecchio

ellade

macedonia

i

ii

dardania

dacia ripuaria

dacia

medit.

prevalitan

ia

almazia

avia

valeria

onia

ia-

ria

ia-

o

Sava

Tigri

Eufrate

Nilo

AARIA

EGITTO

ORIENTE

PONTO

ASIA

DACIATRACIA

MACEDONIA

NNONIA

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14 La continuità dell’Impero romano in Oriente

s’imponeva, dopo la reazione del regno di Giuliano, e teneva conto del-la resistenza degli ambienti pagani. Gli imperatori infatti accordano aciascuno «la libertà di praticare il culto prescelto dalla propria coscien-za» (CTh, 9.16.9). Solo i manichei restano esclusi da queste misure cheassicurano al paganesimo trent’anni di pace e di lustro, illuminati in Oc-cidente dalle figure di Simmaco, prefetto dell’Urbe nel 384, e di Auso-nio, precettore e consigliere di Graziano, in Oriente invece da quelle diLibanio, il retore e professore di Antiochia, e Temistio, filosofo e reto-re tanto accreditato presso Valente quanto lo era stato sotto CostanzoII. In compenso, la calma è ben lontana dal regnare presso i cristiani,che non avevano cessato di contrapporsi riguardo alla teologia della Tri-nità: Costanzo II nel 359 aveva fatto ratificare in Occidente (conciliodi Rimini) e in Oriente (Seleucia del Calicadno), poi tramite un conci-lio generale a Costantinopoli (360), un compromesso omeista che vienerifiutato dai partigiani di Nicea. In Occidente, dove questi sono mag-gioritari, il credo del 325 è rapidamente ristabilito con il consenso diValentiniano. Nell’Oriente, assai diviso, Valente si scontra in partico-lare con l’opposizione del vescovo di Alessandria, Atanasio, che l’impe-ratore manda in esilio nel 365, come avevano già fatto Costanzo e Giu-liano. Malgrado gli interventi imperiali, l’opera di teologi come Atana-sio o Basilio di Cesarea e la personalità – benché contestabile – del pri-mo finiscono per far avanzare le idee nicene in Oriente, e l’arianesimoè definitivamente condannato dal concilio ecumenico convocato da Teo-dosio I a Costantinopoli nel 381 [cfr. cap. ii]. L’unità della Chiesa del-l’Impero pareva stabilita, ma il problema dell’arianesimo – diffuso inparticolare presso i Goti dal vescovo Ulfila a partire dal 341 – è lungidall’essere risolto.

Il regno di Valentiniano e Valente è contraddistinto da una riorga-nizzazione monetaria e fiscale di grande ampiezza, e numerosi autori ce-lebrano la moderazione e la generosità degli imperatori in tale materia.Una serie di leggi del 367-68 cerca di reprimere le malversazioni nellaraccolta dei tributi e di stimolare la produzione mineraria, mette fine al-le manipolazioni, precedentemente diffuse, della lega metallica dei pez-zi coniati e fa sì che per lungo tempo la moneta d’oro, ormai purificatae battuta in quantità crescente, sia il perno delle finanze e degli scambidell’Impero. Di origine modesta, i sovrani cercano di assicurare la pro-tezione delle persone umili implicate in processi creando o restaurandola funzione del defensor civitatis, e favoriscono non solo la promozionedei loro compatrioti pannonici, ma più in generale quella dei militari odei funzionari di grado medio, ai quali aprono i ranghi del Senato, re-golando nei dettagli le rispettive precedenze. Così si compie alla fine del

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iv secolo la trasformazione dell’ordine ereditario di tipo romano in unanobiltà di funzione [cfr. cap. iii].

Assorbiti dalla difesa dell’Impero, gli imperatori vivono più spessonelle proprie residenze vicino alle frontiere (Treviri, Antiochia) che aRoma o a Costantinopoli, la cui cultura e società sono loro assai estra-nee. In Occidente, Valentiniano fa fronte alla rivolta del capo mauroFirmo in Africa (372), alle incursioni continue degli Alamanni in Gal-lia, dei Pitti e degli Scoti in Britannia (367), dei Sarmati e dei Quadi sulDanubio. È là che muore nel 375, subito rimpiazzato dal proprio figlioGraziano (augusto dal 367) e dal figlio cadetto Valentiniano II, nomi-nato su istigazione del magister militum per Illyricum, il franco Merobau-de, al fine di assicurarsi la lealtà dell’esercito. In Oriente, Valente ave-va cercato, nel corso di parecchi anni, di effettuare interventi armati otrattative sul fronte persiano, ma senza successo, in quanto Sapore re-stava padrone dell’Armenia ed estendeva la sua influenza sulla vicinaIberia (l’attuale Georgia occidentale). Già nel 367-69, Valente si era por-tato oltre il Danubio a ovest del Dnestr (attuale Moldavia), e aveva con-cluso con il capo goto dei Tervingi, Atanarico, una pace che sopprime-va i sussidi e la libertà di commercio accordati nel 332, ma anche l’ob-bligo di fornire contingenti all’esercito romano.

Stabiliti a partire dal iii secolo a nord del Mar Nero, i Goti, di ori-gine germanica, giunti dalla Vistola, dominano nel iv secolo un’ampiazona tra Don e Danubio, che coincide con quella della «cultura diâernjahov-Sîntana de Mures» [Heather 204, Kazanski 208, Wolfram229]. L’avanzata degli Unni, venuti dalle steppe dell’Asia centrale, por-ta alla dissoluzione dei differenti regni goti (Greutungi di Ermanaricoe Tervingi di Atanarico, che si sono voluti identificare a torto a poste-riori con gli Ostrogoti e i Visigoti). Due capi dei Tervingi domandanoallora asilo a Valente. Nel 376 è concluso un accordo che pareva van-taggioso a entrambi i contraenti, giacché offriva all’Impero degli ausi-liari ormai convertiti al cristianesimo, e ai Goti un rifugio e delle terrenella fertile regione da loro scelta, la Tracia (Ammiano Marcellino,31.4.1-12). L’operazione, condotta in fretta, si rivela difficile a causadel gran numero di coloro che giungono, i quali non trovano gli approv-vigionamenti promessi e sono vergognosamente sfruttati dal comes diTracia, Lupicino, che approfitta della situazione per venderne molti co-me schiavi. Il disordine permette ai Greutungi, che Valente aveva esclu-so dall’accordo, di attraversare anch’essi il Danubio. La rivolta esplodealla fine del 377, e l’esercito di circa 15 000 uomini, radunato per met-tere fine al saccheggio e alla devastazione della Tracia e dei Balcani, su-bisce al contrario una sconfitta schiacciante davanti ad Adrianopoli il 9

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16 La continuità dell’Impero romano in Oriente

agosto 378, sconfitta in cui la cavalleria dei Goti gioca un ruolo decisi-vo. I due terzi delle forze romane e l’imperatore stesso sono massacratiin questa «memorabile battaglia che significa realmente per l’Imperouniversale di Roma l’inizio della fine dell’Impero» [Stein 151, I, p. 190].I Goti, tuttavia, non sono equipaggiati per la guerra d’assedio e non pos-sono impadronirsi di Costantinopoli e nemmeno di Adrianopoli, poten-temente fortificate.

Graziano affida l’Oriente a Teodosio (379-95), un militare cristianodi origine spagnola, figlio del magister equitum di Valentiniano, che ave-va pacificato la Britannia e l’Africa. Il nuovo imperatore riceve inoltrela responsabilità delle diocesi di Dacia e Macedonia, che fino ad alloraavevano fatto parte del dominio di Graziano insieme al resto dell’Illiri-co [cfr. cap. xi]. Reclutando a viva forza in Asia, così come presso i bar-bari, delle nuove truppe di una fedeltà e di una qualità incerte, tentacon scarso successo, dalla propria base di Tessalonica, di lottare controi Goti che devastavano la Grecia e le province danubiane fino alle AlpiCozie (Piemonte, Liguria), e si sforza soprattutto di difendere le città.La vittoria dei generali franchi di Graziano, Bautone e Arbogaste, suiTervingi in Macedonia nel 381, sopravvenuta dopo un insuccesso deiGreutungi in Pannonia (o almeno una trattativa tra questi ultimi e Gra-ziano), e soprattutto la stanchezza dei due contendenti portano alla sti-pulazione della pace, il 3 ottobre 382. Le fonti del iv secolo la qualifi-cano come deditio e vi vedono, come Temistio (Oratio, 16) [Dagron 719],la resa e la sottomissione dei barbari, nemici trasformati in contadini ein soldati. Difatti l’accordo, peraltro mal conosciuto nei dettagli, li in-sedia in Mesia tra la catena dei Balcani e il Danubio, in cambio di pre-stazioni militari a fianco dei Romani da effettuarsi in massa su richie-sta, e infatti Teodosio li mobilita in seguito per combattere gli usurpa-tori occidentali. Sembra soprattutto che i Goti, dal probabile numerodi più di 100 000 uomini, siano stati autorizzati a conservare in terri-torio romano la propria organizzazione tribale. Questa semiautonomiadi un gruppo etnico dotato di una forte identità, fondata da una partesu una lingua germanica comune (messa per iscritto dal vescovo Ulfilanella sua traduzione della Bibbia), dall’altra sull’arianesimo adottato al-l’epoca di Costanzo e di Valente (ormai respinto dalla maggioranza deicristiani dell’Impero), e infine su un diritto consuetudinario e una tra-dizione orale propri, celava grandi pericoli a medio termine. L’accor-do, tuttavia, si pone in una lunga tradizione e ricorda quelli conclusida Costantino nel 332 e da Valentiniano nel 376. Soprattutto, non c’e-rano molte altre scelte per difendere il Danubio senza sguarnire gli al-tri fronti, e gli imperatori probabilmente speravano di controllare i

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Goti, come mostra il rifiuto di riconoscere loro un capo [Heather 204].Nel 383 viene concluso un altro trattato di pace con la Persia, per

mezzo del quale vengono delimitate le rispettive zone di influenza inArmenia: l’Impero recupera le sei satrapie (che peraltro conservavano iloro capi ereditari) situate tra le vallate dell’Alto Tigri e dell’Alto Eu-frate, da Karin (Erzerum) a Martiropoli.

Quindi Teodosio può intervenire in Occidente a due riprese: innan-zitutto, in occasione della rivolta di Magno Massimo, un ufficiale d’o-rigine spagnola che era stato proclamato imperatore dall’esercito dellaBritannia. Massimo aveva invaso la Gallia e Graziano era stato uccisoa Lione dalle proprie truppe (383). Sembra che Teodosio abbia inizial-mente consigliato alla vedova di Valentiniano I, l’imperatrice Giustina,reggente per il proprio figlio Valentiniano II, di accettare la spartizionedel potere con Massimo, riconosciuto augusto per la Gallia, la Britan-nia e la Spagna, mentre Valentiniano II riceveva, oltre all’Italia, la Da-cia e la Macedonia. Ma l’accordo non dura. Nel 387, Massimo invadel’Italia, e Valentiniano II e la sua Corte si rifugiano a Tessalonica. Que-sta volta Teodosio decide di intervenire e Massimo, vinto a Petovio, ègiustiziato nell’agosto 388. Successivamente, Teodosio si reca a Romanel 389, testimoniando la propria clemenza verso i senatori, tra cui Sim-maco, che avevano sostenuto Massimo. A Milano, residenza imperialedal 381, deve cedere di fronte alla forte personalità del vescovo, san-t’Ambrogio, che aveva già esercitato una grande influenza su Graziano.Scomunicato per otto mesi per aver ordinato il massacro di 7000 tessa-lonicesi come rappresaglia per il linciaggio del magister militum Buteri-co, Teodosio deve fare onorevole ammenda (Natale 390) e dal febbraio391 emette una serie di leggi antipagane [cfr. infra e cap. ii].

La restaurazione di Valentiniano II dura ben poco, giacché nel 392sorge un conflitto con il suo magister militum, il franco Arbogaste, e l’im-peratore è ucciso a Vienne [Zosimo 186, 4.54.3]. Arbogaste fa procla-mare augusto un retore e alto funzionario romano, Eugenio (392-94),che cerca invano di conciliarsi Teodosio, e successivamente si appoggiaagli ambienti pagani, ristabilendo in Senato l’altare della Vittoria cheprima Costanzo e poi Graziano avevano soppresso. La vittoria riporta-ta presso il Fiume Freddo (l’attuale Vipava, tra Emona e Aquileia) il 6settembre 394 sulle truppe di Eugenio e Arbogaste, che sfoggiavano inprima fila un’immagine di Ercole, da parte di quelle di Teodosio, mi-racolosamente favorito da un vento contrario ai ribelli (Rufino, Hist.eccl., 11.33), è naturalmente considerata come un nuovo trionfo del cri-stianesimo.

Tale vittoria sembra ricompensare le misure che avevano appena mes-

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18 La continuità dell’Impero romano in Oriente

so fine ai trent’anni di tolleranza instaurata da Giuliano e mantenutasotto i suoi successori, ivi compresi Teodosio stesso e Graziano fino al380 circa. Nel 381 e nel 385 i sacrifici e la divinazione erano stati proi-biti, ma l’offerta d’incenso rimaneva autorizzata. Maggiormente graveè la distruzione di numerosi templi, compiuta da bande di monaci o or-ganizzata da vescovi, con l’appoggio o in ogni caso l’incoraggiamentodelle autorità, in particolar modo del prefetto del pretorio d’Oriente,Cinegio, in Siria ed Egitto. Il tempio di Serapide ad Alessandria, «dicui nulla vi è di più fastoso sulla terra all’infuori del Campidoglio» se-condo Ammiano (22.16), è distrutto su ordine di Teodosio intorno al390, dopo sommosse provocate dalla trasformazione in chiesa di un tem-pio di Dioniso. Questi tumulti, di cui ci furono numerosi altri esempi,mostrano che il cristianesimo era ben lontano dall’aver conquistato latotalità dell’opinione pubblica, come si tende a credere in base alla sem-plice enumerazione della legislazione in suo favore. A norma delle leg-gi antipagane del 391-92 [cfr. cap. ii], comunque, il paganesimo è defi-nitivamente proscritto.

Alla sua morte, sopraggiunta a Milano il 17 gennaio 395, TeodosioI lascia l’Impero a due figli ancora giovani: l’Oriente ad Arcadio, che al-lora aveva 17 o 18 anni, l’Occidente a Onorio, di soli 10 anni. Non è laprima volta che l’Impero era diviso in tali termini. Se il 395 è nondime-no considerato a posteriori da certi storici come una data capitale, checontraddistingue per così dire «l’inizio della fine», almeno di Roma, èperché Teodosio è stato l’ultimo a esercitare da solo il potere sull’Impe-ro nella sua interezza, e perché i quindici anni tra iv e v secolo sono ineffetti quelli del passaggio «dall’unità alla divisione dell’Impero roma-no (395-410)»3. È allora che i destini delle due parti divergono defini-tivamente, che si accentuano le differenze strutturali tra un Oriente el-lenizzato, dall’economia più ricca e che resisterà meglio alla pressionedei barbari, conservando così una parte della tradizione e dell’ammini-strazione «romane», e un Occidente latino più militarizzato e precoce-mente germanizzato, dove nasceranno nel v secolo una serie di regnibarbari destinati a occuparne interamente il territorio. Nel v secolo, tut-tavia, per i contemporanei la coscienza dell’unità dell’Impero, accentua-ta dai legami familiari in seno alla dinastia teodosiana, resta forte. L’u-nanimitas non si mostra solo sulle monete che continuano ad associare idue imperatori, come Teodosio II e Valentiniano III, sulla medesimaemissione, o che sono battute in Oriente in nome di Onorio così comedi Arcadio, e viceversa in Occidente. Essa talora si manifesta anche, co-me si vedrà, nei fatti e per mezzo delle armi, una volta passata l’ostilitàdei tempi di Stilicone.

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4. Dall’unità alla divisione dell’Impero romano (395-410). I Goti e iVandali in Occidente e la presa di Roma (410).

Al momento della morte, Teodosio I, che si trova in Occidente conuna grande parte dell’esercito, affida Onorio al magister militum utriu-sque militiae, Stilicone, un mezzo vandalo che l’imperatore stimava a talpunto da avergli dato in matrimonio sua nipote, Serena, facendone co-sì un «parente» della famiglia imperiale e il reggente dei suoi figli mino-ri. Parentela e autorità furono suggellate tre anni più tardi dal matrimo-nio della figlia di Stilicone, Maria, con Onorio. A Costantinopoli, incompenso, il potere è nelle mani di alti funzionari civili: in successione,il prefetto del pretorio Rufino, poi il praepositus sacri cubiculi Eutropioe infine Antemio, prefetto del pretorio dal 405 al 414, tutti preoccupa-ti di limitare il potere dei militari. Il goto Gaina, magister militum rin-viato con le sue truppe in Oriente da Stilicone, non riesce a lungo, co-me avrebbe voluto, ad avere un ruolo importante a Costantinopoli e nel400 i suoi partigiani vi sono massacrati, cosa che contribuisce senza dub-bio alla partenza di Alarico per l’Italia. Le rivalità tra le cerchie dei duesovrani minorenni indeboliranno l’Impero in circostanze difficili.

L’avvenimento più importante di questo periodo è infatti l’aggravar-si del problema gotico e la comparsa di un nuovo leader, Alarico. Nelleguerre civili in cui erano stati impiegati da Teodosio, i Goti avevano sof-ferto perdite pesanti, cosa che aveva provocato una prima rivolta nel387. In prima linea alla battaglia del Fiume Freddo, 10 000 di loro era-no morti, ci dice Orosio [179, 7.35.19], il quale sospetta che Teodosio,indebolendo i propri alleati, avesse così riportato un’altra vittoria. Nel395 il conflitto tra Stilicone e il governo di Arcadio a proposito dell’Il-lirico [cfr. cap. xi] fornisce ad Alarico l’occasione di intervenire e disfruttare la sfiducia di Costantinopoli nei confronti di Stilicone e dellesue pretese di dirigere l’insieme dell’Impero. Alla testa del suo «popo-lo» (gens), ossia dei Goti federati stabiliti all’interno dell’Impero nel 382,di cui era probabilmente divenuto il re, approfitta dell’assenza delle trup-pe, restate con Stilicone in Italia, per saccheggiare la Tracia e penetra-re in Tessaglia. L’estate del 395, l’arrivo di Stilicone non risolve nien-te poiché, per motivi dibattuti (un ordine dato da Arcadio per evitareun trionfo del generale a Costantinopoli, oppure il timore dei dissensitra le truppe romane), si deve separare dai contingenti orientali. Nel397, Stilicone interviene nuovamente contro i Goti, che devastano al-lora la Grecia, lanciando contro di essi una spedizione navale. Sembrache Costantinopoli abbia preferito contrapporsi ancora una volta a Sti-

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20 La continuità dell’Impero romano in Oriente

licone e negoziare con Alarico, nominato magister militum per Illyricum.Ma la caduta di Eutropio nel 399 e il massacro dei partigiani di Gainanel 400 finiscono per convincere i Goti ad abbandonare la Macedoniae la Dacia, dov’erano insediati da venticinque anni, per dirigersi versol’Italia, senza dubbio nella speranza di negoziare con Onorio miglioricondizioni d’insediamento, praticando una sorta di altalena politica trale due partes imperii divise e rivali.

L’Occidente non è maggiormente disposto ad accoglierli: nel 402 Sti-licone riesce a respingerli a Pollenzo e a Verona, e queste mezze disfat-te inducono i Goti a tornare nell’Illirico. Tuttavia l’ambizione di Stili-cone, i suoi progetti di conquista dell’Illirico orientale, se non addirit-tura di prendere il potere a Costantinopoli, gli fanno concludere unaccordo con Alarico, nuovamente nominato magister militum nel 404 o405, dimodoché i Goti accrescono le forze occidentali.

I piani di Stilicone sono rovesciati dagli avvenimenti che contraddi-stinguono l’inizio dell’insediamento dei popoli germanici in Occidente.Se l’invasione dell’Italia da parte di Radagaiso nel 405/406 è arrestatada Stilicone, le migliaia di Alani, Svevi e Vandali, che avevano attraver-sato il Reno gelato il 31 dicembre 406, raggiungono la Spagna fin dal409, mentre l’usurpatore Costantino III, partito dalla Britannia, cercacon qualche successo di difendere la Gallia abbandonata da Stilicone.Dopo la morte di Arcadio in maggio e l’eliminazione di Stilicone nell’a-gosto del 408, l’intransigenza di Onorio e del partito antigermanico, cherifiutavano ad Alarico il comando militare, il sussidio annuale in oro ele terre da lui reclamate, conduce, dopo tre assedi successivi, al sacco diRoma il 24 agosto 410 e i giorni seguenti. Avvenimento dalla risonan-za immensa, questa caduta di una capitale creduta eterna: «È conqui-stata quella città che ha conquistato tutto l’universo» (Gerolamo, Let-tere, 127.12). Gli ambienti pagani vi vedono il castigo per l’abbandonodella religione tradizionale, mentre sant’Agostino cerca nei suoi sermo-ni e nella propria grande opera, La città di Dio, di confutare tali argo-menti e combattere lo sgomento generale. Roma può sopravvivere, scri-ve, a distruzioni materiali e a perdite umane se i Romani praticano laconcordia e la carità; i barbari non hanno trionfato: «Questa non è lafine della città, ma un giorno la città avrà comunque una fine» (Sermo-nes, 81.9, PL, 38, col. 505). Un gran numero di ricchi romani si trasfe-risce in Africa, ma anche in Palestina, come riferisce san Gerolamo chesi scandalizza per l’indifferenza degli Orientali riguardo all’indigenzadei rifugiati [su tutti questi avvenimenti e le reazioni che suscitano,Courcelle 195, pp. 31-114; Piganiol 215].

Gli anni 406-10 contrassegnano senza dubbio una svolta più impor-

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tante della spartizione del 396, in quanto l’unità politica aveva raramen-te regnato dalla fine del iii secolo [ Jones 149, I, p. 235]. Essi suggella-no infatti la divergenza dei destini delle due parti dell’Impero: da un la-to l’Occidente, nel cuore del quale s’insediano i diversi popoli germani-ci che abbandoneranno progressivamente lo statuto di federati perfondare i loro propri regni e distruggeranno a poco a poco l’unità delloStato romano; dall’altro l’Oriente, che resiste con più successo alle pres-sioni esterne e preserva la propria organizzazione politica e militare e lapropria potenza economica. Non è questo il luogo di trattare dettaglia-tamente il ritiro romano dalla Britannia, lasciata a fronteggiare con leproprie forze le scorrerie dei Sassoni, né le vicissitudini dei regni o deigruppi barbarici e il loro inserimento sociale e politico in Gallia o nellapenisola iberica nella prima metà del v secolo.

5. L’Impero d’Oriente sotto Teodosio II (408-50): ortodossia e salvezzadell’Impero.

I decenni dal 410 al 450 vedono affermarsi questa superiorità del-l’Impero d’Oriente, che prende a poco a poco i tratti della sua identità«bizantina»: la polarizzazione intorno alla capitale ormai residenza per-manente dell’imperatore [cfr. cap. vi], l’influenza del cristianesimo edella Chiesa ortodossa sulla cultura e sulle strutture politiche, l’ascen-dente del greco come «lingua di cultura e lingua di Stato» – che nonesclude per questo un forte pluralismo [cfr. capp. ii-iii e ix]. Il lungo re-gno di Teodosio II (408-50), che aveva 7 anni alla sua assunzione al tro-no, educato nelle belle lettere e nella pietà e che resterà per tutta la vi-ta «il più amabile tra tutti gli uomini» (Socrate, Hist. eccl., 7.42), è con-traddistinto dalle influenze successive del prefetto del pretorioAntemio, fino al 414, della sorella maggiore, Pulcheria, coronata Au-gusta nel 414, fino al 423, poi di sua moglie Eudocia, poi del prefettoCiro di Panopoli (429-31) e infine dell’eunuco Crisafio. La supremaziadell’entourage civile dell’imperatore d’Oriente, della Corte e del Pa-lazzo, contrasta con il potere esercitato in Occidente dal magister mili-tum Ezio (423-54).

La cultura del sovrano e della sua famiglia – sua moglie Atenaide, bat-tezzata col nome di Eudocia, era la figlia di un celebre sofista di Atene– non è estranea alla creazione dell’Università di Costantinopoli (425),né alla redazione del Codice teodosiano (429-37). Tuttavia, la pietà del-l’Augusta Pulcheria non impone solo l’ascetismo a Corte, ma coincide an-che con l’esacerbazione crescente delle passioni religiose che minacciano

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22 La continuità dell’Impero romano in Oriente

la pace civile. Lo testimoniano gli avvenimenti di Alessandria, favoritidall’attitudine intollerante del patriarca Cirillo (412-44): cristiani radu-nati davanti a una chiesa in fiamme massacrati da ebrei, poi omicidio del-la filosofa Ipazia da parte di cristiani fanatici (415), che la lapidano e bru-ciano il suo cadavere dopo averlo fatto a pezzi (Socrate, Hist. eccl., 7.15).Violenze che si ripetono anche in altre città e soprattutto a Costantino-poli, poiché le controversie dottrinali o ecclesiastiche sollevano passioniche oggi si possono difficilmente immaginare. Esse non esprimono sola-mente opposizioni tra clan, interessi o personalità, o rivalità tra città (co-me tra le scuole di pensiero di Antiochia e di Alessandria). Dato il cre-scente intrecciarsi tra Chiesa, Stato e società, ognuna di tali questionicostituisce il centro di dibattiti che sono anche di natura politica. La que-relle sulla natura del Cristo occupa l’intero periodo: dopo il concilio, as-sai movimentato, di Efeso I (431), che definisce la Vergine come Madredi Dio (Theotokos), e altri concili perturbati o contestati come quello diEfeso II (449), qualificato come «brigantaggio» dal papa, arriverà il con-cilio di Calcedonia (451), formulazione teologica essenziale ma gravidadi conseguenze [cfr. infra e cap. ii].

L’assenza di problemi di successione, in compenso, favorisce la con-tinuità dello Stato. Si migliora la sicurezza tramite grandi lavori, comela cinta muraria teodosiana di Costantinopoli, completata nel 413 (CTh,15.1.51), e il rinnovamento del limes balcanico, oppure con misure co-me il riarmo della flotta danubiana. Le relazioni con la Persia, anch’es-sa minacciata dagli Unni, restano pacifiche se si eccettua il breve con-flitto del 421 (assedio di Nisibi da parte dei Bizantini e di Teodosiopo-li da parte dei Persiani) e quello del 440, seguito come in precedenza daun rinnovo degli accordi.

La tranquillità della frontiera orientale permette a più riprese d’in-tervenire per difendere l’Occidente: 4000 uomini sono inviati nel 410in soccorso di Onorio rifugiato a Ravenna; nel 424-25 l’alano Ardabu-rio e suo figlio Aspar mettono fine all’usurpazione di Giovanni e fannosì che a Onorio succeda suo nipote Valentiniano III, rifugiatosi a Co-stantinopoli con sua madre Galla Placidia. La solidarietà dinastica cosìmanifestata viene suggellata dal matrimonio del nuovo imperatore d’Oc-cidente con la figlia di Teodosio II ed Eudocia, Eudossia la Giovane.Le monete battute nelle zecche delle due parti dell’Impero celebranoquesta unione rappresentando al rovescio i due sovrani assisi sul mede-simo trono, mentre tengono insieme il globo crucigero, simbolo dell’i-deale romano di dominazione universale, con l’iscrizione salvs rei pv-

blicae.Non si tratta di parole vane, come mostrano gli avvenimenti d’Afri-

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ca. La provincia è stata invasa nel 429 dai Vandali che hanno abbando-nato il sud della Spagna, dov’erano insediati da vent’anni (l’Andalusiadeve loro il suo nome), favoriti dal conflitto del comes d’Africa, Boni-facio, con la Corte di Ravenna. I rinforzi orientali recati da una flottaorientale guidata da Aspar non sono decisivi, ma contribuiscono a con-tenere per qualche tempo gli invasori, ai quali il trattato del 435 conce-de la Numidia e la Mauretania. La presa di Cartagine da parte di Gen-serico, nel 439, priva tuttavia l’Italia imperiale della sua provincia piùricca e Roma dei suoi approvvigionamenti, mentre la flotta d’Africa,controllata dai Vandali, compie incursioni devastanti in Sicilia a parti-re dal 440. La minaccia navale è presa sul serio (le mura marittime diCostantinopoli sono completate in questa occasione) e si organizza unarisposta: nel 441, il magister militum Areobindo raduna truppe in Sici-lia per una spedizione congiunta con le forze di Ezio. Come al solito, sisguarnisce un fronte per difenderne un altro: in questo caso, il Danubioa favore dell’Africa.

Ora, gli Unni, di cui si sono viste in precedenza l’avanzata nella zo-na nord-danubiana alla fine del iv secolo e le sue conseguenze, hanno rag-giunto la frontiera all’inizio del v secolo e controllano ormai le popola-zioni (Goti, Eruli, ecc.) della regione. La minaccia di questi nomadi, prov-visti di una organizzazione politica e del sostegno dei loro sudditisedentari, si era già fatta sentire in occasione della guerra persiana del422 e poi dell’invio di truppe in Africa. Nel 434 il capo unno Rua (al qua-le Ezio ha ceduto le province di Savia e Valeria) sfrutta l’indebolimentodelle truppe romane per negoziare la sua ritirata dalla Tracia in cambiodi un tributo di 350 libbre (250 000 solidi) e per ottenerne il doppio nel439, al momento in cui la flotta si preparava a partire. Malgrado l’accor-do, gli Unni devastano la Tracia nel 442, ma si ritirano perché, davantialla gravità della situazione, le truppe sono state richiamate dalla Sicilia.L’Impero sospende momentaneamente il pagamento del tributo, ma At-tila, nipote di Rua e suo successore, approfitta dello sconcerto provoca-to da una serie di catastrofi (terremoto, epidemia, carestia) per invaderenuovamente la Tracia nel 447 (un ingens bellum et priore maius secondoMarcellino comes 178, ad ann. 447) e ottenere il versamento degli arre-trati (6000 libbre) e un tributo annuale triplicato (2100 libbre), nonchél’evacuazione di un territorio di cinque giorni di marcia a sud del Danu-bio tra Singidunum (Belgrado) e Novae. L’oro rimpiazzava ciò che le ar-mi non potevano ottenere, in un momento in cui l’Impero «teme i Per-siani che preparano la guerra, i Vandali che minacciano le coste, il bri-gantaggio degli Isaurici, le scorrerie dei Saraceni in Oriente e, al sud, leforze riunite delle tribù ‘etiopiche’» [Zuckerman 234].

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24 La continuità dell’Impero romano in Oriente

6. I successori di Teodosio II. Goti e Isaurici al potere a Costantinopoli(450-91).

Teodosio II, modello dell’imperatore ereditario «nato nella porpo-ra», ma lui stesso privo di un erede maschio, muore all’improvviso il28 luglio 450. La logica familiare e il prestigio della dinastia portanoal matrimonio fittizio dell’Augusta Pulcheria – che aveva da lungo tem-po fatto voto di verginità – con Marciano (450-57), un oscuro ufficia-le che non poteva fare ombra ai potenti capi militari barbari Aspar eZenone.

Il concilio di Calcedonia (451), convocato su istigazione della nuovaimperatrice, permette di annullare le decisioni del secondo concilio diEfeso, giungendo a una definizione dell’unione delle due nature, divi-na e umana, nella sola persona del Cristo. La sintesi produce una dot-trina accettata come ortodossa a Roma e a Costantinopoli, ma che nonsuscita l’unanimità in Oriente. La persistenza di un’opposizione mono-fisita condurrà nel vi secolo alla creazione di Chiese dissidenti antical-cedoniane e avrà gravi conseguenze nei secoli successivi: ancora oggi ilcristianesimo orientale ne risulta segnato [cfr. cap. ii].

La morte di Attila nel 453, dopo il fallimento della sua offensiva inGallia (Campi Catalauni, 451) e in Italia, fa scomparire il pericolo unnoe dà sollievo alle finanze imperiali, mentre la macchina da guerra si ri-mette in moto respingendo alcune offensive arabe in Oriente e imponen-do la pace alle tribù nomadi dei Blemmi e dei Nubadi nella Tebaide.

Alla morte di Marciano, nel 457, il magister militum Aspar, al qualeil potere supremo era interdetto a causa della propria origine barbara,sceglie un altro militare di medio rango, Leone. Il rituale dell’investitu-ra, con la proclamazione da parte dell’esercito nell’accampamento del-l’Hebdomon del candidato scelto in accordo con il Senato e il popolo,l’entrata solenne in città e la benedizione della corona da parte del pa-triarca [De cerim. 167, 1.91], costituisce uno schema liturgico di circo-stanza che conoscerà molti adattamenti prima di essere codificato nel xsecolo [Dagron 321]. In Oriente come in Occidente, il contesto del vsecolo è contrassegnato dal potere decisionale delle truppe germanicheo barbare e dei loro capi, in questo caso l’onnipotente Aspar figlio diArdaburio, un altro magister militum. Il nuovo imperatore, tuttavia, siaffranca a poco a poco da questa dipendenza appoggiandosi alle truppeisauriche (rozzi soldati, se non addirittura briganti, provenienti da unaregione montuosa dell’Asia Minore) e al loro capo pagano, Tarasicodis-sa, che prende il nome del precedente capo isaurico, Flavio Zenone. Ze-

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none sposa Arianna, la figlia dell’imperatore, nel 467, ed elimina i pro-pri rivali, Aspar e suo figlio Ardaburio, nel 471.

Questo duplice assassinio provoca la rivolta dei federati goti insedia-ti in Tracia, alleati di Aspar. Nel 473 la calma non torna che a prezzo diun tributo annuale di 2000 libbre d’oro e del riconoscimento del loro ca-po Teodorico Strabone come magister militum e «solo sovrano dei Goti».Nel frattempo, i Goti insediati in Pannonia sotto gli Unni, e riconosciu-ti come federati nel 455, approfittano delle circostanze per devastare l’Il-lirico fino a Tessalonica ed esigere anch’essi la concessione di terre inMacedonia. L’opposizione dei due gruppi, tuttavia, non è necessariamen-te un punto a vantaggio dell’Impero, come si vedrà sotto Zenone.

Gli avvenimenti dell’Occidente spingono Leone (457-74) a rinun-ciare alla prudente politica di Marciano. Nel 455, dopo l’assassinio diEzio e quello di Valentiniano III, Genserico aveva preso come prete-sto il matrimonio forzato della figlia di Valentiniano III, Eudocia laGiovane, con il nuovo imperatore d’Occidente, il senatore PetronioMassimo – matrimonio che contravveniva all’accordo secondo il qualela discendente di Teodosio I era stata promessa a suo figlio Unerico –per impadronirsi di Roma. Vi aveva fatto un bottino considerevole edanni più gravi di Alarico; come nel 410, l’avvenimento ha una gran-de risonanza: le principesse imperiali (Eudocia la Giovane e sua madreLicinia Eudossia, la figlia di Teodosio II) sono portate in esilio a Car-tagine con migliaia di prigionieri e i rifugiati affluiscono a Costantino-poli, mentre Genserico prende il controllo delle Baleari, della Corsicae della Sardegna, e minaccia la Sicilia. Dopo la disfatta di una flotta in-viata contro Cartagena nel 460, una grande spedizione che prevedeval’azione combinata di truppe occidentali, di forze orientali inviate dal-l’Egitto e di una flotta di 10 000 imbarcazioni è organizzata nel 467,ma fallisce miserevolmente nel 468 (Procopio, Bella, 3.6.10-26), nonsenza essere costata al Tesoro circa 64 000 libbre d’oro e 700 000 lib-bre d’argento, il probabile equivalente di più di un anno di entrate[Hendy 592, pp. 221-23].

Alla morte di Leone I nel 474, Zenone prende il potere, inizialmen-te nel nome di suo figlio Leone II, nato nel 467 dal suo matrimonio conArianna, la figlia di Leone I. Leone II muore dieci mesi dopo, lascian-do così suo padre, che aveva nominato co-imperatore, unico sovrano ti-tolare. Poco amato a Costantinopoli a causa dei favori accordati agliIsaurici, Zenone eredita una situazione difficile, aggravata dalle ripetu-te opposizioni che trova sia in esponenti della famiglia del suo predeces-sore, sia in rivali scaturiti dal proprio popolo. All’inizio c’è la rivolta delcomandante della spedizione del 468, Basilisco, cognato di Leone I, che

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26 La continuità dell’Impero romano in Oriente

prende il potere nella capitale nel 475-76, probabilmente su istigazionedella sorella, l’imperatrice madre Verina. Tornato dall’Isauria, Zenonepunisce l’usurpatore ma deve fare fronte, nel 479, al tentativo del pro-prio cognato Marciano. Tuttavia, il colpo di stato di questo nipote del-l’imperatore del medesimo nome, figlio dell’imperatore d’Occidente An-temio e marito di un’altra figlia di Leone I, sostenuto dai Goti, è sven-tato dagli Isaurici di Illo. Tra il 484 e il 488, al contrario, Zenone devefronteggiare la rivolta dello stesso Illo e di suo fratello Trocunda che,sempre con l’appoggio di Verina, proclamano ad Antiochia un altro usur-patore, il patrizio Leonzio.

Queste lotte di potere e scontri tra clan hanno luogo sullo sfondo del-la crisi finanziaria (a cui si cerca di rimediare con diverse misure: infla-zione della moneta di bronzo, creazione del consolato onorario, molte-plici confische) e di gravi dissidi religiosi. Basilisco aveva preso le partidei monofisiti, assicurandosi così sostegno in Egitto e in Palestina, maprovocando contemporaneamente l’ostilità di Costantinopoli. Zenonepromulga nel 482 un editto d’unione (l’Henotikon), la cui formulazio-ne, che non condanna Calcedonia, è comunque accettata dai patriarca-ti orientali. Il compromesso ristabilisce l’unione tra le sedi di Alessan-dria, Antiochia, Gerusalemme e Costantinopoli, ma si scontra con l’op-posizione degli estremisti delle due fazioni (monaci egiziani o palestinesi,Akoimetoi della capitale), ed è all’origine di uno scisma con Roma (det-to «acaciano», dal nome del patriarca di Costantinopoli scomunicato dalpapa) che dura fino al 519 [cfr. cap. ii].

Divisioni e lotte intestine sono contemporanee all’emergere di unnuovo stato gotico, da esse favorito. La crescita del potere degli Ostro-goti e la loro unificazione sotto l’autorità di Teodorico l’Amalo sonol’avvenimento più importante della fine del v secolo, sia per l’Orientesia per l’Occidente. Zenone aveva cercato, senza grande successo, dimanovrare i Goti della Pannonia (sotto Teodorico l’Amalo) contro i Go-ti di Tracia e il loro capo Teodorico Strabone, che aveva sostenuto Aspare poi tentato di prendere Costantinopoli nel 481. La morte di Strabonee l’assassinio del suo giovane figlio non fanno che aumentare la poten-za di Teodorico l’Amalo, già insediato sul Danubio intorno a Novae enominato magister militum nel 476, successivamente installatosi a Du-razzo nel 479. Teodorico riceve la sottomissione dei Goti di Tracia e sitrova alla testa di un’armata che contava dai 10 ai 20 000 uomini, e diun popolo di circa 100 000 persone. Alle prese con la rivolta di Illo, Ze-none ha bisogno di Teodorico e gli fa grandi concessioni, accordando-gli il titolo di console, conferito per la prima volta al capo di una popo-lazione barbarica e non più a capi romanizzati, integrati nella gerarchia

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imperiale. Una volta soffocata la ribellione, il sospetto reciproco crescee si arriva alle ostilità: Teodorico saccheggia la Tracia fino ad arrivaresotto le mura di Costantinopoli. Si è tuttavia in una situazione di stal-lo, poiché nessuna delle due parti può avere la meglio sull’altra, né Teo-dorico può prendere il potere nella capitale. È allora che Teodorico de-cide – se su istigazione diretta di Zenone oppure no, le fonti sono in di-saccordo – di partire per l’Italia.

7. La fine dell’Impero d’Occidente. Teodorico e gli Ostrogoti in Italia.

Dopo la perdita dell’Africa, il secondo sacco di Roma nel 455 e il fal-limento della spedizione del 468, l’Italia, che si trova anche sempre piùdistaccata dalla Gallia, ripiega sulle proprie forze. Il regno di Maggio-riano (457-61) rappresenta l’ultimo tentativo di conciliare e difenderegli interessi dell’Occidente romano, Gallia, Italia e Dalmazia comprese.Il potere, intorno al quale si muovono le influenze incrociate dei diver-si clan dell’aristocrazia senatoria e dei generali barbari al comando del-le truppe federate che ne assicurano la difesa, tocca inizialmente al ma-gister militum svevo, Ricimero, che aveva eliminato Maggioriano e checrea e distrugge gli imperatori – con l’eccezione di Antemio (467-72),che Leone I aveva inviato da Costantinopoli. Alla morte di Ricimero,nel 472, questo ruolo è assunto momentaneamente dal burgundo Gun-dobaldo e poi dall’esercito di Dalmazia, che nel 474 mette sul trono unparente di Verina, Giulio Nepote (474-[475]480), il quale, a sua volta,è contestato dall’esercito d’Italia il cui comandante, Oreste, proclamaimperatore il proprio figlio Romolo, soprannominato spregiativamente«Augustolo» (il piccolo augusto) (475-76). In seguito a una rivolta del-le truppe provocata dalla mancanza di risorse, il generale sciro Odoacredepone Romolo ed è proclamato «re», con l’accordo del Senato roma-no che rimanda le insegne imperiali a Costantinopoli. L’avvenimentocon cui si data tradizionalmente la fine dell’Impero d’Occidente non èpercepito come particolarmente importante dai contemporanei. Zeno-ne non accetta il fatto compiuto e continua a considerare Nepote comeimperatore titolare. Nel corso di tredici anni, Odoacre assicura una cer-ta stabilità all’Italia e recupera dalle mani dei Vandali anche la Sicilia.Nel 486/487, tuttavia, invade l’Illirico e provoca così l’intervento in for-ze di Teodorico nel nome dell’imperatore d’Oriente.

Il successo è commisurato alle qualità militari e politiche già dimo-strate dal capo gotico. Teodorico prende assai rapidamente il controllodella maggior parte del territorio e costringe Odoacre a rifugiarsi all’in-

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28 La continuità dell’Impero romano in Oriente

terno di Ravenna, resa quasi imprendibile dalle paludi. Al termine di treanni di blocco si trova un accordo, in base al quale Odoacre e Teodori-co si sarebbero divisi il regno. Ma appena la città apre le porte, Odoacree i suoi congiunti sono massacrati e Teodorico è proclamato re dalle suetruppe. Il regno ostrogoto, celebrato da alcuni come una «nuova età del-l’oro» (Ennodio, MGH, AA, VII, 214.20, 319.25) assicura all’Italia, fi-no agli anni intorno al 530, una sicurezza esterna che non aveva cono-sciuto da lungo tempo. Teodorico estende momentaneamente il suo do-minio sulla Provenza e il sud della Gallia, a spese dei Visigoti, e sullaPannonia intorno a Sirmio. All’interno la popolazione locale, a maggio-ranza cattolica, sembra aver coabitato assai pacificamente con i Goti aria-ni che furono, se si presta fede ad archeologia, toponimia e onomastica,direttamente insediati sul territorio4 piuttosto che remunerati con unaparte dei proventi5. Teodorico governa da principio con l’appoggio del-le élites romane; il senatore Cassiodoro, il suo prefetto del pretorio, scri-ve in suo nome delle lettere amministrative, le Variae, nonché una Storiadei Goti con la sua genealogia. Il re ostrogoto esprime tale ideale di ro-manizzazione nel cerimoniale [McCormick 322, pp. 337-42] e rispetta lapreminenza imperiale, come previsto dall’accordo concluso con Anasta-sio nel 497, facendo figurare il nome dell’imperatore sulle monete d’oroe d’argento, mentre il suo non appariva che come un semplice monogram-ma, in posizione secondaria sull’oro, più evidente sull’argento o sul bron-zo [Arslan 187]. Secondo la stessa testimonianza di Procopio, il re fu «difatto un vero e proprio imperatore, non punto inferiore ad alcuno di quan-ti in quella dignità nei primi tempi di essa si distinsero» e «grande affet-to portarono a lui e Goti e Italiani» (Bella, 5.25-30).

Gli anni intorno al 490 (piuttosto che la data del 476) segnano la di-vergenza definitiva dei destini delle due parti dell’Impero: in Occiden-te, è la fine dell’evoluzione che ha portato alla frammentazione in en-tità politiche romano-barbariche, dove le élites locali collaborano e sifondono progressivamente con le minoranze germaniche. In altre paro-le, è ciò che si chiama «la nascita dell’Europa», o per meglio dire del-l’Occidente europeo. In Oriente, il pericolo gotico è stato allontanato el’ideale imperiale s’incarna, ancora per un secolo, nelle strutture eredi-tate dalla riorganizzazione tetrarchica e costantiniana.

8. La stabilizzazione all’inizio del vi secolo (491-527).

Quando Zenone muore senza successori, prevale ancora una volta l’in-fluenza della Corte, con un’intesa già vista in precedenza tra principes-

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se imperiali ed eunuchi di palazzo. In questo caso si affida alla vedova diZenone, Arianna, l’incarico di designare il nuovo imperatore. La sua scel-ta si porta su un funzionario civile, Anastasio (491-518), le cui compe-tenze finanziarie portano a risultati felici. Mette fine all’inflazione dellamoneta spicciola con la riforma monetaria del 498 e riesce, nonostantel’abolizione del chrysargyron, un’imposta indiretta impopolare, e la con-cessione di numerose remissioni fiscali alle regioni toccate da diverse ca-tastrofi, a risanare sufficientemente le finanze, in modo da lasciare al suosuccessore una considerevole riserva di 320 000 libbre d’oro (23,04 mi-lioni di solidi – somma forse esagerata da Procopio, St. segr., 19.7), di va-rie volte superiore all’ammontare degli introiti annuali dell’Impero. Ta-le risultato era dovuto al controllo delle spese (donde la sua reputazionedi parsimonia), certamente facilitato da una situazione estera assai cal-ma, e a una raccolta più efficace e meno ingiusta delle imposte, affidataa funzionari specializzati, i vindices, e non più ai curiali [ Jones 149, pp.235-36].

Alla morte di Anastasio, è ancora il Palazzo – ma questa volta i mi-litari della Guardia – a decidere la successione. Il comandante degli Ex-cubitores, Giustino I, un soldato analfabeta (secondo Procopio, St. segr.,6.11), originario della regione di Naisso (Ni‰), è proclamato imperatoresecondo la formula abituale da parte dell’esercito, del Senato e del po-polo, e viene incoronato dal patriarca. A differenza di Anastasio, chenon aveva preso alcuna misura a favore del suo parentado, Giustino Iadotta senza frapporre indugi il proprio nipote Giustiniano, poi nel 521lo nomina console e magister militum, e infine proprio co-imperatore nel527, qualche mese prima di morire.

Dopo la soppressione della rivolta degli ultimi partigiani di Zenonein Isauria, la repressione delle sommosse urbane frequenti a Costanti-nopoli e Antiochia negli anni ’90 del v secolo, poi il fallimento, negli an-ni 512-15, delle sollevazioni del comes dei federati Vitaliano e dell’eser-cito di Tracia, una certa calma politica regna allora all’interno dell’Im-pero. Tuttavia, non cessano le divisioni religiose: le misure prese infavore dei monofisiti da parte di Anastasio (in particolare la nomina diSevero a patriarca di Antiochia) sono abolite da Giustino I, che si ricon-cilia con Roma nel 519. Le rispettive posizioni dei due schieramenti so-no affermate sempre più nettamente: l’Henotikon di Zenone è stato unfallimento.

A questa calma relativa corrisponde una certa sicurezza estera du-rante tutto il primo quarto del secolo. In Occidente, il trattato di paceconcluso nel 475 regola i rapporti con i Vandali, senza che le persecu-zioni dei cattolici africani provochino alcuna reazione bizantina, men-

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tre l’espansione del regno ostrogoto (conquista della Pannonia, nel 504,controllo della Provenza e poi del regno visigoto, nel 511, e alleanza fa-miliare con i Vandali) non suscita che una risposta limitata: una spedi-zione marittima abortita nell’Adriatico nel 508, e soprattutto un’allean-za con i Franchi – il titolo di console onorario è conferito a Clodoveonel 508 (Gregorio di Tours, Hist. Fr., 2.38) –, mosse destinate a conte-nere Teodorico a ovest e a nord. Sul fronte balcanico, dove i Goti nonservono più da cuscinetto, si notano tra il 493 e il 502 alcune incursio-ni in Tracia di un popolo di origine turca, i Bulgari, e il restauro di ope-re difensive, come le Lunghe Mura (edificate contro gli Unni all’incircanel 442), da parte di Anastasio. Con la Persia, essa stessa alle prese congli Unni eftaliti sulla propria frontiera nord-orientale, la pace è raramen-te turbata: Kavad I (488-531) s’impadronisce delle piazzeforti armenedi Teodosiopoli (Erzerum) e Amida (Diarbakir) nel 502, ma l’Impero lerecupera nel 505 e, costruendo la fortezza di Dara, di fronte a Nisibi,compie un’importante mossa strategica [cfr. carta 2, p. 41]. Al sud, ungioco di alleanze (sostegno apportato al regno etiopico e cristiano diAxum, che conquista Himyar in Arabia nel 524-25, e intesa con gli Ara-bi cristiani ghassanidi, il cui re Harith-Arethas è creato patrizio) miraugualmente a controbilanciare la potenza persiana [Robin 968-69].

9. Giustiniano: i primi anni, il Codice e la rivolta di Nika (527-32).

È in questo contesto relativamente favorevole che Giustiniano arri-va al trono. Tre fatti contraddistinguono i primi anni del suo lungo re-gno: la pace con la Persia, l’opera giuridica, la ripresa della violenza ur-bana. Le ostilità con la Persia, ricominciate tra il 528 e il 531, si conclu-dono in effetti con una pace «eterna» che esigeva da Bisanzio un tributodi 11 000 libbre d’oro e il ritorno nell’Impero dei filosofi della Scuoladi Atene, chiusa per ordine di Giustiniano nel 529 [Stein 151, II, pp.294-96, 372; Beaucamp 254].

In un lasso di tempo notevolmente breve, una commissione di diecipersone, formata da alti funzionari e dal giurista Triboniano, riesce apubblicare il Codice giustinianeo, una scelta ragionata ed emendata del-le costituzioni imperiali ancora in vigore, classificate per soggetto. Laprima edizione (529) è sostituita da una seconda nel 534, dove sono in-corporate numerose novelle di aggiornamento. Sempre su impulso diTriboniano, il lavoro è completato da una raccolta di estratti di testi giu-ridici classici, il Digesto (534), e da un manuale, le Istituzioni, che in-corpora i lavori classici degli autori romani (Gaio, Ulpiano…) e riassu-

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me le riforme imperiali più importanti. La scienza dei giuristi bizantinipermette così di trasmettere alla posterità il diritto romano, fondamen-to di numerosi codici europei moderni6.

Nel medesimo tempo, la capitale è letteralmente messa «a ferro e afuoco» dalla rivolta di Nika (13-19 gennaio 532), scatenata dal rifiutodel prefetto di concedere l’amnistia a due assassini. Le acclamazioni ur-late dalle fazioni nel Circo mescolano alle grida di «Vittoria» (donde ilnome della rivolta) le lamentele e le rivendicazioni: si esige il licenzia-mento del prefetto Giovanni di Cappadocia, e si tratta ben presto l’im-peratore da spergiuro e asino calzato e vestito [Chron. Paschale 166, pp.114-21], prima di tentare di proclamare al suo posto un parente di Ana-stasio, il patrizio Ipazio. La folla dà inoltre alle fiamme una parte del-l’Ippodromo e degli edifici adiacenti (bagni di Zeusippo, porta d’ingres-so del Palazzo, prefettura del Pretorio, Senato, Santa Sofia). Giustinia-no, abbandonato da una parte della sua Guardia, sarebbe stato tentatodi fuggire, ma ne sarebbe stato dissuaso dall’energia di sua moglie Teo-dora. «L’Impero è un bel sudario», avrebbe dichiarato – citando Isocra-te – secondo Procopio (Bella, 1.24.33-37) in un passaggio celebre che,se non è vero, è ben inventato, come altre frasi storiche [Cameron 714,p. 69]. L’intervento delle truppe di Belisario, accampate fuori delle mu-ra, ristabilisce l’ordine al prezzo di migliaia di vittime.

10. Gli inizi della riconquista: la guerra vandalica e i primi successi inItalia (533-40).

È possibile che il disordine interno abbia spinto Giustiniano a pro-curarsi un diversivo lanciando la spedizione africana e le altre opera-zioni di «riconquista» in Occidente, ma niente impedisce che esse cor-rispondessero a un piano premeditato. Nel 533, 15 000 uomini sono in-viati sotto il comando di Belisario con una flotta che fa scalo in Sicilia,dove si apprende da alcuni mercanti che la flotta vandalica aveva la-sciato Cartagine alla volta della Sardegna, nella quale l’Impero avevafomentato una ribellione. I Bizantini sbarcano senza difficoltà in Biza-cena (a Caput Vada, nell’attuale Sahel tunisino), impadronendosi qua-si senza colpo ferire di Cartagine il 14 settembre 533 e recuperando itesori che Genserico aveva portato via da Roma nel 455, ivi comprese,si dice, le ricchezze che Tito aveva precedentemente trafugato dal Tem-pio di Gerusalemme. Il re Gelimero (530-34) si dà alla fuga, ma nonpuò resistere molto ed è esibito nel trionfo celebrato a Costantinopolinel 534, prima di essere esiliato in Asia Minore, mentre una parte del-

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le sue truppe è arruolata nell’esercito bizantino e inviata sul fronte per-siano. L’editto del 534 (CI, 1.27.1) organizza la prefettura d’Africa.Più ridotta che all’epoca romana, l’Africa bizantina rimane una vastaprovincia che ingloba i territori vandali dalla Tripolitania fino alle Ba-leari, la Corsica e la Sardegna, la Numidia, una parte della MauretaniaSitifense, alcuni scali come Septem (Ceuta) e Tingi (Tangeri). Si esten-de inoltre, dal 552 al 615, a un’enclave intorno a Cartagena, strappa-ta ai Visigoti. Com’era accaduto sotto gli ultimi Vandali, e accadrà fre-quentemente in seguito, il nuovo prefetto Salomone deve fronteggiaregli attacchi berberi ed è ucciso a Cillium (Kasserine) in una di questebattaglie7. Sottolineiamo qui che la documentazione, assai lacunosa, deitesti è in parte completata, se non contraddetta, da quella delle iscri-zioni e dell’archeologia, che dà un’immagine meno cupa dell’Africa bi-zantina [Lepelley 212; Rebuffat in 159, I]. La difesa del territorio siappoggia a una rete pianificata di fortificazioni, che permettono il con-trollo delle zone circostanti per mezzo di guarnigioni ridotte [Durliat199, Pringle 222, Trousset 226, Feissel 97 (2000)], e fino alle prime in-cursioni arabe del 646 la provincia conosce una relativa sicurezza. Ben-ché il paesaggio urbano si contragga secondo un processo analogo a quel-lo osservato in altre regioni dell’Impero, sussiste comunque una certaprosperità fondata sulle esportazioni agricole o artigianali (grano, olio,ceramica sigillata), testimoniate dalla diffusione ancora ampia delleanfore e dei piatti africani nel Mediterraneo e oltre, così come dall’ab-bondanza e dalla qualità della monetazione emessa a Cartagine [cfr.cap. vii].

Belisario, dopo aver celebrato il proprio trionfo e il proprio consola-to il 1º gennaio 535, è inviato contro l’Italia; l’intervento bizantino traeil proprio pretesto dall’eliminazione, perpetrata dal nuovo re ostrogotoTeodato, della figlia di Teodorico, Amalasunta, che aveva esercitato lareggenza per il proprio figlio Atalarico (526-34). La spedizione riportadei successi iniziali: la Sicilia è recuperata nel 535, Napoli nel 536, e l’e-sercito entra a Roma il 9 dicembre. Le diverse offensive dei Goti, sot-to la conduzione del loro nuovo re Vitige, marito di una nipote di Teo-dorico (536-39), l’assedio di Roma durato più di un anno, la riconqui-sta di Milano e il massacro dei cittadini romani nel 539 sono vanificatida Belisario e dal suo collaboratore, l’eunuco Narsete. Belisario infineentra a Ravenna nel 540 e s’impadronisce di Vitige, che trasferisce a Co-stantinopoli con i tesori di Teodorico. Questo nuovo successo, tuttavia,suscita la gelosia di Teodora (Procopio, St. segr., 2.21-25, 4.13-17); Be-lisario, che pure aveva rifiutato la corona imperiale che gli offrivano gliOstrogoti a Ravenna, è sospettato di intrighi faziosi, inviato sul fronte

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persiano e poi destituito nel 542, e vede i propri beni confiscati (senzadubbio, la questione principale). Questo destino sfortunato farà nasce-re la leggenda che lo rappresenta, alla fine della sua vita, come un men-dicante cieco privo di ogni risorsa.

11. La peste, la guerra persiana e il seguito della lunga guerra gotica.Le prime ondate sclavene e cutrigure nei Balcani (540-54).

Gli anni ’40 del vi secolo segnano anche la svolta della situazionedell’Impero, colpito da una serie di catastrofi e rovesci su tutti i fronti.Inquietato dai successi bizantini in Occidente e dai progressi del cristia-nesimo nel Caucaso, il re persiano approfitta dell’indebolimento dellapresenza militare in Asia per lanciare un’offensiva in Mesopotamia e im-padronirsi di Antiochia. La metropoli, mal difesa, è catturata e abban-donata al saccheggio, e una parte della sua popolazione è deportata (Pro-copio, Bella, 2.8-9) [Downey 943, pp. 533-46], come non succedeva dacirca tre secoli. Già provata dai terremoti del 526 e 528, la città è rico-struita, ma i suoi bastioni restaurati lasciano fuori l’isola dove si trova-vano il Palazzo e l’Ippodromo, la cattedrale e altri monumenti impor-tanti. S’instaura un equilibrio di forze. Il conflitto con i Sassanidi si li-mita, a partire dal 545, alla Lazica (una regione strategica che permetteil passaggio delle tribù nord-caucasiche verso il sud e sbarra l’accesso delMar Nero ai Persiani, i quali cercano di sottrarla al controllo bizantino)oppure al confronto tra i rispettivi alleati arabi dei due imperi, Ghassa-nidi e Lakhmidi.

Il contesto è sconvolto dall’esplosione di una violenta pandemia dipeste bubbonica. La Grande Peste si manifesta nell’autunno del 541 inEgitto, colpisce la capitale nella primavera del 542 e lo stesso anno an-che Gaza, Antiochia e la Siria; si estende in Asia Minore, nei Balcanie raggiunge l’Occidente nel 543, diffondendosi soprattutto nelle cittàe nelle regioni litoranee: il suo percorso è quello delle rotte commercia-li marittime, che la trasportano insieme alle merci [McCormick 588].Le sue ricorrenze, cicliche fino alla fine del secolo, non si diradano chenel vii secolo. I contemporanei (Procopio, Evagrio e Giovanni di Efe-so) ne hanno lasciato resoconti più o meno contraddistinti, certo, dal-l’imitazione di Tucidide [cfr. cap. vii], ma per nulla immaginari [Sta-thakopoulos 537; Conrad 538]. Le testimonianze dei testi sono chiaresulle sue conseguenze: problemi posti dall’evacuazione dei cadaveri, piùdi 230 000 secondo Giovanni di Efeso; penuria di grano e di vino l’an-no seguente, mancanza di braccia per il raccolto; innalzamento dei prez-

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zi e dei salari, che un editto e una novella (Nov., 122) si sforzano dicontrollare.

Nel frattempo, la guerra in Italia va per le lunghe. Da una parte l’e-sercito bizantino, anch’esso colpito dalla peste, non ha effettivi suffi-cienti, giacché deve ormai combattere di nuovo contro i Persiani e di-videre le proprie forze. Dall’altra parte, le guarnigioni ostrogote, più nu-merose, hanno conservato un certo numero di città, soprattutto al nord,e sono ancora capaci, nonostante i loro dissensi interni, di muovere del-le offensive che le portano per esempio a riprendere Roma, all’inizio nel546 e una seconda volta nel 550 sotto Baduila-Totila (541-52). Belisa-rio, e poi Narsete, finiscono per infliggere a lui e al suo successore Teia(552) due sconfitte decisive sugli Appennini (Busta Gallorum e MonteLattario) nel 552, e nessun re prende il loro posto, benché Lucca, Cu-ma e Capua resistano fino al 554, e Verona fino al 562.

A dispetto della retorica ufficiale, che celebra la restaurazione del-la libertà e il ritorno della felicità passata, l’Italia ha molto sofferto perle campagne prolungate, per gli assedi, per i saccheggi e le distruzioninelle città, per la peste e la carestia. La popolazione di Roma, già pre-cipitata a circa 200 000 abitanti dopo il sacco del 410 e probabilmentea 100 000 all’inizio del secolo, non supera i 30 000 abitanti alla fine del-la guerra [Bavant 540; stime più elevate da parte di Durliat 587]. Unaparte dell’aristocrazia romana è stata decimata dai Goti o si è rifugia-ta nei propri possedimenti meglio protetti o a Costantinopoli, comeCassiodoro che vi si stabilisce nel 550, prima di ritirarsi nel propriopossedimento di Vivarium, nel monastero che vi aveva fondato. Lacittà, che ha perduto un gran numero dei propri artigiani e commer-cianti, accogliendo contemporaneamente rifugiati dalle campagne, èsulla strada della ruralizzazione. Molti siti urbani meno importanti so-no stati spopolati, come in Campania o in Puglia8, o abbandonati a be-neficio di locazioni arroccate su alture o meglio difese. Soltanto Raven-na, risparmiata dalla guerra, ha mantenuto il proprio rango, in ragionedella sua funzione di capitale e dell’importanza dei suoi rapporti conl’Oriente. Parecchie regioni rurali come il Bruzio non hanno ritrovatola prosperità degli inizi del secolo [Noyé 554], e papa Pelagio deplorale devastazioni subite dai domini pontificali (Ep., 49, MGH, Ep., III,73: «Italiae praedia ita desolata sunt, ut ad recuperationem earum nemosufficiat»). Lontano dalle devastazioni della guerra, la Sicilia, al contra-rio, sembra aver goduto di prosperità e aver acquisito una maggiore im-portanza strategica ed economica nell’Impero bizantino.

Il paesaggio socio-economico e politico è dunque assai mutato: l’Ita-lia non è più il centro dell’Impero, e neppure il partner ancora rispetta-

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to del v secolo. Nonostante le dichiarazioni della Prammatica Sanzione(554), finalizzate a restaurare l’amministrazione e la società romana tra-dizionali (Nov., App. 7) [Stein 151, II, pp. 613-22], il potere è destina-to a passare dall’antica aristocrazia senatoria a una classe di ufficiali su-periori possidenti [Brown 193] e alla Chiesa. L’Italia diviene una pro-vincia marginale che Bisanzio, essa stessa attaccata su altri fronti,difenderà malamente contro i nuovi assalti.

L’Impero di Giustiniano occupa frattanto un territorio più esteso, cheoccorre proteggere con un esercito dagli effettivi ridotti [cfr. cap. v]. Sa-rebbe sbagliato, tuttavia, condannare la riconquista sulla base dei suoicosti – dimenticandosi che ha restituito all’Impero l’Africa e la Sicilia,due province produttive che costituiranno un supporto utile, l’una perpiù di un secolo, l’altra per circa tre – e soprattutto giudicare il regno sot-to l’influenza dei critici del tempo (Procopio, Corippo, Evagrio) o, comeparecchi storici moderni, alla luce degli avvenimenti posteriori e di unaevoluzione sociale che i contemporanei non percepivano affatto. Occor-re, infatti, valutare l’ideale imperiale di Giustiniano nella tradizione an-cora viva della dominazione sull’ecumene rivendicata da Roma, e ormaidalla Nuova Roma. Tale ideale era ancora proclamato nella prefazionedel Codice: «felix Romanorum genus omnibus anteponi nationibus omnibus-que dominari tam praeteritis effecit temporibus quam deo propitio in aeter-num efficiet» (CI, 66, CIC, 2.2).

È in questo stesso spirito che l’imperatore si è sforzato, fin dagli ini-zi del proprio regno, di sostenere anche la concordia religiosa, compi-to reso più complesso dalla riacquisizione dell’Africa, a maggioranzacattolica, e dalle relazioni politiche col papato. In Oriente, non si sa sele attitudini divergenti di Giustiniano, calcedoniano per principio e teo-logo a tempo perso (scrive un trattato contro Origene), e di Teodora,favorevole ai monofisiti, rispondano solamente alle loro convinzionipersonali o alla ricerca di un equilibrio tra i gruppi. Durante la vita diTeodora (†548) e sotto la sua protezione i monofisiti sviluppano unaChiesa concorrente che dall’Egitto, dove esistono due patriarcati riva-li, si estende in Asia Minore, in Mesopotamia e in Arabia sotto l’im-pulso di vescovi siriaci come Giovanni di Efeso, già monaco ad Ami-da, Giacomo Baradeo a Edessa e Teodoro d’Arabia a Bostra. Nel 544Giustiniano emette un editto, detto dei «Tre Capitoli», che condannaalcuni scritti di tendenza nestoriana della scuola di Antiochia nella spe-ranza di conciliarsi i monofisiti, persuadendoli che Calcedonia era fe-dele alla cristologia alessandrina. Lungi dal procurare la pace, l’edittoscontenta contemporaneamente Roma, gli ambienti calcedoniani e i mo-nofisiti. Il quinto concilio ecumenico, il secondo convocato a Costan-

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tinopoli (553-54), conferma i quattro concili precedenti e l’interpreta-zione imperiale; ma occorrono forti pressioni per convincere papa Vi-gilio, che si rifiuta di prender parte alle sessioni benché sia presente aCostantinopoli, a ratificarlo, e numerosi vescovi recalcitranti sono esi-liati o incarcerati [cfr. cap. ii].

12. Nuovi assalti nei Balcani. La pace con la Persia (554-67).

La caduta di Attila e poi la partenza dei Goti per l’Italia avevano la-sciato i territori a nord del Danubio in mano a differenti popoli barba-ri germanici (Gepidi e Longobardi in Pannonia, Eruli intorno a Singi-dunum), agli Sclaveni (tra il Danubio e il nord dei Carpazi) e agli Antitra Danubio e Dnestr, poi tra Dnepr e Don [cfr. cap. xi; Kazanski 209],e infine a gruppi turchi (Bulgari sul Basso Danubio, Cutriguri e Utigu-ri nelle steppe a nord del Mar Nero). Nel 540, questi ultimi effettuanoincursioni devastanti fin sotto le mura di Costantinopoli e l’istmo di Co-rinto. Secondo l’abituale strategia, Giustiniano cerca di manovrare ungruppo contro l’altro con un successo limitato, consacrando al tempostesso grandi sforzi per la fortificazione del limes e dei Balcani in gene-rale, dove Procopio gli attribuisce la costruzione di 600 piazzeforti (DeAedificiis, 4)9.

Nel 540-42 gruppi di Slavi, la cui presenza a nord del Danubio è at-testata fin dagli inizi del vi secolo, superano di nuovo il fiume, nel 550devastano anche la Tracia e s’impadroniscono della città di Topiros; nel550 e nel 551 certuni si spingono fino a Tessalonica e un altro gruppofino alle Lunghe Mura di Costantinopoli; nel 552, infine, devastano nuo-vamente l’Illirico [cfr. carta 5, p. 327]. Nel 558-59, Cutriguri e Sclave-ni sotto la guida di Zabergan minacciano la capitale, provocando il pa-nico tra la popolazione e la mobilitazione della guardia imperiale e de-gli abitanti in età di portare armi. Grazie a Belisario, richiamato d’ur-genza in servizio, la minaccia è vanificata, ma occorre riscattare i pri-gionieri a peso d’oro (Agazia, 5.11-23).

È ugualmente a peso d’oro (30 000 nomismata di tributo annuale) chesi arriva a concludere con la Persia una pace cinquantennale, al terminedi trattative condotte a Dara dal magister officiorum Pietro Patrizio e ri-ferite in dettaglio da Menandro (fr. 6) [Stein 151, II, pp. 516-21;Zuckerman 230]. La Persia rinuncia a ogni rivendicazione sulla Lazica,che aveva ripreso dal 541 al 549, mentre i due Imperi s’impegnano anon accogliere più i fuggitivi di competenza dell’altro stato e a non co-struire nuove fortificazioni nelle vicinanze della frontiera, e decidono

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di concentrare gli scambi commerciali in alcune città prestabilite (Cal-linico, Nisibi, Dvin, Dara) [cfr. carta 2, p. 41].

Il 14 novembre 565 Giustiniano muore, all’età di 83 anni, lasciandoil potere, se si dà credito a Corippo [Elogio 168, 4.339-50], al proprionipote Giustino II. Le sue spoglie mortali sono ricoperte di un pallio chelo rappresenta mentre calpesta il re vandalo Gelimero, circondato dallepersonificazioni di Roma e dell’Africa e da allegorie di popoli vinti [Elo-gio 168, 1.276-90], temi classici della vittoria imperiale presenti nei so-lidi del v secolo e, tra altri esempi famosi, nell’avorio Barberini del Lou-vre. Al di là delle esagerazioni della retorica e di quelle dei suoi criticicontemporanei o successivi, l’eredità di Giustiniano resta impressionan-te. La sua legislazione e la costruzione di Santa Sofia ne sono i segni piùconosciuti, ancora visibili oggigiorno, ma la sua influenza sulla culturae sulla civiltà dell’epoca è ben maggiore [cfr. capp. ix-x].

13. Giustino II e Tiberio. L’arrivo dei Longobardi e degli Slavi (565-82).

Che sia stato designato o no da suo zio, Giustino II il Curopalata èproclamato imperatore la sera stessa del decesso di Giustiniano, cosa cheevita qualsiasi reazione popolare e qualsiasi movimento da parte del suocugino omonimo, magister militum allora di stanza sul Danubio. Giusti-no assicura immediatamente la sua popolarità facendo sfoggio della pro-pria generosità nell’Ippodromo e rimborsando di tasca propria i presti-ti forzati imposti da Giustiniano. Rinnova le proprie elargizioni cele-brando fastosamente il suo consolato il 1º gennaio 566 e accordando nelmedesimo anno un condono generale di tasse arretrate (Nov., 148), men-tre sua moglie Sofia, nipote di Teodora, si assume l’onere del rimborsodi numerosi debiti [Teofane 184, p. 242, 21-27]. Apparentemente, lafortuna personale dei nuovi sovrani permette di rimediare alle esigenzeanteriori o agli eccessi di Giustiniano, al quale Procopio rimprovera diaver indebitamente arricchito la Corona. Senza dubbio, si assiste allacrescita del patrimonio distinto della res privata, ma reindirizzato in que-sto caso a spese pubbliche [cfr. cap. iii, pp. 107-8, sulle domus divinae].Alla fine del regno, in ogni caso – adesso si accusa l’imperatore di ava-rizia per aver introdotto nuove tasse su pane e vino, e aver preteso 4 so-lidi da ciascun titolare di «pani politici» nella capitale –, le risorse delTesoro sono ancora sufficienti per permettere a Tiberio ampi donativi(nel 578, secondo Giovanni di Efeso, 3.14, distribuisce 7200 libbre d’o-ro, senza contare l’argento e i drappi di seta). Tiberio, comes degli ex-cubitores, aveva favorito l’ascesa al potere di Giustino; la coppia impe-

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riale non ha eredi e Giustino, che sprofonda nella follia, lo nomina ce-sare il 6 dicembre 574. Per quattro anni, Tiberio esercita dunque già ilpotere effettivo come co-imperatore, pur dovendo tener conto dell’am-bizione di Sofia e della sua forte personalità.

L’Impero deve allora fronteggiare, su tutte le proprie frontiere, mi-nacce sempre più gravi. Il mondo delle steppe è infatti agitato dall’e-mergere di una nuova potenza nomade, quella degli Avari, il cui domi-nio avanza dal Caucaso fino all’Ucraina e che sono destinati a minaccia-re gravemente Bisanzio per più di un secolo. All’inizio, Giustinianoaveva cercato di servirsi degli Avari contro i Bulgari e gli Anti, attiran-doli pertanto a nord del Danubio, dove cominciano a estendere il pro-prio potere su altre popolazioni (Cutriguri, Utiguri e Anti), come ave-vano fatto gli Unni un secolo prima. Il loro intervento in Pannonia, do-ve si contrappongono Longobardi e Gepidi, conduce infatti alla partenzadei primi e alla sottomissione dei Gepidi. L’Impero ne approfitta per re-cuperare Sirmio, che era in potere di questi ultimi dal 538. La Panno-nia diviene allora, sotto il qaghan Baian, il cuore dello stato avaro, cen-trato, come quello degli Unni, sul bacino della Tisza.

Nel 568, condotti da Alboino, i Longobardi minacciati da questanuova potenza partono per cercar fortuna nella più ricca Italia, dov’e-rano già venuti nel 552 come mercenari di Narsete. Quest’ultimo è sta-to appena congedato da Giustino II, e le difese insufficienti sono coltedi sorpresa; i Longobardi e i loro alleati sassoni e germanici s’impadro-niscono della maggior parte della Venezia nel 568, della Liguria e dellastessa Milano nel 569; solo Ticinum (Pavia) si difende fino al 572. Bi-sanzio conserva le proprie posizioni in qualche guarnigione tirrenica(Sant’Antonino) e soprattutto nelle zone costiere intorno a Ravenna, onelle isole della laguna di Venezia (come Rialto, dove si rifugia il patriar-ca di Aquileia), così come intorno a Roma e Napoli. I Longobardi, tut-tavia, insediandosi intorno a Spoleto, verso il 572 troncano la Via Fla-minia e le comunicazioni tra Roma e Ravenna. Per mantenere i contat-ti, i Bizantini fortificano un nuovo percorso, la Via Amerina, checongiunge Roma a Rimini attraverso il ducato di Perugia. Altri Longo-bardi prendono il controllo di un’ampia zona intorno a Benevento, e in-terrompono così la continuità territoriale tra Roma, la Calabria (Puglia)e il Bruzio (Calabria attuale). Inizia così la frammentazione dell’Italiamedievale, Italia che Bisanzio lascerà presto a se stessa, rifiutando le3000 libbre d’oro oblatizio offerte da Roma all’ascesa al trono di Tibe-rio (578) e consigliando al Senato d’impiegare questa somma per reclu-tare dei Longobardi per la guerra persiana, o per pagare dei Franchi con-tro i Longobardi.

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Nel 572, il momento è ben poco adatto per rompere la pace con laPersia. Ciononostante, Giustino II rifiuta di pagare il tributo annualeprevisto dalla pace del 562 e invia delle truppe in aiuto dei cristiani diPersarmenia, ribellatisi contro la conversione forzata allo zoroastrismoimposta da Cosroe. La risposta persiana è massiccia: Apamea è messa asacco e la popolazione è deportata, la fortezza di Dara è catturata nel573. Più realisti, prima Sofia e poi Tiberio acquistano una pace provvi-soria, limitata alla Mesopotamia, in cambio di un tributo di 30 000 so-lidi all’anno, mentre le ostilità continuano in Armenia. Il comes degli ex-cubitores Maurizio vi riporta dei successi che permettono di negoziareuna pace più favorevole, sulla base del ritorno dell’Armenia e dell’Ibe-ria alla Persia in cambio di Dara. Cosroe tuttavia muore nel 579, il suosuccessore Ormisda si rifiuta di cedere e la guerra si prolunga.

Nei Balcani [cfr. cap. xi], frattanto, Tiberio adotta la stessa politicapragmatica comprando la tranquillità dagli Avari a prezzo di un tributodi 80 000 solidi all’anno (Menandro, fr. 63) e ottenendo il loro interven-to contro gli Sclaveni nel 578. Questi ultimi, a quanto pare, nel 571 e nel578 hanno effettuato incursioni a sud del Danubio, di cui i testi non par-lano ma che sono rispecchiate dall’archeologia, in particolare da una se-rie di seppellimenti di monete [cfr. cap. xi; Popoviç 848-51]. Qualcheanno più tardi, gli assalti riprendono. Al termine di un assedio di tre an-ni, gli Avari ottengono la resa di Sirmio (582), testa di ponte sulla Savae chiave dei Balcani, mentre una nuova ondata slava penetra fino al me-ridione dell’«Ellade» (probabilmente il Peloponneso) senza tuttavia in-sediarvisi. I tesori monetari si accordano con la testimonianza di Giovan-ni di Efeso secondo il quale «tre anni dopo la morte di Giustino (II), sot-to il regno del vittorioso Tiberio (581), la nazione maledetta degli Slavi… percorse tutta l’Ellade, la provincia di Tessaglia e la Tracia, devastònumerose città e proprietà … Ciò andò avanti per quattro anni … GliSlavi si insediarono e si espansero secondo la volontà divina … e ancoraoggi (584) sono stabiliti e insediati nelle province romane … uccidendo,bruciando, rubando l’oro, l’argento, le mandrie di cavalli» (Hist. Eccl.,6.25) [citato e commentato da Avraméa 822, pp. 68-79].

14. Maurizio e il ritorno all’equilibrio delle forze sulla frontiera orien-tale e balcanica (582-602).

Originario della Cappadocia e abile soldato, autore di un manualeben informato su queste materie, lo Strategikon – redatto da lui stessoalla fine del suo regno (452) –, Maurizio era stato nominato cesare da

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Tiberio, che gli aveva dato in sposa la propria figlia Costantina. La vi-gilia della morte di Tiberio, è proclamato imperatore. L’anno successi-vo, la nascita di un erede maschio, battezzato col nome di Teodosio, chesi spera di buon augurio per l’avvenire della nuova dinastia, mette finealla carenza che aveva colpito tutti i sovrani dal tempo di Arcadio. Mau-rizio cerca di affrontare diverse minacce esterne rimediando contempo-raneamente a una situazione finanziaria difficile, e in Africa e in Italiaaffida il potere a un esarca che riunisce in sé i poteri civili e militari[Diehl 196-97, Whitby 227]. I risultati così ottenuti, soprattutto i suc-cessi in Persia e la resistenza nei Balcani, contrastano, come si vedrà,con il disastro generale che seguirà il suo rovesciamento.

In Africa, le rivolte dei Mauri, che insieme al ritorno della peste han-no molto danneggiato la provincia sotto Giustino II, sembrano esserestate contenute dall’esarca Gennadio. Gregorio Magno si congratula conlui per aver assicurato la sicurezza alla regione [Diehl 197, pp. 481-82].L’emissione di monete d’oro in quantità crescente secondo il ciclo fisca-le attesta la prosperità delle finanze locali. In Italia, si riporta qualchesuccesso sui Longobardi, sempre divisi. Grazie all’alleanza franca (Chil-deberto aveva attaccato i Longobardi nel 588 e nel 590), l’esarca Roma-no riconquista Altino, Mutina (Modena) e Mantova, e ottiene la sotto-missione dei duchi di Parma, Piacenza e Regium (Reggio Emilia) (Pao-lo Diacono, Hist. Lang., 3.16, 3.18, 3.22, 3.28-29).

Sul fronte persiano i differenti comandanti, Filippico, cognato del-l’imperatore, Prisco e Comentiolo, consolidano il controllo dell’Arme-nia e respingono le offensive in Alta Mesopotamia. Soprattutto, Bisan-zio approfitta delle discordie interne dei Sassanidi (rivolta di Vahramcontro Ormisda, proclamazione di Cosroe II al posto di suo padre nel590). In cambio dell’appoggio decisivo prestato a Cosroe II contro Vah-ram, Maurizio recupera Dara e Martiropoli (MayyÇfÇriqın) e ottiene ilcontrollo dell’Iberia (centro della Georgia attuale) e della Persarmenia(valle dell’Arasse e ovest del lago Van). La frontiera è tornata più o me-no alla situazione dell’inizio del vi secolo e, soprattutto, la tregua aOriente, favorita anche da un’alleanza conclusa con il qaghanato deiTurchi occidentali, permette a Maurizio di riprendere il vantaggio neiBalcani.

Fino ad allora, la Tracia e l’Illirico non hanno mai cessato di subireincursioni devastanti. Dopo la presa di Sirmio, il limes danubiano cedeovunque. Respinte dalla Tracia, nel 585 bande slave saccheggiano Ate-ne, poi, nel 586, Corinto e assediano invano Tessalonica, cominciandotuttavia a insediarsi in Grecia, Peloponneso compreso [Lemerle 211].Frattanto gli Avari, malgrado il versamento del tributo di 100 000 soli-

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Carta 2. La frontiera orientale.

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Amasea

Sebastea

Trebisonda

Petra

Tiflis (Tbilisi)

Dvin

Ganzak

Teodosiopoli(Erzerum)

Arces

Cesarea

Melitene

Kitharizon

MartiropoliAmida

Mardin

Dara Nisibi

Singara

Circesio

Edessa

Teodosiopoli(Resaina)

Callinico

CalcideSergiopoli

Palmira

Antiochia

Epifania

Tiro Damasco

Cesarea

Gerusalemme

Bezabda

Ninive

SeleuciaCtesifonte

Lago Sevan

Lago di Van

Lago diUrmia

Eufrate

Tigri

Cha

bora

s(H.

abur

)

Oronte

Arasse

Kur

MAR NERO

ALBANIA

IBERIA

LAZICA

PERSARMENIAARMENIACAPPADOCIA

caucaso

tauro

zagros

porte

cilicie

200 km0 100

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42 La continuità dell’Impero romano in Oriente

di, si espandono dalla Pannonia al Mar Nero e s’impadroniscono di An-chialo (584?). In compenso, negli anni ’90 del vi secolo, le forze bizan-tine accresciute grazie alla pace con la Persia riducono sulla difensivaAvari e Slavi impegnandoli a nord del Danubio in Pannonia e Oltenia,e si assicurano il controllo delle Porte di Ferro. La frontiera è ristabili-ta sul fiume [cfr. cap. xi].

Il contesto finanziario, tuttavia, rende fragili tali successi. Già nel593/594, quando Maurizio aveva voluto commutare in natura una partedel salario dell’esercito dei Balcani, era scoppiata una ribellione. Alla fi-ne del 602, quando ordina di svernare a nord del Danubio – una tatticaeffettivamente raccomandata dallo Strategikon [436, 11.4.82], giacchépermette di attaccare più facilmente gli Slavi, meglio visibili in questastagione –, le truppe si rivoltano, proclamano imperatore il centurioneFoca e marciano sulla capitale. La rivolta vi dilaga tanto più facilmentein quanto, all’inizio dell’anno, la mancanza di pane ha già provocato gra-vi incidenti. L’imperatore si rifugia a Calcedonia con la propria famigliail 22 novembre, il 23 Foca è proclamato imperatore all’Hebdomon, co-me vuole la tradizione, e il 27 Maurizio è decapitato, dopo aver visto ifigli uccisi sotto i propri occhi. I corpi sono gettati in mare e le teste por-tate al Campo Marzio all’Hebdomon per essere mostrate all’esercito. Èmassacrato anche Teodosio, figlio di Maurizio, rifugiatosi dentro unachiesa diversa da quella in cui si era raccolto il resto della famiglia, ma sipropaga comunque la diceria secondo cui sarebbe fuggito e si sarebbemesso in salvo in Colchide. Cosroe II «si servì della tirannia [dell’usur-pazione] come di un pretesto per fare la guerra … e ciò fu la fine dellaprosperità dei Romani e dei Persiani. Cosroe, infatti, finse di difenderela beata memoria dell’imperatore Maurizio. E così nacque la guerra per-siana…» [Teofilatto Simocatta 185, 8.6-15].

15. Foca e gli inizi dell’ultima guerra persiana (602-10).

È la prima volta, dal 324, che ha luogo una tale «ascesa al trono nelsangue» [Doctr. Jacobi 277, 3.12]. Questo fenomeno eccezionale, chetuttavia si ripeterà (per Eraclio stesso o in seguito per Giustiniano II) sispiega con la convergenza della violenza urbana crescente alla fine delvi secolo da un lato e, dall’altro, dell’ammutinamento delle truppe da-nubiane, vicine alla capitale. Fatto segno di una serie di cospirazioni cru-delmente represse, Foca elimina di volta in volta la vedova di Maurizio,le sue figlie e la cognata, il magister militum Germano, il prefetto del pre-torio Teodoro e altri, giustificando la reputazione di «tiranno» che gli

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riservano le fonti [Chron. Paschale 166, pp. 696-97]. Le lotte tra le «fa-zioni» e l’opposizione tra gli Azzurri (favorevoli a Maurizio) e i Verdi,che avevano sostenuto Foca nel 602, raggiungono allora il proprio api-ce e si estendono a numerose città dell’Impero (Mirac. Dem., 1) [Doctr.Jacobi 277; Liebeschuetz 562, pp. 249-83].

La sicurezza esterna può essere ben difficilmente assicurata in un ta-le contesto politico e sociale, e i successi di Maurizio vanno perduti. InItalia, dove il re Agilulfo (590-616) ha riunificato i possedimenti longo-bardi della pianura del Po, e li ha addirittura estesi a spese di Bisanzio,l’esarca Smaragdo deve riconoscere il fatto compiuto per mezzo di untrattato, nel 604-5. Nell’Illirico, occorre versare un nuovo tributo agliAvari per poter trasferire l’esercito d’Europa in Oriente. Gli Sclavenine approfittano per devastare l’intera provincia; solo Tessalonica resi-ste, al riparo delle sue forti mura, a un attacco a sorpresa inferto da 5000soldati agguerriti, probabilmente nel 604 (Mirac. Dem., 1.12) [Lemerle211, pp. 69-73].

L’avvenimento più grave è con ogni probabilità la ripresa della guer-ra persiana. Il rovesciamento di Maurizio offre a Cosroe un gradito pre-testo per rimettere in discussione le concessioni fatte in cambio dell’aiu-to bizantino al suo reinsediamento, a meno che, secondo un’altra tradi-zione, non abbia sinceramente risposto alla richiesta di aiuto cheMaurizio gli avrebbe fatto recapitare da suo figlio Teodosio. Vero o fal-so che sia, questo Teodosio, riconosciuto da alcuni bizantini e in ognicaso da Narsete, comandante delle truppe in Mesopotamia, entra con letruppe persiane in territorio bizantino. In Armenia, vari capi militari ri-conoscono Teodosio e finiscono per consegnargli le principali fortezzeche controllano l’accesso all’Anatolia, tra cui Kitharizon e Teodosiopo-li (Erzerum), che cade nel 607. In Mesopotamia, Cosroe stesso guidal’offensiva. Nel 604, Dara cade dopo un lungo assedio, nel 608-10 è lavolta di Amida e di Ra’s al-Ayn nonché di Mardin, che nel Tr Abdınè restata fino ad allora un bastione della frontiera dell’Eufrate; infine,Edessa si arrende nel 609 [Flusin 172].

Frattanto, nell’estate del 608 è nata a Cartagine, su impulso dell’e-sarca d’Africa, Eraclio il Vecchio, una rivolta ben più grave delle cospi-razioni di Costantinopoli. Eraclio invia suo nipote Niceta ad Alessan-dria, per conquistare l’Egitto alla sua causa, e sospende l’invio della flot-ta annonaria verso la capitale, minacciandone così l’approvvigionamento[Giovanni di Nikiu, 107-9]. Foca invia Bonoso, comes Orientis, che tut-tavia non riesce a riprendere l’Egitto, mentre i rivoltosi ottengono ilcontrollo di Cipro, e una flotta partita da Cartagine sotto il comandodel figlio dell’esarca, Eraclio, arriva in vista di Costantinopoli il 14 set-

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tembre 610 [Chron. Paschale 166, pp. 699-700; Teofane 184, pp. 298-299]. I dati lacunosi forniti dai testi su tali avvenimenti sono completa-ti e chiariti dalla testimonianza delle monete identificate da Grierson[203]: i rivoltosi, Eraclio il vecchio e suo figlio vi sono rappresentati (tut-ti e due o solo il giovane Eraclio) senza le insegne imperiali ma con il ti-tolo di console. Una serie completa di pezzi di ogni metallo (oro, argen-to, bronzo), perlopiù datati secondo l’indizione, è battuta ad Alessan-dria, Cartagine, Cipro e Alessandria ad Issum tra il 608 e il 610. Sonougualmente attestati sigilli di piombo con il titolo D(o)m(ini) (H)eracliic(onsules)10. Una tale affermazione dimostra che la sollevazione, che pog-gia su due delle più ricche province dell’Impero, di cui «ricicla» anchei proventi delle tasse, era certa del proprio successo. I Verdi permetto-no alla flotta d’Africa di accedere al porto. Il 5 ottobre 610 Foca è con-segnato a Eraclio e massacrato, così come la maggioranza dei suoi par-tigiani; la sua testa e la sua mano sono infilzate su una spada ed esibitelungo tutta la Mese [Chron. Paschale 166, pp. 700-1].

16. Eraclio di fronte alla conquista persiana della Siria e dell’Egitto(610-23).

La guerra civile evidentemente facilita l’avanzata dei Persiani, cheattraversano l’Eufrate il 7 agosto 610; l’8 ottobre Shahrbaraz prendeAntiochia, il 15 Apamea. Emesa (Homs) si arrende nel 611 e Damasconel 613. Cosroe continua a sostenere il vero o falso Teodosio e si rifiu-ta di riconoscere il nuovo imperatore. Dall’Armenia, i Persiani coman-dati da Shain penetrano in Cappadocia e s’impadroniscono di Cesarea.Circondato dalle forze bizantine, Shain abbandona la città nell’estatedel 612, ma la controffensiva seguente, condotta da Eraclio e Niceta nel613, non riesce a liberare Antiochia. L’imperatore si ritira attraverso lePorte Cilicie (Gülek Bo_azı) e lascia Tarso e l’intera Cilicia in mano aiPersiani. Shahrbaraz controlla adesso tutta la Siria e può ormai interve-nire in Palestina.

La capitale Cesarea Marittima, trovandosi indifesa, gli apre le por-te. Nel maggio o nel giugno del 614, dopo un assedio di tre settimane,contraddistinto da nuove intemperanze dei demi – contrari alla volontàdi negoziare espressa dal patriarca – e da un pogrom, i Persiani entranoa Gerusalemme. La città è abbandonata al saccheggio e al massacro; lefonti attestano dalle 17 alle 90 000 vittime, e altrettanti deportati scel-ti di preferenza tra i cittadini più qualificati. Le fonti cristiane coeve eTeofane (1.301) insistono sull’aiuto arrecato ai Persiani (in quell’episo-

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dio così come altrove in Palestina) da parte della popolazione giudaica,ma è difficile separare tali affermazioni dal contesto polemico del vii se-colo [Flusin 172, Cameron 194]. Ciò che più conta, la reliquia della Ve-ra Croce è inviata a Cosroe, che «per onorarla, la fa collocare con i va-si sacri nel nuovo ‘tesoro’ che si era fatto costruire a Ctesifonte» (Anon.Guidi, 22). La perdita di una reliquia così santa, associata alla vittoriaimperiale dall’ideologia costantiniana, era una catastrofe. Il potere sisforza subito di compensarla, esaltando a Costantinopoli altre reliquiedella crocifissione salvate dal disastro [Chron. Paschale 166, pp. 704-5].

Una volta occupata e riorganizzata la Palestina (la vita di Sant’Ana-stasio il Persiano [172] attesta nella regione, passati alcuni anni, una con-tinuità della vita economica e una certa tolleranza), i Persiani penetra-no in Egitto e s’impadroniscono di Alessandria nel 619, dopo un lungoassedio. Il patriarca Giovanni l’Elemosiniere (610-17), che fino ad allo-ra aveva sostentato tramite le ricchezze della Chiesa i profughi prove-nienti dalla Siria, è a sua volta costretto all’esilio e muore a Cipro, suaisola natale. I Persiani controllano ormai le più ricche province dell’Im-pero e dovunque, dopo le inevitabili violenze della conquista, i gover-natori (marzban), civili tranne che in Armenia, sembrano aver mantenu-to l’amministrazione e la fiscalità precedenti con l’aiuto dei notabili lo-cali (in particolare monofisiti, da essi favoriti). I governatori tolleranoanche l’uso della moneta d’oro e della moneta spicciola di bronzo bizan-tine, quest’ultima (indispensabile per degli scambi rimasti attivi) com-pletata da imitazioni locali di folles11.

La cronologia dell’avanzata persiana in Asia Minore durante i primicinque anni del regno è difficile da ricostruire, ma gli studi recenti l’han-no assai chiarita. Shain nel 615 raggiunge Calcedonia, sulla riva asiati-ca del Mar di Marmara di fronte a Costantinopoli, e l’imperatore avreb-be allora tentato di negoziare con l’intermediazione del Senato, invian-do un’ambasciata a Cosroe, ma senza successo. Sull’altopiano e sullecoste si susseguono dunque le incursioni persiane, contraddistinte dal-la presa di Ancira nel 620 o nel 622, da quella di Rodi nel 622 o 623,dalle tracce di distruzione o dai tesori monetari abbandonati in nume-rosi siti, dalla chiusura delle zecche provinciali di Cizico tra il 616 e il626 e di Nicomedia tra il 619 e il 626, e dallo iato di scoperte moneta-rie risalenti a tale periodo. Si tratta di devastazioni troppo generalizza-te per poterle minimizzare o attribuire volta per volta a cause partico-lari, come un terremoto a Efeso o un incendio casuale delle botteghe diSardi, per esempio12.

Per concentrarsi sulla lotta contro i Persiani, l’Impero abbandona leprovince europee a se stesse. Nei Balcani, la ritirata dal limes nel 602,

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poi la guerra civile e l’insufficienza della flotta lasciano campo libero al-le incursioni degli Slavi e anche al loro insediamento in regioni già spo-polate. Dopo aver «trovato il modo di fabbricare delle imbarcazioni sca-vate in un unico tronco d’albero [«monossili»], si misero in mare e de-vastarono tutta la Tessaglia con le sue isole e quelle dell’Ellade, leCicladi, tutta l’Acaia, l’Epiro, la maggior parte dell’Illirico e una partedell’Asia, e lasciarono deserte numerose città e province» (Mirac. Dem.,2.1.179). Salona è presa nel 615 e Bisanzio non controlla più che qual-che città costiera, tra cui Tessalonica, dove molti abitanti dell’Illiricohanno cercato rifugio, e che resiste a un primo assedio «poiché le suemura erano solide» (Giovanni di Nikiu, 109). Frattanto gli Avari, chehanno conquistato Naisso (Ni‰) e Serdica (Sofia) intorno al 614, con-trollano adesso tutto il nord dell’Illirico e deportano dei Greci nella re-gione di Sirmio. Nel 618, Avari e Slavi si associano di nuovo per asse-diare Tessalonica, che resiste ancora una volta [Lemerle 211, Popoviç848-49].

17. La controffensiva di Eraclio in Armenia e la vittoria sulla Persia(623-30). La slavizzazione dei Balcani.

All’inizio degli anni ’20 del vii secolo la situazione è disperata; il Te-soro è vuoto, le rogai sono dimezzate dal 616, l’annona è soppressa nel618. Nel 621, la Chiesa accetta di prestare una gran parte dei propri te-sori, che sono fusi e battuti in moneta per finanziare la lotta contro iPersiani. Eraclio tenta di comprare la pace sul fronte avarico. Nel cor-so dei negoziati, gli Avari cercano tuttavia di approfittare dell’assenzadi Eraclio da Costantinopoli – è venuto a trattare a Eraclea, infatti –per prendere la città. Oltrepassano le Lunghe Mura e devastano i sob-borghi della capitale, saccheggiano le chiese e fanno numerosi prigionie-ri (623). Nonostante tale pessima «sorpresa avarica», dimostrazione checonveniva accordare poca confidenza a tali interlocutori, viene loro ver-sato un tributo annuale di 200 000 nomismata.

«Allora Eraclio, benché gli affari pubblici fossero giunti a tale livello disventura ed anomalia … commise un atto contrario alle leggi … contraen-do matrimonio con la propria nipote Martina…» (Niceforo, Breviarium,10-11). L’imperatore dal suo primo matrimonio aveva avuto solo una fi-glia, Epifania/Eudocia, e un figlio, Eraclio Costantino, nati nel 611 e nel612, che furono incoronati tutti e due verso la fine del 612, poco tempodopo il decesso della loro madre Eudocia. Tutti e due sono rappresenta-ti associati al padre sulle monete. Il nuovo matrimonio di Eraclio, giudi-

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cato incestuoso dal patriarca, al momento risponde senza dubbio allapreoccupazione, dopo dieci anni di vedovanza, di rinsaldare la propriasuccessione, che poggiava fino ad allora su di un solo erede.

Nel 622, i successi di una prima spedizione in Anatolia contro Shahr-baraz non possono essere portati avanti a causa dell’offensiva avara. Il25 marzo 624 Eraclio parte per l’Oriente accompagnato dalla propriasposa, che metterà al mondo diversi bambini nel corso di questa assen-za di quattro anni. Il genio militare di Eraclio si afferma in questa seriedi campagne decisive. L’imperatore decide infatti di prendere alle spal-le i Persiani, che sono allora massicciamente impegnati nella parte occi-dentale dell’Asia Minore, e, passando dall’Armenia, lancia le proprietruppe in Mesopotamia e fa bruciare il tempio del fuoco presso Ganzak,atto che costringe Cosroe a richiamare Shahrbaraz. Bloccato dalle trup-pe nemiche, che gli impediscono la prevista ritirata in Iberia (Georgia),Eraclio prende ancora una volta di sorpresa i Persiani, ritirandosi d’in-verno verso il sud attraverso la vallata del Trtu e il lago Sevan, e vincedue eserciti persiani uno dopo l’altro. Sempre inseguito, tuttavia, dalletruppe di Shahraplakan e di Shain, e abbandonato dai propri alleati la-zi e abasgi, attraversa l’Arasse e raggiunge la Persarmenia. L’imperato-re approfitta dello svernamento delle truppe, che ha disperso i soldatiarmeni dell’esercito persiano, per attaccare il campo di Shahrbaraz adArãï‰ (a nord del lago Van) e farvi un grande bottino (febbraio 625).Nella primavera e nell’estate del 625 continua a disturbare le truppe diShahrbaraz che si ritirano. Riprende in tal modo il controllo dell’AsiaMinore e il momento di tregua così ottenuto permette di preparare l’as-salto finale contro la Persia con l’aiuto dei Turchi del Caucaso setten-trionale.

Nel 626, Eraclio stesso è colpito alle spalle: Cosroe scatena Shahr-baraz contro Costantinopoli, in combinazione con gli Avaroslavi che ta-gliano l’acquedotto «di Valente» e devastano i sobborghi. Ma i rinfor-zi inviati da Eraclio arrivano in agosto e la flotta bizantina brucia i mo-nossili slavi che dovevano trasportare le truppe persiane da Calcedoniafino alla riva europea. Il patriarca Sergio mobilita le energie portandoin processione sulle mura l’icona della Vergine delle Blacherne, rifiutadi consegnare la città e l’assedio è tolto in agosto, liberazione miracolo-sa celebrata nel proemio dell’inno Acatisto (recitato in piedi) in onoredella Vergine, un contacio più antico rimaneggiato in questa occasione.

Il fallimento dell’assedio di Costantinopoli è un punto di svolta inOriente e in Occidente. Nei Balcani, la dominazione avarica si spacca:gli Slavi si rivoltano contro i propri padroni e proseguono la loro pene-trazione fino all’interno del Peloponneso e le incursioni nell’Egeo. L’ar-

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cheologia conferma questo insediamento e il fatto che «tutta la regione[Ellade e Peloponneso] fu slavizzata» molto prima del ritorno della pe-ste nel 746, cui fa riferimento Costantino VII (De thematibus, 91). Lapresenza bizantina si mantiene tuttavia sulla costa orientale, nelle isolee nelle città capaci di difendersi [Avraméa 822]. Al nord, nell’attualeterritorio ceco e slovacco, una federazione di tribù slave guidata dal mer-cante franco Samo minaccia per qualche tempo contemporaneamente iFranchi di Turingia e gli Avari. A quest’epoca risale inoltre un primotentativo di cristianizzazione dei Croati e dei Serbi, venuti dal nord deiCarpazi (Slesia e Galizia attuali) e che s’insediano allora a sud della Sa-va. Chiamati da Eraclio per intervenire contro gli Avari, sono autoriz-zati a stabilirsi nelle regioni (che devono conquistare) tra la Drava e l’A-driatico, nelle attuali Serbia e Croazia (De adm. imp., 30-32). Il regnodi Eraclio ha dunque conseguenze decisive sulla storia di queste regio-ni. Inoltre, troncando le comunicazioni terrestri tra l’Italia e Costanti-nopoli, la mancanza di sicurezza e la «barbarizzazione», la sparizionedelle popolazioni latinofone o grecofone contribuiscono, insieme ad al-tri fattori, all’allontanamento crescente (straniamento) tra le due comu-nità, greca e latina, d’Oriente e di Occidente.

La diplomazia bizantina si procura altri alleati contro gli Avari e iPersiani: al nord gli Unuguri-Bulgari («Unni» nelle fonti) di Kuvrat, bat-tezzato nel 619, nominato patrizio e insediato sul Dnepr, a nord-est i«Turchi» d’Occidente e il loro capo T’ong Yabghu Kaghan. È con l’aiu-to di quest’ultimo, con il quale arriva a fidanzare la propria figlia mag-giore, che Eraclio riprende l’offensiva in Iberia (presa di Tbilisi) e s’im-padronisce dell’Albania (attuale Azerbaigian), posizione strategica perattaccare la Persia dal nord. Nel settembre 627 entra in Atropatene, pas-sa a sud dei monti Zagros e riporta una vittoria decisiva sul Tigri a Ni-nive il 12 dicembre 627. La disfatta provoca un colpo di stato: Cosroeè ucciso e suo figlio Kavadh-Siroe, proclamato re, invia un’ambasciataa domandare la pace. Eraclio fa un ritorno trionfale a Costantinopoli(628). Lo svolgimento di queste ultime campagne è ricostruito a partireda fonti spesso tardive e rimaneggiate come Teofane, accostate a fontiarmene come Sebeos e Mosè Dasxuranci [Sebeos 182, Howard-John-ston 205, Zuckerman 232-33]. Ci si accorda per il ripristino della fron-tiera del 602 (ossia quella della fine del iv secolo) e la restituzione dellaVera Croce. Tuttavia il potente generale Shahrbaraz, sempre di stanzain Siria, si rifiuta di obbedire allo shah Ardashir, il giovane figlio di Ka-vadh che è appena succeduto al padre (ottobre 628); nuovi negoziati,suggellati anche dal fidanzamento di un figlio di Eraclio con la figlia diShahrbaraz, conducono alla ritirata delle truppe persiane dall’Egitto e

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dalla Siria «senza spargimento di sangue» e alla presa di potere di Shahr-baraz a Ctesifonte. Il 21 marzo 630 Eraclio, primo e unico tra gli impe-ratori cristiani a essersi mai recato a Gerusalemme, compie a piedi lapropria entrata solenne nella città santa «con la vivifica Croce del Sal-vatore … ripristinando nel luogo appropriato ciò che assicura la sicurez-za dell’oikoumene» [Ritorno delle reliquie, Flusin 172, I, p. 99]: divienecosì un secondo Costantino. La guerra vittoriosa contro la Persia ha as-sunto una dimensione religiosa che non bisogna comunque assimilare auna crociata.

18. L’emergere dell’Islam e gli inizi della conquista araba (631-41).

La vittoria ottenuta sull’Impero persiano grazie a forza e diplomaziaera un notevole successo, tenuto conto della situazione di Bisanzio neglianni ’20 del vii secolo. L’Impero, tuttavia, non ritrova – e non può spe-rare di ritrovare – la condizione e le forze che aveva intorno al 600. I Bal-cani sono quasi del tutto perduti, mentre l’Asia Minore (fatta eccezioneper la costa pontica) e le grandi città conquistate hanno sofferto saccheg-gi e distruzioni, oltre a numerosi terremoti; le finanze, private di una par-te delle risorse fiscali, sono pesantemente indebitate nei confronti dellaChiesa. L’unità culturale è danneggiata dalla difficoltà di comunicazio-ne e dal declino della vita urbana, mentre le divisioni religiose persisto-no o si aggravano, dal momento che l’occupazione persiana aveva, al con-trario, favorito l’indipendenza delle Chiese locali. L’unità religiosa resta,come nel passato, l’obiettivo imperiale, e vedono la luce nuovi audacitentativi di compromesso tra monofisiti e calcedoniani. I patriarchi diCostantinopoli e Alessandria formulano, intorno al 620, la dottrina diun’unica operazione (energia) indissociabilmente divina e umana. Solouna parte dei monofisiti d’Armenia, Siria ed Egitto vi aderisce progres-sivamente. Il monaco palestinese Sofronio, patriarca di Gerusalemme dal634 al 638, ottiene dal patriarca di Costantinopoli la redazione di un nuo-vo decreto sulla fede che proibisce di parlare di una o due operazioni nelCristo. Nel 638 Eraclio promulga l’Ekthesis, ratificata da un concilio riu-nito nel 639, che impone il monotelismo e suscita l’opposizione sia daparte del papa sia da parte dei monofisiti, e non farà che complicare lavita ai regni successivi [cfr. cap. ii].

L’Impero affronta dunque con capacità sminuite l’emergere delletribù arabe, unificate da una nuova religione, l’Islam. Queste tribù, ec-cellenti nella guerra, hanno da tempo un ruolo importante nel disposi-tivo confinario siro-palestinese [cfr. capp. iii, v e xiii] o nelle guerre, co-

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me alleati dei due imperi rivali (Lakhmidi dalla parte dei Persiani, Ghas-sanidi cristiani dalla parte dei Bizantini), e molti arabi sono stanziati se-dentariamente nelle città del sud. Rampollo del clan hashemita dellatribù dei Quraishiti, che controlla la Mecca, centro carovaniero e luogodi pellegrinaggio (la Pietra Nera è un masso sacro preislamico), Maomet-to (Mu®ammad) avrebbe inizialmente esortato la propria tribù alla rifor-ma; incompreso ed emarginato dal clan al potere, si rifugia a Medina nel622 (è l’Egira [hijra, «esilio»], anno d’inizio del calendario musulmano).Là impone poco a poco la propria dottrina monoteista che incorpora ereinterpreta elementi biblici presi in prestito dagli ambienti giudaici ecristiani della penisola, e consolida il suo potere militare grazie a razziecontro le carovane meccane e a spedizioni contro le tribù o le città osti-li. Per non essere stato riconosciuto dagli ebrei come profeta e succes-sore di Abramo, li caccia da Medina nel 624. Nel 630 ottiene il control-lo della Mecca, riporta una vittoria a Hunayn sui nomadi Hawazin delNeged e giunge così a dominare tutta l’Arabia occidentale, imponendoa partire da questa data la conversione all’Islam per entrare nella pro-pria alleanza.

Muore nel 632 e il suo successore, il califfo Abu Bakr, prosegue lerazzie verso settentrione, approfittando dell’indebolimento dei due im-peri dopo la fine della guerra persiana e della presenza di numerosi ara-bi nelle province confinarie. L’appello della predicazione coranica allaguerra santa contro gli infedeli ( jihad ) e la promessa del bottino unisco-no le tribù divise, radunando compagni dei primi anni e convertiti re-centi. Facilitate dall’impreparazione degli avversari e dall’impopolaritàdel regime bizantino restaurato, piuttosto che dai dissensi religiosi (si èsopravvalutato il filoarabismo dei monofisiti), le incursioni si trasforma-no in una conquista irresistibile che è destinata a unificare sotto un me-desimo potere tutta la Mezzaluna fertile dal Golfo Persico fino al Me-diterraneo. A partire dal 633 cadono una serie di città della Transgior-dania e della Siria, seguite da Damasco nel 635. Nel 636, la battagliadello Yarmuk, dove trovano la morte migliaia di soldati bizantini, con-segna la totalità della Siria e della Palestina ai «Saraceni»: «Abominiodella desolazione … saccheggiano le città, devastano i campi, danno al-le fiamme i villaggi, distruggono i santi monasteri … e si vantano d’im-padronirsi del mondo intero», esclama il patriarca Sofronio nel propriosermone dell’Epifania del 637 [citato da Flusin 172, II, p. 358]. Dopoun assedio di sei mesi, Gerusalemme si arrende nel 638. Questa volta,la reliquia della Vera Croce e i tesori delle chiese sono stati messi pertempo al sicuro a Costantinopoli. L’Impero non può più reclutare gran-di quantitativi di truppe e resta prudentemente sulla difensiva.

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Nel 638, la battaglia di Qadisyya segna la fine della dominazione sas-sanide e, nel 639, Amr penetra in Egitto, conquista le città della costama si scontra sul Nilo con la resistenza bizantina concentrata intornoalla fortezza di Babilonia (presso il sito dell’attuale Cairo). Il crollo del-l’Impero sassanide permette allora agli Arabi di concentrare la maggiorparte delle loro forze contro Bisanzio. Assediato nella città da truppearabe rinforzate che mettono in rotta l’esercito di Tracia inviato in suosoccorso nel 640, il patriarca Ciro negozia una tregua al prezzo di un tri-buto annuale di 200 000 nomismata, ma è sconfessato dall’imperatore.Frattanto, la caduta di Cesarea Marittima completa la conquista dellaSiria-Palestina.

Nel gennaio del 641 muore Eraclio, facendo in tempo a vedere az-zerati i risultati di una lotta durata vent’anni. Lascia una successioneibrida e divisa, giacché ha da poco incoronato, nel 638, il proprio figliodi secondo letto Eracleona, auspicando nel proprio testamento che que-st’ultimo condivida il potere «alla pari» con il proprio fratellastro Era-clio Costantino, sotto l’autorità dell’imperatrice Martina. I conflitti fa-miliari non cesseranno di affliggere la dinastia fino alla fine del secolo,prima che si stabilisca la pratica di una sorta di primogenitura. Malgra-do questo handicap politico, gli imperatori successivi proseguiranno lariorganizzazione incominciata un po’ alla volta sotto il suo regno – giac-ché non c’è una vera e propria «riforma» di Eraclio, come certi storicihanno un tempo creduto – e assicureranno la sopravvivenza di un Im-pero dal territorio e dalle risorse ridotte, sempre più lontano dall’ere-dità romana. È l’inizio dello Stato medio-bizantino.

1 Cfr. Cronologia sommaria, pp. 479 sgg.2p. petit, Histoire générale de l’Empire romain, III. Le Bas-Empire (284-395), Paris 1974, p. 90.

3é. demougeot, De l’unité à la division de l’empire romain 395-410: essai sur le gouvernementimpérial, Paris 1951.

4v. bierbrauer, Die ostgotischen Grab- und Schatzfunde in Italien, Spoleto 1975.

5 Tesi di Goffart e Durliat; cfr. la critica di queste interpretazioni dell’hospitalitas e delle mo-dalità dell’accommodation da parte di Barnish 190, nonché la discussione tra Liebeschuetz eDurliat, in Pohl 219.

6 Cfr. Y. Thomas, in h. inglebert (a cura di), Histoire de la civilisation romaine, Paris 2005.7 Cfr. L’Afrique vandale et byzantine, I e II, AnTard, 10 (2002) e 11 (2003).8j.-m. martin, La Pouille du vi

e au xiie siècle, Rome 1993.

9 Un esame di questi dati alla luce dell’epigrafia e dell’archeologia in AnTard, 8 (2000).10 C. Morrisson in Novum millennium: studies on Byzantine history and culture dedicated to Paul

Speck, Aldershot 2001.

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11c. foss, The Persian Near East (602-630 AD) and its coinage, prefazione a h. pottier, Le mon-nayage de la Syrie sous l’occupation perse (610-630), Paris 2004.

12 Per la ricostruzione dell’insieme di questi avvenimenti a partire dalle fonti greche, armene esiriache, confrontate con l’archeologia e la numismatica, vedi Foss 200; Stratos 223, I; Flusin172; Chron. Paschale 166, commento Whitby p. 174; Ps.-Sebeos, commento Howard-John-ston p. 190; e la critica eccessiva di Russell 907.

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bernard flusin

ii. Trionfo del cristianesimo e definizione dell’ortodossia

Con il regno di Costantino, la cristianizzazione dell’Impero, ben av-viata nel iii secolo, si velocizza definitivamente in un contesto rinno-vato: l’imperatore e lo Stato, invece di reprimere la nuova religione, lafavoriscono. Il rovescio della medaglia è che il cristianesimo, con la suapretesa di universalità, contemporaneamente alla propria avanzata ten-de a eliminare le religioni rivali con l’aiuto delle autorità. L’Impero uni-co dei Romani, progressivamente, non ammette più che una sola reli-gione.

Mentre l’Impero si cristianizza, il cristianesimo si trasforma. Impre-gnato di cultura greca, precisa la propria dottrina con un rigore crescen-te e, divenuto religione ufficiale, definisce un’ortodossia sempre più ri-gida, intorno alla quale non giunge mai perfettamente – anche all’inter-no dell’Impero – a realizzare l’unità della Chiesa.

i. la cristianizzazione dell’impero.

1. La lotta contro il paganesimo.

Il cristianesimo riporta i successi più netti contro le religioni tradi-zionali dell’Impero, ben insediate e spesso tenaci. Verso la metà del vsecolo diviene maggioritario e, alla fine del periodo, il paganesimo, pursenza essere eliminato, appare come residuale [Chuvin 260, Trombley275].

1.1. Gli avversar i .

Il termine «paganesimo» indica diverse religioni politeiste, capaci dicoesistere senza conflitto e talora di unirsi. A fianco delle religioni elle-

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nica e romana, così legate alla vita dell’Impero fino all’epoca costanti-niana, occorre tener conto anche dei numerosi culti indigeni, alcuni deiquali (Iside, Mitra) si sono ampiamente diffusi.

La vitalità delle diverse religioni tradizionali varia secondo le regio-ni e secondo i culti. Si scorgono qua e là alcuni segni di crisi: per esem-pio, in Egitto, la religione dei templi si è distaccata dalla pietà popola-re. Nel paganesimo greco e romano si può vedere un’evoluzione, con losviluppo della magia, della divinazione, della teurgia, mentre le praticheprivate – culto del genio, inni, preghiere personali – si intensificano, ta-lora a detrimento delle cerimonie pubbliche. Il sacrificio cruento, cosìimportante nelle religioni classiche, perde la sua importanza a vantag-gio del «sacrificio d’incenso».

Parallelamente, questo paganesimo si dota di una dottrina maggior-mente in accordo con lo spirito del tempo: l’esegesi allegorica attenuagli aspetti più sconcertanti dei miti, la diversità degli dèi tende a esseresubordinata a un dio supremo.

L’enoteismo solare ha potuto così svolgere, per Costantino, il ruolodi anello di congiunzione tra paganesimo e cristianesimo. La religionedi Giuliano [Bowersock 257], tornato dal cristianesimo al paganesimo,è un buon esempio dello spirito dell’epoca: Giuliano venera gli dèi tra-dizionali, ma deriva dal neoplatonismo le proprie dottrine e alcuni riti,ispirandosi anche alla Chiesa cristiana. Sotto alcuni aspetti, la sua reli-gione è comunque arcaica: i sacrifici cruenti da lui organizzati sconcer-tano i contemporanei. A fianco di questo paganesimo evoluto, sussisto-no pratiche più antiche e ben radicate, in particolare nelle campagne onegli ambienti più popolari.

Contro questo avversario multiforme, i cristiani dispongono di armipotenti: uno stretto monoteismo, il fascino della figura di Cristo, la pro-messa della resurrezione futura e dell’avvento del Regno, nonché unamorale esigente, dove la carità ricopre un ruolo centrale. La dottrina, diorigine ebraica, a contatto con l’ellenismo si arricchisce e forma un in-sieme ben adattato alle esigenze del mondo contemporaneo, capace con-temporaneamente di essere la religione dell’Impero e quella della pietàindividuale. I cristiani sono efficacemente raggruppati in Chiese che pre-gano insieme, condividono l’eucaristia e sono dotati di un clero sottol’autorità del vescovo. Queste Chiese locali ispirano ai propri membriun vivo senso d’appartenenza che va di pari passo con la rettitudine del-la fede, la partecipazione ai sacramenti, le regole morali e la speranzadella salvezza. Tali Chiese comunicano tra di loro, formando una Chie-sa universale, e il cristianesimo, comparso agli albori dell’Impero – ilCristo è nato sotto Augusto –, sembra coincidergli a livello territoriale.

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La sua diffusione [Latourette 270] è opera di numerosi fattori. Lapredicazione, ma anche l’esempio, hanno giocato il loro ruolo. Prima diCostantino, i martiri, al tempo delle persecuzioni antiche o recenti, han-no rinsaldato la fede dei credenti e contribuito a espandere la religioneper cui morivano. Le opere di carità hanno anch’esse la propria impor-tanza. Nell’Impero cristiano, agli agenti abituali dell’evangelizzazionesi aggiungono presto dei nuovi venuti, i monaci, mentre il favore del po-tere imperiale permette di occupare spazi e tempi pubblici e di lottare,talora violentemente, contro gli avversari della religione di Stato.

1.2. Pol i t ica e legis laz ione imperia le .

L’azione degli imperatori pare decisiva. Grazie all’«editto di Mila-no», ossia le decisioni prese da Costantino e Licinio al tempo del loroincontro a Milano nel 313, la libertà di culto è ristabilita all’interno del-l’Impero. La neutralità dello Stato romano non resiste, tuttavia, alle pro-pensioni personali degli augusti. Costantino, benché battezzato solo sulletto di morte, si era in effetti dichiarato cristiano assai presto. In occa-sione della battaglia di Ponte Milvio, e forse prima, dota le proprie trup-pe di uno stendardo, il labarum, che le colloca sotto la protezione delCristo. Dopo la vittoria su Licinio, questo atteggiamento è ancora piùnetto e Costantinopoli, benché non sia originariamente dedicata al «Diodei martiri» come dice Eusebio (Vita Constantini, 3.48), si apre agli edi-fici cristiani. A Roma e in Palestina l’evergetismo imperiale si adoperain favore dei cristiani.

Perdipiù, Costantino partecipa attivamente alla vita della Chiesa. Sicirconda di vescovi e può predicare lui stesso. Riunisce dei concili e, gra-zie a una serie di misure, influisce a favore dei cristiani: accorda privi-legi al loro clero, imponendo al contempo alcune restrizioni al culto pa-gano; le leggi [Gaudemet 267] se la prendono con la superstitio e con cer-ti atti di culto giudicati pericolosi (pratiche private di magia e divina-zione) o immorali. Il culto pubblico non è molto toccato, ma dopo il 330Costantino fa confiscare le proprietà dei templi, che inoltre sono spo-gliati delle proprie statue, esposte nelle strade e sulle piazze di Costan-tinopoli. Tale politica è accentuata dai figli di Costantino, allevati nelcristianesimo.

Una legge di Costante nel 341 (CTh, 16.10.2) implica l’interdizionedei sacrifici cruenti. Dal canto suo, Costanzo II emette una serie di leg-gi in favore del clero cristiano, prendendo contemporaneamente misu-re finalizzate alla chiusura dei templi e all’interdizione dei sacrifici, non-ché degli onori resi alle statue degli dèi (CTh, 16.10.4-6). Benché Co-

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stanzo conservi il titolo di pontifex maximus e faccia prova, in Occiden-te, di circospezione, la sua politica segna un passo in avanti verso la cri-stianizzazione dell’Impero.

Quest’azione conosce un brusco colpo d’arresto con l’arrivo al pote-re di Giuliano, tornato dal cristianesimo al paganesimo, favorito dal nuo-vo sovrano, che manifesta al contempo un’ostilità crescente verso i cri-stiani. Giuliano abolisce le leggi antipagane, fa riaprire e restaurare itempli, ristabilisce i sacrifici cruenti. Inoltre, cerca di organizzare unclero pagano strutturato e di dotare il paganesimo di una dottrina, chetenta di diffondere. All’inizio del suo regno adotta un atteggiamento ditolleranza nei confronti dei cristiani, limitandosi a esigere che restitui-scano i beni confiscati ai pagani o che riparino i danni causati agli edi-fici di culto. Ma, progressivamente, si moltiplicano le misure discrimi-natorie ai danni delle persone o delle città colpevoli di aver respinto iculti tradizionali. Tale politica culmina con due leggi che escludono i cri-stiani dall’insegnamento, proibendo loro di spiegare la letteratura paga-na [cfr. cap. i, p. 10].

La morte di Giuliano pone termine a tale tentativo, che dimostra co-me, negli anni ’60 del iv secolo, il paganesimo racchiudesse ancora for-ze e vitalità sufficienti per sognare di restituirgli la propria posizione. Iprimi successori di Giuliano terranno conto di ciò e torneranno alla tol-leranza.

Valentiniano parla della «libera facoltà di praticare il culto a cui [cia-scuno] è attaccato»; ancora nel 371, sono autorizzati l’aruspicina e ogniatto di culto tradizionale (CTh, 9.16.9); sono solamente interdette le ce-rimonie notturne e la magia. Tuttavia, nel 371, in seguito a un proces-so contro alti funzionari pagani, Valente ristabilisce l’interdizione deisacrifici cruenti.

Un passo decisivo è compiuto sotto Graziano (375-83) e Teodosio(379-95), al quale, battezzato proprio al principio del regno e sottomes-so all’influenza del vescovo di Milano, Ambrogio, va imputata la mag-giore responsabilità. I decreti del 28 febbraio 380 e del 10 gennaio 381fanno del cristianesimo cattolico la sola religione avente diritto di citta-dinanza nell’Impero romano. Nella successiva lotta contro il paganesi-mo, possono essere distinti due momenti culminanti.

Da una parte, Graziano prende una serie di misure antipagane cheportano alla «separazione tra paganesimo e Stato» [Pietri 246, II]. Nel382, fa togliere dalla curia romana la statua e l’altare della Vittoria, lai-cizzando così il Senato romano; sopprime le sovvenzioni per i sacerdo-ti pagani e le Vestali, così come le esenzioni fiscali di cui beneficiano,dichiarandoli oltretutto incapaci di ereditare; i templi sono privati an-

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che del restante patrimonio fondiario. Il culto pagano resta legale (CTh,10.7-8), ma, in pratica, il suo svolgimento è compromesso. Malgrado leproteste di una parte importante dell’aristocrazia senatoria, le misureantipagane di Graziano sono mantenute e l’imperatore compie un ulte-riore passo rinunciando al pontificato (383).

Teodosio, dal canto suo, fa chiudere alcuni templi e intorno al 384la spedizione, marcata da violenze, del prefetto Cinegio in Siria ed Egit-to estende quest’azione. Successivamente le misure si fanno più pesan-ti sotto l’influsso di Ambrogio.

Gli apostati dal cristianesimo sono privati dei diritti civili e politici;il 24 febbraio 391 una legge (CTh, 16.10.10) proibisce in Italia e a Ro-ma qualsiasi sacrificio, qualsiasi visita a un tempio, qualsiasi omaggioagli idoli; il 10 giugno 391 una seconda legge (CTh, 16.10.11) estendequeste interdizioni all’Egitto e, l’8 novembre 392, una costituzione(CTh, 16.10.12) generalizza tali misure per tutto l’Impero. Il paganesi-mo è ormai proscritto. La rivolta di Eugenio, contrassegnata da un’ul-tima reazione pagana, si conclude nel 394. Il medesimo anno è contrad-distinto dalla fine della celebrazione dei Giochi olimpici.

La politica di Teodosio è proseguita dai suoi discendenti, Arcadio eOnorio, e poi Teodosio II, il cui codice, promulgato nel 438, riprendel’insieme delle leggi antipagane.

Arcadio e Onorio rinnovano la proibizione dei sacrifici (CTh,16.10.13, dell’agosto 395) e l’abolizione delle esenzioni in favore dei sa-cerdoti pagani (CTh, 16.10.14, del 396). La celebrazione dei misterieleusini è proibita nel 396. Onorio e Arcadio ordinano, nel 399, la de-molizione dei templi rurali (CTh, 16.10.16), misura che sarà ulterior-mente rafforzata da un editto di Teodosio II nel 435, che ordina la di-struzione dei templi – «se ne restano ancora di intatti» – e la cristianiz-zazione dei luoghi di culto pagani (CTh, 16.10.25). Teodosio II se laprende inoltre con le persone: i sacerdoti pagani non devono risiederevicino ai luoghi di culto (CTh, 16.10.20, dell’agosto 415); i pagani sonoesclusi dall’esercito e dall’amministrazione (CTh, 16.10.21, del 416); in-fine, nel 423, gli adepti del paganesimo – «se ne esistono ancora, ben-ché non ce ne debbano più essere» – sono puniti con la confisca e l’esi-lio (CTh, 16.10.22-23).

La casistica è ormai completa e, sotto i successori di Teodosio II, itesti sono più rari: Leone I, nel 463, proibisce ai pagani di presentarsiin giudizio; nel 505 Anastasio li esclude dalle cariche municipali. Toccaa Giustiniano mettere la parola fine a questa legislazione. Una legge del529 affronta la libertà di coscienza, obbligando i pagani a farsi battez-zare sotto la pena della confisca e dell’esilio.

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1.3. Risultat i .

La frequente reiterazione delle stesse leggi mostra che queste ultimenon sono state sempre applicate con rigore. Ma se anche i pagani han-no potuto contare su appoggi o negligenze, la politica antipagana trova-va però diffusori efficaci nello zelo di certi funzionari, dei vescovi, deimonaci, delle popolazioni cristiane.

Non mancano eccessi: per esempio la sommossa nel corso della qua-le viene linciata la filosofa neoplatonica Ipazia. Le distruzioni di tem-pli, a partire da Teodosio, sono ben attestate, come quella del Serapeumdi Alessandria nel 391; per i templi di Gaza vale la narrazione della Vi-ta di Porfirio (BHG, 1570). È inoltre attestato il riutilizzo di luoghi diculto pagani da parte dei cristiani. Certi santuari, tuttavia, hanno potu-to continuare a funzionare per lungo tempo. Il tempio di File, oggettodi convenzioni internazionali, è chiuso e cristianizzato solamente sottoGiustiniano [Nautin 272].

I pagani, il cui spazio si riduce drammaticamente, non saranno maieliminati nella loro totalità. In alcune regioni permangono sacche di pa-ganesimo: per esempio, Giustiniano deve ancora appoggiare una cam-pagna di battesimi condotta in Asia Minore da Giovanni di Efeso; sot-to l’imperatore Maurizio, i pagani di Harran sono oggetto di persecu-zione. Il paganesimo persiste in alcuni settori della società: anche dopola chiusura della Scuola di Atene da parte di Giustiniano [Beaucamp254], i filosofi neoplatonici resteranno legati all’antica religione e alcu-ni processi per paganesimo mettono in causa membri delle classi diri-genti. Infine, le conversioni di massa non sempre hanno operato inprofondità. Ma, tutto sommato, a partire dalla metà del v secolo la nuo-va religione è maggioritaria in tutto l’Impero d’Oriente e i pagani nonricoprono più un ruolo storicamente apprezzabile.

2. L’ebraismo.

L’ebraismo, i cui rapporti col cristianesimo sono stretti e spesso con-flittuali, è un’altra religione importante nell’Impero [Simon 281]. Gliebrei formano un’importante diaspora sia all’esterno dell’Impero – inPersia e nell’Arabia del Sud – sia al suo interno, dove costituiscono unapopolazione prevalentemente urbana. Nella stessa Palestina, dopo Adria-no, sono tenuti a distanza da Gerusalemme e risultano poco presenti inGiudea, ma sono attestate forti comunità nelle città della costa o nel sud

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della Palestina. Il paese ebraico per eccellenza è al nord, con la Galileae il Golan. In questo bastione, il cristianesimo non fa molti progressi. Isamaritani sono concentrati nel loro paese d’origine, intorno al monteGarizim e a Neapolis, ma, nel iv secolo, la loro popolazione, in pienosviluppo, tende a diffondersi.

Prosegue l’evoluzione dei secoli precedenti. Le comunità ebraichetendono a ripiegarsi su se stesse. La sinagoga e i rabbini hanno un po-sto sempre più importante: è l’epoca della redazione del Talmud.

La formazione del Talmud di Gerusalemme si conclude alla fine deliv secolo; poi, quando il centro di gravità si sposta dalle scuole palesti-nesi (Tiberiade, Sepphoris, Cesarea) verso la Mesopotamia, lasciandol’Impero per la Persia, ha luogo la redazione del Talmud di Babilonia,il cui principale iniziatore, Rabbi Ashi, muore nel 430.

Prima di Costantino, l’ebraismo è una religio licita all’interno del-l’Impero. Gli ebrei godono anche di qualche privilegio: i sacerdoti e icapi delle sinagoghe possono essere dispensati dagli oneri curiali; le au-torità ebraiche sono abilitate a regolare le controversie tra i propri cor-religionari. Fino all’inizio del v secolo, le comunità giudaiche sono do-tate di un organismo centrale: il patriarcato.

Inizialmente insediato a Sepphoris, poi a Tiberiade, il patriarca giu-daico, la cui funzione è ereditaria, è riconosciuto dalla legge e gode diimportanti prerogative. Insieme al suo sinedrio, è l’autorità suprema pergli affari religiosi e nomina i «sacerdoti» o i responsabili delle sinago-ghe e delle comunità. I suoi inviati lo informano, trasmettono le sue de-cisioni, raccolgono il tributo speciale che gli è dovuto (aurum corona-rium). Gamaliele, morto senza discendenti tra il 415 e il 429, non saràsostituito. L’aurum coronarium è ormai assegnato alla cassa delle sacraelargitiones. Le comunità ebraiche non hanno più un’autorità centrale nel-l’Impero. Tale mancanza è compensata in una certa misura dal ruolo chein Mesopotamia è ricoperto dall’esilarca.

La situazione, successivamente, si deteriora. I cristiani consideranoil giudaismo come un rivale, con cui intrecciano rapporti complessi: es-so esercita un effettivo fascino, ma provoca anche un antisemitismo chesi può accompagnare a violenze. La legislazione, in evoluzione, cerca diproteggere i cristiani nei loro rapporti con gli ebrei, sopprime i privile-gi di questi ultimi e poi diviene discriminatoria [Linder 279].

Nel 335, una legge di Costantino (CTh, 16.8.5) protegge gli ebreiconvertiti al cristianesimo. Lo stesso Costantino proibisce agli ebrei dicirconcidere i loro schiavi (CTh, 16.9.1). Costanzo II proibisce agli ebreidi comprare schiavi di religione differente dalla loro, una disposizioneche in seguito verrà mitigata. Teodosio proibisce, assimilandolo a un

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adulterio, il matrimonio tra ebrei e cristiani. Altre leggi indebolisconola posizione degli ebrei. La limitazione, da parte di Costantino, delle im-munità dei sacerdoti giudaici cerca forse di proteggere le curie. Ma nel404 Onorio proibisce agli ebrei e ai samaritani di divenire agentes in re-bus e nel 418 li espelle dall’esercito. Per quanto riguarda l’Oriente, unalegge del 438 li esclude da tutte le dignitates e da tutte le militiae. Se lesinagoghe esistenti sono protette dalla legge e possono essere riparate,altre leggi, all’inizio del v secolo, proibiscono di costruirne di nuove.

Sotto Giustino I e Giustiniano la situazione degli ebrei e dei sama-ritani si aggrava: sottoposti alle medesime leggi che riguardano paganied eretici, sono colpiti da gravi interdizioni civili. Le sinagoghe dei sa-maritani sono chiuse da Giustiniano nel 529.

Il medesimo imperatore (su domanda degli ebrei) interviene anchenell’esercizio del culto: impone la lettura della Bibbia in greco (Settan-ta o Aquila) e proibisce lo studio del Talmud.

La Palestina è il teatro di numerose sollevazioni: la prima rivolta giu-daica, alla metà del iv secolo, è repressa dal cesare Gallo; i samaritani siribellano sotto Marciano, poi nel 529; in ultimo, alla fine del regno diGiustiniano, ebrei e samaritani si rivoltano insieme [cfr. cap. xiii]. Laloro ostilità nei confronti dell’Impero non cesserà più; all’inizio del vii

secolo accolgono favorevolmente gli invasori persiani e, più tardi, i mu-sulmani. Eraclio, dal canto suo, dopo la vittoria sulla Persia prende unamisura estrema il cui senso escatologico è stato messo bene in luce daDagron [277]: decreta il battesimo forzato degli ebrei.

3. Manicheismo, gnosi, cristiani dissidenti.

Il cristianesimo è messo a confronto anche con le proprie dissiden-ze. A partire da Costantino, infatti, gli imperatori si sono premurati didefinire chiaramente l’ortodossia e il cristianesimo cattolico che inten-devano favorire. A fianco, tuttavia, di questo cristianesimo ufficiale,esistono numerose correnti divergenti. Tali dissidenze sono di origine enatura differenti. Fin dai suoi inizi, il cristianesimo è multiplo.

Per esempio, il giudeo-cristianesimo, benché in definitiva fallimen-tare, svolge per lungo tempo un ruolo importante. I marcioniti, attesta-ti in parecchie province orientali alla fine del iv secolo e, in ambientesiriaco, fino alla metà del v, si rifanno a Marcione, che insegnava al prin-cipio del ii secolo. I montanisti – una corrente cristiana profetica, natain Frigia – hanno origini quasi altrettanto antiche. Sopravviveranno finsotto il regno di Giustiniano.

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Altre eresie sono, al contrario, moderne e nascono da conflitti recen-ti: l’arianesimo nel iv secolo, le Chiese o sette monofisite a partire dal-la seconda metà del v. Le relazioni con il cristianesimo ortodosso sonoanch’esse differenti. La rottura può essere avvenuta semplicemente suuna questione di disciplina, su un rito o su un punto dottrinale, ma ladistanza dalla Grande Chiesa è talora considerevole. Così, i marcionitirespingono l’Antico Testamento e vedono nel Creatore (il «demiurgo»)un essere malvagio. Esistono, fino al iv secolo, sette gnostiche – è a unadi esse che dobbiamo la biblioteca di Nag Hammadi – che perpetuanoun insegnamento assai eterodosso, per quanto incorpori elementi cristia-ni. Infine, occorre segnalare una religione a pieno titolo: il manichei-smo, che si espande a partire dalla Persia dal tempo del suo fondatoreMani (216-76 circa) [Lieu 282, Tardieu 285]. Queste molteplici corren-ti (una legge di Teodosio II ne nomina ventitre, alle quali Giustinianone aggiunge undici) non hanno tutte la stessa importanza.

Alcuni movimenti – come gli eunomiani – durano poco, oppure so-no limitati a qualche provincia dell’Impero: così i novaziani [Vogt 286],che, nel v secolo, sono attestati solo nel nord-ovest dell’Asia Minore;i montanisti, ridotti, nel v e nel vi secolo, alla loro originaria Frigia [cfr.cap. xii; Strobel 283]; o, ancora, i meleziani, che, senza uscire dall’E-gitto, sopravvivono fino al ix secolo. Altri, al contrario, conoscono unadiffusione considerevole: è il caso del manicheismo. L’arianesimo, an-cora attestato nell’Impero durante il vi secolo, deve la propria impor-tanza al fatto di essere stato adottato dai Goti. I monofisiti – le cuiChiese esistono ancora oggi – saranno maggioritari in Egitto e ben at-testati in Siria.

Gli imperatori cristiani, preoccupati dell’unità della Chiesa, cercanodi sopprimere queste dissidenze. Le misure variano secondo le epochee la natura dei dissidenti, ma la tendenza è verso un’accentuazione del-la repressione, che culmina con Giustiniano.

Le leggi contro gli eretici fanno la loro comparsa a partire da Costan-tino. Poco dopo Nicea, Costantino promulga contro di loro un editto dipersecuzione: le loro riunioni sono proibite; chiese e altri edifici di cul-to sono confiscati, con disposizioni frequentemente reiterate da ulterio-ri leggi. Si prende di mira il clero dei movimenti settari (CTh, 16.5.21,del 392). Nel 415, il clero montanista è minacciato di deportazione (CTh,16.5.57). Gli adepti di eresie particolarmente aborrite possono essereprivati della capacità di ereditare o di trasmettere i loro beni: è il casodei manichei, a partire da una legge del 381 (CTh, 16.5.7), o degli eu-nomiani, che sono stati oggetto di una politica assai fluttuante.

D’altra parte, gli eretici possono essere esclusi dalla funzione pub-

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blica o da certe sedi: una legge di Teodosio andava in questo senso e Ar-cadio vi fa riferimento quando fa espellere gli eretici impiegati a Palaz-zo (CTh, 16.5.29). I settari più aborriti sono esclusi da incarichi civili omilitari: così i manichei, i montanisti, gli eunomiani e, dopo il conciliodi Calcedonia, i monofisiti (CI, 1.5.8.6, del 455). L’imperatore Leoneesclude dal foro chiunque non sia un cristiano ortodosso (CI, 1.4.15 =2.6.8, del 468). Infine, in certi casi, si arriva fino alla pena di morte:Diocleziano l’aveva decretata contro i manichei (Coll., 15.3.6); Teodo-sio ne minaccia gli adepti di tre sette (CTh, 16.5.9.1, del 382); Anasta-sio, seguito da Giustiniano, la utilizza contro i manichei (CI, 1.5.11, del510; CI, 1.5.12.3, del 527).

L’insieme di questa legislazione è ripreso e inasprito da Giustiniano,il quale, assimilando ebrei, pagani ed eretici, li esclude tutti dalla fun-zione pubblica e li sottopone a interdizioni civili. Sappiamo dallo stori-co Procopio (Storia segreta) che lo stesso imperatore ha perseguitato nonsoltanto ebrei e samaritani, spinti alla rivolta, ma anche, violentemen-te, i manichei, gli ariani e i montanisti.

ii. la definizione dell’ortodossia.

Le esigenze del potere imperiale, che pretende di sapere chi è cristia-no e qual è l’ortodossia, gli scambi tra le Chiese, la simbiosi con la cul-tura e la filosofia greca e i confronti tra le diverse sette contribuisconoall’intensità dell’elaborazione dottrinale. La gran parte del iv secolo èoccupata dalla crisi ariana, che si conclude con la redazione del simbo-lo di Nicea-Costantinopoli (381), ancora in vigore nelle principali Chie-se cristiane. Il v secolo è quello delle dispute cristologiche, e il conciliodi Calcedonia, che riconosce due nature unite nel Cristo, apre un perio-do di divisioni che non è ancora concluso.

1. La crisi ariana.

Nel 324 Costantino, padrone dell’Impero, scopre che l’Oriente è di-viso riguardo all’insegnamento di un prete di Alessandria: Ario. L’im-peratore sottopone la questione al concilio che convoca a Nicea. Comin-cia una crisi [Simonetti 299] che occupa tutto il iv secolo e condurrà al-la definizione dell’ortodossia sotto Teodosio.

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1.1. Le quest ioni teologiche: la divinità del Fig l io.

Si tratta di assegnare un posto a Gesù, il Cristo, Figlio di Dio, nellareligione monoteista che è il cristianesimo [Grillmeier 301]. La questio-ne, già dibattuta precedentemente a partire dalle Scritture e dalla tra-dizione, non era affatto decisa. I due scogli che i vescovi, nel iv secolo,cercheranno di evitare sono il sabellianismo e l’arianesimo.

Per il sabellianismo (così chiamato da Sabellio, nel iii secolo) – benrappresentato in Oriente – le tre persone della Trinità (Padre, Figlio,Spirito Santo) sono soltanto modalità di un’unica divinità. Per l’ariane-simo, il Figlio non è Dio: è una creatura dallo status eccezionale. Pursenza stabilire tra Padre e Figlio una differenza di natura così radicale,molti sono tentati dal «subordinazionismo»: il Figlio partecipa della di-vinità del Padre, ma gli è subordinato.

Di fronte al pericolo ariano, il concilio di Nicea nel 325 reagisce di-chiarando il Figlio «della medesima essenza (o natura)» (homoousios) ri-spetto al Padre. Così facendo, introduce un termine nuovo, non scrit-turale, che alcuni sospettano di sabellianismo. Le posizioni degli antini-ceni saranno discordanti.

Alcuni «ariani» estremi (gli anomei) peroreranno una differenza ra-dicale tra Padre e Figlio, dichiarato «dissimile» (anomoios) dal Padre.Altri, gli omei, ammettono che il Figlio è «simile» (homoios) al Padre.Per altri infine, vicini alla definizione di Nicea, il Figlio ha una naturasimile a quella del Padre: sono gli omeusiani (homoiousios = di natura oessenza simile). Verso la fine, è evocata la questione dello Spirito San-to: è Dio, come il Padre e il Figlio, oppure, come sostengono gli pneu-matomachi («che combattono lo Spirito»), chiamati anche eunomiani(dal teologo Eunomio) o macedoniani (dal nome di un vescovo di Co-stantinopoli), è una creatura?

I grandi teologi della fine del iv secolo riprenderanno le formule diNicea, liberandole da ogni sabellianismo, e porranno le definizioni clas-siche: un solo Dio, con una sola natura o essenza (ousia), ma tre perso-ne (prosopa) o ipostasi distinte: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.

1.2. Le l inee di forza.

La crisi ariana mostra quali forze attraversano la Chiesa. Il peso del-la teologia non dev’essere trascurato. I dati tradizionali non sono modi-ficabili a piacimento di chiunque e le posizioni estreme non arrivano aimporsi. I vescovi sono attaccati alla tradizione di cui sono depositari e

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alcuni accettano di essere esiliati per la loro fede. La competenza teolo-gica è una carta vincente e l’adesione alle formule nicene da parte di spi-riti così straordinari come quelli dei dottori cappadoci, Basilio di Cesa-rea, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa, è un elemento decisivo.

Il ruolo dell’imperatore è un altro fattore considerevole. Ciascun so-vrano lavora per l’unità della Chiesa e cerca di trovare un punto di ac-cordo; ma molti di loro hanno convinzioni personali determinanti.

L’atteggiamento di Costantino, il quale accetta che vengano rimes-se in causa le decisioni di Nicea, gioca un ruolo fondamentale nella na-scita della crisi. La politica antinicena di Costanzo II, assai propenso aintervenire, conduce alla definizione dell’arianesimo storico e sembraquasi avere successo; ripresa da Valente, essa mostra la sua debolezza.Teodosio, parimenti interventista, riesce a chiudere la crisi: i tempi so-no maturi, e l’imperatore può appoggiare un partito già vincitore.

I concili, assai attivi nel iv secolo, svolgono ugualmente un ruolo im-portante. Alcuni semplici sinodi locali, come quello di Ancira nel 358,intervengono nel dibattito teologico. Concili più importanti sono riuni-ti su iniziativa degli imperatori e possono prendere decisioni contrariea quelle di altri concili generali. Tuttavia, non riescono ad assumere lafunzione di autorità centrale che organizza la vita della Chiesa. Nel cor-so del periodo, si afferma l’autorità specifica del concilio di Nicea. Il ri-conoscimento finale delle sue decisioni in materia di fede contribuirà afarne il modello di concilio «ecumenico» nel senso teologico del termi-ne, ossia un concilio le cui definizioni sono riconosciute dalla Chiesa in-tera come ispirate.

A fianco degli imperatori e dei concili, occorre tener conto, nellosvolgimento della crisi, dell’influenza delle grandi sedi patriarcali: Ro-ma, Costantinopoli, Antiochia, Alessandria.

Roma occupa già un posto importante. Inizialmente estranei a un di-battito di cui non comprendono i punti nodali, detentori di una teolo-gia che li rende poco sensibili al pericolo sabelliano e di un vocabolarioche copre imperfettamente la terminologia greca, i vescovi di Roma svi-luppano inoltre una concezione della Chiesa differente da quella dei lo-ro colleghi orientali. Per tutto il corso della crisi, Roma difende Niceae, come Damaso, i «vetero-niceni», sostenitori delle definizioni di Ni-cea nel loro senso iniziale. I papi Liberio e Damaso faranno della comu-nione con Atanasio di Alessandria il criterio dell’ortodossia. Roma, diconseguenza, tarda a riconoscere la fecondità della teologia neo-nicena.Ciò nonostante, siccome resta fedele a Nicea, che finisce per trionfare,il suo prestigio è accresciuto dalla crisi.

Costantinopoli, malgrado il proprio peso politico, è ben lontana dal-

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l’avere la medesima importanza. I suoi vescovi, scelti dagli imperatori,sono avversari di Nicea, ed è in questo campo che alcuni di essi hannopotuto distinguersi.

Antiochia, sede apostolica e capitale amministrativa dell’Oriente, go-de di un’influenza considerevole nelle diocesi d’Oriente e d’Asia. I suoivescovi sono spesso scelti dagli imperatori, frequentemente presenti incittà. All’inizio del iv secolo, uno scisma, che oppone al principio nice-ni e ariani, si complica quando Melezio, insediato dall’imperatore Co-stanzo, si rivela essere un partigiano di Nicea. D’ora innanzi i cristianidi Antiochia sono divisi in tre fazioni: gli ariani, intorno ai vescovi no-minati dagli imperatori in sostituzione di Melezio; i meleziani, sosteni-tori di Nicea; i partigiani di Paolino, anch’essi niceni. Questa situazio-ne complicata è aggravata dagli interventi di Roma e di Atanasio.

Alessandria occupa una posizione particolare. Gli imperatori antini-ceni cercano di imporvi i propri candidati, ma la Chiesa d’Egitto restaschierata a fianco di colui che riconosce come proprio legittimo capo:Atanasio (vescovo di Alessandria, 328-73). Fino alla sua morte, malgra-do i numerosi esili, resta fedele al concilio di Nicea. L’alleanza tra Ro-ma e Alessandria contribuisce alla vittoria della fazione nicena e il de-creto di Teodosio (380) dà come criterio dell’ortodossia la comunionecon i vescovi di Roma e di Alessandria [cfr. infra, p. 68].

1.3. Lo svolgimento del la cr is i .

La condanna dell’arianesimo al concilio di Nicea non riesce a impor-si. La crisi dura sessant’anni: una prima fase, che in Oriente arriva finoalla morte di Costanzo nel novembre 360, sembra suggellare la sconfit-ta dei niceni e la vittoria di una forma dell’arianesimo, l’omeismo [Bren-necke 293]; la seconda fase, fino all’inizio del regno di Teodosio (379)e al concilio di Costantinopoli (382), vede al contrario un ritorno alleformule di Nicea, per quanto reinterpretate.

Gli inizi: Ario, Nicea. Ario, prete di Alessandria, sviluppa poco pri-ma del 320 un insegnamento che fa scandalo: il Figlio, se è generato dalPadre, non lo è da sempre («ci fu un tempo in cui non c’era»); è difattiuna creatura; distinto ontologicamente dal Padre, non è Dio. Condanna-to dal proprio vescovo, Ario trova appoggi al di fuori dell’Egitto: in par-ticolare il vescovo di Nicomedia Eusebio, così come Eusebio di Cesarea.Un concilio riunito ad Alessandria (nel 319?) scomunica Ario e i suoi so-stenitori; al contrario, nel 322, due concili regionali confermano l’orto-dossia di Ario. Costantino, nel 324, invia Osio di Cordova in Egitto per

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informarsi. Osio riunisce all’inizio del 325 ad Antiochia un concilio chesancisce la condanna degli arianizzanti. Il concilio ecumenico di Nicea(20 maggio - fine luglio del 325) risolve la questione ariana nel medesi-mo senso. Viene emanato un «simbolo» della fede: il Figlio vi è dichia-rato «della medesima sostanza» (homoousios) del Padre. Ario è condan-nato ed esiliato poco dopo, poi tocca allo stesso Eusebio di Nicomedia,nonché al vescovo di Nicea, Teognide. La questione sembra conclusa. Adire il vero, se anche in Oriente non vi sono molti partigiani di Ario, ledefinizioni di Nicea suscitano riserve. Qualcosa si muove, e l’atteggia-mento di Costantino muta. Vengono deposti alcuni vescovi niceni. Ata-nasio d’Alessandria, condannato nel sinodo di Tiro (335), è esiliato.

Costanzo e l’omeismo. Alla morte di Costantino, nel 337, la situa-zione ha subito una netta evoluzione a sfavore dei niceni. Costanzo II,all’inizio del suo regno, richiama tutti i vescovi esiliati e accresce la con-fusione. Atanasio non può tuttavia reinsediarsi ad Alessandria. Rifugia-to a Roma, è raggiunto da Marcello di Ancira e sollecita l’intervento dipapa Giulio, che gli accorda la propria protezione e ammette Marcellonella sua comunione. Un concilio romano, all’inizio del 341, rimette indiscussione la validità della deposizione di Atanasio, di Marcello e di al-tri vescovi. Questa decisione romana suscita la reazione degli Orienta-li, che vi vedono un’ingerenza. Il concilio di 90 vescovi riunito ad An-tiochia nel 341, detto della «Dedicazione» – vi si procedette alla dedi-cazione (enkainia) della cattedrale di Antiochia –, riafferma di fronte aRoma le posizioni delle Chiese d’Oriente e redige quattro formule di fe-de che, pur condannando Ario, evitano le formule di Nicea1. L’impera-tore Costante non accetta le decisioni di Antiochia e convoca un conci-lio generale a Serdica, ma gli 80 vescovi orientali rifiutano di sedere coni 98 occidentali, che hanno con sé i vescovi condannati, sospettati dagliOrientali di sabellianismo. Gli Occidentali – che accusano gli Orienta-li di arianesimo – prima di separarsi promulgano certi canoni che giusti-ficano in particolare l’intervento di Roma. La situazione si evolve quan-do Costanzo diviene l’unico imperatore [cfr. cap. i].

Le posizioni teologiche antinicene del nuovo sovrano sono chiare dal351, quando riunisce a Sirmio un concilio che condanna sabelliani e aria-ni estremisti, ma, evitando le formule di Nicea, riprende la quarta for-mula della Dedicazione e adotta una posizione subordinazionista. Do-po il 353, Costanzo sfrutta al massimo la propria autorità: in occasionedi una serie di concili (Arles 353, Milano 355, Béziers 357), una parteimportante dell’episcopato occidentale aderisce alla politica imperiale.Gli arianizzanti, incoraggiati, cercano di accrescere il proprio vantag-

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gio: un concilio riunito a Sirmio nel 357 afferma l’inferiorità del Figlioin rapporto al Padre. Nella Pasqua del 358, tuttavia, dodici vescovi riu-niti ad Ancira intorno al vescovo della città, Basilio, respingono la for-mula di Sirmio e dichiarano il Figlio dotato di un’essenza simile (ho-moiousios) a quella del Padre. Costanzo sembra aver tentato di avvici-nare i punti di vista dei partigiani della formula di Sirmio e di quella diAncira. Fa deporre degli ariani estremisti (gli anomei). Nella primaveradel 359 fa redigere il «credo datato» che definisce l’omeismo2.

Questa formula è presentata a due concili riuniti nel 359, l’uno a Sir-mio con 400 vescovi occidentali, l’altro a Seleucia d’Isauria con più di150 vescovi orientali. In entrambi i casi, la maggioranza è ostile all’o-meismo; ma manovre e pressioni riescono a farle cambiare opinione. Co-stanzo riunisce a Costantinopoli, ancora nel 360, un concilio che, accet-tando la formula di Rimini-Seleucia, probisce di utilizzare i termini diousia e di ipostasi, abroga le antiche formule di fede e proibisce di pro-porne di nuove. L’imperatore prende in seguito varie misure contro ve-scovi anomei e omeusiani; sembra aver ristabilito l’unità della Chiesaintorno alle formule omeiste, definendo «l’arianesimo storico» che siespande al di fuori dell’Impero: Ulfila, l’evangelizzatore dei Goti, eraun partecipante al concilio di Costantinopoli. Tuttavia, la morte di Co-stanzo nel novembre 360 rompe l’equilibrio così ottenuto.

Riaffermazione di Nicea. Il regno di Giuliano, che richiama dall’esi-lio i vescovi deposti da Costanzo, e quello di Gioviano interrompono ineffetti l’azione in favore degli omeisti. Emergono altre forze che lavo-rano in favore delle formule nicene.

Nella primavera del 362 un concilio riunito ad Alessandria da Ata-nasio, tornato dall’esilio, riafferma le posizioni nicene ma dà prova diuna nuova comprensione dei problemi. Ad Antiochia, nel 363, un con-cilio riunito da Melezio resta fondamentalmente omeusiano, ma aderi-sce a Nicea. Nel 364, un concilio riunito a Lampsaco respinge le formu-le omeiste e torna al simbolo della Dedicazione. L’omeismo sta dunqueperdendo colpi. Parallelamente, i dottori cappadoci sviluppano una nuo-va teologia, che reinterpreta le formule nicene.

Due fattori ritarderanno tuttavia la soluzione della crisi. La prima èla posizione di Roma, che tarda a riconoscere il valore della teologia neo-nicena; il secondo è l’azione di Valente a favore dell’omeismo.

Nel 365, una deputazione di vescovi omeusiani si reca a Roma do-ve, su richiesta di Liberio, gettano l’anatema sulla formula di Rimini eaderiscono a Nicea. Ma al loro ritorno l’accordo concluso a Roma nonè approvato da tutti i loro partigiani. Parallelamente, nel 366, è eletto

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un nuovo papa, Damaso, dalle posizioni intransigenti. In Oriente, il par-tito omeusiano, rafforzato dall’elezione di Basilio il Grande (370-78) al-la sede di Cesarea di Cappadocia, cerca di riannodare senza successo icontatti con Roma. Infine, nel 377, il papa indirizza agli Orientali il«Tomo di Damaso», che mostra una migliore comprensione dei proble-mi teologici; rifiuta sempre, tuttavia, di riconoscere il vescovo di Antio-chia, Melezio.

D’altro canto, mentre Valentiniano, in un Occidente niceno, adot-ta una neutralità che sarà seguita anche da Graziano a partire dal 373,Valente, in Oriente, riprende la politica omeista di Costanzo. Nel 364punisce i vescovi del concilio di Lampsaco e, nel 365, emette un editto– applicato in maniera non sistematica – che rimanda in esilio i vescovicondannati da Costanzo e richiamati da Giuliano. Valente, tornato dal-la guerra gotica nel 369, si dedica agli affari religiosi ed esilia parecchivescovi, ma alla sua partenza nel 377, di nuovo in guerra contro i Goti,revoca tutte le sentenze d’esilio.

La morte di Valente e l’avvento di Teodosio segnano un capovolgi-mento della situazione. Risolutamente pro-niceno, Teodosio non tardaa prendere misure in favore del concilio. Il 28 febbraio 380 promulgaun editto (CTh, 16.1.2) che definisce l’ortodossia. Ognuno deve aderi-re alla fede dei vescovi di Roma e Alessandria. A Costantinopoli, alla fi-ne del 380, Teodosio espelle il vescovo omeista Demofilo a vantaggio diGregorio di Nazianzo, che era il responsabile della piccola comunità ni-cena della città. Riunisce a Costantinopoli, dal maggio al luglio del 381,un concilio – in seguito riconosciuto come il secondo «concilio ecume-nico» – che segna il trionfo delle formule di Nicea.

Il concilio, inaugurato dall’imperatore, riunisce inizialmente circa150 vescovi dell’Asia e del Ponto, cui si aggiungeranno Timoteo di Ales-sandria con alcuni vescovi egiziani e Acolio di Tessalonica in rappresen-tanza di papa Damaso. Il concilio riconosce come vescovo di Costanti-nopoli Gregorio di Nazianzo, che, dopo la morte di Melezio di Antio-chia, presiede l’assemblea. Ma, avendo gli Egiziani contestato la sualegittimità, Gregorio si dimette.

I padri del concilio ricordano il proprio attaccamento a Nicea e pro-clamano la consustanzialità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo,che sono «una sola divinità, potenza e sostanza» in tre ipostasi. Con-dannano gli ariani, gli pneumatomachi e diversi eretici, tra cui i sabel-liani. Il simbolo di Costantinopoli riprende quello di Nicea, completan-dolo tuttavia su alcuni punti. Su domanda dei vescovi, Teodosio, trami-te un editto del 30 luglio 381 (CTh, 16.1.3), conferma le decisioni delconcilio; gli eretici devono cedere le proprie chiese agli ortodossi.

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La crisi ariana non si conclude senza strascichi. Roma e Alessandria,lentamente, si separano dai successori di Paolino, ma lo scisma di An-tiochia si prolunga fino al v secolo inoltrato. L’arianesimo, trasmesso daUlfila ai Goti, svolge un ruolo importante in Occidente fino al vii seco-lo. In Oriente, comunità ariane sono segnalate nell’Impero ancora nelvi secolo, ma si tratta di entità trascurabili.

2. Le lotte cristologiche: Efeso e Calcedonia (431-51).

Malgrado alcune crisi, talora gravi – come quella che si conclude conl’esilio di Giovanni Crisostomo –, il mezzo secolo che va dal concilio diCostantinopoli a quello di Efeso mostra una relativa calma. Tuttavia,alla fine degli anni ’20 del v secolo, il conflitto tra Nestorio di Costan-tinopoli e Cirillo di Alessandria inaugura il periodo delle lotte cristolo-giche, di cui i due concili «ecumenici» di Efeso nel 431 e di Calcedonianel 451 [Camelot 300] rappresentano punti salienti, e che proseguiran-no fino a oltre l’arrivo degli Arabi.

2.1. I l Cristo, uomo e Dio.

Nel v secolo la questione è di sapere come, in Gesù Cristo, ciò cheè umano coesiste con ciò che è divino [Grillmeier 301]. Le posizioni sisitueranno tra due estremi. Da una parte, l’affermazione dell’unità delCristo può portare a considerare l’unione del divino e dell’umano comeuna sorta di mescolanza, con il rischio di una sparizione dell’umano: èl’eutichianismo, dal nome di Eutiche, cui si attribuisce questa dottrina.Dalla parte opposta, la volontà di distinguere nettamente, nel Cristo, ilVerbo divino e l’uomo Gesù mette in causa l’unità del Cristo, che ap-pariva così come il prodotto di un’unione morale e non più reale: duali-smo estremo denominato nestorianesimo, dal nome del vescovo di Co-stantinopoli, Nestorio.

Tra questi due estremi, la scuola antiochena insiste per parte sua sul-la dualità delle «nature» (physeis) del Cristo, umana e divina, e cerca l’u-nità del Cristo nella persona o ipostasi (persona reale). Riceve l’appog-gio di papa Leone Magno. Questa posizione «diofisita» («due nature»del Cristo dopo l’Incarnazione), mantenuta a Calcedonia, diverrà quel-la dell’ortodossia cristiana. Sarà tacciata di nestorianesimo dai suoi av-versari. Gli alessandrini, per parte loro, sottolineano l’unità reale delCristo. Questa tendenza sfocerà in una cristologia dell’unica natura delVerbo incarnato, in seguito denominata «monofisismo».

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La questione teologica, ben netta al principio, tende a sfumarsi. Conl’evoluzione della cristologia, i calcedoniani diofisiti e gli anticalcedo-niani monofisiti avvicinano le proprie posizioni. Nel vi secolo, tra unneocalcedoniano [Moeller in 301] e un monofisita come Severo di An-tiochia [Lebon 311; Chesnut 304], l’opposizione pare risiedere soprat-tutto nei termini: Severo chiama natura ciò che i calcedoniani chiama-no ipostasi. Il dibattito, in effetti, assume una dimensione confessiona-le, giacché le diverse comunità si cristallizzano sulle proprie posizioni.

2.2. Le forze r iva l i .

Come per la crisi ariana, non bisogna sottovalutare il peso della teo-logia. Ma, ancor più che nel iv secolo, l’azione imperiale e i conflitti trale grandi sedi patriarcali svolgono un ruolo determinante, mentre i mo-naci, e anche l’opinione pubblica, fanno sentire la loro voce.

Sotto Teodosio II, l’intervento imperiale è evidente: è l’imperatorea scegliere Nestorio per Costantinopoli e a convocare il concilio di Efe-so. Negli anni ’40 del v secolo, influenzato da una diversa cerchia in cuil’eunuco Crisafio occupa un posto eminente, Teodosio cambia posizio-ne, sfrutta tutta la propria autorità per far annullare la condanna di Eu-tiche e convoca un nuovo concilio a Efeso, sotto la direzione del vesco-vo di Alessandria, Dioscoro. La morte accidentale dell’imperatore nel450 e il ritorno al potere di sua sorella Pulcheria segnano un brusco cam-bio di rotta, in cui il concilio convocato a Calcedonia prende decisionicontrarie a quelle del secondo concilio di Efeso.

L’analisi dei rapporti tra le grandi sedi patriarcali permette di com-prendere certi meccanismi della crisi.

Il concilio del 381 aveva riconosciuto alla sede di Costantinopoli ilsecondo posto dopo Roma. Si trattava di uno smacco evidente per Ales-sandria. La nomina di un antiocheno, Giovanni «Crisostomo», alla se-de di Costantinopoli aveva rappresentato per Teofilo d’Alessandria unadoppia minaccia: da una parte, Giovanni era l’attivo promotore della se-de di Costantinopoli; dall’altra, un’alleanza tra Costantinopoli e Antio-chia poteva marginalizzare Alessandria. Le circostanze avevano permes-so a Teofilo di trionfare su Giovanni e di farlo esiliare. Quando Teodo-sio II nomina Nestorio vescovo di Costantinopoli, la storia sembraripetersi: un antiocheno stabilito a Costantinopoli gode dell’appoggiodel vescovo di Antiochia, Giovanni. Cirillo, nipote di Teofilo, otterràa sua volta la deposizione e l’esilio del vescovo di Costantinopoli. L’im-portanza ottenuta da Alessandria in Oriente non si smentisce con Dio-scoro, che, dirigendo il concilio di Efeso II, ottiene la deposizione del

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vescovo Flaviano di Costantinopoli, quella di Donno d’Antiochia, e pergiunta la nomina a vescovo di Costantinopoli di uno dei suoi sodali, Ana-tolio.

Al cospetto di Alessandria, ricca, unita, con una tradizione teologi-ca coerente, le sedi di Antiochia e Costantinopoli paiono più fragili. An-tiochia, forte della propria tradizione teologica, manca tuttavia di unità.Le forze centrifughe sono considerevoli: nel concilio di Efeso I, la Chie-sa di Cipro afferma la propria indipendenza, mentre Giovenale di Ge-rusalemme si ritaglia un patriarcato a spese di Antiochia. Non c’è da stu-pirsi di vedere la Chiesa di Gerusalemme a fianco di Alessandria, nelperiodo precedente Calcedonia. Quanto a Costantinopoli, è una parve-nue. La sua posizione, affermata dal concilio del 381, si consolida allafine del iv e all’inizio del v secolo. Senza una propria tradizione teolo-gica, la sua forza le deriva dallo status politico e la condanna di alcunidei suoi vescovi non ne ritarda eccessivamente l’avanzata. Il concilio diCalcedonia la farà ulteriormente progredire e i patriarchi della capitaleresteranno attaccati alle sue decisioni.

Roma, infine, occupa un posto a parte e gode di un prestigio parti-colare. Male informata dei dibattiti teologici, sembra, in un primo tem-po, poco capace di parteciparvi. All’inizio della crisi, papa Celestino ba-sa la propria politica su un’alleanza con Alessandria che, nel iv secolo,aveva dato i suoi risultati: Cirillo saprà trarne profitto. Ma, con LeoneMagno, la configurazione cambia. Il papa, nel conflitto tra Eutiche eFlaviano di Costantinopoli, prende risolutamente posizione a favore diquest’ultimo, cui indirizza il «Tomo a Flaviano», che definisce la posi-zione romana e costituirà un punto di riferimento non solo per Roma epoi per una parte dell’Occidente, ma anche per i padri di Calcedonia.Dioscoro sembra essersi curato poco dell’alleanza romana. Poco primadi Calcedonia, scomunica il papa. Roma otterrà presto la rivincita e, do-po la morte di Teodosio, saprà farsi intendere da Pulcheria, Marciano,e Anatolio di Costantinopoli: a Calcedonia, i legati pontifici fanno con-dannare Dioscoro. Il successo finale di Roma nelle crisi del iv secolo ein quelle del v contribuirà ad accrescere in Oriente, nelle Chiese calce-doniane, l’autorità della sede apostolica e l’importanza attribuita alla co-munione con essa.

Le dispute cristologiche non costituiscono solamente dibattiti tramembri del clero: riecheggiano anche tra le popolazioni dell’Impero, del-le cui reazioni occorre tener conto, per esempio in Egitto e Palestina al-l’indomani di Calcedonia. Per gli imperatori, l’unità della Chiesa non èdunque soltanto un’esigenza religiosa, ma anche una condizione dellapace civile.

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2.3. Nestorio, il concilio di Efeso (431) e l’unione del 433.

La fase acuta delle dispute cristologiche comincia quando TeodosioII, nel 427, sceglie come vescovo di Costantinopoli un prete di Antio-chia: Nestorio. Costui [Loofs 303] sconcerta una parte dei suoi ascolta-tori distinguendo, nel Cristo, il Dio Verbo dall’uomo Gesù e lasciandoper giunta intendere che Maria non può essere chiamata Theotokos3 mapiuttosto Christotokos («Madre del Cristo»). Messone al corrente, Ciril-lo di Alessandria invia a Nestorio due lettere in cui difende il titolo tra-dizionale di Theotokos. I due vescovi informano papa Celestino, che riu-nisce un concilio romano (430) e condanna Nestorio. A nome del papa,Cirillo ordina a Nestorio di sottomettersi e gli propone dodici anatema-tismi che saranno tra i testi più controversi di questo periodo. Tuttavia,prima che gli giungano le condanne di Celestino e Cirillo, Nestorio ot-tiene dall’imperatore la convocazione di un concilio [Coué in 246, II].

Il concilio di Efeso, terzo «concilio ecumenico», riunito nel giugno-luglio del 431, si svolge in un’atmosfera conflittuale.

Due fazioni si oppongono: i partigiani di Cirillo da un lato (più di150 vescovi egiziani, palestinesi – con Giovenale di Gerusalemme –,asiatici – con Memnone di Efeso –, illirici), appoggiati dai legati ponti-fici, una volta che saranno arrivati; i suoi avversari dall’altro, raggrup-pati intorno al vescovo di Antiochia, con una cinquantina di vescovi,essenzialmente della diocesi d’Oriente. I cirilliani, riuniti in disparte,depongono Nestorio nella prima seduta (22 giugno), poi, il 16 e 17 lu-glio, Giovanni d’Antiochia e una trentina di vescovi orientali. Il 22 lu-glio proibiscono che si «proponga, scriva o componga» una definizionedi fede differente dal simbolo di Nicea; le ultime sedute sono consacra-te all’indipendenza della Chiesa di Cipro e alla votazione di sei canoni.Frattanto, gli Orientali, capeggiati da Giovanni d’Antiochia, proclama-no (26 giugno) la deposizione di Cirillo di Alessandria, di Memnone diEfeso e dei vescovi che non condannano gli anatematismi cirilliani. Icommissari imperiali sono stati soverchiati. L’imperatore, di fronte aquesta confusione, interviene. Incita i vescovi a riprendere il dialogo,sforzandosi di ristabilire la pace della Chiesa.

I risultati durevoli del concilio – nei fatti, dell’assemblea dei cirillia-ni – sono, a livello dottrinale, la condanna del nestorianesimo e, a mi-nor titolo, il riconoscimento della cristologia di Cirillo. Nestorio è con-dannato, con l’accordo dei legati pontifici, deposto e poi esiliato. NellaChiesa, si crea uno scisma tra Antiochia e Alessandria. Nel 433 tutta-via, in seguito alle pressioni dell’imperatore, Giovanni d’Antiochia in-

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dirizza a Cirillo una lettera in cui propone una cristologia chiaramentediofisita, ma non esige la condanna dei dodici anatematismi. Cirillo, ras-sicurato che non si tornerà sulla condanna di Nestorio, risponde a Gio-vanni con una lettera in cui celebra l’unione ristabilita e accetta le for-mule cristologiche che gli si propongono, benché lontane dalle sue.

2.4. I l «brigantaggio» di Efeso (449).

Malgrado le opposizioni, la pace ristabilita nel 433 dura fino alla mor-te dei due protagonisti, Giovanni nel 442 e Cirillo nel 444.

La crisi riesplode poco dopo a Costantinopoli, a proposito dell’archi-mandrita Eutiche, un partigiano estremista di Cirillo, influente a Cor-te. Eutiche è accusato di eresia e condannato dal sinodo riunito dal ve-scovo di Costantinopoli (12-22 ottobre 444), poiché rifiuta la formuladi fede diofisita che gli viene sottoposta. Eutiche fa allora appello ai ve-scovi di Roma, Alessandria, Tessalonica e Ravenna. Papa Leone appro-va la condanna e indirizza al proprio collega di Costantinopoli una let-tera, il «Tomo a Flaviano», nettamente diofisita. Dioscoro d’Alessan-dria, tuttavia, si schiera dalla parte di Eutiche; ciò che più conta,l’imperatore Teodosio biasima Flaviano per aver condannato l’archi-mandrita e convoca un concilio. Il secondo concilio di Efeso, riunito nel-l’agosto 449 sotto la presidenza di Dioscoro, riabilita Eutiche, deponeFlaviano di Costantinopoli ed Eusebio di Dorileo, nonché una serie divescovi orientali, tra cui Donno d’Antiochia.

Gli editti che convocano il concilio sono favorevoli agli eutichiani:la presidenza è affidata a Dioscoro, mentre Flaviano di Costantinopoliè escluso dai dibattiti, al pari dell’antiocheno Teodoreto di Cirro, il mi-glior teologo dello schieramento. In occasione della prima seduta (8 ago-sto 449), Dioscoro, assistito da Giovenale di Gerusalemme, impedisceai legati pontifici di far leggere il «Tomo a Flaviano». La maggioranzadei vescovi sottoscrive la riabilitazione di Eutiche. La deposizione diFlaviano – che muore sulla via dell’esilio – è ottenuta più difficilmente.Donno d’Antiochia è deposto in occasione della seconda seduta (22 ago-sto 449) insieme a molti dei suoi vescovi, in assenza dei legati.

2.5. I l conci l io di Calcedonia (451).

Queste decisioni, confermate da un editto di Teodosio II, sono con-dannate dal papa, che riunisce un sinodo romano nel settembre 449 edesecra quello che chiama il «brigantaggio» (latrocinium) di Efeso, recla-mando senza successo la convocazione di un nuovo concilio. La morte

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imprevista di Teodosio II rovescia la situazione. Sua sorella Pulcheria,tornando al potere, mette a morte Crisafio, protettore di Eutiche. Spo-sa Marciano (imperatore il 25 agosto 450), che, come lei, è ostile a Eu-tiche e Dioscoro. Il rapporto di forze è cambiato. Il vescovo di Costan-tinopoli, Anatolio, riunisce un sinodo il 21 ottobre 450, che, in presen-za dei legati di papa Leone, anatematizza Nestorio ed Eutiche e accettail «Tomo a Flaviano». Senza frapporre indugi, Marciano e Pulcheria de-cidono di riunire un nuovo concilio. Il 23 maggio 451 Marciano convo-ca i vescovi per il 1º settembre a Nicea. In settembre, numerosi parte-cipanti arrivano in questa città: è allora, senza dubbio, che Dioscoro lan-cia l’anatema su papa Leone. Per poter assistere al concilio, Marcianosceglie di trasferirlo a Calcedonia, di fronte a Costantinopoli.

Il concilio [Grillmeier 301] si riunisce l’8 ottobre 451 a Sant’Eufe-mia. Comprenderà in media 350 vescovi, quasi tutti orientali. Dician-nove commissari imperiali vegliano sulla regolarità dei dibattiti. L’im-peratore in persona assiste alla quinta seduta (22 ottobre). Riunito in ot-tobre e novembre, il concilio annulla l’opera di Efeso II (449), promulgauna definizione di fede diofisita e prende alcune decisioni importantiper la vita della Chiesa.

Nella prima seduta sono chiamati in causa i sobillatori di Efeso II:Dioscoro di Alessandria è condannato ed esiliato; Giovenale di Gerusa-lemme, inizialmente escluso, cambia partito ed è riaccolto. I vescovi so-no obbligati dai commissari imperiali a proporre una nuova definizionedi fede. Molti sono i testi di riferimento, in particolare il «Tomo a Fla-viano» di papa Leone, che suscita riserve nell’episcopato orientale. Unacommissione riunita il 22 ottobre propone una «definizione» (horos) del-la fede, che sintetizza diversi testi anteriori, tra cui il «Tomo», e pro-fessa un solo Figlio «riconosciuto in due nature, senza confusione, sen-za cambiamento, senza separazione, in quanto la differenza delle natu-re non è in alcun modo eliminata dall’unione, ma la proprietà di ciascunanatura è piuttosto salvaguardata in tutto e concorre in una sola personae in una sola ipostasi». Questo horos, presentato come una chiarifica-zione apportata al simbolo di Nicea, e non come una nuova definizionedella fede, è letto e accettato in occasione della seduta del 25 ottobre,in presenza dell’imperatore.

Il concilio regola inoltre molti importanti problemi che concernonol’organizzazione della Chiesa, ratificando in particolare la creazione diun patriarcato di Gerusalemme. Lascia inoltre un’abbondante opera le-gislativa, con 27 canoni, senza scordare ciò che sarà chiamato il «ven-tottesimo canone», che segna un nuovo progresso della sede di Costan-tinopoli.

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3. La crisi calcedoniana.

Il concilio di Calcedonia getta la Chiesa in una serie di divisioni cheoggi non sono ancora terminate. La condanna di Dioscoro, il voltafac-cia di Giovenale, l’annullamento di Efeso II, la definizione cristologi-ca, che viene sospettata di nestorianesimo, suscitano fortissime opposi-zioni. Il potere imperiale cerca inizialmente d’imporre le decisioni pre-se a Calcedonia, poi, sotto Zenone, tenta di ristabilire l’unità passandosotto silenzio il concilio contestato, una politica che viene modificata daAnastasio in senso anticalcedoniano. Giustino, al contrario, s’impegnaa favore di Calcedonia e Giustiniano tenterà invano di ristabilire l’unitàintorno a una posizione teologica accettabile sia per i calcedoniani siaper i monofisiti, che si organizzano in Chiese dissidenti. Questo è lo sta-to di divisione in cui gli invasori persiani, e poi arabi, trovano le Chie-se delle province da essi conquistate, dal momento che l’ultima ricercadi una soluzione teologica – il monotelismo, sotto Eraclio – era fallita.

3.1. Marciano e Leone I .

Per far applicare le decisioni di Calcedonia, Marciano promulga, nel452, tre editti che probiscono a laici ed ecclesiastici di discutere le de-cisioni del concilio, ne proclamano l’accordo con i concili precedenti eprendono misure contro i partigiani di Eutiche. Se in Occidente Calce-donia non crea difficoltà, la situazione è ben diversa in Oriente. Nel pa-triarcato di Costantinopoli la situazione è sotto controllo. Il patriarca-to di Antiochia è diviso, ma non vi si registrano violenze. In Egitto, inseguito all’esilio di Dioscoro, Marciano fa eleggere come patriarca diAlessandria Proterio (novembre 451). La popolazione, tuttavia, si sol-leva e violente sommosse sono represse dalle truppe. In Palestina [Per-rone 414], un monaco, Teodosio, tornato dal concilio prima di Giove-nale e dei vescovi, fa sollevare la popolazione, usurpa il trono della CittàSanta e ordina alcuni vescovi. Anche là c’è bisogno d’impiegare la for-za armata per reinsediare Giovenale, non senza spargimento di sangue.Un editto del 453 ordina l’espulsione dei vescovi ribelli e la messa a mor-te dei recalcitranti. L’opposizione a Calcedonia, tuttavia, resta massic-cia, soprattutto tra i monaci, e i patriarchi di Gerusalemme dovrannoper molto tempo adottare un atteggiamento prudente.

Alla morte di Marciano (marzo 457), la popolazione di Alessandriasi solleva di nuovo e fa eleggere come patriarca Timoteo «Ailuro» («ilGatto»). Durante le sommosse il patriarca Proterio è massacrato (28

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marzo 457). Il nuovo imperatore, Leone I, interroga allora l’episcopatoorientale: occorre accettare il concilio di Calcedonia? L’elezione di Ti-moteo Ailuro è legittima? I vescovi, quasi all’unanimità, si pronuncia-no in favore del concilio e contro Timoteo. L’imperatore fa allora esi-liare Timoteo Ailuro (gennaio 460) e insediare a forza un patriarca cal-cedoniano, Timoteo Salofaciolo. Ad Antiochia, un patriarca ostile alconcilio, Pietro Fullone, succede a Martirio nel 470. Non può resistereed è sostituito in quel medesimo anno, ma l’avvenimento è indicativodelle divisioni in questo patriarcato.

3.2. L’epoca del l ’Henot ikon : Zenone e Anastas io.

L’imperatore Zenone segue la politica di Leone I. L’usurpatore Ba-silisco, tuttavia (gennaio 475 - fine agosto 476), cercando appoggi, siadopera contro Calcedonia.

Su istigazione di Timoteo Ailuro, richiamato dall’esilio, presenta aivescovi l’Enciclica, che condanna il concilio: 700 vescovi la sottoscrivo-no. Timoteo Ailuro, in viaggio per Alessandria, riceve l’appoggio delmetropolita di Efeso. Contemporaneamente, Pietro Fullone torna adAntiochia. I monofisiti, pertanto, guadagnano terreno. Basilisco, mes-so in difficoltà da Zenone, annulla la propria Enciclica con una Antien-ciclica poco prima di essere vinto.

Tornato al potere, Zenone riprende una politica calcedoniana: fa de-porre alcuni vescovi monofisiti, tra cui Pietro Fullone. Tuttavia, Stefa-no, nominato patriarca al suo posto, viene assassinato. Zenone fa allo-ra eleggere Calandione, che è ordinato a Costantinopoli da Acacio e poiinsediato dall’esercito. Ad Alessandria, Timoteo Ailuro muore nel 477;il patriarca Timoteo Salofaciolo torna nella città senza che si ristabili-sca la pace. A fronte di questa situazione confusa, Zenone promulga nel482, su consiglio di Acacio di Costantinopoli, l’Henotikon (editto diunione), con il quale cerca di ristabilire la pace passando Calcedonia sot-to silenzio.

Zenone accetta i tre concili di Nicea, Costantinopoli ed Efeso, non-ché i 12 anatematismi di Cirillo. Riconosce che il Cristo ci è consustan-ziale secondo l’umanità. Condanna coloro che introducono in Lui divi-sione o confusione. Infine, getta l’anatema su chiunque abbia detto opensato altrimenti, «a Calcedonia o altrove».

Questo testo di compromesso riporta alcuni successi: ad Alessandria,il nuovo patriarca monofisita, Pietro Mongo, accetta di sottoscriverlo;suscita tuttavia anche diverse opposizioni. Da parte monofisita, certu-ni domandano che il concilio di Calcedonia sia sottoposto ad anatema,

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si separano dagli «enoticiani» e danno vita ai cosiddetti «acefali» (sen-za testa). Nell’altro schieramento, il patriarca calcedoniano di Alessan-dria, Giovanni Talaia, cacciato dalla città, si rifugia a Roma e papa Fe-lice III invia legati a Costantinopoli per domandare spiegazioni. Questilegati entrano in comunione con Acacio, ma al loro ritorno Felice III lisconfessa e scomunica Acacio (luglio 484): è l’inizio dello «scisma aca-ciano», che durerà fino al principio del regno di Giustino.

La fine del regno di Zenone è contrassegnata dai progressi dei mo-nofisiti [Frend 306]: la Chiesa d’Egitto è governata da Pietro Mongo;ad Antiochia, Pietro Fullone è patriarca per la terza volta (485-89). Èin quella circostanza che il teologo monofisita Filosseno diviene vesco-vo di Ierapoli (Mabbug) [Chesnut 304]. È sempre in quest’epoca che Se-vero [Lebon 311], il futuro patriarca monofisita di Antiochia, si fa bat-tezzare. La Palestina però cambia e adotta il calcedonianesimo, di cuidiverrà un caposaldo [Perrone 414]. Soprattutto, Costantinopoli restafedele a un concilio che assicura alla sua sede patriarcale uno status emi-nente.

L’avvento di Anastasio (aprile 491) modifica la situazione, giacchéil nuovo imperatore è ostile a Calcedonia. I protagonisti cambiano: Pie-tro Fullone muore nel 488; Pietro Mongo nel 490. Acacio, morto nel489, è sostituito da Eufemio, un calcedoniano, che si oppone ad Ana-stasio fino al 496, data in cui l’imperatore riesce a esiliarlo e a sostituir-lo con Macedonio. Quest’ultimo accetta l’Henotikon ma resta favore-vole a Calcedonia. La pressione affinché i patriarchi enoticiani gettinol’anatema su Calcedonia si fa tuttavia più forte.

Ad Antiochia, Flaviano, patriarca dal 498, è obbligato ad accettarei 12 anatematismi di Cirillo. A Costantinopoli, i monofisiti sono attivi:Filosseno vi giunge nel 507; Severo vi passa tre anni (508-10) e induceAnastasio a promulgare il Typos, in cui l’imperatore interpreta l’Heno-tikon in senso monofisita. Il patriarca Macedonio, deposto nel 511, èsostituito da Timoteo, più remissivo. Tuttavia, il 4 e 5 novembre 511,quando l’imperatore Anastasio vuole imporre innovazioni monofisitenella liturgia, la popolazione si rivolta e lo fa desistere. Nel patriarcatodi Antiochia, i monofisiti vogliono forzare il patriarca Flaviano e il pa-triarca Elia di Gerusalemme a gettare l’anatema su Calcedonia, ma i duerifiutano. Nonostante qualche concessione dell’ultimo momento, Fla-viano è rimpiazzato da Severo (512), il vero capo dei monofisiti. A par-tire dal 513, la rivolta di Vitaliano, che si appoggia ai calcedoniani, in-tralcia l’azione di Anastasio. Bisogna attendere il 516 perché Elia di Ge-rusalemme sia deposto e rimpiazzato da Giovanni, che promette digettare l’anatema sul concilio: ma ne viene impedito dai monaci, i cui

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capi Teodosio e Saba fanno acclamare, al contrario, i «quattro concili».Anastasio non arriva dunque a ristabilire l’unità tra i patriarcati e, a

Costantinopoli come a Gerusalemme, deve fare i conti con un’opinionepubblica favorevole al quarto concilio, mentre il patriarcato di Antio-chia, sotto Severo, resta diviso. La morte dell’imperatore nel luglio del518 segna la fine di questo tentativo. Il nuovo imperatore, Giustino, in-sieme al nipote Giustiniano, s’impegna risolutamente in un’altra dire-zione.

3.3. Giust iniano e i l fa l l imento del l ’unità.

L’arrivo al potere di Giustino segna la ripresa di una politica vigoro-samente pro-calcedoniana. Severo ha chiara la situazione e abbandonaAntiochia per l’Egitto senza attendere di essere deposto. Un sinodo riu-nito a Costantinopoli nel 518 lo condanna. Al contempo, Giustino ri-prende i contatti con Roma nell’intenzione di mettere fine allo scismaacaciano.

Nel marzo del 519 due legati di papa Ormisda arrivano a Costanti-nopoli, dove il patriarca Giovanni accetta i loro desiderata: condanna diEutiche e Nestorio; accettazione del «Tomo» di Leone; radiazione daidittici di Acacio e dei suoi quattro successori, così come degli impera-tori Zenone e Anastasio. Queste condizioni suscitano una viva opposi-zione in Oriente. Il 31 marzo 519, tuttavia, Giustino può proclamarel’unione con Roma.

Giustiniano (527-65) prosegue inizialmente sulla medesima linea,ma, a partire dal 531, cambia direzione e cerca un accordo con i mono-fisiti. Sotto l’influenza, si dice, dell’imperatrice Teodora, lascia elegge-re due patriarchi anticalcedoniani, Teodosio ad Alessandria e Antimonella stessa Costantinopoli. Severo, nel 535, torna nella capitale. L’ar-rivo a Costantinopoli di papa Agapito nel febbraio 536 è l’occasione diun nuovo cambiamento di rotta.

Antimo se ne va; il sinodo di Costantinopoli (2 maggio 536) lo con-danna, così come Severo e i suoi partigiani. Nel patriarcato di Antio-chia, il patriarca Efrem conduce una violenta campagna contro i mono-fisiti. Nel 537, Teodosio di Alessandria è deposto ed esiliato; trova tut-tavia rifugio nell’entourage di Teodora e diviene il capo dei monofisitiin seguito alla morte di Severo (538).

Frattanto, Giustiniano cerca un accordo con i monofisiti, sperandodi trovare una soluzione teologica al conflitto. S’impegna nella faccen-da dei Tre Capitoli e, non essendo bastata questa concessione, poco pri-ma della morte esplora la via dell’aftartodocetismo.

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I Tre Capitoli riguardano alcuni teologi del v secolo: si tratta di con-dannare Teodoro di Mopsuestia, certe opere di Teodoreto di Cirro e in-fine la lettera indirizzata a Mari dal vescovo di Edessa, Iba. I monofi-siti attribuiscono grande importanza a questi tre punti e Giustiniano dàloro soddisfazione promulgando due editti in questo senso (544-45 e551). Soprattutto, fa venire a Costantinopoli papa Vigilio, che vi resteràcinque anni e che si vuole costringere a sottoscrivere questa condanna.Il papa resiste, poi cede (Iudicatum del 548), poi ritratta (550). Finisceper accettare la convocazione di un concilio, che si tiene a Costantino-poli: è il V concilio ecumenico (553), che condanna i Tre Capitoli. Il pa-pa aderisce a questa decisione. Muore sul cammino del ritorno e il suosuccessore Pelagio, che accetta a sua volta la condanna dei Tre Capito-li, deve affrontare l’ostilità di gran parte dell’episcopato dell’Italia set-tentrionale (scisma di Aquileia).

Alla fine del suo regno Giustiniano prende da certi monofisiti la teo-ria secondo la quale il corpo di Cristo, durante la sua vita, sarebbe sta-to incorruttibile («aftartodocetismo»). Il patriarca di Costantinopoli,Eutichio, è deposto dopo aver rifiutato di seguirla; anche il patriarca diAntiochia, Anastasio, rigetta questo nuovo punto di vista che, a causadella morte di Giustiniano, resta senza conseguenze.

Il regno di Giustiniano è contraddistinto dall’organizzazione di Chie-se monofisite [Van Roey in 301; Honigmann 310]. Nel patriarcato diAlessandria esistono, parallelamente ai patriarchi calcedoniani, dei pa-triarchi monofisiti che, se anche non possono insediarsi nella capitaleegiziana, controllano tuttavia gran parte del paese. Nel 542 Teodosio diAlessandria, in esilio a Costantinopoli, ordina due vescovi: Teodoro perl’Arabia e Giacomo Baradeo per Edessa. In una trentina d’anni, Giaco-mo ordina due patriarchi monofisiti per Antiochia e ventisette vescovi.La chiesa «giacobita» è nata e, benché i patriarchi monofisiti di Antio-chia non possano entrare nella città, lo scisma è comunque impiantatonel patriarcato.

Anche Giustino II, che succede a Giustiniano, cerca un compromes-so, giungendo persino a dichiarare che l’espressione «una sola natura»di Cristo può essere interpretata in maniera ortodossa. Lo scisma, tut-tavia, non si riassorbe. Le Chiese monofisite conoscono, dal canto loro,alcune difficoltà: appaiono sette divergenti; s’instaura una divisione trai patriarcati monofisiti di Antiochia e Alessandria. La medesima situa-zione si perpetua nei regni successivi.

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3.4. La cr is i monotel i ta .

Bisogna attendere il regno di Eraclio per ritrovare una politica reli-giosa ambiziosa che si riannoda con quella di Giustiniano, nella ricercadi una formula teologica accettabile per tutte le parti in causa. Quest’ul-timo tentativo, il monotelismo (una sola volontà del Cristo), è anch’es-so destinato a fallire [Schönborn 315; Winkelmann 316].

Il patriarca Sergio (610-38) promuove inizialmente il monoenergi-smo, che non riconosce nel Cristo che una sola operazione (energeia), in-dissociabilmente divina e umana. Di fronte a forti resistenze, rinunciae propone allora una formula monotelita: un’unica volontà del Verbo in-carnato. In entrambi i casi, i calcedoniani più convinti reagiranno nega-tivamente, persuasi che tali formule mutilino l’umanità del Cristo. So-sterranno che, al contempo, l’energia e la volontà sono legate alle natu-re, e che nel Cristo esse sono duplici, benché non divergenti.

A livello politico, per Eraclio si tratta di favorire l’azione di ricon-quista in cui è impegnato all’epoca della lunga guerra contro la Persia.Passando dal nord, deve fare i conti con gli Armeni, che non riconosco-no il concilio di Calcedonia. Soprattutto, nelle province conquistate daiPersiani – Egitto e Siria –, le Chiese monofisite sono forti ed è impor-tante conciliarsele al momento in cui occorre ricostituire l’unità dell’Im-pero.

Anche prima del 620 Sergio, nella propria corrispondenza con il ve-scovo Teodoro di Faran, si mostra tentato dal monoenergismo. Tutta-via, è soprattutto dopo la vittoria di Eraclio che la questione diventad’attualità. Nel 629, in occasione di un incontro a Ierapoli tra l’impera-tore e il patriarca monofisita di Antiochia, il vescovo di Fasi, Ciro, di-fende non senza successo il monoenergismo. Nominato patriarca di Ales-sandria, riesce anche a ottenere intorno a questa formula l’adesione d’ungran numero di monofisiti (giugno 633). Questi successi, tuttavia, ri-mangono senza conseguenze. Il monaco Sofronio, presente ad Alessan-dria, si reca a Costantinopoli, dove ottiene che Sergio rinunci al monoe-nergismo. Il patriarca promulga allora lo Psephos («decreto»), conferma-to da Eraclio, che proibisce di parlare di una o due operazioni nel Cristo.

Papa Onorio, in una lettera a Sergio, approva lo Psephos, ma parlaimprudentemente di «una sola volontà del Cristo». Sergio riprende laformula e, nel 638, fa promulgare da Eraclio l’Ekthesis per tentare d’im-porla nell’Impero. Tuttavia il monotelismo, accettato da alcuni patriar-chi orientali, si scontra con l’opposizione di Roma: papa Giovanni IVcondanna l’Ekthesis nel 640. Il monotelismo è destinato a trovare un ul-

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teriore formidabile avversario nella persona di Massimo, il futuro Con-fessore. La morte di Sergio, poi di Eraclio, e infine l’invasione araba,con la perdita dell’Egitto, della Siria e della Palestina, modificano an-che la situazione politica. La crisi monotelita non sarà risolta che nel681, in occasione del concilio di Costantinopoli III.

In nessun momento, all’indomani di Calcedonia, la Chiesa ha potu-to ristabilire la propria unità. Se in Occidente e nel patriarcato di Co-stantinopoli, nonché in quello di Gerusalemme, il calcedonianesimo pre-vale, la Chiesa d’Egitto resta a maggioranza monofisita e ad Antiochiala chiesa anticalcedoniana è potente. Si tratta della situazione che verràperpetuata dalla conquista araba, in cui, nelle province conquistate al-l’Impero, persisterà la divisione tra Chiese calcedoniane («melchite»,ossia che condividono la religione dell’imperatore) e Chiese monofisite– copta in Egitto, giacobita in Siria. Queste divisioni, in mezzo alle qua-li si definisce l’ortodossia, costituiscono uno scandalo ben percepito daicontemporanei e un fallimento della Chiesa imperiale. Esse, tuttavia,non hanno impedito al cristianesimo di dar prova, nelle province impe-riali dell’Impero e fino alla conquista araba, di una stupefacente vita-lità.

1 La seconda formula, chiamata simbolo della Dedicazione, svolgerà un ruolo importante: i pa-dri del concilio affermano la divinità del Figlio, «immagine esattamente somigliante alla divi-nità e alla ousia … del Padre», e distinguono tre ipostasi divine: il Padre, il Figlio e lo Spiri-to. La quarta formula è meno netta, ma condanna esplicitamente la dottrina di Marcello diAncira.

2 Il Figlio è generato da tutta l’eternità; è «simile (homoios) al Padre che l’ha generato»; è proi-bito l’impiego del termine ousia e dei suoi derivati (homoousios, homoiousios).

3 «Madre di Dio» o, più esattamente, «colei che ha partorito Dio».

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parte seconda

Le istituzioni dell’Impero

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denis feissel

iii. L’imperatore e l’amministrazione imperiale

1. Introduzione: il regime imperiale e i compiti dello Stato.

La costituzione dello Stato protobizantino, essenzialmente monar-chica, si considera erede del regime imperiale (basileia) a suo tempo in-staurato da Augusto (Giustiniano, Nov. , 44 pr.). Il tardo Impero roma-no è tuttavia concepito e organizzato in modo molto differente dal prin-cipato augusteo. Al termine di una evoluzione che risale ai Severi, il«Nuovo Impero» [Barnes 317], ristrutturato da Diocleziano e poi daCostantino, riconosce al sovrano un’autorità assoluta sull’insieme deipoteri pubblici. L’imperatore, una volta proclamato, non risponde del-le proprie azioni che davanti a Dio: l’esercito, il Senato, per certi aspet-ti la Chiesa costituiscono altrettanti organi di una monarchia priva dicontropoteri che non siano dissidenti. Le nozioni moderne di assoluti-smo, di «dominato», di monarchia di diritto divino (l’imperatore si di-ce «incoronato da Dio») non sono dunque senza fondamento, e tutta-via non dispensano dal definire i limiti del potere imperiale, in teoriacome in pratica.

A differenza del tiranno (titolo riservato agli usurpatori), l’impera-tore legittimo ricusa l’arbitrio e garantisce lo Stato di diritto: padronedelle leggi e delle istituzioni, è libero di modificarle senza esserne per-sonalmente affrancato. A maggior ragione, ogni funzionario è respon-sabile della sua amministrazione, in quanto la legge organizza il control-lo dello Stato tramite, contemporaneamente, lo Stato stesso e i suoi cit-tadini: si presume che le istanze delle singole persone o delle struttureorganizzate, ma anche la vox populi sotto forma di acclamazioni ufficial-mente registrate in tutto l’Impero (CTh, 1.16.6), finiscano per giunge-re alle orecchie del sovrano. Si denunciano le illegalità degli agenti delpotere, che attentano ai presupposti ideali del regime imperiale, quan-do non è l’imperatore stesso a essere accusato di tradire la propria mis-sione (è il caso della figura demonizzata di Giustiniano nella Storia se-greta di Procopio). Se, infatti, il principio monarchico è incontestato, ilmonarca in carne e ossa non lo è affatto. La permanenza del regime im-

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86 Le istituzioni dell’Impero

periale non esclude episodi d’instabilità politica: insurrezioni popolarinella capitale e in altre grandi città, rivolte militari e usurpazioni, cro-niche dissidenze religiose. Quand’anche la sua autorità non sia messa incausa, il potere centrale dispone di mezzi limitati per mettere in operala volontà imperiale. Malgrado lo sviluppo di una burocrazia più nume-rosa e meglio coordinata di prima, l’Impero non sarebbe in grado di ge-stire l’amministrazione delle province senza l’appoggio delle città e deiloro notabili, che in Oriente, grazie alla creazione di un nuovo Senato,sono sempre più integrati al servizio dello Stato. Se il regime è riuscitoa preservare, nonostante gli imprevisti del periodo, l’unità del mondoromano e la continuità dei poteri pubblici, il merito va da una parte alrafforzamento dell’ideologia monarchica, ma anche alla capacità di adat-tamento di un apparato amministrativo al contempo centralizzato ed ef-ficacemente implementato dalle collettività locali.

L’esercizio del potere imperiale ha il più delle volte, a partire dallaTetrarchia, un carattere collegiale, che tuttavia non rimette in causa ilprincipio monarchico garante dell’unità dell’Impero. La stessa divisio-ne di fatto tra due partes imperii, dal 395 al 476, si accompagna al man-tenimento, perlomeno simbolico, di istituzioni comuni. I due sovrani,dopo le cerimonie di riconoscimento reciproco, uniscono i loro nomi inuna titolatura comune, sotto la quale ognuno dei due legifera in totaleindipendenza: la promulgazione in Occidente di leggi orientali, e vice-versa, dipende dalla conferma dell’imperatore competente, temporaneadivisione legislativa che non evita di creare alcune divergenze istituzio-nali. Dopo il 476, la vacanza definitiva del trono d’Occidente non met-te fine all’unità romana, poiché Odoacre e, dopo di lui, i re goti d’Ita-lia hanno, a differenza dei Vandali in Africa, rispettato le prerogativedi Costantinopoli: le promozioni nel Senato di Roma e l’amministrazio-ne italiana sono ancora sottoposte alla conferma imperiale. Analogamen-te alla dualità dei sovrani, la coppia annuale dei consoli associa, dalla fi-ne del iv secolo, un orientale e un occidentale. Benché qualche tensio-ne possa far sì che una delle due Corti non riconosca il console dell’altra,il principio non ne è comunque intaccato, anche dopo il 476. Allo stes-so modo la prefettura del pretorio, collegiale a livello di principio, con-tinua ancora, dopo tale data, ad associare i prefetti d’Oriente e d’Italiain una titolatura comune. Con questi presupposti, la reintegrazione del-l’Occidente sotto Giustiniano avrà luogo senza importanti innovazionicostituzionali, salvo la sparizione definitiva della Corte d’Occidente.

I compiti fondamentali del potere imperiale nei confronti dei suoisudditi sono, agli occhi dei contemporanei, la sicurezza rispetto alle mi-nacce esterne e interne, e la giustizia nelle relazioni sociali. Entrambe

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le priorità hanno per garante l’imperatore; per organi, l’esercito e l’am-ministrazione; per risorse, la fiscalità. Praticamente l’amministrazionecivile coincide, nelle sue strutture, con il sistema giudiziario: gli alti fun-zionari sono chiamati giudici; le amministrazioni, invece, tribunali.L’amministrazione assume d’altro canto la responsabilità delle esazionifiscali, reimpiegate in parte per il proprio funzionamento e per quellodell’esercito, in parte anche per i bisogni delle città. Una legge di Giu-stino II, nel 569 (Nov., 149.2) definisce in questi termini il sistema difunzionamento di uno «Stato assistenziale» ante litteram.

La nostra unica premura, sotto la guida di Dio, è che le province fruiscano dibuone leggi e di una stabile amministrazione, che godano della giustizia dei gover-nanti, e che le tasse siano percepite correttamente. Non vi è, infatti, modo di pre-servare lo Stato se non vengono percepite le sacre contribuzioni. È grazie a esse chel’esercito, ricevendo ciò che gli è assegnato, resiste ai nemici e libera i sudditi dalleoffensive e dalla malvagità dei barbari, proteggendo inoltre le campagne e le città… e che gli altri ordini gioiscono di ciò che viene loro assegnato, che i bastioni e lecittà sono restaurate … e così tutto ciò che è stato inventato per il comodo dei sud-diti; dimodoché le loro contribuzioni siano spese e versate sia per essi, sia da essi,e che a noi non ne venga assolutamente niente, salvo avere per loro delle preoccu-pazioni, benché neppure questo sia senza ricompensa, giacché il nostro grande Dioe Salvatore Gesù Cristo, nella grandezza del Suo amore per gli uomini, ci accordaper questo motivo anche molti beni come ricompensa.

La duplice vocazione, militare e civile, del potere si traduce, a livel-lo centrale come a livello provinciale, in un raddoppiamento dell’ammi-nistrazione. Certo, la militarizzazione dello Stato risalente a Dioclezia-no fa sì che ogni funzionario eserciti in teoria una militia, civile o arma-ta, ma il principio complementare della separazione di funzioni civili emilitari subisce poche eccezioni prima del vi secolo. L’unico organigram-ma sistematico di questi due aspetti complementari della funzione pub-blica, pressoché completo per le due parti dell’Impero, è fornito dallaNotitia Dignitatum, che per l’Oriente rispecchia la situazione del 401[Zuckerman 346], e non ha subito, nel corso di oltre due secoli, che adat-tamenti limitati, perlopiù noti tramite le fonti giuridiche. Forzatamen-te schematico, il quadro delle istituzioni proposto in questa sede cercatuttavia di non minimizzare né le esitazioni istituzionali del iv secolo,periodo di gestazione dell’Impero bizantino, né le riforme del vi, perquanto a dire il vero spesso prive di conseguenze. Il presente quadro silimita al governo civile, senza troppe connessioni con le istituzioni mi-litari, oggetto del capitolo v, o con quelle della Chiesa, trattate nel ca-pitolo iv. Infatti, benché la sua geografia sia ricalcata sulle circoscrizio-ni civili dell’Impero (città e province) e il potere politico le deleghi unruolo amministrativo crescente (giurisdizione, compiti da magistrato mu-

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nicipale), la Chiesa non ha mai confuso i propri compiti con quelli del-lo Stato, che riconosce dal canto suo l’autonomia della gerarchia e deldiritto ecclesiastico. Privo di autorità formale sulle istituzioni della Chie-sa, l’imperatore nondimeno può essere tentato d’imporre, in situazionidi conflitto ricorrente, una politica religiosa di proprio gradimento. Èin questo senso che si può parlare di una Chiesa imperiale, dalla qualeil potere si sforza di escludere ogni dissidenza per meglio integrarla conun sistema di governo propriamente totalitario. Istituzioni civili, mili-tari, ecclesiastiche, in effetti convergono tutte verso un’autorità unica,quella dell’imperatore, al contempo emanazione di questi differenti or-ganismi e personificazione dell’unità dell’Impero.

2. L’imperatore e le sue funzioni.

2.1. I fondamenti del potere imperia le .

L’ideologia monarchica, la cui tradizionale base giuridica si amman-ta, dal tempo di Costantino, di una concezione quasi teocratica, circon-da la persona del sovrano di un’aura di devozione immediatamente per-cepibile quando si leggono le fonti, così come quando se ne vedono lerappresentazioni. L’esaltazione della monarchia ispira i discorsi e le im-magini dell’arte ufficiale, compresa la lingua del diritto e degli atti im-periali, così come le cerimonie che regolano minuziosamente l’abbiglia-mento e la gestualità del monarca in ogni circostanza della sua vita pub-blica. Più in generale, un’onnipresente attenzione alla gerarchia regola,seguendo una gradazione codificata, l’insieme delle relazioni tanto al-l’interno dell’apparato statale, quanto tra autorità e sudditi. Tali aspet-ti teorici e simbolici del potere, come si riflettono per esempio nella ti-tolatura imperiale, hanno una funzione ben più importante di fornireun tocco di colore alla vita pubblica: contribuiscono alla coesione del-l’Impero.

La titolatura imperiale, dall’ultimo quarto del iv secolo, abbandonainteramente le antiche magistrature romane (proconsolato e potestà tri-bunizia) che erano state alla base, dai tempi di Augusto, del potere delprincipe. Il consolato, frequentemente rivestito dall’imperatore (e che,dopo il 541, sarà esclusiva prerogativa di quest’ultimo), non è legato in-trinsecamente alla funzione del sovrano e resta a margine dei suoi tito-li permanenti. Questi non elencano più i poteri conferiti al principe, maglorificano, quasi tutti, una serie di virtù essenziali alla sua funzione neidifferenti settori in cui si esplica: in ciò, la titolatura è rivelatrice dell’i-

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deale monarchico, ossia degli orientamenti della politica imperiale (peresempio, sotto Giustiniano, con l’improvvisa inflazione di titoli trion-fali). La struttura d’insieme, tuttavia, non è soggetta a molti cambia-menti fino a Eraclio. Il titolo di «padrone nostro» (dominus noster), di-venuto obbligatorio per rivolgersi all’imperatore, è all’origine del con-cetto moderno di dominato (altrimenti detto despotato), che si supponedebba distinguere il regime del tardo Impero da quello del principato.Tuttavia, i titoli imperiali per eccellenza, eredità del principato, conti-nuano a occupare fino al vii secolo l’inizio e la fine della titolatura: intesta Imperator Caesar, alla fine Augustus. Tra i due, il nome personaledel sovrano è accompagnato da epiteti elogiativi che fanno perlopiù ri-ferimento all’ambito militare e a quello religioso. L’imperatore è, persua propria natura e spesso a dispetto della realtà, «vittorioso», «invin-cibile», «trionfatore». Caduti in desuetudine dopo il iv secolo, i cogno-mina derivati tradizionalmente dai popoli vinti (del tipo Gothicus) sonoristabiliti in blocco da Giustiniano, a partire dal 533. Espressione di unprogramma, allora appena intrapreso, di riconquista dell’Impero univer-sale, questa serie più o meno teorica di otto titoli trionfali si allungheràancora nel corso del secolo seguente, per sparire soltanto sotto Eraclio.Temperando il tono bellicoso della propaganda di Giustiniano, i suoiimmediati successori adotteranno i nuovi titoli di «benefattore supre-mo» e «pacifico». Intitolandosi «fedele in Cristo», Giustino II intro-duce il primo tratto esplicitamente cristiano a fianco degli epiteti tradi-zionali, neutri dal punto di vista religioso, di «pio e fortunato». Dopotre secoli di evoluzione graduale, la titolatura inaugurata nel 629 da Era-clio rappresenta un’innovazione radicale e carica di conseguenze, sosti-tuendo all’antico Imperator Caesar il termine puramente greco di basi-leus. Antico titolo regio che, per i suoi sudditi orientali, designava l’im-peratore già da secoli, basileus (al plurale basileis) fa il suo ingresso nellatitolatura ufficiale nello stesso momento in cui quest’ultima abbandonala maggior parte degli elementi anteriori. Non è provato che il nuovo ti-tolo sia collegato ai successi riportati da Eraclio sulla Persia e sul suo re,ma la rottura del 629 con i vecchi nomi ereditati dal principato costitui-sce, nondimeno, uno dei segni simbolici della fine dell’Antichità.

Come sotto il principato, l’accessione all’Impero ha un principio elet-tivo: l’imperatore legittimo è l’eletto dell’esercito, del Senato e del po-polo – difatti il patriarca di Costantinopoli era chiamato soltanto a be-nedire, non ancora a incoronare l’imperatore. La stessa successione di-nastica, tanto precaria a Bisanzio quanto a Roma, non è legittimata chedal consenso di questi organismi. Il nostro periodo, a dire il vero, ha co-nosciuto di secolo in secolo diversi abbozzi di dinastie (costantiniana,

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teodosiana, giustinianea, eracliana), ma il principio ereditario non trion-ferà che a partire dall’viii secolo, con gli Isaurici. Le cerimonie d’intro-nizzazione, di cui si possiede una serie di rendiconti dal 457 al 527 [Decerimoniis 167, 1.91-95], non seguono un semplice modello ritualizzatoma variano a seconda delle circostanze e della successione, a seconda delfatto che l’insediamento abbia come protagonista un homo novus o unmembro della famiglia regnante [Dagron 321, pp. 33-105].

L’esercizio frequentemente collegiale della funzione imperiale nonne mette in causa l’unità teorica. Le spartizioni territoriali del iv e delv secolo erano solo la conseguenza di una divisione successoria, ma laprecedenza restava di diritto all’augusto più anziano. Una volta estin-tosi l’Impero d’Occidente, la comparsa a Bisanzio di un coimperatore,dotato prima del rango di cesare, poi di augusto, avrà lo scopo di prepa-rare, più o meno in anticipo, una successione incontestata.

La personalità del sovrano si ripercuote naturalmente sull’eserciziodelle sue funzioni, con considerevoli disparità di età, origine etnica esociale, cultura e capacità da un regno all’altro. Il ruolo del monarcanella conduzione degli affari può eventualmente essere più nominaleche reale (minore età di Teodosio II, malattia di Giustino I o di Giu-stino II), senza che tale debolezza colpisca gravemente la continuitàdello Stato.

I membri della famiglia imperiale, ad eccezione degli imperatori stes-si, inizialmente non hanno un ruolo politico a meno che non esercitinouna funzione civile o militare all’interno dello Stato (i casi di nepotismonon sono mancati, in particolare nella famiglia di Anastasio o in quelladi Maurizio). In tali condizioni, a spose, sorelle o figlie dell’imperatore,nonostante l’onore insito nel titolo di Augusta, non spetta alcun potereistituzionale. Nonostante ciò, nei fatti la loro influenza è evidente. Nelv secolo, per esempio, le principesse o le imperatrici della dinastia teo-dosiana, dotate finanziariamente di considerevoli appannaggi, conduco-no una politica personale soprattutto in materia religiosa, come l’impe-ratrice Eudocia attraverso le sue fondazioni in Terra Santa. L’interven-to pubblico dell’imperatrice vedova può essere decisivo per la scelta diun successore, come nel caso di Anastasio, candidato di Arianna e da leisposato. Tuttavia, anche nel vi secolo la spartizione di fatto del potereimperiale tra Giustiniano e Teodora (più tardi tra Giustino II e Sofia),di cui la retorica e l’arte di Corte diffondono l’immagine, resta priva difondamento giuridico e non sfugge alla critica di un Procopio.

Il mestiere d’imperatore continua a corrispondere alle proprie tradi-zionali funzioni fondamentali, negli ambiti militare, giudiziario e reli-gioso, ma si esercita in condizioni ben differenti da quelle del principa-

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to. Il fatto che il sovrano cessi di comandare le truppe nel corso dellecampagne militari rompe, in pratica, con la funzione primaria dell’im-perator, senza che ne siano inficiate né la legittimità di capo dell’eserci-to, eletto da esso, né l’ideologia della vittoria imperiale. È nella sferadel diritto e dei poteri civili, nonostante l’evoluzione delle forme, chela continuità delle tradizioni romane resta più tangibile. Sul piano reli-gioso, infine, la funzione dell’imperatore cristiano poggia su principî in-teramente nuovi e deve, per espletarsi, venire a patti con la Chiesa.

2.2. L’ imperatore nel la sua capita le .

In tutti questi ambiti, l’esercizio del potere è condizionato dalla qua-si permanente residenza del sovrano nella capitale. I viaggi del princi-pe, a Roma, erano inseparabili dalle sue funzioni militari o civili. L’im-peratore protobizantino è molto meno itinerante, giacché la fondazio-ne di una nuova capitale in Oriente ha avuto per effetto di fissare lapersona del sovrano e di favorire intorno a lui lo sviluppo dei servizi go-vernativi. L’imperatore si assenta raramente al di là dei paraggi di Co-stantinopoli, nelle sue residenze di Tracia o di Bitinia. Viaggi più lun-ghi costituiscono l’eccezione, come il possibile pellegrinaggio di Teodo-sio II a San Giovanni di Efeso, o quello di Giustiniano, in età avanzata,a San Michele di Germia, in Galazia. Sul piano militare, dopo la mortedi Giuliano e quella di Valente, entrambi caduti in combattimento, Teo-dosio I sarà l’ultimo a dirigere personalmente delle spedizioni, finchéEraclio, due secoli più tardi, non riparte in guerra contro la Persia nelcorso di campagne che figureranno come vere e proprie epopee.

Residenza dell’imperatore, Bisanzio offre per così dire un compen-dio delle istituzioni dell’Impero. Rifondata nel 330 sotto il nome di Co-stantinopoli, riceve quasi subito il nome di Nuova Roma (più tardi Ro-ma tout court). Nata dallo sdoppiamento della capitale di un Impero an-cora unitario, sarà a partire dal 395 a capo della sola pars Orientis, primadi divenire nel vi secolo unica capitale dell’Impero riunificato da Giu-stiniano. Questa «nascita di una capitale» [Dagron 493] si è realizzatagradualmente: inaugurata nel 330, Costantinopoli non raggiunge il suocompleto sviluppo urbano e istituzionale che nell’ultimo terzo del iv se-colo. (Frattanto, Antiochia accoglie a più riprese l’imperatore e il suoprefetto del pretorio, ma tale ruolo di capitale temporanea non rimettein causa lo status unico della fondazione costantiniana). Un insieme dimonumenti coordinati – il Palazzo, il Senato, il Circo-Ippodromo, laGrande Chiesa – materializza e simbolizza il ruolo della «città regina»come centro di tutti i poteri. In questo quadro monumentale, la ritua-

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lizzazione crescente del cerimoniale non si limita al Palazzo, ma regolatutte le uscite dell’imperatore, a cominciare dalla sua presenza obbliga-toria agli spettacoli dell’Ippodromo e alle celebrazioni religiose, altret-tante occasioni di incontro diretto (e talora di confronto) tra il sovranoe i suoi sudditi. Caposaldo della simbologia imperiale, il microcosmo del-l’Ippodromo è strutturato, come a Roma, intorno a due fazioni o colo-ri, Verdi e Azzurri, le cui vittorie alternate concorrono indistintamen-te alla gloria dell’imperatore. Quest’ultimo è comunque tenuto a essereapertamente partigiano di uno dei due colori, e questo colore cambia aseconda dei regni. Privo di fondamento sociale o religioso, questo bipar-titismo radicato nel mondo degli spettacoli non si limita tuttavia a unamessa in scena simbolica della vittoria imperiale: in margine alle istitu-zioni propriamente politiche, contribuisce a strutturare la vita sociale ele sue tensioni nella capitale e in molte altre città.

Sede del governo centrale, Costantinopoli gode di uno status ammi-nistrativo eccezionale, distaccato dalla provincia d’Europa. L’ammini-strazione urbana, inizialmente affidata a un proconsole, a partire dal359 passa, sul modello di Roma, nelle mani del prefetto della Città. Que-st’ultimo, presidente del Senato ex officio, è ugualmente membro di di-ritto del concistoro imperiale, insieme ai principali ministri che condi-vidono con lui il rango di illustre. Intermediario tra l’imperatore e il Se-nato, svolge questo ruolo anche tra l’imperatore e il popolo, che taloraimpone la revoca del prefetto. Tra i subordinati della prefettura urba-na, il prefetto dell’annona organizza l’approvvigionamento della popo-lazione e la distribuzione gratuita del pane ai più di 80 000 aventi dirit-to. La polizia urbana è di competenza del prefetto dei vigili, che sottoGiustiniano diviene pretore del popolo («dei demi»). Il medesimo im-peratore crea nel 539 il quaesitor, incaricato di compiti di polizia nei con-fronti dei forestieri. La capitale allora attira, infatti, un numero crescen-te di provinciali (vescovi, notabili di città o semplici bisognosi), che de-siderano avvicinare direttamente l’imperatore e i suoi servizi centrali,obbligando così il legislatore a limitare il soggiorno nella capitale di que-sta popolazione fluttuante e, al contempo, a decentralizzare maggior-mente l’amministrazione della giustizia.

2.3. L’ imperatore legis latore.

L’imperatore, nel corso del principato, è divenuto l’unica fonte dicreazione del diritto. Ancor più a partire da Diocleziano, il potere legi-slativo è una parte essenziale della funzione imperiale, anche se lo sta-to delle fonti (codificazione selettiva fino a Giustiniano, in seguito tra-

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dizione lacunosa) rende difficile valutare, regno per regno, l’importan-za della produzione giuridica. Tutti gli atti emanati dalla cancelleria im-periale, denominati costituzioni, sono in teoria l’espressione della vo-lontà personale del sovrano, caratterizzata dal plurale maiestatis. I prin-cipali tipi di costituzione si differenziano a seconda della portata, dalleleggi generali alle misure particolari (le più numerose, ma anche le peg-gio conservate). L’antico edictum imperiale, concepito per essere diret-tamente affisso in pubblico, ha perduto l’importanza attribuitagli dallaTetrarchia; viene sporadicamente impiegato ancora nel vi secolo a be-neficio del popolo della capitale o di certe province. Ad ogni modo, lagrande maggioranza delle costituzioni presenta ormai la forma di unalettera dell’imperatore a un alto funzionario, perlopiù il prefetto del pre-torio, che spesso s’identifica con l’autore del progetto di legge (sugge-stio). La diffusione delle leggi procede poi a tappe: la lettera iniziale del-l’imperatore dà luogo, per ciascun livello dell’amministrazione, ad attiaccessori (editti di applicazione). Non è peraltro raro che la medesimacostituzione sia, con i necessari rimaneggiamenti formali, indirizzata adifferenti destinatari: la novella 8 di Giustiniano (535), una sorta di sta-tuto dell’amministrazione provinciale il cui testo di base è una lettera alprefetto del pretorio, viene ugualmente inviata ai vescovi, affissa comeeditto ai Costantinopolitani e infine riformulata sotto forma di manda-ta (Nov., 17) consegnati ai governatori in occasione della loro nomina.

Si può distinguere tra le leggi generali, espressione della politica delregno, e gli atti di routine, emanati in massa dalla cancelleria senza l’in-tervento obbligatorio dell’imperatore (non è neppure sempre necessariala sua sottoscrizione). L’attività più usuale dell’imperatore consiste in-fatti, come sotto il principato, nel rispondere alle richieste che gli ven-gono sottoposte, sia che si tratti di risolvere una controversa questionedi diritto o di ottenere un privilegio per una persona o un organismo.L’imperatore risponde alla petizione tramite un rescritto, sotto formadi una lettera al funzionario imperiale incaricato di mettere in praticala decisione – invece della breve sottoscrizione che un tempo il princi-pe apponeva in calce alla petizione stessa [Feissel 328-29]. Ormai indi-pendente dalla petizione che lo motiva, il rescritto trova, a partire dalv secolo, la sua forma compiuta nella prammatica sanzione [Kussmaul327].

L’imperatore, salvo eccezioni, è solo l’autore di facciata di testi re-datti da altri per suo conto; non è facile attribuirgli personalmente, co-me si è tentato di fare per Giustiniano [Honoré 325], la composizionedi determinate leggi. Il compito della scrittura effettiva spetta innanzi-tutto al questore del Palazzo, che dà ai testi di legge la loro forma defi-

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nitiva con l’assistenza di membri degli uffici palatini (scrinia della me-moria, delle lettere e dei libelli). Naturalmente, anche altri membri delconcistoro (al primo posto il prefetto del pretorio d’Oriente, ma ancheil magister officiorum) esercitano un ruolo determinante nella genesi del-le leggi così come nella loro diffusione.

Oltre alla legislazione propria di ciascun regno, l’opera giuridica de-gli imperatori protobizantini culmina con la promulgazione, nel v e nelvi secolo, di due Codici monumentali finalizzati a conservare, organiz-zare e armonizzare l’eredità secolare del diritto imperiale. Tale armo-nizzazione è resa necessaria dal fatto che il diritto del basso Impero, pri-ma della codificazione, riconosceva in tutto e per tutto le costituzionidi ogni imperatore legittimo, pagano e cristiano. L’accumulo di testi, ta-lora contraddittori, rende il diritto di difficile accesso e applicazione peri tribunali e le amministrazioni. Inoltre, tra il 395 e il 476 la dualità de-gli imperatori compromette l’unità giuridica dell’Impero, giacché en-trambi si riservano di promulgare o no le costituzioni del proprio colle-ga. La pubblicazione, a un secolo d’intervallo, del Codice teodosiano(438) e del Codice giustinianeo (529, rivisto nel 534) cerca in primo luo-go di facilitare il compito della giustizia. Il primo, tuttavia, si rifà anco-ra a testi contraddittori (la regola era di attenersi alla legge più recen-te), mentre i commissari del Codice giustinianeo hanno l’ordine di ar-monizzare, all’occorrenza tramite correzioni o interpolazioni, l’insiemedella legislazione.

I due Codici sono stati compilati a Costantinopoli, seguendo le di-rettive dell’imperatore, da commissioni di giuristi presiedute dal que-store del Palazzo, rispettivamente Antioco e Triboniano. In entrambi icasi, i commissari hanno operato una selezione di costituzioni imperia-li; poi, dai testi completi, hanno estratto gli elementi dispositivi di loroscelta, per ridistribuirli tematicamente nelle differenti parti del Codice,e cronologicamente all’interno di ciascun titolo. I due Codici sono non-dimeno differenti, sia per il proposito sia per la ricezione. Teodosio II,completando codici anteriori, raccoglie la legislazione degli imperatoria partire da Costantino (dal 312 al 438). Il Codice giustinianeo, summadel diritto imperiale a partire da Adriano, integra l’essenziale del Codi-ce teodosiano cui aggiunge le leggi, dette Novelle, emesse a partire dal438. La compilazione giustinianea si estende, al di là del Codice, allagiurisprudenza romana di epoca imperiale (il Digesto) e, a partire dal534, alle leggi dello stesso Giustiniano (le Novelle). Questa summa deldiritto romano, presto tradotta in greco dai professori di diritto (gli an-tecessori), resterà per i giuristi bizantini un punto di riferimento perma-nente. Al contrario, per quanto riguarda l’Alto Medioevo occidentale,

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è attraverso il Codice teodosiano e i suoi adattamenti che il diritto im-periale prolunga la propria influenza [Gaudemet 104; Honoré 326].

2.4. L’ imperatore cr ist iano.

La funzione imperiale, prima della conversione di Costantino, entra-va in contatto in due modi con la religione di Stato: tramite l’eserciziodei sacerdozi romani tradizionali, soprattutto quello di pontefice mas-simo, e tramite il culto di cui l’imperatore stesso era l’oggetto, come te-stimonianza resa al carattere sacro della sua persona (il rifiuto dei cri-stiani di sacrificare all’imperatore fu una delle principali cause delle per-secuzioni). Divenuto religione di Stato, il cristianesimo obbliga ariformulare radicalmente le relazioni tra l’imperatore e il divino, ma an-che, politicamente, tra l’imperatore e la Chiesa.

Le tracce degli antichi culti spariscono gradualmente. L’abbandonodel pontificato è compiuto con Graziano. Il culto imperiale non sfuggeall’interdizione dei sacrifici: se certe province continuano a eleggere ungran sacerdote (il siriarca non sarà abolito che sotto Leone), il suo ruo-lo si limita all’organizzazione di concorsi provinciali. Senza ripudiare ilvocabolario tradizionalmente riferito alla sua persona, qualificata «di-vina» come tutto ciò che è in contatto con la Corte, l’imperatore cristia-no, entrando in chiesa, depone la propria corona sull’altare e si proster-na. Ciò nonostante, la sacralità del sovrano «incoronato da Dio» auto-rizza certe antiche forme di venerazione, debitamente reinterpretate, ene crea di nuove. I ritratti imperiali (statue o, più di frequente, dipinti)non sono più adorati, bensì venerati come l’imperatore in persona; l’im-magine imperiale garantisce ai fuggiaschi un diritto d’asilo comparabilea quello delle chiese; le formule ufficiali di giuramento invocano con-temporaneamente la salvezza dell’imperatore e la Santa Trinità.

Lungi dal politeismo tollerante del passato, gli imperatori del ii e deliii secolo avevano intrapreso, contro il cristianesimo, la strada delle per-secuzioni. Il trionfo della nuova fede non basterà ad assicurare la pacereligiosa, e l’imperatore cristiano dovrà scegliere, in mezzo a dissensiche rinascono incessantemente, tra una politica settaria e una più con-ciliante. Presto, il campo di battaglia delle lotte religiose si sposta dal-l’esterno all’interno della Chiesa. Il paganesimo, capace ancora nel ivsecolo di sommovimenti anticristiani, e che sopravvive nel vi secolo inambienti assai diversi (dalle cerchie di letterati più o meno monoteistiai culti rurali dell’Anatolia), resta per la legislazione imperiale un sog-getto da tener d’occhio, ma non rappresenta più una minaccia: il falli-mento di Giuliano mette fine a ogni prospettiva di restaurazione del po-

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96 Le istituzioni dell’Impero

liteismo di Stato; la proibizione dei culti pagani, pubblici o privati, è de-finitiva dopo il 392, e dopo il 416 i pagani sono estromessi dalle funzio-ni pubbliche. Ricusato nell’Oriente romano sotto il nome di errore «el-lenico», il paganesimo rappresenta ormai per l’Impero un’aberrazionemeno pericolosa del cristianesimo dissidente. Di fronte alle controver-sie cristologiche, la politica religiosa imperiale si ridefinisce da un regnoall’altro in base alle scelte del sovrano. La militanza di un Costanzo IIper l’arianesimo, quella di un Anastasio per il monofisismo, rischiano,a causa delle resistenze che provocano in seno alla Chiesa imperiale, didisgregare la coesione dell’Impero, ma anche l’«ortodossia» di un Teo-dosio I o di un Marciano non suscita maggiormente l’unanimità. Né lapolitica di neutralità di uno Zenone né la suddivisione dei ruoli all’in-terno della coppia regnante (Giustiniano che favorisce i calcedoniani,Teodora i monofisiti) hanno saputo risolvere questo problema. Parados-so di un Impero cristiano, l’istituzione imperiale non è al riparo del rim-provero di eresia, unica forma di contestazione del regime teoricamen-te accettabile.

Quali che siano le sue convinzioni, il «piissimo» imperatore non puòsostituire legittimamente la propria autorità a quella della Chiesa. Nonpotendo deliberare in materia di fede (benché Giustiniano abbia lascia-to alcune opere teologiche)1, gli spetta l’iniziativa di convocare i vesco-vi in un concilio ecumenico. Ad eccezione di Efeso, la riunione ha luo-go preferibilmente nelle vicinanze di Costantinopoli (Nicea, Calcedo-nia) o, a partire dal 536, nella stessa capitale. Seguendo il modello in-staurato da Costantino a Nicea, nel 325, i lavori conciliari si svolgonosotto la presidenza dell’imperatore in persona (a Calcedonia, Marcianopronuncia un’allocuzione di chiusura) o, solitamente, di commissari im-periali incaricati di condurre i dibattiti e di riferirne alla Corte. Le de-cisioni conciliari, unanimi per definizione, sono di per sé fonti di dirit-to, che si tratti di articoli di fede o di disciplina (i canoni), oppure di mi-sure personali concernenti singoli vescovi. La legislazione imperiale, chene costituisce il braccio secolare, non fa che confermare le decisioni deivescovi mettendo la forza pubblica al servizio del diritto della Chiesa.

3. L’ordine senatorio al servizio dello Stato.

Nell’equilibrio istituzionale del tardo Impero, il ruolo fondamenta-le attribuito al Senato differisce, in particolare in Oriente, da quello cheera stato in passato. La base sociale e la destinazione ne sono state, in-fatti, profondamente trasformate a partire da Costantino. Rompendo

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con una tendenza attestata nel iii secolo, portata al suo culmine da Dio-cleziano, che aveva affidato all’ordine equestre la maggior parte dellefunzioni governative, Costantino ha moltiplicato le cariche di rango «cla-rissimo», implicando così l’appartenenza all’ordine senatorio. Mezzo se-colo più tardi, è completato lo smantellamento dell’ordine equestre (èsolo nella burocrazia subalterna che si perpetuano tracce della sua tito-latura); l’alta amministrazione imperiale, centrale e provinciale, milita-re e civile, fa ipso facto parte dell’ordine senatorio, e chi non è senatorelo diviene ricevendo i codicilli della propria funzione.

Il Senato insediato a Costantinopoli dal suo fondatore non è rima-sto a lungo una replica minore del Senato di Roma, dichiaratamente se-condario e limitato a responsabilità locali. A partire da Costanzo II, al-cune promozioni massicce portano a 2000 il numero dei senatori dellaNuova Roma, i quali, salvo qualche trasferimento da Roma a Costanti-nopoli, sono perlopiù d’origine orientale. Dal momento che non è richie-sto alcun criterio di nascita, i nuovi senatori possono essere d’estrazio-ne modesta, in particolare tra gli alti funzionari. La maggior parte, co-munque, viene dalle élites municipali ed è di un livello sociale sufficienteper assumere le spese della pretura, che, salvo dispense, condiziona an-cora l’accesso al Senato.

Chiamato a costituire una nuova aristocrazia, votata all’amministra-zione dell’Impero, in Oriente l’ordine senatorio non forma una castaereditaria e permette un sostanziale rinnovamento delle élites. Infatti,benché i patrimoni senatorî si trasmettano con i loro privilegi, e i lorooneri, le dignità acquisite dalle singole persone non sono ereditarie. InOriente è più difficile vedere, rispetto all’Occidente, dinastie di sena-tori che accumulano, di generazione in generazione, prefetture e conso-lati. L’accesso all’ordine rimane, nel v e nel vi secolo, largamente aper-to a homines novi, spesso reclutati al più alto livello senza considerazio-ne del cursus honorum – a differenza delle carriere burocratiche, tenutea percorrere strettamente la scala dei vari gradi (matricula). Il principepuò ora, come Costanzo II, elevare alla prefettura modesti burocrati;ora (come Giustiniano si riserva esplicitamente di fare) destinare altifunzionari a funzioni di rango inferiore.

Il Senato, comunque, è ben lontano da limitarsi al personale dell’al-ta amministrazione: a fianco degli alti funzionari in servizio effettivo,comprende ex funzionari detti vacanti (in congedo o in attesa di un nuo-vo incarico), nonché un numero crescente di senatori onorari, provvistinominalmente di un titolo di funzione pur non avendolo esercitato. Sot-to il regno di Valente, il massiccio sviluppo dell’ordine senatorio inOriente comporta la medesima ristrutturazione che ha luogo in Occi-

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98 Le istituzioni dell’Impero

dente. Da allora, i senatori sono distinti in tre classi, che corrispondo-no a tre livelli di funzioni nell’apparato dello Stato: alla base i clarissimi(di cui fanno parte quasi tutti i governatori provinciali), più in alto glispectabiles (vicari, duces), al culmine gli illustres (prefetti, magistri mili-tum, altri membri del concistoro). Gli ex amministratori conservano, atitolo vacante, la dignità connessa alla loro funzione. A livello più am-pio, all’interno dell’apparato di Stato (ma anche al di fuori) le dignitàconnesse alle funzioni civili o militari possono essere conferite, a titoloonorario, tramite dono o vendita dei codicilli di nomina. Così, il cam-mino più breve per accedere all’illustrato è, a partire dalla metà del vsecolo, l’acquisto a titolo onorario del brevetto – per nulla riservato aimilitari – di comandante della Guardia (comes domesticorum), mentreun titolo onorario di comes del concistoro conferisce soltanto il rango dispectabilis. Una legislazione affinata incessantemente regola le preceden-ze, avvantaggiando, a parità di titolo, i funzionari effettivi su quelli ono-rari e tenendo conto, tra i primi, dell’anzianità delle funzioni esercita-te [Delmaire 330].

La scala delle dignità, generalmente parallela a quella delle funzioni,culmina però con due distinzioni prive di competenza amministrativa:il consolato e il patriziato. Nel tardo Impero, il consolato ha cessato dalungo tempo di essere una magistratura, ma comporta ancora (oltre al-l’onore di legare l’anno al proprio nome) l’obbligo, estremamente gra-voso per un privato, di organizzare i giochi e le distribuzioni del 1º gen-naio. Dopo Basilio, nel 541, il consolato ordinario sarà rivestito solo, ditanto in tanto, dall’imperatore. Tuttavia, a partire dal regno di Zeno-ne, si può acquistare il titolo di console onorario (exconsul). A differen-za del consolato ordinario, il consolato onorario resta inferiore al patri-ziato. Quest’ultimo titolo, onorario per definizione, sfugge alla gradua-le svalutazione degli altri a causa della sua rarità, dal momento chel’imperatore conferiva il titolo di patrizio solamente a qualche altissimofunzionario al culmine della carriera.

Per il tramite di queste dignità, l’ordine senatorio ha finito per inte-grare, sotto il nome di honorati, i vertici delle élites provinciali. Esenta-ti da certi oneri personali (legati in particolare alla condizione curiale),dotati di prerogative in materia giudiziaria, gli honorati formano unaclasse privilegiata, troppo numerosa, tuttavia, per confondersi con l’as-semblea senatoria, la cui composizione ha dovuto essere ristretta. Sot-to Giustiniano, occorre il rango di illustris per avere diritto di parola inSenato. Il presidente dell’assemblea è, come a Roma, il prefetto dellaCittà. A differenza, tuttavia, della pars Occidentis, il cui sovrano non ri-siede più a Roma e dove l’assemblea si vede relegare a un ruolo piutto-

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sto locale, il Senato di Costantinopoli, la cui sede è vicina al Palazzo, re-sta intimamente legato al funzionamento dello Stato, sia per le funzio-ni affidate ad alcuni dei suoi membri, sia per le attribuzioni che gli so-no proprie. Erede della tradizione romana, garante della legittimità im-periale, il Senato svolge pienamente questo ruolo in occasione dell’ele-zione dell’imperatore, che solo in un secondo tempo viene ratificata dal-le acclamazioni del popolo e dell’esercito. Le riunioni ordinarie (conven-tus) del Senato sono consacrate soprattutto a questioni che toccano l’or-dine senatorio e il suo reclutamento. Per gli affari di Stato, l’imperato-re può convocare il Senato in sessione congiunta con il concistoro. Inmateria legislativa, il Senato riceve dall’imperatore costituzioni di for-ma particolare (orationes ad senatum). Più in generale, è associato, daltempo di Teodosio II, alla promulgazione delle leggi. Assiste inoltre l’im-peratore nell’esercizio della sua giurisdizione, in particolare nei proces-si per alto tradimento.

4. Funzioni e organi del governo centrale.

Le istituzioni governative stabilite sotto Costantino, in rottura conquelle dell’alto Impero, fondano l’azione dello Stato su nuovi principî enuovi mezzi. La stretta separazione delle autorità civili e militari istitui-sce due gerarchie amministrative, parallele ma al contempo interdipen-denti, giacché l’amministrazione fiscale civile ha la responsabilità dellariscossione e del versamento dell’annona militare. D’altra parte le am-ministrazioni centrali (e a un livello inferiore provinciali) dispongonoormai di una burocrazia relativamente numerosa e specializzata, adattaa rafforzare l’efficacia del potere imperiale.

4.1. I l pr imato del la f i sca l i tà .

Strumento indispensabile all’azione dello Stato, la fiscalità condizio-na alcuni tratti fondamentali della società e del funzionamento dell’Im-pero. Rigidità accresciuta delle condizioni sociali, responsabilità collet-tiva degli ordini costituiti (professionali o civici), accrescimento dellaburocrazia cercano di garantire innanzitutto l’efficacità dell’esazione edella redistribuzione delle tasse. Il principio di costrizione personale edi eredità delle condizioni si estende dal colonato (coltivatori liberi, malegati alla terra) all’ordine curiale che compone i consigli municipali. Duegrandi organismi, il Senato e il clero, figurano apparentemente come or-dini privilegiati, ma le esenzioni conferite ai loro membri sono solamen-

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te personali e non ereditarie, e la legislazione si preoccupa di restringe-re l’accesso dei curiali all’immunità. Spetta infatti ai notabili delle città,piccoli o grandi proprietari, di assumersi (di concerto con i funzionariprovinciali) il ruolo di esattori.

A livello amministrativo, la divisione costantiniana dell’antico fiscustra finanze dello Stato e Tesoro imperiale comporta la separazione trafiscalità annonaria (competenza della prefettura del pretorio) e fiscalitàpalatina («largizioni» e res privata). All’origine, l’annona è raccolta innatura, le altre tasse in moneta. Questa distinzione tende tuttavia a sva-nire con la progressiva monetarizzazione (adaeratio) dell’intera fiscalità,comprese le derrate annonarie (grano, vino ecc.) convertite alla tariffaufficiale.

La moltiplicazione delle istituzioni amministrative non modifica dimolto l’imponibile fiscale: qualunque ne sia la destinazione a livello dibudget, le imposte dirette restano essenzialmente basate sulla proprietàfondiaria. L’antica distinzione tra tassa sulla testa (capitatio) e tassa sul-la terra (iugatio), calcolate rispettivamente sul numero di animali e per-sone e sulla superficie dei terreni, finisce anch’essa per sfumarsi, conl’apparizione, a partire dal iv secolo, di un’unità di imponibile mista chepermette la sommatoria delle due cifre (iugatio-capitatio, in greco zy-gokephalon). Accatastamento e censimento tengono il passo dei muta-menti; e per quanto concerne il tariffario delle imposte, varia a secon-da delle regioni e della qualità dei terreni e delle colture. L’anno fisca-le, o indizione, comincia a settembre (ad eccezione dell’Egitto) e a partireda Diocleziano si integra in un ciclo di quindici anni che resterà una del-le strutture fondamentali della cronologia bizantina. Al termine di treversamenti quadrimestrali, viene rimessa al contribuente una ricevutariassuntiva, che fa risultare contemporaneamente le unità d’imponibilee gli importi percepiti, principalmente a titolo dell’annona o delle largi-zioni.

La fiscalità non fondiaria, basata esclusivamente su contribuzioni indenaro, colpisce soprattutto le attività professionali urbane (è il caso delcrisargiro, abolito nel 498) e il commercio, interno o con l’estero. I di-ritti doganali percepiti alle frontiere, per esempio sulla seta importatadalla Persia, dipendono in ciascuna diocesi da un comes dei commercia,o «commerciario» (che non ha ancora le estese prerogative del funzio-nario omonimo del vii-viii secolo). I diritti riscossi dai commerciari, co-me la maggior parte delle imposte indirette, vanno normalmente alle lar-gizioni e non alla prefettura, ma questo non pregiudica la loro destina-zione finale: così il commerciario d’Oriente contribuisce, sotto Anasta-sio, all’appannaggio del dux di Mesopotamia.

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La coesione dei diversi dipartimenti del governo imperiale permettein effetti allo Stato di gestire in maniera centralizzata l’insieme delle en-trate e delle uscite fiscali. Nell’ambito di ciascuna prefettura, un bud-get globale fissa l’ammontare delle entrate (oggetto in ciascuna provin-cia di un ordine di ripartizione, o delegatio) e contemporaneamente laloro destinazione: ciascuna città sa in anticipo a quali voci del budgetcorrispondono i propri versamenti, in natura o in oro. In particolare, ladestinazione in massa del grano fiscale egiziano (l’embole) all’approvvi-gionamento di Costantinopoli ha permesso di dotare la nuova capitaledi una popolazione a misura della «città regina».

Le città ordinarie, un tempo autogestite, nel corso del iv secolo si so-no viste confiscare gli introiti delle rispettive proprietà e delle tasse lo-cali (vectigalia). Il budget delle città è ormai poco più di un capitolo diquello dell’Impero, che stabilisce le entrate necessarie ai loro bisognicorrenti. Solo le largizioni possono, in caso di catastrofe, contribuire al-le spese della ricostruzione. Le Chiese delle singole città beneficianougualmente del supporto finanziario dello Stato, per il tramite di esen-zioni e dell’assegnazione di rendite fiscali permanenti, senza contare glioccasionali donativi dell’imperatore.

Se i bisogni locali assorbono probabilmente la maggior parte degli in-troiti, il finanziamento dell’apparato statale fa d’altra parte pesare sulbilancio un carico commisurato al numero crescente di funzionari. Il ser-vizio pubblico, che è una militia come quello dell’esercito, ha come re-munerazione di base l’annona, originariamente in natura e poi adaeratain moneta d’oro a partire da Teodosio II. I titolari degli alti livelli del-l’amministrazione, centrale e provinciale, beneficiano di stipendi eleva-ti, che escludono normalmente ogni rendita supplementare. I funziona-ri dei loro servizi, invece, si devono accontentare di annone modeste esono autorizzati a percepire, nell’esercizio delle proprie funzioni, grati-ficazioni (o sportule) il cui ammontare è fissato dalla legge, ma che gra-vano sugli utenti.

4.2. Un organigramma complesso.

L’edificio amministrativo del tardo Impero è tuttavia ben lungi dalpresentare una struttura strettamente logica, e a prima vista vi si puòscorgere (secondo i termini di Stein [151, II, p. 479], a proposito del-l’Egitto sotto Giustiniano) «una sconcertante eterogeneità di funzionisovrapposte e giustapposte». Infatti, anche a livello del governo centra-le, è raro poter attribuire a un’unica istituzione la responsabilità inte-grale di un settore determinato dell’amministrazione. La fiscalità, per

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esempio, dipende non solo dalla prefettura del pretorio (che gestisce lamaggior parte del budget statale), ma anche da due ministeri palatini, lelargizioni e la res privata. I governatori provinciali e i loro uffici sono, ingenerale, subordinati alla prefettura, ma certi dipartimenti (ivi compre-so l’officium del prefetto stesso) hanno a capo un princeps nominato dalmagister officiorum, che ne riceve dei rapporti. In maniera analoga, l’am-ministrazione militare dipende dai magistri militum, ma, in materia giu-diziaria, i duces sono personalmente giudicabili dal tribunale del magi-ster officiorum, ed è sempre quest’ultimo che esamina in appello le sen-tenze emesse dai duces. Sono singoli esempi di una complessità inerenteal sistema: il groviglio di competenze rispecchia non tanto una struttu-ra difettosa, quanto un metodo di governo fondato sul reciproco con-trollo delle differenti branche dell’amministrazione.

Se si eccettua l’alto stato maggiore dei magistri militum praesentales[cfr. cap. v], il governo dell’Impero è costituito, al livello più elevato, indiretta prossimità dell’imperatore, da almeno due istituzioni fondamen-tali: la prefettura del pretorio, da cui dipende tutta l’amministrazioneprovinciale, e i ministeri della Corte, ossia le istituzioni civili palatine,al primo livello delle quali figura, a partire da Costantino, il magister of-ficiorum. Malgrado alcuni sconfinamenti nella struttura statale, in par-ticolare nell’ambito finanziario, la Camera imperiale (cubiculum) e i suoidignitari eunuchi occupano nel sistema amministrativo una posizionemarginale. L’una o l’altra di tali istituzioni è stata in grado di esercita-re, a seconda delle circostanze e delle personalità, un’influenza politicapreponderante. Cionondimeno, il primato della prefettura, riconosciu-to dai contemporanei, è connaturato alla struttura stessa delle istituzio-ni. Conviene pertanto, innanzitutto, definire le rispettive competenzedella prefettura e delle istituzioni palatine, anche se il loro intrecciarsinon giustifica del tutto l’espressione di «parallelismo costituzionale del-l’amministrazione imperiale e dell’amministrazione prefettizia» [Stein151, II, p. 465].

4.3. La prefettura del pretor io.

Ancora dotata, sotto la Tetrarchia, di competenze militari e civili, apartire da Costantino la prefettura del pretorio ha una funzione pura-mente civile (senza peraltro perdere il simbolico diritto di portare la cla-mide e la spada). I prefetti non appartengono più all’ordine equestre (perquanto, ancora nel vii secolo, si fregino del titolo di eminentissimus) maal Senato, dove molti raggiungono le più alte dignità, il consolato o ilpatriziato. Ufficialmente qualificata come «magistratura suprema» (si

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dice che non sia seconda che alla funzione imperiale), la prefettura go-de, nel cerimoniale della Corte, di distinzioni che le sono peculiari. Ineffetti, costituisce ormai il coronamento della gerarchia amministrati-va, al contempo fiscale e giudiziaria.

Dal punto di vista geografico, l’Impero è diviso in più prefetture, ilnumero e i confini delle quali si stabilizzano solo verso la fine del iv se-colo. Suddivisa in ambiti di competenza praticamente indipendenti, lafunzione prefettizia costituisce nondimeno, in teoria, un’istituzione uni-ca, esercitata simultaneamente da un collegio di prefetti. Il prefetto d’O-riente, in genere, emette le proprie ordinanze a nome del collegio inte-ro e menziona per nome i colleghi come coautori dei propri atti. In realtà,l’autonomia gestionale dei prefetti è resa inevitabile dalla regionalizza-zione delle loro competenze e dalla distanza che separa le loro rispetti-ve sedi. Nessuno dei prefetti dipende da un altro, ma la preminenza del-la prefettura d’Oriente è manifesta: è l’unica ad aver sede a Costanti-nopoli, e ciò rende il suo titolare in grado di esercitare un ruolo politicodecisivo; e del resto l’estensione del suo dominio (la metà orientale delbacino mediterraneo) sorpassa di gran lunga quella degli altri.

Il doppio ruolo, fiscale e giudiziario, della prefettura si espleta nel-l’organizzazione dei dipartimenti che formano l’officium prefettizio – ilcui modello viene applicato, in scala ridotta, agli officia dei governatoriprovinciali. La gran quantità di incombenze, commisurata al numero diprovince gestite da ciascuna prefettura, giustifica il numero relativamen-te elevato dei suoi funzionari: circa 400 per la modesta prefettura afri-cana creata nel 533, forse quattro volte tanto per quella d’Oriente, sen-za contare i soprannumerari. Organo centrale di gestione delle finanzepubbliche, il dipartimento finanziario della prefettura stabilisce il bud-get dell’Impero: fissa e ripartisce l’ammontare delle tasse, controlla l’e-sazione fiscale (compreso quanto destinato a casse differenti dalla pro-pria, quelle delle largizioni o della res privata), regola la destinazione el’esecuzione delle spese. Come riflesso della ripartizione territoriale del-l’Impero, l’amministrazione centrale delle finanze è divisa in direzioniregionali (grandi uffici o scrinia ricalcati sulle diocesi), suddivise in sot-to-direzioni provinciali (ciascuna provincia è generalmente sottoposta alcontrollo di un tractator). La fiscalità locale, gestita a livello diocesanodai vicari e a quello provinciale dai governatori, è di conseguenza sotto-posta perdipiù a un controllo centralizzato. A fianco dei servizi finan-ziari, la cui integrazione all’officium è relativamente recente, il diparti-mento giudiziario è il più prestigioso tra gli uffici prefettizi. Il tribuna-le del prefetto è, infatti, la suprema istanza d’appello: dal momento chegiudica in luogo dell’imperatore (vice sacra), le sue sentenze non sono su-

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104 Le istituzioni dell’Impero

scettibili di ricorso. Ai margini della propria giurisdizione, la cancelle-ria del prefetto si occupa di una quantità di richieste di collettività o pri-vati, che raccomanda, secondo il caso, all’attenzione dell’imperatore.

Il prefetto del pretorio, soprattutto quello d’Oriente, partecipa piùdi qualunque altro ministro all’elaborazione del diritto imperiale. Le sueproposte di legge (suggestiones) sono all’origine di numerosissime costi-tuzioni, particolarmente nell’ambito dell’amministrazione provinciale:è così che Giovanni di Cappadocia fornisce il proprio impulso alle rifor-me amministrative di Giustiniano, in parte revocate dopo la caduta ditale prefetto nel 542. Che ne sia o meno l’ispiratore, il prefetto del pre-torio è il destinatario obbligato di quasi tutte le costituzioni, con il con-seguente dovere di diffonderle per via gerarchica e di assicurarne, se ne-cessario, la pubblicazione nelle province. Tale procedura di promulga-zione delle leggi è accompagnata da editti esplicativi emessi dalla pre-fettura, di solito apposti in calce al testo della legge. Inoltre, nel quadrodella legislazione esistente, la prefettura promulga autonomamente or-dinanze di natura regolamentare, alcune delle quali sono state compila-te dai giuristi del vi secolo, se non addirittura annesse a raccolte di no-velle imperiali.

4.4. I minister i pa lat ini .

Direttamente connessi al Palazzo, dove, a differenza della prefettu-ra, si trova la sede dei loro servizi, quattro alti funzionari occupano leprincipali cariche cosiddette «palatine»: il magister officiorum, le cui este-sissime funzioni vanno dalla Guardia imperiale agli affari esteri; il que-store del Palazzo, che assiste l’imperatore nel suo ruolo legislativo; i duecomites delle largizioni e della res privata, alti funzionari finanziari indi-pendenti dalla prefettura. Tutti di rango «illustre» dalla fine del iv se-colo, sono fin dall’origine membri permanenti del consiglio imperiale, oconcistoro.

a. Il «magister officiorum».

Il magister officiorum esercita, dopo i prefetti, il ministero più impor-tante. La sua influenza è tanto più grande in quanto la funzione è indi-visa (mentre invece la prefettura è regionalizzata) e l’incarico è spessodi lunga durata (fino a trentun anni per Pietro Patrizio, sotto Giustinia-no). Le sue molteplici competenze toccano la maggior parte degli ambi-ti governativi, ad eccezione delle finanze. Alla Corte, organizza il lavo-ro del concistoro e le cerimonie che vi si svolgono (nomine di funziona-ri, ricevimenti di ambasciatori…), ma il suo ruolo non si limita alla

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capitale. Il magister officiorum controlla anche certi uffici provinciali, ilcui capo (princeps) fa parte dei suoi agenti. La sua giurisdizione vige, na-turalmente, a Corte, dove soldati della Guardia, membri degli uffici pa-latini e servitori della Camera hanno il privilegio di averlo per giudice;si estende inoltre ai militari delle province, giacché i duces sono giudi-cabili dal suo tribunale ed egli ne giudica in appello le sentenze. Il ma-gister officiorum è d’altro canto il capo della diplomazia, incaricato di ri-cevere le ambasciate e di inviarne a sua volta, quando non gestisca inprima persona i negoziati presso il re persiano o altri sovrani.

Per assisterlo in questi compiti, il magister officiorum dispone dei di-partimenti del proprio officium, tra cui quello delle fabbriche d’armi equello dei barbari; soprattutto, sovrintende a tre importanti categoriedi funzionari: gli uffici propriamente palatini che costituiscono la can-celleria imperiale (sacra scrinia); il corpo dei notai imperiali; quello degliagentes in rebus. Il passaggio da un corpo all’altro è in linea di massimaproibito, salvo che per i notai. Le rispettive competenze, tuttavia, nonsono prive di sovrapposizioni.

Gli uffici della cancelleria comprendono tre reparti principali [Del-maire 335, pp. 65-73]: lo scrinium della memoria, quello delle lettere equello dei libelli. Ciascuno è diretto da un magister, di rango spectabilisa partire dalla fine del iv secolo, che talora, a causa delle proprie funzio-ni, si rivela predisposto a divenire questore del Palazzo. I tre reparti sidividono il disbrigo delle varie richieste indirizzate all’imperatore, se-condo la forma richiesta in ciascun caso; si suddividono allo stesso mo-do la preparazione dei brevetti di nomina (probatoriae) della maggior par-te dei funzionari. È dai loro ranghi che il questore attinge i propri col-laboratori, per assisterlo nella redazione delle leggi e nella giurisdizioned’appello che gli è propria.

I notai imperiali, organizzati militarmente (donde il titolo di «tribu-no dei notai» conferito a certuni di essi, o – a titolo onorario – anche aldi fuori del loro corpo), sommano alla propria funzione primaria di se-gretari del concistoro le missioni alquanto diversificate che vengono lo-ro affidate. La cura del sommo registro delle funzioni civili e militari, illaterculum maius, costituisce un’incombenza del loro capo, il primiceriodei notai, che, per consegnar loro i codicilli del loro incarico, riceve da-gli interessati cospicue gratificazioni. (Un registro minore o laterculumminus, limitato a qualche unità militare, è tenuto dal questore).

Gli agentes in rebus sono i subordinati per eccellenza del magister of-ficiorum (donde il loro nome greco di magistrianoi). Dal numero limita-to per statuto, a partire da Leone, a 1248 posti (CI, 20.20.3), esercita-no le proprie missioni soprattutto nelle province, come messaggeri del-

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106 Le istituzioni dell’Impero

l’imperatore o, in particolare, ispettori della posta e delle dogane marit-time (curiosi). Dal corpo degli agentes sono tratti i capi (principes) di cer-ti uffici militari o civili di alto livello (numerosi duces e vicari), ivi com-preso lo stesso officium del prefetto del pretorio. Il magister officiorumottiene per questo tramite una voce in capitolo su tutta l’amministra-zione provinciale.

Dal momento che la prefettura era divenuta puramente civile in se-guito alla dissoluzione dei pretoriani decisa da Costantino, è al magisterofficiorum (e non allo stato maggiore dei magistri militum) che spetta ilcomando dei sette reggimenti, o scholae palatine, che ormai costituisco-no la Guardia imperiale. Dai loro ranghi vengono i 40 candidati, élitedella Guardia dal ruolo puramente cerimoniale. Dal magister officiorumdipendono ugualmente le scuderie del Palazzo. Tuttavia due ulterioricorpi, destinati alla protezione ravvicinata dell’imperatore, sfuggono al-l’autorità civile: i protectores domestici, comandati dal comes dei dome-stici, ufficiale di rango «illustre», e gli excubitores, incaricati dal tempodi Leone della guardia effettiva del Palazzo, sotto gli ordini del comesdegli excubitores. Anche al di fuori della capitale, il magister officioruminterferisce talora con l’autorità militare: si è già citata la sua giurisdi-zione sui duces, ed è d’altro canto a capo delle fabbriche d’armi, ripar-tite, per quanto riguarda l’Oriente, in una dozzina di città, nonché deiloro impiegati (fabricenses), così come dei magazzini dell’Arsenale impe-riale (armamentum).

b. Il questore del Palazzo.A paragone del magister officiorum, le cui molteplici competenze so-

no servite da altrettanti ordini di funzionari specializzati, gli altri mini-stri palatini, suoi pari in dignità, esercitano funzioni più ristrette, giu-ridiche per il questore, finanziarie per i due comites. Inoltre, l’assenzadi un officium permanente per quanto riguarda il questore e la mancan-za di autorità sui funzionari provinciali per quanto concerne i comitesfinanziari fanno sì che essi dipendano in una certa misura dal persona-le messo a loro disposizione sia dal magister officiorum, sia dall’ammini-strazione prefettizia.

Considerato come il portavoce dell’imperatore, il questore è innan-zitutto incaricato della redazione delle costituzioni imperiali, che con-trofirma obbligatoriamente a partire da Giustiniano. Questo incaricogravoso esige una duplice formazione, giuridica e letteraria, tanto in gre-co quanto in latino. Benché si presuma che i testi di legge siano emana-ti dall’imperatore in persona, talora presentano uno stile abbastanza ca-ratteristico da permettere, nel corso di un medesimo regno, di distin-

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guere tra i successivi questori [Honoré 326]. In ragione della loro com-petenza, questori ed ex questori, assistiti da commissioni da essi costi-tuite, sono stati i principali artefici della codificazione, sotto Giustinia-no come sotto Teodosio [cfr. p. 94]. Nella sua attività ordinaria, il que-store è aiutato solo da un piccolo numero di impiegati provenienti dagliscrinia imperiali (memoria, libelli e lettere). Consigliere giuridico del-l’imperatore, il questore esercita anche, a partire dal v secolo, la supre-ma giurisdizione d’appello. Quando giudica in nome dell’imperatore, èquasi sempre in seduta a fianco del prefetto del pretorio.

c. I «comites» finanziari.Le finanze imperiali, che Costantino aveva separato dalla fiscalità

annonaria, gestita dalla prefettura del pretorio, sono organizzate in duedipartimenti, Sacre largizioni e Patrimonio privato (res privata). Ciascu-no è diretto da un comes (comes sacrarum largitionum e comes rei priva-tae, indipendente dalla prima metà del iv secolo); alcuni comites dellelargizioni subalterni svolgono, a livello di diocesi, il ruolo di direttoridel Tesoro. Sotto Anastasio viene creato un terzo comes, quello del pa-trimonium (dipartimento separato dalla res privata), mentre la cassa per-sonale del sovrano (sacella), nella mani del sacellario, dipende in ultimaistanza dal preposito della Camera.

Mentre la fiscalità prefettizia è essenzialmente destinata ai bisognicorrenti dell’esercito e dell’amministrazione, i due comites finanziari han-no per vocazione di provvedere alle spese della Corte e alle iniziative delsovrano, per esempio l’oro versato ai barbari o le fondazioni monumen-tali dell’imperatore. Quanto alle risorse, la cassa del Patrimonio privatoè alimentata dalle rendite dei possedimenti della Corona, mentre le lar-gizioni beneficiano di molteplici canoni fiscali, diretti e indiretti.

I beni della Corona [Kaplan 339; Feissel 340; Delmaire 337, pp.218-33], distribuiti per tutto l’Impero, costituiscono un certo numerodi dipartimenti amministrativi, detti «case divine» (domus divinae), de-finiti non dalla geografia ma dall’origine dei beni: è il caso dei possedi-menti di Arcadia e di quelli di Marina, figlie di Arcadio, gestiti anco-ra sotto il loro nome due secoli dopo la loro morte. Inizialmente rac-cordate al Patrimonio privato, le case divine hanno ottenuto autono-mia nel corso del vi secolo, in quanto ciascuna era amministrata a par-tire da Costantinopoli da un curatore di altissimo rango, indipendentedai propri colleghi così come dal comes rei privatae. Quantomeno spe-rimentata in modo temporaneo alla metà del vi secolo (Giustino II,Nov., 1), la gestione centralizzata dell’insieme delle case sotto l’auto-rità di un sommo curatore, come avverrà nel ix secolo, sembra piutto-

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108 Le istituzioni dell’Impero

sto un fenomeno eccezionale in epoca protobizantina. Uno status par-ticolare è riservato ai possedimenti di Cappadocia, sempre parte inte-grante della res privata, ma le cui rendite sono destinate, a partire dalregno di Valente, alle spese della Camera imperiale. Da allora, la lorogestione è incombenza di un eunuco del cubiculum, detto comes dellecase di Cappadocia; nel 535, passa al governatore provinciale. Una ta-le frammentazione della gestione delle case porta, dopo Giustiniano,alla sparizione quasi totale della res privata.

L’amministrazione delle largizioni, malgrado la concorrenza crescen-te di altre istituzioni (prefettura del pretorio e della Città, cubiculum),conserva fino alla fine dell’Antichità le rendite della fiscalità fondiariache le sono proprie (tituli largitionales). Tuttavia, l’abolizione, da partedi Anastasio, del crisargiro – tassa sulle professioni – contribuisce al de-clino delle sue risorse, nonostante il trasferimento a suo vantaggio del-le rendite del patrimonium. I fondi raccolti in oro e argento, inoltratisotto forma di lingotti, alimentano le officine monetarie sotto l’autoritàdel comes delle largizioni, appoggiato da procuratori nelle differenti dio-cesi – ma il conio dell’oro si limita, in Oriente, a Tessalonica e Costan-tinopoli.

Gli impiegati al servizio dei comites finanziari portano il titolo di pa-latini. L’officium delle largizioni, il meglio conosciuto, sotto Giustinia-no non conta più di 443 posti, esclusi i soprannumerari. Tale effettivolimitato (paragonabile a quello della piccola prefettura d’Africa) si spie-ga con l’assenza del servizio giudiziario e, per attenersi alle finanze, colpiccolo numero di palatini in servizio nelle province. Questi ultimi, dalmomento che non hanno il diritto di procedere localmente a esazioni fi-scali, di cui è responsabile l’esecutivo provinciale (ossia l’amministrazio-ne prefettizia), hanno un ruolo di controllo e non di riscossione. Altrifunzionari delle largizioni sono responsabili, oltre che delle officine mo-netarie, delle miniere, delle cave e delle manifatture pubbliche i cui pro-dotti, come l’oro, il marmo, la seta, la porpora o il papiro, sono oggettodi un monopolio di Stato. La produzione di argenterie, anche privata,riceve il marchio del comes delle largizioni a partire dalla fine del v se-colo, prima di passare, a quanto sembra, sotto il controllo del prefettodi Costantinopoli verso la fine del vi secolo.

4.5. La Camera imperia le .

La Camera, o cubiculum, dai tempi di Costantino è gestita esclusi-vamente per mezzo di eunuchi, i cubiculari (e analogamente da cubicu-larie per l’imperatrice), assistiti da un personale subalterno non eunuco.

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Il prestigio dei dignitari eunuchi, inizialmente screditati, cresce paral-lelamente a un’influenza politica che viene innanzitutto incarnata dalprincipale tra essi, il praepositus sacri cubiculi. Sempre vicino all’impera-tore, al quale si rivolge liberamente, il preposito ha talora un peso deci-sivo nella nomina degli alti funzionari, se non nella successione imperia-le. Può succedere che un preposito (come Eutropio sotto Arcadio), pursenza assolvere formalmente a funzioni di governo, eserciti in realtà laconduzione degli affari di Stato. A partire dalla fine del iv secolo, il pre-posito prende posto, col rango di illustris, tra le prime personalità delloStato. La creazione, per Pulcheria, di un secondo preposito connesso al-l’imperatrice resterà in vigore, senza comportare il raddoppiamento del-le altre funzioni del cubiculum. Nel corso del iv secolo sono stati collo-cati sotto l’autorità del preposito diversi servizi, gli uni propriamentedomestici, altri tendenti a sconfinare negli ambiti di certi dipartimentidell’amministrazione. A capo dei servizi interni si trova il castrensis delSacro Palazzo, da cui dipendono i paggi, educati presso i paedagogia delPalazzo, e i servitori di ogni sorta, in particolare relativi alla tavola. Cer-ti cubiculari di alto rango dipendono, allo stesso modo, dal castrensis: ilcomes del guardaroba imperiale (comes sacrae vestis) ha nello specifico lacustodia delle insegne imperiali; i tre cartulari, nel vi secolo, redigonola maggior parte dei codicilli di nomina (in particolare quelli dei gover-natori) e ricevono a questo titolo delle sportule a tariffa fissa. Il corpodei trenta silenziari, capeggiati da tre decurioni, dipende dal preposito;incaricati dell’organizzazione delle sedute del concistoro e delle udien-ze, collaborano strettamente col magister officiorum.

Il settore finanziario è quello in cui l’influsso del cubiculum oltrepas-sa maggiormente i confini del Palazzo: un cubiculario, il comes domorum,a partire dal regno di Valente gestisce i possedimenti imperiali di Cappa-docia, le cui rendite fiscali sono destinate al cubiculum; dalla fine del vsecolo, la cassa personale dell’imperatore, o sacella, è amministrata da unsacellario, che entra in concorrenza con il comes rei privatae.

5. I quadri territoriali e l’amministrazione locale.

Il territorio dell’Impero presenta, nella sua geografia amministrati-va, tre livelli gerarchicamente sovrapposti: città riunite in province, aloro volta raggruppate, a partire dalla Tetrarchia, in diocesi e, nel cor-so del iv secolo, in prefetture regionali. Tale suddivisione vale per l’in-sieme delle funzioni statali, militari e civili. Anche la Chiesa ha plasma-to la propria gerarchia sul modello della città e della provincia, ma ha

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110 Le istituzioni dell’Impero

cionondimeno sviluppato, a un livello superiore, alcune strutture che lesono proprie, i patriarcati, la cui mappa non coincide né con quella del-le diocesi, né con quella delle prefetture.

La città, agglomerato urbano e territorio secondo la definizione an-tica, rimane la cellula essenziale dell’Impero protobizantino, per quan-to nel suo funzionamento interno e nella sua articolazione si evolva dipari passo con l’amministrazione centrale. Neppure le strutture statalisono rigide: la sistemazione delle prefetture regionali si estende per piùdi mezzo secolo e il loro numero continua a variare, soprattuto a causadelle vicissitudini dell’Occidente; al di sotto di esse, il livello diocesanosoffre fin dall’origine di una debolezza strutturale che condurrà quasiovunque alla sua sparizione; le circoscrizioni provinciali sono anch’essesottoposte a ridefinizioni, spesso accompagnate da un mutamento di sta-tus dei loro governatori.

5.1. Città e i st i tuzioni municipal i .

La rete delle città, mosaico di territori municipali confinati da quel-li delle città contigue, copre pressappoco l’intera estensione dell’Impe-ro. Tale constatazione è limitata non tanto da alcune eccezioni di por-tata limitata, quanto dalla densità assai ineguale, da una regione all’al-tra, del numero delle città. Certo permangono, in alcune provincedall’urbanizzazione tardiva (come la Palestina e l’Arabia), territori dal-lo statuto non municipale: a fianco di villaggi autonomi o vici (gr. ko-mai), le regiones, i saltus e i tractus (gr. klimata) sono spesso, all’origine,possedimenti imperiali. Altrove, come in Cappadocia, il territorio del-la città può includere possedimenti imperiali, senza che ciò metta in cau-sa la separazione tra gestione demaniale e gestione municipale. Dipen-dono ugualmente dal territorio municipale alcuni villaggi più o meno au-tonomi, particolarmente in materia fiscale. Se si eccettuano questi casiparticolari, l’Impero d’Oriente annovera in totale, secondo il Synekde-mos, 935 città per 64 province, ma il numero delle città e (a contrario)le dimensioni del loro territorio variano notevolmente a seconda delleregioni. Il vecchio mondo greco di area egea presenta la più forte con-centrazione di città, soprattutto nella provincia di Ellade (Acaia), con79 città d’importanza, talora, assai modesta. All’opposto, per lungo tem-po la Mesopotamia non ha avuto altra città che Amida.

Il regime municipale, pressappoco universale (anche in Egitto, a par-tire dalla Tetrarchia), è inoltre divenuto sempre più omogeneo. La di-versità degli statuti originari ha lasciato ben poche tracce che non sianopuramente formali, ma questa uniformità crescente non ha fatto scom-

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parire un vivo sentimento di fierezza poliade, tratto permanente dellecomunità greche, fondato sulla memoria di tradizioni locali (attraversouna letteratura mitologica di Patria, parallelamente a un’agiografia cri-stiana di stampo campanilistico) e sulle tenaci rivalità fra centri di unamedesima provincia. Tali tratti si riflettono, come nel passato, nella ti-tolatura ufficiale delle città. Lo statuto di colonia romana non è più sta-to conferito dopo il iii secolo, ma le città che se lo possono permettereinalberano il titolo di colonia ancora nel v secolo (Tiro), nel vi (Petra),addirittura nel vii dopo la conquista araba (Gadara); tale statuto colo-niale non è solamente nominale, giacché due magistrature caratteristi-che, il duumvirato (detto «strategia») e la questura, persistono in Orien-te ancora nel v secolo. Una gradazione di titoli onorifici viene applica-ta alle città come alle persone: molte sono dette «brillanti», alcune«splendide», mentre invece il titolo di megalopolis, oltre che per Romae Costantinopoli, è impiegato regolarmente solo per Antiochia e Ales-sandria. Numerose città aggiungono, almeno temporaneamente, un no-me d’imperatore o d’imperatrice al loro nome tradizionale (si conosco-no una trentina di Giustinianopoli). Lo status più ambito, il cui interes-se risulta più tangibile, è tuttavia quello di metropoli provinciale, checomporta la residenza del governatore e quella dell’arcivescovo metro-politano. In mancanza di tali vantaggi, le metropoli onorarie, che si era-no moltiplicate nel corso del principato, cercano una nuova forma d’in-dipendenza nelle istituzioni della Chiesa: ottenendo il rango di arcive-scovato onorario (senza vescovi suffraganei), certe città arrivano, nelcorso del v secolo, ad affrancarsi dalla tutela del metropolita provincia-le – preludio, in qualche raro caso, alla creazione di una nuova provin-cia ecclesiastica, che non comporta la divisione della provincia civile.

Pur cosciente della propria identità, la città protobizantina è nondi-meno integrata in un sistema amministrativo che la trascende. Il suo fun-zionamento non è più quello di un’entità politica autonoma (malgrado leillusioni alimentate dalla retorica), ma di un organo di gestione locale po-sto sotto la tutela del potere centrale. La città, comunque, non è ammi-nistrata da funzionari statali: le élites municipali, non senza una serie disensibili cambiamenti dal iv al vii secolo, rimangono, a livello locale, unsostegno indispensabile del governo imperiale. Il declino delle istituzio-ni urbane tradizionali, con il loro variegato apparato di assemblee e ma-gistrature di origine greca o romana, sotto l’accresciuta pressione del po-tere centrale lascia il posto a un quadro più uniforme e più rigido: l’élitelocale assume una responsabilità collettiva nei confronti dello Stato, men-tre le antiche magistrature lasciano il campo (senza necessariamente mu-tare di nome) a incarichi obbligatori, i munera o liturgie.

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112 Le istituzioni dell’Impero

Dal momento che l’assemblea popolare svolge un ruolo poco più checerimoniale, l’organo dirigente della città è il suo consiglio, la curia obulè, costituita a seconda dei casi da qualche dozzina o centinaio di cu-riali (i decurioni o buleuti), il cui organico è dominato da un piccolo grup-po di «maggiorenti». La legislazione si preoccupa di assicurare la stabi-lità delle curie, impedendo o limitando l’accesso dei loro membri allecondizioni privilegiate dei senatori o degli ecclesiastici. Il corpo eredi-tario dei curiali ha infatti per funzione primaria quella di garantire l’e-sazione delle tasse, di cui è responsabile nei confronti dello Stato, e neaffida l’incarico a esattori (exactores) provenienti dai suoi ranghi.

Le cariche municipali sono assunte a turno da cittadini eletti. La cittàcontinua in effetti a gestire, malgrado la confisca nel iv secolo di unagran parte dei suoi beni (a profitto della res privata), quella parte di in-troiti fiscali che è destinata dallo Stato ai bisogni della vita urbana: edi-fici, bagni, spettacoli, approvvigionamenti ecc. Più che al pritano o pre-sidente della curia, la gestione municipale incombe soprattutto su duemagistrati, il curator e il pater civitatis. Non più rappresentante dello Sta-to, come un tempo il curator rei publicae, ma eletto localmente, il cura-tore della città è un ispettore finanziario (gr. logistes), responsabile tral’altro dei mercati. Il padre della città, che condivide con il curator la ge-stione dei fondi civici (ed è talvolta erroneamente confuso con lui), èper parte sua un amministratore locale incaricato dei lavori pubblici, conresponsabilità aggiuntive come quella dei magazzini di armi. L’acquistopubblico del grano spetta al sitones, altra carica elettiva di origine assaiantica; diverse liturgie hanno per oggetto, in particolare, gli spettacoli.A fianco di tali amministratori, la funzione giudiziaria del defensor civi-tatis (gr. ekdikos) è una creazione di Valente, mirante ad affidare a unmagistrato eletto localmente la risoluzione delle controversie minori.Giustiniano, nel 535, riforma l’istituzione nell’intento di ripristinarel’indipendenza del difensore della città nei riguardi dei governatori; incarica per due anni, è adesso eletto, seguendo un sistema originale di ro-tazione prestabilita, tra tutti i cittadini, senza immunità di rango né difunzione nello Stato (Nov., 15). Sempre di più infatti, a partire dal v se-colo, le cariche municipali hanno cessato di gravare unicamente sulle cu-rie per divenire appannaggio di un’élite sociale più elevata, quella deiproprietari terrieri, i possessores (gr. ktetores), in cui lo Stato trova le mi-gliori garanzie d’esecuzione degli obblighi pubblici. Spesso senatori, ea questo titolo personalmente affrancati dalla condizione curiale e daisuoi obblighi, i grandi proprietari sono nondimeno debitori dei muneraconnessi al loro patrimonio.

A fianco di tali responsabilità laiche, che non costituiscono tanto un

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contrappeso quanto un sostegno del potere centrale, l’equilibrio delleistituzioni municipali è profondamente modificato dal peso crescentedell’istituzione episcopale. Dal momento che la Chiesa fonda la propriagerarchia sulla rete delle città, ciascuna di esse ha di norma un vescovo,la cui elezione vede associati i laici con il clero. Di rimando, il vescovoe il clero partecipano alla scelta dei locali magistrati elettivi. Avendo asua disposizione, indipendentemente dalle istituzioni e dalle finanze ci-viche, risorse e servizi propri alla propria Chiesa, il vescovo esercita gra-zie al proprio programma edilizio un ruolo decisivo nella cristianizzazio-ne dello spazio urbano; oltre alle fondazioni religiose, coopera con il «pa-dre della città» in ogni sorta di lavoro pubblico. Intercessore naturaledella città nei confronti del potere imperiale, sa ottenere in caso di ne-cessità esenzioni o sovvenzioni. D’altro canto, la legislazione imperialegli riconosce una giurisdizione (l’episcopalis audientia) che non si limitaalle questioni canoniche. Quando, nel vii secolo, il declino delle élites edelle istituzioni municipali diviene inarrestabile, il vescovo è da moltotempo in grado di prenderne il posto.

5.2. Province e governator i .

Data l’assenza di funzionari a livello municipale, l’azione dello Sta-to si esercita direttamente sul piano delle province. La ristrutturazioneterritoriale operata da Diocleziano ha più che raddoppiato il numero del-le province rispetto a prima: più di un centinaio per tutto l’Impero, dicui una sessantina in Oriente. La suddivisione tetrarchica, fino a Era-clio, non è stata sottoposta a rimaneggiamenti d’importanza capitale.Alcune province sono state, tuttavia, nuovamente suddivise: da sei pro-vince al tempo della Notitia, la diocesi d’Egitto passa a dieci alla fine delvi secolo [Giorgio Ciprio 107]. Altre, più raramente, sono riunificate,come l’Onoriade e la Paflagonia sotto Giustiniano (Nov., 29).

Diocleziano, inoltre, ha messo fine alla distinzione tra le provinceimperiali e quelle cosiddette «del popolo romano»: tutti i governatori,adesso, sono funzionari imperiali e tutti, allo stesso modo, saranno pre-sto senatori. Le province, d’altro canto, non hanno tutte la medesimacondizione e amministrazione. Il loro rango è differente, a seconda del-la dignità connessa ai loro rispettivi governatori. Soprattutto, si distin-guono per la presenza o assenza di un governatore militare e per la re-lazione che tale governatore mantiene con il potere civile. A tal riguar-do, il quadro offerto dalla Notitia Dignitatum ha subito alcuni ritocchinel v secolo, ma l’evoluzione è percepibile soprattutto a partire da Giu-stiniano.

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114 Le istituzioni dell’Impero

La distinzione tra il titolo di praeses o quello, di poco superiore, diconsularis ha cessato di corrispondere, nel corso del iv secolo, a una di-visione tra ordine equestre (assai ridimensionato) e senatorio. Praesidese consolari sono senatori di rango modesto, semplici clarissimi. Tutta-via, un consolare conferisce alla propria provincia una certa distinzionee il numero di province di tale rango si accresce progressivamente. Incompenso, si fa in modo che le province aventi a proprio capo un pro-console, cui il rango di spectabilis conferisce una giurisdizione d’appel-lo, rimangano piuttosto rare: oltre ai tradizionali proconsolati d’Asia ed’Africa, al proconsolato d’Acaia istituito da Costantino e all’esperien-za passeggera di un proconsolato di Palestina (verso la fine del iv seco-lo), è solo con Giustiniano che si moltiplicherà il numero di governato-ri spectabiles.

Al di fuori delle province confinarie (designate col nome di limes),dove l’esercito di guarnigione è normalmente comandato e amministra-to da un dux, i governatori militari sono presenti solo in province sog-gette a un banditismo cronico: sul modello dell’Isauria, in Panfilia, Pi-sidia e Licaonia vengono creati dei comites militari nel corso del v seco-lo. I due governatori civile e militare, in caso di coabitazione, non sonosu un piano di parità. Innalzati dalla fine del iv secolo al rango di spec-tabiles, i duces hanno una condizione superiore a quella dei loro colleghicivili e la preponderanza è resa tanto più sensibile in quanto la compe-tenza ducale si estende a più di una provincia: le tre Palestine formanoun solo limes e anche l’Egitto annovera meno duces che province. D’al-tra parte, i due poteri sono stati, in certe province, riuniti per temponelle mani di una sola persona: il comes d’Isauria, per esempio, cumulafunzioni civili e militari. L’intreccio tra queste due branche del gover-no è tanto più stretto in quanto il dux gestisce una parte importante del-le finanze provinciali, destinate alle spese militari, e la sua giurisdizio-ne non si limita agli affari militari.

Un riequilibrio di tale complesso sistema ha luogo sotto Giustinia-no, che con una serie di leggi nel 535-36 (e, per l’Egitto, con l’edittoXIII nel 539) riforma l’amministrazione provinciale, elevando la con-dizione di varie province distribuite in diverse regioni dell’Impero. Ta-le promozione si esplica nell’attribuzione a una dozzina di province diun governatore di rango spectabilis, che porta il titolo di proconsole(Cappadocia I, Armenia I e III, Palestina, e anche Creta) o altre deno-minazioni più o meno innovative (comes, moderator, praetor). Lo scopodella riforma provinciale (inseparabile dalla contemporanea riforma del-le istituzioni sovraprovinciali e dall’abolizione, almeno temporanea, deivicariati della prefettura d’Oriente) è di migliorare al contempo il fun-

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zionamento della giustizia e la coordinazione delle funzioni civili e mi-litari.

Nella piramide delle istituzioni giudiziarie, praesides e consolari nongiudicano che in prima istanza, e solo i governatori di rango spectabilis(unicamente i proconsoli, prima di Giustiniano) esercitano una giurisdi-zione d’appello su province differenti dalla propria. Giustiniano, mol-tiplicando le corti d’appello e limitandone la competenza a un piccolonumero di province (al posto delle vaste diocesi precedentemente sotto-poste alla giurisdizione dei vicari), intende avvicinare il giudice alle par-ti in causa e alleggerire il carico dei tribunali della capitale.

D’altra parte, i nuovi governatori di rango spectabilis cumulano fun-zioni civili e militari (come in Tracia, in Cappadocia e nei cinque «du-cati» egiziani istituiti dall’editto XIII), o sono posti su un livello di pa-rità con il dux locale (come nella Palestina I). Tale cumulazione istitu-zionalizzata rimette in causa il principio di separazione tra amministra-zione civile e militare, in vigore dal tempo di Diocleziano. Gli sforzi diGiustiniano per rimediare alla perdita di prestigio dei governatori civi-li hanno avuto per effetto paradossale quello di comportare, in numero-se province, la sparizione di questi ultimi.

5.3. Le circoscrizioni sovraprovinciali: diocesi e prefetture.

La divisione delle grandi province ereditate dal principato, di cuiDiocleziano aveva pressoché raddoppiato il numero, fu compensata, alpiù tardi sotto Costantino, dalla creazione delle diocesi, nuove entitàregionali, ciascuna delle quali ricopriva un importante insieme di pro-vince: undici, per esempio, per la diocesi asiatica, altrettante per la dio-cesi del Ponto. La geografia diocesana ha conosciuto solo un cambia-mento di grande importanza, quando sotto Valente le province d’Egit-to hanno formato, sotto questo nome, una diocesi nuova, separata dallatroppo vasta diocesi d’Oriente che conta ancora, dopo questa data, quin-dici province.

L’amministrazione diocesana, giustamente qualificata come media-na (administratio media), serve da anello di congiunzione tra le provincee l’amministrazione centrale, civile e, all’occorrenza, militare: il vicariodella prefettura del pretorio (chiamato comes d’Oriente ad Antiochia,prefetto augustale ad Alessandria) controlla i governatori provinciali del-la propria diocesi, mentre ad Antiochia un magister militum diocesanoha autorità sopra i duces del proprio ambito territoriale. L’unica a sfug-gire al rigido quadro di diocesi e prefetture è la geografia ecclesiastica,basata sull’organizzazione delle province, ma le cui strutture sovrapro-

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vinciali, i patriarcati, talora coincidono con una diocesi (Alessandria),talaltra invece risultano dalla sua divisione (l’Oriente diviso tra Antio-chia e Gerusalemme) o dalla riunione di alcune di esse (Tracia, Asia ePonto sotto Costantinopoli).

Il vicario di una diocesi, elevato dalla fine del iv secolo al rango dispectabilis, è superiore di diritto ai governatori del suo territorio, conl’eccezione dei proconsoli, la cui provincia è sottratta alla sua compe-tenza. Le sentenze emesse in prima istanza dai governatori sono suscet-tibili di appello presso il vicario. La moltiplicazione dei governatori spec-tabiles, sotto Giustiniano, avrà logicamente per corollario l’abolizionedel vicariato.

Dal punto di vista storico, le diocesi, malgrado le apparenze, non de-rivano affatto dalla suddivisione di prefetture preesistenti. Inizialmen-te, hanno costituito il solo aggancio sul territorio di un’istituzione pre-fettizia concepita ancora come indivisibile, nonostante la molteplicitàdei prefetti. La suddivisione dell’Impero in quattro ambiti prefettizi,due in Oriente e due in Occidente (da Zosimo anacronisticamente at-tribuita a Costantino), ha luogo solo, dopo alcune incertezze, nell’ulti-mo terzo del iv secolo. Prima di divenire territoriale, la prefettura haconosciuto infatti alcune vicissitudini legate alle spartizioni successivedel potere imperiale. Sotto la Tetrarchia, i due augusti hanno un prefet-to ciascuno. Il loro numero cresce, variando a seconda delle circostan-ze, sotto Costantino e i suoi figli: si contano cinque prefetti nel 336, trenel 341. L’ambito di ciascuno di essi coincide ancora con quello di unaugusto o di un cesare; se si eccettua l’esperienza temporanea di una pre-fettura d’Africa sotto Costantino, è solamente con Valente che s’impo-ne la costituzione delle prefetture regionali. Dopo il 395, la divisionedell’Impero e la spartizione dell’Illirico conducono alle quattro prefet-ture della Notitia Dignitatum, sistema che rimarrà stabile per più di unsecolo: da una parte il prefetto d’Italia-Illirico-Africa avente come col-lega il prefetto delle Gallie, dall’altra il prefetto d’Oriente con un col-lega di minor importanza, il prefetto dell’Illirico (orientale). La prefet-tura d’Oriente, all’inizio itinerante come l’imperatore, si stabilisce a Co-stantinopoli; quella dell’Illirico orientale avrà come capitale Sirmio, poiTessalonica. Se si eccettua la divisione dell’Illirico, la mappa delle pre-fetture porta il marchio durevole della spartizione dell’Impero tra i fi-gli di Costantino: l’immensa prefettura d’Oriente (ivi compresa la dio-cesi di Tracia) coincide con la parte che allora era stata assegnata a Co-stanzo II. Tale geografia non subirà variazioni prima di Giustiniano, checrea due nuove prefetture. L’Africa riconquistata, un tempo connessaalla prefettura d’Italia, diviene nel 533 una prefettura autonoma. Nel

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536, infine, cinque province separate da differenti diocesi (Tracia, Asia,Oriente) costituiscono una prefettura separata, sotto l’autorità del quae-stor exercitus (chiamato anche prefetto delle Isole perché il territorio disua competenza comprende Cipro e le Cicladi). Dal momento che la pre-fettura delle Gallie aveva cessato di esistere dal 534, l’Impero annove-ra allora cinque prefetture (Oriente, Illirico, Italia, Africa e Isole). Ta-le mappa resterà immutata fino alla sparizione del sistema prefettizio,verso la metà del vii secolo. Il declino di tale istituzione basilare del-l’amministrazione protobizantina inizia tuttavia a partire dalla fine delvi secolo nelle prefetture periferiche d’Italia e d’Africa, dove la creazio-ne dell’esarca, suprema autorità militare e civile, relega in secondo pia-no il ruolo del prefetto.

Tutte queste riforme amministrative cercano di adattare, non dismantellare, un sistema provinciale contemporaneamente stabile e fles-sibile, destinato a sparire solo dopo Eraclio. Certo, le imperfezioni ditale costruzione si esplicano in difficoltà di funzionamento (giurisdizio-ne d’appello, articolazione delle amministrazioni civili e militari), manon si tratta di un sistema in crisi perenne. In tempo di pace, e fino al-le catastrofi del vii secolo, l’amministrazione imperiale ha funzionatoregolarmente, con l’appoggio di una rete di città divenuta omogenea (altermine di numerosi secoli d’integrazione romana) e di strutture unifi-canti rafforzate, ossia il sistema prefettizio, principale ossatura dell’am-ministrazione protobizantina, che compensa con il suo ruolo centraliz-zante l’apparente frammentazione della mappa delle province. Quandola prefettura scompare, alla metà del vii secolo, contemporaneamentecrolla il sistema municipale e provinciale dell’Antichità, e lo Stato bi-zantino inizia una profonda ristrutturazione.

1m. amelotti, Scritti teologici ed ecclesiastici di Giustiniano, Milano 1977.

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bernard flusin

iv. Le strutture della Chiesa imperiale

Nel momento in cui Costantino legalizza, e poi favorisce, la Chiesacristiana, quest’ultima esiste già da tre secoli ed essenzialmente ha unafisionomia già definita; tuttavia, la nuova condizione comporta alcuneprofonde mutazioni. La Chiesa entra in simbiosi con un Impero la cuiconversione al cristianesimo pare provvidenziale. I cambiamenti riguar-dano tanto la Chiesa locale, che si confonde con la città, quanto la Chie-sa universale, i cui organi centrali si sviluppano, per arrivare sotto Giu-stiniano, se non a un equilibrio, almeno alla piena maturazione di isti-tuzioni durevoli, che fungeranno da punto di riferimento per tutto ilperiodo bizantino.

i. il vescovo, la sua chiesa, la sua città.

La Chiesa locale, intorno al suo vescovo, è la cellula fondamentaledella Chiesa cristiana. La sua struttura è ereditata dai secoli passati, maè soggetta a trasformazioni. La condizione degli ecclesiastici e dei benidella Chiesa è adesso determinata dalla legge. Il vescovo svolge un ruo-lo sempre più importante in una città la cui popolazione è largamentedivenuta cristiana, e le autorità imperiali prendono l’abitudine di rivol-gersi a lui per compiti amministrativi.

1. Chiesa locale e città.

Nella parte orientale dell’Impero, vescovati e città tendono a corri-spondere: i padri di Calcedonia decidono che la geografia ecclesiasticaterrà conto delle città create ex novo (canone 17) e una legge di Zeno-ne (CI, 1.3.35) prevede che ogni città, antica o recente, debba avere il

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proprio vescovo. L’evoluzione è conclusa alla fine del v secolo, e le ec-cezioni sono poco numerose.

Un vescovo può avere autorità su più città: è il caso della Scizia, lecui città dipendono dal vescovo di Tomi, o di Mitilene. Più frequente-mente, alcuni vescovati non corrispondono a città, ma a saltus, regionese, per esempio in Arabia, a villaggi. In altri casi, capita che due vescovisi spartiscano il territorio di una città: così a Gaza, dove Maiuma, il por-to cittadino, ha il proprio vescovo. I vescovi, insediati in città, possonoessere assistiti per la chora da corepiscopi, che firmano ancora a proprionome nel concilio di Nicea, ma che, a Calcedonia, sono ormai soltantoi delegati dei rispettivi vescovi. I loro poteri episcopali sono limitati (nonpossono ordinare i gradi maggiori del sacerdozio) e non li esercitano cheper delega. Benché in alcune regioni siano stati rimpiazzati da periodeu-ti (preti itineranti), sono ancora attestati alla fine del periodo [Feissel359].

2. Laici e chierici.

Ciascuna Chiesa locale forma un’unità che comprende laici e chieri-ci. Tale distinzione, ben stabilita nel iii secolo, si rafforza nel iv e con-duce a una clericalizzazione della Chiesa.

I laici sono definiti per negazione come i cristiani che non sono ec-clesiastici. Esclusi dall’amministrazione dei sacramenti (eccetto il bat-tesimo in caso di necessità), lo sono anche, perlopiù, dall’insegnamentoe dalla predicazione. Hanno un ruolo nell’elezione dei vescovi e certu-ni di essi possono prender parte a concili, ma sono tenuti al di fuori del-la gestione della Chiesa. Alcuni gruppi di laici, un tempo ben attestati,tendono a declinare: è il caso delle vergini e delle vedove organizzate,di cui le prime si fondono nell’istituzione monastica, mentre le secondeperdono spesso la propria importanza. Tuttavia, si registra l’apparizio-ne di confraternite di laici, spesso in prossimità di un santuario, che rag-gruppano i philoponoi («laboriosi») o spoudaioi («zelanti»)1. Soprattut-to il monachesimo, in grande sviluppo all’epoca, è un fenomeno essen-zialmente laico. La sua importanza induce a studiarlo a parte [cfr. cap.viii].

Il clero è gerarchizzato in diversi gruppi, a seconda delle funzioni diciascuno nel corso della liturgia eucaristica. Essenzialmente, compren-de tre ordini di chierici maggiori: il vescovo (episkopos = sorvegliante),che presiede l’eucaristia e insegna; il collegio dei presbiteri (presbyteroi= anziani) che l’assistono e ai quali, dopoché i luoghi di culto si sono

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moltiplicati, il vescovo delega le proprie funzioni nella liturgia; i diaco-ni (diakonoi = servitori), che svolgono diversi servizi, si rivolgono al po-polo nel corso della liturgia e fanno alcune letture. I chierici minori so-no meno nettamente definiti e meno distinti dai laici. Esistono diffe-renze regionali, ma si trovano in generale suddiaconi, lettori (incaricatidi diverse letture durante la liturgia – ma quella, prestigiosa, del Van-gelo è riservata ai chierici maggiori), cantori. Si possono loro associarele diaconesse e gli uscieri.

I chierici hanno una condizione particolare che le leggi della Chiesae dell’Impero definiscono con maggior rigore nel iv secolo, e che valesoprattutto per i primi ordini. Il clero cristiano è esclusivamente maschi-le. Reclutato in tutte le classi della società, con restrizioni (a secondadelle epoche) per i coloni, gli schiavi e i curiali, deve rispondere a certicriteri d’età, di moralità e talvolta di cultura, differenti a seconda delgrado. Scelti e ordinati dal vescovo, vivono delle rendite della Chiesa,anche se i chierici subalterni possono esercitare un mestiere [Herman362-63]. Un chierico può essere deposto, e in tal caso ritorna un sempli-ce laico.

A partire da Costantino, la legislazione ha conferito agli ecclesiasti-ci alcuni privilegi, come la dispensa dagli incarichi curiali; tuttavia, perevitare la diserzione dalle curie, si proibisce ai curiali di entrare nel cle-ro. Un curiale può comunque farsi ordinare se trova chi prenda il suoposto o se cede una parte del proprio patrimonio a profitto della curia.Il clero ha anche alcuni privilegi fiscali. Nel 346, Costanzo II lo dispen-sa da tutti i sordida munera nonché dall’imposta fondiaria. È lo stessoimperatore ad abolire quest’ultima misura e i suoi successori limitano leesenzioni concernenti i sordida munera. L’esenzione dalla collatio lustra-lis concerne soprattutto i chierici inferiori, che esercitano un mestiere.

I membri del clero beneficiano del foro ecclesiastico, ossia del privi-legio di essere giudicati, in alcuni casi, da un tribunale ecclesiastico; lalegge in merito subisce variazioni a seconda delle epoche. Da Costanti-no a Marciano, si tende a ridurre tale privilegio alle cause ecclesiastiche.In seguito, la Chiesa proibisce ai chierici di rivolgersi ai tribunali civili,mentre Giustiniano ordina a chiunque intenti un processo a un membrodel clero di rivolgersi in primo luogo al vescovo.

Costantino stabilisce inoltre una rendita annuale a beneficio degliecclesiastici, abolita da Giuliano e poi ristabilita da Gioviano, che tut-tavia la diminuisce sensibilmente.

I chierici sono ugualmente sottoposti ad alcune obligationes che li di-stinguono e che li qualificano per le loro funzioni liturgiche e ammini-strative. Devono astenersi dal comparire in alcuni luoghi pubblici, dal

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partecipare alle celebrazioni profane come le feste di matrimonio, dalleggere libri pagani o eretici. Progressivamente, ai chierici maggiori ven-gono proibiti – talora senza successo – il commercio e l’artigianato [Her-man 363]. La questione della condizione matrimoniale degli ecclesiasti-ci acquista importanza a partire dal iv secolo, soprattutto per i primi or-dini [Gryson 360].

Il principio è che si può ordinare vescovo, sacerdote o diacono qua-lunque uomo celibe o sposato una sola volta con una donna che non sisia per parte sua sposata più di una volta. A partire dall’inizio del iv se-colo, si vede attestarsi il costume di proibire ai vescovi e ai sacerdoti, epoi ai diaconi, di sposarsi dopo la propria ordinazione. Tale proibizio-ne, non uniformemente seguita, è reiterata al concilio in Trullo del 692.Riguardo alla consumazione del matrimonio, originariamente non eracontemplata alcuna restrizione per i chierici, che dovevano semplice-mente astenersi dai rapporti sessuali alla vigilia di una celebrazione eu-caristica. Il quinto dei canoni apostolici scomunica il diacono, sacerdo-te o vescovo che ripudierà la propria moglie con il pretesto della religio-ne. Emergono tuttavia due tendenze, una più lassista e l’altra piùrigorista, che, come in Occidente, vede un’incompatibilità tra matrimo-nio e sacerdozio. La legislazione giustinianea pone un punto fermo proi-bendo al vescovo di condurre una vita coniugale.

3. Il vescovo.

Nel clero così definito, ciascun ordine ha le proprie caratteristiche.Il vescovo [Hohlweg 364, Lizzi 366, Noethlichs 369] è il capo della Chie-sa locale, di cui ha la responsabilità spirituale e materiale. I suoi compi-ti gestionali divengono più pesanti e il potere centrale prende l’abitudi-ne di affidargli responsabilità sempre più importanti.

Il corpo episcopale, numeroso nell’Impero d’Oriente (le 900 città diIerocle, nel vi secolo, hanno ciascuna, di norma, il proprio vescovo), vie-ne reclutato con modalità che variano a seconda delle epoche. Dal mo-mento che i trasferimenti sono rari e soggetti a proibizioni, quando unasede è vacante vi si provvede tramite un’elezione, cui partecipano il cle-ro e il popolo (in realtà, i cittadini più importanti) della città in questio-ne; il metropolita, con la partecipazione o l’accordo degli altri vescovidella provincia, ordina il nuovo vescovo.

Sotto Anastasio, le regole dell’elezione vengono precisate: il clero e ilpopolo della città propongono tre candidati, tra i quali il metropolita com-pie la sua scelta. La legislazione di Giustiniano conferma tale pratica, pur

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prevedendo alcune eccezioni. Numerose novelle di Giustiniano precisa-no che i candidati all’episcopato devono essere ortodossi e di buoni co-stumi, saper leggere e scrivere, avere una pratica della liturgia, avere al-meno 35 anni di età (limite abbassato a 30 nel 565). Non devono averené moglie né figli, oppure, nel caso siano sposati, devono separarsi dallapropria consorte. Tale regola stabilita da Giustiniano, che verrà reitera-ta dal concilio in Trullo (692), è una novità: nel iv e v secolo i vescovisposati e padri di famiglia non sono rari, benché in alcune regioni comel’Egitto l’usanza possa essere stata più restrittiva.

Il vescovo è inamovibile, ma può essere deposto sia da un concilio,sia dall’imperatore. Si conosce il caso di alcuni vescovi deposti che tor-nano nella loro città e riprendono le proprie funzioni senza una nuovaordinazione.

Il vescovo, che riceve come salario una parte degli introiti della pro-pria Chiesa, ha una rendita variabile a seconda della sede che occupa[Jones 365 e 149]. In Isauria è noto che un vescovo riceveva solo 6 no-mismata l’anno. In genere, tuttavia, anche quando non si parla di sedimolto importanti, un vescovo è ben pagato: 365 nomismata l’anno perTeodoro di Siceone, vescovo della modesta città di Anastasiopoli [cfr.infra, § 5].

Prestigiosa e spesso provvista di un cospicuo appannaggio, la funzio-ne episcopale suscita ambizioni e competizioni. I vescovi fino al vi se-colo possono essere reclutati tra i laici della classe media, ma è semprepiù frequente che siano scelti tra i membri del clero e i monaci (questiultimi celibi per definizione).

Il vescovo, capo spirituale della sua Chiesa, insegna, battezza, cele-bra l’eucaristia, scomunica, riconcilia i penitenti. Sceglie e ordina i chie-rici e li può deporre. Provvede inoltre a un numero sempre maggiore diresponsabilità amministrative. Con l’aiuto di un economo – la cui pre-senza è obbligatoria a partire dal concilio di Calcedonia – gestisce i be-ni della propria Chiesa e dirige le attività caritatevoli. Il suo potere siestende anche, indirettamente, alle fondazioni private e ai monasteridella propria diocesi. A partire da Costantino, dispone di poteri giudi-ziari, essenzialmente nelle questioni che coinvolgono membri del clero;il suo tribunale, tuttavia, può anche svolgere arbitrati tra laici, se le dueparti sono d’accordo, e tale procedura sembra aver conosciuto un certosuccesso [Cimma 354].

Il vescovo, inoltre, si vede dotare d’importanti competenze civili daparte del potere statale, che trova in lui un punto d’appoggio comodo estabile. Insieme agli honorati, sorveglia le finanze della città, sceglie di-versi funzionari municipali, supervisiona le loro attività, può interveni-

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re contro gli abusi dei funzionari imperiali. La sua attività di magistra-to cittadino si estende agli edifici pubblici, acquedotti, bagni e bastio-ni [Avraméa 351]. Veglia sull’approvvigionamento della città, ha un ruo-lo nel controllo dei pesi e delle misure. In Africa [Durliat 357] e nell’I-talia riconquistata tale evoluzione è netta, in seguito alla PrammaticaSanzione del 554, certe disposizioni della quale saranno conseguente-mente applicate al resto dell’Impero.

Il vescovo s’impone così, alla fine del periodo considerato, come ilprimo dei notabili di una città che si riconosce in lui e vi ricorre volen-tieri in caso di crisi.

4. Sacerdoti, diaconi, chierici subalterni.

Il clero della Chiesa locale forma un insieme diversificato e gerar-chizzato. Differenze considerevoli sono create dall’appartenenza ai di-versi gradi del sacerdozio, ma anche dalle competenze e dalle assegna-zioni amministrative. Alla semplicità iniziale – un vescovo col suo cle-ro, una chiesa – si sostituisce una situazione più complessa. Le chieseche dipendono direttamente dal vescovo, dette «cattoliche», si molti-plicano, mentre contemporaneamente si moltiplicano altre chiese di fon-dazione privata [Thomas 372], che, senza sfuggire all’autorità del vesco-vo ordinario, hanno proprie rendite e un proprio clero.

La situazione degli appartenenti al clero della cattedrale (la «grandechiesa» della città) dipende dalla ricchezza della sede, ma generalmen-te è tanto buona da farvi bramare un posto di prete o diacono. Non èesattamente così per le fondazioni private, che possono avere renditemodeste. È il caso delle chiese rurali – chiese di villaggi o latifondi –,dove i membri del clero possono essere, come permesso dalla legge a par-tire da Giustiniano, schiavi o coloni.

Nelle chiese importanti – soprattutto la cattedrale – i differenti col-legi sono gerarchizzati, per esempio quello dei preti, con alla sua testaun «protopapa», e quello dei diaconi con l’arcidiacono. Se i preti han-no la precedenza sui diaconi, le responsabilità amministrative di que-sti ultimi possono essere più importanti. Il peso crescente dell’ammini-strazione conduce di pari passo alla moltiplicazione degli officia [Dar-rouzès 387] nell’entourage del vescovo, dove si trovano, oltre l’econo-mo, alcuni chierici incaricati di affari giudiziari o di operazioni di po-lizia (ekdikoi = defensores), della cancelleria (chartophylax, cartulario,notarioi), della custodia delle suppellettili sacre e del tesoro della Chie-sa (skeuophylax).

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I chierici minori talora si distinguono poco dai laici. Le diaconesse[Martimort 367], unico elemento femminile che si possa riconnettere alclero cristiano, sono annoverate tra di essi in alcuni documenti: ordina-te tramite l’imposizione della mani, sono in particolare incaricate del-l’unzione delle femmine in occasione del battesimo e sorvegliano l’ac-cesso alla chiesa dal lato delle donne. Oltre ai chierici minori, esiste tut-to un personale impiegato dalla Chiesa: è il caso dei becchini, incaricatidelle sepolture, talora gratuite come a Costantinopoli, o dei parabalanoi,personale ospedaliero della Chiesa di Alessandria.

Il clero delle Chiese può essere stato assai numeroso. A Edessa, nelv secolo, il vescovo Iba parla di duecento chierici: si tratta di una me-tropoli, e il numero vale per l’insieme degli ecclesiastici, dal momentoche il solo clero della chiesa episcopale annoverava, intorno alla mede-sima epoca, 14 preti, 37 diaconi, 23 suddiaconi e un lettore. La Chiesadi Costantinopoli rappresenta, si vedrà, un caso limite.

5. Finanze e beni della Chiesa.

I beni delle Chiese [ Jones 365], attestati dal iii secolo, si sviluppanorapidamente sotto l’Impero cristiano. Hanno essenzialmente tre origi-ni: innanzitutto le offerte dei fedeli, contribuzioni volontarie – tutti itentativi d’imporre donazioni forzate sono combattuti dalla legge – so-vente costituite da modesti doni in natura, ma anche da donazioni im-portanti: liberalità imperiali, che si distinguono a fatica da un finanzia-mento di Stato, o cessione, da parte di dame della classe senatoria co-me Olimpiade a Costantinopoli2 o Melania la Giovane3, di immensefortune a profitto di una o più Chiese. Tali donazioni possono esserefatte quando il donatore è ancora vivo, ma la Chiesa, che ne ha la capa-cità dal 321, accetta anche legati testamentari. Le liberalità di Stato so-no una seconda fonte di reddito, sia che si tratti di esenzioni fiscali, odel canone annuale versato dai governatori provinciali alle Chiese daitempi di Costantino, o anche di risorse fiscali attribuite ad alcune Chie-se, come a quella di Costantinopoli per i seppellimenti [Dagron 356].Infine, una terza fonte di reddito è in costante aumento: si tratta degliintroiti derivanti dalle proprietà della Chiesa, perlopiù agricole, ma co-stituite anche da immobili urbani, mulini, laboratori [Wipszycka 378].

I beni della Chiesa fanno capo a tipologie differenti. Possono esseregestiti direttamente dal vescovo e dal clero che lo assiste; le fondazioniprivate, tuttavia, benché siano poste sotto la responsabilità del vesco-vo, hanno la loro autonomia finanziaria e amministrativa: dotate dal lo-

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ro fondatore di una rendita regolare, hanno il proprio clero e il propriopersonale. Se sono in deficit, divengono un gravame per le Chiese loca-li: pertanto la legislazione imperiale insiste affinché i loro fondatori leforniscano di appannaggi sufficienti e incoraggia le rifondazioni piutto-sto che le nuove fondazioni. Quest’insieme di beni è tutelato: la leggevigila affinché siano distinti dai beni dei vescovi e, soprattutto, nel vi

secolo sono divenuti inalienabili.A partire dal 470, una legge di Leone I proibisce vendite, doni e per-

mute per i beni della Chiesa di Costantinopoli. Anastasio estende talidisposizioni a tutto il patriarcato di Costantinopoli, salvo per ragioni va-lide e debitamente constatate. Giustiniano torna alla legge di Leone, cheestende a tutto l’Impero; concederà però qualche eccezione.

Abbiamo pochi dati numerici sul patrimonio delle Chiese prima delvi secolo. Alla fine del iv, Giovanni Crisostomo osserva che la Chiesadi Antiochia è al livello di un grande proprietario di tale città, ma nonuno dei più ricchi. Nel vi secolo, la Chiesa di Ermopoli in Egitto è nel-la medesima situazione: la sua tassazione mostra che essa è uno dei gran-di proprietari fondiari della città, ma è superata da alcuni privati4. Unalegge di Giustiniano (Nov., 123) che regola i contributi pagati abitual-mente dai vescovi al momento della propria ordinazione ai vescovi e aichierici che vi partecipano (enthroniastica), suddivide l’insieme delle se-di dell’Impero in sette classi differenti a seconda delle loro rendite an-nuali (o si tratta di quelle dei loro vescovi?): 1) le sedi patriarcali; 2) lesedi la cui rendita è superiore a 30 libbre d’oro; 3) tra 10 e 30 libbre; 4)tra 5 e 10 libbre; 5) tra 3 e 5 libbre; 6) tra 2 e 3 libbre; 7) meno di 2 lib-bre. Si vede così che il ventaglio delle rendite è ampio e che le catego-rie s’infittiscono man mano che le rendite divengono più modeste: è lìche probabilmente si colloca la maggior parte dei vescovati.

Le spese con le quali devono confrontarsi le Chiese, al di là delle tas-se, sono essenzialmente di tre tipi: innanzitutto l’appannaggio del ve-scovo e degli altri ecclesiastici, che comprende una quota fissa, più unapercentuale delle offerte. Tale quota fissa spiega come mai una Chiesapossa essere in difficoltà quando non riesce più a fronteggiare il paga-mento dei salari, sia che le sue rendite siano diminuite, sia che il clerosia divenuto troppo numeroso. In secondo luogo, c’è il mantenimentodegli edifici e l’illuminazione, assai costosa. In terzo luogo, ci sono leopere di beneficenza, che si tratti di elemosine o del funzionamento de-gli istituti di carità.

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6. Istituzioni caritatevoli.

Le Chiese locali devono vegliare sulla sorte dei settori più sfavoritio fragili della popolazione: prigionieri, malati, vedove, vecchi, poveri[Patlagean 523], e adempiono a tale obbligo tramite diverse istituzioni[Boojamra 353; Mentzou-Meimari 368]. Oltre agli interventi ad perso-nam, si organizzano distribuzioni regolari in favore di vedove o di po-veri iscritti su determinati registri. La sepoltura degli indigenti, ma an-che i funerali in generale, costituiscono un’altra attività caritatevole,ben nota per Costantinopoli [Dagron 356]. Infine, diverse istituzioniaccolgono pellegrini e viaggiatori (xenodocheia), malati (nosokomeia),persone anziane (gerokomeia), orfani (orphanotropheia), poveri (ptocho-tropheia). Dall’origine spesso privata, tali istituzioni sono sottoposte, al-meno indirettamente, al vescovo e sono gestite dal clero. Spesso sonopoco differenziate e il confine tra semplici ricoveri (xenodocheia) e ospe-dali (nosokomeia) non è molto netto. Solo nei grandi centri si trovanoistituzioni specializzate: un ospizio per ciechi a Gerusalemme, una sor-ta di clinica ostetrica ad Alessandria.

Tali istituzioni caritatevoli hanno giocato un ruolo importante nellanascita dell’ospedale [Philipsborn 370-71].

ii. la gerarchia dei vescovi: metropoliti e patriarchi.

Le Chiese locali non sono isolate, ma fanno parte della Chiesa uni-versale – in pratica, della Chiesa dell’Impero –, alla quale si raccordanotramite gradini intermedi: Chiese di una medesima provincia, poi insie-mi che raggruppano più province (il livello dove all’epoca compaiono lenovità più importanti).

1. Province e metropoli.

Il concilio di Nicea, sistematizzando un’usanza anteriore, decreta(canoni 4 e 5) che i vescovi di una medesima provincia (o eparchia) sidebbano riunire due volte l’anno presso il metropolita (titolare della se-de episcopale della capitale della provincia). Quest’ultimo vede raffor-zata la propria autorità sugli altri vescovi della provincia, i suoi «suffra-

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ganei», in particolare per l’elezione e l’ordinazione dei nuovi vescovi.La geografia ecclesiastica, ancora a questo livello, si modella su quellaamministrativa e, nel caso vengano create nuove province, generalmen-te l’organizzazione della Chiesa vi si adatta. Nel vi secolo, tuttavia, ap-paiono discordanze.

Il sistema ammette alcune eccezioni. In Egitto, i metropoliti non han-no un ruolo molto importante, in quanto il vescovo di Alessandria ordi-na personalmente i vescovi delle province. Nell’Italia riconquistata, sitiene similmente conto dell’autorità di Roma sulle province suburbica-rie. D’altra parte, in alcune province esistono, a fianco delle vere metro-poli, metropoli senza suffraganei, i cui titolari sono talvolta chiamati ar-civescovi autocefali. Tali metropoliti onorari condividono con i titolaridi vere metropoli e con i patriarchi il titolo di arcivescovo. In qualche ca-so, possono aver tentato di stabilire la propria autorità su altre sedi e di-venire così metropoliti effettivi. In due casi un’eparchia è in effetti bi-partita: in Panfilia, dove Side, a partire dal 458, distacca da Perge la metàdelle città della provincia; in Eufratesia, invece, Sergiopoli-Resafa, dive-nuta metropoli, si vede riconnettere un certo numero di suffraganei. Sitratta però, in questo caso, di vescovati creati ex novo.

Il concilio di Calcedonia reitera, per i vescovi di una medesima pro-vincia, l’obbligo di riunirsi due volte l’anno, ma Giustiniano riduce ta-le frequenza e non esige più di una riunione annuale. Il sinodo provin-ciale regola gli affari comuni: conflitti tra vescovi, esame in appello deiloro giudizi. Il metropolita esercita d’altra parte importanti funzioni ci-vili: il governatore della provincia presta giuramento davanti a lui in oc-casione del proprio insediamento; nel 569, una novella di Giustino II,generalizzando una disposizione della Prammatica Sanzione del 554, sta-bilisce che il metropolita prenda parte alla scelta dei candidati per il po-sto di governatore.

2. Le istituzioni sovrametropolitane.

A livello sovrametropolitano, l’organizzazione della Chiesa è menochiara. Il iv e il v secolo vedono reali progressi, grazie all’emergere deipatriarcati, ma i conflitti che contrassegnano la storia della Chiesa a quel-l’epoca derivano almeno parzialmente dalla competizione tra le grandisedi.

Il concilio di Nicea, che rafforza il potere dei metropoliti, si preoc-cupa ugualmente delle istituzioni di grado superiore, capaci di regolarei conflitti tra differenti province o le questioni che coinvolgono un me-

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tropolita. Nel suo sesto canone ratifica uno stato di fatto: il vescovo diAlessandria, sull’esempio di quello di Roma, ha potere (exousia) sull’E-gitto e la Libia; le prerogative (presbeia) di Antiochia sono confermate,così come per le altre province. Il vescovo di Gerusalemme ottiene ono-ri speciali, pur senza cessare di dipendere dal metropolita di Cesarea.Per l’Impero d’Oriente esiste così un’unità ben costituita, la futura dio-cesi d’Egitto, dove l’arcivescovo di Alessandria ha autorità al di sopradei vescovi. Il caso di Antiochia e della diocesi d’Oriente è meno net-to. Nessun’altra istituzione sovrametropolitana è confermata. Per rie-saminare la sentenza di un sinodo provinciale, per esempio la deposizio-ne di un vescovo, si prevede semplicemente che il metropolita possa fa-re appello a vescovi di eparchie vicine, o portare la questione davanti aun «sinodo più grande».

Il secondo concilio ecumenico (Costantinopoli I, 381) distingue lasede di Costantinopoli e le attribuisce il secondo rango onorifico dopol’Antica Roma, giacché Costantinopoli è la Nuova Roma. Si pone il prin-cipio che i vescovi non debbano intervenire negli affari di Chiese chenon siano le loro e vengono definite parecchie circoscrizioni: il vescovodi Alessandria governa l’Egitto; i vescovi d’Oriente soltanto l’Oriente,fatti salvi, come a Nicea, i privilegi di Antiochia; i vescovi d’Asia l’A-sia, e così per il Ponto e la Tracia. Vengono così passate in rassegna lecinque diocesi orientali, mentre le diocesi dell’Illirico, recentemente ri-connesse a Costantinopoli dal punto di vista civile, restano sotto la di-pendenza indiretta da Roma per gli affari ecclesiastici. A questo livellopertanto, benché in maniera imperfetta, l’organizzazione della Chiesasi modella su quella dell’Impero.

L’azione pratica fa successivamente evolvere la situazione. A Costan-tinopoli, alcuni vescovi attivi estendono le prerogative della propria se-de. Il concilio di Efeso nel 431 non prende decisioni nuove, ma si per-cepisce il declassamento della sede di Antiochia: i vescovi ciprioti otten-gono il riconoscimento, almeno provvisorio, dell’indipendenza da essadella loro Chiesa; Giovenale di Gerusalemme, d’altra parte, tende aemanciparsi da Antiochia, raggruppando le Chiese di Palestina sotto lapropria autorità. La condanna di Nestorio in Efeso I e lo svolgimentodi Efeso II possono apparentemente segnare il declassamento di Costan-tinopoli e la vittoria di Alessandria – ma il quarto concilio ecumenicoinverte la tendenza.

Calcedonia vede infatti l’umiliazione di Alessandria, il cui vescovoDioscoro è deposto, e sancisce l’importanza di Costantinopoli [Hermanin 301]. I canoni 9 e 17 stabiliscono un diritto d’appello a Costantino-poli per i vescovi delle tre diocesi d’Asia, del Ponto e di Tracia. Soprat-

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tutto, Costantinopoli vede il proprio rango ulteriormente elevato dal«ventottesimo canone», che le accorda prerogative uguali a quelle del-l’Antica Roma e definisce la sua giurisdizione.

Questo canone di Calcedonia [Martin in 301] ha caratteristiche pe-culiari. La prima parte è dedicata alle prerogative di Costantinopoli,uguali a quelle di cui godeva l’Antica Roma come capitale dell’Impero,giacché Costantinopoli è sede del potere imperiale e del Senato. La se-conda parte precisa il contenuto giurisdizionale di tali prerogative [cfr.pp. 136-37]. Il canone non sarà accettato da Roma, che non solo trovainquietanti le pretese di Costantinopoli, ma per giunta, fondando le pro-prie prerogative sulla successione da Pietro, non può ammettere l’argo-mentazione politica adottata dai padri di Calcedonia per definire il ran-go delle sedi.

Il concilio regola infine il caso di Gerusalemme, decretando che letre province di Palestina verranno poste sotto la sua autorità e sottrat-te a quella di Antiochia. Si definisce pertanto il sistema dei cinque pa-triarcati – Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalem-me –, la «pentarchia» dell’epoca giustinianea, che governa la Chiesa im-periale. Il titolo di patriarca, tuttavia, s’impone progressivamente solonel periodo successivo a Calcedonia. Soprattutto, occorre notare che icinque patriarcati non arriveranno mai a spartirsi la totalità della Chie-sa imperiale: Cipro e la Chiesa dell’Africa riconquistata non dipendonoda alcun patriarca.

iii. roma e costantinopoli.

Nella propria novella 123, Giustiniano distingue «i beatissimi arcive-scovi e patriarchi» e cita, nell’ordine di precedenza, Roma, Costantino-poli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Queste cinque sedi non han-no tutte la stessa importanza nella vita della Chiesa imperiale. Costanti-nopoli, il cui patriarcato è in grande sviluppo, e Roma, reintegratanell’Impero da Giustiniano, devono essere esaminate in prima istanza.

1. Roma.

Benché appartenga all’Impero d’Occidente nel iv e v secolo, e poi alregno ostrogoto fino alla riconquista, la Chiesa di Roma [Caspar 386]

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dev’essere qui menzionata sia per il ruolo che ha costantemente avutonella storia della Chiesa imperiale, sia per il fatto che, da Giustinianofino alla metà dell’viii secolo, dipende in maniera più diretta dagli im-peratori romani di Costantinopoli.

1.1. I l pr imato.

Il primo posto occupato da Roma nella Chiesa può ricevere diverseinterpretazioni [Schatz 395; Michel in 301]. Agli occhi delle Chiese d’O-riente, si tratta di un primato d’onore nel collegio dei vescovi e la gran-de autorità riconosciuta al papa è di natura morale. A Roma si svilup-pa, al contrario, un’ecclesiologia secondo cui l’autorità della «sede apo-stolica», di origine divina, ha un contenuto preciso: i papi, successori disan Pietro, dispongono all’interno della Chiesa, per la dottrina e la di-sciplina, dei poteri che Cristo ha affidato al principe degli apostoli.

Tali rivendicazioni, di origine antica, si affermano alla fine del iv se-colo. Il Decretum Gelasianum, il cui nucleo risale certamente a quest’e-poca, invoca le parole di Cristo («Tu sei Pietro, ed è su questa pietrache fonderò la mia Chiesa…», Mat. 16.18 sg.) per stabilire che il pri-mato romano è stato istituito da Dio e non da un concilio. L’insistenzasul ruolo di Pietro porta a distinguere due altre sedi: Alessandria, fon-data da Marco, discepolo di Pietro, al secondo posto nella Chiesa, e An-tiochia, fondata da Pietro, al terzo posto. Tale argomentazione escludeche Costantinopoli possa rivendicare una posizione speciale. Ci si tro-va di fronte senza dubbio a una risposta al terzo canone di Costantino-poli I (381) che, riflettendo l’ecclesiologia costantinopolitana, sviluppaun argomento di tipo politico.

Tali rivendicazioni hanno un’applicazione nell’ambito disciplinare:è così che papa Giulio non tiene conto della deposizione, peraltro rego-lare, di Atanasio di Alessandria. Quando un canone del concilio di Ser-dica (343) gli dà ragione a posteriori, stabilisce per tutto il clero un di-ritto d’appello a Roma: i papi di conseguenza giungono a disporre, intutta la Chiesa, di un diritto di cassazione, o persino del diritto di giu-dicare in ultima istanza.

Nel v secolo, non mancano illustri esempi di prelati orientali che,ritenendosi mal giudicati in patria, fanno appello a Roma: è il caso diGiovanni Crisostomo, Nestorio ed Eutiche. Alla fine del vi secolo, pa-pa Gregorio Magno rigiudica due ecclesiastici condannati a Costanti-nopoli e il patriarca Giovanni Nesteuta («il Digiunatore») gli trasmet-te gli incartamenti del processo [Grumel 157, nn. 265-67]. Il predeces-sore di Gregorio, Pelagio II, aveva in maniera analoga cassato le deci-

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sioni di un sinodo riunito da Giovanni Nesteuta. Casi simili, comun-que, sono rari.

I vescovi di Roma rivendicano ugualmente un’autorità particolare inmateria di fede e il Decretum Gelasianum applica alla Chiesa di Roma leparole di san Paolo: «Essa non ha una macchia, una ruga, o qualcosa ditale» (Eph., 5.27). L’atteggiamento dei papi al tempo delle lotte teolo-giche del iv e v secolo rafforza le rivendicazioni romane, poiché di fat-to i papi, a differenza dei patriarchi di Costantinopoli, hanno difeso l’or-todossia. Al termine dello scisma acaciano, nel 519, i legati di papa Or-misda presentano così al patriarca Giovanni di Costantinopoli unadichiarazione in cui si dichiara che è nella comunione con Roma che «ri-siede la totale e vera forza della religione cristiana».

Tale posizione, che fa della comunione con Roma la pietra di para-gone dell’ortodossia, pone in particolare il problema del ruolo dei con-cili nella definizione della fede. L’esame della prassi dei concili ecume-nici non porta a certezze [De Vries 428]: se Roma non ha che un ruo-lo nullo o scarso a Nicea e a Costantinopoli, le sue posizioni hannogrande influenza a Efeso e Calcedonia; cionondimeno, anche in queicasi, i vescovi ritengono che la fede non sia definita da Roma, ma dalconsenso delle Chiese come viene espresso nel concilio. Alla concezio-ne romana, monarchica, si oppone così un’ecclesiologia più collegiale.In ciò è presente una fonte di conflitti, e un’altra è rappresentata dal-lo sviluppo della sede di Costantinopoli, che i papi osservano con in-quietudine.

1.2. I l «patr iarcato» di Roma dopo la r iconquista.

Dopo la riconquista, la sede di Roma può essere considerata comeuno dei cinque patriarcati dell’Impero; benché possa occasionalmenteintervenire in Spagna, in Africa, nel regno franco o addirittura in In-ghilterra, che contribuisce a evangelizzare, si può tuttavia cercare di de-finire quello che costituisce il suo territorio in senso stretto. Le Chieseche dipendono da Roma non formano un insieme omogeneo. Nella stes-sa Italia, presto devastata dall’invasione longobarda, il papa ha sotto lapropria giurisdizione diretta le province suburbicarie, ossia tutto il me-ridione della penisola a partire dalla Toscana (compresa), nonché la Si-cilia, la Sardegna e la Corsica. Su tutte queste province, il papa eserci-ta tradizionalmente un’autorità di tipo metropolitano. Interviene nellanomina e nella consacrazione dei vescovi, che una volta l’anno riuniscein un sinodo presso di sé. I vescovati dell’Italia del nord, per parte lo-ro, dipendono da tre metropoli: Milano, Aquileia e, più tardi, Raven-

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na. L’autorità molto meno intensa – salvo nel caso di Ravenna – che viviene esercitata dai papi è al massimo di tipo patriarcale.

Tale autorità è intralciata dall’invasione longobarda che, dopo il 569,sconvolge la regione e dallo scisma di Aquileia [cfr. p. 79] che, dopo ilconcilio di Costantinopoli II nel 553, separa durevolmente Milano,Aquileia e i loro suffraganei dalla comunione romana. I papi devono an-che fare i conti con le ambizioni dei metropoliti di Aquileia, rifugiatisia Grado dopo l’invasione longobarda, che nel vi secolo prendono il ti-tolo di patriarca, e con quelle degli arcivescovi di Ravenna, forti del pre-stigio della propria città, capitale dell’esarcato.

Oltre all’Italia, al papa è sottoposto l’Illirico [Duchesne 401; Pietri847]. Nell’Illirico occidentale, Roma esercita un’autorità di tipo patriar-cale e ancora alla fine del vi secolo Gregorio Magno interviene (senzasuccesso) nell’elezione di un metropolita di Salona. L’Illirico orientale[Greenslade 403; Honig 406] costituisce un problema particolare [cfr.anche cap. xi]. Attribuito a Teodosio I da Graziano, nel 395 era dive-nuto, insieme alle sue diocesi di Macedonia e di Dacia, la prefettura del-l’Illirico, dipendente da Costantinopoli. Si poteva pensare che l’orga-nizzazione della Chiesa si sarebbe armonizzata con quella dell’Impero;papa Damaso strinse però un accordo con il vescovo della capitale delladiocesi di Macedonia, Tessalonica, e il successore di Damaso, Siricio,fece di questo vescovo un «vicario apostolico», senza il quale nessun ve-scovo doveva essere ordinato per la Macedonia.

Tale accordo, che manteneva almeno teoricamente l’autorità indiret-ta di Roma sull’Illirico, elevava anche la condizione dell’arcivescovo diTessalonica, di cui di fatto si stabiliva la giurisdizione su due diocesi ci-vili. Nel 421, Teodosio II promulga una legge che pone le Chiese del-l’Illirico sotto l’autorità di Costantinopoli, ma papa Bonifacio e l’impe-ratore Onorio la fanno revocare. Non soggetto a una formale abolizio-ne, il vicariato di Tessalonica sembra aver avuto soprattutto una defi-nizione negativa: i legami con Roma sono tenui, ma l’Illirico sfugge al-l’influsso diretto del patriarcato di Costantinopoli.

Nel vi secolo Giustiniano, per onorare la sua città natale, IustinianaPrima, concede all’arcivescovo di tale città la giurisdizione su tutta ladiocesi di Dacia, sottratta all’autorità di Tessalonica [Graniç 402]. Que-sta nuova circoscrizione ecclesiastica, teoricamente indipendente, fu tra-sformata da Giustiniano, su domanda di papa Vigilio, in vicariato apo-stolico. L’autorità pontificale sull’Illirico sembra essere stata spesso teo-rica. Un documento della fine del vi secolo mostra tuttavia che essofaceva ben parte, agli occhi dei papi, dell’ambito patriarcale di Roma.Si tratta della lista delle sedi metropolitane cui Gregorio Magno, nel

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591, trasmette una lettera dell’imperatore Maurizio: Tessalonica, Mila-no, Nicopoli, Iustiniana Prima, Creta, Scodra, Larissa, Ravenna, Ca-gliari e i vescovi della Sicilia. L’assenza dei vescovi delle province su-burbicarie, senza metropolita, non sorprende; altre assenze si spieganosia a causa dello scisma (Aquileia, Salona), sia a causa dell’avanzata deibarbari (Mesia superiore, le due Dacie).

1.3. I l papa e l ’ imperatore.

Le tradizioni della Chiesa romana e la sua collocazione storica hannocondotto i papi a concepire, in modo migliore dei loro colleghi orientali,la differenza tra ambito religioso e politico e i limiti del potere imperia-le nella Chiesa. In pieno scisma acaciano, papa Gelasio, in una lettera al-l’imperatore Anastasio datata 491, esprime la teoria dei due poteri5: «Visono due cose, imperatore Augusto, dalle quali, soprattutto, è retto que-sto mondo: l’autorità sacra dei pontefici e il potere regio … Tu lo sai in-fatti, figlio clementissimo: benché tu sia per dignità a capo del genereumano, chini piamente la testa davanti ai sacerdoti che si occupano del-le cose divine, ed è da essi che apprendi le vie della salvezza». E Gelasioriafferma in particolare l’autorità dei papi: «La tua Pietà si rende contochiaramente che mai nessuno, dietro alcun pretesto umano, si può eleva-re al di sopra del prestigio e della condizione di colui che la parola di Cri-sto ha posto al di sopra del mondo intero, che la venerabile Chiesa hasempre riconosciuto e collocato devotamente al primo posto».

Persino sotto i re ostrogoti, i papi non si consideravano estranei al-l’Impero, ma in conseguenza dello scisma acaciano [cfr. pp. 76-78] i lo-ro legami con Costantinopoli si erano particolarmente allentati. La si-tuazione cambia con la morte di Anastasio. Dal momento in cui Giusti-no arriva al potere, nel 518, pone termine allo scisma e la formula che idelegati di papa Ormisda fanno firmare al patriarca Giovanni segnaun’autentica capitolazione della sede di Costantinopoli: il carattere pe-trino della Chiesa di Roma, dove la fede si è sempre conservata intatta,è riaffermato; il patriarca Acacio è condannato e radiato dai dittici in-sieme ai suoi quattro successori, così come gli imperatori Zenone e Ana-stasio. Nel 526 papa Giovanni II, inviato da Teodorico, arriva a Costan-tinopoli. Si tratta della prima visita di un papa nella capitale e riceve nu-merosi segni d’onore: Giovanni II celebra la liturgia a Santa Sofia eincorona nuovamente l’imperatore. Nel 536 la venuta di papa Agapitoha luogo nella medesima atmosfera e il monofisita Antimo, che Teodo-ra aveva fatto eleggere patriarca di Costantinopoli, si ritira di sua spon-tanea volontà, lasciando il posto a Mena, che è ordinato da Agapito.

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La riconquista segna un cambiamento. Giustiniano continua ad at-tribuire una grande importanza alla sede apostolica, ma i papi sono or-mai sottomessi alla sua autorità. Nel 537, Teodora e Belisario fanno de-porre ed esiliare papa Silverio, accusato di tradimento, che è sostituitoda Vigilio. In occasione dell’affare dei Tre Capitoli, Vigilio, convocatoa Costantinopoli, è sottoposto a forti pressioni. Giustiniano lo fa sco-municare dal concilio del 553 e Vigilio sarà reintegrato solo dopo averaccettato le decisioni di tale concilio. Muore poco dopo e Giustinianosceglie per succedergli il diacono Pelagio che, cambiando il proprio at-teggiamento, ha condannato i Tre Capitoli.

Dopo la riconquista, i papi appaiono come patriarchi integrati nel-l’Impero. Di norma, per la loro elezione – che ha luogo a Roma, comel’ordinazione – è necessaria un’autorizzazione dell’imperatore o del suorappresentante, l’esarca. I papi, pertanto, traggono la loro legittimità dadue fonti: un’elezione locale e una conferma imperiale.

Il ruolo svolto dai papi nella vita e nell’amministrazione di Roma edell’Italia si rafforza dopo la riconquista, fornendo un caso particolaredi ciò che si osserva altrove nell’evoluzione dell’episcopato bizantino.La Prammatica Sanzione, promulgata da Giustiniano nel 555, su do-manda di Vigilio, per regolare la situazione dell’Italia, è caratteristica ditale tendenza: il papa si vede affidare un ruolo nel controllo dei pesi edelle misure; «i vescovi e i proteuontes» d’Italia eleggono i governatoridelle province.

Dopo Giustiniano, la situazione resta perlopiù immutata e papa Gre-gorio Magno potrà ricordare che gli imperatori, come i patriarchi di Co-stantinopoli, riconoscono che la Chiesa di Costantinopoli è sottomessaa quella di Roma. Tale riconoscimento, tuttavia, non implica che gli im-peratori rinuncino a determinare autonomamente la politica religiosa.Dal momento che la preoccupazione principale resta, in Oriente, l’unio-ne con i monofisiti, mentre invece Roma rimane strettamente aderentealla cristologia del Tomo di Leone e di Calcedonia, le occasioni di ten-sione non scarseggiano. Le crisi più gravi, passata la querelle dei Tre Ca-pitoli, ebbero peraltro luogo dopo il regno di Eraclio, quando papa Mar-tino, che, riunendo il concilio del Laterano nel 649, si è opposto al mo-notelismo favorito dall’imperatore, è deposto e muore in esilio. Anchein quel caso, tuttavia, le crisi e le opposizioni tra papi e imperatori re-stano interne all’Impero. Fino alla metà dell’viii secolo, i papi concilia-no le tradizioni proprie alla loro Chiesa, un forte radicamento locale euna fedeltà all’Impero di cui sono, in Italia, i sudditi leali.

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2. Costantinopoli.

Mentre i vescovi di Roma basano l’eminenza della propria sede sul-la sua apostolicità, il rango e il ruolo della sede di Costantinopoli dipen-dono dallo status politico della città. È perché si tratta della capitale po-litica, amministrativa ed economica dell’Impero che la Nuova Roma ve-de i propri vescovi uguagliare e poi soppiantare quelli delle altre grandisedi [Dagron 493].

2.1. Nascita e svi luppo del patr iarcato.

All’epoca della sua fondazione e al tempo del concilio di Nicea, Co-stantinopoli non occupa un posto importante nella Chiesa: il suo vesco-vo, già vescovo di Bisanzio, è un semplice suffraganeo di Eraclea, me-tropoli della provincia d’Europa. Sotto Costanzo II, tuttavia, l’impor-tanza della sede è già manifesta: Eusebio di Nicomedia ed Eudossod’Antiochia rinunciano al loro vescovato per venire a occuparla. SottoMacedonio, l’influenza di Costantinopoli sulle Chiese vicine si svilup-pa ulteriormente. Tuttavia, è con il concilio di Costantinopoli nel 381che comincia la storia di ciò che si può chiamare il «patriarcato» di Co-stantinopoli ante litteram. Il concilio, grazie al proprio terzo canone, as-sicura al vescovo della Nuova Roma il secondo rango nella Chiesa. L’im-peratore Teodosio, definendo l’ortodossia tramite la comunione con cer-ti vescovi, cita in primo luogo Nettario di Costantinopoli.

A cavallo dell’anno 400, l’episcopato di Giovanni Crisostomo segnauna svolta: Giovanni non esita a intervenire negli affari della metropo-li d’Asia, Efeso. La prima metà del v secolo è contrassegnata dalla lot-ta tra la sede di Costantinopoli e quella di Alessandria, i cui vescovi s’in-quietano, come a Roma, per il peso crescente della capitale. Costanti-nopoli subisce numerosi gravi rovesci: Giovanni Crisostomo, in conflittocon Teofilo di Alessandria, è deposto ed esiliato (403-4); Nestorio, nelcorso di Efeso I (431), è condannato su istigazione di Cirillo di Alessan-dria e inviato in esilio; nel 448, Dioscoro di Alessandria ottiene la de-posizione e l’esilio di Flaviano di Costantinopoli. Tali successi di Ales-sandria, tuttavia, non riescono a impedire una tendenza di fondo: lo svi-luppo di Costantinopoli. Nel 451, al concilio di Calcedonia [Herman in301], malgrado l’opposizione dei legati romani, i padri di Calcedonia de-finiscono tramite il «ventottesimo canone» il rango e la giurisdizione diCostantinopoli: la sede della Nuova Roma ha prerogative (presbeia) ugua-li a quelle dell’Antica Roma; il suo vescovo ordina i metropoliti delle

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diocesi (civili) del Ponto, d’Asia e di Tracia. Altri canoni del medesimoconcilio stabiliscono un diritto d’appello a Costantinopoli per tutto ilclero.

Lungi dall’essere innovativi, i canoni di Calcedonia si limitano a ra-tificare uno stato di fatto. Fin dalla prima parte del v secolo i vescovi diCostantinopoli consacrano vescovi per le tre diocesi che formeranno ilterritorio del futuro patriarcato. L’Illirico, teoricamente sottomesso aRoma con l’intermediazione del vescovo di Tessalonica, è sensibile al-l’influenza della capitale. Nestorio aveva giudicato in appello alcuni chie-rici egiziani. Anatolio di Costantinopoli, poco prima di Calcedonia, in-terviene nella diocesi civile d’Oriente. Roma, tuttavia, tenta di oppor-si alle pretese della propria rivale orientale e il papato, a partire da LeoneMagno, rifiuta di riconoscere il «ventottesimo canone» di Calcedonia.Giustino, e soprattutto Giustiniano, sembrano momentaneamente fa-vorire Roma a danno di Costantinopoli. Tuttavia, passata l’umiliazioneper mezzo della quale si pone fine allo scisma acaciano, la sede della ca-pitale non subisce molti fastidi e diviene evidente che gli imperatori han-no nel loro patriarca un punto di riferimento preferenziale.

2.2. I l terr i tor io.

A differenza degli altri tre patriarcati della pars Orientis, il cui terri-torio è uguale (Alessandria) o inferiore (Antiochia, Gerusalemme) a unadiocesi civile, il patriarcato di Costantinopoli si estende su tre diocesicivili: Ponto, Asia e Tracia (per un totale, alla metà del vi secolo, di 28province civili e 30 eparchie ecclesiastiche).

Nel Ponto, le circoscrizioni civili ed ecclesiastiche non si sovrappo-nevano perfettamente: alla metà del vi secolo le dodici eparchie eccle-siastiche corrispondono in maniera solo imprecisa alle undici provincecivili. Non bisogna del resto scordarsi neppure dell’esistenza delle me-tropoli onorifiche: è il caso di Nicea e Calcedonia in Bitinia, o di Pom-peiopoli in Paflagonia. Nella diocesi d’Asia, divisioni civili e religiosesono quasi coincidenti: dieci delle undici province civili corrispondonoa eparchie ecclesiastiche; soltanto la Panfilia ha, a partire dal 432, duemetropoli effettive (Perge, capoluogo della provincia, e Side). In Asia,in epoche diverse, sono segnalate tre metropoli onorifiche. Infine, ladiocesi di Tracia conta sei province civili corrispondenti a sei eparchieecclesiastiche, ciascuna col proprio metropolitano. In tale diocesi si no-tano anche, nel vi secolo, sei metropoli onorifiche. È chiaro che l’arci-vescovo di Costantinopoli cerca così di favorire e tenere in pugno alcu-ni vescovi vicini.

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Il numero di città, di cui quasi ognuna ha il proprio vescovo, è con-siderevole: Ierocle, nel vi secolo, ne conta 466, ossia quasi la metà diquelle che censisce per l’intero Impero d’Oriente. Una notizia risalenteagli esordi del regno di Eraclio annovera 455 sedi episcopali. Il potereche deriva al patriarcato dall’estensione del proprio territorio è ben per-cepibile al concilio di Costantinopoli II nel 553 [Chrysos 427]: su 166firmatari, 70 dipendono da Costantinopoli (15 metropoliti di pieni di-ritti, 9 metropoliti autocefali, 46 vescovi suffraganei).

2.3. Strutture centra l i .

Il patriarcato di Costantinopoli è dotato di organi centrali efficaci:il patriarca in persona, definito dalla legislazione giustinianea «l’arcive-scovo di Costantinopoli e patriarca ecumenico», e poi il sinodo e il cle-ro da cui è circondato.

Il vescovo di Costantinopoli, come ogni vescovo, è eletto di normadal clero e dal popolo della sua città. Un’istituzione specifica, il sino-do permanente, ha inoltre il proprio ruolo nell’elezione e, molto pre-sto, l’intervento imperiale diviene decisivo. Il metropolita di Eraclea –da cui in precedenza dipendeva Costantinopoli – consacra il nuovo ve-scovo.

Gli storici della Chiesa Socrate e Sozomeno presentano così l’elezio-ne di Giovanni Crisostomo nel 398: Giovanni è eletto dal popolo e dalclero; tale proposta, trasmessa dal potente eunuco Eutropio, è approva-ta dall’imperatore Arcadio e confermata da un sinodo. Nel 449, per rim-piazzare Flaviano che ha appena esiliato, Teodosio II domanda al clerodella capitale di eleggere alcuni candidati tra i quali l’imperatore farà lasua scelta. Dal momento che gli ecclesiastici non riescono a mettersi d’ac-cordo, l’imperatore designa d’autorità Anatolio, un chierico di Alessan-dria che, nella propria lettera a papa Leone, afferma di essere stato elet-to vescovo di Costantinopoli dalla synodos endemousa. Nel vi secolo vie-ne attuata la procedura di elezione dei vescovi codificata da Giustiniano:il clero e il «popolo» propongono tre candidati; a questo punto è, neifatti, l’imperatore a decidere.

Benché il patriarca di Costantinopoli possa provenire da un’altraChiesa – è il caso, nel v secolo, di Nestorio e di Anatolio e, sotto Giu-stiniano, di Antimo, Eutichio e Giovanni III lo Scolastico –, perlopiù èscelto tra le file dell’alto clero della capitale, sempre più spesso tra i de-tentori di officia. La competenza così acquisita gli è utile, infatti, nell’e-sercizio della propria carica.

L’amministrazione del patriarcato, ma anche gli interventi nelle que-

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stioni delle Chiese d’Oriente, sono stati facilitati dal sinodo permanen-te (synodos endemousa), formato da vescovi che soggiornano (endemoun-tes) nella capitale [Hajjar 391]. Tale istituzione, che all’inizio si distin-gue difficilmente dai sinodi occasionali riuniti intorno all’imperatore,giunge a definirsi nel v secolo. Già sotto Giovanni Crisostomo il sino-do che giudica il caso di Antonino di Efeso può essere considerato co-me una prima manifestazione del sinodo permanente. Sotto Massimino(431-34) appare il termine di synodos symparousa, sinodo «presente ac-canto [al vescovo]». Nel 448, Eutiche è condannato dal sinodo perma-nente.

Il concilio di Calcedonia, riesaminando un intervento in Fenicia diAnatolio di Costantinopoli e del sinodo permanente, ne cassa le decisio-ni, ma riconosce l’esistenza e la legittimità del sinodo. Quest’ultimo,che permette a Costantinopoli d’intervenire anche al di fuori dei confi-ni del patriarcato, è dotato d’importanti prerogative in materia di disci-plina, e addirittura di fede. È a esso che Giustiniano comunica i proprieditti del 533 (sulla festa della Natività) o del 543 (condanna dell’orige-nismo); è sempre tale sinodo che, nel 518, condanna e depone Severodi Antiochia.

L’arcivescovo di Costantinopoli può contare anche sul numeroso cle-ro della Grande Chiesa, sottoposto alla sua autorità, e più precisamen-te sugli ecclesiastici cui affida incarichi amministrativi, senza che si pos-sa sempre distinguere tra la gestione della Chiesa di Costantinopoli equella del patriarcato. Come nelle altre Chiese, ma a un livello superio-re, il vescovo della capitale si circonda di chierici e di personale incari-cato di svariati compiti: dekanoi (uscieri), ekdikoi (defensores ecclesiae),economi cui è affidata la gestione dei beni della Chiesa, segretariato ecancelleria [Darrouzès 387]. L’episcopato di Giovanni Crisostomo, an-che in questo caso, segna un’evoluzione. L’importanza degli ecclesiasti-ci incaricati dei diversi officia appare chiaramente nel fatto che, dalla fi-ne del v secolo, i vescovi di Costantinopoli sono spesso reclutati tra diessi. Nel vi secolo, la legislazione di Giustiniano fornisce ragguagli sul-la gestione dei beni immobili della Grande Chiesa, distribuiti in diver-se diocesi civili.

Diversi uffici (scrinia) si occupano ciascuno di una regione, o anchedi un grande possedimento, e sono dotati di numerosi cartulari: 15 perla diocesi d’Oriente, 16 per l’Asia, 15 per il Ponto, 8 per la Tracia, 6 peril fondo di Antioco, 6 per quello di Calopodio (CI, 1.2.24, a. 530). Unanovella di Eraclio, che regola gli effettivi del clero della Grande Chiesa,fissa ugualmente un numero chiuso per i detentori di officia: 2 sincelli,12 cancellarii, 10 ekdikoi, 12 referendari, 40 notai, 12 skeuophylakes, di

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cui 4 sacerdoti, 6 diaconi e 2 lettori. La lista, che non è certamente esau-stiva – mancano gli economi –, dà un’immagine della complessità del-l’amministrazione del patriarcato.

2.4. La Grande Chiesa.

L’espressione «Grande Chiesa» designa due realtà: la chiesa catte-drale di Costantinopoli, Santa Sofia, la cui grandezza e splendore, a par-tire dalla sua ricostruzione giustinianea, contribuiscono al prestigio delpatriarca di Costantinopoli; il clero e le chiese di Costantinopoli postedirettamente sotto l’autorità del vescovo della città. Due novelle, unadi Giustiniano nel 535 (Nov., 3), l’altra di Eraclio nel 612, ambedue fi-nalizzate a limitare il numero di chierici direttamente connessi alla Gran-de Chiesa, permettono di conoscerne l’importanza.

Nel 535, Giustiniano constata da una parte che la Grande Chiesas’indebita e va in rovina per il fatto di mantenere un clero di gran lun-ga troppo numeroso, dall’altra che tale clero serve, oltre Santa Sofia, lechiese di Sant’Irene, della Theotokos di Chalkoprateia e di San Teodo-ro di Sforacio. Di conseguenza, ordina di tornare agli effettivi seguen-ti: 60 preti, 100 diaconi, 40 diaconesse, 90 suddiaconi, 110 lettori, 25cantori, più 100 portieri. Circa ottant’anni più tardi, Eraclio per partesua vuole ricondurre il numero dei chierici della Grande Chiesa a 80 pre-ti, 150 diaconi, 40 diaconesse, 70 suddiaconi, 160 lettori, 25 cantori,75 portieri. Tali effettivi – 525 persone sotto Giustiniano, 600 sottoEraclio; e si tratta di cifre che sono state superate – mostrano l’impor-tanza della Grande Chiesa e l’attrattiva che esercita sul clero. Non bi-sogna tuttavia dimenticare che lì era concentrata solo una parte del cle-ro di Costantinopoli. Altre chiese della capitale, finanziate o meno dal-la Grande Chiesa, hanno il proprio clero: la Theotokos delle Blacherne,nel 612, ha 12 preti, 18 diaconi, 6 diaconesse, 8 suddiaconi, 20 lettori,4 cantori e 6 portieri.

2.5. I l patr iarca «ecumenico».

Nel vi secolo, nella legislazione di Giustiniano, l’ «arcivescovo di Co-stantinopoli» ha il titolo di «patriarca ecumenico», che i vescovi dellacapitale non tardano ad attribuirsi essi stessi [Laurent 393]. Il suo con-tenuto è difficile da precisare, ma vi si può vedere la rivendicazione, daparte del patriarcato di Costantinopoli, di un ruolo valido nell’insiemedell’Impero. Alla fine del vi secolo è chiaro, in ogni caso, che il vesco-vo della capitale non ha più rivali in Oriente: già il concilio di Calcedo-

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nia aveva riconosciuto un diritto d’appello a Costantinopoli per tutti ichierici della pars Orientis; l’indebolimento di Antiochia e Alessandrianel vi secolo porta d’altro canto a far ordinare i patriarchi di queste duesedi, come di quella di Gerusalemme, nella capitale.

Senza dubbio, una simile situazione spiega e giustifica la vivacità del-le reazioni di Roma: Pelagio II e poi Gregorio Magno levano vive pro-teste contro il titolo di «patriarca ecumenico», impiegato ufficialmentenel 587 da Giovanni lo Scolastico. I patriarchi di Alessandria e Antio-chia, con cui Gregorio è in corrispondenza, non sembrano molto in gra-do di reagire. Presso gli imperatori, con l’eccezione di Foca, le sue la-mentele non trovano grande ascolto: Maurizio cerca di minimizzare laquestione; Eraclio e i suoi successori non sopprimeranno il titolo conte-stato. Le proteste di Roma resteranno così senza esito.

iv. alessandria, antiochia, gerusalemme; altre circoscrizioni.

Benché non possano più, a partire dal vi secolo, rivaleggiare con lapotenza di Costantinopoli, i patriarcati orientali restano attori impor-tanti nella vita della Chiesa. Alessandria e Antiochia, nonostante le pro-prie differenze, hanno in comune di essere minate dalle divisioni com-portate dalle lotte cristologiche. Quanto all’ultimo nato, il patriarcatodi Gerusalemme, più unito degli altri, deve il proprio particolare presti-gio alla presenza dei Luoghi Santi.

1. Alessandria.

Il «patriarcato» di Alessandria [Martin 410, Maspero 412] sembragià costituito all’epoca del concilio di Nicea, che definisce il suo terri-torio in rapporto alla prassi antica: le province d’Egitto e le due Libie.Presenta la particolarità di non avere metropoliti. L’arcivescovo di Ales-sandria nomina e consacra i vescovi del proprio patriarcato; li riuniscein concilio, comunica loro – tramite le lettere festali – la data della Pa-squa, esercita la propria autorità direttamente su di essi. La relazionetra l’Egitto e il suo patriarca è di conseguenza assai stretta. Il vescovodi Alessandria è eletto e consacrato nella sua città, e gli speciali riti checircondano la sua ordinazione simboleggiano la continuità dell’istituzio-ne. I suoi suffraganei, a partire dal iv secolo, sono un centinaio di nu-

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mero; esercita, inoltre, un’influenza al di fuori dell’Impero sulle Chie-se etiopica e himyarita.

La sua potenza e la sua ricchezza dipendono certo dall’estensione delterritorio e dalla struttura del patriarcato; occorre tuttavia tener contoanche della città di Alessandria, una delle maggiori città dell’Impero.L’organizzazione della Chiesa vi presenta alcune particolarità: il colle-gio dei sacerdoti ha un ruolo importante e ciascuno dei suoi membri, al-meno nel iv secolo, è destinato appositamente al servizio di una chiesa.La diversificazione dei compiti svolti dai chierici ricorda quel che si os-serva altrove. La Chiesa di Alessandria dispone di un personale impor-tante, di cui per esempio fa parte un corpo di 500 o 600 parabalanoi, in-caricati in particolare della cura dei malati e posti dalla legge sotto l’au-torità dell’arcivescovo.

Con la sua rivendicazione di un’origine apostolica e petrina – la suaChiesa è fondata da Marco, discepolo di Pietro – Alessandria occupa,nel iv secolo, il secondo posto nella Chiesa universale. Di conseguenza,gli arcivescovi di Alessandria vedono con sospetto lo sviluppo della se-de di Costantinopoli e, in alleanza con Roma, cercano di contenerlo: Ci-rillo, nella propria lotta contro Nestorio, agisce come delegato di papaCelestino. Il «ventottesimo canone» di Calcedonia sarà accettato condifficoltà dagli alessandrini: anche un patriarca calcedoniano come Ti-moteo Salofaciolo non nasconderà le proprie riserve al riguardo.

Il concilio di Calcedonia, con la sua condanna di Dioscoro, segna unacesura nella storia della Chiesa egiziana. Due Chiese si affrontano: unaè calcedoniana; l’altra, che si può dire copta o monofisita, respinge Cal-cedonia e resta fedele alla cristologia e alle tradizioni alessandrine. Oc-corre distinguere tre epoche.

Dal 451 al 482, con l’eccezione del regno dell’usurpatore Basilisco(475-76), il potere imperiale cerca di imporre ad Alessandria patriarchicalcedoniani, ma a partire dalla morte di Marciano (457) gli anticalce-doniani consacrano il proprio patriarca, Timoteo Ailuro. A seconda del-le circostanze, la Chiesa di Alessandria è governata sia da un calcedo-niano (Proterio dal 451 al 457; Timoteo Salofaciolo dal 460 al 475 e dal477 al 482), sia da un monofisita (Timoteo Ailuro dal 457 al 460, poidal 475 al 477; Pietro Mongo nel 477, poi nuovamente a partire dal 482).L’Henotikon inaugura un nuovo periodo e una serie di patriarchi anti-calcedoniani si sussegue in tutta legalità nella sede di Alessandria finoal 535. In tale data, l’imperatrice Teodora fa eleggere un nuovo patriar-ca anticalcedoniano, Teodosio, ma quest’ultimo, vittima delle divisionidella Chiesa monofisita, non può resistere: gli alessandrini gli preferi-scono il giulianista Gaiano. Nel medesimo tempo, la politica imperiale

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subisce un cambiamento radicale e Giustiniano comincia a imporre pa-triarchi calcedoniani ad Alessandria; i suoi successori faranno lo stesso.L’Egitto è diviso dallo scisma.

Anche i monofisiti sono divisi al loro interno tra severiani e giulia-nisti, che avranno i propri patriarchi sino alla fine del vii secolo. I seve-riani formano la corrente principale; sono inizialmente governati da Teo-dosio, rifugiato presso Teodora, che tuttavia rifiuta di nominare vesco-vi per le sedi vacanti. Alla sua morte (566) si apre una crisi e solo nel575 il clero di Alessandria elegge Pietro IV, che ricostituisce la gerar-chia copta ordinando 70 vescovi durante il proprio breve patriarcato. Ipatriarchi copti si susseguono da allora senza interruzioni nella sede diAlessandria. Fino all’arrivo degli Arabi, tuttavia, tale Chiesa scismati-ca non ha esistenza legale.

La Chiesa calcedoniana, unica ufficiale, non si è radicata profonda-mente e la sua esistenza dipende dall’appoggio imperiale. Il fatto chePaolo di Tabennesi (537-40), così come molti dei suoi successori, sia sta-to ordinato a Costantinopoli prima di giungere ad Alessandria, è perce-pito dagli Egiziani come un’innovazione umiliante, sintomatica di unadipendenza dei calcedoniani nei confronti della capitale. In mezzo a unapopolazione spesso ostile, gli arcivescovi calcedoniani non possono es-sere insediati e resistere senza l’aiuto della forza pubblica. L’imperato-re, per rafforzarli, li dota d’importanti poteri civili e militari, tendenzache giunge al culmine sotto il regno di Eraclio nel caso del patriarca Ci-ro. Poco dopo la conquista araba, la lista dei patriarchi calcedoniani diAlessandria si interrompe per riprendere solo nell’viii secolo.

2. Antiochia.

La Chiesa di Antiochia ha strutture assai differenti da quella di Ales-sandria [Devreesse 400]. Le sue prerogative, pur riconosciute a Nicea,non sono definite. Senza dubbio comprendono il diritto, per il vescovodi Antiochia, di consacrare i metropoliti delle province della diocesi d’O-riente, com’è definita a partire dalla fine del iv secolo. Antiochia, nel ivsecolo, approfitta e risente della presenza imperiale. Malgrado le gravicrisi che attraversa in epoca ariana, gode di un grande prestigio: Mele-zio di Antiochia presiede il concilio di Costantinopoli (381); due antio-cheni, Giovanni Crisostomo e poi Nestorio, occupano successivamentela sede di Costantinopoli. Tuttavia, indebolito dalle lotte cristologichedel v secolo, il patriarcato di Antiochia vede diminuire il proprio terri-torio: la Chiesa di Cipro fa riconoscere la propria autonomia in occasio-

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ne del concilio di Efeso (431); il patriarcato di Gerusalemme, creato aCalcedonia (451), separa da Antiochia le tre Palestine. Benché così mu-tilato, il patriarcato antiocheno comprende ancora 11 province, e del re-sto è evidente la sua influenza sulle Chiese di Persia e d’Iberia.

La storia delle sue istituzioni è poco conosciuta. Sotto il pontificatodi Severo [Alpi 396] si può vedere come il patriarca eserciti la propriaautorità: assistito dal sinodo dei vescovi d’Oriente, che riunisce perio-dicamente, nomina e consacra i metropoliti, di cui sorveglia l’azione.Nel caso di Severo, l’autorità patriarcale si scontra con la resistenza deimetropoliti calcedoniani. Le istituzioni del patriarcato (calcedoniano) diAntiochia si sviluppano successivamente fino a raggiungere il livello dicomplessità attestato dalla Notitia Antiochena [Honigmann 408-9].

Tale notizia, databile agli anni ’70 del vi secolo, ricapitola così l’or-ganizzazione del patriarcato: «Ecco le sedi che dipendono da Antiochiadi Siria: 1 patriarca, 7 sincelli, 2 litoi … 4 autocefali, 12 metropoliti e128 vescovi che sono loro sottomessi, ovvero un totale di 154». Il pa-triarca è il vescovo o arcivescovo di Antiochia (Teupoli dopo il 528),contemporaneamente metropolita di Siria I. I «12 metropoliti» sono, in9 casi, i vescovi delle capitali provinciali; nella Fenicia libanese, la me-tropoli ecclesiastica (Damasco) è distinta dalla metropoli civile (Emesa);infine, due metropoli effettive supplementari sono state create dall’im-peratore Anastasio (Sergiopoli e Dara). Gli «autocefali» sono gli arcive-scovi di Beirut, Laodicea, Emesa e, più recentemente, Cirro. I 7 sincel-li sono tutti vescovi di Siria I: i vescovi di Antiochia si sono preoccupa-ti di distinguere i propri suffraganei, che forse hanno un ruolo specialenel loro consiglio. I «2 litoi» o archiepiskopoi litoi (arcivescovi sempli-ci), entrambi titolari di sedi nella Fenicia libanese, servono invece comelegati patriarcali.

Benché occorra considerare con prudenza la lista di 128 suffraganeifornita dalla Notitia, giacché la lista dei vescovati, in alcune province, èinstabile, è innegabile che il patriarca di Antiochia, nella seconda metàdel vi secolo, sia capace di riunire numerosi vescovi: nel 553, sui 166vescovi che firmano a Costantinopoli II, 41 sono siriani, capeggiati dalpatriarca Donno [Chrysos 427]. Il patriarcato calcedoniano di Antiochiaè dunque una realtà concreta; è tuttavia minato dallo scisma monofisi-ta e i patriarchi calcedoniani sono sempre più dipendenti da Costanti-nopoli, dove talora vengono ordinati. La metà del vi secolo vede la na-scita della Chiesa «giacobita»: da allora, per certe sedi, ci saranno unvescovo calcedoniano, l’unico riconosciuto dalle autorità imperiali, e unvescovo monofisita. È il caso di Antiochia, che, dopo Sergio di Tella(557 - c. 561), ha, oltre a un patriarca calcedoniano, un patriarca mono-

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fisita. L’invasione e l’occupazione persiana modificano tale situazione:i vescovi calcedoniani sono cacciati, la Chiesa giacobita riconosciuta.Nella medesima epoca, il grande patriarca monofisita di Antiochia, Ata-nasio il Cammelliere (593-631), afferma la propria autorità: dopo la ri-conquista, sarà con lui che negozierà l’imperatore Eraclio. Il patriarcacalcedoniano Anastasio II, morto nel 609, non viene rimpiazzato primadel 639. Il fallimento dei negoziati tra Atanasio ed Eraclio porta tutta-via l’imperatore a reinsediare dei vescovi calcedoniani: gli Arabi, al lo-ro arrivo, trovano tale situazione di divisione e finiscono per cristalliz-zarla così.

3. Gerusalemme.

La trasformazione in sede patriarcale della sede di Gerusalemme av-viene tardi. Il vescovo di Elia Capitolina, modesta città della PalestinaI sottoposta a Cesarea, poteva difficilmente aspirare a occupare un po-sto di primo piano nella Chiesa, al fianco dei vescovi delle più impor-tanti città dell’Impero. Ma al tempo di Costantino, Elia ridiventa Ge-rusalemme. È la Città Santa, e il suo prestigio le permette, al tempo diNicea, di vedersi riconoscere onori speciali. Un vescovo ambizioso e at-tivo, Giovenale (422?-458), saprà trarre profitto da tale situazione par-ticolare [Honigmann 407]. Senza dubbio riesce a ottenere assai prestodall’imperatore Teodosio II, grazie a una legge che non è conservata, diavere giurisdizione non solo sulle tre Palestine, ma anche sull’Arabia ele due Fenicie. Al concilio di Efeso si allea con Cirillo di Alessandria esi oppone nettamente al vescovo di Antiochia, da cui teoricamente di-pende. Rivendica sei province che contesta ad Antiochia. Al concilio diEfeso II, che presiede con il proprio alleato Dioscoro di Alessandria,Giovenale sembra aver causa vinta: una lettera imperiale gli conferisceil titolo di arcivescovo. La costituzione di un patriarcato che include Pa-lestina, Fenicia e Arabia sembra cosa fatta nel 450; la morte di Teodo-sio II e il concilio di Calcedonia rimettono tutto in causa. A Calcedo-nia, Giovenale figura al principio come accusato ma, cambiando di cam-po, ristabilisce la propria posizione e riesce per giunta a ottenere, inseguito a negoziati con Massimo di Antiochia, di vedersi riconoscereun’autorità di tipo patriarcale, limitata tuttavia alle tre Palestine. Il con-cilio ratifica tale situazione, che non subirà più molte contestazioni.

Dopo il 451 Giovenale deve affrontare una grave crisi: il suo volta-faccia a Calcedonia provoca una rivolta nel monachesimo di Palestina;un monaco, Teodosio, è eletto vescovo di Gerusalemme e insedia nelle

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città palestinesi un intero episcopato ostile al concilio. Solo grazie al-l’aiuto dell’esercito Giovenale e i vescovi della sua fazione potranno es-sere reinsediati. Nel mezzo secolo seguente, Giovenale e i suoi succes-sori agiranno con moderazione, evitando d’impegnarsi nettamente proo contro il concilio [Perrone 414]. Nel vi secolo la situazione cambia:spinti dai monaci, i patriarchi di Gerusalemme, a partire dal regno diAnastasio, s’impegneranno sul fronte calcedoniano. Resteranno fedelia tale posizione e il patriarcato di Gerusalemme, fino al vii secolo, ri-mane un sostegno per l’ortodossia. Conosce tuttavia alcune crisi: nel vi

secolo, l’origenismo agita il mondo monastico; all’inizio del vii secolo laPalestina, occupata dai Persiani, si separa per una quindicina d’anni dal-l’Impero. Alla fine del regno di Eraclio occorre qualche tempo per inse-diare un successore del patriarca Modesto e le Chiese di Palestina saran-no spartite tra il vescovo Sergio di Joppa, che opta per il monotelismo,e Sofronio di Gerusalemme, che si oppone fermamente alla cristologiafavorita da Sergio di Costantinopoli e da Eraclio.

4. Cipro; Africa.

Le Chiese dell’Impero non sono tutte sottoposte a uno dei cinquepatriarcati. L’Illirico orientale [cfr. sopra, § 1.2] è, almeno in certi pe-riodi, di fatto indipendente. Cipro, la quale ha fatto riconoscere al con-cilio di Efeso il fatto che il proprio metropolita non era mai stato ordi-nato dal vescovo di Antiochia, costituisce una Chiesa autocefala e la suaindipendenza, minacciata momentaneamente sotto Zenone, sarà perma-nente. Infine, tra le Chiese restituite all’Impero da Giustiniano, occor-re fare una particolare menzione di quelle d’Africa.

Le Chiese d’Africa – integrate all’Impero dalla riconquista, all’ini-zio degli anni ’30 del vi secolo, fino alla fine del vii secolo – sono rior-ganizzate con la novella De Africana ecclesia del 1º agosto 535, che tra-sferisce, su domanda dei vescovi ortodossi, i beni delle Chiese ariane aquelle cattoliche. Per l’organizzazione delle Chiese delle tre provincericonquistate (Bizacena, Proconsolare, Numidia) Giustiniano si rifà al-la situazione antica. Si astiene dal procurare alla sede di Cartagine unostatuto sovrametropolitano: ciascuna delle tre province ha il proprioprimate, scelto in funzione delle antiche prassi. Non sembra neppure,nonostante certi interventi di alcuni papi, che l’Africa sia stata postasotto l’autorità pontificale. In realtà, le Chiese delle tre province afri-cane conservano ciascuna la propria indipendenza e non riconosconoaltra autorità che l’imperatore, cui si rivolgono direttamente. L’impe-

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ratore prende del resto l’abitudine, in Africa in modo particolare, diappoggiarsi per l’amministrazione del paese a un episcopato numerosoe fedele [Durliat 357], mentre le Chiese africane, approfittando dellaprotezione imperiale, conoscono una prosperità attestata dall’archeo-logia e svolgono un’attività missionaria tra le popolazioni africane nonsottomesse all’Impero.

v. l’imperatore, i concili, il diritto canonico.

Al di là di tale pluralità, l’unità della Chiesa è assicurata da due isti-tuzioni: l’imperatore, a livello permanente, e occasionalmente i grandiconcili imperiali chiamati concili ecumenici. La formazione del dirittocanonico offre una chiara dimostrazione di come le decisioni conciliarie la legislazione imperiale collaborino per regolare la vita della Chiesa.

1. L’imperatore.

Il potere dell’imperatore [Gasquet 421] nella Chiesa ha due origini.Da un lato, la tradizione romana non limita assolutamente l’autorità im-periale a una sfera civile che sarebbe distinta dalla religione. Al contra-rio, l’imperatore, in particolare come pontifex maximus, ha importanticompetenze religiose. Dall’altro lato la Chiesa, per la quale la conver-sione di Costantino è provvidenziale, accetta e favorisce gli interventidell’imperatore nella propria vita interna. La questione, in questa sede,non è tanto di sapere se l’imperatore sia un semplice fedele o se invecesia investito di una dignità quasi sacerdotale [Berkhof 418; Dagron 321],quanto di descrivere il suo ruolo nel funzionamento delle istituzioni enella pratica corrente, dove appare come il capo della Chiesa. Le vociche talora si levano per contestare i suoi interventi sono poco numero-se o di scarso peso. Un’unica limitazione s’impone all’azione esercitatadall’imperatore come detentore del potere supremo, giudice ultimo e le-gislatore: deve essere ortodosso e, benché possa innovare, è tuttavia sot-toposto alle leggi della Chiesa e ne deve rispettare le tradizioni. A par-tire da Costantino [Sansterre 423] e soprattutto da Costanzo, la situa-zione è già definita, benché il regno di Giustiniano possa apparire comeil più caratterizzato da ciò che si è potuto chiamare il «cesaropapismo»orientale.

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L’intervento dell’imperatore concerne gli aspetti più diversi della vi-ta della Chiesa. È la legge imperiale che autorizza le Chiese a possede-re beni, a ricevere donazioni o eredità, a fissare la condizione di tali be-ni e a vegliare sul loro buon impiego. L’imperatore si sente tanto più au-torizzato a intervenire quanto più ha personalmente contribuito, tramitedonazioni o attribuzione di risorse fiscali, alla fortuna delle Chiese. Giu-stiniano lo dichiara esplicitamente: «la differenza tra sacerdozio e Im-pero è debole, così come tra i beni consacrati e quelli che appartengonoalla collettività o allo Stato, giacché le liberalità del potere imperiale for-niscono costantemente alle santissime chiese la totalità delle loro risor-se e della loro prosperità» (Nov., 7.2).

La legislazione imperiale tocca anche le persone, in particolare conl’elaborazione di uno status speciale del clero e, sotto Giustiniano, di-verse leggi sulla vita monastica. Benché gli ecclesiastici debbano esseregiudicati dai vescovi, dai sinodi e in ultimo dal patriarca di Costantino-poli o dal papa, i giudizi sono posti in atto dall’autorità imperiale. Ri-guardo alle carriere ecclesiastiche, comprese le nomine dei vescovi, no-nostante siano così importanti nella vita delle città, gli interventi impe-riali sono limitati. Le eccezioni concernono principalmente le grandisedi, in particolare quella di Costantinopoli. La Chiesa riconosce inol-tre all’imperatore il diritto di modificare la geografia ecclesiastica in oc-casione di rimaneggiamenti amministrativi, oppure accordando a unadeterminata sede episcopale il rango di metropoli onorifica.

Tali interventi possono sembrare limitati all’organizzazione dellaChiesa. L’imperatore, tuttavia, interviene anche nella liturgia e può mo-dificare il calendario delle feste: in tal modo, Costantino fa fissare dalconcilio di Nicea la data della Pasqua; Giustino II generalizza la festadel Natale al 25 dicembre; Giustiniano, quella della festa dell’Hypapan-te (Purificazione) al 2 febbraio e Maurizio quella della Dormizione del-la Vergine al 15 agosto. Infine, nel campo dei dogmi, l’imperatore ha unruolo decisivo. Se spesso ratifica le decisioni prese dalla Chiesa in occa-sione dei concili, gli è concesso di stimolare tali decisioni e di arbitrarefra tendenze opposte per definire la fede. Grazie alle proprie leggi e al-la propria attività, impone l’ortodossia e combatte l’eresia. Infine, puòlegiferare autonomamente per stabilire il dogma: l’Henotikon di Zeno-ne può essere evocato in tal senso; Giustiniano pubblicherà diversi edit-ti dogmatici e sarà in ciò imitato da Eraclio.

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2. Concili ecumenici.

I sinodi o concili, molto prima dell’epoca costantiniana, hanno avu-to un ruolo importante nella vita e nella coesione delle Chiese [Sieben430-31]. Sono di natura assai diversa. Alcuni sono puramente locali: èil caso dei sinodi metropolitani, che si generalizzano nel iv secolo e riu-niscono i vescovi di una medesima provincia o, più tardi, dei sinodi pa-triarcali. Nel iv secolo appare una varietà speciale di sinodi: grandi con-cili che possono essere definiti imperiali in quanto riuniti su iniziativadell’imperatore e che sono composti da vescovi che rappresentano nu-merose Chiese dell’Impero. Tali concili imperiali sono frequenti nel ivsecolo, particolarmente in occasione della crisi ariana. Si confondonoconseguentemente – con l’eccezione del «brigantaggio» di Efeso – coni concili ecumenici, il cui modello, di epoca costantiniana, è il conciliodi Nicea nel 325.

Tra i concili imperiali, la Chiesa riconosce un’autorità particolare aiconcili «ecumenici», che, per il periodo considerato, sono in numero dicinque: Nicea (325); Costantinopoli I (381); Efeso (431); Calcedonia(451); Costantinopoli II (553). Tali concili non si distinguono da altriconcili imperiali (per esempio Rimini, o Efeso II) né per le circostanzedella loro riunione, né per la loro grandezza, né per la loro composizio-ne: se, in linea di principio, le grandi sedi sono rappresentate, tale rego-la non è sempre rispettata (nessun rappresentante di Roma siede a Co-stantinopoli I). L’ecumenicità di un concilio generale è determinata piut-tosto dall’accoglienza che gli viene tributata, ossia dal fatto che le suedecisioni sono accettate da tutte le Chiese – in realtà, da quelle princi-pali. Vicendevolmente, il riconoscimento – soprattutto per quanto con-cerne il dogma – delle decisioni di questi concili è una condizione di cat-tolicità e ortodossia: le Chiese che, per esempio, si rifiutano di ricono-scere il IV o il V concilio ecumenico, si trovano in condizione di scismarispetto alla Chiesa imperiale.

I concili ecumenici sono suscettibili di una definizione teologica: ivescovi riuniti, dopo aver confrontato le tradizioni delle proprie Chie-se, prendono all’unanimità decisioni ispirate dallo Spirito Santo. Nel lo-ro funzionamento concreto queste assemblee, spesso movimentate, so-no affini a consigli imperiali. È l’imperatore, infatti, che prende la de-cisione di riunire un concilio, determina la composizione ed emana leconvocazioni, assicura l’instradamento dei vescovi e fissa il luogo dellariunione (sempre in Oriente, di conseguenza con una scarsissima parte-cipazione occidentale; quattro volte su cinque, a Costantinopoli o nei

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suoi dintorni). Stabilisce anche l’ordine del giorno, può assistere alle se-dute e dirigere i dibattiti. L’imperatore si fa rappresentare da alti fun-zionari laici, che vegliano sul corretto svolgimento delle discussioni; in-fine, gli spetta di ratificare le decisioni prese, di farle eseguire e di darloro forza di legge: è solamente allora che s’impongono all’insieme del-le Chiese dell’Impero. Il funzionamento dei concili ecumenici illustracosì il potere esercitato dall’imperatore nella vita della Chiesa, più chel’autorità dei patriarchi [De Vries 428]: lo svolgimento del concilio diCostantinopoli II, dove Giustiniano impone duramente la sua volontàa papa Vigilio, è caratteristico sotto tale aspetto.

3. Il diritto canonico.

La formazione del diritto canonico fornisce una dimostrazione sup-plementare del modo in cui l’imperatore interviene nella vita della Chie-sa [Faivre 433]. Per risolvere i problemi che vengono alla luce, le auto-rità ecclesiastiche – vescovi, concili – possono promulgare dei testi di-sciplinari, i canoni. Questi ultimi spesso hanno solo un valore locale, mapossono essere presi in prestito da una Chiesa all’altra e divenire di usogenerale. Si costituisce così progressivamente un diritto canonico, le cuifonti sono molteplici e la cui codificazione è tarda e incompleta. A fian-co dei «canoni degli apostoli» – di cui le Chiese d’Oriente riconosconol’autorità – e di quelli di alcuni padri della Chiesa, prendono posto i ca-noni disciplinari di antichi concili locali e quelli dei primi quattro con-cili ecumenici, con una prima messa in ordine operata dal concilio diCalcedonia. Soprattutto, a tali testi di origine ecclesiastica finiscono peraggiungersi le leggi imperiali, tra le quali occupa un ruolo particolarmen-te importante la legislazione di Giustiniano. Nel vi secolo, il patriarcadi Costantinopoli Giovanni lo Scolastico (565-77) riunisce una delle pri-me collezioni canoniche. I canoni dei concili vi sono classificati sotto 50titoli; vi si aggiungono 68 canoni di san Basilio ed estratti dalle Novel-le di Giustiniano, in 87 capitoli. Altre collezioni analoghe costellano l’e-laborazione del Nomocanon, che nella sua mistura tra testi imperiali edecclesiastici presenta le caratteristiche del diritto canonico bizantino.Per fissarne precisamente il contenuto, occorre tuttavia attendere il con-cilio Quinisesto del 692, le cui decisioni saranno accolte negativamen-te da Roma.

L’ampiezza dei cambiamenti sopravvenuti in meno di tre secoli, daCostantino all’epoca giustinianea, dà un’immagine della vitalità dellaChiesa, della sua capacità di adattarsi a una situazione nuova e della sua

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volontà d’impegnarsi nella vita di un Impero romano col quale sembraidentificarsi. Compaiono, tuttavia, alcuni segni di debolezza, soprattut-to a livello delle istituzioni centrali, e l’esistenza, in parte teorica, di una«pentarchia» esercitata in modo collegiale dalle grandi sedi non sembramolto in grado di risolvere i gravi problemi d’unità che vengono a por-si. È solo ammettendo l’intervento di imperatori essi stessi cristiani eortodossi che la Chiesa trova l’autorità centrale che le manca, e la cri-stianizzazione dell’Impero romano ha per corollario l’apparizione di uncristianesimo imperiale. Se Giustiniano è in grado di distinguere tra «ilsacerdozio per il servizio delle cose divine e l’Impero per l’ordine dellecose umane» (Nov., 6), afferma peraltro che tra i due «la differenza èscarsa» (Nov., 7).

1j. gascou, Un codex fiscal Hermopolite (P.Sorb. II 69), Atlanta 1994.

2 BHG, 1374; ed. Malingrey, SC 13a.3 BHG, 1241; ed. Gorce, SC 90.4gascou, Un codex fiscal Hermopolite cit.

5 Epistolae Romanorum Pontificum genuinae et quae ad eos scriptae sunt a S. Hilaro usque ad Pela-gium II, a cura di A. Thiel, Brunsbergae 1868 (rist. Hildesheim 1974), pp. 350-52; trad. inDagron 321, p. 310.

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constantin zuckerman

v. L’esercito

Nel 364 Valentiniano e Valente, tornati dalla Mesopotamia con unesercito sconfitto dai Persiani un anno prima, divisero le proprie trup-pe a Naisso. Questa breve notizia di Ammiano Marcellino (26.5.3) è sta-ta interpretata nel senso di un giudizio di Salomone: ciascuna unità diélite dell’esercito romano sarebbe stata spaccata in due [Hoffmann 449].Tuttavia, non andò così. Il corpo di spedizione di 65 000 uomini radu-nato nel 362 dall’imperatore Giuliano per invadere la Persia, senza dub-bio la più importante concentrazione di truppe di tutto il nostro perio-do, fu ripartito per unità intere, o gruppi di unità, tra la parte occiden-tale dell’Impero, da allora in poi governata da Valentiniano, e la parteorientale, attribuita a Valente. Tale divisione coincide con la spartizio-ne quasi definitiva dell’Impero romano. La divisione dell’esercito impe-riale tra due o più imperatori, praticata dalla Tetrarchia ma sospesa du-rante i regni solitari di Costantino, Costanzo II, Giuliano e Gioviano,diviene fissa e strutturale. Le forze armate delle due partes imperii nonsaranno mai più riunite. L’Impero d’Oriente, la futura Bisanzio, acqui-sisce a partire dagli anni ’60 del iv secolo un’identità e istituzioni distin-te, tra le quali il Senato e l’esercito.

La spartizione delle truppe nel 364 offre una buona occasione per in-serirsi nel flusso della storia bimillenaria dell’esercito romano e bizanti-no. Nessun fossato, nessuna rottura definita separano l’esercito dell’al-to Impero romano da quello del «basso Impero», né quest’ultimo dal-l’esercito bizantino più tardo. Gli schemi di periodizzazione attualmentein voga prendono le mosse dai mutamenti politici, religiosi, territorialie linguistici, ma la storia dell’esercito gode della stessa continuità delloStato di cui garantisce l’esistenza.

Tradizionalmente si delimita il primo periodo bizantino con dueriforme militari di grande importanza: da una parte quella di Dioclezia-no e/o di Costantino, dall’altra quella di Eraclio. Tale visione dev’esse-re fortemente sfumata. Vi furono alcuni imperatori più impegnati di al-tri nell’organizzazione dell’esercito; tuttavia, un esame più approfondi-

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154 Le istituzioni dell’Impero

to dissolve spesso le grandi riforme in una serie di misure limitate sca-glionate nel tempo, tentativi di rimediare alle debolezze mostrate manmano dall’esercito imperiale. Il nostro periodo incomincia, in effetti,con una riuscita riorganizzazione delle strutture militari e termina conuna crisi statale che deriva in primo luogo dalle fratture dell’esercito.Interamente professionale, mantenuto e pagato dallo Stato, l’esercitodomina di gran lunga gli altri dipartimenti del servizio pubblico e fa laparte del leone nel bilancio. Tracceremo l’evoluzione di questo model-lo, ereditato dal principato, mostrando la sua capacità di adattamento,ma anche la sua rigidità e i suoi limiti, il cui effetto cumulato si manife-sta chiaramente all’epoca di Eraclio.

i. le strutture dell’esercito: il dispositivo e gli effettivi.

Nel corso del iv secolo si sviluppa un «esercito a due velocità» [Car-rié 139]. Un esercito centrale, pronto a intervenire su ciascun fronte, sidistingue sempre di più dall’esercito delle guarnigioni, disperso lungo lefrontiere. L’esercito mobile, meglio addestrato, remunerato ed equipag-giato, diviene alla fine l’unica forza adeguata per un’azione militare digrande portata. Le guarnigioni confinarie perdono la combattività chepossedevano sotto il principato e rimangono adatte solamente a compi-ti di sorveglianza locale. Una simile graduale atrofia di una grande par-te delle forze armate diviene un grosso handicap nel v-vi secolo, pur de-rivando da un provvedimento ben intenzionato, nato dall’esperienzadelle disfatte militari del iii secolo: la creazione di una frontiera fortifi-cata.

1. Una frontiera fortificata.

All’ideologia di espansione permanente della repubblica e dell’iniziodel principato, a partire dalla metà del iii secolo si sostituisce l’ammis-sione che l’imperium Romanum ha raggiunto i suoi limiti e che il suo ruo-lo non è più di ampliarli, ma di difenderli al meglio. È in tale circostan-za che la parola limes – passaggio tra due campi, sentiero, linea di de-marcazione – acquista il senso specifico di frontiera sorvegliata,eventualmente fortificata. Dalla metà del ii secolo, lungo le frontiere simoltiplicano fortilizi e opere difensive di vario tipo, tra cui il famoso

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Vallo di Adriano in Scozia; tuttavia è sotto i Tetrarchi e i loro primi suc-cessori che viene messo a punto il dispositivo conosciuto, dopo qualcheritocco, tramite la Notitia Dignitatum.

Tale documento bipartito sarà citato frequentemente in queste pa-gine, giacché fornisce l’idea delle «dignità», funzioni civili e militari dialto e medio livello, rispettivamente in Oriente e in Occidente – in al-tri termini l’organigramma dei servizi statali dell’Impero diviso. La suacomposizione risale al 401 [Zuckerman 346]. Conservata in Occidente,nel primo terzo del v secolo ha subito rimaneggiamenti nella sua sezio-ne occidentale, ma la sezione orientale è stata lasciata quasi intatta. LaNotitia comprende, tra l’altro, il repertorio completo dei posti d’ufficia-le comandante un’unità militare, e dunque delle unità stesse, e indica illuogo di acquartieramento delle unità confinarie.

La Notitia enumera, in Oriente, 336 guarnigioni di frontiera, ripar-tite in tredici comandi (alcuni dei quali corrispondono a una provincia,altri invece ne inglobano due o più), affidati a comites o a duces. Tenu-to conto della perdita del capitolo dedicato alle due Libie, il loro nume-ro totale non doveva superare le 350. Tale lista non presenta, come cre-dono alcuni, uno schema tetrarchico cristallizzato, ma una panoramicaaggiornata del dispositivo funzionale evolutosi per tutto il corso del ivsecolo, e che può essere diviso in quattro settori:

– circa un terzo delle guarnigioni, 104 in tutto, sono scaglionate lun-go il Danubio, nelle quattro province che costeggiano il fiume (Me-sia I, Dacia ripuaria, Mesia II, Scizia). Si annoverano tra di essealcune unità della flotta fluviale. Il nemico principale che si trova-no ad affrontare all’inizio del iv secolo è costituito dai Goti. Suc-cessivamente, arriveranno gli Unni, gli Slavi, gli Avari;

– un altro gruppo importante protegge il fianco orientale dell’Impe-ro, fronteggiato dalla Persia. Tale dispositivo essenzialmente linea-re, determinato in parte dai corsi dell’Eufrate e del Tigri, compren-de 62 unità ripartite tra i comandi di Armenia, Mesopotamia eOsroene;

– i quattro comandi situati più a sud – la Siria, la Fenicia, l’Arabia ela Palestina – sono forti di 95 unità. In assenza di ostacoli natura-li, tale dispositivo si colloca piuttosto lungo una linea di demarca-zione, difficile da tracciare, tra la zona di sfruttamento agricolo ed’insediamento sedentario da una parte, e l’ambiente desertico deinomadi dall’altra. In questa regione, il principale pericolo per l’Im-pero viene dalle tribù arabe alleate con la Persia, che tuttavia talo-ra agivano per conto proprio. Altre tribù arabe sono alleate con

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l’Impero, e ciò complica notevolmente la demarcazione [cfr. cap.xiii];

– 75 unità, divise tra i comandi d’Egitto e della Tebaide, sono sca-glionate lungo circa 1000 km, dal delta del Nilo fino alla prima ca-teratta. Benché le fonti lo descrivano come un limes, tale disposi-tivo non contrassegna una frontiera propriamente detta. La mag-gior parte delle guarnigioni sono insediate in grandi agglomerati ofortezze lungo la valle del Nilo, troppo stretta perché si possa faredistinzione tra una zona confinaria e il retroterra agricolo. La val-le, soprattutto nella sua parte meridionale, e ancor più le oasi a oc-cidente del Nilo sono minacciate dalle tribù del deserto, tra cui iBlemmi [cfr. cap. xiv].

La natura del dispositivo confinario, conosciuto non solo grazie allaNotitia ma anche tramite numerosi studi archeologici di siti fortificati,costituisce attualmente l’oggetto di un vivo dibattito. Certuni arrivanoa negare al termine limes il senso di «frontiera fortificata», insistendosulla dispersione degli insediamenti di guarnigione e sul ruolo dei loro ef-fettivi nella sorveglianza della popolazione locale piuttosto che nella di-fesa contro gli invasori stranieri [Isaac 469]. Non sorprende che questatesi poggi su uno studio parziale dei siti fortificati in Arabia e Palestina,la cui ubicazione subisce in effetti il condizionamento del tracciato del-le piste carovaniere, della disponibilità di sorgenti d’acqua, ecc. Uno stu-dio fondato principalmente sui dati della frontiera africana – di cui solola sezione corrispondente alle due Libie appartiene all’Impero d’Orien-te – sottolinea il ruolo di tale dispositivo nel controllo delle migrazionistagionali dei nomadi e del loro bestiame (la transumanza), consideran-do il limes come una zona di contatto e di scambi piuttosto che di scon-tro [Whittaker 477]. Questi studi attirano l’attenzione su mansioni ta-lora misconosciute delle truppe di frontiera, ma sottovalutano il compi-to primario di tale dispositivo, che invece risulta assai chiaro dalle fonti(in questo caso, De rebus bellicis [435, § 20, pp. 36-39], diretto senza dub-bio all’imperatore Valente alla fine degli anni ’60 del iv secolo):

Tra gli interessi della cosa pubblica c’è anche l’utile cura dei confini, che cir-condano tutti i lati dell’Impero; la loro difesa potrà essere meglio assicurata da unafitta serie di castelli, in modo che si ergano a intervalli di mille passi con un solidomuro e con fortissime torri … Vi si dovrebbero tenere posti di guardia e picchettidi esplorazione, in modo che la quiete delle province, avvolta, per così dire, da unacinta protettiva, riposi illesa.

Questo vagheggiamento un po’ teorico di una linea di piazzeforti co-sì fitta si ispira allo sforzo realizzato sul Danubio. Una descrizione più

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realistica della frontiera orientale appare nella Vita di Alessandro l’Ace-meta, che «percorre tutto il limes» tra Resafa e Palmira (in Siria e in Fe-nicia) all’incirca nel 425 e il cui biografo nota, riguardo a questa zonadesertica, che «tra Romani e Persiani esistono delle piazzeforti che ten-gono testa ai barbari, distanti l’una dall’altra 10 o 20 miglia». Per cita-re solo una legge tra tante, la novella 4 di Teodosio II, promulgata nel438, ricorda che, «per una disposizione degli antichi, tutto il territoriosottomesso al nome di Roma è protetto dalle incursioni barbare grazieal bastione del limes».

I capi militari del basso Impero avevano una vera e propria strategiabasata sul limes? Secondo lo schema strategico di uno specialista dellateoria militare moderna, le guarnigioni di frontiera assumono il ruolo diprimo sbarramento che ritarda l’invasore fino all’arrivo dei rinforzi epoi minaccia le retrovie e le linee di comunicazione del nemico, se que-st’ultimo avanza senza prima essersi sbarazzato dei forti confinari[Luttwak 471]. Nessun testo dell’epoca presenta questo schema in ter-mini espliciti e si è rimproverato al suo autore di aver modernizzato ilpensiero militare antico [Isaac 469, pp. 372-418]. Tali critiche sono sen-za dubbio eccessive [Wheeler 478], giacché è legittimo e per certi versiindispensabile tradurre in termini moderni – senza dimenticare che sitratta di una traduzione – i fenomeni che ci vengono rivelati dallo stu-dio dell’Antichità. Quand’anche si rifiuti ai generali del basso Imperolo spirito di sistema inerente alla nozione moderna di strategia, si ha di-ritto di parlare dell’immaginario del limes. Le fonti lo assimilano me-taforicamente a una cintura, un bastione, un fossato, un muro d’acciaio.Le distinte fortificazioni confinarie vi si fondono in una barriera conti-nua che protegge i fianchi dell’Impero. Dall’epoca dei tetrarchi, l’im-magine del limes protetto e protettore fornisce la garanzia materiale del-la sicurezza ritrovata dopo la crisi del iii secolo [Zuckerman 479].

Quest’immagine assai forte, presente alla coscienza degli imperatorie dei loro sudditi, conferisce la sua giustificazione all’esistenza di un si-stema che ne ha davvero bisogno. Nato dal medesimo sentimento d’in-sicurezza della linea Maginot e della «frontiera blindata» dell’Unione So-vietica (glorificata nei discorsi degli anni Trenta, ma attraversata senzail minimo sforzo dai carri armati tedeschi nel 1941), il limes è altrettan-to inefficace. Ogni ostacolo lineare è incapace di arrestare un attacco con-centrato. La maggioranza delle guarnigioni è dunque evacuata o dissoltasenza rumore nel corso del v e del vi secolo, nel momento in cui il gover-no si rende conto che esse non giustificano il costo del loro mantenimen-to. Alla fine del nostro periodo, il sistema di difese confinarie ha cessa-to di esistere. Non può essere preso in considerazione nessun tentativo

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di affrontare il nemico sulla frontiera, danubiana od orientale. Se all’ini-zio del iv secolo il limes si erige come un muro protettore sui fianchi lon-tani dell’Impero, l’unica cinta protetta che l’Impero possiede nel 626, altempo dell’invasione avaro-persiana, è quella di Costantinopoli. Lo Sta-to bizantino dei secoli oscuri è uno Stato senza frontiere.

A tale contrasto occorre aggiungerne un altro. Il sistema del limesimpone un’ampia dispersione di truppe in guarnigioni ridotte a qualchecentinaio di soldati. Trasformazione del dispositivo stazionario del ii-iiisecolo, è agli antipodi dell’arte militare romana classica, fondata sullelegioni, unità tattiche maneggevoli di ampie dimensioni (c. 5500 uomi-ni senza gli ausiliari). L’immobilizzazione e la dispersione delle truppesulle frontiere fa pesare, alla fine, una gravosa ipoteca sul loro livellod’addestramento e sul loro valore guerresco [cfr. infra, § 3]. Frattanto,si viene a creare una forza mobile che si afferma di fronte all’esercitodelle guarnigioni.

2. L’esercito da campagna: la fanteria e la cavalleria.

Gli autori antichi e ancor più i ricercatori moderni hanno posto allabase della storia militare dell’Impero cristiano una riforma radicale chemirava a dividere in due classi le forze armate. Zosimo [186] intorno al500 e Malala [176] verso il 570 attribuiscono a Diocleziano la creazio-ne di guarnigioni confinarie: «Diocleziano eresse delle fortezze sul li-mes, dall’Egitto fino alle frontiere persiane, e vi insediò dei soldati li-mitanei» [Malala 176, 12.308]. In Zosimo (2.34), a ciò si aggiunge un’ac-cusa gravissima rivolta all’odiato Costantino I:

Queste misure di sicurezza vennero meno con Costantino, che tolse la maggiorparte dei soldati dalle frontiere e li insediò nelle città che non avevano bisogno diprotezione; privò dei soccorsi quelli che erano minacciati dai barbari e arrecò allecittà tranquille i danni provocati dai soldati: perciò ormai moltissime risultano de-serte. Inoltre lasciò rammollire i soldati, che frequentavano i teatri e si abbandona-vano a dissolutezze: in una parola fu lui a gettare il seme, a causare la rovina delloStato che continua sino ai nostri giorni.

Questo celebre passaggio è servito ad appoggiare la conclusione se-condo la quale «è dunque Costantino … che, mosso dalla propria ambi-zione, ha istituito un esercito di manovra, concentrato permanentemen-te all’interno del territorio romano, a sua immediata disposizione» [VanBerchem 464, p. 114].

Non si può rimproverare agli autori del vi secolo un certo appiatti-mento cronologico nella descrizione di avvenimenti distanti duecento

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anni dalla loro epoca. Tentiamo di proporne una visione più espansa neltempo, com’è possibile ricavarla dai documenti contemporanei, e comin-ciamo dalla sottolineatura di un punto essenziale. Le lista di unità del-l’esercito mobile nella Notitia [109] sono organizzate secondo un ordi-ne di precedenza, che corrisponde all’origine più o meno antica di cia-scuna unità nella sua categoria di truppe. Dopo un inizio modesto sottola Tetrarchia, l’esercito mobile raggiunge il suo apogeo verso l’epoca del-la Notitia (401), che gli attribuisce, solo in Oriente, più di 150 unità, os-sia parecchie decine di migliaia di uomini.

Da chi è composto allora questo esercito e com’è organizzato?

2.1. Le legioni e g l i auxi l ia .

A partire dal ii secolo d.C. era pratica corrente prelevare dalle legio-ni alcuni distaccamenti destinati a campagne importanti e missioni spe-cifiche. Le formazioni ad hoc, che di solito non comportavano più di duecoorti tratte da una sola legione per non indebolirne troppo gli effetti-vi, hanno ricevuto il nome di vexillationes: un vexillum, stendardo co-mune, trasformava una formazione composita in una unità tattica a par-te. La loro missione poteva durare anni, ma presto o tardi ciascun di-staccamento doveva riunirsi alla propria unità d’origine. La crisi del iiisecolo ha dovuto rendere più frequente il prelevamento di vexillationese più problematico il ritorno alle rispettive basi, soprattutto quando l’Im-pero era lacerato dalle usurpazioni. All’inizio dell’epoca tetrarchica siconstata, in ogni caso, che certi distaccamenti legionari seguono perma-nentemente gli imperatori durante le loro campagne, mentre il legamecon le unità d’origine diviene sempre più teorico.

Aurelio Gaio, un legionario cristiano che si è dovuto ritirare dall’e-sercito in occasione delle persecuzioni del 302, si fa incidere sulla lapi-de la propria carriera, peraltro assai modesta, e la lista di più di trentacittà e paesi in cui si è recato nel corso del suo servizio militare. Tali da-ti geografici ricalcano perfettamente gli itinerari militari dei tetrarchi[Drew-Bear 442; Zuckerman 491]. Qualunque sia la legione cui appar-tiene Gaio (ne ha conosciute tre), la sua coorte è sempre in marcia al se-guito di un augusto o di un cesare. I suoi spostamenti mostrano in azio-ne un nuovo esercito, esercito agguerrito e altamente mobile che mettein campo i migliori elementi delle vecchie legioni e si batte al fianco de-gli imperatori.

Le origini dell’armata mobile spiegano come mai i suoi effettivi sia-no designati, dal secondo quarto del iv secolo fino alla metà del vi, conil nome di comitatenses, che indica l’appartenenza al comitatus, il segui-

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to, ossia la Corte imperiale. Le migliori unità di tale armata sono pro-mosse, all’incirca nel 360, al rango di palatini, truppe del palazzo, maquesto titolo onorifico rimane poco utilizzato. Nonostante il loro nome,i comitatenses non sono né una guardia di palazzo né delle vere e proprieguardie del corpo. Quest’ultimo compito spetta a delle unità speciali, lescholae palatine e, a partire dalla metà del v secolo, gli excubitores.

Le legioni palatinae hanno il rango più prestigioso tra le unità di fan-teria. In Oriente sono 13; poi, altre 57 sono classificate comitatenses epseudocomitatenses (unità confinarie integrate posteriormente all’eserci-to mobile). Tra queste legioni si trovano alcune creazioni tetrarchiche,così come formazioni più recenti che portano i nomi di imperatori deliv secolo. Il gruppo più rilevante consiste in distaccamenti di legioni delprincipato, identificate dal nome e dal numero d’ordine (Quinta Mace-donica, Septima Gemina), dal numero solamente (Undecimani = XI Clau-dia) o infine da soprannomi come Daci o Scythae, che non rimandano atali popoli ma alle legioni anticamente di stanza nelle province di Daciae Scizia.

Più di un distaccamento della medesima legione può essere incorpo-rato nell’esercito mobile e la legione in questione è suscettibile di figu-rare ugualmente tra le guarnigioni confinarie. Tale frazionamento delleantiche legioni ci conduce al problema così dibattuto della dimensionedelle unità in epoca protobizantina. In effetti, la legione classica com-prende all’incirca 5500 uomini, mentre le ali e le coorti ausiliarie delprincipato annoverano, a seconda del tipo d’unità, da 500 a 1000 sol-dati. Tali ordini di grandezza permettono di valutare gli effettivi dell’e-sercito che partecipa a una campagna o dell’esercito romano nella suainterezza, se si conoscono le unità che lo compongono. Quale dimensio-ne si può supporre, però, per una legione del iv-v secolo? La questioneha ricevuto risposte divergenti. Contro la diffusa ipotesi di una nuova«legione tetrarchica» composta stabilmente da 1000 fanti, Jones [149]ha mantenuto la cifra di 6000 uomini, valutazione elevata degli effetti-vi dell’antica legione, aumentando in proporzione le dimensioni dell’e-sercito imperiale. Tuttavia, il frazionamento cui erano correntementesottoposte le legioni mostra che non si può più attribuire un’unica gran-dezza alle differenti formazioni che portano questo nome nella Notitia.I distaccamenti divenuti legioni palatine o comitatenses comprendonoprobabilmente una o due antiche coorti (500-1000 uomini) e la dimen-sione delle legioni «madri» insediate sulle frontiere dipende dal nume-ro di distaccamenti precedentemente prelevato (2000-3000 uomini?).Stimare la dimensione delle legioni create nel corso del iv secolo è an-cora più difficile. I nomi di legione, ala, coorte o altro, costantemente

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impiegati nella Notitia, non forniscono informazioni sugli effettivi del-le unità in questione. Se sotto il principato (come nell’esercito moder-no) tutte le unità della medesima categoria avevano una struttura e unadimensione comuni, ciò non avviene più nella nostra epoca. Questo è ilmotivo per cui le fonti menzionano sempre meno frequentemente la ca-tegoria di una unità. Il termine generico di numerus/arithmos, che all’i-nizio designava le formazioni non appartenenti a un tipo riconosciuto,s’impone come denominazione corrente di tutte le unità militari.

Gli auxilia palatini fanno parte delle unità di fanteria dell’esercitomobile, a fianco delle legioni. La Notitia d’Oriente ne enumera 43. Leipotesi sulle loro origini, perlopiù oscure, hanno alimentato un lungo di-battito gravato di connotazioni ideologiche. Gli auxilia sarebbero staticomposti in maggioranza, se non interamente, da reclute germanichegiunte da oltre il Reno, chiamate dai tetrarchi a soccorrere un esercitoromano vacillante [Hoffmann 449]. L’immagine di un Impero mediter-raneo invecchiato, bisognoso del giovane sangue germanico per conti-nuare a resistere agli attacchi barbarici, ha goduto di durevole fortunanella storia militare. Tuttavia, la nozione di una massiccia «barbarizza-zione» dell’esercito post-tetrarchico, soprattutto dei suoi elementi piùagguerriti, è poco pertinente per l’Impero d’Oriente. Quanto agli auxi-lia, le scarne informazioni sui più antichi tra di essi, posizionati al prin-cipio delle liste della Notitia, li presentano come formazioni assai etero-genee.

L’auxilium dei Batavi è la trasformazione di una unità della Guardiaimperiale sotto il principato. L’auxilium dei Mattiaci trae le proprie ori-gini da una modesta milizia renana, mentre quello degli Eruli, l’unicodi cui si può affermare con certezza che i suoi primi effettivi fossero sta-ti forniti da barbari giunti dal di fuori dell’Impero, potrebbe essere com-posto dai guerrieri del re erulo Naulobato, che aveva tradito i propri al-leati Goti ed era passato dalla parte dell’imperatore Gallieno al tempodell’invasione del 267-68 [Zuckerman 465].

L’inserimento di queste formazioni disparate nell’esercito regolareimpone loro un sistema di gradi uniforme [cfr. infra]; il rinnovamentodegli effettivi elimina le particolarità etniche dopo una o due generazio-ni. Poco numerosi all’epoca dei tetrarchi, gli auxilia crescono di nume-ro nel corso del iv secolo. Questo nuovo tipo di unità d’élite di fanteriaè più leggero della legione a livello di armamento e i suoi effettivi supe-rano a malapena la dimensione di una coorte legionaria.

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2.2. L’ascesa del la caval ler ia .

Le truppe di fanteria rappresentano ancora, verso il 400, circa trequarti dell’armata mobile d’Oriente come numero di unità e una parteanaloga, se non superiore, quanto a effettivi; cionondimeno, risultanosuperate dalla cavalleria nell’ordine di precedenza indicato dalla Noti-tia. Il posto della cavalleria nelle liste della Notitia, quelle dell’esercitomobile come quelle delle guarnigioni provinciali, riflette una trasforma-zione profonda dell’arte della guerra, un’innovazione che separa, in que-st’ambito, l’Antichità dal Medioevo.

La potenza di Roma, come quella degli stati greci di epoca classicaed ellenistica, è fondata sulla fanteria: la falange, seguita dalla legione.La cavalleria del principato è composta, ad eccezione di piccoli contin-genti a cavallo facenti parte delle legioni, da unità ausiliarie perlopiù re-clutate tra i peregrini, che non fanno molta concorrenza alle legioni nésul piano tattico né per quanto concerne la condizione dei loro soldatie il prestigio sociale del servizio. I primi segni di cambiamento appaio-no nella seconda metà del iii secolo. Le monete battute dall’imperatoreGallieno e dall’usurpatore gallico Postumo recano, tra i consueti elogidi legioni e pretoriani, alcuni slogan in onore dei cavalieri: fidei equitume concordia equitum. Si tratta di formazioni di tipo nuovo, denominatevexillationes (equitum) o semplicemente equites [Speidel 460]. Si trattadel medesimo tipo di formazione che si ritrova tra le unità d’élite dellaNotita.

I cavalieri d’élite di epoca tetrarchica sono reclutati tra i popoli del-l’Impero che, come i Mauri e i Dalmati, sono abili nel maneggio dellalancia e del giavellotto e portano un’armatura assai leggera. Nel iv seco-lo, l’influenza orientale porta a introdurre un’armatura più pesante, co-me testimoniato dagli stessi nomi delle unità, catafractarii (bardati d’ar-matura) e clibanarii (chiusi in un «forno», metafora per la pesante co-razza). L’arco rinforzato (detto «composito») diviene la loro arma dielezione.

I mugugni degli scrittori militari conservatori permettono di com-prendere i turbamenti provocati dall’ascesa della cavalleria. Il primo alevarsi contro il declino delle legioni, nel 386 circa, è Flavio Vegezio.L’autore ricorda al suo giovane sovrano Valentiniano II che, dei tre ra-mi dell’esercito (cavalleria, fanteria e flotta), i fanti sono i più impor-tanti per lo Stato giacché possono essere impiegati su tutti i terreni e illoro costo per soldato è il più ridotto. Tuttavia, allora l’addestramentodella fanteria era trascurato, così come il suo armamento. Le armi dei

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cavalieri migliorano – seguendo l’esempio, ironizza Vegezio, dei Goti,degli Alani e degli Unni –, mentre i fanti romani vanno in battaglia sen-za protezione [Vegezio 438, 2.1].

La stessa dottrina arcaizzante che, rifiutando il cambiamento, testi-monia della sua portata viene espressa nel trattato Sulla scienza politica,redatto sotto forma di dialogo platonico verso il 530. L’interlocutorepiù giovane nota che la cavalleria è attualmente in auge, mentre primanon era che un «accessorio» della fanteria. L’interlocutore principale,senza dubbio l’autore del trattato, il patrizio Mena, visibilmente a di-sagio, non nega l’importanza delle forze a cavallo – assegna loro una granquantità di compiti subalterni – ma non rinuncia alle proprie convinzio-ni. La fanteria sarebbe l’incarnazione della virtù civica di Roma e la ga-ranzia del suo benessere. La «pratica militare moderna» accorda il pri-mato alla cavalleria, ma ne paga le conseguenze: tale inesplicabile negli-genza verso la fonte da cui l’Impero aveva attinto la forza necessaria peraccrescersi, ne avrebbe comportato l’attuale contrazione.

Adesso si comprende il punto focale del lungo passaggio polemicoche apre la Storia delle guerre di Procopio. L’autore se la prende con ireazionari che deplorano la perduta virtù degli antichi fanti che combat-tevano corpo a corpo e ridicolizzano invece gli arcieri dei loro tempi.Tuttavia questi arcieri, ben protetti e polivalenti perché armati, oltreche dell’arco, di una spada e di una lancia, rappresentano il culmine del-la «tecnologia» moderna e il loro vantaggio principale consiste nel fat-to che sono unità a cavallo, e per giunta eccellenti nell’equitazione (Bel-la, 1.1.6-17). Un simile impegno in favore della cavalleria è dettato dauna comprensione realistica dell’arte militare dell’epoca, praticata inparticolare da Belisario. Più di un secolo prima di Procopio, comunque,Sinesio di Cirene descrive già la tattica di base che sarà successivamen-te impiegata, tra gli altri, da Belisario. Una piccola unità di cavalieriOunnigardai, senza dubbio di origine unna, intorno al 411 è inviata a di-fendere la Cirenaica dalle razzie della tribù degli Ausuriani. L’unità com-pie prodigi nell’attaccare e massacrare il nemico. «Ma anche gli Ounni-gardai – aggiunge Sinesio – avevano bisogno di una retroguardia e di unesercito schierato. Avevano bisogno di una falange come di una spadaefficace, con la parte acuminata che viene spinta avanti e quella più mas-siccia che viene dietro». In questa «falange di scudi» il dux della pro-vincia ha schierato «tutti», ossia i soldati delle guarnigioni provinciali(Catastasis, 2.2)1. Questo schema di combattimento riserva alla fanteriail ruolo di una «falange» ausiliaria che protegge le retrovie dei cavalie-ri che vanno all’assalto e ne copre la ritirata.

Gli autori che lamentano l’abbandono della tradizione marziale na-

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164 Le istituzioni dell’Impero

zionale non hanno tutti i torti. La cavalleria dell’epoca protobizantinamostra una straordinaria capacità di adattamento, riprendendo le mi-gliori tecniche di combattimento dei suoi avversari, che siano Goti, Un-ni, Persiani o Avari [Dagron 441]. Nel corso degli anni, la sua premi-nenza sul campo di battaglia non fa che accrescersi: il nuovo corpo d’é-lite formato alla fine del vi secolo [cfr. infra, p. 181] è composto esclu-sivamente da truppe a cavallo.

Al termine delle guerre intestine della fine della Tetrarchia, le trup-pe comitatenses formano un corpo unico il cui comandante in capo è l’im-peratore in persona, ma alla fine del regno di Costantino (337) il suo co-mando è diviso tra due ufficiali superiori, il «maestro dei cavalieri» (ma-gister equitum) e il «maestro dei fanti» (magister peditum). Tale innova-zione precede di poco la divisione dell’Impero, e dunque dell’esercito,fra i tre principi-eredi. Inizia allora il frazionamento dell’esercito mobi-le, che prosegue e si struttura nel corso del iv secolo. A partire dagli an-ni ’60 di quel secolo, in un Impero diviso in due, appaiono raggruppa-menti stabili di truppe in Illirico e in Gallia da una parte, e in «Orien-te» (a fronteggiare la Persia) e in Tracia (a fronteggiare i Goti) dall’al-tra. La Notitia (401) suddivide l’esercito mobile dell’Impero d’Orientein cinque comandi, ciascuno affidato a un magister militum che da allo-ra raduna sotto i suoi ordini le unità di cavalleria e di fanteria. Due ditali magistri militum risiedono «al cospetto» dell’imperatore, in quantole loro truppe sono di stanza non lontano dalla capitale, rispettivamen-te sulla riva europea e su quella asiatica del Bosforo. Gli altri tre sonoresponsabili delle truppe mobili schierate in Oriente (essenzialmentenella diocesi d’Oriente), in Tracia e nell’Illirico orientale. Questa strut-tura di comando rimane stabile fino all’inizio del regno di Giustiniano,che vede apparire un magister militum in Armenia (528). La riconquistadell’Africa, e successivamente dell’Italia, provoca alla fine la creazionedi comandi militari analoghi in queste due regioni.

Dopo la presente ricapitolazione, ci si può ritenere in una posizionemigliore per valutare il contributo di Costantino alla creazione dell’e-sercito mobile. Si tratta davvero dell’«innovatore che ha creato l’eser-cito del iv secolo», che «ha grandemente accresciuto la forza dell’eser-cito mobile da campagna, ritirando definitivamente alcuni distaccamen-ti di truppe di frontiera e reclutando in cambio vexillationes di cavalleriae unità di fanteria di tipo nuovo, gli auxilia» [Jones 149, p. 608]? La ri-sposta è assai meno netta. In effetti, è difficile individuare, nelle listedella Notitia, unità mobili la cui creazione possa essere attribuita a Co-stantino. La sua principale creazione accertata sono le scholae palatine,almeno cinque squadroni di 500 cavalieri ciascuno, che diventano la

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Guardia imperiale dopo la soppressione, nel 312, della Guardia preto-riana, che si era compromessa sostenendo il rivale di Costantino, Mas-senzio. Le scholae mantengono il loro profilo di unità d’élite durante iliv secolo, quando gli imperatori prendono ancora personalmente partealle campagne militari, ma nel corso del v si trasformano in truppe daparata. Subordinate al magister officiorum, appartengono in ogni caso al-l’apparato di palazzo piuttosto che all’esercito regolare [cfr. sopra, pp.104-5].

Costantino ha ritirato truppe dalla frontiera in una sola occasionedegna di nota, nel 311-12, quando marciò su Roma alla testa dell’arma-ta gallica che l’aveva proclamato imperatore alla morte di suo padre, Co-stanzo Cloro, nel 306. Le migliori unità di tale esercito sono divenuteil nerbo del suo comitatus. Dopo la vittoria su Massenzio, Costantino harecuperato l’esercito del suo rivale e successivamente, nel 324, si è im-padronito del territorio e dell’esercito di Licinio, che in precedenza ave-va integrato tra le sue truppe gli eserciti di Galerio e Massimino Daia.In seguito, Costantino ha goduto di una relativa pace sui confini, e nien-te lo incitava a creare nuove unità. Nel 324, si è ritrovato unico padro-ne di un esercito la cui élite, mai riunita prima di allora in un solo cor-po, aveva fatto tutte le guerre dei tetrarchi. Non era affatto concepibi-le, vista l’esperienza accumulata, disperderla sulle frontiere. Costantinoha accordato a tale forza, dagli effettivi ancora assai ridotti, una peren-nità e una condizione ben definita, divenendo così il fondatore dell’e-sercito mobile quasi involontariamente. Quanto al folgorante sviluppodell’esercito mobile nel secolo successivo a Costantino, si spiega in granparte con il graduale declino dell’esercito confinario.

3. I soldati-frontalieri: il fallimento di un modello socio-militare.

L’Historia Augusta, questo falso storiografico, fittiziamente risalen-te all’epoca tetrarchica ma redatto, in realtà, verso il 400, attribuisce adAlessandro Severo (222-35), il suo imperatore-modello, numerose misu-re utili allo Stato. Avrebbe, tra l’altro, assegnato

i territori conquistati al nemico ai comandanti e ai soldati delle truppe di confine,con la condizione che sarebbero diventati di loro proprietà, se gli eredi avessero se-guito la carriera militare, in modo che non venissero mai in possesso di privati, af-fermando che essi avrebbero compiuto il loro servizio con maggior dedizione, seavessero avuto da difendere anche i propri possedimenti. Fornì inoltre a essi ani-mali e schiavi, affinché potessero coltivare ciò che avevano ricevuto, onde non av-venisse che per mancanza di braccia o per la vecchiezza dei possidenti fossero ab-bandonate delle terre confinanti con quelle dei barbari2.

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166 Le istituzioni dell’Impero

Questo passaggio è stato ricondotto alle costituzioni imperiali del v-

vi secolo, che dipingono i soldati-frontalieri (limitanei milites) come col-tivatori e attestano la condizione particolare delle loro terre, esenti datasse e riservate esclusivamente ai militari. Quando ancora i dati dell’Hi-storia Augusta erano presi per oro colato, nessuno dubitava che all’origi-ne di tale condizione vi fosse Alessandro Severo. In seguito, la criticadell’Historia Augusta ha condotto inizialmente a spostare questa riformaalla metà del iii secolo, se non addirittura all’epoca tetrarchica, e poi acontestare la stessa realtà di una riforma che trasformava le guarnigionidi frontiera in comunità di soldati-contadini. Così Jones [149, pp. 649-654] fa osservare che il possesso di terre da parte dei soldati è segnalatosolo a partire dal v secolo e che allora le guarnigioni confinarie sono sem-pre unità regolari, benché di minima qualità. Isaac [469, pp. 140-47] af-ferma per giunta che questi soldati possedevano terre a titolo privato, co-me ogni proprietario civile, senza che questo influisse sulla loro capacitàdi fare la guerra. La realtà sociale, rispecchiata in particolare dai papiri,è più complessa e fluida. Benché nessuna riforma abbia trasformato i sol-dati in contadini da un giorno all’altro, la descrizione dell’Historia Au-gusta è ben ancorata nella realtà dell’epoca della sua redazione. L’immo-bilismo e il reclutamento locale, spesso ereditario, delle guarnigioni con-finarie fanno sì che i soldati acquistino e coltivino terre e che si dedichinoad altre occupazioni civili a detrimento del loro potenziale militare, e poidella loro valutazione e remunerazione da parte dello Stato.

3.1. La condizione dei «soldat i - fronta l ier i».

Una legge di Costantino stabilisce i termini del congedo delle diffe-renti categorie di truppe, in particolare la durata del servizio richiestoe i privilegi fiscali dei veterani (CTh, 7.20.4, del 325). I comitatenses vicompaiono per la prima volta come truppe distinte; i loro vantaggi ri-spetto a quelli dei ripenses, le migliori truppe confinarie composte so-prattutto da legioni, sono ancora minimi. D’altro canto le legioni con-finarie, vecchia élite dell’esercito romano, sono assai favorite rispettoalle unità ausiliarie, ali e coorti, ugualmente stazionate lungo le frontie-re. In un periodo in cui l’esercito mobile rappresenta una parte trascu-rabile delle forze armate dell’Impero, l’esercito delle frontiere, dov’èconcentrata la stragrande maggioranza delle formazioni ereditate dall’e-poca del principato, non presenta una condizione uniforme.

Il divario tra il nuovo esercito d’élite e le migliori truppe confinariesi allarga nel corso del iv secolo. Una legge del 363 parla per la primavolta di limitanea militia per designare una categoria distinta di truppe

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(CTh, 13.1.56). Le differenze di struttura e condizione di servizio tra idifferenti tipi di unità stazionate lungo le frontiere divengono in segui-to sempre più marginali, in confronto ai tratti che ormai le uniscono eche derivano dal fatto che tali unità, mai dislocate al di fuori della lororegione, si integrano nella comunità civile.

Sugli inizi di tale processo gettano luce i papiri di Flavio Abinneo,comandante, negli anni ’40 del iv secolo, di un’ala di cavalleria insedia-ta a sud-ovest del Fayyum (Basso Egitto). La sua fortezza di Dionisia-de, di 83 per 70 metri di lato e dalle mura spesse 3,80 metri, tipica delprogramma varato da Diocleziano, è stata ritrovata in buono stato da-gli scavatori [Schwartz 475]. Fu evacuata dalla guarnigione poco dopola sua ultima attestazione nella Notitia (401), in seguito all’insabbiamen-to dei canali d’irrigazione e all’abbandono dei villaggi vicini. I documen-ti che Abinneo portò con sé quando dopo il congedo si ritirò in un vil-laggio dei dintorni, poco dopo il 350, in particolare le lettere e le peti-zioni riguardanti il comportamento dei suoi soldati, danno l’immaginedi un’unità militare completamente immersa nel suo ambiente paesano.Il soldato Paolo, originario di un villaggio vicino, e tre complici, tra cuiun altro soldato, sono accusati da un abitante del villaggio di aver tosa-to durante la notte undici delle sue pecore (P.Abinn., 48). Il medesimoPaolo, colpevole di diserzione, ottiene che il prete del villaggio interce-da in suo favore (P.Abinn., 32). L’assenteismo è endemico nella guarni-gione. Un graduato deve scagionarsi dal sospetto di aver preferito pas-sare qualche giorno nel suo villaggio piuttosto che eseguire una missio-ne nella borgata vicina; un altro, incaricato di riportare all’accampamen-to gli assenti, cita i pretesti addotti da questi ultimi (P.Abinn., 35 e 37).Tra le domande di permesso, notevole la supplica della madre di Mosè,un graduato dell’ala (P.Abinn., 34). Il fratello minore di Mosè è desti-nato a divenire soldato a sua volta; ora, ci si avvicina al culmine dellastagione agricola, ai «cinque giorni che valgono tutto l’anno»: la madresupplica Abinneo di concedere un permesso a Mosè e gli chiede di de-cidere prima che il latore della missiva riparta. Un’altra lettera interce-de per il figlio unico di una vedova (P.Abinn., 19): se il giovane, figliodi un soldato, non può essere salvato dalla coscrizione, Abinneo gli de-ve almeno risparmiare l’invio nel lontano comitatus. La lettera circolareredatta dal capo del distretto di Ossirinco nel Fayyum riassume perfet-tamente la situazione: vi si invitano tutti i soldati che si trovano nel di-stretto «a causa della semina» a riprendere servizio entro cinque gior-ni, sotto la pena di sanzioni disciplinari (P.Flor., 1.83). Risulta chiaroche gli effettivi delle guarnigioni egiziane si dileguavano in occasionedella semina e della mietitura. I soldati di parecchie decine di unità di

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168 Le istituzioni dell’Impero

stanza nelle campagne dell’Egitto e della Tebaide venivano naturalmen-te da paesi e orizzonti differenti, ma, dopo un paio di generazioni, i ma-trimoni con le donne del luogo e il reclutamento sul posto trasformava-no queste unità in un’emanazione della società paesana.

La situazione delle unità insediate nelle città non era molto diffe-rente. I papiri permettono di seguire nell’arco di duecento anni (340 -c. 530) le sorti di uno squadrone (vexillatio) di Mauri di guarnigione aErmopoli, la grande città della Tebaide. I nomi latini dei primi cedo-no il posto a nomi greco-egiziani e questi soldati, inizialmente affittua-ri di stanze e mezzadri di campi, divengono proprietari di case e terre.Un caso rimarchevole di imborghesimento di una famiglia militare èquello del «mauro» Fl. Taurino e dei suoi discendenti. Soldato sempli-ce nel 426, ottiene il congedo poco dopo il 452-53 con il grado di pri-micerius, il più alto che si potesse raggiungere per promozione interna(appena al di sotto del tribuno, che viene dall’esterno dell’unità). An-che suo figlio Fl. Giovanni svolge una lunga carriera nella stessa unitàe, per distaccamento, nell’amministrazione militare della Tebaide; con-clude, come suo padre, con il grado di primicerius dei Mauri. La carrie-ra di Fl. Taurino II, figlio di Giovanni, si svolge negli uffici militari;alla fine della propria vita, si fa ordinare sacerdote. Suo figlio Fl. Gio-vanni II diviene avvocato presso il tribunale provinciale. L’ascesa so-ciale si rispecchia nell’acquisto di terre in differenti villaggi. I Taurininon diventano mai «grandi proprietari terrieri», come credeva l’edito-re di questi archivi (BGU, XII, p. xxiii), ma si inseriscono, al pari dialtri soldati Mauri, nella media borghesia di Ermopoli.

Nei villaggi come nelle città, il servizio militare assicura ai soldatidelle guarnigioni una rendita stabile che, unita alla manifesta sottoccu-pazione sul piano professionale, lascia loro parecchie opportunità di ri-tagliarsi una situazione confortevole.

I soldati-contadini di Dionisiade, così come i possidenti «mauri» diErmopoli, pagano le tasse per le terre che possiedono: sono contribuen-ti come gli altri. Non è un caso se l’unica legge dei Codici che concerneil recupero, manu militari se necessario, delle tasse fondiarie dovute daiproprietari militari è indirizzata al prefetto augustale d’Egitto (CTh,1.14, del 386). L’Egitto, grazie alla fertilità eccezionale del suo suolo, èl’unica regione dell’Impero a non disporre di un serbatoio di terre va-canti o abbandonate (ad eccezione delle zone insabbiate, il cui recupe-ro necessita di un investimento oneroso). In altre regioni confinarie, leterre possedute dai soldati beneficiano di un’esenzione fiscale, senzadubbio perché tali lotti derivano dalla distribuzione o dall’occupazionedi terre vacanti.

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Lo Stato non procede mai alla distribuzione di terre ai soldati in ser-vizio attivo, ma Costantino si rifà alla tradizione romana di distribuireterre ai veterani. Una legge del 325 prescrive che i veterani che scelgo-no l’agricoltura «ricevano terre vacanti e le tengano in perpetuo con pie-na immunità» con un sussidio per l’acquisto degli utensili agricoli, diuna coppia di buoi e di 100 staia di sementi varie (CTh, 7.20.3). Un’al-tra legge fornisce, nel 364, una definizione allargata delle terre che i ve-terani hanno il diritto di occupare: si tratterebbe di «campi vacanti odiversi, laddove scelgano». Poco dopo, tuttavia, Valentiniano I ordinadi dirigere i veterani verso «terre incolte, lasciate dai loro proprietari epiene di rovi a causa del prolungato abbandono» (CTh, 7.20.8 e 7.20.11).Un autore contemporaneo vuole incoraggiare i veterani a insediarsi lun-go le frontiere (limites) per «arare quei luoghi che prima avranno dife-so» e cerca delle astuzie per tarpare la loro immunità fiscale [De rebusbellicis 435, cap. v, pp. 16-18]. Tuttavia, la legge del 400 si limita a re-spingere le domande di esonero, da parte dei veterani, per terre sotto-poste al censo: se ne sono in possesso, devono pagare le tasse come tut-ti (CTh, 11.1.28). Si torna all’intenzione originale di Costantino di in-sediare i veterani, esentati dal fisco, sui terreni incolti. La politica didistribuzione delle terre ai veterani è mantenuta per tutto il corso deliv secolo. Dopo tre o quattro generazioni, il reclutamento di guarnigio-ni confinarie su una base largamente ereditaria, in prossimità degli ac-campamenti, trasforma una gran parte dei loro effettivi in possessori dicampi, già appartenuti ai propri padri-veterani, in un regime di esone-ro fiscale.

La legislazione imperiale della prima metà del v secolo si appropriadi questo dato nuovo. La novella 24 di Teodosio II (443) vara un pro-gramma ambizioso di rinforzo delle frontiere, in seguito alla ritirata de-gli Unni, e ribadisce l’esenzione fiscale degli agri limitanei, campi che isoldati confinari erano soliti coltivare. La legge ordina la restituzione aisoldati delle terre esenti da tasse che erano cadute nelle mani di civili.La medesima preoccupazione animava, vent’anni prima, una legge cheordinava la restituzione della totalità delle terre situate sui «territori»delle piazzeforti ai soldati delle loro guarnigioni, gli unici autorizzati apossederle dall’«Antichità» (CTh, 7.15.2).

Numerose fonti mostrano la realtà della vita agricola intorno allepiazzeforti. Un’iscrizione del iv secolo celebra la fondazione di un ca-strum, fortezza imponente di 50 metri di lato sulla pista che collegaPalmira a Damasco, da parte del dux (di Fenicia) Silvano. Questo«guardiano del limes» non ha trascurato le strutture agricole: in unluogo arido e inabitabile, ha installato un sistema d’irrigazione che

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170 Le istituzioni dell’Impero

trattiene l’acqua piovana e permette la coltivazione del grano e delleviti (IGLSyr, V, 2704). La Vita di Alessandro l’Acemeta aggiunge ul-teriori dettagli sulle piazzeforti situate verso nord-est. Alessandro e isuoi discepoli, inoltratisi nel deserto senza provviste, intorno al 410,per annunciare la Parola di Dio alle genti, sono salvati da un convo-glio di «tribuni e soldati romani che portavano viveri» ai loro forti. Sicoglie sul fatto il processo d’approvvigionamento del limes nelle pro-vince desertiche di Mesopotamia e di Osroene, assicurato, a terminidi legge, dal demanio imperiale. Alessandro inizia a predicare nellepiazzeforti, esortando i ricchi a far bruciare i titoli che possiedono con-tro i propri debitori. «Una banda di scellerati, traboccanti di ricchez-ze» rifiuta questa dottrina, e Alessandro maledice la loro fortezza: laconseguenza è la cessazione totale delle piogge per lo spazio di tre an-ni. Minacciati dagli altri abitanti, che soffrono insieme a essi del ca-stigo divino, i colpevoli temono oltretutto di essere denunciati al ma-gister militum d’Oriente e finiscono per fare penitenza. La piazzafor-te gode allora di «una tale fertilità che non se n’era mai vista unasimile», ma il perdono divino assume una forma selettiva. Poco tem-po dopo, i bambini dei colpevoli muoiono, le loro greggi sono razzia-te dai barbari e le loro case sono devastate dai briganti [Vie d’Alexan-dre l’Acémète 476, §§ 32-34]. Il racconto mostra che, anche in questaregione arida, i limitanei praticano un’attività agricola.

La legge promulgata da Giustiniano nel 534, dopo la riconquista del-l’Africa, dà l’immagine definitiva dei limitanei milites, soldati-agricolto-ri che «possono sia difendere i forti e le città confinarie, sia coltivare leterre» (CI, 1.27.2). Il loro insediamento ha il valore simbolico di un ri-stabilimento delle antiche frontiere dell’Africa, ma non è previsto chedopo la fine delle ostilità, giacché l’imperatore è cosciente della loro li-mitata capacità d’intervento. Questa consapevolezza è di cattivo augu-rio per la sorte dei limitanei sotto il regno di Giustiniano.

3.2. I l dec l ino del l imes .

Gli effetti perversi di un sistema che tende a sovrapporre la condi-zione militare a quella civile non sono sfuggiti ai contemporanei. Lo stes-so Teodosio II riconosce nella propria novella 4 (438) che i soldati con-finari, divisi tra le occupazioni private e i doveri militari, non sono nécivili né veri soldati («inter privatam vitam et militarem scientiam neutrinascantur»). Parlando delle guarnigioni della frontiera orientale, ricono-sce l’insufficienza della paga dei limitanei milites che, «nelle solitudinipiù remote e miseramente remunerati, combattono con fatica e diffi-

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coltà la fame e la miseria». Il loro salario è mediocre e perdipiù irrego-lare. Una riforma fiscale di Anastasio cerca, intorno al 492, di elimina-re i ritardi della paga, che sotto Giustiniano divengono, al contrario,una prassi statale. Ma è ancora Sinesio (Ep., 130) che fornisce, nel 405,il primo accenno del problema: si lamenta del dux di Cirenaica che avreb-be privato i soldati delle guarnigioni di «ciò che loro appartiene», il lo-ro soldo, e avrebbe loro «concesso in cambio esenzioni dal servizio e dal-la disciplina, permettendo loro di andarsene dove possano trovare di chevivere». Le conseguenze per la sicurezza della provincia sono disastro-se, ma i soldati non ne sono apparentemente troppo scontenti, purchépossano disporre di fonti di reddito alternative al loro salario. Benchéin questo caso ci si trovi di fronte all’iniziativa personale di un dux cor-rotto, non si fatica a vedere l’origine di un circolo vizioso: una volta chelo Stato accorda legittimità alle rendite agricole dei limitanei, è semprepiù tentato di lesinare sul loro salario.

Quando Giustiniano annuncia il ristabilimento dei limitanei in Afri-ca, insiste sulla necessità di proteggere il loro soldo da ogni insidia edesorta i duces a vigilare sul loro addestramento in armi, minacciandolidelle peggiori punizioni nel caso disperdano le unità «in congedo» peril proprio profitto e lascino le province senza protezione (CI, 1.27.2).Ebbene, le guarnigioni, insediate da Belisario prima ancora che il suoesercito fosse giunto a stabilire una pace stabile in Africa, dopo la suapartenza devono fare i conti con una ribellione dei Mauri, e Procopiodescrive la sorte miserevole di questi soldati, «poco numerosi in ciascunsettore della frontiera e ancora non preparati», che sono massacrati dairibelli in Bizacena e in Numidia (Bella, 4.8.21-22 e 4.10.2). Niente fapensare che, in seguito, le guarnigioni dei limitanei siano state reinte-grate su larga scala. Il fallimento di questo tentativo ha senza dubbiocontribuito, in definitiva, alla decisione di Giustiniano di dare il colpodi grazia a questo modello di difesa confinaria. Ma l’abbandono dei for-ti di confine e la dispersione delle guarnigioni cominciano ben prima diGiustiniano.

Le fortezze più recenti della frontiera orientale, che completano ildispositivo della Notitia, risalgono agli anni 411-123. Sono situate in Ara-bia, sul percorso fortificato da Bostra a Filadelfia-Amman (Qasr al-BÇ‘ij),ovvero a est del percorso (Umm al-JimÇl). Un editto di Anastasio, i cuiframmenti incisi su pietra sono stati ritrovati in quattro siti militari delducato di Arabia, annuncia una riforma della paga dei limitanei dallaMesopotamia fino alla Palestina e prova così che questo vasto settoredel limes è ancora in funzione. Tuttavia, il survey eseguito su parecchiedecine di siti fortificati dei ducati di Arabia e Palestina nel contesto del

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172 Le istituzioni dell’Impero

«Limes Arabicus Project» fa emergere intorno al 500 una drastica ridu-zione del numero di fortezze occupate e l’abbandono quasi totale del li-mes verso il 550, con l’eccezione di qualche località strategica, in parti-colare all’estremo sud [Parker 472-73, pp. 819-23]. Più a nord, il nomedi Strata (Diocletiana), un tempo la grande via che collegava Damasco aPalmira con decine di guarnigioni dei ducati di Siria e Fenicia, per Pro-copio designa solo una regione povera di pascoli, contesa tra gli alleatiarabi di Bisanzio e della Persia (Bella, 2.1). E quando, nel 541, Belisa-rio viene inviato d’urgenza in Mesopotamia e si sforza di «radunare l’e-sercito da ogni dove», sul posto non trova che «soldati, perlopiù nudi esenz’armi, che tremavano al solo nome dei Persiani» (Bella, 2.16.1-2).L’atrofia avanzata dell’antico limes spiega le misure drastiche prese daGiustiniano dopo l’armistizio del 545. Procopio (24.12-14) racconta nel-la Storia segreta che

quando poi si concludeva la pace tra Romani e Persiani, visto che beneficiavano del-la pace, avevano l’obbligo di condonare all’erario per un periodo preciso gli stipen-di mai riscossi. Più tardi abolì, senza motivo, anche la denominazione specifica diquei reparti. Da allora le frontiere dell’Impero romano restarono sguarnite di dife-se e i soldati da un momento all’altro dovettero volgere la loro attenzione verso chiera avvezzo a beneficare.

Dopo la metà del vi secolo rimane ancora una manciata di guarnigio-ni, ma il limes orientale non esiste più, né come sistema né come con-cetto difensivo. Il declino del limes è più marcato in Oriente che lungoil Danubio. Le guarnigioni danubiane, sottoposte a una pressione belli-ca costante ma meno intensa di quella delle grandi invasioni persiane,mantengono un buon livello di combattività.

Teofilatto Simocatta [185, 7.3] descrive l’ammirazione provata daPietro, fratello dell’imperatore Maurizio, in campagna contro gli Slavi,per l’unità insediata «dai tempi antichi» nel forte di Asemo, nella Me-sia inferiore. Pietro decide di inglobarla a forza nel proprio corpo di spe-dizione, ma si scontra con la resistenza degli abitanti, civili e militari,guidati dal vescovo, che gli mostrano una costituzione dell’imperatoreGiustino che garantisce alla borgata la protezione armata «a titolo ere-ditario». Gli abitanti di Asemo hanno mostrato il medesimo spirito guer-riero un secolo e mezzo prima, quando hanno teso, nel 447, alcune im-boscate mortali agli Unni in ritirata (Prisco, fr. 5). Queste due narrazio-ni hanno fatto considerare l’unità di Asemo come una milizia urbana eil suo statuto «inalienabile» come una franchigia municipale, unica nelsuo genere nella storia delle città dell’Impero. Resta il fatto che Asemonon è una città, ma una fortezza, e l’unità in questione è senza dubbioquella segnalata in questo sito dalla Notitia: milites Praeventores. In que-

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sto caso, ci si trova davanti a un nuovo esempio d’integrazione tra un’u-nità regolare e la società civile.

Numerose fortezze della riva destra e alcune della riva sinistra delDanubio sono ricostruite da Giustiniano per tener testa più agevolmen-te alle incursioni slave. Scosso negli anni ’80 del vi secolo dallo sfon-damento avaro, questo dispositivo approfitta delle vittorie dell’impe-ratore Maurizio, che impone agli Avari, nel 600, il riconoscimento del-la frontiera danubiana. Tale successo, tuttavia, è di breve durata.L’esercito che rovescia Maurizio nel 602 marcia su Costantinopoli, ab-bandonando la Tracia alla mercé degli invasori [cfr. cap. i, pp. 40-41,e xi, p. 362]. L’antico limes danubiano si riduce da allora a qualche piaz-zaforte isolata.

4. Verso un nuovo sistema di difesa territoriale.

Bisogna evitare di contrapporre troppo nettamente i limitanei, dive-nuti immobili e inerti, e i comitatenses, sempre pronti a mettersi in mar-cia verso le zone calde dell’Impero. Gli effettivi dell’esercito mobile,perlopiù acquartierati nelle città, tendono anch’essi a radicarvisi.

I papiri fanno conoscere due unità «mobili» di stanza ad Arsinoe,metropoli del Fayyum: i Transtigritani, una legione pseudocomitatensisdel magister militum d’Oriente, secondo la Notitia, e i Leones clibanarii,squadrone di cavalleria pesante creato dopo il 401. Il primo è attestatonella regione dal 406, il secondo dalla metà del v secolo; entrambi scom-paiono agli inizi del regno di Giustiniano. Nel corso del tempo, i loroeffettivi «s’imborghesiscono» come i Mauri di Ermopoli. Un’unità d’ar-tiglieria, i Ballistarii, giunta a Cherson sotto Valente, diviene a tal pun-to parte della città che le leggende tarde la presentano come una miliziaurbana autoctona, o parlano di un decreto imperiale che insediava inperpetuo i soldati nella città, come nel caso di Asemo. Si tratta cionon-dimeno di un’unità di comitatenses, senza dubbio una delle due forma-zioni di Ballistarii che apparteneva all’esercito del magister militum diTracia [Zuckerman 230]. Diverse serie di epitafi militari indicano i quar-tieri fissi di numerose unità mobili nelle città dell’Asia Minore. Anchei soldati che talora devono partire per il fronte trascorrono la maggiorparte del servizio nelle loro città di acquartieramento, sviluppando diconseguenza numerosi legami locali.

Un simile fenomeno spiega la legge di Anastasio che subordina ai du-ces della frontiera orientale le unità «mobili» stazionate nei loro ducati(CI, 12.35.18). Tenendo conto del radicamento crescente di queste

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174 Le istituzioni dell’Impero

unità, la legge cerca di rafforzare il carente dispositivo confinario e an-ticipa la riforma che avrà luogo sotto Giustiniano.

Nel 528, Giustiniano crea un nuovo esercito per l’Armenia, capeg-giato da un magister militum (CI, 1.29.5), poi, nel 536, suddivide l’insie-me dell’Armenia romana in quattro province (Nov., 31). Questa dupli-ce riforma integra nella struttura militare e amministrativa dell’Imperola parte dell’antico regno di Armenia divenuta romana da più di un se-colo. La legge del 528 ordina la formazione di un corpo d’armata basa-to su unità create ex novo, ma che comprende anche unità prese dai treeserciti mobili: i due eserciti centrali e quello d’Oriente. Secondo Ma-lala, il magister militum d’Armenia ottiene anche il potere sulle guarni-gioni confinarie, ma la loro scarsa importanza è messa in luce dalla leg-ge del 536, che affida l’autorità sui soldati di stanza nella provincia diArmenia III al governatore civile della provincia, riducendoli di conse-guenza al semplice ruolo di forze di polizia.

Trent’anni dopo la riforma, Procopio descrive l’aspetto effettivo as-sunto dal nuovo dispositivo (De Aedificiis, 3.2-6). Il suo zoccolo duro èil corpo comandato dal magister militum in persona, dagli effettivi assailimitati, dal momento che erano concentrati nella sola fortezza di Teo-dosiopoli. Cinque nuovi duces sono posti sotto l’autorità del magister mi-litum: due nel paese degli Tzani, tribù da poco sottomessa all’Impero, anord di Teodosiopoli, e tre più a sud, sul territorio delle antiche satra-pie armene. I due duces settentrionali sono dotati in totale di sette for-tezze. Con le loro sette unità, controllano un settore di frontiera equi-valente a quello che un tempo il dux d’Armenia difendeva con 26 guar-nigioni. I tre duces meridionali, su una frontiera più ridotta, dispongonodi quattro fortezze. Si apprende inoltre che, nel 531, l’unità provenien-te dall’esercito d’Oriente e ormai comandata da uno di questi duces,quello di Martiropoli, conta 500 cavalieri [Zuckerman 479, pp. 125-28].

Il dispositivo confinario che si vede apparire in Armenia si distaccaradicalmente dal modello tetrarchico. La linea di fortezze si fa più radae il dux ha ai suoi ordini non più una ventina o una trentina di guarni-gioni, ma soprattutto la propria unità e talora una o due unità supple-mentari. Quanto alle truppe poste sotto la diretta autorità del nuovomagister militum, non sono paragonabili ai grandi eserciti dei magistri mi-litum che compaiono nella Notitia. Il magister militum dell’Armenia è al-la testa di un dispositivo regionale costituito principalmente da unitàcomandate dai duces. Un dispositivo analogo, comprendente un magi-ster militum e cinque duces, entra contemporaneamente in funzione inAfrica, dove, dopo la rapida espulsione dei Vandali, inizia uno stato diguerra permanente con le tribù dei Mauri, e poi in Italia.

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L’antico territorio del magister militum d’Oriente subisce gli effettidella lunga erosione delle proprie truppe e si regionalizza notevolmen-te. I generali cui viene affidata tale carica sanno bene, dopo il fiasco diBelisario in Mesopotamia nel 541 [cfr. sopra], che, per disporre sul po-sto di un vero esercito da campagna, se lo devono portare dietro. Il li-mes di Fenicia, per esempio, si riduce a due basi legionarie: quella di Pal-mira, dove i limitanei dell’antica legio I Illyricorum sono rinforzati daun’unità dell’esercito mobile al principio del regno di Giustiniano [Ma-lala 176, p. 354], e quella di Damasco, che accoglie la legio III Gallica,in origine di stanza a Danaba. Il comando è allora diviso tra due duces[Stein 151, p. 289] e il nuovo dispositivo su questo tratto di limes, cheun tempo ospitava 26 guarnigioni, comincia a somigliare in tutto a quel-lo creato in Armenia. I dati dei papiri suggeriscono inoltre una drasticariduzione del numero di guarnigioni in Egitto, compensata molto limi-tatamente dall’apparizione di unità di recente formazione.

La Passione dei 60 martiri di Gaza racconta l’estremo supplizio deidifensori della città, fatti prigionieri dagli Arabi al tempo della sua cadu-ta nel 637 e messi a morte per il loro rifiuto di convertirsi all’Islam [Par-goire 487]. Questi soldati appartengono a due unità, una di Sciti (forseuno squadrone formato da Goti d’Italia) e una di Voluntarii. Le coortidei «volontari» – degli affrancati, ossia schiavi riscattati dai loro padro-ni – sono reclutate da Augusto dopo la rivolta pannonica nel 6 d.C. e lasconfitta di Varo in Germania tre anni più tardi. Una sola di queste unità,la cohors VIII Voluntaria, è conosciuta dalla Notitia d’Oriente (37.33),che ne situa l’accampamento a Ualtha, senza dubbio Khirbet-ez-Zona ameno di 150 km da Gaza, la cui occupazione è attestata fino agli inizi delvii secolo. Questa coorte ausiliaria mostra così 630 anni di esistenza, unrecord assoluto per un’unità del principato. Sopravvive a dieci anni dioccupazione persiana e la sua distruzione da parte degli Arabi è emble-matica della sparizione di questa categoria di truppe.

4.1. La f lotta da guerra.

La creazione di una flotta da guerra fa parte delle innovazioni del v-

vi secolo. Dopo la grande battaglia navale che ha contrapposto Costan-tino a Licinio nel 324, le navi da guerra sono rimpatriate nelle loro vec-chie basi in Occidente: è là che la Notitia segnala le flotte conosciute daltempo del principato. In Oriente, indica solo le pattuglie danubiane, es-senziali per la sicurezza e l’approvvigionamento del limes. Ma quandoFravitta ha bisogno di una flotta per impedire a Gaina, nel 400, di at-traversare l’Ellesponto, allora fa costruire battelli leggeri (liburne) che

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176 Le istituzioni dell’Impero

disperdono e distruggono le zattere di Gaina. L’assenza di una vera flot-ta da guerra nella Notitia d’Oriente non è dunque né un’omissione, néun incidente di tradizione. La flotta viene creata solo quando l’Imperone percepisce il bisogno effettivo, con la crescita della potenza della flot-ta vandala nel Mediterraneo, alla metà del v secolo. Allora non si co-struiscono più grandi bastimenti da guerra (triremi) come sotto il prin-cipato, ma battelli rapidi e manovrabili a un solo ordine di remi (dromo-nes), cui d’ora in poi si fa costante riferimento nella narrazione di episodibellici. Questa flotta è senza dubbio alla fonda nel Corno d’Oro, ma s’i-gnora tutto della sua organizzazione, della sua struttura di comando,delle condizioni di reclutamento e servizio dei marinai, ecc. Si può co-munque segnalare che, già nel 515, i dromones comandati dal prefettodel pretorio Marino utilizzano una sostanza incendiaria, fornita da un«filosofo», per distruggere i battelli del ribelle Vitaliano [Malala 176,pp. 331-32]. Questo precedente annuncia l’introduzione, verso il 675,del famoso fuoco greco, temibile arma della flotta bizantina medievale.

4.2. I l dec l ino degl i effett iv i .

In assenza di statistiche, ogni calcolo degli effettivi è destinato a ri-manere aleatorio. Solo il punto di partenza è piuttosto sicuro. Giovan-ni Lido, alto funzionario della prefettura del pretorio sotto Giustinia-no, stima l’esercito di terra di Diocleziano a 389 704 uomini e la mari-na a 45 562 uomini. Il totale di 435 266 soldati è nell’ordine di grandezzadelle stime più fondate sull’esercito dell’alto Impero. La rapida espan-sione degli eserciti mobili presuppone un accrescimento degli effettiviglobali nel corso del iv secolo, ma non certo al punto di dare credito al-la cifra di 645 000 uomini indicata per l’esercito degli «imperatori anti-chi» al culmine della sua estensione da Agazia [163, 5.13.7], storico del-la fine del regno di Giustiniano [Carrié 439]. Ciò non toglie che la No-titia censisca circa mille unità militari nelle due parti dell’Impero;attribuendo loro una media di 500 effettivi, si arriva, verso il 401, a unastima approssimata di 500 000 soldati, un po’ più della metà dei qualiper l’Impero d’Oriente.

Gli effettivi dell’esercito orientale hanno senza dubbio subito unadiminuzione nel v secolo, con la soppressione di numerose guarnigioniconfinarie, e più ancora sotto Giustiniano. In una legge promulgata po-co dopo la sua ascesa al potere, Giustino II si lamenta dei mezzi insuf-ficienti assegnati all’esercito dal suo predecessore (Nov., 148, del 566).Agazia è più preciso nelle proprie critiche: accusa Giustiniano di averridotto gli effettivi dell’esercito a 150 000 uomini (senza pretendere, co-

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me Giustino II, che il cambio di regno abbia rimediato alla penuria ditruppe). Tale cifra, evidentemente approssimativa, ha tutto il valore diuna valutazione contemporanea, proveniente da un testimone ben infor-mato.

Mentre l’esercito della Notitia consiste nella stragrande maggioran-za di fanti, quella che Giustino II aveva ereditato da Giustiniano com-porta invece una parte crescente di cavalleria, che di mantenimento co-sta, per soldato, almeno il doppio. I successori di Giustiniano devonoanche fare i conti con le conseguenze sommate, demografiche e fiscali,delle manifestazioni ricorrenti della peste. Non saranno in grado di in-vertire la tendenza al declino degli effettivi, ma saranno costretti, tut-tavia, a rimediare in qualche modo al più grave difetto strutturale gene-rato dalle campagne di riconquista, la sparizione della forza d’interven-to centrale.

5. Un nuovo esercito da campagna.

La politica di Giustiniano consiste nel servirsi di unità di qualsiasiprovenienza per far fronte alle esigenze più urgenti. I Vandali vinti inAfrica sono inviati sul fronte persiano, un’unità persiana che si arrendeall’esercito bizantino si ritrova in Italia, un’unità di «Sciti», ossia diOstrogoti d’Italia, arriva in Egitto. Giustiniano non è il primo a consta-tare che i prigionieri di guerra sono più utili come soldati che come schia-vi, a patto di allontanarli dalla loro patria. Questa pratica compensa perqualche tempo lo sgretolamento della riserva centrale, un tempo costi-tuita dai due eserciti «in presenza».

Il declino degli eserciti «in presenza» comincia senza dubbio con ladisfatta della spedizione marittima condotta da Basilisco contro i Van-dali nel 468. Anche se la cifra di 100 000 uomini radunati per la spedi-zione, citata da Procopio (Bella, 3.6.1) è di gran lunga esagerata, questafu probabilmente la più importante concentrazione di truppe dell’Im-pero d’Oriente in tutto il v secolo, e una gran parte di queste truppeperì al largo di Cartagine. I due eserciti «in presenza» contribuisconoagli effettivi del nuovo esercito d’Armenia nel 528, poi alle spedizionid’Africa e d’Italia. La stessa distinzione tra i due eserciti centrali non èpiù percepibile dopo l’assassinio, nel 520, del magister militum «in pre-senza» Vitaliano, al tempo collega in tale carica del futuro imperatoreGiustiniano. Dopo il regno di Giustiniano, la ricostruzione dell’eserci-to mobile diviene un problema urgente. Questo compito spetta, sottoTiberio II, al suo migliore generale e futuro successore, Maurizio.

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178 Le istituzioni dell’Impero

La composizione del nuovo esercito da campagna ci è nota grazie altrattato tattico, Strategikon, composto dallo stesso Maurizio [436]. Vi sitrova il modello di un esercito interamente a cavallo. La fanteria, se c’è,svolge un ruolo ausiliario (proteggere la ritirata dei cavalieri, prender par-te alla fortificazione dell’accampamento, ecc.). Un esercito «ben propor-zionato» conta da 5-6000 a 15 000 cavalieri e si schiera su due linee, piùo meno ben guarnite secondo gli effettivi disponibili. Le due ali della pri-ma linea si compongono da una parte di «unità» (vexillationes-arithmoi),residuo dei vecchi eserciti mobili, e dall’altra parte di Illirici. Questi ul-timi, identificati da alcuni con vecchie unità confinarie, appartengonopiuttosto al nuovo corpo arruolato in Illirico e Tracia da Germano e Nar-sete nel 550-53, che è risultato vittorioso sui Goti di Totila. La loro im-portanza numerica è indicata dal fatto che gli squadroni (banda) – di 250-300 uomini – che compongono il corpo sono numerati da 1 a 15 (alme-no). Al centro del dispositivo, i federati hanno una storia più lunga.

5.1. I federat i .

Foedus designa, sotto il principato, l’alleanza con un popolo esternoall’Impero che ne riconosce la sovranità e gli fornisce contingenti ausi-liari. Il nome derivato di foederati per designare una certa categoria ditruppe, tuttavia, entra in uso solo dopo l’alleanza di Teodosio I e Gra-ziano con i Goti (381-82). I federati goti sono insediati, conservandoperaltro la loro autonomia tribale, non all’esterno ma sul suolo stessodell’Impero, principalmente in Tracia. Questa distorsione della termi-nologia ha imbarazzato alcuni studiosi [Scharf 456], ma mai i contem-poranei. I contingenti federati sono remunerati o sovvenzionati dall’Im-pero, ma comandati dai capi tribali. In Oriente, nel v e vi secolo, taletermine designa soprattutto due «alleati» di primaria importanza, riot-tosi ma resi indispensabili dal loro peso militare: i Goti nei Balcani e gliArabi sulla frontiera orientale. Questi due casi hanno un’evoluzione as-sai differente.

L’Impero, dall’epoca del principato, stringe alleanze con le tribù ara-be (saracene) che percorrono i confini desertici dalla Mesopotamia finoal Sinai e all’Egitto. Nel iv secolo, la cristianizzazione contribuisce a le-gare all’Impero le tribù convertite. La potente regina Mawiyya, da ne-mica, diviene alleata dopo aver ottenuto da Valente la consacrazione diun vescovo del suo credo (ortodosso); i suoi guerrieri, bevendo il sanguedei nemici abbattuti, seminano il terrore tra i Goti che minacciano Co-stantinopoli nel 378 [Sartre 971]. I rapporti nel v secolo si formalizza-no tramite sussidi regolari (annonae) versati ai federati saraceni. Con lo

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smantellamento del limes, la dinastia cristiana dei Ghassanidi diviene,per tutto il vi secolo, il principale garante della sicurezza della regione[cfr. cap. xiii]. Nonostante qualche malinteso e attrito, rimane un allea-to fedele ed efficace dell’Impero, arrivando per giunta a piegare, pocodopo il 570, i Lakhmidi, alleati arabi della Persia. I Ghassanidi tuttaviahanno un grande difetto: sono monofisiti impenitenti. Nel 582, primail lore re Alamundaro, poi il suo figlio e successore Naaman sono perfi-damente arrestati da Maurizio e, dopo il loro rifiuto di convertirsi al-l’ortodossia, esiliati in Sicilia. Il loro potere centralizzato cede allora ilposto a quindici capi tribali (filarchi), alcuni dei quali si alleano con laPersia, mentre altri sono ancora fedeli a Bisanzio sotto Eraclio. Così, lagrande potenza arabo-cristiana è smantellata, alla vigilia delle invasionipersiana e musulmana, dalla stessa Bisanzio, in nome di una divergen-za dottrinale [Shahîd 973].

Anche i federati Goti hanno un difetto: sono ariani. Quando 10 000Goti cadono per la causa cristiana nel 394, al tempo della campagna diTeodosio I contro Eugenio, ricevono poca gratitudine: per Orosio(7.35.19), «l’averli perduti fu comunque un guadagno, la loro sconfittauna vittoria». In effetti, i rapporti tra i Goti e i dirigenti dell’Imperod’Oriente, dove sono stati inizialmente accolti, si deteriorano rapida-mente dopo la morte di Teodosio I e ciò provoca l’emigrazione dei Go-ti di Alarico nel 405. Successivamente, nel 470-80, Teodorico Strabo-ne e Teodorico l’Amalo, ora difensori ora saccheggiatori dell’Impero, sicontendono i sussidi e i titoli fino alla morte del primo nel 481 e allapartenza del secondo per l’Italia nel 488 [cfr. capp. i e xi].

La popolazione gotica rimasta nei Balcani diviene più trattabile. Purconservando le proprie strutture militari autonome, ormai è sotto la tu-tela di un alto ufficiale imperiale, il comes dei federati. Uno di questi co-mites, Vitaliano, si solleva contro Anastasio nel 513, in seguito alla so-spensione dei versamenti dovuti ai federati, ma – prova della nuova in-tegrazione – è sostenuto allo stesso modo dall’esercito regolare di Tracia.Facendo tesoro, forse, di questa esperienza, le leggi di Giustiniano se-gnalano la presenza, presso ciascuna unità di federati, di un sottufficia-le-contabile (optio): i sussidi sono versati direttamente ai combattentida un agente imperiale e non più dal capo tribale o dal comes. Le leggidistinguono ancora tra i milites, soldati regolari sottoposti ai magistri mi-litum, e i foederati, ma Procopio relativizza tale distinzione, spiegandoche le unità di federati, composte un tempo unicamente da barbari, an-noverano ormai numerosi cittadini romani. Questo processo conducesotto Maurizio all’integrazione formale del corpo dei federati con l’e-sercito regolare.

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180 Le istituzioni dell’Impero

5.2. I buccel lar i e g l i ott imati .

Al centro della seconda linea del dispositivo dello Strategikon si tro-vano il generale e i suoi buccellari (da buccellum, piccolo pane da 6 on-ce, più o meno 163 grammi): si tratta di soldati reclutati e mantenuti aspese del generale. Si è molto speculato sui possibili legami tra la loroapparizione alla fine del iv secolo e il coevo accrescimento dell’influen-za germanica nell’esercito. Tuttavia, sebbene i capi germanici avesserol’abitudine di circondarsi di un seguito di fedelissimi, tale fenomeno nonmanca di antecedenti nella tradizione militare romana [Schmitt 457]. Apartire dalla fine del v secolo, dei buccellari compaiono, in maniera ana-loga, in Egitto (e senza dubbio anche altrove) al servizio dei grandi pro-prietari terrieri, che sono anche alti funzionari statali. Che ciò avvengain ambito civile o militare, non si tratta né di usurpazione né d’indebo-limento dell’autorità statale [Gascou 444]. I buccellari dei generali diGiustiniano giurano fedeltà all’imperatore prima di prestare giuramen-to al proprio padrone e non costituiscono un pericolo per il potere: quan-do Belisario cade in disgrazia, i suoi buccellari gli sono confiscati insie-me agli altri beni. D’altro canto, vi sono numerosi casi di buccellari che,dopo essersi distinti al servizio di un generale, divengono ufficiali nelleunità regolari. Tali contingenti sono di solito assai ridotti – qualche de-cina, o piuttosto centinaio di uomini. Il numero di buccellari di Belisa-rio – l’uomo più ricco dell’Impero dopo la presa di Cartagine – al tem-po della campagna d’Italia, 7000 cavalieri (Procopio, Bella, 7.1.20), èun record assoluto, che testimonia la crisi dell’esercito mobile in quel-l’epoca. Nel dispositivo dello Strategikon, il loro numero è alquanto piùmodesto. Nel secolo successivo, i buccellari sono una formazione d’éli-te a parte, che deriva con ogni verosimiglianza dai buccellari di Mauri-zio, integrati nell’esercito regolare dopo la sua incoronazione.

Il grosso degli effettivi della seconda linea è fornito dal corpo degliottimati, dal latino optimates, «i migliori», i nobili. Lo Strategikon rico-nosce loro, infatti, una caratteristica particolare: ciascuno degli ottima-ti dispone almeno di un paggio. Si tratta dei barbari occidentali, princi-palmente longobardi, reclutati a caro prezzo da Tiberio poco dopo il 570e condotti da Maurizio contro i Persiani nel 578. Se si aggiunge che Mau-rizio, a quanto pare, nel 582 diviene l’unico comes dei federati conosciu-to, il suo ruolo nella formazione del nuovo esercito risulta particolar-mente evidente.

Le formazioni dell’esercito mobile evocate nello Strategikon non co-stituiscono un corpo unico, salvo nel dispositivo-modello progettato

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dall’autore. D’altro canto, le fonti della seconda metà del vii secolo ri-velano l’esistenza di un corpo d’élite, opsikion/obsequium, un equiva-lente tardo del comitatus, giacché si tratta del «seguito» armato di unimperatore in campagna. Questo nome, senza dubbio, è stato dato alcorpo a cavallo che ha combattuto i Persiani con Eraclio, il primo im-peratore a condurre personalmente una campagna dopo Teodosio I. Gliottimati e i buccellari ne fanno parte, e forse anche i federati (benchéin un’epoca più tarda siano collegati al comando d’Oriente). La conti-nuità tra l’esercito d’élite di Maurizio e quello di Eraclio e dei suoi suc-cessori è assai netta [Haldon 447]. Si tratta, tuttavia, di un esercito icui effettivi devono oscillare intorno ai 10-15 000 uomini, soltanto unafrazione degli effettivi degli eserciti mobili d’Oriente al tempo dellaNotitia.

ii. le condizioni del servizio.

Dalla presa di potere di Costantino, nel 324, fino alla rivolta di Fo-ca, nel 602, nessun imperatore d’Oriente è stato rovesciato dalle forzearmate dell’Impero. Si tratta di un periodo di stabilità senza pari, a dif-ferenza sia dell’epoca romana anteriore, sia dell’epoca bizantina poste-riore, in cui le rivolte militari sono la causa principale, e frequente, deicambiamenti di potere. La suddivisione del comando supremo tra piùmagistri militum ha senza dubbio la sua parte in ciò, ma le radici dellastabilità vanno cercate soprattutto nelle condizioni di servizio dei mili-tari. L’esercito protobizantino è un sistema assai aperto che ricompen-sa il merito. Vediamo le sue forze e le sue debolezze strutturali.

1. Il reclutamento.

Il giurista Arrio Menandro testimonia che l’esercito dei Severi con-siste perlopiù di volontari (Dig., 49.16.4.10). Il dilectus, chiamata deicittadini alle armi, procedura usuale sotto la repubblica e all’inizio delprincipato, è poco praticato in quest’epoca. Tuttavia, la serie di inva-sioni e l’inflazione che contraddistinguono la maggior parte del iii seco-lo fanno perdere al servizio militare molte delle sue attrattive. Come ne-cessario correttivo, il reclutamento diviene dunque in gran parte obbli-gatorio, per non dire coercitivo, dall’epoca della Tetrarchia fino all’inizio

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182 Le istituzioni dell’Impero

del regno di Teodosio I (in Oriente). In seguito, torna volontario finoalla fine del nostro periodo.

1.1. I l rec lutamento ereditar io.

La tendenza alla trasmissione ereditaria del mestiere si manifestapresso i militari così come in altre categorie professionali. Sotto i Seve-ri, fino alla metà dei legionari erano nati negli accampamenti. Questasostanziale ereditarietà diviene un obbligo legale all’epoca tetrarchica.I figli dei soldati o dei veterani sono periodicamente chiamati alle armi,come san Martino di Tours, presentato al servizio dal padre quando ave-va solo 15 anni. La stretta applicazione della legge produce una gran par-te degli effettivi dell’esercito del iv secolo e spiega senza dubbio il rad-doppiamento di unità negli anni 350-90, che ha per lungo tempo incu-riosito gli studiosi. L’unità «junior» (per es. Batavi iuniores) appartienesempre alla medesima classe di truppe dell’unità madre (Batavi seniores),anche se è stanziata in un’altra parte dell’Impero. La creazione di que-ste unità doveva permettere ai figli dei migliori soldati dell’esercito im-periale di conservare la condizione acquisita dai loro padri.

Alcune leggi parlano dei figli dei veterani che fuggono la coscrizio-ne; Gregorio di Nazianzo interviene presso un magister militum in favo-re del figlio di un soldato che è entrato nel clero e cerca di sfuggire alservizio militare (Ep., 225). Questi segni di coercizione in Oriente scom-paiono dopo il regno di Teodosio I. Questo di per sé non comporta lasparizione del principio, ma la sua trasformazione in privilegio: l’origi-ne militare prova che la recluta è libera dalle costrizioni ereditarie chegravano su altre categorie sociali [ Jones 149, pp. 668-69]. I papiri delv-vi secolo mostrano che le guarnigioni e le unità «mobili» che si seden-tarizzano reclutano molto spesso figli di soldati.

1.2. I l rec lutamento municipale.

Al tempo delle grandi guerre della fine del ii e dell’inizio del iii se-colo, si ripartivano tra le città quote di reclute da arruolare ed equipag-giare. Se si vuol credere a Lattanzio (De mort. pers., 7.5), il fardello del-la fornitura di reclute si andò appesantendo, per i provinciali, sotto Dio-cleziano. I papiri dei primi tre quarti del iv secolo mostrano che questaprocedura veniva applicata, in maniera irregolare, a misura delle urgen-ze militari. Le autorità municipali, non avendo un potere coercitivo, cer-cavano di attirare volontari, cui fornivano le vesti regolamentari e unsussidio per l’equipaggiamento. Tuttavia, il crescente bisogno di uomi-

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ni all’epoca del grande sviluppo dell’esercito mobile provoca alcuni ten-tativi di aumentare il rendimento del sistema e poi conduce alla sua rifor-ma radicale. Una legge di Valente annuncia per la prima volta nel 370 ilprincipio di coscrizione annuale, che poteva essere sostituito da un pre-lievo in oro delle somme dovute alle reclute (CTh, 7.13.2). Nel 375, tut-ti i proprietari terrieri, compresi i senatori, sono raggruppati in circo-scrizioni di superficie fissa, tassate con una recluta (CTh, 7.13.7). Infi-ne, se la legge del 370 descrive il processo di reclutamento come unamanifestazione spontanea di volontari, quella del 375 autorizza i pro-prietari della circoscrizione a scegliere la recluta tra i contadini insedia-ti sulle loro terre.

L’ultima misura, d’ispirazione occidentale, si rivela poco adatta allarealtà sociale dell’Impero d’Oriente. I rapporti di potere tra il padronee il colono che si sviluppano in Occidente hanno pochi paralleli in Orien-te, dove il contadino è spesso proprietario della sua terra o libero loca-tario di terre altrui. La disposizione di Valente provoca una crisi che unadocumentazione eccezionalmente fitta permette di seguire passo dopopasso. Le strade della diocesi del Ponto, sul percorso che conduceva alfronte persiano, brulicano di disertori alla fine degli anni ’70 del iv se-colo; vengono promulgate leggi severissime contro di loro e contro chili ospita, così come contro le reclute che si mozzano il pollice per evita-re la coscrizione [Zuckerman 1048]. La crisi del reclutamento, forse,non è estranea al disastro di Adrianopoli, nell’agosto 378, dopo il qua-le Teodosio I comincia ad applicare vigorosamente la coscrizione forza-ta, per poi rovesciare radicalmente il sistema, approfittando, parados-salmente, delle disposizioni di legge del 370 e del 375.

Annualizzando la procedura di reclutamento e fondandola su una ba-se fondiaria, le leggi di Valente hanno infatti posto la base della trasfor-mazione della fornitura di reclute in una tassa, equivalente alle spese diequipaggiamento di una recluta affrontate dai membri della circoscri-zione. Valente fu il primo a tentare questa strada nel 377, quando l’af-flusso di rifugiati goti che avevano attraversato il Danubio gli fornì unamassa di reclute di qualità: in quel caso pretese dai provinciali, al postodi coscritti, dell’oro che utilizzò per arruolare i Goti (Ammiano Marcel-lino, 31.4.4). La ribellione dei Goti, provocata dagli abusi commessi ailoro danni dai funzionari imperiali, mise rapidamente fine a questa espe-rienza, che tuttavia fu seguita da Teodosio I, a partire dal momento incui giunse a ristabilire la sicurezza e la pace. La commutazione dei co-scritti in una tassa annuale in oro fornì al governo imperiale il mezzo perarruolare ed equipaggiare volontari di ogni origine. Questa riforma si li-mitò all’Impero d’Oriente, dal potenziale fiscale nettamente superiore.

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184 Le istituzioni dell’Impero

In Occidente, in compenso, la coscrizione è rimasta in vigore, sempresporadica e scarsamente efficace, giacché i proprietari terrieri inviava-no all’esercito la manodopera di peggiore qualità [Zuckerman 492].

L’abbandono del reclutamento municipale trova un’eco divertentein un autore degli inizi del v secolo, Isidoro di Pelusio (Ep., 5.185, PG,78, 1436): una volta che gli imperatori hanno sospeso la responsabilitàdi procurare soldati all’esercito, gli abitanti delle città, liberi da ognipreoccupazione militare, si sarebbero dati ai piaceri più bassi, i giochidel circo. Questa analisi traduce una realtà essenziale: la separazione,funzionale e mentale, tra la società civile e l’esercito. I soldati, certa-mente, sono una parte integrante del tessuto sociale delle città e dei vil-laggi in cui risiedono, ma esercitano una professione come un’altra. L’an-tica concezione romana alla base del dilectus, secondo la quale ciascuncittadino è un soldato potenziale, sparisce senza lasciare traccia e la di-fesa del paese è percepita come il compito di determinati professionisti.Quando il futuro vescovo Sinesio si rifà al glorioso passato per chiama-re alle armi gli abitanti della sua provincia, in occasione delle incursio-ni dei nomadi, l’argomento lascia perplessi. L’Impero d’Oriente non di-spone né di criteri, né di procedure per arruolare una milizia o istituireuna coscrizione, e la sua capacità di rinnovare le proprie forze armatedipende dall’attrattiva del servizio per le reclute volontarie. Questo si-stema funziona bene fintantoché il fisco fornisce all’esercito i mezzi ne-cessari, ma raggiunge presto i propri limiti quando le rendite fiscali siprosciugano in seguito alla conquista persiana delle province orientali,sotto Foca ed Eraclio.

2. Equipaggiamento, addestramento e paga.

Equipaggiamento e salario sono nettamente distinti nel i-ii secolo. Ilsoldato riceve la propria paga in contanti solo dopo che ne sono statededotte le spese per i suoi indumenti, le armi e il cavallo (per i cavalie-ri), così come per le derrate alimentari che gli vengono fornite dall’in-tendenza in tempo di pace e di guerra. Questo regime viene meno neliii secolo, per l’effetto combinato delle campagne sempre più frequentie della svalutazione della moneta d’argento. Il soldo annuale (stipendium)sparisce all’inizio del iv secolo, assorbito dall’inflazione. Al contempoentra in funzione, a partire dall’epoca tetrarchica, un sistema di remu-nerazione basato da una parte sui donativa, doni in denaro distribuitidall’imperatore in occasione della sua ascesa al trono, di anniversari e dialtri avvenimenti festivi, e dall’altra sulla distribuzione di alimenti es-

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senziali – principalmente grano, olio, carne/lardo e vino – che costitui-scono l’annona.

L’annona, in origine un prelievo straordinario, finisce per integrar-si nel sistema fiscale regolare: adesso i contribuenti sono tassati in der-rate annonarie. Il medesimo principio si applica al foraggio per i caval-li (capitum), agli indumenti (vestis) e ad altro equipaggiamento destina-to all’esercito. Il sistema annonario ha colpito gli studiosi per la suagrande complessità, a livello di prelievo così come di distribuzione: tan-to più grande è il merito di Mitthof [486], che, seguendo il percorsoinaugurato da Palme [1025], ha recentemente proposto uno studio glo-bale della documentazione papirologica relativa all’annona, giungendoa fare chiarezza sul funzionamento del sistema. La raccolta delle derra-te fiscali mobilita le élites municipali (curiales), che hanno il compito diprelevare le tasse dai villaggi situati nel territorio della loro città. Si trat-ta di un dovere gravoso e potenzialmente rovinoso, così come quello diessere responsabili del trasporto di derrate deperibili. Entra allora infunzione un’elaborata ripartizione di ruoli tra coloro che ricevono cia-scuna derrata, coloro che la trasportano nei depositi e quelli che, da là,l’indirizzano verso le unità militari. Peraltro, alcune minuziose proce-dure di controllo cercano d’impedire gli abusi da parte dell’intendenzamilitare, a detrimento dei curiales-fornitori così come a livello della di-stribuzione delle razioni annonarie ai soldati.

Questo sistema, assai gravoso da sostenere, dopo le riforme moneta-rie e fiscali del 368-70 comincia a evolversi verso l’aderazione, ossia lasostituzione della fornitura di derrate con il versamento del loro equi-valente in oro. Tale transizione non si compie senza frizioni, tra i for-nitori e i beneficiari dell’annona, sull’estensione e le modalità tariffariedell’aderazione, come viene ampiamente riecheggiato dalle leggi del Co-dice teodosiano. Appare oggi immotivato il lungo dibattito sulla que-stione di sapere a chi convenisse l’aderazione e chi, tra i contribuenti oi militari, avesse interesse al mantenimento delle consegne in natura. Sei produttori preferivano consegnare i prodotti, purché non dovesserosostenere le spese di trasporto, i militari optavano piuttosto per i versa-menti in contanti e la libertà di scegliere i propri fornitori. È anche evi-dente che il fardello della gestione delle consegne annonarie gravava pe-santemente sui curiales, al punto che contribuì al declino di questa clas-se sociale. Benché i dettagli della transizione non siano sempre chiari,si constata senza particolare sorpresa che, al massimo a partire dalla metàdel v secolo, le annone sono perlopiù percepite – e dunque redistribui-te ai soldati – in denaro e non in natura.

I salari dei soldati continuano, tuttavia, a essere espressi in annone

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186 Le istituzioni dell’Impero

nel corso del v e del vi secolo. Ciò testimonia, ancor più del conserva-torismo della fiscalità, una certa logica funzionale. La tariffa di adera-zione, infatti, non è fissa né uniforme, ma al contrario varia a secondadelle regioni e tiene conto dei prezzi di mercato. Il pacchetto annona-rio costituisce così un metodo di remunerazione flessibile e adatto allevariazioni dei prezzi. Garantisce ai militari di stanza nelle differenti par-ti dell’Impero una parità di potere d’acquisto per i medesimi livelli ge-rarchici, come il «paniere» di beni e servizi di base misurato così daglieconomisti moderni. Un soldato semplice riceve una sola annona, i gra-duati ottengono tra 1,5 e 8 annone, mentre i duces possono raggiunger-ne una cinquantina. Il valore monetario di un’annona, necessariamentevariabile, ha ricevuto stime differenti dagli studiosi. Tale remunerazio-ne assicura, a condizione di essere regolarmente versata, una rendita dibase per una famiglia militare, ma il soldato può aspirare a una situazio-ne materiale confortevole solo avanzando di grado e moltiplicando le an-none.

Il sistema annonario è più adatto a un’unità stazionaria che ai biso-gni di un esercito in campagna. Per soddisfare tali bisogni, si è fatto ri-corso alla requisizione (coemptio/synone) di prodotti, il cui valore vienededotto dalle tasse del produttore. Questi acquisti forzati e la loro mes-sa in conto da parte del fisco danno luogo a lamentele, così come l’allog-gio di soldati presso privati (mitaton) quando le truppe si acquartieranoin una città. Per quanto il legislatore si affanni a promettere un prezzogiusto per i prodotti requisiti e a limitare le prestazioni dovute al solda-to dal suo ospite, i motivi di attrito restano costanti. Salvo nei casi ec-cezionali di una campagna pianificata in anticipo e supportata da unaflotta, come la spedizione di Belisario in Africa, l’intendenza militareha raramente il tempo di preparare l’approvvigionamento e, soprattut-to, i mezzi per trasportarlo. Il soldato in campagna, che sia sul suolo im-periale o in terra nemica, vive soprattutto dei prodotti della regione.

La nozione di annona scompare verso la fine del vi secolo, con la di-sgregazione delle guarnigioni stanziali. Si parla allora di roga, latinismoche designa il soldo. Tuttavia non si hanno dati sufficienti per determi-nare la rispettiva quota, nel salario dei militari, dei pagamenti in mone-ta e dei versamenti in natura sotto Maurizio, Foca ed Eraclio. La deci-sione di Maurizio di fornire ai soldati armi e uniformi, piuttosto che oroper il loro acquisto, nel 594 provoca una ribellione. La quota del con-tante resta certo notevole: non a caso Eraclio si riduce a «prendere inprestito» e a ricavare monete dall’argenteria delle chiese per poter re-clutare e pagare i soldati. Occorre peraltro notare che il termine synonedesigna, in epoca mediobizantina, non più una requisizione di prodotti

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per le necessità dell’esercito, ma una tassa fondiaria. Ciò non può cheessere il risultato di un massiccio ricorso alla synone nel vii secolo, alpunto che quest’anticipo sulla tassa finisce per identificarsi con la tassastessa.

3. Lo svolgimento della carriera e il congedo.

Ogni soldato, quando viene arruolato, vuole credere di avere nel pro-prio zaino un bastone da maresciallo. Questa speranza era indubbiamen-te più fondata per un soldato del basso Impero che per uno del princi-pato, comandato da ufficiali provenienti dall’ordine senatorio o eque-stre, o per uno dell’epoca mediobizantina, contraddistinta dal predomi-nio di grandi famiglie di proprietari terrieri. Dopo i tetrarchi, tutti diorigine modesta, si possono citare Gioviano e Valente, giovani della clas-se media ingaggiati come protectores domestici, ma anche Marciano, fi-glio di un soldato, e Giustino I, figlio di un contadino, che debuttanocome soldati semplici. Leone I è un ufficiale di medio rango quando èchiamato al potere, e Foca non è che un centurione quando scatena larivolta contro Maurizio. Questa apertura è applicata a tutti i livelli dicomando e la lista di alti ufficiali usciti dai ranghi sarebbe lunga. I figlidei comandanti altolocati beneficiano certo di una promozione rapida,ma non sono la maggioranza, e queste dinastie militari si perpetuano ra-ramente oltre due o tre generazioni; il corpo degli ufficiali del basso Im-pero non diviene mai una nobiltà ereditaria [Gluschanin 445]. Facendorappresentare, sulle pareti di un bagno pubblico, le tappe della sua car-riera da soldato semplice fino al culmine dell’Impero, Giustino I offrea un giovane ambizioso la migliore garanzia di promozione al merito.

Tuttavia, il fenomeno dell’esercito «a due velocità» si ripercuote an-che sulle carriere. Un giovane, entrato nella Guardia imperiale o in un’u-nità dell’esercito mobile a 16 o 20 anni, può aspirare a una bella carrie-ra se mostra le proprie qualità a Palazzo o durante le spedizioni. Al tem-po delle guerre di Giustiniano, le migliori opportunità di promozione sioffrono ai buccellari che si distinguono al servizio di un generale. Alprincipio di promozione al merito si oppone però il criterio dell’anzia-nità, che è particolarmente in auge nelle unità stazionarie.

Il fatto che un graduato o un sottufficiale meritevoli siano promos-si davanti ai propri camerati di pari grado più anziani crea necessaria-mente degli attriti. Nelle legioni, il problema era risolto con il trasferi-mento dei promovendi, in particolare centurioni, da una legione all’al-tra. Tale pratica non è più attestata dopo l’epoca tetrarchica. Ancora nel

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188 Le istituzioni dell’Impero

iv secolo, un sottufficiale dallo stato di servizio onorevole può ottenereun altro avanzamento: inviato a Corte per «adorare la porpora imperia-le», è promosso al rango di protector. In seguito, può essere distaccatopresso un alto comandante o messo alla testa di un’unità ausiliaria. Que-sta modalità di promozione scompare nel corso del v secolo. Al contem-po, la legislazione del iv secolo batte su un semplice principio: ogni sol-dato deve essere promosso secondo l’ordine d’iscrizione nei ruoli dellasua unità, in quanto ogni eccezione a quest’ordine può lasciar sospetta-re un appoggio illecito (suffragium). Ciascuna unità, piccola o grande, di-viene così un mondo chiuso, al di fuori del quale i vantaggi acquisiti so-no perduti.

Gli effetti perversi di tale processo si manifestano, alla fine del v se-colo, nell’editto dell’imperatore Anastasio che regola le condizioni diservizio delle guarnigioni della Cirenaica: «Quando c’è un’ispezione,non si passeranno in rassegna come deboli o invalidi i primi di ciascunaunità e di ciascun accampamento, ossia i primi cinque se i soldati sonocento, i primi dieci se sono duecento; una procedura analoga sarà appli-cata a un numero di uomini più grande o più piccolo» (SEG, VII, 356,§ 7). Procopio, alla metà del vi secolo, fornisce maggiori dettagli sul fun-zionamento del sistema:

La legge stabiliva che gli stipendi dei militari non fossero corrisposti a tutti sem-pre in egual misura; i giovani, e arruolati da poco, ricevevano un soldo più basso,chi aveva prestato un certo servizio ed era alla metà della carriera era pagato me-glio. Per i veterani, ormai vicini al congedo, lo stipendio era ben più consistente,perché potessero, rientrati nei ranghi civili, vivere decentemente e, una volta con-clusa la loro esistenza, lasciare qualche aiuto ai familiari. Così gli ultimi avanzanodi grado, via via che la gente scompare o si congeda e ognuno riceve dal Tesoro unostipendio calcolato sull’anzianità di servizio.

Ora, per una decisione dell’imperatore Giustiniano che Procopio de-plora, «sguinzagliarono delle guardie di Palazzo in tutto l’Impero, perscovare, nei ruoli, gli elementi non idonei al servizio attivo: e chi ebbe-ro il coraggio di radiare perché inutile e chi perché troppo vecchio», la-sciando che gli ex soldati mendicassero il proprio cibo sulla piazza delmercato, presso persone che li compativano (Procopio, Storia segreta,24.2-8).

I «primi» della guarnigione di Elefantina, all’estremità meridionaledell’Egitto, si presentano, in un papiro datato al 578, come una «cor-porazione» (koinos), sul modello delle corporazioni professionali civiliche sono alla base della vita sociale dell’Impero. Nel testo in questione,attestano l’iscrizione, sanzionata dal dux della Tebaide, di una reclutaoriginaria di Elefantina nei ruoli dell’unità (P.Mon., 2). È proprio ai «pri-

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mi» delle guarnigioni egiziane, piuttosto che ai loro comandanti-tribu-ni, che Giustiniano rivolge, nell’editto XIII (539), minacce di rappre-saglia se i soldati si renderanno colpevoli d’insubordinazione. Dal mo-mento che avevano fatto carriera all’interno dell’unità, i «primi» sonoinfatti in grado d’influenzare il comportamento dei propri camerati me-glio dei tribuni, nominati dall’esterno. Le unità insediate da due secolinel medesimo luogo acquistano dunque una certa autonomia di gestio-ne e alcuni privilegi per i loro «anziani». La logica sociale di quest’evo-luzione non attenua peraltro i suoi effetti perversi sul funzionamentodell’esercito. Il modello di unità condotte, di diritto, da vecchi invalidinon può durare a lungo. La sparizione, prima della fine del vi secolo,della quasi totalità delle unità conosciute dalla Notitia deriva così in granparte dalla sclerosi delle loro strutture.

Insieme a queste unità sparisce l’elaborato sistema di gradi che rego-lava l’avanzamento del soldato nei ruoli. Le legioni del basso Imperoconservavano alcuni tratti della gerarchia delle legioni classiche e i nuo-vi auxilia applicavano una nomenclatura distinta che datava alla fine deliii secolo. Tali sistemi di gradi non lasciano la minima traccia in epocabizantina, e non si tratta di un caso. Presso i buccellari, conosciuti daipapiri, e nel nuovo esercito d’élite di Maurizio la gerarchia è più sem-plice e flessibile, giacché le nomine ai ranghi di ufficiale erano determi-nate dalle capacità e dall’esperienza del soldato [Strategikon 436, 1.4-5].

Un’altra eredità dell’epoca del principato che scompare sotto il bas-so Impero è l’istituzione dei veterani. Costantino il Grande, quando riu-nisce sotto il proprio potere l’insieme degli eserciti tetrarchici, restitui-sce un senso alla condizione di veterano, tramite numerose misure legi-slative e uno sforzo fiscale considerevole. La durata del servizio – intornoai venticinque anni – e le condizioni di congedo sono regolate secondole categorie di truppe, tenendo conto dello stato di salute del soldato.Ai veterani che scelgono l’agricoltura sono distribuite terre defiscaliz-zate, sementi e sussidi per l’insediamento [cfr. sopra]; coloro che si in-sediano in città beneficiano allo stesso modo di deduzioni fiscali. Que-ste disposizioni restano attive – benché si sia poco informati sul loro gra-do di applicazione – nel corso del iv secolo, ma svaniscono rapidamentenel v. La crescente integrazione dei soldati nel tessuto sociale delle cittàe dei villaggi dove sono acquartierati attenua lo choc del ritorno alla vi-ta civile. D’altro canto, la condizione di veterano è evidentemente in-compatibile con il sistema descritto da Procopio, in cui l’estensione del-la durata del servizio diviene una sorta di pensione di anzianità.

Il patrizio Mena, autore del trattato Sulla scienza politica, riflette, alprincipio del regno di Giustiniano, sul dovere dello Stato nei confronti

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190 Le istituzioni dell’Impero

degli ex combattenti. Reclama cure e conforti per i vecchi, educazionee mantenimento a spese dello Stato per i figli dei soldati morti sul cam-po, eventuali aiuti per i loro genitori. Una misura dalla datazione diffi-cile autorizza l’arruolamento del figlio maggiore, qualunque ne sia l’età,di un soldato morto sul campo, dimodoché le annone percepite dal ra-gazzo servano a nutrire la famiglia del defunto (CI, 12.47.3). Tale mi-sura è confermata dall’imperatore Maurizio, che legifera allo stesso mo-do in favore degli invalidi di guerra [Haldon 484, pp. 23-24]. Si trattaperò di espressioni limitate di benevolenza imperiale, che derivano dal-la carità e non più da una condizione definita.

iii. la chiesa di fronte al servizio militare.

Sono bastati pochi anni alla Chiesa, dopo la conversione di Costan-tino, per superare la sua secolare sfiducia nei riguardi del potere impe-riale. Non solo l’imperatore cristiano, ma anche il suo esercito divengo-no gli strumenti della provvidenza divina in un modello veterotestamen-tario resuscitato. Gli autori cristiani, a partire da Lattanzio ed Eusebio,celebrano i successi militari di Costantino, l’anacoreta tebano Giovan-ni di Licopoli profetizza le vittorie di Teodosio I e i grandi teologi delsuo tempo le glorificano come vittorie della religione cristiana [Helm485]. La Chiesa non trova alcuna difficoltà a giustificare la guerra e aintegrarla nella propria «economia della salvezza», ma riscontra invecenotevoli problemi a trovarvi un posto per il guerriero.

La condizione del soldato nella comunità cristiana è definita nellalettera canonica di Basilio di Cesarea ad Anfilochio di Iconio, risalenteal 374: «I nostri padri non hanno considerato gli omicidi compiuti inguerra come dei veri e propri omicidi; secondo me, volevano accordareil perdono a chi combatte per la purezza e la pietà. Ma forse è bene con-sigliare loro, siccome non hanno le mani pure, di astenersi tre anni dal-la sola comunione» (Ep., 188). Il riferimento ai «padri» è problemati-co. La tradizione cristiana anteriore condanna senz’appello l’omicidiocommesso per una buona come per una cattiva causa. L’ambiguità ma-nifestata da Basilio riguardo ai soldati «omicidi» deriva da questa tra-dizione e conduce, come viene constatato dai canonisti medievali, di-rettamente a una situazione di stallo: «Si rischia di arrivare al punto chei soldati non prendano mai parte alla comunione, soprattutto i più va-lorosi tra essi che danno dimostrazione di coraggio», in mancanza della

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possibilità di interrompere per tre anni la pratica del loro mestiere [Zo-nara in Rhalles 79, IV, pp. 131-32]. I contemporanei di Basilio vedeva-no senza dubbio con altrettanta chiarezza che il suo «consiglio» era inap-plicabile, ma sul piano teologico era difficile da contestare.

Le informazioni sulla presenza della Chiesa negli accampamenti so-no rare. Vegezio (intorno al 386) riporta il giuramento prestato dai sol-dati, che invocavano «Dio, il Cristo, lo Spirito Santo e la Maestà impe-riale» e assimilavano l’imperatore all’«immagine presente di Dio» [438,2.5]. Si tratta dell’unica menzione della religione cristiana, adattata al-l’uso degli eserciti, presente in questo manuale militare. Iscrizioni e pa-piri del v e del vi secolo attestano la presenza di chierici, sacerdoti e dia-coni, presso le unità militari. Amministrando i sacramenti, questi sacer-doti non tenevano certamente conto del consiglio di san Basilio, maoccorre ricordare che nessun testo letterario ci descrive questo aspettodel loro ministero. Lo Strategikon menziona i preti solo a proposito del-la preghiera nell’accampamento prima della battaglia, che si concludecon la triplice esclamazione Deus nobiscum «per la fortuna» [436, 2.18].Il medesimo testo constata, con un pragmatismo notevole, che la batta-glia si vince non tramite la moltitudine degli uomini o avventati atti dicoraggio, «ma, con l’aiuto di Dio, grazie all’arte del comandante e allaprofessionalità dei soldati» (2.1).

Questo spirito pragmatico non deve nascondere la tensione di fon-do. Quando l’imperatore Maurizio proibisce per legge qualsiasi passag-gio da una funzione statale al servizio della Chiesa, papa Gregorio Ma-gno gli scrive per contestare questa misura. Accetta che sia applicata aifunzionari che desiderano unirsi al clero secolare, o addirittura agli am-ministratori civili che cercano rifugio in un monastero, ma si mostra as-solutamente intransigente riguardo ai soldati che vogliono anch’essi di-venire monaci. Ci sono persone che possono salvare la propria anima inquesto mondo, ma non è il caso dei soldati: la «conversione» monasti-ca è la loro unica via di salvezza (Registrum, 3.61).

La guerra persiana, soprattutto dopo la perdita di Gerusalemme edella Vera Croce, riveste l’aspetto di una guerra di religione, ed Eracliosa ostentarlo abilmente. Tuttavia, se l’imperatore ha diritto alle suppel-lettili e alle preghiere della Chiesa, nonché alla gloria dovuta a un difen-sore della fede, non si riscontra alcuna ricaduta per i suoi soldati: la par-tecipazione alla guerra santa non santifica nessuno. Un trattato milita-re, forse contemporaneo alla guerra persiana, propone al generale alcunimodelli di arringa per incitare le truppe al combattimento. L’autore cer-ca di sfruttare al meglio il Vangelo, prestando alle parole di Cristo sul-l’amore per il prossimo il senso di difenderlo a mano armata, per poi ag-

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192 Le istituzioni dell’Impero

giungere con rara lucidità: «E, supponendo che non si debba compren-dere in questo senso la legge divina, poiché, quando Pietro ha estrattola spada, il Cristo gliene ha proibito l’uso (Mat., 26.52), si farà violen-za al testo in ragione dell’utilità pubblica e dell’urgenza» [Dagron 481,pp. 227-29]. I soldati dell’Impero, dunque, affrontano gli Arabi, porta-tori dell’ideologia del jihad, facendo violenza alle Scritture e alla pro-pria coscienza cristiana.

iv. epilogo. verso l’epoca mediobizantina.

L’Impero affronta l’esercito persiano sullo sfondo della guerra civi-le. All’inizio, l’invasione è sollecitata e sostenuta da Narsete, magistermilitum d’Oriente; in un momento cruciale della campagna, le miglioriforze dell’Impero sono stornate dal fronte persiano a causa della ribel-lione di Eraclio. Il crollo dell’esercito bizantino di fronte alla Persia neiprimi anni del regno di Eraclio potrebbe dunque essere parzialmentegiustificato da queste circostanze attenuanti, ma le sue cause profondevanno cercate altrove. Sono le stesse che spiegano al contempo il rove-sciamento di Maurizio da parte dell’esercito d’élite che lui stesso ha crea-to e la persistente debolezza di Bisanzio di fronte all’invasione araba.

Già sotto Maurizio i mezzi dell’Impero non sono più all’altezza del-le sue necessità militari. Le epidemie ricorrenti di peste fanno calare leentrate fiscali e la politica militare di Maurizio, nonostante i suoi suc-cessi sul campo di battaglia, consiste nel gestire la scarsità. I soldati pro-fessionisti, nondimeno, si aspettano di essere pagati per i loro servizi, ele successive misure di economia imposte da Maurizio provocano la lo-ro disaffezione. Il problema del finanziamento dell’esercito non fa cheaggravarsi quando i Persiani conquistano le province orientali e soprat-tutto l’Egitto, fino ad allora risparmiato dalle guerre. Il finanziamentoeccezionale ottenuto da Eraclio grazie alla Chiesa gli permette di crea-re un corpo a cavallo, mobile ed efficace ma di piccole dimensioni, checonduce con grande abilità, praticando la guerriglia: opera attacchi a sor-presa evitando lo scontro frontale (se non nello stadio finale della cam-pagna, quando beneficia del consistente appoggio degli alleati turchi)[cfr. cap. i].

Questo corpo d’élite, l’opsikion, rimane in attività per tutto il vii se-colo. Quando i conflitti interni del Califfato danno un barlume di spe-ranza a Bisanzio, vengono lanciate campagne di riconquista, come le spe-

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dizioni in Transcaucasia condotte da Costante II nel 654 e nel 660-61,o quella scatenata da Giustiniano II intorno al 686, che estende per qual-che tempo il suo potere fino all’Azerbaigian. Ma quando le truppe ara-be riprendono l’offensiva, l’esercito bizantino è incapace di tener lorotesta, a causa dell’inferiorità numerica dovuta alle magre risorse dell’Im-pero. Le ricche province orientali, che un tempo contribuivano larga-mente al mantenimento di quell’esercito, finanziano ormai le truppe delCaliffato.

Peggio ancora, l’Impero è privo di un sistema di difesa territorialecapace di ritardare l’avanzata dell’invasore e di minacciarne le retrovie.Questo sistema viene instaurato sotto forma di temi (themata), distret-ti militari e amministrativi che all’origine portano il nome dei territoridegli antichi magistri militum – Oriente, Armenia, Tracia –, le cui trup-pe sono arretrate davanti all’avanzata araba o, nel caso delle truppe del-la Tracia, sono state dislocate in Asia Minore. I temi appaiono come en-tità territoriali a partire dall’viii secolo; a partire dal ix presentano ca-ratteristiche che ricordano vagamente quelle dei limitanei: sono chiamatial servizio i proprietari di terre, per i quali il salario militare costituiscesolamente un reddito complementare. Sono state formulate numeroseteorie per ricondurre questa forma di organizzazione militare al regnodi Eraclio, ma mancano di un fondamento veritiero [riassunto della que-stione in Haldon 448]. Nei 5-10 anni che separano la ritirata persianadalla conquista araba, non si trova alcuna traccia di riforme strutturali[Schmitt 458], che peraltro sono ancora meno probabili nel caos che se-gue lo sfondamento da parte dell’esercito musulmano. I piccoli residuidegli eserciti dei magistri militum, senza dubbio, vengono insediati nel-le città e nelle fortezze le cui mura continuano a rimanere in piedi. Suc-cessivamente, durante i due «secoli oscuri», queste unità regolari si tra-sformano in una milizia territoriale, peraltro assai efficace, che, pur con-servando la tradizione dell’esercito di Stato propria dell’Impero, ha moltitratti in comune con gli eserciti dei regni «barbari» dell’Occidente. L’e-sercito e l’Impero escono allora dalla crisi in cui li lasciamo alla fine delregno di Eraclio.

1 In Synesii Cyrenensis Opuscula, a cura di N. Terzaghi, Roma 1944.2p. soverini (a cura di), Scrittori della Storia Augusta, Torino 1983, II, p. 713 (Vita di Alessan-dro Severo, 58).

3 Syria. Publications of the Princeton University Archaeological Expeditions to Syria in 1904-1905and 1909, Leyden 1907-49, 21 e 237 = Guide de l’épigraphiste. Bibliographie choisie des épi-graphies antiques et médiévales, Paris 20013, 101, n. 364.

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parte terza

La civiltà bizantina e i suoi fondamenti

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cécile morrisson

vi. La capitale

1. Da Bisanzio a Costantinopoli: le origini (330-60).

La fondazione della città sul sito di Bisanzio da parte di Costantinonel 324 rientra, come si è visto [cfr. cap. i], nella politica tetrarchica cheha definitivamente privato Roma di un ruolo di capitale e residenza im-periale, ruolo già in parte perduto nel corso del iii secolo a vantaggio dicittà più vicine alla frontiera e al teatro delle operazioni militari, che re-clamavano la presenza degli imperatori. La Corte e le strutture palatineseguono i sovrani nei loro spostamenti ed era stata allora creata o svi-luppata una serie di residenze imperiali, tra cui, in Oriente, Sirmio eTessalonica per Galerio, Eraclea e Nicomedia per Diocleziano. Questeresidenze, tuttavia, non avevano carattere permanente e nessuna pre-tendeva di rimpiazzare Roma. Neppure la «città di Costantino» avevaquest’ambizione al principio, benché la retorica la definisca l’«altra Ro-ma» a partire dal 326 e le fonti più tarde, riassunte da Balsamone (PG,137, col. 121), asseriscano anticipando i tempi che «Costantino il Gran-de trasferì [a Bisanzio] lo scettro della regalità romana, dette alla cittàil nome di Costantinopoli e di nuova Roma, ne fece la regina di tutte lecittà» [Dagron 493, p. 44].

La scelta del sito [Mango 501] si spiega con motivazioni strategiche:si tratta di un avamposto dell’Europa, il punto d’arrivo della Via Egna-tia che collegava Durazzo o Apollonia sull’Adriatico a Tessalonica. Con-trolla l’accesso al Mar Nero e soprattutto il passaggio in Asia. Sulla spon-da opposta del Bosforo, infatti, Calcedonia è il punto di partenza dellastrada che conduce, passando da Nicomedia e Nicea, verso Ancira (l’at-tuale Ankara), Cesarea di Cappadocia (Kayseri) e l’Eufrate, e di quellache raggiunge Antiochia passando da Dorileo (Eskisehir), Iconio (Konya)e la Cilicia. Il fronte marittimo sulla Propontide e il Corno d’Oro offreinfine evidenti vantaggi difensivi, superiori a quelli di Nicomedia.

Questi vantaggi hanno chiaramente avuto la meglio, nell’animo delfondatore, su alcuni inconvenienti non meno evidenti: l’assenza di di-fese naturali dal lato di terra, la mancanza di sufficienti risorse idriche

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198 La civiltà bizantina e i suoi fondamenti

nei paraggi, l’esistenza di venti dominanti estivi provenienti da nord chetrattengono o intralciano le navi che risalgono i Dardanelli verso il MarNero, a causa della forte corrente che ne proviene. Si vedrà come Co-stantino e poi i suoi successori tenteranno di ovviare a questi problemi.

La città occupa il sito dell’antica Bisanzio, il cui nome (di origine tra-ce) era fatto risalire dalla leggenda a due eroi mitici: Biza, figlio di unaninfa o di un re, e Anta, da cui Byz-Ant-ion. Città relativamente mode-sta all’interno di una provincia, la Tracia, che aveva avuto un’urbaniz-zazione più tarda e meno intensa di altre, Bisanzio aveva visto radere alsuolo le sue mura da Settimio Severo nel 195/196, come punizione peraver parteggiato per il suo avversario nella guerra civile. La sua impor-tanza strategica aveva peraltro già fatto sì che fosse ricostruita e abbel-lita nel corso del iii secolo. Circondata da una cinta muraria, riedifica-ta sul medesimo tracciato di quella antica intorno al 250, la città avevaun perimetro di circa 5 km, era alimentata dal punto di vista idrico daun acquedotto costruito sotto Adriano (il cosiddetto acquedotto «di Va-lente», che esiste ancora oggi), era servita da due porti fortificati sulCorno d’Oro e non contava più di 20 000 abitanti. A quel tempo com-prendeva un’acropoli con i suoi templi, un anfiteatro (il Cinegio), le gran-di terme di Zeusippo, un ippodromo simile al Circo Massimo di Romae, in aggiunta all’agorà greca dello Strategion, un’ulteriore agorà circon-data da porticati (Tetrastoon), collegata alla porta della città da una stra-da fiancheggiata da colonnati.

I lavori di Costantino sono mal conosciuti, giacché nessuna fontecontemporanea ne parla, ad eccezione di Eusebio, e quest’ultimo cercadi glorificare soprattutto la cristianizzazione della città, da lui attribui-ta abusivamente all’imperatore. L’archeologia, per questo periodo co-me per i seguenti, ha certamente fornito molte informazioni sui monu-menti [Müller-Wiener 505] e la topografia della città1. Tuttavia, comedel resto c’è da aspettarsi in una città abitata senza soluzione di conti-nuità fino ai nostri giorni e in cui i monumenti bizantini sopravvissutisono poco numerosi, le scoperte sono state fatte e continuano a esserloin modo casuale, in seguito a lavori di vario genere, e gli scavi, perlopiùeseguiti in fretta, sono stati condotti assai di rado in maniera scientifi-ca, con l’eccezione di quello di Saraçhane (San Polieutto) [Harrison 777]o di quello, attualmente in corso, su una parte del sito del Gran Palaz-zo [ Jobst in 498].

Comunque sia, premesso che in questa sede facciamo riferimento al-l’esposizione dello «sviluppo urbano di Costantinopoli» da parte di Man-go [501-2, 494], si può attribuire al fondatore un allargamento e un ab-bellimento della città d’ispirazione ambivalente, contemporaneamente

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pagana e cristiana, in cui la prima tendenza era però favorita. Costanti-no iniziò la costruzione di nuove mura terrestri, situate poco meno di 3km a ovest di quelle del iii secolo – circondavano così circa 700 ettari –,completò l’Ippodromo e lo prolungò verso il mare – l’arena era lunga al-lora circa 450 metri –, fece edificare il Palazzo, il Senato e la Basilica inprossimità del Tetrastoon e delle terme di Zeusippo. La via colonnata deliii secolo fu prolungata verso occidente fino alla Porta d’Oro, che segna-va il punto d’arrivo della Via Egnazia. Questa Mese (via «mediana»),larga circa 25 metri, era contemporaneamente un’arteria commerciale eun viale trionfale, funzioni che peraltro conservò nel corso dei secoli.Nel punto d’intersezione con le antiche mura, sulla Mese fu impianta-to un grande foro circolare, al centro del quale fu elevata una grande co-lonna di porfido di 35 metri di altezza, l’attuale «colonna bruciata» –di cui rimangono ancora 6 tamburi –, sormontata da una statua colossa-le di Costantino munita della corona radiata che lo assimilava alla divi-nità solare.

Presso il Filadelfio, punto di partenza dell’altro ramo della Mese, chesi dirigeva a nord-ovest, Costantino edificò un tempio dedicato alla tria-de capitolina, mentre lasciava in funzione i templi dell’acropoli e co-struiva solamente tre chiese: Sant’Irene, la cattedrale, di dimensioni mo-deste, il martyrium di Sant’Acacio presso il Corno d’Oro e quello di SanMocio presso un cimitero situato fuori dalle mura. Costruì infine i San-ti Apostoli, che all’origine non erano una chiesa, ma un mausoleo impe-riale di forma circolare, nella tradizione tetrarchica, nel quale l’impera-tore prevedeva di occupare la nicchia assiale, mentre le sei nicchie late-rali erano riservate agli apostoli, secondo un progetto che suggerivaimplicitamente che egli fosse l’equivalente del Cristo, così come avevavoluto essere il doppio del Sol [cfr. cap. x], benché la traslazione nel 336delle reliquie degli apostoli Andrea (evangelizzatore di Bisanzio secon-do la leggenda) e Luca [Mango 502] manifesti la tardiva volontà di unaconsacrazione cristiana dell’edificio. L’ambiguità di queste strutture ur-bane riflette così quella dell’attitudine religiosa di Costantino.

Tale ambiguità si riscontra anche sul piano istituzionale, poiché nonè sicuro che l’imperatore avesse subito voluto fare della città una nuo-va Roma e fondarvi un secondo Senato [Dagron 493, pp. 118-22]. Tut-tavia, risulta chiara l’intenzione che mirava ad attirare a Costantino-poli una parte della nobiltà senatoria e una popolazione più numerosa,tramite la costruzione di grandi dimore (oikiai) per i primi e l’assegna-zione di pani gratuiti (panes aedium) a quelli che costruivano altre abi-tazioni, dirottando sulla nuova città una parte del grano egiziano finoad allora riservato a Roma e assicurando, a partire dal 332, la distribu-

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zione di 80 000 razioni quotidiane di pane, mentre a quel tempo Romane riceveva ancora 200 000 [Dagron 493, pp. 539-49; Durliat 587, pp.186-280].

Costanzo (337-61) prosegue quest’opera di fondazione sul piano ur-banistico, istituzionale e finanziario. Vengono allora messi in opera va-ri elementi di un’imitazione di Roma già contrassegnata architettonica-mente da un Palazzo che si ispirava in parte al Palatino ma anche alleresidenze tetrarchiche, e da piazze munite di colonne istoriate. La pre-fettura e la pretura urbana costringono le personalità di rango senatorioa farsi carico dei giochi [cfr. cap. iii]. Costanzo porta da appena 300 a2000 il numero dei senatori; precisa poi lo status del Senato con una se-rie di misure che trasformano quest’assemblea di origine curiale in un’i-stituzione imperiale. Fa così diventare la città il centro di una nuova ari-stocrazia imperiale allargata, con un obbligo di residenza che favoriscela crescita della popolazione, ma non manca di porre problemi di approv-vigionamento. L’acquedotto di Adriano, con i suoi 6000 metri cubi cir-ca di erogazione giornaliera, non basta più e la città, secondo Temistio,«muore di sete». Cominciano allora lavori di derivazione di ampio re-spiro, nonché la costruzione di grandi terme nella città nuova, al di fuo-ri della cinta severiana, mentre la cristianizzazione dello spazio urbano,fino a quel momento assai modesta, giunge ad affermarsi con la costru-zione di una basilica cruciforme dei Santi Apostoli affiancata al mauso-leo di Costantino e con quella della prima chiesa di Santa Sofia nelle vi-cinanze del Palazzo. Si può dunque considerare Costanzo come il prin-cipale costruttore della nuova capitale.

Il ruolo di Costantinopoli arriva così ad affermarsi a tutti i livelli, mail vero sviluppo che dà il suo volto definitivo alla capitale protobizanti-na si colloca negli anni che seguono il volgere del iv secolo.

2. Lo sviluppo della capitale (360-542).

A partire dal 360 la crescita urbana prende un forte slancio, certosempre sostenuto dalle iniziative dello Stato in materia di difesa e ope-re pubbliche, ma in qualche misura autoalimentato dalla popolazioneesistente e dalle sue necessità. La crescita della popolazione è testimo-niata soprattutto dalla costruzione di nuovi porti sulla Propontide (Mardi Marmara), destinati a rimediare alla capacità insufficiente dei portiprecostantiniani del Neorio e del Prosforio sul Corno d’Oro. Questi ul-timi, infatti, probabilmente non offrivano più di 1500 metri di banchi-ne, molto più di quelli, per esempio, di Leptis Magna, e quattro volte

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202 La civiltà bizantina e i suoi fondamenti

meno di Roma (Porto). Giuliano nel 362 e successivamente Teodosiodecidono la costruzione di porti che recano il loro nome, il primo vici-no al Palazzo, denominato in seguito Porto Sofiano in onore della mo-glie di Giustino II, che lo rinnovò, il secondo più a occidente, nella par-te a sud dell’istmo. La capacità totale avrebbe così raggiunto all’incirca4 km di banchine, che potevano ospitare simultaneamente, grossomo-do, 500 navi da 10 000 moggi di tonnellaggio e una larghezza media di8 metri. Il grano che arrivava a luglio con i convogli annonari era allorastoccato nei grandi granai pubblici (horrea), la maggioranza dei quali erasituata presso il Corno d’Oro, con l’aggiunta di altri due posizionati trai due nuovi porti.

La derivazione dell’acqua [Mango 494] non era meno vitale e neces-sitò di grandi lavori, non solo, probabilmente, nella foresta di Belgrado(Halkalî, nella parte settentrionale del Bosforo, a una quindicina di chi-lometri dalla città), ma anche molto più lontano, a più di 100 km a nord-ovest nei pressi dell’antica Bizie (Vize), ossia nella zona montuosa situa-ta vicino all’attuale frontiera con la Bulgaria, dove sono stati ritrovaticondotti a volta e acquedotti che possono essere verosimilmente attri-buiti a Valente. Tale rete idrica fu completata con la costruzione delletre enormi cisterne a cielo aperto di Aezio (421), Aspar (459) e San Mo-cio (sotto Anastasio?) – quest’ultima su una superficie di circa 25 000metri quadrati e con una portata di circa 375 000 metri cubi – e di gran-di cisterne coperte sotto Giustiniano, come la cisterna basilica (Yereba-tan) con le sue 336 colonne e i suoi 10 000 metri quadrati, e la cisternadi Filosseno detta delle «Mille e una colonna» (Bin bir direk), che neannovera in realtà 224, copre 3610 metri quadrati e poteva conservarepiù di 40 000 metri cubi. A questi impianti ne vanno sommati un cen-tinaio di più piccoli. È una peculiarità di Costantinopoli che un insiemecosì importante di riserve (più di un milione e mezzo di metri cubi) noncercasse di rimediare alla siccità dei mesi estivi o di annate eccezionali,ma piuttosto al possibile taglio degli acquedotti in occasione di incur-sioni dei barbari, la cui pressione andava accentuandosi in Tracia a par-tire dagli anni ’70 del iv secolo.

Per rispondere a questa minaccia, la costruzione delle mura di Teo-dosio, lunghe 6 km, intrapresa tra il 404 e il 4132, giunge a chiudere unarco di cerchio di circa 2 km di profondità oltre la cinta di Costantino,portando così la superficie intra muros a 1400 ettari. Eccezion fatta perl’estensione, risalente al xii secolo, intorno al palazzo e al santuario del-le Blacherne, questo limite non fu mai superato e difese la capitale finoal 1453. Questo nuovo tracciato aveva maggiori vantaggi strategici ri-spetto al vecchio e proteggeva un territorio che non fu mai totalmente

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urbanizzato: tutto il contrario, anzi. Lo spazio situato tra le due cintemurarie, polmone della capitale, ospitava contemporaneamente le ne-cropoli, le cisterne a cielo aperto e grandi estensioni di orti che poteva-no bastare ai consumi di gran parte della popolazione [Koder 499, pp.49-56] e procurare utili risorse in caso di assedio. Non è certo che la pro-tezione della città sia stata completata nel 439 con la costruzione di unacinta marittima completa [Chron. Paschale 166, p. 583]: forse protegge-va solo la sponda del Mar di Marmara fino alle mura di Costantino [Mül-ler-Wiener 505, pp. 308-19]3. Le mura terrestri furono comunque rad-doppiate qualche tempo dopo grazie alle Lunghe Mura, dette di Ana-stasio (verso il 500? ma forse anteriori), che estendono la loro strutturadi pietre e mattoni, punteggiata di torri semicircolari o poligonali, su 65km di lunghezza da Selimbria (Silivri) al Mar Nero [Crow in 494, pp.109-24].

Al riparo di questa serie di possenti cinte murarie, la città propria-mente detta diviene progressivamente, soprattutto a partire da Teodo-sio I nel 380, la residenza permanente dell’imperatore: i sovrani non lalasciano quasi mai nel v e vi secolo, prima che Eraclio rinnovi la tradi-zione militare dei suoi predecessori del iv secolo per condurre personal-mente la guerra contro i Persiani. Costantinopoli prevale definitivamen-te su Antiochia, che aveva accolto Costanzo e il prefetto del pretoriod’Oriente fino al 350. La «città regina» (basileuousa) ormai rivaleggiacon Roma nella retorica imperiale, espressa dai testi, come i discorsi diTemistio, o dall’iconografia ufficiale: sui tipi monetari, la Tyche (per-sonificazione della «fortuna») di Costantinopoli – che si distingue daquella di Roma per la prua di nave su cui poggia il piede – occupa talo-ra una posizione superiore o finisce, a partire da Teodosio I, per dive-nire essa sola il simbolo stesso dell’Impero sulla maggior parte dei soli-di in oro del v secolo. Dalla retorica si passa alla formalizzazione dellacondizione di «seconda» o «Nuova Roma»: nel 381, il terzo canone delconcilio di Nicea-Costantinopoli accorda al vescovo di Costantinopoli,per questa ragione, la precedenza onorifica sugli altri vescovi dopo il ve-scovo di Roma [cfr. cap. iv].

L’imitazione di Roma continua a concretizzarsi nello spazio urbano:è per questo motivo che Teodosio costruisce un vasto foro ispirato al fo-ro di Traiano, imperatore di cui si dichiarava discendente, e fa innalza-re al centro della piazza una copia fedele della colonna di Roma. L’ini-ziativa imperiale, tuttavia, non è più isolata: la città, almeno all’internodei confini costantiniani, si ricopre di costruzioni private, dalle oikiai(palazzi) dei senatori e dei potenti, che danno il loro nome a interi quar-tieri, fino ad altre più modeste, più o meno invasive o rispettose dello

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spazio pubblico, che la legislazione cerca di contenere limitandone l’al-tezza a 100 piedi (29,5 metri) e fissando anche delle distanze e delle mi-sure da rispettare (CI, 8.10.12) [Saliou 508]. La loro densità è tale cheun commentatore di Gregorio di Nazianzo menziona «le abitazioni col-locate sul mare da molte parti, dimodoché si può … vedere il mare tra-sformato in terraferma»4.

La decisiva cristianizzazione della capitale risale a questo periodo:dopo l’inaugurazione della prima «Grande Chiesa» (Santa Sofia) nel360, ricostruita nel 415, lo sviluppo di costruzioni religiose progredi-sce di pari passo con la cristianizzazione della società. La Notitia urbisConstantinopolitanae, intorno al 425, riassume con alcuni numeri la po-sizione ancora relativamente limitata dell’architettura religiosa rispet-to ai monumenti civili, dal momento che la città conta solamente 14chiese contro 8 terme pubbliche e 153 bagni privati, 6 granai e 4388domus. Lo sviluppo si amplifica tuttavia nella seconda metà del v seco-lo. Le basiliche come San Giovanni di Studio, Santa Maria di Chalko-prateia (c. 450) sono affiancate allora da altri santuari più modesti e neipossedimenti senatorî della periferia asiatica o europea si vengono a in-sediare numerosi monasteri [cfr. cap. viii]. Le fondazioni e costruzio-ni religiose sono spesso, in quei casi, manifestazioni di devozione per-sonale e superano certamente i bisogni della comunità. La devozionedelle grandi personalità si concretizza in prestigiose realizzazioniconformi al loro rango: tra il 524 e il 527 la principessa Anicia Giulia-na, nipote di Valentiniano III, costruisce a fianco del suo palazzo unabasilica a cupole, dedicata a San Polieutto (attuale Saraçhane), la cuisontuosa decorazione è in parte influenzata dall’arte sassanide e che ri-mase la più grande della città fino a quando Giustiniano non completòSanta Sofia [Harrison 777].

Può darsi che la città alla metà del v secolo abbia raggiunto un mas-simo di 300-400 000 abitanti [ Jacoby 496; Müller 504], superando cosìla popolazione di Roma. L’importanza di questa popolazione di origineassai variegata, dalle risorse assai diseguali, la sua distribuzione irrego-lare, la sua forte densità nei quartieri settentrionali e la sua instabilitàsociale favoriscono una serie di cronici incendi più o meno devastanti,un male endemico della città medievale, come in seguito della capitaleottomana. Nel 465 un «grande rogo, come non ce n’era mai stato, di-strusse tutto da mare a mare» (Malala, 372), dal Neorio fino al Mar diMarmara, su una superficie di più di 2,5 chilometri quadrati, e fece fug-gire l’imperatore, che si rifugiò per sei mesi a San Mamante sul Bosfo-ro (attuale Dolmabahçe secondo l’ODB o Besiktas secondo Mango eMüller-Wiener). Gli incendi furono spesso legati a rivolte, come in oc-

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casione della celebre sedizione Nika dal 13 al 19 gennaio 532. I dannifurono tali che Giustiniano dovette ricostruire parecchi edifici vicini alPalazzo, una parte di quest’ultimo e, soprattutto, fu costretto a intra-prendere la costruzione di Santa Sofia sulle rovine della cattedrale delv secolo. Edificio eccezionale per la sua audacia strutturale (una cupoladi 13,8 metri di altezza e 33 di diametro che si eleva a 55,6 metri al disopra del suolo: il più grande edificio della cristianità per i sei secoli suc-cessivi) e la ricchezza della decorazione (circa 11,5 tonnellate d’argentosecondo le stime degli archeologi o 13 tonnellate – 40 000 libbre – se-condo Procopio), Santa Sofia era ben in grado di rivaleggiare con il Tem-pio di Gerusalemme e Giustiniano poteva vantarsi, dopo Anicia Giulia-na, di avere «vinto Salomone».

Il completamento della «Grande Chiesa» nel 537 segna l’apogeo del-l’urbanizzazione cristiana della città e dell’attività di Giustiniano in que-st’ambito. Costantinopoli gli doveva anche altre 32 chiese (tra cui le Bla-cherne, Santi Sergio e Bacco5, Sant’Irene restaurata dopo il 532), la ri-strutturazione del Senato e della Chalke, quattro palazzi, il foro dell’Au-gusteo, vari bagni, un portico che scendeva al mare dalle terme di Ar-cadio, la cisterna basilica e 6 ospizi. La descrizione un po’ esagerata diProcopio (De Aedificiis, 1) rivela la preponderanza, durante questo re-gno, delle costruzioni religiose. Non si deve infine dimenticare che lacittà era percorsa dai suoi numerosi porticati, dove circa 5000 botteghe-laboratori erano perlopiù raggruppati secondo le varie specializzazioni[Mundell Mango in 498].

3. Riflusso e declino (metà del vi - metà del vii secolo).

La peste del 542, con le sue conseguenze demografiche (probabilecalo della popolazione del 50%) e urbane (accentuazione dello sposta-mento verso il lato meridionale, intorno al Porto di Giuliano, delle co-struzioni, dell’approvvigionamento e delle attività commerciali a essolegate6), segna l’inizio del riflusso rispetto all’espansione anteriore. Sicontinua a costruire, ma molto meno, fino al 600, data che segna un ar-resto di due secoli, eccezion fatta per le riparazioni o l’ampliamento diopere difensive. Sotto il regno di Eraclio, la pressione esterna priva con-temporaneamente la capitale del pane e dell’acqua: la conquista persia-na dell’Egitto comporta la soppressione dell’annona nel 618 e, in occa-sione dell’assedio avaro-slavo del 626, l’acquedotto «di Valente» vienetagliato. La città prende allora, a poco a poco, le sue caratteristiche me-dievali: dei molteplici porti non rimangono che il Porto di Giuliano a

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sud e il porto militare del Neorio sul Corno d’Oro, e c’è un solo granaiopubblico (Lamia) invece di sei. Le grandi terme, il cui uso era gratuito,cedono il posto a bagni più piccoli, perlopiù accessibili a pagamento, le-gati a diaconie religiose.

Questi abbandoni e mutamenti, evidenti nell’viii secolo, non sonotuttavia databili con precisione. Nel 641, la capitale non ha più la pro-sperità dell’epoca di Giustiniano, né tutte le istituzioni antiche che neerano alla base, ma è ancora una grande città paleocristiana che delleproprie antiche origini conserva solo le rovine, fonte di leggende, o permeglio dire terrori, nel secolo successivo. Accogliendo la Vera Croce«rimpatriata» da Gerusalemme [Teofane 184, p. 468; Flusin 495], Co-stantinopoli diveniva anche l’unica capitale religiosa e politica di un Im-pero veramente «bizantino».

1a. berger e altri, Varia II, «Poikila Byzantina», 6 (1987); a. berger, Untersuchungen zu denPatria Konstantinupoleos, ivi, 8 (1988).

2 Cfr. Lebek 500, comm. da Feissel, REG, 111 (1998), pp. 705-6, n. 635.3 Mancano tuttavia conferme epigrafiche o archeologiche a favore del Chron. Paschale, e «sullaquestione delle mura marittime non è stata ancora detta l’ultima parola» [Mango 501, p. 25,nota 12; Mango in 507].

4e. piccolomini, Estratti inediti dai codici greci della biblioteca medicea laurenziana, Pisa 1879,p. 43.

5 Cfr. Bardill in 498, pp. 1-11.6 Cfr. p. magdalino, Constantinople médiévale, Paris 1966.

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cécile morrisson

vii. Popolamento, economia e società dell’Oriente bizantino

i. spazio e clima, popolamento e demografia.

1. Spazio e clima.

Fino al termine del regno di Eraclio, l’Impero bizantino è rimastouna potenza mediterranea attestata dall’Africa del Nord al Mar Rosso,o al Mar Nero e all’Eufrate a est, e fino al Danubio al nord. Certo, Giu-stiniano non aveva ricostituito le frontiere di Costantino, ma l’Imperoconservava un’estensione considerevole: la totalità della pars Orientis ac-cresciuta di un terzo. Questa estensione spiega la diversità di condizio-ni naturali e umane, ma anche l’importanza degli scambi nel quadro diuno Stato e di una civiltà comuni a delle popolazioni romanizzate e pro-gressivamente cristianizzate nel corso del nostro periodo.

La parte orientale di questo spazio – di cui qui ci occupiamo priori-tariamente – era perlopiù occupata da zone di macchia, foreste o pasco-li. Comprendeva, per un verso, pianure più o meno fertili, naturalmen-te ricche di acque o irrigate, dal clima mediterraneo (valli alluvionali delNilo e dell’Asia Minore, Basso Danubio e Tracia, Macedonia), esporta-trici di prodotti agricoli; per l’altro, in preponderanza, zone montuoseframmentate (Balcani, Tauro, Antitauro, catene pontiche e l’altopianoanatolico chiuso da queste ultime) con il loro clima contrastato di tipocontinentale (inverni molto freddi, estati torride e secche), destinate adattività pastorali o a una policultura poco produttiva, ma non necessa-riamente autarchica (come nel caso della Siria settentrionale). Le isoleoffrivano uno schema analogo, che contrapponeva piccole pianure lito-ranee a uno spazio di maggiore estensione formato da rilievi boscosi, iltutto sottoposto a un classico clima mediterraneo, con precipitazioni piùabbondanti nelle isole ionie che in quelle del Mar Egeo.

Le condizioni climatiche sembrano tuttavia aver subito un’evolu-zione nel tempo, giacché gli studi paleoclimatici (in particolare glacio-logia, dendrocronologia, palinologia) attestano, dopo un lungo periododi inverni più caldi (all’incirca dal 1200 a.C. al 500 d.C.), particolar-mente favorevole a una maggiore estensione della coltura dell’olivo, un

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netto raffreddamento verso la metà del vi secolo, associato a un incre-mento delle precipitazioni invernali [Koder 531; Randsborg 532, pp.22-30]. Inizia allora il lungo periodo di stabilità mediobizantina (vii-

xii secolo), che vede la foresta svilupparsi dovunque l’erosione causatadallo sfruttamento intensivo precedente non avesse irrimediabilmentedegradato il suolo [Geyer in 518, pp. 31-45]. Sono soprattutto questicambiamenti dell’ambiente dovuti alle attività umane (eccessivo sfrut-tamento del suolo seguito da erosione e dilavamento, nonché degradodovuto alla mancanza di manutenzione e all’abbandono di strutture co-me terrazzamenti, piantagioni e canali) che vengono privilegiati dallaricerca attuale nell’interpretazione del declino economico alla fine delnostro periodo.

2. Risorse naturali e minerarie.

Il legname, quasi unica fonte energetica, era anche la materia pri-ma essenziale per la costruzione navale, fondamento della potenza eco-nomica e militare dell’Impero. Le zone montuose vicine al mare, comeCreta, Cipro, il Ponto, il Tauro, la Licia, la Siria levantina, i Rodopi,le Alpi dinariche, il Pindo, la Calabria, ne erano le maggiori – ma nonle sole – produttrici. Quando, come accadeva di frequente, queste re-gioni possedevano anche risorse minerarie, erano sede di un’attiva me-tallurgia.

Grazie alle prospezioni archeologiche, nonché alle analisi dei metal-li, le conoscenze sullo sfruttamento minerario hanno compiuto notevo-li progressi dal tempo del classico studio di Vryonis [536], che postula-va a partire dai testi antichi o moderni, e dai rari testi bizantini riguar-danti l’Anatolia, che vi fosse una continuità dall’Antichità all’epocamedievale [Matschke 535]. È certo che nel v e nel vi secolo venivanosfruttate miniere o giacimenti d’oro non solo in Nubia, ma anche a estdell’Egitto centrale [sugli scavi del sito di Bîr Umm Fawâkhir cfr. Meyer994] nonché nei Balcani, dove la loro amministrazione dipendeva da uncomes metallorum per Illyricum. I testi menzionano i cercatori d’oro tra-ci (aurileguli) o i minatori (sequendarum auri venarum periti) attivi nel-l’intera regione, e anche le analisi delle monete attestano la produttivitàdi tale attività. A partire dalla Calcidica e dal Pangeo, le vallate del Ne-sto, dello Strimone e soprattutto il bacino superiore della Morava (Kra-tovo) racchiudevano abbondanti risorse in minerali argentiferi o rami-feri e in ferro. Il loro sfruttamento è in parte registrato dai testi e in al-cuni casi confermato dall’archeometallurgia [cfr. cap. xi, pp. 355-57].

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Lo sfruttamento di quest’oro balcanico permette la crescita spettacola-re delle quantità di solidi battuti tra il 360 e la metà del v secolo, comesi è potuto osservare e misurare in seguito all’innalzamento quantitati-vo delle tracce di platino nei solidi di questo periodo [Morrisson 594,pp. 92-95].

Attualmente, le nostre conoscenze più approfondite sono sull’AsiaMinore, grazie ai lavori di numerose squadre, come quella tedesca e quel-la turco-americana, e soprattutto grazie alle prospezioni dell’Istituto diesplorazione mineraria di Ankara [Pitarakis 881]. La ricerca degli scar-ti minerari, l’analisi delle scorie, la datazione al carbonio-14 degli uten-sili o delle impalcature e la raccolta di cocci nei dintorni delle installa-zioni minerarie e metallurgiche hanno permesso di localizzare più di unacinquantina di siti di epoca «bizantina», e talora di datarne il periododi sfruttamento in modo relativamente preciso. Le celebri miniere di ra-me di Cipro sono ancora attive nel v e nel vi secolo [Papacostas in 572].Si sa inoltre che la Calabria possedeva, nella regione delle Serre, minie-re d’oro, d’argento e di rame, nonché di ferro, il cui sfruttamento è benattestato alla fine dell’Antichità [Noyé 554]. L’archeologia e le prospe-zioni sono destinate ad apportare ulteriori informazioni in quest’ambi-to ancora non perfettamente conosciuto. L’importanza economica diqueste ricchezze spiega l’interesse, non solamente strategico, che perl’Impero e i suoi vicini rivestivano zone come il Tauro, il Ponto1 e l’Ar-menia2 o l’Illirico [Du‰aniç 831].

3. Una popolazione numerosa ed eterogenea.

A questo esteso territorio corrispondeva una popolazione non menoconsiderevole, che costituiva una delle basi della potenza dell’Impero,come per la Francia dell’età moderna. Si è stimato – sottoponendo le in-dicazioni numeriche frammentarie e incerte delle fonti a un’analisi com-parativa e procedendo a estrapolazioni che hanno portato a ordini digrandezza poco certi – che l’Impero d’Oriente annoverasse 24 milionidi abitanti intorno al 350 [Russell 547] e 30 milioni sotto Giustiniano3

dopo la riconquista dell’Italia e dell’Africa. Tale popolazione era ripar-tita in maniera assai disomogenea, a causa della diversità delle condizio-ni naturali e delle loro implicazioni economiche: le zone di forte den-sità, concentrate nei pressi del mare o di un fiume navigabile come il Ni-lo, contrastavano con il retroterra balcanico o l’altopiano anatolico,scarsamente popolati e talora deserti. La popolazione, inoltre, era sud-divisa in maniera diseguale anche tra le due parti dell’Impero: nel iv se-

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colo, la pars Occidentis contava probabilmente meno di 20 milioni di abi-tanti. Lo squilibrio fu certamente accresciuto dallo sviluppo di Costan-tinopoli e dalla maggiore insicurezza che afflisse l’Occidente nel v e nelvi secolo. Anche all’interno della pars Orientis, le province dei Balcanisettentrionali colpite dalle invasioni assistettero, nel v secolo, al decli-nare della loro popolazione, mentre la Grecia e la Siria-Palestina, com’ètestimoniato dalle ricognizioni archeologiche, ebbero un apogeo nel v-

vi secolo: la densità di popolazione raggiunse probabilmente livelli com-parabili a quelli della fine del xix secolo.

La condizione di crocevia dell’Impero d’Oriente e la sua vocazioneecumenica contribuivano al carattere cosmopolita della popolazione del-le metropoli, dove si mescolavano gruppi di origine etnica diversa, cheriflettevano il «mosaico di lingue» parlate nell’Impero [cfr. cap. ix, p.277]. Tuttavia, la testimonianza dei testi o delle iscrizioni4 non permet-te di valutare appieno l’importanza di questi viaggiatori, pellegrini, mer-canti o artigiani, emigranti insediati temporaneamente o definitivamen-te, questi «stranieri» che secondo Temistio vengono per esempio accol-ti da Costantinopoli, «aperta a tutto e a tutti», mentre Roma, incapacedi nutrirli, li respinge [Dagron 719, p. 90]. Le comunità della diasporagiudaica e siriaca, presenti, talora a partire dall’epoca ellenistica, nellamaggior parte delle città commerciali dell’Impero, e in particolare atte-state a Cartagine nel vi e nel vii secolo, sono le più conosciute tra que-sti gruppi etnici o religiosi allogeni [cfr. sopra, pp. 58-60; Noetlichs 273;Dagron 277; Sharf 550]. Numerose altre comunità, scarsamente elleniz-zate o romanizzate, costituiscono «nazioni» (ethne) che hanno conser-vato la propria lingua e i propri costumi e si contrappongono frequen-temente al «popolo» civilizzato (demos) delle città: briganti delle mon-tagne isauriche, Traci, Illiri, Frigi [cfr. cap. xii], mercenari barbari, Gotio Alani, nelle città di guarnigione come Cherson.

4. La ripartizione della popolazione.

4.1. Le c ittà.

I monumenti conservati (a Costantinopoli o Efeso, per es.) offronouna testimonianza spettacolare sulle città protobizantine; ma i loro abi-tanti costituiscono peraltro meno di un quinto della popolazione tota-le, anche nelle province come l’Egitto dove «la forte produttività agri-cola ha permesso uno sviluppo della popolazione urbana … ecceziona-le» [Carrié 139, p. 549], e in altri casi ne costituiscono una parte cer-

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tamente minore. Dopo le due capitali e Alessandria, che nel iv o nel vsecolo hanno sui 500 000 abitanti [cfr. cap. vi; Bavant 540; Delia 543],vengono le metropoli regionali con più di 100 000 abitanti, come An-tiochia (200 000 abitanti secondo le stime di Liebeschuetz o Callu[541]), Tessalonica (140 000 abitanti per 385 ettari) e Cartagine. Lecittà «medie» hanno ordinariamente dai 10 ai 20 000 abitanti, taloraqualcuno di più come Gortina, Scitopoli/Beisan ed Ermopoli, di cui Ba-gnall [988] valuta la popolazione a circa 37 000 abitanti, a partire dalnumero di oikia (case) attestate.

4.2. Borgate, vi l laggi e vi l lae .

A livello intermedio tra città e villaggi, si sviluppano grosse borgatedi qualche migliaio di abitanti (komai) attestate dai testi [Dagron 542]e dall’archeologia [cfr. capp. xii-xiii]. Talora si tratta di scali marittimio fluviali (emporia della Tracia o della Mesia, per es.), e in ogni caso dimercati locali (nundinae, panegyreis) [De Ligt 581] che permettono aicontadini di rifornirsi di utensili e prodotti artigianali senza doversi spo-stare troppo lontano [Morrisson e Sodini in 518].

A differenza dell’Occidente, per esempio dell’Italia meridionale, cisono poche villae (grandi tenute) fuorché in Pannonia o in Dacia, dovescompaiono nel v secolo a causa della mancanza di sicurezza; alcune re-sistono in Macedonia. Villaggi, fattorie isolate o una combinazione trai due sono le forme comuni di abitato rurale, a seconda delle regioni. Lefattorie isolate prevalgono in Giudea [Hirschfeld 950] e coesistono coni villaggi in Cilicia. I villaggi protobizantini sono particolarmente benconosciuti e studiati nelle regioni del Vicino Oriente che non erano sta-te rioccupate fino a epoca recente, come la Siria settentrionale, i con-trafforti del Tauro, l’Hauran, il Golan, il Negev [cfr. capp. xii-xiii; sul-la loro evoluzione regionale e sulla problematica generale cfr. Lefort553]. Le villae particolarmente sviluppate nel iv secolo nelle pianure del-l’Illirico o in Tracia sono quasi tutte abbandonate nel v secolo [cfr. cap.xi], ma permangono e giungono addirittura a svilupparsi ulteriormentenell’Italia meridionale [Noyé 554].

4.3. Una densità diseguale nel lo spazio e nel tempo.

La ripartizione di questa popolazione, sia urbana sia rurale, e la suadensità sono assai disomogenee a seconda delle regioni [cfr. capp. xi-

xiv] e dei periodi considerati. Se si prescinde da ogni considerazionegeografica (clima) o storica (insicurezza), si nota schematicamente una

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concentrazione nelle zone vicine al litorale o nelle vallate navigabili ofacilmente accessibili.

Nel iv e nel v secolo si osserva, grazie alle prospezioni, l’addensarsidei siti rurali in molte regioni (Beozia, Argolide, Turchia sudoccidenta-le, Cipro, Palestina, Transgiordania) e la valorizzazione di zone che, ri-maste marginali fino ad allora, in quel momento erano favorite dall’in-cremento delle precipitazioni [Hirschfeld in 553]. Gli insediamenti sidispongono sui poggi, nella parte alta delle vallate, in situazioni favore-voli alla coltura dell’olivo. Di converso, nel nord dei Balcani il numerodei villaggi diminuisce nettamente nel v secolo, a causa delle incursionibarbariche [cfr. cap. xi; per l’attuale Bulgaria, Rachev in 553]. In ma-niera analoga la lunga guerra persiana, come ha mostrato Foss, mettebrutalmente fine alla relativa prosperità delle città e dei villaggi dell’A-sia Minore, nonché alla loro stessa diffusione, mentre quest’ultima, nel-l’viii secolo, persiste in Siria-Palestina. Delle città greco-romane dell’A-natolia e dei Balcani restano soltanto rovine e i centri che continuano aesistere si contraggono intorno a un’acropoli o a un territorio ridotto efortificato.

4.4. I movimenti migrator i .

Dal v al vii secolo i problemi e le guerre causano vari spostamenti dipopolazione, spontanei oppure no, di cui si potrebbero fornire numero-si esempi. Talora si assiste all’esodo in massa di tutta una città, comeLisso in Dalmazia o Euria in Epiro alla fine del vi secolo, sotto la guidadel vescovo (Gregorio Magno, Reg., 2.37, 8.32, 14.7-8). La Cronaca diMonemvasia [Lemerle 843, ll. 38-50, pp. 13-14] descrive l’esilio che se-gue l’arrivo degli Avaro-Slavi nel 587:

La città di Patrasso si trasferì … a Reggio [Reggio Calabria], gli Argivi nell’iso-la chiamata Orobe, i Corinzi nell’isola di Egina. Allora i Laconi [Sparta] raggiunse-ro [gli uni] la Sicilia, [gli altri] scoprirono un luogo scosceso sulla riva del mare, vicostruirono una cittadella e la chiamarono Monemvasia, poiché vi si può penetrareattraverso una sola entrata, e vi si insediarono con il loro vescovo.

La popolazione autoctona, tuttavia, può anche essere condotta in cat-tività o deportata, come fecero gli Avari nei Balcani o i Persiani a Ge-rusalemme nel 614, mentre l’imperatore, com’è il caso di Maurizio, pro-getta trasferimenti compensatori con l’insediamento di famiglie arme-ne in Tracia o a Cipro. Altri trasferimenti volontari od organizzati hannoluogo dai Balcani verso l’Asia Minore [Ditten 544], dalla Palestina ver-so l’Africa ecc. La prima metà del vii secolo è incontestabilmente unmomento di mescolanza, i cui effetti sono più importanti della sempli-

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ce sostituzione di una popolazione con un’altra, o del suo trasferimen-to. Nei Balcani si assiste infatti alla coesistenza di gruppi etnici di «cul-tura mista», come si può intravedere a partire da alcuni testi (Mirac. De-metrii, per es.) e dall’interpretazione, delicata, delle scoperte archeolo-giche [cfr. cap. xi].

5. La demografia.

La popolazione presentava le caratteristiche della maggior parte del-le popolazioni mediterranee premoderne5: un rapporto tra i sessi di cir-ca 105 uomini per 100 donne, una mortalità infantile elevata – un ter-zo dei bambini moriva probabilmente entro il primo anno di vita e duequinti prima dei 5 anni –, una speranza di vita, a 5 anni, limitata a 44,7anni per gli uomini e 42,4 per le donne [Bagnall 539], infine la forte pre-valenza di numerose malattie che gli attuali studi di paleoantropologiapermettono di identificare meglio di quanto concesso dai testi [Patla-gean 523, pp. 101-12; Dauphin 940, pp. 445-72]. D’altro canto, la sta-gionalità dei decessi, studiata a partire dalle iscrizioni funerarie, metteugualmente in luce il ruolo delle «febbri» e dei decessi a esse associatiin estate (tubercolosi, tifo, enteriti, malaria) [Scheidel 548]. La minimainfezione poteva comportare una rapida morte. L’incapacità della me-dicina e della farmacopea di combattere questi mali spiega la fiducia ri-posta nelle pratiche magiche o profilattiche, per esempio l’uso di amu-leti [Maguire 790], nelle preghiere ai santi guaritori e nell’incubazionenei loro santuari, nonché nel ricorso agli «uomini di Dio». Nel v seco-lo, a Seleucia d’Isauria, i Miracoli di santa Tecla mostrano che «per mol-te persone che soffrivano, una prassi normale consisteva nell’andare suc-cessivamente a chiedere aiuto ai medici, ai [medici] ebrei, a quelli chepraticavano ancora i riti d’incantamento e di magia … e infine a [santa]Tecla, passando dal meno sacro al più sacro» [865, p. 94).

6. La peste di Giustiniano e il calo della popolazione.

In assenza di catastrofi (pandemia, carestia, guerra – o tutte e trecontemporaneamente), è noto che tali condizioni demografiche permet-tevano il ricambio, o piuttosto un leggero accrescimento della popola-zione (all’incirca lo 0,2% annuo). Il periodo di stabilità che risaliva al-l’inizio del iii secolo, dopo la fine dell’epidemia detta «peste antonina»(165 - c. 190, senza dubbio il vaiolo, che avrebbe comportato un calo di

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popolazione dell’ordine del 10%), finisce con l’apparizione della pestebubbonica nel 542. Questa grande pestilenza, le cui cicliche recrude-scenze proseguono a intervalli sempre più lunghi fino alla metà dell’viii

secolo, è stata descritta in termini drammatici dagli autori contempora-nei (tra cui Procopio, Bella, 2.22-23; Giovanni di Efeso, Hist. eccl., fr.2; Evagrio Pontico, 4.29)6. Secondo Procopio, nella capitale nel corsodi tre mesi morirono da 5000 a 10 000 persone al giorno. L’epidemia ineffetti colpì soprattutto gli ambienti urbani e le zone densamente popo-late, dove la popolazione era già indebolita da una serie di carestie, pro-vocate dalle estati fredde e piovose degli anni 536 e seguenti, e si diffu-se in tutto il Mediterraneo, dall’Egitto fino all’Occidente. Il suo percor-so ricalca le rotte commerciali attraverso le quali si propaga insieme allemerci [McCormick 588], ma risparmia le zone più isolate e di conseguen-za le popolazioni nomadi. La conseguente carestia (la peste impedisce lamietitura o la vendemmia: cfr. Michele il Siro, 9.28) e le recrudescenzedella malattia ai danni di una popolazione già ridotta possono aver con-tribuito a ridurre gli abitanti delle zone colpite di circa un terzo. Altremalattie, a quanto pare divenute endemiche tra il iv e il vi secolo (in par-ticolare lebbra e malaria), hanno probabilmente sommato a ciò i loro ef-fetti debilitanti.

Le conseguenze demografiche dell’epidemia sono discusse: alcuni cer-cano di minimizzarle, valendosi delle scarse prove archeologiche [Dur-liat in 159, I], altri insistono sui suoi effetti [Kennedy 954]. Alcune iscri-zioni siro-palestinesi, ancora poco conosciute al tempo della ricerca diDurliat, testimoniano decessi in serie in quell’epoca [Dauphin 940, p.512], e ad Afrodisia un’altra epigrafe celebra l’evergeta che ha salvatola città «dalla peste e dalla carestia» [Roueché 102, pp. 137-41]. Ades-so si riconnettono alla peste anche altri indizi: sepolture frettolose, tom-be reimpiegate come carnai, scoperta di resti di ratti assenti dagli stra-ti anteriori. Infine, occorre tener conto del fatto che le circostanze nonsi prestano all’incisione di epitafi e che inoltre si preferisce spesso bru-ciare i cadaveri o gettarli in mare. La peste in sé forse non basta a pro-vocare un calo prolungato della popolazione, ma la sua concomitanzacon altre epidemie che colpiscono persone indebolite può in effetti com-portare un calo dal 20 al 30%, il cui riassorbimento richiederà un mez-zo secolo, se non molto di più [Biraben in 159, I ].

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ii. economia e società rurale.

Si può stimare che la maggioranza della popolazione (circa il 90%,che rappresentava circa l’80% della manodopera) risieda nelle campa-gne, da dove proviene la quantità più cospicua, in valore e in volume,delle derrate di necessità quotidiana e indispensabile e circa il 60% delprodotto nazionale lordo.

1. Produzioni agricole.

La varietà delle zone climatiche comporta un’economia contraddi-stinta da produzioni diverse e complementari. Al contempo, una piovo-sità sufficiente (400-600 mm), salvo ai margini delle zone aride, in mol-te regioni permette di associare policultura e allevamento a una o più at-tività artigianali o industriali e a una cultura commerciale. È su questosfondo che bisogna proiettare il presente abbozzo, giacché anche le re-gioni che si considerano votate a una monocoltura, come la Siria delnord per l’olio o l’Egitto per il grano, in realtà non lo erano affatto [cfr.capp. xiii-xiv].

1.1. Le colture.

Il grano era coltivato in Egitto, in Tracia, nelle pianure dell’internodell’Asia Minore, in Africa settentrionale, in Sicilia. Nell’oasi di Nes-sana, la resa per il grano poteva raggiungere 1 a 7, in Egitto 1 a 10 [Ba-gnall 988, p. 116] (addirittura 1 a 20 in caso di raccolti pluriannuali se-condo Foraboschi), mentre in Licia il tasso di 1 a 5 è considerato frut-to di un miracolo [Patlagean 523, pp. 247-48]. I tassi sono variabili aseconda del clima della zona considerata e delle sue variazioni annuali,nonché della qualità delle terre, ma sono probabilmente «meno misera-bili di quanto si dica e nelle regioni più fertili sembrerebbero plausibilirese di 1 a 5» [Lefort in 518, I, pp. 259-61]. La vite e l’olivo sono dif-fusi ovunque sia possibile la loro coltivazione per il consumo locale opersonale (il vino fornisce nell’alimentazione un quarto dell’apporto ca-lorico giornaliero di un adulto). Vino e olio sono oggetto di particolareinteresse come prodotti di coltivazioni commerciali, considerata la lororesa monetaria e il fatto che, a parità di superficie, un vigneto rende die-

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ci volte di più di un terreno coltivato a grano. Tra le regioni più o me-no specializzate ed esportatrici figurano la Palestina (vini di «Gaza»)[Kingsley 572] e l’Africa7.

La lista assai composita di ortaggi da seminare e piantare nella regio-ne di Costantinopoli, fornita nel XII libro dei Geoponica (compilati nelx secolo sulla base di una fonte protobizantina), è confermata al con-tempo dai papiri egiziani o da quelli di Nessana, dalle iscrizioni, nonchédalle analisi palinologiche degli scavi (è il caso di Iatrus/Krivina o Ca-riãin Grad, Hesban o Karanis). Vi si trovano i legumi (lenticchie, pisel-li, fave, ceci, vecce, lupini) che hanno un ruolo importante nell’alimen-tazione, soprattutto dei poveri. In Egitto, si spremono i semi di sesamo,di lachanon e i pinoli per ottenere un olio scadente meno caro dell’oliod’oliva. Le verdure sono coltivate nelle periferie delle grandi città8. So-no attestate inoltre piante tessili come il lino, che fanno la fortuna, peresempio, di parecchi villaggi egiziani intorno a Ermopoli. La frutta faanalogamente la sua comparsa nei testi e negli scavi (datteri, fichi, albi-cocche, pesche, cotogne, nocciole, pistacchi).

1.2. L’a l levamento.

L’allevamento è in funzione del clima e dell’importanza dei pascoli;i bovidi sono importanti nelle pianure e negli altipiani dell’Asia Mino-re, in Epiro, in Tessaglia, in Tracia nonché in Lucania, e i bufali nellepaludi di Apamea o del delta del Nilo. Il pianoterra delle abitazioni deivillaggi o delle fattorie della Siria settentrionale, e anche della Palesti-na, è costituito da batterie di mangiatoie e può aver ospitato buoi, non-ché cavalli e muli, indispensabili per i trasporti. Montoni, pecore e ca-pre sono onnipresenti: non sono sempre tenuti al pascolo, ma talora ri-sultano radunati nei cortili degli edifici o in recinti e sono inventariatinei catasti come a Tera e Lesbo9. Tali animali sono particolarmente nu-merosi nelle regioni montuose e la transumanza causa frequenti scontricon gli abitanti delle pianure. Il maiale è spesso allevato nelle foreste,come in Calabria. Il cavallo è essenziale per le necessità militari (alla fi-ne del iv secolo l’esercito d’Oriente ne richiede circa 300 000) e del tra-sporto civile. Gli equini vengono allevati nelle pianure del Bruzio, del-la Tessaglia, in Tracia e in Asia Minore, in particolare in Frigia, dovesono note varie stazioni di monta imperiali [ Jones 149, p. 671; Delmai-re 337, p. 682].

L’apicoltura fornisce il miele, unica fonte di zucchero all’epoca, cheè riservato a una clientela agiata a causa del suo prezzo. Il pollame è on-nipresente, come testimoniato dalle iscrizioni (tariffa di Cagliari)10 o dal-

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l’archeologia (ossa di polli e anatre a Dehes, per es.) [Sodini 974]. Il pe-sce non solo è talvolta pescato in installazioni fisse (tonnare e lavorie-ri), ma può essere allevato in vivai d’acqua dolce o salata, già conosciu-ti a Roma, come quelli citati da Cassiodoro (Variae, 12.4.14-15) [Da-gron 494, p. 59].

1.3. L’art ig ianato rura le .

Questo settore meriterebbe di essere più studiato, giacché è eviden-temente meno noto dell’artigianato urbano [cfr. infra, pp. 224-25]. Bi-sognerebbe verificare se sia davvero, come si dice, «perlopiù al serviziodei grandi proprietari». L’esempio di Afrodito contraddice quest’affer-mazione: questo grosso villaggio ha un gran numero di attività che nonsolo provvedono ai bisogni della popolazione circostante, ma anche diun mercato più lontano (orafi, scultori, intrecciatori di corone). Nell’Im-pero, la produzione di ceramica è verosimilmente molto diffusa, ma spes-so si concentra in prossimità delle zone montuose che forniscono il le-gno e l’argilla necessari, così come delle regioni vinicole che hanno bi-sogno di contenitori. La falegnameria è largamente presente, come di-mostrato, per esempio, dagli utensili recuperati negli scavi balcanici. Latessitura è ancora più diffusa, mentre alcune regioni presentano variespecialità praticate da artigiani itineranti, attivi nei villaggi come nellecittà: muratori isaurici attestati ad Antiochia, San Simeone o Santa So-fia, scultori, mosaicisti di determinate località attivi in Siria settentrio-nale o in Palestina, fabbri della Cilicia [Sodini 570].

1.4. L’attrezzatura e le tecniche.

Testi e miniature (per un’epoca più tarda), così come ritrovamentiarcheologici, sono stati messi a frutto per ricostruire le attrezzature pro-tobizantine. Il loro carattere apparentemente rudimentale (aratro sen-za ruote per l’aratura, pala-vanga, bidente o zappa per lavorare la ter-ra, falce messoria invece che falce fienaia per la mietitura) è invece adat-to alla natura dei terreni [Kaplan 552; Lefort in 518, pp. 232-36; Bryer556]. La battitura dei cereali viene perlopiù eseguita in un’aia per mez-zo di una sorta di slitta di legno trainata da bestie e talora da uomini,la vagliatura tramite una pala di legno e semplici rami forcuti, secondotecniche ancestrali ancora praticate nel Ponto o nella Siria del nord nelxx secolo. Molte case usano la macina a mano, mentre mortai e pestel-li fanno parte della vita quotidiana. Il mulino ad acqua è conosciuto(come testimoniato dal mosaico del Gran Palazzo di Costantinopoli o

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da quello ritrovato presso l’Agorà di Atene), ma il meccanismo «gre-co» con la ruota di trasmissione orizzontale non ha l’efficacia del mu-lino «romano» con la ruota verticale, conosciuto da Vitruvio, utilizzan-do solo dal 15 al 20% della pressione fornita dalla caduta dell’acqua.La forza idraulica è applicata anche per l’irrigazione [cfr. gli shaduf e lenorie siriane, cap. xiii].

2. Proprietà e sfruttamento.

Come in molte economie preindustriali, la proprietà fondiaria è di-stribuita in maniera ineguale a favore dei notabili e, a partire dal vi se-colo, della Chiesa. Dopo Bowman [986], Bagnall si è dedicato a uno stu-dio esemplare11 della ripartizione per il caso di Karanis e alla costruzio-ne di un «modello» di ripartizione della proprietà fondiaria nel nomoermopolita. I proprietari residenti in città possiedono dal 25 al 30% del-le terre; anche se molti piccoli possidenti hanno troppo poco per vivereunicamente dei prodotti della loro terra, esiste «un’ampia base di pro-prietari con terreni sufficienti per mantenere una famiglia, e un largostrato intermedio che poteva farsi carico delle obbligazioni pubbliche».La documentazione papirologica è l’unica a permettere di tentare unatale stima, ma la situazione non era probabilmente molto differente inaltre province. Nei papiri di Nessana, la piccola proprietà risulta mag-gioritaria.

Lo Stato, che spesso confisca i beni degli oppositori o dei suoi servi-tori caduti in disgrazia, come Belisario, possiede anche grandi proprietà,specialmente in Cappadocia [cfr. cap. xii], di cui affida la gestione a cu-ratori speciali responsabili di queste «case divine» [cfr. cap. iii]. Mancauno studio sulla natura economica di questi possedimenti imperiali perla totalità del periodo12. Analogamente, la Chiesa amministra beni spar-pagliati in tutto l’Impero: la Chiesa di Roma, per esempio, ne possiedepersino in Oriente, come a Obaria nell’Eufratesia e ad Armanazon nel-l’Antiochene (Lib. Pont., 1.34, trad. Davis, p. 20). In Oriente, grandeproprietà è raramente sinonimo di sfruttamento intensivo, eccetto nel-l’Illirico [cfr. cap. xi], dove le villae, più numerose che nelle altre regio-ni, sono progressivamente abbandonate nel v secolo. I grandi proprie-tari perlopiù possiedono terreni dispersi o gruppi di abitazioni esterne(epoikia) ai villaggi ma relativamente compatte [Banaji 551]. I possiden-ti riscuotono dal contadino che lavora la terra l’affitto e al contempo letasse, dal momento che l’autopragia non è un privilegio, ma l’obbligo diprocedere all’esazione delle tasse nell’ambito dei loro possedimenti che

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costituiscono delle unità fiscali. Secondo Carrié [139, p. 609]: «l’ina-sprirsi della fiscalità a partire dal iv secolo ha gravato essenzialmente suiproprietari». La gestione di questi latifondi dai terreni frammentati èstata analizzata a partire dagli «archivi di Eronino» (nome dell’ammi-nistratore delle proprietà del cavaliere alessandrino Appiano a Teadel-fia nel Fayyum, 110 ettari su un totale di circa 4400)13. Una contabilitàsofisticata calcolava con precisione i costi di produzione e il profitto mo-netario, la gestione metteva in comune le risorse e il materiale e cerca-va la produttività. Non c’è motivo per cui la razionalità economica diquesto esempio del iii secolo non abbia continuato a essere praticata nel-la nostra epoca.

La piccola proprietà contadina è diffusa: più della metà dei contadi-ni di Karanis possiedono da 2 a 8 ettari di terra arabile, grazie ai qualipossono ricavare da vivere, pagare l’affitto e le tasse. La terra è infattisottoposta a una fiscalità relativamente stabile, di quotità e non di ri-partizione (Bagnall e Gascou, contra Carrié) [cfr. cap. iii]. Si è spessotentato di valutare i tassi di esazione: secondo Jones [149, pp. 411-69,819-23], i cui calcoli sono spesso ripetuti, ad Anteopoli il prelievo fisca-le raggiungerebbe dal 25 al 33% del prodotto lordo e dal 50 al 75% delsurplus versato al proprietario – si ricordi che quest’ultimo trasferiva letasse allo Stato. Per Bagnall [988] il prelievo rappresenterebbe, in Egit-to, in media il 40% del rendimento lordo. Gascou [1030] resta tuttaviamolto scettico sulla possibilità d’interpretare quantitativamente questielementi della documentazione papirologica, nonostante la loro appa-rente precisione.

3. Organizzazione sociale.

La concentrazione della proprietà non deve nascondere l’importan-za della classe contadina media in Oriente. Le fonti giuridiche attesta-no l’esistenza di contadini proprietari o enfiteuti, il cui canone fisso emodesto garantisce, in un certo qual modo, una rendita sicura. Libaniocita villaggi di contadini liberi, il cui territorio è suddiviso tra parecchiproprietari, e la Vita di san Teodoro di Siceone descrive la vita di questipiccoli proprietari dei villaggi della Galazia all’inizio del vi secolo; l’ar-cheologia presenta, in Siria e altrove, abitati rurali di buon livello, men-tre in Egitto sono stati trovati, in case modeste, gioielli, vetrerie e altrioggetti. Occorrerebbe attenuare il luogo comune della miseria univer-sale della classe contadina, illustrato dalle classiche citazioni di Criso-stomo (PG, 58, col. 591), di Teodoreto di Cirro (Storia filotea) o di Pro-

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copio. La condizione della popolazione rurale, senza dubbio, dipendepiù dalla sua attività economica che dallo statuto giuridico.

A fianco dei contadini liberi proprietari, i codici evocano i coloni (af-fittuari) «liberi», distinti dai coloni «ascritti», fissati alla terra, che nonpossono lasciare. Per lungo tempo si è considerato questo attaccamentoalla gleba come l’esempio per eccellenza del dispotismo dello Stato tar-doromano [Rostovtzeff 525]. Benché implichi una restrizione della li-bertà di insediamento degli interessati, tale attaccamento non modificala loro «condizione ingenua» (CI, 11.52.1), la loro libertà di stipularecontratti e altri diritti. La motivazione originaria (adscriptio designa l’i-scrizione sui registri del fisco) è di preservare la capacità contributiva diquesti agenti economici censiti in una determinata unità fiscale, nel ca-so specifico il fondo tenuto al pagamento della tassa di cui sono debito-ri. La legge, tuttavia, viene distorta dai proprietari terrieri per assicu-rarsi la permanenza della propria manodopera, con effetti variabili a se-conda delle regioni e difficili da analizzare vista la complessità dellefonti14.

La legge è forzata in maniera analoga per il tramite del «patronag-gio»: lungi dall’essere una sovranità privata esercitata da individui sualtri individui o collettività, come talora s’immagina, si tratta piuttostodi una protezione contro le esigenze dello Stato, assicurata a contadinio interi villaggi da certi «potenti» – alti funzionari, perlopiù militari,grandi proprietari ecc. – in cambio di un contributo che può divenire,con il passar del tempo, un canone fisso e portare il «patrono» a diven-tare il proprietario legale della terra protetta. Questa dipendenza, me-no umiliante di quanto sembri, offre spesso il privilegio di una condi-zione protetta.

La schiavitù rimane attestata dalla legislazione e dai testi (Libanio),senza che se ne possa determinare l’importanza reale, certo sicuramen-te variabile a seconda delle regioni. Il mercato ha cessato di essere ap-provvigionato in maniera massiccia con la fine delle guerre di conquistae la maggior parte degli schiavi sono tali per aver ereditato la propriacondizione. È probabile che la manodopera servile abbia subito un de-clino dai tempi dell’alto Impero a causa di un’evoluzione naturale: af-francamenti, riscatti da parte dello schiavo stesso grazie ai suoi rispar-mi, matrimoni con un uomo libero. Numerose disposizioni dei codicicontemplano in effetti, per esempio, che accordare una dote a una schia-va o alla sua progenie equivalga a un affrancamento [Beaucamp 511, I,pp. 281-83]. A quanto pare, gli schiavi sono relativamente meno nume-rosi nelle campagne delle province orientali piuttosto che in Gallia o inItalia.

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iii. economia e società urbana.

Il termine di città (polis) designa nel nostro periodo una realtà mul-tiforme, dalle megalopoli imperiali e metropoli provinciali fino ad agglo-merati dotati dello statuto di «città» senza avere le caratteristiche che visono tradizionalmente associate, in particolare e soprattutto i monumen-ti pubblici. Pur tenendo a mente questa distinzione tra la forma e la fun-zione dei siti, che non sempre coincidono (si consideri l’esempio dellacittà episcopale di san Gregorio di Nazianzo, che quest’ultimo qualificacome «piccolo villaggio», PG, 37, 1059-60) [cit. da Spieser in 159, I, p.98], nelle pagine seguenti verranno prese in esame le città che secondola tradizione romana associano statuto giuridico (esistenza di una curia oboule), funzione amministrativa e monumentalità civile o religiosa.

1. La società urbana: diversità, disuguaglianze, assistenza e violenza.

In Oriente, nel corso del nostro periodo e in ogni caso fino ai primidecenni del vi secolo, le città hanno rivestito un’importanza relativamaggiore che in Occidente. La concentrazione di classi dirigenti ne fanon solo dei centri di consumo meno parassitari di quanto si dica spes-so, ma le rende anche luogo di produzione di numerosi beni e servizi.Vi si affolla una popolazione variegata e vi si possono udire tutte le lin-gue dell’Impero: vi si praticano correntemente bilinguismo o trilingui-smo, con funzioni sociali gerarchizzate, come un secolo fa nelle città delLevante. Il latino, lingua dello Stato e dell’esercito, a partire dal vi se-colo declina a vantaggio del greco, lingua di cultura e presto dell’ammi-nistrazione, comune a tutto l’Oriente, dove sovrasta le differenti lingueregionali [cfr. cap. ix].

1.1. Le disuguagl ianze socia l i .

La classica distinzione di Libanio tra demos e boule riflette struttu-re tradizionali, più che categorie socio-economiche. I testi più tardi, tan-to pagani quanto cristiani, contrappongono schematicamente i possiden-ti a coloro che vivono in ristrettezze (aporountes), i ricchi (plousioi, eu-poroi, prosperi) ai poveri, i lavoratori ai miserabili (penetes, ptochoi)[Patlagean 523, pp. 9-35].

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222 La civiltà bizantina e i suoi fondamenti

Il patrimonio dei senatori di Costantinopoli, pur con qualche ecce-zione come nei casi di Belisario e Narsete, non è paragonabile a quellodei senatori romani, di cui Olimpiodoro mostra l’entità ancora conside-revole nel v secolo15. Questo patrimonio, perlopiù, deriva dallo Stato,che se lo può riprendere con la stessa velocità con cui l’ha elargito. Ac-canto a case o botteghe nelle città – talora interi quartieri – e beni mo-bili (denaro liquido, gioielli, argenteria ecc.), la terra resta alla base deipatrimoni, ma l’esempio egiziano visto in precedenza [p. 219] mostrache i grandi proprietari sono in grado di praticare la commercializzazio-ne dei prodotti delle loro terre o dei loro laboratori.

Gli unici dati concernenti le differenze degli introiti si trovano nel-la legislazione di Giustiniano (l’Editto del 534 sulla prefettura d’Afri-ca, CIC, I, 27 sg.) [Stein 151, II, pp. 466-67]. Un funzionario di altissi-mo rango come il prefetto d’Africa riceve 100 libbre d’oro all’anno (7200solidi), l’augustale di Alessandria 40 libbre (2880), vari ufficiali superio-ri circa 50 solidi, le guardie più modeste una decina o meno. Si trattaperaltro solamente dei salari ufficiali, spesso completati da altre gratifi-che [cfr. capp. iii e v]. Vista l’abbondanza dell’offerta, il lavoro privatonon qualificato non procura più di un terzo di solidus al mese, due vol-te meno del meno pagato dei militari. Impieghi di questo tipo sono par-ticolarmente lontani dall’essere standardizzati, sicuri e continui, e i gua-dagni sono a maggior ragione più incerti. I due terzi degli incassi, se nonl’80%, servono per nutrirsi e l’equilibrio dei bilanci domestici è assaiprecario. Anche Giovanni Crisostomo ricorda, per esempio, che l’uomoricco ha il dovere di assicurare il lavoro alle classi lavoratrici: di conse-guenza, il tenore di vita aristocratico e le sue spese voluttuarie sono in-direttamente una forma di filantropia.

1.2. L’ass istenza: dal l ’everget ismo a l la car i tà .

Per aiutare la folla di disoccupati, spesso senza tetto né famiglia, va-lidi oppure no, che si ammassa nelle città, come viene deplorato dallanovella del 539 (CIC, III, pp. 390-97), che cerca di controllare l’esodorurale, a partire dal iv secolo fu creato un certo numero di istituzioni.Non si può negare che la cristianizzazione abbia svolto un ruolo essen-ziale nello sviluppo delle differenti forme di soccorso agli indigenti e oc-corre ricordare che le distribuzioni gratuite di pane e altre derrate [cfr.sopra] sono misure politiche, e non assistenziali. In effetti, la solidarietàpropriamente detta, limitata ai membri della città secondo le caratteri-stiche dell’evergetismo antico, ha lasciato spazio a una filantropia piùampia, almeno nei suoi ideali ispirati dall’insegnamento evangelico. Ric-

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chi laici, vescovi o monasteri, lo stesso Stato contribuiscono a fondaree gestire ospedali (xena) o ospizi di vario tipo (xenodocheia, gerokomeia,matronea), oppure diaconie che assicurano distribuzioni di viveri o fu-nerali gratuiti [Patlagean 523, pp. 181-96]16. Come sottolinea Jones [149,p. 934], l’obbligo legale di dedicare a queste attività un quarto delle ren-dite della Chiesa indica che tale importo non era sempre raggiunto e ri-vela il peso del mantenimento di un personale ecclesiastico ridondante.Tuttavia, vengono sistematicamente indirizzate alla carità risorse spes-so considerevoli e i diversi episodi della Vita di Giovanni l’Elemosinie-re, patriarca di Alessandria, nel corso della guerra persiana, illustranoquesto ruolo assistenziale del vescovo [cfr. cap. iv, p. 127].

1.3. Tensioni e problemi: la vio lenza urbana.

L’assistenza, evidentemente, non basta a preservare una coesione so-ciale fragile, in balia di tensioni di ogni genere, attizzate da agitatori, ti-po certi monaci campagnoli che si comportano come briganti. Gli inci-denti sono talora di origine etnica, come quelli che intorno al 470 con-trappongono la popolazione di Costantinopoli agli Isaurici e che siconcludono con un massacro nel 473. Spesso sono di ambito religioso:è il caso degli scontri ricorrenti (soprattutto ad Antiochia e Gerusalem-me) tra cristiani ed ebrei, la cui situazione peggiora tra il iv e il vii se-colo [cfr. cap. ii, pp. 58-60], nonché degli episodi antipagani e di tuttiquelli provocati dalle dispute cristologiche. Le rivolte frumentarie pro-priamente dette, paradossalmente, non sono le più gravi, dal momentoche lo Stato cura scrupolosamente l’approvvigionamento delle città piùimportanti.

L’esplodere della rivolta di Nika illustra il ruolo delle fazioni. La sto-riografia moderna ha cercato spesso, in modo anacronistico, di interpre-tare queste sommosse in termini di conflitti socio-economici o religiosi.Ciò significa disconoscere le strutture della città antica e la natura deidemi, che costituiscono in realtà il corpo dei «cittadini che hanno dirit-to all’annona» (demotes), divisi in colori, strettamente associati alle cor-porazioni e per i quali il Circo è l’unico mezzo di espressione [Zucker-man 510]. Le rivalità proprie dei giochi, tuttavia, possono raccoglierel’insieme del popolo e attirare i non-cittadini o gli stranieri. Gli svilup-pi violenti nascono dal minimo incidente, si focalizzano intorno a unpersonaggio in vista e degenerano spesso in rivolte generali [Patlagean523; Liebeschuetz 562]. Negli anni a cavallo tra vi e vii secolo, e parti-colarmente nel 609-10, gli Azzurri e i Verdi sono al centro dell’agitazio-ne urbana, che in Egitto e in Siria-Palestina li mette alle prese con i dis-

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sidenti ebrei o anticalcedoniani [Dagron 277, pp. 18-22]. La conquistapersiana e il declino della vita urbana nel vii secolo pongono termine aquesti movimenti.

2. Le città e il loro declino.

Fino alla metà del vi secolo, particolarmente nelle province orienta-li, le città sono mantenute e perfino parzialmente restaurate dopo i ter-remoti, e conservano i propri monumenti caratteristici, modello ideale,ancora oggi, della città in generale. La cristianizzazione dello spazio ur-bano si è affermata tramite un vasto movimento di costruzioni religio-se nel v e nel vi secolo, le quali si inseriscono senza alterarlo nel pianourbanistico e testimoniano la presenza di effettive risorse finanziarie.La progressiva sparizione dei monumenti, l’impianto di costruzioni pri-vate sugli spazi pubblici, la diminuzione delle zone edificate, l’impove-rimento, il ripiego su aree più sicure, o addirittura l’abbandono totaledi alcuni siti, colpiscono in maniera diseguale e in date diverse le pro-vince dell’Impero [cfr. capp. xi-xiv]. Tale declino, precoce nell’Illirico,per così dire «disurbanizzato» e dove non rimangono che centri ridottisituati in prossimità del mare, in Asia Minore invece si aggrava in se-guito alla conquista persiana dopo essere iniziato nel vi secolo [Foss 200,908, 911]. Questo fenomeno colpisce solo parzialmente, invece, la Si-ria e l’Egitto, che anzi conoscono un rinnovamento, in forme assai dif-ferenti, dopo la conquista araba e l’integrazione della mezzaluna fertilein un unico spazio economico sotto gli Omayyadi [Liebeschuetz 562].Resta aperto il dibattito tra coloro che attribuiscono un ruolo determi-nante all’insicurezza e agli effetti della conquista persiana, e coloro checollocano invece gli inizi della sparizione della città antica nella secon-da metà del vi secolo, in connessione con il calo della popolazione [Spie-ser 566; Russell 907].

3. L’economia urbana e la sua organizzazione.

Prima di queste trasformazioni, la città è sede di un’economia atti-va che intreccia strettamente vendita e produzione, spesso localizzatein laboratori-botteghe (ergasteria) che rispondono contemporaneamentealla domanda di prodotti di base e a quella di prodotti di lusso o fabbri-cati in centri rinomati, come Costantinopoli per l’argenteria, Corintoper le lampade, Tiro per la seta e il vetro. I mestieri legati all’alimenta-

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zione hanno un ruolo importante, come nel caso dei mercanti di vivan-de conservate sotto sale e legumi e dei tavernieri che compaiono nelleVite dei santi urbani del v-vii secolo. Le attività pericolose come la fab-bricazione di ceramiche e soprattutto di vetrerie sono relegate in dispar-te, cosa che non impedisce incendi frequenti [cfr. cap. iii], ma a partiredalla metà del vi secolo si trovano anche piccoli laboratori insediati neicentri cittadini. La varietà dell’artigianato urbano è attestata dalle iscri-zioni di Tiro o della piccola città di Corico, dove i nomi dei mestiericompaiono sulle tombe insieme a quello dei defunti [Sodini 570; Trom-bley 924], nonché dagli scavi, per esempio quelli delle botteghe di Sar-di [Crawford 927].

3.1. Le «corporazioni».

Gli artigiani e i commercianti sono organizzati in ordini (systemata osomateia) dotati di una personalità giuridica (chiamarli corporazioni ècomodo ma anacronistico), che assicurano le relazioni dei propri mem-bri con le autorità, incaricandosi per es. della raccolta del crisargiro, madifendendone anche gli interessi, come nel caso dello «sciopero» deglioperai edili a Efeso nel 459 [Foss 910, pp. 19-20 e 110-13; per un’altrainterpretazione cfr. Carrié 920] o nella questione delle inumazioni e del-le botteghe della Grande Chiesa [Dagron 356]. Il ruolo essenziale di al-cune professioni (naviculari, fornai, salumieri) nell’approvvigionamen-to della capitale porta naturalmente lo Stato a regolamentare e control-lare i corpora che operavano al servizio della collettività, ma non bisognageneralizzare le disposizioni coercitive dei Codici (CTh, 13.5.5) sull’at-taccamento ereditario al mestiere. Tali misure non vengono applicate al-l’insieme delle attività e sono perlopiù legate al possesso di un bene sucui gravava tale incombenza, come più tardi è il caso del servizio mili-tare richiesto dalla terra stratiotica. L’esercizio di un mestiere è in realtàgeneralmente libero, benché, per tradizione familiare, si possa trasmet-tere di padre in figlio.

4. Le relazioni città-campagna.

Queste relazioni sono state un tema prediletto dalla storiografia deldopoguerra, che vedeva le città come centri «predatori» o «parassiti»,che incameravano a proprio beneficio le tasse e le rendite fondiarie. Ef-fettivamente, l’entità di questi prelievi spiega l’opulenza delle grandi di-more del vi secolo ad Apamea, Antiochia e in numerosi altri luoghi. Il

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prelievo fiscale tuttavia, nonostante l’inefficacia e gli abusi nella sua esa-zione, non va soltanto a beneficio delle città. Al contrario, tali risorsevengono stornate dallo Stato a proprio beneficio in un processo ben no-to. Le tasse locali, i proventi delle dogane, le rendite dei beni che le cu-rie avevano consacrato al mantenimento dei bagni, delle mura o deglispazi pubblici in generale, o all’organizzazione dei giochi, a partire dal-la fine del iv secolo sono in gran parte trasferiti allo Stato, e conseguen-temente ridistribuiti anche nelle province17, mentre le risorse rimanen-ti erano destinate a spese determinate.

La dominazione economica, sociale e culturale della città su borgateo villaggi di campagna lascia anche spazio a scambi stimolati dalla do-manda urbana. Le colture commerciali, l’attività dell’artigianato ruraleproducono, in Egitto come in Siria, un surplus che viene investito inparticolare nell’edilizia (bagni dei villaggi a Sergilla, El-Bara ecc.) [cfr.cap. xiii].

iv. commercio e scambi.

1. Percorsi e trasporti terrestri.

La rete stradale imperiale, adattata a partire dalla creazione di Co-stantinopoli, seguiva un orientamento principale che andava da ovest aest: nei Balcani, a sud la Via Egnatia collegava Durazzo a Tessalonica eCostantinopoli, a nord un altro itinerario militare univa Singidunum(Belgrado) a Naisso (Ni‰), Serdica (Sofia), Filippopoli (Plovdiv) e Adria-nopoli (Edirne) attraverso le valli della Morava e della Marizza, con unabiforcazione verso Tessalonica, a partire da Naisso, che passava per Scu-pi (Skopje) e la valle del Vardar. In Asia Minore, oltre alle strade che anord, ovest e sud seguivano il litorale, l’asse principale univa la capita-le, la Bitinia, Dorileo e Ancira (Ankara) da una parte a Melitene e al-l’Alto Eufrate o all’Armenia attraverso Sebastea (Sivas), dall’altra adAntiochia tramite la gola delle «Porte cilicie» [Avraméa 573].

Fino a Giustiniano e anche oltre, lo Stato bada a imporre la manu-tenzione delle strade in applicazione delle leggi (CTh, 15.3; Nov., 24.3;De Aedificiis). La prospezione attesta la persistenza e la manutenzionedelle strade romane in Bitinia, a dire il vero molto vicino alla capitale[Lefort 901 e 883]. L’Impero conserva dunque in Oriente una rete stra-dale che favorisce il commercio a breve e media distanza. Il declino ar-

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riva in seguito, con la diffusione dell’insicurezza e il crollo dei meccani-smi fiscali e amministrativi.

Intorno al vi secolo, le strade antiche (da 6 a 9 metri di larghezza),adatte ai carri (un carro trainato da buoi, su tali strade, percorreva indue giorni una distanza di 24 km, ossia 18 miglia), cominciano a esserein parte sostituite con piste, meno larghe (circa 1,5 metri), adatte aglianimali da soma (tra cui i cammelli, più economici del 20% secondo l’e-ditto di Diocleziano). Queste piste tendono a seguire i crinali piuttostoche le valli e talora presentano passaggi a gradini. Cionondimeno, in al-cune regioni, come la Siria settentrionale, le strade militari coesistonocon piste o larghi sentieri.

Il sistema del cursus publicus (cursus clabularis / platys dromos per l’an-nona e i trasporti pesanti, o cursus velox / oxys per messaggeri, ufficialie per il trasporto dei contanti) e delle sue stazioni (mansiones e mutatio-nes), dove gli ufficiali in missione potevano cambiare le proprie cavalca-ture, è un carico pesante per lo Stato, aggravato dai privilegiati che neabusano a fini personali. Peraltro, le misure di abolizione che vengonorinfacciate a Giustiniano da Procopio (Anecd., 30.1-2) non hanno la por-tata generale che viene loro attribuita e il servizio pubblico della postacontinua nel vii secolo e anche oltre [Hendy 592-93].

2. Le rotte fluviali e marittime.

I fiumi (Nilo, Danubio, Marizza – navigabile fino ad Adrianopoli –Halys e qualche altro) e i mari offrivano una rete dove il trasporto erameno costoso e più rapido. Occorrevano, per esempio, otto giorni, in-vece dei venticinque richiesti per terra, per fare il tragitto da Costanti-nopoli a Teodosiopoli [Avraméa 573], e secondo l’editto di Dioclezia-no, spesso citato, il trasporto del grano costa da 17 a 22 volte meno permare che per terra [ Jones 149, p. 842].

Le caratteristiche del Mediterraneo [sulle correnti e i venti dominan-ti cfr. Pryor 575] condizionano contemporaneamente i tracciati dellerotte marittime e le stagioni dei viaggi. Da novembre a marzo l’incer-tezza del tempo rendeva la navigazione pericolosa e si parlava di mare«chiuso» (mare clausum) [McCormick 521, pp. 450-68].

Le infrastrutture portuali sono rimaste soddisfacenti ed efficaci finoal vi secolo. Come si è visto [cfr. cap. vi], nel iv e nel v secolo Costan-tinopoli aveva aumentato la propria capacità, aggiungendo ai due portisul Corno d’Oro altri due porti sulla Propontide, di accesso più facile,e disponeva di banchine che permettevano l’attracco simultaneo di 500

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battelli di medio tonnellaggio. Il canale che collega Antiochia al suo por-to di Seleucia di Pieria, a nord dell’estuario dell’Oronte, resta sgombro.Gli scavi di Cesarea hanno rivelato le vaste dimensioni dei granai pro-tobizantini, confermando i lavori attribuiti ad Anastasio, nonché il man-tenimento delle due gettate antiche, che sopravvissero fino alle crocia-te. Alessandria conserva i bacini ellenistici e i moli, almeno paragonabi-li a quelli della capitale, necessari per la spedizione dell’annona, dellespezie e di altre esportazioni.

Il declino del tonnellaggio medio delle imbarcazioni è attestato daitesti e dall’archeologia sottomarina [Morrisson e Sodini in 518, I, p.209; McCormick 588, p. 104]. Nel v secolo, i limiti per la requisizionedelle navi sono sempre più esigui: invece dei 50 000 moggi del ii secolo[Pomey 578], nel 439 si parla di 2000 moggi (circa 12 tonnellate), in unanovella ripresa dal Codice di Giustiniano. Tale limite cerca anche, sen-za dubbio, di bloccare le fughe di fronte alle incombenze fiscali. Peral-tro, la soglia succitata non è che un quinto della stazza del relitto di YasıAda, un battello di 21 metri di lunghezza e 60 tonnellate di capacità[Bass 931], in un ordine di grandezza confermato da altri relitti bizan-tini18. In Oriente permangono alcuni battelli di grande tonnellaggio, co-me quello che nel 390 dovette trasportare a Costantinopoli l’obelisco diTeodosio e le sue 800 tonnellate, o il relitto di Marzameni che traspor-tava da 200 a 300 tonnellate di marmo di Proconneso. Si citano anchenavi alessandrine con una stazza di 70 000 e 20 000 moggi (560 e 160tonnellate), che contrastano con i battelli di piccolo o medio tonnellag-gio di regola in Occidente. La vela latina triangolare, che facilita la ri-salita sopravvento, è un’innovazione tecnica attestata nel iv secolo dauna lettera di Sinesio [Casson 580, p. 268] e nel vii secolo dal relitto diYası Ada [931].

3. Gli scambi sulla base dei testi e della ceramica.

La nostra conoscenza degli scambi dell’epoca protobizantina, che erafondata essenzialmente sulla testimonianza parziale e lacunosa dei testi,è stata rinnovata, e per certi versi rivoluzionata, dai risultati dell’inda-gine archeologica degli ultimi trent’anni. La ceramica, la cui produzio-ne è sempre meglio localizzata, classificata e datata, offre ormai datiquantificabili e comparabili. Lo studio dei ritrovamenti avvenuti trami-te scavi o prospezioni permette di seguire l’orientamento degli scambie le loro variazioni relative. Questa documentazione ha i suoi limiti, giac-ché concerne solamente i prodotti trasportati per conto proprio (stovi-

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glie da tavola o ceramica da cucina), o quelli trasportati in contenitoridi ceramica (anfore o giare), che fossero liquidi (olio, vino) o semiliqui-di (salamoie, conserve di pesce come il garum), cui talvolta si aggiunge-vano frutta o legumi secchi. Ma alcune mercanzie, come il grano tra-sportato sciolto o in sacchi, lasciano poche tracce archeologiche19 e for-se nel vi secolo il vino comincia a essere trasportato anche in botti.

La creazione di Costantinopoli ha comportato sin dalla fine del ivsecolo uno spostamento del commercio verso il Mediterraneo orientale,divenuto la zona di consumo (nonché di produzione) dominante dell’Im-pero, in rapporto all’Occidente. La rotta più importante è quella del gra-no, che unisce l’Egitto a Costantinopoli: la flotta annonaria fa scalo pro-babilmente a Cipro, poi a Chio e a Tenedo, dove Giustiniano fa costrui-re granai in cui riporre il grano in caso di una prolungata attesa dei ventifavorevoli per passare i Dardanelli (Procopio, De Aedificiis, 5.1.7-16).Alle principali derrate citate nel decreto di Abido (grano, vino, olio) siaggiungono tessuti, profumi, spezie, papiro, metalli o legname, materieprime per l’artigianato della capitale. Una seconda rotta commerciale,parzialmente riattivata dalla riconquista giustinianea ma che non si eramai interrotta del tutto neppure in epoca vandalica, collega la capitaleall’Italia e soprattutto all’Africa, con scali nella Grecia meridionale, co-stellati dai ritrovamenti di sigillata africana. La ceramica fine africanaraggiunge direttamente la Siria-Palestina passando per Creta, ma in tut-to l’Oriente viene surclassata, a partire dal v secolo, dai differenti tipidi sigillata focese [Abadie in 159, I, pp. 143-60; Panella, ibid., pp. 129-141 e 593]. Infine, l’Impero importa dall’Oriente i prodotti più prezio-si – seta, perle o spezie – sia attraverso i percorsi carovanieri che porta-vano dall’Arabia alla Siria, dove gli scambi sono concentrati in alcunestazioni doganarie come Nisibi, sia attraverso le rotte marittime. Gliempori del Mar Rosso (Clisma e Aduli) restano fiorenti nel vi secolo; iriferimenti dei testi alle relazioni con l’India (Periplus, Cosma) sono il-lustrati dai ritrovamenti di monete d’oro del v-vi secolo sulle coste me-ridionali e a Ceylon [Morrisson in 494].

4. L’annona e il suo trasporto.

Le consegne annuali di grano o altre derrate gestite dal fisco a be-neficio delle capitali, della Corte o dell’esercito non riguardano tuttele città, come pretende Durliat, ma solamente alcune, e neppure tuttii loro abitanti20. Il termine di annona designa inizialmente le razionidestinate ai militari e a certi funzionari civili, in seguito le distribuzio-

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ni di pane note dai testi legislativi. Alle 80 000 annone civili («pani po-litici») istituite nel 332 si sommava un certo numero di razioni legatealla costruzione di una casa (panes aedium) (4388 secondo la Notitia)[Jones 149, pp. 696-98; Dagron 493, pp. 539-49]. Si sa che Costanti-nopoli era dotata di 20 o 21 forni pubblici di grande capacità, che for-nivano queste diverse razioni distribuite ai beneficiari – i demoti – ra-dunati su gradini (gradus), mentre 114 o 120 forni privati più modestiprovvedevano ai bisogni del resto della popolazione.

Non c’è comunque nessun dubbio sul fatto che, nel vi secolo, Co-stantinopoli fosse incapace di approvvigionare la propria popolazioneappoggiandosi al proprio immediato retroterra o anche alla Tracia e al-le pianure danubiane. L’Egitto, con 8 milioni di artabe (36 milioni dimoggi), e secondariamente l’Africa sono i principali fornitori della ca-pitale. Se l’una o l’altra di queste regioni sospende le proprie consegne,come l’Africa nel 608 o l’Egitto nel 619 (Niceforo, ed. De Boor, 12 =CFHB, Mango, p. 48), allora può imperversare la carestia. Un qualcheruolo poteva essere svolto dalla Sicilia, come dimostra la domanda disoccorso inoltrata dal prefetto dell’Illirico, prima che l’intervento mira-coloso di san Demetrio dirottasse alcuni battelli provenienti da Chio(Mirac. Dem., 74-79) [Lemerle 211, I, pp. 103-8]. Il trasporto dell’anno-na civile è affidato fino a Giustiniano a una gilda di liturgi specializza-ti, i naviculari, esentati dalla tassazione fondiaria sulle terre sottoposteall’obbligo del trasporto e dispensati dal pagamento dei vectigalia [Sirks589, p. 35; McCormick 588, pp. 68-93]; in seguito vengono coinvoltitrasportatori remunerati che completano anch’essi il loro carico ufficia-le con altre mercanzie.

5. Il commercio.

Nonostante il ruolo di queste sovvenzioni, il grande commercio nonè né «statalizzato» né in mano agli agenti dei grandi possidenti, come èstato sostenuto [Whittaker 582]. Le leggi – che cercano essenzialmentedi regolamentare l’annona – mostrano inoltre indirettamente la vitalitàdel commercio privato [Sirks 589]21. I negotiatores che vengono incari-cati dallo Stato non solo della fornitura delle coemptiones, ma anche delloro trasporto, rappresentano anche un’attività privata.

Scambi più modesti sono assicurati in mercati e fiere, come quelle diAmida o di Imma nell’Antiochene, «grande borgo assai popolato» cheattira «mercanti da ogni luogo e un’innumerevole folla» (Teodoreto, Sto-ria di monaci siri, SC, 234, 7.1-2). Le Vite dei santi e i papiri testimo-

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niano tali attività e il Talmud attesta quelle dei venditori ambulanti (ro-chel ). Le iscrizioni che hanno conservato le tracce delle tasse prelevatein natura o in moneta sul commercio interno enumerano una grande va-rietà di prodotti. Gli introiti di tali vectigalia e delle dogane sono anco-ra poco conosciuti, ma alcune allusioni nella legislazione mostrano chelo Stato ricavava più di quanto si creda da questi diritti commerciali, co-sì come da quelli sulla bollatura dei papiri22.

La tariffa di Anazarbo enumera alla fine del v secolo: zafferano, ga-rum, cordami, chouzia (fiasche ricavate da zucche essiccate), fieno gre-co (vegetale in baccelli), aglio, frittura (pesce), vino, sale, piante inne-state, seta grezza, stagno, piombo, schiavi, bovini, «carrube» (vegeta-li in baccello in generale?), su cui si prelevano tasse espresse in caratie monete di bronzo23. L’iscrizione di Cagliari, tra 582 e 602, evoca pal-me, pecore, animali da macello, ortaggi, «prodotti estivi», vino, granoe «uccelli»; ciò era perlopiù tassato in natura, ma in qualche caso inmoneta secondo una tabella ad valorem24.

v. la moneta, strumento delle finanze imperiali e degli scambi

economici.

La moneta protobizantina costituisce lo strumento flessibile e gerar-chizzato degli scambi privati e della fiscalità. Le tabelle a p. 232 sche-matizzano un’evoluzione molto complessa e fluttuazioni difficili da co-gliere, a partire da fonti disparate (testi, marchi monetari, analisi).

La svalutazione del denaro d’argento nel corso del iii secolo avevaposto fine alla supremazia del metallo bianco, che perdurava dai tempidella repubblica. A partire dal iv secolo, al contrario, tutto si è incen-trato intorno all’oro e il solidus creato nel 309 è rimasto per dieci seco-li la base del sistema monetario bizantino. Le trasformazioni della mo-neta d’argento nel iv secolo, e la sua progressiva sparizione nel v, sonoun esempio della difficoltà di assicurare rapporti stabili tra i metalli. Lasparizione della moneta in rame argentato (mistura) e la svalutazione co-stante della moneta di bronzo sono state precedentemente interpretatein termini di «inflazione». Tuttavia, vi si possono individuare non solol’impossibilità di far accettare al pubblico un valore nominale arbitrariosenza rapporto con il valore intrinseco, ma anche il segno di una mone-tarizzazione crescente degli scambi. Di fronte al ruolo crescente dellamoneta d’oro nell’economia, denunciato intorno al 350 dall’anonimo De

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rebus bellicis [435, 2.1.2] e coincidente con l’aumento dei solidi battutitra il 340 e il 360 (rivelato dalle analisi monetarie), la svalutazione del-la moneta di bronzo in realtà costituiva un adattamento ai rapporti dimercato tra i metalli. Dopo la carenza di moneta spicciola nel corso delv secolo (in Oriente ne vengono battute poche, poiché la fabbricazionedi nummi dal peso sempre più scarso è troppo costosa), Anastasio rista-bilisce in due tempi una moneta pesante di bronzo, questi follares il cuicambio è «gradito al popolo», che paga ed è pagato con questo metallo[Marcellino comes 178, ad a. 498].

Il funzionamento di questo sistema plurimetallico poggia su un cir-cuito fiscale elaborato [cfr. cap. iii], la cui importanza economica restapoco indagata. L’entità del prelievo è difficile da valutare, nonostantela precisione di alcune serie papirologiche; Bagnall suggerisce un ordinedi grandezza del 30% del prodotto lordo. Non si può neppure valutarel’entità del prelievo in contanti nell’insieme della tassazione, che variasecondo le epoche, le condizioni geografiche e le necessità del governo(senza dubbio, tuttavia, in Egitto doveva essere soltanto intorno a unquarto del totale). L’idea diffusa secondo la quale l’esazione in natura,destinata ad assicurare la fornitura dell’annona all’esercito e a preserva-re dall’inflazione il potere d’acquisto dei militari, sarebbe stata ampia-mente maggioritaria tra 250 e 360 circa è smentita dalle fonti. Il calodello stipendium pagato in bronzo argentato svalutato è compensato, apartire dal iv secolo, dalla concessione di donativa quinquennali in oroe argento [cfr. cap. iv]. Lo Stato, al contrario, si sforza di lottare con-tro la conversione dell’annona in oro (adaeratio) e i suoi abusi, che ave-vano luogo quando beneficiari o agenti del fisco realizzavano plusvalen-ze (interpretium) giocando sulla differenza tra tariffe di conversione e ta-riffe di requisizione (coemptio). A partire dalla metà del v secolo, leannone sono perlopiù percepite e versate ai soldati in contanti.

Banchieri e cambiavalute assicurano il funzionamento dell’economiamonetaria attraverso operazioni di cambio tra metalli o di verifica delpeso, prelevando una commissione dal 2 al 3% per le une e del 6,25%per le altre. Orefici-banchieri, zygostatai e altri25 non sono funzionari co-me si è creduto per lungo tempo, ma membri di una corporazione cheviene contemporaneamente protetta e controllata dalla legge, e posso-no anche prestare a interesse. Il credito è perfettamente legale e il suotasso d’interesse, che può raggiungere il 12,5% per il prestito maritti-mo, varia, a seconda del prestatore, tra 4,2 e 8,33% [EHB 518, III, pp.1095-98]. Il prestito è spesso praticato da privati che appartengono adifferenti classi sociali (illustres o superiori, artigiani-commercianti a ca-po di ergasteria) [Bagnall 988, pp. 74-75]. I banchieri possono lavorare

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234 La civiltà bizantina e i suoi fondamenti

in associazione e praticare la compensazione, che permette il pagamen-to in un luogo di una somma rimborsata altrove. La legislazione giusti-nianea sui depositi (il constitutum: cfr. Giustiniano, Editti, 9) riflette lasofisticazione delle tecniche bancarie26, mentre l’esempio della bancaalessandrina [Bagnall 988] o del banchiere Giuliano, che consacra 26000 solidi alla costruzione e dotazione di San Vitale a Ravenna (Agnel-lo, MGH, 59, 77) mostrano la potenza di tali agenti economici.

vi. conclusione.

Si saranno notate, in questa sintesi, alcune acquisizioni della ricercarecente e i nuovi indirizzi di quest’ultima: in particolare la specificitàdell’economia orientale in rapporto all’Occidente e il mantenimento diuna certa prosperità fino alla metà del vi secolo, in parte legata al rias-setto verso Costantinopoli e alla relativa sicurezza della maggior partedelle province, con l’eccezione dei Balcani. La riflessione attualmentein corso sul ruolo dello Stato lo fa apparire meno «interventista» e on-nipotente di quanto si è lungamente creduto sulla base della sola legisla-zione. I documenti papirologici, l’epigrafia, l’archeologia, la numisma-tica e una nuova lettura delle fonti storiche forniscono numeroso provedella vitalità del settore privato, di un tasso elevato di monetarizzazio-ne per un’economia preindustriale e infine dell’adattamento dello Sta-to ai prezzi e alle leggi del mercato, e non il contrario, giacché l’inter-vento pubblico si limitava alle croniche crisi di sussistenza. Per il futu-ro, restano da definire i rapporti tra fiscalità, moneta ed economia; einfine meriterebbe un nuovo approccio la questione dell’influenza del-la cristianizzazione sull’economia e sulla società.

1a. bryer, The Question of Byzantine Mines in the Pontos: Chalybian Iron, Chaldian Silver, Kolo-neian Alum and the Mummy of Cheriana, AS, 32 (1982).

2r.-j. lilie, Die byzantinische Reaktion auf die Ausbreitung der Araber, München 1976.

3c. mango, Byzantium. The empire of New Rome, New York 1980.

4 Per es. d. feissel, Notes d’épigraphie chrétienne IX, BCH, 118 (1994), p. 283, sui Frigi dellacapitale.

5b. w. frier, Demography, in The Cambridge Ancient History, XI. The High Empire, AD 70-192,Cambridge 20002, pp. 787-816.

6 Cfr. Stathakopoulos 537; Conrad 538; L. Conrad in BMGS, 18 (1994), pp. 12-58, e in «DerIslam», 73 (1996), pp. 81-112.

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7d. j. mattingly, Oil for export? A comparison of Libyan, Spanish and Tunisian olive oil produc-tion in the Roman empire, JRA, 1 (1988), pp. 33-57; b. hitchner, Olive production and the Ro-man economy: the case for intensive growth in the Roman Empire, in La production du vin et del’huile en Méditerranée, BCH, suppl. 26 (1993), pp. 499-508.

8j. koder, Gemüse in Byzanz, Wien 1993; Id. in 494, pp. 456-59.

9a. deléage, La capitation du Bas-Empire, Mâcon 1945, pp. 173-81.

10j. durliat, Taxes sur l’entée des marchandises dans la cité de Carales-Cagliari à l’époque byzanti-ne (582-602), DOP, 36 (1982), pp. 1-14.

11r. s. bagnall, Landholding in Late Roman Egypt: The Distribution of Wealth, JRS, 82 (1992),pp. 285-96.

12 Per il iv secolo cfr. F. Millar in Imperial revenue, expenditure and monetary policy in the FourthCentury AD, BAR, 76 (1980), pp. 125-40.

13d. rathbone, Economic Rationalism and Rural Society in Third-Century Egypt, Cambridge 1991.

14j.-m. carrié, Colonato del Basso-Impero: la resistenza del mito, in e. lo cascio (a cura di), Ter-re, proprietari e contadini dell’Impero romano, Roma 1997, pp. 75-150; e Carrié 139.

15j.-p. callu, Le «centenarium» et l’enrichissement monétaire au Bas-Empire, «Ktéma», 3 (1978),pp. 301-16; a. ãekalova, Fortune des sénateurs de Constantinople du iv e au début du vii

e siècle,in Eupsykhia. Mélanges offerts à H. Ahrweiler, Paris 1998, pp. 119-30.

16 Costantino accorda l’immunità a 950 botteghe di Costantinopoli, in cambio della fornitura diun becchino da parte di ciascuna. Sulle difficoltà incontrate dall’applicazione di queste misu-re e sull’evoluzione della legislazione nel vi secolo cfr. Dagron 356.

17 Nella proporzione teorica di due terzi per lo Stato e un terzo per la città, per quanto concer-ne le rendite delle dogane (CI, 1.61.13): cfr. g. dagron e d. feissel, Inscriptions de Cilicie, Pa-ris 1987, pp. 183-84.

18 Cfr. j. koder, Maritime Trade and the food supply of Constantinople, in r. macrides (a cura di),Travel in the Byzantine World, Aldershot 2002, pp. 109-124.

19 Si è proposto di tracciarne gli spostamenti grazie alla diffusione della ceramica fine (in parti-colare africana) che vi veniva trasportata insieme [Abadie in 159, I, pp. 143-60]. L’analisi deipollini potrebbe rivelarlo, ma è raramente praticata (si sa così che il relitto merovingio di Saint-Gervais B trasportava del grano). Nell’inventario di Parker [574] è attestato solo una volta sucirca 900 relitti antichi (500 a.C. - 650 d.C.).

20 Contro Durliat 587, cfr. Delmaire, AnTard, 1 (1993), pp. 253-57; McCormick 588; Carrié586.

21 Cfr. a. j. sirks, The Size of the Grain Distribution in Imperial Rome and Constantinople, «Athe-naeum», 79 (1991), p. 223.

22 Cfr. j. diethart, d. feissel e j. gascou, Les prôtokolla des papyrus byzantins du v e au viie siè-

cle, «Tyche», 9 (1994), pp. 22-23.23

dagron e feissel, Inscriptions de Cilicie cit., n. 108, pp. 170-85.24

durliat, Taxes sur l’entée des marchandises dans la cité de Carales-Cagliari cit.25 Il vocabolario diviene assai impreciso nel vi secolo, ma si possono distinguere gli argentarii/argy-

ropratai dai nummularii o collectarii (cambiavalute) incaricati per esempio di fornire a un cas-sa pubblica di Roma (l’arca vinaria) solidi in cambio della moneta spicciola che tale cassa rac-coglieva (simmaco, Relatio, 29; comm. e cit. in j.-m. carrié, Les métiers de la banque entre pu-blic et privé (iv e-vii

e siècle), Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana, XII Convegnointernazionale in onore di M. Sargenti (Perugia-Spello, 11-14 ottobre 1995), Napoli 1998, pp.67-93). Non bisogna identificare gli aurarii di alcune iscrizioni con degli orafi, ma con degliorganizzatori di giochi [Zuckerman 510].

26s. j. b. barnish, The Wealth of Iulianus Argentarius. Late antique banking and the Mediterraneaneconomy, «Byzantion», 55 (1985), p. 21.

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bernard flusin

viii. La vita religiosa. I cristiani nel mondo, il monachesimo

Il cristianesimo non è sconvolto dalla nuova condizione che arriva aottenere in epoca costantiniana, ma può ormai sviluppare più liberamen-te le proprie istituzioni, occupare gli spazi pubblici e diffondere nellasocietà romana i suoi usi, i suoi ritmi e talora i suoi valori. La Chiesa,che nel iii secolo era ancora estranea allo Stato, adesso vi entra in stret-to contatto. Il popolo dei cristiani tende a confondersi con quello del-l’Impero e la trasformazione del cristianesimo in una religione di massacomporta numerosi cambiamenti. Per reazione, forse, contro questacompromissione con il «mondo», alcuni cristiani si ritirano dalla societàe il nuovo modo di vivere da essi adottato finisce per rivestire una taleimportanza all’interno della Chiesa, che da questo momento occorre di-stinguere due tipi di vita cristiana: quella dei cristiani nel «mondo» equella dei monaci.

i. i cristiani nel mondo.

La nuova situazione della Chiesa e il movimento di conversione dimassa influenzano i sacramenti più antichi, come il battesimo o l’euca-ristia, e l’insieme della vita liturgica, mentre compaiono nuove forme dipietà, come il culto dei santi o il pellegrinaggio. Il tempo, lo spazio, lastessa società dell’Impero sembrano cristianizzarsi.

1. Sacramenti, liturgia.

A partire dai primordi del cristianesimo, si entra nella Chiesa trami-te il battesimo, un rito in cui svolge un ruolo fondamentale l’immersio-ne nell’acqua e che rende il battezzato un cristiano e un figlio di Dio, li-

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238 La civiltà bizantina e i suoi fondamenti

berandolo dai suoi peccati anteriori [Saxer 608; Kretschmar 603]. Findal iii secolo, la preparazione dei catecumeni e i riti che circondano ilbattesimo hanno assunto una complessità crescente. Benché vi siano bat-tesimi di bambini, la Chiesa si occupa soprattutto del battesimo degliadulti: si tratta di una situazione che perdura nel iv e nel v secolo.

Il catecumenato [Dujarier 601] varia a seconda delle regioni e delleepoche, ma in genere si possono distinguere due tipi di catecumeni. Iprimi, rinunciando al culto degli idoli, ricevono un’istruzione elemen-tare e, dopo un’ammissione rituale, sono autorizzati ad assistere alla pri-ma parte della riunione eucaristica, con le letture e il loro commento,che essi ascoltano prima di essere congedati: vengono chiamati gli «udi-tori» (akroomenoi). I secondi, gli «illuminati» (photizomenoi/illuminan-di), s’impegnano nella preparazione al battesimo. All’inizio della Qua-resima, dopo un esame minuzioso, vengono inseriti dal vescovo in unalista; la loro domanda è appoggiata da garanti, antenati dei padrini e del-le madrine. Durante la Quaresima, si preparano al battesimo tramiteuna vita di ascesi, diversi riti e un insegnamento che conosciamo trami-te alcune catechesi. Gli esorcismi svolgono un ruolo importante, così co-me la «tradizione» del simbolo: i catecumeni recitano davanti al vesco-vo, da cui l’hanno appreso, il simbolo della fede (il Credo latino). I ritidi rinuncia a Satana e di adesione a Cristo precedono di poco il battesi-mo stesso.

Quest’ultimo all’origine è impartito dal vescovo, in occasione dellanotte di Pasqua o in concomitanza con qualche altra festa (Epifania,Pentecoste). Il battezzando, nudo, è unto d’olio benedetto su tutto ilcorpo, poi discende nella vasca battesimale, dove una formula trinitariaaccompagna una triplice immersione. Dopo l’immersione, il neobattez-zato riceve un’ulteriore unzione e il vescovo impone le mani su di lui.Poco dopo, ha luogo una prima partecipazione all’eucaristia.

Inizialmente, l’insieme di questi riti è compiuto dal vescovo, spessoin un edificio speciale, il battistero. Con il movimento di conversionedi massa, tuttavia, i battesimi si moltiplicano e vengono impartiti da sa-cerdoti o diaconi, talora in semplici chiese rurali, in diverse date nel cor-so dell’anno. Nel vi secolo, con la cristianizzazione dell’Impero, i bat-tesimi degli adulti declinano a profitto dei battesimi dei bambini. L’i-stituzione del catecumenato, di conseguenza, tende a tramontare inalcune regioni.

Una volta battezzato, il cristiano può partecipare pienamente allaliturgia eucaristica – la «divina liturgia», la «messa» dei Latini –, chericopre un ruolo fondamentale nella vita della Chiesa [Van de Paverd613]. I fedeli, riuniti intorno al vescovo e al clero, sentono leggere e

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spiegare le Sacre Scritture, pregano insieme, prendono parte ai «miste-ri», bevendo il vino e mangiando il pane consacrato. La sinassi (riunio-ne) eucaristica è divisa in due parti, di cui la prima, aperta a tutti, è de-dicata all’insegnamento, con letture bibliche seguite da un’omelia. Inseguito hanno luogo il congedo dei catecumeni e la messa dei fedeli,propriamente eucaristica. Il pane e il vino sono portati all’altare, doveil celebrante recita l’anafora (oblazione), che ricorda la morte e resur-rezione di Cristo e l’istituzione dell’eucaristia il Giovedì Santo, segui-ta dall’epiclesi (invocazione dello Spirito Santo), cui le Chiese orienta-li attribuiscono la massima importanza. I dittici dei morti e dei vivi,letti successivamente, testimoniano l’unità della Chiesa. Poi vengonola preghiera del Padre Nostro e la comunione del clero e dei fedeli, sot-to le due specie.

Si possono percepire diverse evoluzioni. Le formule sono differenti,ma i contatti tra le Chiese comportano un inizio di unificazione, alme-no all’interno di ampie aree: liturgia di san Marco per l’Egitto; anaforeantiochene e siro-occidentali per Antiochia e la sua regione, ma ancheper la Palestina (liturgia di san Giacomo), per l’Asia Minore e la Cappa-docia (liturgia di san Basilio) e infine per Costantinopoli, dove la litur-gia di san Giovanni Crisostomo, all’origine del rito bizantino, deve mol-to all’influenza di Antiochia [Taft 611].

L’incremento del numero dei cristiani comporta la moltiplicazionedei luoghi di culto e la celebrazione eucaristica può essere presieduta daun sacerdote invece che dal vescovo. Fin dal iv secolo, i fedeli smetto-no di comunicarsi a ogni messa. Questo atteggiamento, che forse deno-ta un calo di fervore, va di pari passo con la crescente sacralizzazionedell’eucaristia, che viene testimoniata, all’interno delle chiese, dalla net-ta divisione tra la navata, dove stanno i fedeli, e l’altare nel coro, dovesta il clero [cfr. cap. x, pp. 306-7].

Oltre che dall’eucaristia, la vita del cristiano è contraddistinta da di-versi atti religiosi. Il matrimonio, per quanto resti essenzialmente civi-le e romano, si cristianizza [Ritzer 604]: la iunctio dextrarum e la velatiosono accompagnate da una benedizione impartita dal vescovo o da unsacerdote; soprattutto, il matrimonio è generalmente indissolubile, sal-vo casi speciali. L’ordinazione segna l’ingresso nei differenti gradi delclero. I funerali sono circondati da un apparato religioso. In circostan-ze più eccezionali, il cristiano colpevole di un peccato grave – idolatria,omicidio, adulterio – è sottoposto alla penitenza [Galtier 602]: il vesco-vo, cui viene confessato il peccato, o che ne è venuto a conoscenza inaltro modo, può separare il peccatore dalla comunità e ridurlo allo sta-to di penitente. Le pratiche variano a seconda delle regioni; tuttavia la

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240 La civiltà bizantina e i suoi fondamenti

penitenza, pubblica, è sempre lunga, benché la severità della Chiesa ten-da a mitigarsi. D’altro canto, tale pratica non è reiterabile e la gravositàdell’antico sistema penitenziale spiega come mai si sia spesso cercato diritardare il battesimo, o una prima penitenza, il più possibile.

La cristianizzazione del tempo segna tutti i cicli della vita del fede-le. La giornata è scandita dalle preghiere private o pubbliche: nelle chie-se secolari, la preghiera del mattino e della sera, così come le vigilie –veglie che precedono feste e celebrazioni eucaristiche – sono accompa-gnate da canti, mentre i monasteri, dove giunge a compimento il siste-ma delle «ore» [Taft 610], osservano una salmodia meno ornata. Il rit-mo settimanale è fondamentale, con il «giorno del Signore» (gr. kyriake,lat. dominica: la nostra domenica) [Rordorf 606], reso festivo da Costan-tino (ancora in onore del Sole), ma anche con i digiuni del mercoledì edel venerdì, giorni nei quali, in alcune regioni, si celebra anche l’euca-ristia.

L’anno stesso si organizza in senso religioso e l’epoca protobizanti-na vede precisarsi e unificarsi il calendario liturgico [Talley 612]. Que-st’ultimo comprende numerosi cicli: il più importante è incentrato in-torno all’antichissima festa di Pasqua [Cantalamessa 600], in cui i cri-stiani commemorano la resurrezione di Cristo. Il concilio di Nicea cercadi imporre a tutto l’Impero una medesima data per la Pasqua, quella del-le Chiese di Roma e Alessandria, ma non vi riesce completamente. Pa-squa è preceduta dalla Settimana Santa e da un digiuno di diverse set-timane (spesso quaranta giorni), la cui cadenza si fissa, ancora una vol-ta, nel iv secolo. Dopo Pasqua comincia un tempo festivo di cinquantagiorni, al termine del quale la festa di Pentecoste commemora la venu-ta dello Spirito Santo sugli Apostoli; l’Ascensione di Cristo, presto dis-sociata, era invece celebrata il quarantesimo giorno dopo la Pasqua.

L’anno liturgico comprende anche feste legate alla nascita di Cristo.La festa di Natale, attestata per la prima volta nel 336, compare in Oc-cidente [Roll 605] e il suo successo sembra essere stato favorito dallaconcomitanza con una festa solare1. In Oriente, l’Epifania, il 6 gennaio,celebra la «manifestazione» del Cristo al mondo; commemora principal-mente il battesimo di Cristo nel Giordano, ad opera di Giovanni Batti-sta, ma anche la sua nascita e l’adorazione dei Magi. Natale si diffondelentamente in Oriente: Costantinopoli l’adotta poco dopo il 380, ma leChiese d’Egitto e di Gerusalemme restano reticenti per molto tempo edè solo sotto Giustino II che una legge generalizza la celebrazione del Na-tale al 25 dicembre. Un’altra festa legata all’infanzia di Cristo è quelladell’Hypapante, l’«incontro» (la Purificazione latina), che celebra la pre-sentazione di Gesù al Tempio il quarantesimo giorno dopo la sua nasci-

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ta, ossia il 2 febbraio: una lettera di Giustiniano generalizza questa da-ta. L’anno liturgico giunge così a commemorare nel proprio ciclo le prin-cipali tappe della missione di Cristo sulla terra; si compone poi di festedella Vergine, legate alla vita di Cristo, e accoglie inoltre numerose fe-ste dei santi, che testimoniano l’evoluzione della pietà cristiana.

2. Nuove forme di pietà.

Si assiste, nell’epoca in esame, all’apparizione di nuove forme dipietà, o a un loro sviluppo considerevole: culto dei santi e della Madredi Dio; pellegrinaggio ai Luoghi Santi; venerazione delle immagini.

2.1. I l culto dei sant i .

Nel cristianesimo, il culto dei santi [Delehaye 617], le cui origini ri-salgono agli onori resi ai defunti, si rivolge principalmente ai martiri,commemorati nell’anniversario della loro morte, giorno della loro nasci-ta alla vita eterna (dies natalis). Tale commemorazione, con diversi ritiintorno alla tomba, è accompagnata assai presto da domande d’interces-sione: il martire sembra qualificato per ottenere da Dio i favori che glivengono domandati dagli uomini. Con la pace della Chiesa, le feste deimartiri – alcuni morti di recente, in occasione della grande persecuzio-ne – si moltiplicano e guadagnano maggior lustro. Ogni Chiesa celebrai propri martiri e il suo calendario liturgico si arricchisce così di un san-torale che si apre anche ad altri santi: profeti dell’Antico Testamento;apostoli e personaggi del Nuovo Testamento, che spesso sono anche mar-tiri; vescovi (molto di rado in Oriente); soprattutto asceti e monaci che,talora onorati in vita per il proprio carisma, possono ottenere dopo lamorte, a partire dal iv secolo, un culto assimilabile a quello dei martiri.Allora non esisteva un’istituzione centrale per dire chi era santo e chinon lo era. Le Chiese locali sono, sotto quest’aspetto, indipendenti espesso, piuttosto che promuovere un culto, non fanno che registrarnel’esistenza.

Il santorale di queste Chiese si sviluppa: Gerusalemme, che all’ini-zio del v secolo non festeggia ancora che una ventina di santi in tuttol’anno liturgico, nell’viii secolo ne celebra altrettanti per il solo mesedi gennaio. Le feste, inizialmente locali, possono riunire i vescovi e ifedeli delle città vicine. Alcuni culti tendono a diffondersi, o addirit-tura a divenire universali, benché possano avere anche centri privile-giati: così, san Giovanni Battista è festeggiato in tutta la cristianità,

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ma i santuari che possiedono una parte delle sue reliquie, come Seba-ste in Palestina, o Emesa, sono particolarmente importanti. AlcuneChiese potenti, come quella di Antiochia, integrano d’altro canto al lo-ro santorale non solo santi festeggiati ovunque, ma anche nomi che ven-gono desunti dalle Chiese collocate sotto la loro autorità. Lo stesso mo-vimento delle reliquie – traslazioni, divisione – contribuisce alla diffu-sione dei culti.

La Chiesa inquadra il fervore popolare intorno al culto dei santi, cer-cando di ridurre quelli che considera come abusi. Il culto si organizzaprincipalmente intorno alla tomba, che, dopo la pace della Chiesa, puòessere compresa in un edificio speciale, talora monumentale: il marty-rion [cap. x, pp. 308-9; Grabar 773], spesso situato fuori dalla città,com’era normale per le tombe. È là che affluiscono i fedeli, talora giun-ti da lontano, non solo in occasione della festa principale del santo, chepuò assumere aspetti da fiera, ma anche in ciascun momento dell’anno.Per ottenere il favore che si implora o il miracolo che si spera occorreentrare nel più stretto contatto possibile con la reliquia. In alcuni san-tuari i pellegrini possono restare diversi giorni presso la tomba del san-to, praticando i riti dell’incubazione.

La reliquia (leipsanon: i resti) del santo è al centro del culto. Può es-sere trasferita: Costantinopoli, povera di martiri indigeni, fa giungeredi conseguenza corpi santi da altri luoghi. Può essere frazionata: il cor-po di santo Stefano, scoperto nel 415 a Cafarbarica in Palestina e tra-sferito a Gerusalemme, è oggetto di prelievi che favoriscono la nascitadi luoghi di culto secondari. Vari laici si procurano frammenti di reli-quie, che depositano nelle chiese da essi fondate, o di cui fanno un usoprivato. Semplici chiese possiedono interi lotti di reliquie e la differen-za tra chiesa e martyrion tende a sfumarsi. Parallelamente, si diffonde ilcostume di depositare reliquie sotto l’altare di una nuova chiesa.

A causa di questa diffusione, redigere l’inventario dei centri di cul-to dei santi è un’impresa difficile [Maraval 624]. Si possono almeno se-gnalare alcuni santuari particolarmente importanti e interessati dall’af-fluenza di pellegrini: da sud a nord, San Mena nel Basso Egitto, SanGiorgio a Lidda in Palestina, San Sergio a Resafa in Eufratesia; SantaTecla a Seleucia d’Isauria; San Giovanni a Efeso; San Teodoro pressoEucaita nel Ponto; Sant’Eufemia a Calcedonia; San Demetrio a Tessa-lonica; Santi Cosma e Damiano a Costantinopoli. Si tratta perlopiù dimartiri e, salvo per Cosma e Damiano, di santuari costruiti sulla tombadel santo. Notiamo che in tre casi (Giovanni, Tecla, Demetrio) la reli-quia è inaccessibile. Per i santi monaci, il cui culto è meno sviluppato,occorre segnalare, nella regione di Antiochia, il santuario di San Simeo-

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ne Stilita il Vecchio, a Qal’at Siman, e quello di San Simeone il Giova-ne, presso il Monte Mirabile.

Il successo del culto dei santi si manifesta in numerosi fenomeni. Lechiese che, nell’epoca più antica, portano nomi astratti – così, a Costan-tinopoli, la chiesa della Sapienza (Santa Sofia) o quella della Pace (Sant’I-rene) – adesso sono poste frequentemente sotto il nome di un martire.La notorietà di un culto può avere conseguenze importanti per il suocentro: l’imperatore Zenone concede lo status di città a Leontopoli d’I-sauria in onore del martire Conone, e Anastasio fa lo stesso per Resafa,che diviene Sergiopoli [Fowden 619], e per Eucaita. I luoghi di pellegri-naggio sono contraddistinti da un movimento di costruzioni che atte-stano il vigore di un culto.

A San Mena, il corpo del santo è venerato a partire dal iv secolo; al-l’inizio del v, intorno alla tomba si costruisce una basilica a tre navateche, alla fine del medesimo secolo, cede il posto a una basilica a cinquenavate. Contemporaneamente, l’imperatore Zenone fa edificare un’al-tra imponente basilica a fianco della chiesa della cripta e Giustinianoerige un lungo edificio tetraconco. Nel v e nel vi secolo si moltiplicanogli edifici destinati ai pellegrini. Diversi oggetti che i pellegrini portava-no con sé mostrano la diffusione del culto: è il caso delle «ampolle disan Mena» (vi-vii secolo), boccette di terracotta che contenevano olioo polvere del santuario [cfr. cap. x, pp. 318-19].

2.2. La Theotokos .

Tra i santi, la pietà cristiana concede un posto speciale a Maria, Ma-dre di Dio [Cameron 616]. Assai presto il vangelo di Luca e il protovan-gelo di Giacomo hanno messo in luce la sua figura, ma occorre attende-re il v secolo e le lotte cristologiche perché il culto mariano acquisti tut-ta la sua importanza.

Nestorio, preoccupandosi di distinguere nel Cristo la natura umanada quella divina, nega a Maria il titolo tradizionale di Theotokos («Ge-nitrice di Dio») [cfr. cap. ii]. La sua sconfitta al concilio di Efeso nel431 appare come il trionfo della Madre di Dio sul proprio avversario. Iltitolo di Theotokos non cesserà mai di essere impiegato, tanto più che,dopo Calcedonia, costituisce un punto di contatto tra calcedoniani e mo-nofisiti: Giustiniano, in particolare, favorisce il culto mariano, che si ac-corda con la sua cristologia.

Sempre nel v secolo si definiscono le tradizioni sulla sorte di Mariadopo la sua morte [Mimouni 625]: il corpo della Theotokos, così vicinoa quello del suo Figlio, non ha subito la sorte comune. La morte di Ma-

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ria è una semplice dormizione (koimesis) e il suo corpo, sfuggendo allacorruzione, svanisce dalla tomba per essere innalzato in cielo o in para-diso. A partire da quest’epoca, i santuari mariani si moltiplicano, in par-ticolare a Gerusalemme, centro di elaborazione e diffusione del suo cul-to, e a Costantinopoli, che riceve varie reliquie indirette della Theotokos:la cintura deposta presso i Chalkoprateia; il velo venerato alle Blacher-ne. La capitale è sempre più posta sotto la protezione speciale della Ver-gine: ne fa testimonianza l’inno Acatisto, il più celebre dei kontakia bi-zantini, composto nel vi secolo e munito di un nuovo inizio dal patriar-ca Sergio, dopo l’assedio della città al tempo di Eraclio. Parallelamente,si moltiplicano le feste in onore della Vergine.

L’Annunciazione, il 25 marzo, diviene una festa mariana tanto quan-to cristologica. La sua data è generalizzata da Giustiniano e poi dal con-cilio del 692. Il 15 agosto, giorno in cui si celebrava a Kathisma, pres-so Gerusalemme, una festa legata a una tappa del viaggio verso Betlem-me di Maria e Giuseppe, diviene la data della Dormizione (l’Assunzionedei Latini). Le date dell’inaugurazione dei due santuari mariani di Ge-rusalemme – quello di Siloe e la Nea, fondata da Giustiniano – diven-teranno quelle di due feste: la Natività di Maria l’8 settembre e la Pre-sentazione di Maria al Tempio il 21 novembre.

2.3. I Luoghi Santi e i l pe l legr inaggio.

L’epoca costantiniana vede anche la nascita del pellegrinaggio ai«Luoghi Santi del Cristo» [Kötting 623; Hunt 622; Maraval 624], scar-samente attestato nei secoli precedenti. L’esistenza stessa di una santitàconnessa al luogo non è evidente per il cristianesimo e se quest’ultimo,a causa delle sue origini ebraiche e dei primordi della sua storia, è por-tato a privilegiare il teatro degli episodi della storia della salvezza, cer-ti cristiani continuano a nutrire riserve nei confronti del pellegrinaggio.I Luoghi Santi – si tratta in questo caso di quelli che i Bizantini chia-mano i «Luoghi Santi del Cristo», testimoni dei momenti importantidella sua vita – sono di conseguenza non tanto un dato della tradizione,quanto una novità cui l’imperatore apporta un contributo di primariaimportanza grazie al suo programma edilizio [Flusin 495].

Poco dopo il concilio di Nicea, mentre sta facendo costruire Costan-tinopoli, Costantino ordina di edificare una basilica a Gerusalemme. Dalmomento che i lavori avevano portato alla luce una tomba identificatacon quella di Cristo, il programma delle costruzioni cambia e compren-de una basilica – il martyrion – separata tramite un atrio dalla tomba li-berata dalla roccia e così valorizzata, l’Anastasis (la Resurrezione). Nel-

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l’angolo sudorientale dell’atrio si trova il Golgota, luogo della crocifis-sione di Cristo.

In occasione delle costruzioni costantiniane, o poco dopo, viene por-tata alla luce una reliquia identificata con la Croce di Cristo: il «Prezio-so Legno» dei Bizantini. Deposta nel martyrion, diviene oggetto di unavenerazione particolare, mentre alcuni frammenti che ne vengono pre-levati si diffondono in tutta la cristianità. La tradizione attribuisce loscoprimento della Croce alla madre di Costantino, Elena [Borgehammar614]. Di conseguenza, il culto della Croce [Frolow 620], così come quel-lo dei Luoghi Santi, in Oriente è strettamente legato al primo impera-tore cristiano, e per suo tramite all’istituzione imperiale.

Il martyrion, il Golgota, l’Anastasis sono il cuore della rete dei Luo-ghi Santi. Costantino ed Elena costruiscono altri santuari vicino a Ge-rusalemme: la basilica della Natività a Betlemme, quella dei Discepoli,o dell’Eleona, sul monte degli Ulivi. In seguito, si metterà in moto l’i-niziativa privata: pie e ricche pellegrine fanno costruire altre chiese com-memorative come quella dell’Ascensione o, sulla strada di Betlemme, diKathisma. Alla metà del v secolo, Eudocia, la moglie di Teodosio II ca-duta in disgrazia, trasforma la fisionomia di Gerusalemme. Così chieseconsacrate a vari santi si mescolano ai «Luoghi Santi del Cristo», che siestendono anch’essi al di fuori di Gerusalemme, per esempio a Nazareto sul monte Tabor. Giustiniano, alla metà del vi secolo, farà costruireun altro centro di pellegrinaggio presso il Sinai, con due basiliche, quel-la della Santa Vetta e quella del Roveto Ardente: viene così consacratal’importanza di questa montagna, dove i pellegrini, a partire dal iv se-colo, giungono a venerare i luoghi dell’Esodo e soprattutto delle appa-rizioni di Dio a Mosè.

I pellegrini di Palestina venerano così nel medesimo viaggio i LuoghiSanti del Cristo e martyria e altri luoghi testimoni di episodi della storiasacra. La loro meta principale è la «Città Santa del Cristo nostro Dio»,verso la quale affluiscono da tutta la cristianità. La Settimana Santa aGerusalemme, particolarmente spettacolare, è contrassegnata da una li-turgia storicizzante il cui influsso arriva lontano. Le feste della Croce edella Dedicazione degli edifici costantiniani, alla metà di settembre, so-no un altro momento culminante nella vita liturgica della Città Santa.

L’occupazione persiana e la presa di Gerusalemme nel 614, con le di-struzioni che ne seguono, non segnano la fine del pellegrinaggio, ma con-tribuiscono alla trasformazione e al declino della Città Santa. Modestodi Gerusalemme potrà restaurare solo parzialmente gli edifici danneg-giati. Eraclio, dopo la sua vittoria sulla Persia, ricollocherà trionfalmen-te la Croce sul Golgota; l’avanzata musulmana, tuttavia, lo costringerà

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ben presto a riprenderla e a trasferirla nella capitale. D’ora in poi, Ge-rusalemme resta al di fuori dell’Impero e la complementarità caratteri-stica del periodo protobizantino tra Costantinopoli, capitale politica del-l’Impero, e la Città Santa, centro religioso, viene meno.

2.4. Le immagini .

L’epoca in esame vede apparire ancora un’altra novità importante checontraddistinguerà la pietà bizantina: il ruolo attribuito alle immagini[Kitzinger 781] del Cristo, della Vergine e dei santi, e più in particolarealle immagini portatili, dipinte su tavola, che noi chiamiamo icone, ter-mine che all’epoca designava ogni immagine [cfr. cap. x, pp. 317-21].

Nel iv e nel v secolo le immagini pubbliche e private hanno già ot-tenuto diritto di cittadinanza nel cristianesimo: si trovano immagini sutessuti e vesti, miniature di manoscritti, cicli iconografici nei mosaici enelle decorazioni pittoriche delle chiese. Alcuni ambienti, tuttavia, re-stano ostili alle immagini di culto scolpite o dipinte. Quest’ostilità, cheha le sue radici nell’Antico Testamento, è inoltre giustificata dall’esi-stenza contemporanea di immagini pagane e dalla necessità, per i cri-stiani, di prendere le distanze dalle pratiche idolatriche.

Le due testimonianze più nette della chiusura nei confronti delle im-magini risalgono al iv secolo. All’inizio del secolo, Eusebio di Cesareasi rifiuta d’inviare alla sorella di Costantino il ritratto di Cristo da lei ri-chiesto: non si può rappresentare materialmente la divinità e si rischiadi introdurre usanze idolatriche nel cristianesimo. Alla fine dello stessosecolo, Epifanio di Salamina, in una chiesa palestinese, strappa un drap-po che recava un’immagine di Cristo, dal momento che non si può rap-presentare il Figlio di Dio e che i ritratti di Gesù e degli apostoli nonhanno valore storico.

Dopo la metà del v secolo il pericolo pagano è diminuito e, nel seco-lo seguente, si moltiplicano le attestazioni relative alle icone e al loroculto. Le prime icone conservate possono infatti essere datate al vi se-colo. Nella medesima epoca, un testo prezioso dovuto al metropolita diEfeso, Ipazio, un collaboratore di Giustiniano, ci informa sull’atteggia-mento contemporaneamente tollerante e condiscendente che la Chiesaadottava nei confronti delle immagini.

A uno dei suoi suffraganei, che si lamenta per la diffusione del cul-to delle immagini nella propria città, Ipazio risponde che, per parte sua,non si compiace minimamente delle immagini, ma che quest’ultime han-no nondimeno un valore pedagogico per i semplici e che non bisognaproibire gli onori che vengono loro resi.

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Alla fine del vi secolo si trovano le prime menzioni di immagini mi-racolose di Cristo: le achiropite, «non fatte da mano umana». La più ce-lebre è l’immagine di Cristo di Edessa; ma anche l’immagine di Camu-liana, apparsa alla fine del regno di Giustiniano, ha conosciuto la noto-rietà e un brano del cosiddetto pellegrino di Piacenza segnala un’altraachiropita di Cristo in Egitto. Senza dubbio con tali immagini si mira amostrare che è possibile rappresentare il Cristo e a eliminare ogni dub-bio sull’autenticità di tali ritratti. Si può inoltre essere sensibili al fattoche, in questo caso, l’immagine, che ha quasi la condizione di una reli-quia, è sacra di per sé e non solo per ciò che rappresenta.

I testi del vi e del vii secolo mostrano lo sviluppo del culto delle im-magini, specialmente delle icone, talora private, e permettono di cono-scere alcuni riti: i fedeli si prosternano o s’inchinano davanti a esse; lebaciano e accendono lampade o bruciaprofumi. Implorano la loro pro-tezione, ed è noto anche il caso di una malata che raschia un affrescoraffigurante dei santi per ricavarne una pozione. I modelli di questo cul-to vanno cercati nel paganesimo, ma anche negli onori resi alle immagi-ni imperiali e, all’interno del cristianesimo, nel culto delle reliquie o del-la Croce. Il culto delle icone, che può essere definito «popolare» nel sen-so che nasce nella società senza che la Chiesa si sforzi di favorirlo, nonè affatto limitato ai semplici, ma è presente in tutti gli strati della so-cietà. Rimangono ambienti più conservatori – la decorazione della San-ta Sofia di Giustiniano è senza dubbio interamente aniconica –, ma nonfanno sentire molto la propria voce. Alla fine del vi secolo il generaleFilippico, nella guerra contro la Persia, pone il proprio esercito sotto laprotezione dell’immagine di Camuliana. Poco dopo, Eraclio farà lo stes-so e il patriarca Sergio farà ricorso alle icone per proteggere Costanti-nopoli assediata. Se il culto delle icone trova dei detrattori, è piuttostoall’esterno del cristianesimo. Gli ebrei, presto seguiti in questo dai mu-sulmani, rimprovereranno ai cristiani il loro atteggiamento verso le re-liquie, la Croce, le icone, ed è in questa polemica antigiudaica che gliautori cristiani, come Leonzio di Neapoli2, fabbricheranno una serie diargomentazioni in favore delle immagini che poi verranno riutilizzatenel periodo iconoclasta.

3. Verso una città cristiana?

Il cristianesimo, che estende la propria influenza sul tempo, trasfor-ma anche lo spazio, dove impianta i suoi monumenti, centro di una vi-ta liturgica che anima l’insieme della città. In maniera più profonda, e

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secondo modalità meno chiare, giunge anche a diffondere i suoi valoriin una società che modifica lentamente una parte dei suoi comporta-menti.

3.1. Crist ianizzazione del lo spazio 3.

La pace della Chiesa apre la strada, nelle città dell’Impero, a un’at-tività edilizia nuova e a un movimento di costruzioni che deve molto aldinamismo di un evergetismo cristiano ampiamente diffuso. Gli edificidi culto si moltiplicano e acquistano monumentalità. Molte delle chieseche vengono costruite, spesso da donatori privati, sono modeste; in al-tri casi il gusto della monumentalità è tuttavia ben percepibile nelle di-mensioni e nell’architettura degli edifici. L’ornamentazione subisce an-ch’essa un’evoluzione, con l’impiego frequente di marmi o con la scul-tura sempre più ricca che beneficia, nel vi secolo, dell’attività deilaboratori di Proconneso. I mosaici aumentano ulteriormente lo sfarzodelle chiese.

Gli edifici cristiani si distribuiscono sul territorio delle città. Benchéil nuovo rapporto con la morte non ne impedisca la costruzione all’in-terno della città, i martyria si situano spesso nelle zone periferiche o nel-la chora. A partire dalla fine del iv secolo, la densità delle chiese e deiloro annessi (compresi talora dei battisteri) nei villaggi e nei latifondi èben attestata dall’archeologia per province come la Palestina e la Siria;progressivamente, giungono anche i monasteri a modificare il paesaggiodelle campagne. Nelle città, le chiese sono talora sorprendentemente nu-merose, come viene mostrato dall’archeologia per il piccolo centro diMadaba, o dai papiri, in Egitto, per Ossirinco ed Ermopoli.

L’impianto delle chiese risponde solo parzialmente a un programmapreciso. Le fondazioni private si insediano dove vogliono e possono ifondatori. Le chiese «cattoliche» possono occupare più facilmente spa-zi privilegiati, soprattutto la grande chiesa della città, con il suo batti-stero e la residenza del vescovo. Gaza può fungere da esempio: Sozo-meno, per il iv secolo, menziona la costruzione da parte di una famigliaaltolocata di chiese e «monasteri» in una borgata o nel circondario. Ilmartyrion di San Vittore, che acquista lustro col passar del tempo, si tro-va al di fuori della città insieme ad altri martyria. La stessa antica catte-drale rimane a lungo fuori delle mura e occorre attendere l’inizio del vsecolo, in un ambiente urbano ancora fortemente pagano, perché il tem-pio di Marna sia distrutto e lasci il posto a una grande basilica costrui-ta dal vescovo grazie alle liberalità dell’imperatrice Eudossia.

In base al calendario delle feste e secondo la volontà del vescovo, la

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celebrazione principale si sposta nell’ambito della città e l’esistenza diuna liturgia stazionale non è attestata soltanto per Gerusalemme e Co-stantinopoli, ma anche per centri più modesti come Ossirinco. La vitaliturgica [Baldovin 629] sconfina negli spazi pubblici con le feste e leprocessioni, regolari o occasionali, ben conosciute per Costantinopoli esufficientemente importanti per essere state oggetto dell’attenzione im-periale.

3.2. Costantinopol i cr ist iana 4.

Costantinopoli [Dagron 493], dove si manifesta l’unione tra l’Impe-ro e la nuova religione e il cui prestigio avrà un’influenza durevole nel-la cristianità, avrebbe avuto fin dall’origine, secondo Eusebio, il carat-tere di una città cristiana (Vita di Costantino, 3.48.1).

A dire il vero, le poche costruzioni cristiane che possono essere at-tribuite con certezza a Costantino non si inseriscono in un programmadi urbanistica cristiana. La principale, i Santi Apostoli, più che una chie-sa è il mausoleo del fondatore, ed è a questo titolo che occupa un postoimportante nel paesaggio monumentale della città imperiale. Per il re-sto, Costantino sembra aver tenuto conto del passato cristiano di Bisan-zio: è il caso, forse, della chiesa episcopale della città, Sant’Irene, e deimartyria che costruisce o ingrandisce, senza dubbio quelli dei martiri lo-cali (forse San Mocio, Sant’Acacio, Sant’Agatonico). Costantino, sen-za dubbio, ha fatto costruire anche il Michaelion di Anaplo, qualche chi-lometro a settentrione della capitale sulla sponda europea del Bosforo.

Costanzo II, il suo successore, contribuisce a dare alla capitale il suoaspetto cristiano; trasforma i Santi Apostoli, che da allora comprendo-no un mausoleo imperiale affiancato a una chiesa dove sono collocati icorpi dei santi Andrea, Luca e Timoteo; soprattutto fa costruire unanuova cattedrale a fianco di Sant’Irene: è Santa Sofia (la Sapienza), inau-gurata il 15 febbraio 360. Questa grande basilica, distrutta da un incen-dio nel 404, sarà sostituita nel medesimo luogo da una ancora più gran-de, inaugurata nel 415 sotto Teodosio II, che resta in funzione fino al-l’incendio del 532. Poco dopo il 400, le chiese e i martyria di qualcheimportanza, a Costantinopoli, restano rari: la Notitia urbis Constantino-politanae ne registra 14. Nel corso del v secolo, le costruzioni imperiali– talora dovute all’iniziativa di imperatrici – rafforzano il paesaggio cri-stiano della capitale: Pulcheria, o più verosimilmente Verina, la mogliedi Zenone, fa così costruire i grandi santuari mariani di Chalkoprateiae delle Blacherne.

Le fondazioni private vengono ad aggiungersi alle liberalità imperia-

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li. Spesso sono connesse con membri della classe senatoria e possono as-sumere forme diverse: non solo chiese e martyria, ma anche opere di ca-rità, dalla fine del iv secolo, e a partire dal v anche monasteri. La zonatra le mura di Costantino e quelle di Teodosio, poco urbanizzata, è pro-pizia alle fondazioni, in particolare quelle monastiche. È lì che il patri-zio Studio, alla metà del v secolo, farà costruire la basilica di San Gio-vanni Battista, intorno alla quale si svilupperà uno dei più importantimonasteri bizantini. Tra i fondatori, nel v secolo si può ricordare sanMarciano, economo della Grande Chiesa (BHG, 1032): di origine sena-toria, prima novaziano e poi integrato nel clero ortodosso di Santa So-fia, dedica il proprio vasto patrimonio a diverse fondazioni. Alla finedel v secolo e all’inizio del vi, Anicia Giuliana completa le costruzioniincominciate dai suoi antenati imperiali e vi aggiunge le proprie, con ilgrande martyrion di San Polieutto.

L’epoca giustinianea segna una nuova fase. Procopio nel De Aedifi-ciis attribuisce a Giustiniano, o a Giustiniano e Teodora, la costruzio-ne o ricostruzione di una trentina di chiese e di martyria nella città. Sipuò trattare di costruzioni interamente nuove, come i Santi Pietro e Pao-lo e i Santi Cosma e Damiano del palazzo di Ormisda, oppure di rifaci-menti, talora di antiche fondazioni imperiali: i Santi Apostoli, o le chie-se mariane delle Blacherne e di Pege. Le costruzioni religiose di Giusti-niano a Costantinopoli cominciano a partire dal regno di Giustino, masono le distruzioni che accompagnano la rivolta di Nika nel 532 a per-mettere all’imperatore di lasciare il proprio segno sulla città. È allora inparticolare che, in seguito all’incendio della Grande Chiesa di Teodo-sio II, fa costruire con un nuovo progetto la chiesa di Santa Sofia, chefino alla presa di Costantinopoli da parte degli Ottomani sarà uno deicentri della cristianità.

Con le costruzioni giustinianee, gli edifici cristiani della capitale sem-brano disporsi secondo un programma che s’impone al visitatore. Al difuori delle mura, come nota Procopio, i santuari di Pege e delle Blacher-ne materializzano la protezione che la Theotokos accorda alla propriacittà. Il percorso trionfale degli imperatori che rientrano nella propriacapitale è costellato di costruzioni religiose: le chiese dell’Hebdomon,al settimo miglio a ovest della città; poi, vicino alla Porta d’Oro, il marty-rion di San Diomede e, più in là sul ramo meridionale della Mese, SanGiovanni di Studio; infine, vicino al Palazzo e all’Ippodromo, c’era ilcentro religioso della città, con le chiese di Sant’Irene e di Santa Sofia,fiancheggiate dagli edifici del patriarcato e, a un livello inferiore, da San-ta Maria di Chalkoprateia. Il ramo settentrionale della Mese conduced’altro canto ai Santi Apostoli, che rimangono la sede delle sepolture

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imperiali. Le piazze cittadine – Augusteo, Foro di Costantino –, non-ché i grandi viali porticati, sono il teatro di cerimonie spettacolari dovei cortei imperiali si uniscono con le processioni religiose; tuttavia la Gran-de Chiesa offre adesso il quadro architettonico che sembra imprescin-dibile dalla liturgia bizantina.

3.3. I l cr ist ianes imo e la società.

Il cristianesimo non si riduce alle forme esteriori di un culto. Al con-trario, cerca di promuovere la nascita di un uomo nuovo e di diffonde-re comportamenti in rottura con il passato riguardo a diversi punti fon-damentali: il rapporto con la morte, presentata come una dormizione inattesa di una resurrezione; il nuovo rapporto con il corpo [Brown 514],che va sottomesso tramite pratiche ascetiche ma che, ben lungi dall’es-sere malvagio, è destinato alla resurrezione nella forma di un corpo digloria; un nuovo atteggiamento verso la sessualità, con un’insistenza sulvalore della verginità e della continenza, o verso i beni terrestri, con unaparadossale valorizzazione della povertà; nuovi rapporti anche con ilprossimo, sotto il segno dell’amore – la «carità». Ci si può aspettare chela diffusione degli ideali evangelici trasformi radicalmente la società, main realtà i risultati della cristianizzazione possono sembrare deludenti.Occorre peraltro notare le difficoltà incontrate da una ricerca che valu-ta perlopiù la sfera privata: quando Giovanni Crisostomo propone ai ge-nitori di allevare meglio i loro figli (Sulla vanagloria e l’educazione dei fi-gli, SC, 188), non rimette in causa le istituzioni scolastiche, ma forni-sce tutta una serie di consigli per una vita familiare di cui molti aspettici sfuggono. Diverse trasformazioni dovute alla diffusione del cristiane-simo restano così in ombra, mentre al contrario, laddove si ravvisa un’e-voluzione, il legame con il cristianesimo non è sempre certo.

In linea di massima, le novità, da quanto è possibile vedere, sembra-no presenti in tre ambiti. Il primo è quello della vita familiare, dove sinota un maggior valore attribuito alla vita dei bambini: l’infanticidio èproibito da una legge del 374; l’aborto è moralmente condannato, cosìcome la vendita in schiavitù dei propri figli. Al contempo, si presta mag-giore attenzione alla castità, soprattutto delle donne: di questo sembraessere un indizio l’evoluzione della legislazione imperiale in materia di«ratto». Il cristianesimo fa sentire la propria influenza sul matrimonio,di cui tende a far riconoscere l’indissolubilità, benché, in quest’ambito,non giunga a far modificare la legge romana [Beaucamp 511; Bagnall628]. Il secondo punto concerne il rapporto col denaro [Patlagean 523].L’ideale evangelico di povertà non modifica la società a livello globale,

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ma si osservano numerosi comportamenti nuovi: in particolare la dona-zione, ai poveri o alla Chiesa, di una parte del proprio patrimonio; talo-ra, come nei casi di Olimpiade (SC, 13 bis) o di Melania (SC, 90), la di-spersione di intere fortune. Il fiorente evergetismo cristiano preferiscela discrezione, a differenza del suo antenato pagano, e spesso i donato-ri conservano volontariamente l’anonimato. Il terzo punto concerne lacarità sociale. La pratica dell’elemosina e lo sviluppo delle istituzioni ca-ritatevoli, a beneficio di chiunque e non soltanto dei cristiani, hannocontribuito alla diffusione del cristianesimo e restano una realtà attiva.L’elemosina può essere istituzionalizzata, nelle mani dei vescovi e delclero, ma può anche provenire da semplici fedeli. Le istituzioni carita-tevoli [cfr. sopra, p. 127] sono amministrate dal clero, ma generalmen-te create da fondatori privati. Oltre ai poveri e ai malati, i cristiani, especialmente i vescovi, si occupano inoltre della sorte dei prigionieri [Ra-spels 635]: il regime delle carceri tende a mitigarsi, come mostra una se-rie di leggi datate dal 320 al 409 e conservate nel Codice teodosiano.

L’azione del cristianesimo si fa dunque sentire in diversi ambiti; tut-tavia, l’inerzia della società è considerevole. Gli spettacoli fornisconoun esempio interessante. Si sa, infatti, che la Chiesa, vedendovi al con-tempo dei rivali e un attentato alla moralità, cerca in ogni modo di far-ne proibire alcuni. Costantino vieta i combattimenti di gladiatori dal325, ma la legge resta inefficace e occorre attendere gli anni 438-39 perarrivare alla sparizione di tali pratiche cruente, mentre restano autoriz-zati i combattimenti contro le belve [Ville 637]. Analogamente i mimi,giudicati immorali dai cristiani e probiti sotto Anastasio, rimangono ef-fettivamente in auge fino alla fine del periodo. In questi settori, comein altri più fondamentali – tortura, schiavitù –, l’influenza del cristia-nesimo tarda a farsi sentire e la legislazione imperiale non attesta la vo-lontà di far entrare nella vita dell’Impero i valori propri della nuova re-ligione. Per molti cristiani, conviene abbandonare un «mondo» che re-sta impermeabile ai valori del cristianesimo e pericoloso per le suetentazioni, e risulta preferibile vivere una vita conforme al Vangelo neldeserto o nei monasteri.

ii. il monachesimo.

Lo sviluppo del monachesimo antico è un fenomeno di lunga dura-ta, della cui complessità ci si rende conto sempre più distintamente. Le

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ricerche sulla spiritualità o sui testi monastici sono adesso completateda ulteriori approcci: l’archeologia, la papirologia, l’antropologia per-mettono di comprendere in maniera migliore sia le relazioni reali tra imonaci e il mondo che professano di abbandonare, sia il prestigio ecce-zionale che alcuni grandi asceti hanno potuto ottenere. La diffusione ditesti influenti come la Vita di Antonio ha imposto una genealogia nellaquale il monachesimo egiziano occupa un posto di primo piano. Altri do-cumenti, tuttavia, che hanno recentemente sfumato quest’immaginetroppo semplicistica, mostrano come l’ascetismo cristiano si trasformiper dare vita al monachesimo propriamente detto in più parti dell’Im-pero [Guillaumont 642]. Il monachesimo è vario sia per origine sia performe. A fianco della corrente eremitica, prestigiosa e multiforme, esi-ste anche un fiorente monachesimo urbano e suburbano, al contempomaschile e femminile. I monasteri, perlopiù nati per iniziativa privata,non giungono mai a essere standardizzati, benché certe pratiche e certimodelli si diffondano ampiamente, assicurando al tagma (corpo) mona-stico una certa unità, che le autorità della Chiesa e dell’Impero, eserci-tando il proprio controllo, tendono a rafforzare. Uno studio a carattereregionale permette di porre in evidenza questa diversità, ma anche dirilevare tratti che, ben attestati in un caso particolare, hanno un valorepiù generale.

1. L’Egitto e i suoi modelli: anacoresi e cenobitismo5.

L’Egitto è solitamente presentato come la terra d’origine del mona-chesimo e, per quanto convenga ricordarsi che quest’ultimo ha più diuna culla, l’influenza dei padri egiziani è stata tale che ci si può legitti-mamente volgere a essi per definire cos’è in origine il «monaco» e perdescrivere le forme essenziali della vita monastica, anacoretica o ceno-bitica.

1.1. Asceta, monaco, anacoreta.

Il monachesimo, alla fine del iii secolo, non è una novità assoluta:deriva dall’antico ascetismo, che a sua volta era nato insieme alla Chie-sa, e se ne differenzia solo per una rottura più radicale con il mondo eper istituzioni specifiche più facilmente osservabili. Un aneddoto rica-vato da Palladio (Historia Lausiaca, 8), relativo al fondatore della colo-nia monastica di Nitria nel 320 circa, illustra cosa sono l’antico asceti-smo e la nuova «anacoresi».

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Amun, giovane contadino egiziano benestante divenuto orfano, è co-stretto a sposarsi dal proprio zio. La prima notte di nozze, tirando fuo-ri dalla propria veste «un libriccino che riportava le parole dell’Aposto-lo», insegna alla propria giovane sposa le virtù della verginità. Da allo-ra, i coniugi vivranno insieme nel loro podere, praticando tuttavia lacontinenza. Su istigazione della moglie di Amun, la quale non vuole chela virtù di suo marito resti nascosta, i due sposi successivamente si se-parano e Amun si ritira nel deserto di Nitria, dove si costruisce una «cel-la» (casetta), intorno alla quale si svilupperà una colonia anacoretica.

I due atteggiamenti di Amun sono fondamentali. In un primo tem-po decide (convincendo sua moglie a fare lo stesso) di praticare una vi-ta ascetica, ma senza abbandonare il mondo. Il libro che legge sembraessere il Vangelo di Tommaso (apocrifo del ii secolo), dove si trova ildetto famoso: «Solo il monachos entrerà nella camera nuziale». La pa-rola «monachos», della quale in questo passo si trova una delle primeattestazioni e che designa il monaco a partire dal iv secolo, si applicaal celibe che, rinunciando al mondo e al matrimonio, si unisce a Dio(«entra nella camera nuziale»). Amun e sua moglie sono inizialmenteuna coppia di asceti. La partenza di Amun per Nitria, in un secondotempo, è l’anacoresi (fuga dal mondo, «salita» al deserto, in senso pro-fano e successivamente religioso) propriamente detta. Amun da alloraè un eremita che vive in una cella nel deserto: è divenuto un monaconel senso nuovo del termine. Lo è in maniera particolare, giacché vivenella solitudine, ma il termine verrà applicato anche a coloro che vivo-no in comunità.

Le dure condizioni del deserto egiziano impongono all’anacoreta, checerca di riprodurre lo stile di vita di Elia, di Giovanni Battista o di Cri-sto, una sobrietà e una vigilanza continue. La regione in cui s’insedia –si tratta spesso della fascia che bordeggia la vallata fertile – non è com-pletamente tagliata fuori dal mondo: i villaggi non sono molto distanti,essa è percorsa da nomadi e briganti e le sue necropoli ne fanno ancheil luogo dei morti. Il monaco vi si può stabilire in una grotta, in una tom-ba, in un fortino, come fa Antonio, oppure, come fa Amun, costruirsiuna «cella» (kellion, monasterion), dove trascorre una vita di solitudinee silenzio (hesychia), che divide tra la preghiera e il lavoro manuale. Vi-ta nel deserto e permanenza nella cella definiscono lo stile di vita dell’a-nacoreta, la cui solitudine è raramente assoluta. A fianco del maestroviene a stabilirsi un discepolo, o un gruppo di discepoli, dimodoché l’u-nità fondamentale è costituita piuttosto dalla coppia formata dal «vec-chio» (geron) e dal suo figlio spirituale.

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1.2. Antonio, padre dei monaci .

L’ideale di questa vita è incarnato, nel iv secolo, da un personaggiodi eccezionale influenza, Antonio, nato intorno al 250 in una famigliabenestante di contadini copti (Atanasio, Vita di Antonio, SC, 400).

Intorno al 270, divenuto orfano, Antonio vende i propri beni, distri-buisce il patrimonio ai poveri, affida sua sorella a un’istituzione per fan-ciulle e si pone sotto la guida di un asceta vicino al proprio villaggio. In-torno al 285, si chiude in un fortino abbandonato sull’altra sponda delNilo e trascorre venti anni in reclusione. È là, secondo il suo biografo,che trionfa sui demoni e raggiunge la perfezione spirituale. Successiva-mente, parte per la montagna di Pispir, lasciando il deserto solo per unbreve soggiorno ad Alessandria, dove cerca il martirio durante la perse-cuzione di Massimino Daia (311). Importunato dai visitatori, si stabili-sce infine in quella che sarà nota come la Montagna di Antonio, a 30km dal Mar Rosso. Muore nel 356, a 105 anni di età, si dice. A partiredalla sua uscita dal fortino, aveva visto arrivare numerosi candidati al-la vita monastica: è da questo momento che, dice Atanasio, «il desertodiviene una città».

All’influenza di Antonio si aggiunge quella della Vita di Antonio diAtanasio, redatta in greco nell’anno successivo alla morte del santo eche, presto tradotta in latino, si diffonde rapidamente nel mondo cri-stiano. Lo stesso fatto che la vita del «padre dei monaci» sia stata scrit-ta dal vescovo di Alessandria ha la propria importanza: mostra che, findall’inizio, la gerarchia ha cercato – non senza successo – di evitare chesi costituisse davanti ai suoi occhi, a margine della Chiesa, una societàdi carismatici. Il testamento di Antonio, che, secondo Atanasio, lasciasolo una parte minore ai discepoli riservando il lascito maggiore al ve-scovo, è caratteristico sotto quest’aspetto.

Nella Vita di Antonio, Atanasio ripercorre l’itinerario spirituale delmonaco che, tramite l’ascesi e la lotta contro i demoni, arriva alla per-fezione spirituale e gode di carismi eccezionali (profezia, chiaroveggen-za, poteri di guarigione). Altre fonti completano questo ritratto idealiz-zato: le lettere di Antonio [Rubenson 655] mostrano che quest’ultimo,benché del tutto sprovvisto di paideia greca, tuttavia non era completa-mente privo di cultura e che occorre tener conto, per esempio, dell’in-flusso esercitato dall’opera di Origene sulla sua spiritualità.

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1.3. Colonie anacoret iche.

Gli anacoreti, in particolare quelli delle tre grandi colonie a occiden-te del Delta del Nilo, la cui influenza fu assai considerevole, seguono l’e-sempio di Antonio, pur sviluppando istituzioni comunitarie. I monaci,una volta alla settimana, il sabato e la domenica, lasciano le loro celle esi riuniscono per un pasto comune, per la preghiera, la messa e colloquispirituali. Vari organi centrali – chiese, consiglio degli anziani, talora l’au-torità di un prete – strutturano la colonia, fanno regnare l’ordine, libe-rano gli anacoreti da una parte delle esigenze pratiche (approvvigiona-mento, commercializzazione degli oggetti da essi fabbricati).

La prima delle tre colonie citate, Nitria, è fondata da Amun tra il320 e il 330. Il suo successo (annovera diverse centinaia di monaci al-la fine del iv secolo) induce Amun, con l’aiuto di Antonio, a creare inuna zona più distante del deserto le Celle (Kellia), dove possono inse-diarsi i monaci desiderosi di maggior solitudine; Macario di Alessan-dria ne sarà il sacerdote ed Evagrio Pontico vive là alla fine del iv se-colo [Daumas 647; Kasser 652]. Abbandonato nel Medioevo, il sito del-le Celle risulta assai ben conservato. Intorno al 330, Macario il Grande(«l’Egiziano») fonda, ancora più lontano nel deserto, la colonia di Sce-te, alla quale, passata l’età aurea della fine del iv secolo, ancora nel vsecolo danno lustro monaci celebri: Arsenio il Grande (354-449) e Poi-men, che muore dopo di lui. Le incursioni dei nomadi costringono glianacoreti ad abbandonare Scete, il cui sito in seguito verrà nuovamen-te occupato e vedrà la nascita di monasteri dove si raggruppano i mo-naci [cfr. carta 8, p. 439; Evelyn-White 649].

1.4. Spir i tual i tà anacoret ica.

È in quest’ambiente che vengono elaborate delle pratiche e una dot-trina che segneranno durevolmente il monachesimo, e che vengono dif-fuse da vari testi: la Vita di Antonio (SC, 400), gli Apoftegmi dei Padri(SC, 387), le opere di Evagrio Pontico (SC, 170, 171, 356).

Gli Apoftegmi dei Padri restituiscono gli insegnamenti dei grandi so-litari egiziani sotto forma di motti o di storielle e propongono un mo-dello per la vita quotidiana del monaco e la sua ascesi. Il primo apofteg-ma, Antonio 1, fornisce il programma generale: il monaco, nella sua cel-la, divide il proprio tempo tra preghiera e lavoro manuale.

L’ascesi corporea – continenza, astinenza, digiuno, veglia… – aiutail monaco ad acquisire il controllo di sé, a vincere le proprie passioni, a

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sorvegliare i pensieri tramite i quali è assalito dai demoni. Può esporrei propri pensieri a un anziano che, dotato di esperienza e discernimen-to, lo aiuta a trionfare. Il mondo dell’anacoresi non è solo quello deigrandi solitari: è quello della paternità spirituale e dei discepoli sotto-messi al loro maestro.

Gli Apoftegmi racchiudono e diffondono una saggezza empirica. Laspiritualità monastica, tuttavia, si è sviluppata anche in una forma siste-matica illustrata dall’opera di Evagrio Pontico (345 c. - 399), che, dopoessere stato diacono, si ritira a Kellia. Dotato di una solida cultura ac-quisita presso Gregorio di Nazianzo, Evagrio si reca alla scuola dei pa-dri del deserto, di cui sistematizza gli insegnamenti. Nel Trattato prati-co, espone la dottrina degli otto «pensieri» o suggestioni diaboliche sucui il monaco deve trionfare, e che sono gli antenati dei sette peccati ca-pitali dell’Occidente medievale. Giunto al dominio sulle passioni(apatheia), il monaco può conoscere Dio: diviene così lo «gnostico» alquale Evagrio dedica due trattati i cui aspetti eterodossi, che sviluppa-no l’insegnamento di Origene, saranno condannati dalla Chiesa.

Per quanto Evagrio, con la propria cultura, faccia spicco nella massadei monaci egiziani, il suo non è un caso isolato. Altri anacoreti sono nu-triti come lui di origenismo e devono far fronte a varie resistenze. Unaprima crisi esplode nel deserto egiziano dopo la morte di Evagrio. L’ar-civescovo di Alessandria, Teofilo, inizialmente favorevole, condanna imonaci origenisti, che devono recarsi in esilio in Palestina e a Costanti-nopoli. Malgrado queste condanne, l’opera di Evagrio si diffonde e unagran parte della spiritualità orientale è segnata dalla sua influenza.

1.5. I l cenobit ismo pacomiano.

L’altro grande modello egiziano, che segnerà durevolmente il mona-chesimo cristiano, è il cenobitismo, stile di vita in cui i monaci condu-cono una vita comune in un convento (koinobion) sotto l’autorità di unsuperiore. Nella letteratura monastica, san Pacomio è considerato l’ini-ziatore di questo genere di vita e il cenobitismo pacomiano, che cono-sciamo assai bene, occupa un posto importante nel monachesimo egizia-no [Ruppert 656; Rousseau 654].

Pacomio (292 c. - 346), giovane contadino pagano della Tebaide, èarruolato nell’esercito ed entra in contatto con alcuni cristiani, la cui ca-rità ne provoca la conversione. Liberato, si fa battezzare e si dedica al-la vita ascetica sotto la guida di Palamone. Intorno al 321 si ritira nelvillaggio abbandonato di Tabennesi, dove, in seguito a una visione e no-nostante l’opposizione di suo fratello che si è unito a lui, si prepara ad

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accogliere dei discepoli. Dopo qualche fallimento, trova infine il gene-re di vita di cui sarà promotore e fonda il suo primo monastero a Taben-nesi. Qualche anno dopo, nel 337, il successo ottenuto lo porta a fon-dare un secondo cenobio più giù sul Nilo: Bau (Pebou). Vi s’insedia, edè a partire da questo monastero che verrà diretta la comunità pacomia-na (koinonia), che, in seguito a nuove fondazioni e all’assorbimento dimonasteri preesistenti, conta nove insediamenti maschili e due femmi-nili alla morte del santo, nel 346. Il complesso dossier delle Vite di Pa-comio (BHG, 1396-99) ci ragguaglia sul fondatore e sui suoi primi suc-cessori.

Lo stile di vita dei pacomiani è noto non solo tramite le Vite, ma an-che grazie ad alcune antiche regole, tradotte da Gerolamo alla fine deliv secolo, che sono a loro volta il risultato di una elaborazione. Il mona-co pacomiano, quando entra nel monastero, rinuncia a ogni proprietàpersonale e a ogni volontà propria. Prende l’abito monastico, vive in as-soluta sottomissione verso il suo superiore, prega, mangia, lavora e dor-me insieme ai suoi confratelli. Il monastero, diretto da un superiore, iso-lato dal mondo tramite un muro di recinzione, può ospitare parecchiecentinaia di monaci, che sono suddivisi in case, ciascuna dotata di uncapo. I capi delle case e il superiore organizzano la vita dei monaci e liriuniscono diverse volte alla settimana per fornir loro istruzioni spiri-tuali. Due volte l’anno, a Pasqua e il 13 agosto, i superiori dei diversimonasteri pacomiani si riuniscono a Tabennesi e rendono conto dellapropria gestione all’economo generale.

Il monachesimo pacomiano, molto differente dal monachesimo ana-coretico, presenta i tratti abituali di qualsiasi cenobitismo: vita in co-mune nei monasteri cinti da un muro di recinzione, sotto l’autorità diun superiore, secondo un ritmo fissato da una regola. Ciononostante,ha le sue peculiarità: importanza delle comunità, maschili e femminili,stabilite nella vallata fertile, nei villaggi o nei dintorni [Goehring 651],ben integrate nella vita economica dell’Egitto [Gascou 650]; si distin-gue inoltre per l’organizzazione «federale» dei diversi monasteri.

1.6. I l movimento monast ico e l ’Egitto.

L’avventura di Antonio e l’opera di Pacomio, per quanto siano im-portanti, non sono affatto isolate, neppure in Egitto. Numerosi ascetivivono senza lasciare la casa di famiglia e i Canoni di Atanasio (fine deliv secolo?) raccomandano che in ciascuna famiglia vi sia qualcuno chesi dedichi alla verginità. Altri asceti vivono in prossimità dei villaggi,come quello presso cui Antonio, agli inizi, riceve la propria formazione.

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Alcuni documenti fanno conoscere, nel iv secolo, vari gruppi monasticiche, senza dubbio, non erano per niente debitori del «padre dei mona-ci»: nel Delta, asceti origenisti sotto la guida di Ieraca; altrove, gruppimeleziani. In maniera analoga, la corrente cenobitica non si riduce almonachesimo pacomiano. Quest’ultimo si basa su modelli non ben de-finiti – organizzazione del villaggio, accampamenti militari, forse comu-nità manichee –, è multiforme, e Pacomio integra nella propria comu-nità vari conventi preesistenti, che vengono da lui riformati. Anacore-si e cenobitismo, del resto, non sono separati da un compartimentostagno. Nei cenobi, alcuni monaci si dedicano all’anacoresi; alcuni mo-nasteri, forse cenobitici, si insediano a Scete; a Naqln, le celle dellamontagna si appoggiano a un cenobio nella valle.

Per quanto alcuni testi si compiacciano di mostrare il monaco cherompe ogni legame con il mondo e parte per il deserto, l’impianto deimonasteri rivela una realtà differente. Il monachesimo urbano – mal co-nosciuto – e delle periferie è una realtà fiorente e importante [Wipszycka373].

Alla fine del iv secolo, l’Historia monachorum in Aegypto mostra lacittà di Licopoli divenuta un grande centro monastico; Alessandria e isuoi dintorni ne costituiscono un altro. Una serie di insediamenti mo-nastici costellano il percorso che, partendo da Alessandria, passa tra ilmare e la laguna. Il monastero del Nono Miglio (Enaton) avrà un ruoloimportante nella Chiesa d’Egitto. Più lontano, è un centro monasticoanche San Mena. Infine, le colonie di Nitria, di Scete, delle Celle devo-no in parte il loro durevole successo al fatto di essere ancora nella zonad’influenza della grande metropoli egiziana.

Spesso prossimi a città o villaggi, i monaci mantengono legami assaistretti con la società [cfr. cap. xiv]. L’economia monastica lo esige: lun-gi dal vivere in autarchia, i monaci appaltano i propri servigi per il lavo-ro dei campi. I prodotti del loro artigianato – corde, panieri, più rara-mente tessuti – devono essere commercializzati. I Tabennesioti hannoun’attività di trasporto fluviale. Di converso, i monaci ricevono dallasocietà molti prodotti di consumo. I monasteri divengono nel vi secoloproprietari terrieri di una certa importanza. Quest’attività economica,peraltro, senza dubbio non sarebbe sufficiente se i monaci, essi stessiimpegnati in opere caritatevoli, non beneficiassero della carità dei laici:offerte occasionali o donazioni più importanti e regolari da parte di po-tenti protettori.

Nel suo insieme, il monachesimo egiziano appare come un movimen-to di grande vitalità. Le istituzioni create nel iv secolo si sviluppano; lacolonia delle Celle ne è un buon esempio, con i suoi eremi che s’ingran-

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discono, si moltiplicano e si raggruppano [Kasser 652]. Il monachesimopacomiano è anch’esso in crescita e sul suo esempio vari monaci, chehanno abbandonato la comunità in occasione delle dispute cristologi-che, fondano grandi monasteri. Si moltiplicano altre fondazioni più mo-deste e, nel vi secolo, il monastero diviene un elemento abituale del pae-saggio rurale dell’Egitto. Le lotte cristologiche, certamente, dividono ilmondo monastico e nuocciono all’influenza egiziana, ma d’altro cantoportano anche, per esempio a Scete, alla moltiplicazione di monasteririvali, e occorre attendere il vii secolo, con l’invasione persiana e soprat-tutto con l’arrivo dei musulmani, per veder iniziare un declino.

2. La Siria.

Il monachesimo siriano [Canivet 664; Escolan 666; Vööbus 671] ap-pare innanzitutto come un fenomeno autoctono nella continuità del mo-vimento ascetico di tendenza encratita dei primi secoli cristiani. Occor-re segnalare l’importanza di un ordine ascetico i cui membri rinuncianoai beni terreni, i figli e le figlie del Patto, nel quale si recluta una partedel clero. Nonostante in una fase ulteriore l’influenza egiziana sia evi-dente, il monachesimo siriano conserverà vari tratti specifici: l’impor-tanza di un’ascesi spettacolare, la presenza di correnti devianti come ilmessalianismo.

2.1. La corrente messa l iana e i suoi dintorni .

Il messalianismo, influente in numerose regioni dell’Impero tra cuil’Asia Minore, si sviluppa inizialmente in Siria e in Mesopotamia. Nel-la seconda parte del iv secolo, è condannato da alcuni eresiologi e pre-dicatori (Epifanio, Efrem) e poi dai concili locali. Si rimproverano aimessaliani parecchie pratiche eterodosse: rifiuto del lavoro, disprezzodella Chiesa istituzionale con la sua gerarchia e i suoi sacramenti, ecces-siva importanza accordata ai sogni e alle visioni, licenza sessuale, senzaparlare degli errori dottrinali. Si tratta di una corrente dalle caratteri-stiche arcaiche, che pretendeva di costituire un gruppo di «perfetti», aimargini della Chiesa o piuttosto in conflitto con essa, nel quale gli asce-ti dei due sessi non sono separati. Vari gruppi monastici siriani condi-vidono con questa corrente certi tratti come il vagabondaggio, il rifiu-to della Chiesa ufficiale e del lavoro. Questo è il caso, a quanto pare,dei discepoli di Alessandro l’Acemeta (Vita di Alessandro, BHG, 47) che,all’inizio del v secolo, dopo un periodo di vagabondaggio, si stabilisco-

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no in un monastero sulle rive dell’Eufrate e poi ripartono per insediar-si in un bagno in disuso nella stessa Antiochia, dove entrano in conflit-to con le autorità locali. Questi monaci «acemeti» (lett.: coloro che nondormono) saranno in seguito destinati a insediarsi nella regione di Co-stantinopoli.

2.2. L’ascet ismo s ir iano: Simeone St i l i ta .

Il monachesimo siriano si distingue anche per lo spazio che attribui-sce a un’ascesi fisica estrema e spettacolare. I testi menzionano morti-ficazioni spaventose più di frequente che in Egitto: digiuni di lunga du-rata, abitudine di portare catene, esposizione ai rigori del clima. I mo-naci praticano tali austerità non solo nei loro ritiri, ma anche sotto gliocchi del pubblico, e questa circostanza aiuta a comprendere il ruolo dispicco che nel cristianesimo protobizantino è stato ricoperto dal«sant’uomo». L’esempio più notevole è quello di Simeone Stilita il Vec-chio (Teodoreto, Storia dei monaci, 16, SC, 257).

Nato in una famiglia cristiana, Simeone (morto nel 459), inizialmen-te pastore, si ritira in un monastero da cui è cacciato dai monaci cheaborrono le sue austerità. Allora si reca nel villaggio di Telanisso pres-so un asceta e passa un’intera Quaresima recluso in una cella senza as-sumere nutrimento. Successivamente, si ritira sulla sommità di una col-lina, in un recinto dove vive all’aria aperta. È là che ottiene la rivelazio-ne di quella che sarà la sua ascesi: sale su una pietra, poi si fa erigere unacolonna e si ritira sulla sua sommità. In seguito, cambierà spesso pila-stro. La sommità della colonna reca una piattaforma sulla quale Simeo-ne vive all’aria aperta, quasi senza dormire, dividendo il suo tempo trala preghiera e la cura dei visitatori. Una scala parzialmente mobile per-mette l’accesso: i suoi discepoli, così, possono rifornirlo e i pellegrini ve-nire a confidarsi con lui. La fama di Simeone, la cui colonna è eretta nonlontano da una strada trafficata, si diffonde nella cristianità: l’asceta èin rapporto con gli imperatori e può intervenire nella vita della Chiesa.Istruisce le folle che si accalcano ai piedi della colonna, converte certetribù arabe e moltiplica anche i miracoli di guarigione. I suoi discepoliformano una comunità ai piedi della colonna. Dopo la sua morte, il cor-po è trasferito ad Antiochia e viene costruita una cappella in suo onore;soprattutto, intorno alla colonna viene edificato un imponente comples-so di pellegrinaggio [Sodini 975].

Le classiche analisi di P. Brown6 hanno svelato gli elementi che spie-gano il ruolo particolare goduto, nella società del basso Impero, da per-sonaggi come Simeone. Grazie al genere di vita che pratica, e ai cimen-

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ti che s’impone, il sant’uomo appare come un perfetto «straniero». Si-tuato ai margini dell’umanità, acquisisce uno status intermedio tra l’uo-mo e la divinità, ed è su ciò che si basa il suo potere carismatico. Inol-tre, essendo vicino alla società pur rimanendone fuori, sviluppa ancheun’importante attività patronale.

Per strano che possa sembrare, lo stile di vita di Simeone trova de-gli emulatori. Nel vi secolo, sul Monte Mirabile vicino ad Antiochia, an-che Simeone il Giovane (BHG, 1689) conosce il successo e, durante lasua vita, intorno alla sua colonna si costruisce un complesso dove afflui-scono i pellegrini ortodossi, e che è imitato da Telanisso, passato nellemani dei monofisiti. Vicino a Costantinopoli, Daniele lo Stilita (BHG,489) si presenta come il successore di Simeone il Vecchio e i testi mo-strano che gli stiliti sono assai numerosi. Altri asceti siriani praticanoforme di vita meno spettacolari e più diffuse: ipetri (che vivono all’ariaaperta), reclusi, che si rinchiudono in una cella, anacoreti, monaci itine-ranti, spesso sospetti agli occhi delle autorità ecclesiastiche.

2.3. Comunità monast iche e cenobi.

I grandi asceti siriani non devono far dimenticare l’importanza di unmonachesimo comunitario attestato assai presto, che si sviluppa nel v enel vi secolo con origini e forme diverse [Canivet 664; Vööbus 671] enon evita di suscitare reazioni da parte di autori legati a una concezio-ne più antica.

Nel iv secolo, Giuliano Saba riunisce in Osroene una comunità dianacoreti poco strutturata. All’inizio del medesimo secolo, Publio fon-da a Zeugma sull’Eufrate un vero monastero dove due comunità, grecae siriaca, conducono la vita in comune sotto l’autorità di un superiore,obbediscono a regole indubbiamente orali e sono ben integrate alla Chie-sa locale. La struttura delle comunità monastiche, la loro importanza, illoro luogo d’insediamento e il loro rapporto con il lavoro o, più in gene-re, con la vita economica possono essere assai variabili. La regola di Rab-bula, per la regione di Edessa, fa conoscere alcune piccole comunità chevivevano di un po’ d’agricoltura e di cui il vescovo si sforza di control-lare l’attività. Altre comunità annoverano diverse centinaia di monaci.

Lo sviluppo del monachesimo urbano può essere illustrato dal casodi Edessa, dove alla fine del iv secolo Egeria segnala soltanto alcuni asce-ti vicino ai martyria, mentre nel 449 sono attestati undici monasteri. Ilvescovo Nonno (449-70/1) ne fonderà vari altri, maschili e femminili.Ad Amida, nel vi secolo, Giovanni di Efeso attesta numerosi grandi mo-nasteri suburbani, e tali casi non sono isolati. I monaci s’insediano an-

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che in regioni più ritirate, «deserti» o circondari dei villaggi. Il Tur‘Abd¥n (Montagna dei Servitori) nasce alla fine del iv secolo, quandoMar Samuel fonda presso il villaggio di Qartamin un monastero checent’anni dopo sarebbe stato dotato di una grande chiesa e avrebbe svol-to un ruolo importante. La Storia filotea, redatta da Teodoreto nel 444,documenta lo sviluppo del monachesimo nella Siria occidentale primadi Calcedonia (SC, 234 e 257). Tale opera attribuisce a monaci venutida Oriente la fondazione o lo sviluppo dei due più antichi monasteri del-l’Antiochene: Gindaro, fondato nel 330-40, e Teleda, che avrà nume-rose filiali. Nell’Apamene, i discepoli di Marciano, asceta nei pressi diBeroea, intorno al 380 fondano il grande monastero di Nicerte, anch’es-so destinato a replicarsi.

L’archeologia rivela l’importanza di tali fondazioni, nel contesto del-la Siria settentrionale nel v e vi secolo. G. Tchalenko ha rilevato 160 si-ti nella zona del Massiccio Calcareo, su circa 10 000 chilometri quadra-ti [Tchalenko 978].

L’aspetto di questi monasteri, spesso ben costruiti, varia da una re-gione all’altra. Nell’Antiochene, la chiesa, che nel vi secolo risulta piùpiccola che in precedenza, è accompagnata da due edifici, di cui uno por-ticato, da un alloggio, da una torre e da una sepoltura collettiva. Nel-l’Apamene, i monasteri sono più compatti e la cappella conventuale ècompresa nell’edificio principale. In entrambi i casi si è potuto dimo-strare che il monastero era al centro di un fondo agricolo.

Per quanto riguarda il vi secolo, le lotte cristologiche, nelle quali imonaci sono impegnati, hanno provocato una notevole produzione didocumenti che danno un’immagine del numero di monasteri [Caquot665]. Nel 518, relativamente alla città di Apamea, 18 archimandriti cal-cedoniani firmano una petizione. Dal canto loro, i documenti monofi-siti citano circa 80 conventi perlopiù situati a oriente del Massiccio Cal-careo. Infine, il meridione del patriarcato non è affatto da meno: intor-no al 570, una lettera viene firmata dai rappresentanti di 128 monasterid’Arabia. Tali dati permettono di misurare il vigore del movimento mo-nastico nel patriarcato di Antiochia nel v e vi secolo.

3. La Palestina e Gerusalemme.

La Palestina, posta sotto la duplice influenza della Siria e dell’Egit-to, vede nascere per parte sua un monachesimo specifico, che deve lesue caratteristiche particolari e la sua influenza alla prossimità dei Luo-ghi Santi.

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3.1. Gaza, Sinai .

Nella regione di Gaza, il monachesimo palestinese non deve moltoalla vicinanza dei Luoghi Santi. Secondo Sozomeno, l’ascetismo cristia-no inizialmente arriva a svilupparsi in questa regione, ancora largamen-te pagana, grazie all’appoggio di alcune famiglie locali. L’influenza egi-ziana si fa presto sentire su questo primo monachesimo autoctono: Ila-rione, che fonda un monastero a sud di Gaza alla fine del iv secolo, è undiscepolo di Antonio. Nel v secolo, il monachesimo s’insedia intorno alporto di Gaza, Maiuma, e genera la «laura di Maiuma», ossia una zonamonastica dove coesistono anacoreti e cenobi.

La regione costituirà un fulcro della resistenza anticalcedoniana: vi siinsediano l’anacoreta Isaia di Gaza, in precedenza monaco a Scete, Pie-tro l’Ibero, Severo, futuro patriarca di Antiochia. Nel 519, i monaci mo-nofisiti si rifugiano presso l’Enaton. Il monachesimo calcedoniano, nel-la regione, è rappresentato dal monastero di Abba Serido, fondato allafine del v secolo e noto grazie alle lettere di due grandi esicasti, Barsa-nufio e Giovanni (SC, 426-27, 468), e alla Vita di san Dositeo (SC, 92).Doroteo, l’autore di tale Vita, dopo aver vissuto in questo monastero incui coesistono esicasti e cenobiti, fonderà il proprio monastero.

Nel Sinai [Solzbacher 663] il monachesimo è legato al pellegrinaggioe i monaci che vi s’insediano cercano al contempo un deserto e il ricor-do dei luoghi dell’Esodo. Alla fine del iv secolo, Egeria attesta la pre-senza di numerosi anacoreti nei pressi della montagna di Mosè. I mona-ci del Sinai, dispersi in celle anacoretiche, nel vi secolo e forse ancheprima formano una colonia raggruppata sotto la guida di un «egumenodella Santa Montagna». Poco dopo il 550, Giustiniano fonda per loroun monastero-fortezza che serve da punto d’appoggio per i pellegrini,da rifugio e noviziato per i monaci. In quest’ambiente nascerà, alla metàdel vii secolo, la Scala santa di Giovanni «Climaco», egumeno del Sinai,un’opera che riassume la spiritualità dell’antico monachesimo orienta-le. Sulla riva del Mar Rosso, la laura di Raithu è un altro importantecentro monastico.

3.2. La Città Santa.

Ancor più che nel Sinai, il monachesimo di Gerusalemme [Flusin172] è legato ai Luoghi Santi, che attirano e talora trattengono i cristia-ni venuti in pellegrinaggio da tutte le province dell’Impero e da altri pae-si cristiani; presenta inoltre un carattere più «internazionale» che au-

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toctono. Peraltro, almeno nel iv e nel v secolo, vi si può chiaramentepercepire il ruolo dell’aristocrazia; si vengono a creare delle «reti», checollegano i monasteri di Gerusalemme alla Corte imperiale.

Alla fine del iv secolo, Palladio segnala alcuni anacoreti di varia ori-gine insediati in celle sul monte degli Ulivi. Nel 372, una gran dama ro-mana, Melania, accompagnata dal dotto Rufino di Aquileia, fonda duemonasteri. Contemporaneamente Gerolamo, formato alla vita monasti-ca nel deserto siriaco, s’insedia a Betlemme: anche il suo monastero go-de della protezione di aristocratiche romane. Melania è imparentata conle più importanti famiglie romane; desiderosa d’informarsi della vita mo-nastica, si reca in Egitto. Evagrio Pontico, prima di stabilirsi presso leCelle, passa dal monte degli Ulivi, dove Melania l’accoglie e se ne pren-de cura; anche in futuro i due resteranno in contatto epistolare. Il mon-te degli Ulivi è così in contatto con i deserti d’Egitto, ma anche con icircoli aristocratici dell’Aventino e la Corte di Costantinopoli. Non sitratta di un caso isolato: alla fine del iv secolo e nella prima parte del v,numerose nobildonne contribuiscono allo sviluppo della vita religiosa aGerusalemme. È il caso di Melania la Giovane, che segue le tracce disua nonna, o, alla metà del v secolo, dell’imperatrice Eudocia che s’in-sedia in Palestina e contribuisce a trasformare Gerusalemme.

Il monachesimo urbano e suburbano che arriva a svilupparsi presen-ta tratti differenti. Una delle fondazioni di Melania la Giovane è un mo-nastero di recluse; tuttavia, perlopiù, i monasteri di Gerusalemme si in-tegrano con la vita locale: i monaci servono alcuni santuari e si distin-guono poco da semplici «spudei»; accolgono i pellegrini, assicurano ilfunzionamento degli ospizi, pregano per la propria fondatrice e la suafamiglia. C’è una grande distanza dal monachesimo eremitico egiziano.La grande fondazione di Giustiniano a Gerusalemme, la Nea («nuova»chiesa della Vergine), è l’esempio di questo tipo di istituzioni: servitada un gruppo di spudei, comprende un santuario della Vergine e dueospizi.

3.3. Laure e monaster i del deserto.

Contemporaneamente ai monasteri urbani, il monachesimo eremiti-co si sviluppa nelle zone desertiche dei dintorni di Gerusalemme [Hirsch-feld 661; Patrich 662] e vi prende la forma particolare della laura.

Secondo la tradizione, Caritone, originario dell’Asia Minore, all’ini-zio del iv secolo fonda le tre prime laure di Palestina: Faran, Duca (nonlontano da Gerico) e Suca (San Caritone). Nel v secolo, Eutimio († 473),un armeno, prosegue la sua opera, ma la laura che fonda sul modello di

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Faran nei pressi della strada da Gerusalemme a Gerico viene trasforma-ta in cenobio alla sua morte. Saba (439-532), un cappadoce che è passa-to da un monastero di Eutimio, fonda a sua volta nelle gole del Cedronla Grande Laura, che ospita presto 150 monaci. Saba crea anche altrimonasteri e i suoi discepoli continuano la sua opera, dimodoché il suobiografo, Cirillo di Scitopoli, dirà di lui che ha «trasformato il desertoin una città». Il monachesimo sabaita, come quello che era stato orga-nizzato da Caritone, è innanzitutto quello delle «laure», che si svilup-pano nel deserto di Giudea, ma anche altrove, nei dintorni di Gerusa-lemme e di Gerico.

La laura palestinese è un gruppo anacoretico dotato di una forte strut-tura centrale. I monaci vivono soli, o con uno o due discepoli, in celleseparate, scavate o costruite. Si riuniscono nella chiesa della laura il sa-bato e la domenica, secondo un ritmo simile a quello delle colonie se-mianacoretiche dell’Egitto. Altri edifici (refettorio, magazzini, taloraforesteria) completano il cuore della laura. I monaci, ampiamente auto-nomi all’interno della loro cella, sono tuttavia sottoposti a un egumenoe i servizi comuni sono organizzati in «diaconie» che i monaci esercita-no a turno. I confini della laura possono essere contrassegnati da torriconfinarie o da un muretto; spesso, una rete di sentieri facilita le rela-zioni tra le celle e il centro della laura. Le laure, riservate ai monaci dimaggior esperienza, possono utilizzare alcuni cenobi come noviziati.

Si sviluppa anche il monachesimo cenobitico: è finalizzato a se stes-so e ha la meglio sulle laure per numero d’insediamenti e di monaci. Al-cuni cenobi si collocano negli uadi del deserto e adattano la loro archi-tettura al rilievo. Altri s’insediano nell’altopiano semidesertico, o in re-gioni più fertili: è il caso dei monasteri di Marciano, vicino a Betlemme,di una certa importanza alla fine del v secolo; di Martirio, di cui l’ar-cheologia ha rivelato l’ampiezza e la ricchezza; di San Teodosio, cheTeodosio, il «Cenobiarca» per eccellenza, fonda a oriente di Betlemme,sull’altopiano al limitare del deserto, e che ospiterà diverse centinaia dimonaci di varie nazionalità.

L’attrattiva dei Luoghi Santi e i pellegrinaggi spiegano come mai ifondatori di tali monasteri e molti dei loro monaci non siano palestine-si d’origine. Il prestigio di un monachesimo eremitico più vicino ai mo-delli egiziani di quello di Gerusalemme costituisce un altro fattore delsuccesso di questo movimento. Di conseguenza, nel v secolo giunge asvilupparsi nei dintorni della Città Santa una regione monastica parti-colarmente densa. È significativo che il centro di gravità del monache-simo gerosolimitano tenda a spostarsi: mentre nella prima metà del se-colo gli «archimandriti» dei monasteri – i monaci cui il vescovo affida

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Carta 4. I monasteri nei pressi di Gerusalemme.

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MAR MORTO

GericoDuca

GerasimoFaran

Eutimio

MartirioTeoctistoGerusalemme

Teodosio

Betlemme San Saba(Grande Laura)

Suca(San Caritone)

Nuova Laura

Giordano

Cedron

10 km0

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la sorveglianza dei monasteri che dipendono dalla sua autorità – eranoscelti tra gli egumeni dei monasteri urbani, in seguito divengono titola-re della carica Marciano di Betlemme, e poi Teodosio e Saba. Dopo lamorte di questi ultimi, l’epoca delle grandi fondazioni sembra passata;tuttavia nulla indica un declino della potenza di questo monachesimoprima delle invasioni del vii secolo.

3.4. Cris i e diffus ione.

I monaci palestinesi hanno un ruolo importante nella vita religiosadel patriarcato di Gerusalemme. Nel 451 si schierano contro il loro ve-scovo, Giovenale, che ha aderito al concilio, e insediano uno dei loro sultrono di Gerusalemme. Dopo il ritorno di Giovenale, i monaci si oppon-gono all’episcopato calcedoniano. Solo alla fine del v secolo aderirannoalle decisioni di Calcedonia, sotto la guida dell’archimandrita Marcianodi Betlemme. Questo movimento, che si appoggia in particolare ai mo-nasteri del deserto, si accentua e a partire dal vi secolo i monaci dellaregione sostengono fermamente il calcedonianesimo e lo difendono neipatriarcati vicini [Perrone 414].

Poco dopo il 530, l’origenismo [Guillaumont 660], fino ad allora dif-fuso clandestinamente, esce alla luce e provoca una grave crisi. I mona-ci evagriani si contrappongono violentemente agli ortodossi, assumonoil controllo di monasteri importanti, fanno eleggere uno dei loro comevescovo di Gerusalemme e sono attivi fin nella stessa Costantinopoli.L’imperatore Giustiniano peraltro, allertato del pericolo dell’eresia, con-danna una prima volta l’origenismo nel 543 e poi lo fa nuovamente con-dannare da un concilio nel 553. La crisi origenista giunge allora al ter-mine: rivela l’intensità della vita intellettuale e la qualità del dibattitoteologico in alcuni monasteri della regione.

L’invasione persiana, con la presa di Gerusalemme nel 614, arrecaun grave colpo ai monasteri del deserto. Tuttavia Modesto, topoteretapatriarcale dopo il 614 e poi patriarca, fa in modo che alcuni di questimonasteri siano rioccupati. La crisi dell’inizio del vii secolo è così in par-te scongiurata e costituisce d’altro canto l’occasione, in conseguenza del-la dispersione dei monaci, di una certa diffusione del monachesimo pa-lestinese, che ha punti d’appoggio in Africa e a Roma. L’attività di Mas-simo il Confessore illustra contemporaneamente la cultura di alcunimonaci palestinesi e l’influenza di cui potevano godere. L’invasione ara-ba, per parte sua, non sembra aver toccato eccessivamente i monasterivicini a Gerusalemme, alcuni dei quali resteranno centri del cristianesi-mo melchita in terra islamica.

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4. L’Asia Minore.

Il monachesimo dell’Asia Minore non è ben conosciuto come quelloin Egitto e nel mondo siriaco. Alcuni documenti attestano l’esistenza dimonasteri in Licia, a Efeso, e anche altrove. Tuttavia, con l’eccezionedella periferia asiatica della capitale, che costituisce un problema a par-te, non si registra l’affermazione di alcuna regione monastica importan-te e l’interesse si concentra su due personaggi, entrambi del iv secolo,Eustazio di Sebastea e Basilio di Cesarea [Gribomont 676].

Nel 355, un concilio riunito a Gangra condanna un certo Eustaziocon i suoi discepoli e i canoni promulgati in quest’occasione permetto-no di conoscere gli abusi rinfacciati a queste comunità.

I discepoli di Eustazio, pretendendo che tutti i cristiani vivano nelcelibato e nella poverà, mettono in pericolo l’ordine sociale; inoltre sioppongono alla Chiesa ufficiale, vivendo lontano dalle città, organiz-zando le proprie riunioni al di fuori delle chiese, contestando la gerar-chia, rifiutando per esempio il culto dei martiri e seguendo costumi dif-ferenti da quelli degli altri cristiani.

Questo movimento appare come un ascetismo radicale di cui si sonovisti altri esempi. Lo stesso Eustazio, che conosce il monachesimo siria-no, sembra essere stato più moderato. Divenuto vescovo di Sebastea nel356, vi crea un ospizio, ma si vede contestare da alcuni dei suoi ex di-scepoli. La sua influenza personale si farà sentire fino alla capitale. Ba-silio di Cesarea, per parte sua, era imparentato con Eustazio, ma il mo-nachesimo di cui si fa promotore è più canonico. Le regole che scriveavranno una grande influenza sul monachesimo bizantino.

Dopo essere stato battezzato nel 355, Basilio si converte all’asceti-smo, ma, pur avendo intorno a sé esempi a cui ispirarsi – sua madre esua sorella vivono già in una sorta di monastero familiare –, non ne èsoddisfatto e parte per conoscere i monaci dell’Egitto e della Siria. Le«fraternità» ascetiche da lui create deriveranno così da una riflessionepersonale sui tipi di monachesimo esistente. Si tratta di comunità di ti-po cenobitico che vivono nella sottomissione a un superiore, in castità,povertà, lavoro e preghiera. Ben integrate nella Chiesa locale, tali co-munità si occupano delle opere di carità e forniscono in particolare unaparte del personale degli ospizi che Basilio fonda nei pressi di Cesarea(la «Basiliade»). Sembrano essere state numerose, e Basilio raccoman-da che non ve ne sia più di una per borgata. I bambini che vi vengonoammessi ricevono un’istruzione e vengono addestrati a un mestiere.

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5. Costantinopoli.

La capitale è il luogo di convergenza della maggior parte delle cor-renti ascetiche o monastiche osservate altrove. Come in altre regioni, auna situazione iniziale assai confusa, in cui il monachesimo fatica a di-stinguersi dall’ascetismo antico e a strutturarsi, fa seguito un periodocontrassegnato dallo sviluppo dei grandi monasteri.

Gli inizi del monachesimo a Costantinopoli sono in parte legati all’a-zione di Eustazio di Sebastea: un discepolo di quest’ultimo, il diaconoMaratonio, è incaricato dal vescovo della capitale Macedonio (342-46,351-60) di organizzare la vita monastica. Dal momento che Macedonioera sospettato di eresia, i monaci di Costantinopoli si sono riconosciutiin un antesignano più ortodosso: secondo la tradizione, è il siriano Isac-co che, intorno al 382, avrebbe fondato il primo monastero della città.Almeno fino al concilio di Calcedonia, coesistono due tipi di monache-simo [Dagron 677]. Da una parte, asceti isolati o piccoli gruppi s’insedia-no negli spazi poco urbanizzati, vicino a tombe o martyria. Dall’altra, apartire dalla fine del iv secolo si vanno sviluppando grandi monasteri.Nel 448, ventitre superiori di monasteri firmano la condanna del mono-fisita Eutiche, anch’egli archimandrita di un grande convento della ca-pitale. La fondazione di tali monasteri è spesso ricondotta a un monacogiunto dalla Siria o dall’Egitto, ma occorre tener conto anche dell’inte-resse crescente nutrito verso il monachesimo dall’aristocrazia costanti-nopolitana, testimoniato da numerosi monasteri maschili e femminili.

La ricca vedova Olimpiade, amica di san Giovanni Crisostomo cheallora era vescovo di Costantinopoli (398-404), dona alla Chiesa dellacapitale una parte del proprio enorme patrimonio (SC, 13 bis). Inoltrefonda nelle immediate vicinanze di Santa Sofia un monastero femmini-le dove è raggiunta da altre dame e che arriverà a ospitare fino a 250 re-ligiose. Olimpiade ottiene per se stessa e per chi le succederà di esserediaconessa della Grande Chiesa. Altri monasteri devono il proprio suc-cesso all’appoggio di un potente protettore: Isacco di Siria è aiutato dalricco Dalmazio, che sarà il suo successore e lascerà il proprio nome almonastero fondato sulla sua proprietà; il monastero di Dios, fondato daun omonimo monaco siriano, si sviluppa per parte sua grazie all’appog-gio dell’imperatore Teodosio II.

Il movimento delle fondazioni si perpetua per tutto il v secolo e nel-la prima parte del vi. Alcune liste risalenti al 518 e al 538 permettono diconoscere i nomi di 75 monasteri, tutti maschili. Il monachesimo femmi-nile, qui come altrove, è mal documentato ma senza dubbio importante.

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Occorre aggiungere alle fondazioni strettamente urbane tutti i mo-nasteri insediati nel retroterra di Costantinopoli. Nel v secolo, Danielelo Stilita († 493), giunto dalla Siria, colloca la propria colonna ad Ana-plo sulla riva europea del Bosforo, causando così la nascita di un mona-stero (BHG, 1489). Sulla sponda asiatica, gli Acemeti, venuti dalla Si-ria insieme ad Alessandro, s’insediano presso Irenio e si sviluppano conl’aiuto di una famiglia senatoria. Il loro monastero sarà uno dei più in-fluenti della regione e diffonderà le proprie usanze liturgiche. Una let-tera del 536, firmata da quaranta superiori che dipendono dal vescovodi Calcedonia, rende l’idea della vitalità del movimento monastico nel-le periferie di Costantinopoli.

La potenza del monachesimo costantinopolitano non è priva di in-flussi sulla vita religiosa della capitale. I monaci, per esempio, si con-trappongono violentemente al loro vescovo Nestorio. Alla fine del v se-colo, Daniele lo Stilita, disceso dalla propria colonna, dirige una mani-festazione contro l’imperatore Basilisco, che deve fare marcia indietro.I monasteri della capitale s’impegnano lentamente in favore del calce-donianesimo e alcuni, in occasione dello scisma di Acacio, si schieranoin favore di Roma: è il caso degli Acemeti, che questa volta hanno suc-cesso. Tuttavia, quando tenteranno d’imporre le proprie teorie cristo-logiche sotto Giustiniano, saranno condannati sia da Roma, sia dall’im-peratore. Il monachesimo costantinopolitano, in quest’epoca, non sem-bra più avere un ruolo autonomo nei dibattiti teologici.

6. Istituzionalizzazione: il «tagma» monastico.

A causa del loro numero, della loro disponibilità, del loro prestigio edella loro influenza, i monaci sono una potenza con cui, all’interno del-la Chiesa, bisogna fare i conti. Per quanto a partire dal iv secolo i ve-scovi di Alessandria abbiano saputo stringerli a sé e affermare la propriaautorità, nell’insieme dell’Impero la gerarchia ecclesiastica e le autoritàimperiali si doteranno solo progressivamente di testi normativi tramitei quali tenteranno di controllare un movimento che cela diversi perico-li. A livello locale, numerosi vescovi hanno cercato di sottomettere i mo-naci alla propria autorità, com’è testimoniato dai canoni di Rabbula aEdessa, dall’istituzione di un esarca dei monaci a Costantinopoli e daquella di uno o più archimandriti dei monaci a Gerusalemme, per mez-zo dei quali i vescovi controllano i monasteri. A livello imperiale, i ca-noni di Calcedonia [Ueding 682] e la legislazione giustinianea [Graniç680] segnano una svolta. Il concilio di Calcedonia stabilisce fermamen-

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272 La civiltà bizantina e i suoi fondamenti

te l’autorità dei vescovi: i monaci sono sottoposti all’ordinario del luo-go, senza il cui beneplacito non deve essere fondato nessun monastero;devono restare nel proprio convento senza immischiarsi degli affari nédella Chiesa né del mondo. Al contempo, il concilio si preoccupa dellastabilità dei monasteri, che, una volta fondati, non potranno essere se-colarizzati, così come i loro patrimoni. Giustiniano riprende e comple-ta l’opera di Calcedonia. Ogni monastero è dotato di un egumeno re-sponsabile nei confronti del vescovo ordinario. Lo stesso egumeno nonpuò governare più di un monastero. Il vescovo veglia sulle nuove fon-dazioni e pianta una croce nel luogo scelto; interviene inoltre nella no-mina degli egumeni. L’ammissione di postulanti, la durata del novizia-to, la condizione del monaco e dei suoi beni sono parimenti regolamen-tate. In particolare, la novella 133 tenta di imporre un modello di mo-nastero. Quest’ultimo non potrà essere misto, giacché i monasteri «du-plici» sono proibiti. Per quanto venga menzionata l’esistenza di esica-sti che vivono da soli, viene favorita la vita cenobitica: monaci e mona-che vivono in un monastero chiuso da un muro di recinzione; sottopo-sti all’autorità di un superiore, pregano, lavorano, mangiano e dormo-no insieme.

È difficile sapere in quale misura siano state applicate nell’Impero ledecisioni di Calcedonia o quelle di Giustiniano. In Siria, l’appoggio chela Chiesa giacobita delle origini trova presso alcuni monasteri mostra ilimiti della sottomissione dei monaci ai vescovi locali. Le leggi di Giu-stiniano non sembrano aver limitato più di tanto la diversità delle co-munità; testimoniano tuttavia dell’importanza accordata al tagma mo-nastico. Così come in numerose regioni dell’Impero i monasteri, nel vi

secolo, fanno ormai parte del paesaggio, il monachesimo nella medesi-ma epoca è divenuto un’istituzione importante della Chiesa imperiale.

1 In effetti il Natale, celebrato il 25 dicembre, al tempo del solstizio d’inverno, coincide conuna festa pagana di recente istituzione che commemorava la nascita del sole (natalis Solis in-victi). La scelta della data del Natale, tuttavia, si spiega con un calcolo interno al cristianesi-mo: secondo alcune tradizioni, il Cristo muore il 25 di marzo e sarebbe stato concepito in que-sta medesima data, in base alla quale si calcola il giorno della nascita.

2v. déroche, L’Apologie contre les Juifs de Léonce de Néapolis, TM, 12 (1993), pp. 45-104.

3 Cfr. anche cap. x.4 Cfr. anche cap. v e carta a p. 200.5 Cfr. anche cap. xiv, pp. 464-67.6 Brown 638; p. brown, The rise and function of the holy man in late Antiquity, JEChrSt, 6 (1998),pp. 353-76.

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bernard flusin

ix. La cultura scritta

L’epoca costantiniana segna l’inizio di un nuovo periodo nella storiadella cultura. I fattori di continuità sono certo considerevoli: la culturatradizionale – la paideia – resta un ideale che cementa le élites dell’Im-pero e inoltre le lega al passato, mentre il sistema educativo che la per-petua resta ampiamente inalterato. D’altra parte, i cristiani si sono giàdotati di una letteratura e, dopo un lungo confronto con la cultura elle-nica, hanno saputo trarre da essa quegli elementi che sembravano assi-milabili. Il regno di Costantino, tuttavia, provoca o accelera alcune mu-tazioni importanti. Il cristianesimo può dare libero corso alla propria fe-condità; d’altro canto, il peso crescente della pars Orientis e l’allentarsidei legami con un Occidente che cade nelle mani dei barbari rafforzanol’importanza culturale delle province in cui domina il greco. La fonda-zione di Costantinopoli e la presenza di organi centrali dello Stato in unprimo tempo sembrano favorire il latino, ma ha la meglio il movimentoinverso, e nell’Impero dei Romani, separato dalla sua parte occidenta-le, il greco s’impone come lingua dominante.

La cultura dell’epoca colpisce per la sua diversità e, se si eccettual’ambito scientifico, dove si registrano pochi progressi, per la sua vita-lità. Alla letteratura pagana o semplicemente profana, vigorosa fino alvi secolo, finiscono per aggiungersi, più numerose e più diversificate, al-cune produzioni propriamente cristiane che, in parte, condividono i va-lori dell’ellenismo ma riescono a distinguersene. A fianco della culturadominante, costituita dall’alleanza tra la paideia greca e il cristianesimoufficiale, i testi rivelano altre componenti importanti: una letteraturacristiana poco preoccupata dell’ellenismo tradizionale; religioni minori-tarie o represse; lingue letterarie diverse dal greco.

In un Impero che resta, per lungo tempo, quello delle città, i centriculturali sono numerosi e a fianco della nuova capitale, favorita dallapresenza della Corte, alcune grandi entità urbane come Antiochia e Ales-sandria mantengono un posto importante. L’evoluzione interna dell’Im-pero e le crisi che attraversa a partire dalla metà del vi secolo finiscono

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274 La civiltà bizantina e i suoi fondamenti

per trasformare le condizioni della vita culturale e della produzione let-teraria. La fioritura del basso Impero, il cui declino è percepibile dallafine del vi secolo, volge al termine, mentre cominciano i secoli oscuri.

i. una cultura dominante: l’ellenismo cristiano.

1. «Paideia» ellenica e cristianesimo.

La paideia – educazione e cultura – contribusce all’unità delle élites,di cui nelle sue forme elaborate costituisce l’appannaggio. I suoi valori,contestati in certi ambienti cristiani, s’impongono largamente alla so-cietà. In questa cultura essenzialmente letteraria, che fa riferimento aun numero limitato di testi classici, occupano un posto centrale la cono-scenza di una lingua dotta, distinta dal parlare quotidiano, e l’appren-dimento della retorica. Questi due elementi costituiscono un lasciapas-sare per chi vuole accedere a certe cariche di uno Stato che, nei suoi te-sti ufficiali, rispetta i medesimi codici linguistici e retorici. Perlopiùquesta cultura, generale e scolastica, resta a un livello modesto e solo unpiccolo numero di studenti si eleva fino ai gradi superiori della virtuo-sità retorica e della filosofia, mentre altri, dopo il corso del retore, pos-sono indirizzarsi verso una formazione più specializzata che dia acces-so alle carriere amministrative o alle professioni liberali.

La paideia greca, importante nella vita dell’Impero, è estranea al cri-stianesimo per la sua origine storica, i testi cui fa riferimento e certi va-lori che trasmette. Può sembrare addirittura incompatibile, dal momen-to che è legata a un’altra religione ancora esistente. L’antagonismo è sot-tolineato presso alcuni cristiani che pongono la semplicità del Vangeloal di sopra della saggezza degli Elleni e si spingono al punto di condan-nare la letteratura pagana (Costituzioni Apostoliche, 1.6, SC, 320). Dalpunto di vista dei pagani, l’appropriazione della cultura ellenica da par-te dei cristiani può risultare scandalosa, come si vede dall’esempio del-l’imperatore Giuliano, che cerca di escludere i maestri cristiani da uninsegnamento fondato su autori pagani [cfr. p. 10]. Il fatto più impor-tante è tuttavia la simbiosi che si viene a creare tra il cristianesimo e lapaideia greca [ Jaeger 685], di cui i grandi dottori alessandrini del ii e iiisecolo, Clemente e Origene, sono i migliori esempi. In particolare, ri-sulta notevole che i cristiani non abbiano cercato di creare un loro spe-cifico sistema d’insegnamento, ma si siano accontentati, come maestri

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e come allievi, di quello già esistente [Marrou 700]. Ad altri livelli, laretorica è accolta di peso dagli autori cristiani, che per giunta adattanoai propri testi le procedure di commento che trovano presso i pagani. Inuna dimensione interiore, la filosofia greca antica e contemporanea eser-cita la propria influenza sul cristianesimo, cui trasmette gli strumentidella logica e della dialettica, nonché importanti elementi dottrinali chevengono assimilati dai cristiani per raffinare o arricchire la propria eti-ca, la propria antropologia, la propria cosmologia e la propria teologia.

2. Oralità e scrittura.

Se per noi l’accesso privilegiato alla cultura della tarda Antichità pas-sa dalla scrittura, conviene tuttavia sottolineare l’importanza dell’ora-lità. Numerosi testi trasmessi per iscritto sono stati concepiti per esse-re detti, letti, recitati, cantati. Per la letteratura profana, basta ricorda-re che l’eloquenza dimostrativa – «epidittica» – implica una recitazionedi fronte a un pubblico. Il sofista, educatore di studenti, è anche un vir-tuoso che dà un saggio della propria arte in occasione di sedute organiz-zate o di feste che contrassegnano la vita delle famiglie e delle città. An-che la poesia suppone spesso un’esecuzione orale: a Costantinopoli, illungo poema dedicato a Santa Sofia da Paolo Silenziario1 è recitato da-vanti all’imperatore e alla Corte in occasione della seconda inaugurazio-ne della chiesa.

Per quanto riguarda il cristianesimo, l’importanza dell’oralità è an-cora maggiore. L’eloquenza cristiana, infatti, per certi versi riprende leabitudini dell’eloquenza profana, ma risponde anche alle sue esigenzepeculiari. Le necessità di un insegnamento rivolto a un ampio pubblicoportano alla produzione di innumerevoli omelie e catechesi. Convieneinfine ricordare la pratica liturgica delle letture, della salmodia e degliinni.

Scrittura e lettura, la cui diffusione è difficile da misurare2, sembra-no essere state più presenti nella parte orientale dell’Impero che in Oc-cidente. Senza dubbio sono familiari solo a un piccola minoranza dellapopolazione, ma non sono rare, e gli Apoftegmi dei Padri mostrano peresempio Amun di Nitria, allora un giovane contadino benestante, cheestrae un libretto dalla tunica per leggerlo a sua moglie [cfr. sopra, p.254].

La scrittura è presente in numerose forme: lettere e documenti pri-vati, spesso redatti da scrivani pubblici, iscrizioni, tavolette scolastichee ostraka, e infine libri. Questi ultimi hanno ormai perlopiù assunto la

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forma del codice, ossia del libro impaginato formato da un fascicolo oda più fascicoli legati tra loro [Blanchard 690; Cavallo 689].

Il codice, nel corso dei primi secoli dell’era cristiana, entra in con-correnza con la forma classica del libro, il rotolo (volumen), e infine lasoppianta. Più pratico ed economico, è stato privilegiato dai cristiani.Può essere fatto di papiro o di pergamena; alcuni codices di papiro han-no un aspetto scadente, con una scrittura poco stilizzata. La nuova con-dizione del cristianesimo fa evolvere la situazione e i grandi onciali bi-blici giunti fino a noi sono, al contrario, libri curati, per non dire lus-suosi. I materiali, l’impaginazione, la cura rivolta alla scrittura, lacopertura ed eventualmente l’illustrazione sono stati impiegati dai cri-stiani per accrescere il prestigio delle loro Scritture. Parallelamente, cisi serve del codice anche per la letteratura profana o tecnica, e anche inquel caso si adottano presentazioni lussuose che fanno concorrenza agliantichi rotoli, com’è testimoniato dal Dioscoride di Vienna, offerto adAnicia Giuliana [cfr. cap. x, p. 304]. Anche le produzioni più modestepossono essere state assai costose e gli asceti che possiedono qualche li-bro in una nicchia si vedono rinfacciare la propria deroga alla povertà.I copisti sono spesso isolati, ma possono essere esistiti anche dei labora-tori (scriptoria), senza dubbio come quello che, sotto la sorveglianza diEusebio, prepara le cinquanta copie della Bibbia ordinate da Costanti-no, o anche come quello che è aggregato alla biblioteca di Costantino-poli. Il commercio dei libri è attestato per esempio a Costantinopoli, do-ve le rivendite dei librai sono radunate presso la Basilica. È là che si tro-va anche la grande biblioteca imperiale organizzata durante il regno diCostanzo II, distrutta dall’incendio del 475-76, senza dubbio riorganiz-zata sotto Anastasio, e che avrebbe annoverato diverse decine di mi-gliaia di volumi. Esistono anche biblioteche private, come quella di Gior-gio di Cappadocia, di cui l’imperatore Giuliano conosceva il valore, oquella del dotto Stefano ad Alessandria, intorno al 6003.

Il cristianesimo contribuisce a rendere il libro un oggetto relativa-mente familiare. Più che alle biblioteche di studio, occorre pensare allamoltiplicazione dei libri implicata dalla semplice pratica del culto cri-stiano. Ogni monastero, ogni chiesa regolarmente servita deve dotarsidi alcuni libri liturgici e numerosi inventari conservati attestano questarealtà. I papiri egiziani testimoniano tuttavia una flessione nella produ-zione di libri a partire dal iv secolo e una rarefazione per la fine del vi

e il vii secolo.L’importanza del libro non è connessa soltanto alla sua diffusione,

ma anche al prestigio di cui gode in diversi ambienti. La paideia è essen-zialmente libresca e vi gioca un ruolo importante il commento ai poeti

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e poi ai prosatori classici; anche il neoplatonismo dà ampio spazio all’in-terpretazione di un corpus filosofico. Con Teodosio e Giustiniano, leleggi imperiali sono raggruppate in «codici». Quanto alle religioni, chesiano minoritarie come il manicheismo e l’ebraismo, o dominanti comeil cristianesimo, sono perlopiù religioni del libro e accordano a quest’ul-timo uno spazio privilegiato.

3. Il greco, lingua dominante.

Le lingue parlate nell’Impero sono numerose: il besso in Tracia; ilcappadoce, il galata, l’isaurico, per esempio, in Asia Minore. Più a sudcomincia il territorio semitico, e nella valle del Nilo l’ultima forma del-l’egiziano, il «copto», è largamente maggioritaria. Due di queste lingue,il copto e il siriaco, hanno dato origine a una letteratura. Il latino e ilgreco, a causa del loro statuto, devono essere considerati a parte [Da-gron 695; Rochette 1013].

Il latino è la lingua dominante di alcune province della pars Orientis.La divisione tra Oriente e Occidente, infatti, non ha seguito una fron-tiera linguistica e l’Illirico Orientale e la Tracia conservano popolazio-ni latinofone [cfr. infra, p. 341]. La riconquista giustinianea reintegrerànell’Impero vaste regioni in cui predomina il latino. Infine, anche al difuori di questi territori, alcuni ambienti adoperano il latino: è il caso del-la Corte imperiale, almeno fino alla prima parte del v secolo. Il latino èanche una lingua che si impara presso maestri specializzati. Teodosio II,per esempio, si preoccupa di dotare la propria capitale di dieci gramma-tici e di tre oratores latini. Circolano manoscritti latini o bilingui e nellabiblioteca imperiale lavorano tre antiquarii latini. La letteratura latinaclassica continua a essere letta e apprezzata. Ancora nel vi secolo, a Co-stantinopoli vengono copiati manoscritti latini. Certi poeti egiziani co-noscono tale lingua e lo storico Ammiano Marcellino (iv secolo) la uti-lizza per la propria opera, come più tardi, nel vi secolo, il poeta e orato-re Corippo, che comunque era originario dell’Africa.

Tuttavia, l’importanza del latino deriva soprattutto dal suo status tra-dizionale di lingua di potere. Gli imperatori l’adoperano non solo nel ivsecolo, ma ancora nel vi. Negli atti governativi, nella legislazione, neglieserciti occupa per molto tempo un posto di predominio che passa al gre-co solo progressivamente. Il regno di Giustiniano segna una tappa im-portante. Il Codice giustinianeo, che riunisce le leggi imperiali anteriorial 529, è quasi interamente in latino, così come il Digesto e le Istituzio-ni. Le Novelle, tuttavia, sono essenzialmente in greco. Al contempo, il

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278 La civiltà bizantina e i suoi fondamenti

latino perde terreno nell’alta amministrazione. Resta tuttavia indispen-sabile per gli studenti di diritto e Giustiniano bada a lasciargli uno spa-zio. Il senso dell’evoluzione è chiaro. La conoscenza e l’impiego del lati-no sono in diminuzione. Alla fine del vi secolo, il futuro papa Gregoriosi lamenta – senza dubbio con qualche esagerazione – di non trovare aCostantinopoli un interprete che sappia il latino, e Gregorio stesso nonparla il greco4. In occasione dei concili, nel periodo anteriore, si vede chei vescovi orientali non comprendono questa lingua. Al vertice dello Sta-to, la lingua tradizionale del potere scompare e si fossilizza.

Il greco, per parte sua, è parlato in numerose regioni: Grecia conti-nentale, isole, ovest dell’Asia Minore. Altrove, è ben attestato dapper-tutto nelle città e si diffonde nelle campagne come lingua degli scambi,ma anche del cristianesimo e delle élites. Lingua di prestigio e di cultu-ra, è assai frequentemente adoperata nelle iscrizioni e domina la produ-zione letteraria. Non è uniforme, ma comporta diversi livelli. Per le ope-re dotte, i letterati, da un capo all’altro dell’Impero, impiegano una lin-gua artificiale, ispirata dall’usus degli autori della seconda sofistica. Altreopere, meno ambiziose, utilizzano una koinè più popolare e certi testiarrivano ad aprirsi alla lingua in evoluzione attestata dai papiri docu-mentari. Il greco, lingua viva, non cessa infatti di trasformarsi5: le suestrutture si semplificano e il suo lessico si arricchisce di prestiti da altrelingue, soprattutto il latino. Adatto a ogni impiego, si sostituisce pro-gressivamente al latino come lingua del potere e ottiene infine la posi-zione dominante che può essere considerata come caratteristica della ci-viltà bizantina.

ii. l’insegnamento e le sue istituzioni.

1. I tre gradi dell’insegnamento.

L’insegnamento, stabile nelle sue istituzioni e nei suoi contenuti, èripartito in tre gradi [Marrou 700]. Il primo, quello del grammatistes, sirivolge a bambini in tenera età (quasi esclusivamente i maschi) e corri-sponde all’apprendimento della scrittura, della lettura e dei rudimentidel calcolo. Tali scuole di primo grado sono le più diffuse. Il contenutodell’insegnamento è variabile e alcuni maestri, più ambiziosi, sconfina-no nel grado successivo.

Quest’ultimo spetta al grammatikos [Kaster 699]; è riservato a un’é-

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lite sociale per la quale la cultura letteraria è un importante segno distin-tivo. I bambini di questa élite, destinati a studi più lunghi rispetto aglialtri, possono aver profittato di un insegnamento privato impartito nel-la loro famiglia. Con il grammatikos, penetriamo nel cuore della paideia.Il bambino, che frequenta questo maestro talora a partire dagli 8 annidi età, perlopiù qualche anno più tardi, apprende a padroneggiare unaforma artificiale della lingua greca. Entra in familiarità con un corpusdi testi classici che il maestro gli fa apprendere e di cui gli rivela il sen-so. L’arte del grammatico può infatti essere definita, con Damascio, co-me «l’arte che si occupa della spiegazione dei poeti e della correzionedell’elocuzione greca». Il grammatikos aiuta il bambino a leggere i poe-ti – e innanzitutto Omero, sul quale ha spesso imparato a leggere – dalpunto di vista del contenuto (personaggi, luoghi, realia), ma soprattut-to sviluppandone un commento grammaticale e morale. L’insegnamen-to, già a questo livello, può aprirsi ai prosatori e ai primi elementi dellaretorica.

Questo studio trova il suo pieno sviluppo presso il maestro del terzostadio, il retore o sofista. I giovani che ne hanno l’attitudine, e i cui ge-nitori possono finanziarne gli studi, vanno (in qualche caso condotti an-cora dal pedagogo) a seguire i corsi del retore della loro città o si recanoin un centro più rinomato. Sono allora agli inizi dell’adolescenza e pos-sono restare presso il maestro un solo anno (ma ciò è considerato insuf-ficiente) o perlopiù tre anni, talora fino a cinque o più. Uno studentepuò seguire successivamente i corsi di diversi retori.

Lo stesso Libanio, dopo aver seguito fino a 15 anni i corsi di un pri-mo retore di Antiochia, diviene, dopo la morte del suo maestro e la pro-pria conversione alla retorica, allievo di un secondo, presso il quale ri-mane fino ai 20 anni, prima di andare a perfezionare la sua formazionecon un soggiorno di cinque anni ad Atene6.

Presso il retore, il giovane studia i prosatori classici dell’ellenismopagano; in certe scuole affronta tuttavia anche la letteratura cristiana.I papiri scolastici attestano che alcuni autori cristiani (Melitone di Sar-di, Gregorio di Nazianzo) hanno potuto essere utilizzati come modelliscolastici. Tuttavia, i metodi e il contenuto dell’insegnamento si evol-vono poco. La Lettera ai giovani sul buon uso delle lettere elleniche di Ba-silio di Cesarea7 mostra come alcuni cristiani si possono accontentaredell’insegnamento tradizionale.

Lo studio dei classici non ha per fine una cultura disinteressata. Il re-tore insegna ai suoi allievi a comporre buoni discorsi; potranno così di-venire a loro volta grammatici o retori, indirizzarsi verso il mestiere diavvocato o, approfittando delle relazioni del loro maestro e della loro fa-

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miglia, entrare nell’amministrazione imperiale. La filosofia, che da mol-to tempo non è più considerata incompatibile con la retorica, può esserestudiata con quest’ultima o essere oggetto di un insegnamento specifico.

Le conoscenze speciali richieste dalle professioni liberali sono acqui-site dopo la permanenza presso il retore. Per quanto riguarda la medici-na, mentre la teoria appartiene al bagaglio dell’uomo colto, l’arte medi-ca in sé viene appresa presso i medici delle città o, in pochi centri comeAlessandria, presso maestri specializzati. Anche gli architetti ricevonola propria formazione presso uno del mestiere. L’unico insegnamentospeciale che dispone di un cursus sviluppato è quello del diritto, che,conformemente alla tradizione romana, occupa un posto a parte. Teo-dosio II fa in modo che sia insegnato a Costantinopoli, ma il centro prin-cipale degli studi giuridici, fino al regno di Giustiniano, resterà Beirut[Collinet 703]. Nell’Antiochia del iv secolo, Libanio si lamenta di vede-re gli studenti lasciare la retorica per il diritto e gli studi che vi sono as-sociati: la tachigrafia, arte del notarios, e il latino. Tuttavia retorica e di-ritto, piuttosto che concorrenti, sono complementari, dal momento chela lingua del diritto imperiale ha anch’essa una condizione letteraria emolti scholastikoi (uomini di legge), con una solida formazione retorica,occupano un posto ragguardevole nella vita culturale del basso Impero.

2. Il ruolo della città e dello Stato.

Le scuole del basso Impero sono spesso istituzioni private i cui mae-stri sono retribuiti dai genitori degli allievi. La Chiesa, per parte sua, haun ruolo assai ridotto.

In certi monasteri si insegnano ai novizi i rudimenti per leggere leScritture, principalmente il salterio, e alcuni bambini che non erano de-stinati alla vita religiosa hanno potuto approfittare di tale insegnamen-to, secondo una pratica che viene biasimata dal concilio di Calcedonia.Cirillo di Scitopoli segnala peraltro che sant’Eutimio era stato istruitoda chierici del vescovato di Melitene8. Non si tratta senza dubbio di uncaso isolato, ma se si eccettua il didaskaleion di Alessandria, che non èun luogo d’insegnamento generale e di cui si perdono le tracce assai pre-sto, le scuole di Edessa sono l’unico istituto esclusivamente cristiano distudi superiori in tutto l’Impero; la formazione che vi si riceve è religio-sa. La più celebre di tali scuole, quella dei Persiani, è chiusa definitiva-mente sotto Zenone e si trasferisce a Nisibi, in territorio persiano.

Il ruolo dello Stato e delle città è importante. È difficile sapere quan-te città, nell’Impero d’Oriente, si siano preoccupate di favorire l’inse-

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gnamento di un retore o anche di un grammatico. Alcune di esse, a ognimodo, l’hanno fatto, senza dubbio molte di più di quanto lascerebbesupporre la lista dei casi sicuramente attestati.

L’insegnamento dei retori è quello meglio conosciuto e l’Autobiogra-fia di Libanio, in particolare, è ricca di dettagli. La bulè della città sce-glie i maestri che saranno titolari di un insegnamento pubblico. Non sipuò superare un numero fisso, giacché questi maestri usufruiranno diesenzioni fiscali. Ad alcuni, la bulè attribuisce anche uno stipendio chesi aggiunge agli onorari versati dagli allievi. Ad Antiochia, Libanio, re-tribuito dalla città, insegna in una sala del bouleuterion. È aiutato da di-versi assistenti. Ad Antiochia ci sono, oltre ai grammatikoi, altri retoricoi quali Libanio tenta di stringere un accordo per impedire che gli al-lievi, approfittando di una concorrenza selvaggia, passino da un mae-stro all’altro.

Anche nelle province l’azione dello Stato è chiara. Si rivela però dif-ficile da valutare e ci si può chiedere per esempio se le nomine dei pro-fessori da parte delle curie fossero sottoposte all’approvazione delle au-torità imperiali. La legge del 17 giugno 362, con la quale Giuliano cer-ca di limitare la presenza dei cristiani nell’insegnamento, prevede che iprofessori pubblici o privati debbano essere scelti dal consiglio dellacittà, la cui decisione sarà portata a conoscenza dell’imperatore. Questalegge è ripresa nel Codice teodosiano, ma si dubita che sia stata appli-cata dopo il regno di Giuliano. Tuttavia, vediamo il governo interveni-re nella nomina dei professori pubblici in parecchi casi: questi interven-ti sembrano più saltuari che regolari. I maestri privati, invece, sfuggo-no al controllo. Una legge del 425 si limita a proibir loro di utilizzare, aCostantinopoli, gli auditoria riservati all’insegnamento pubblico e li con-fina in locali privati.

Secondo una politica attestata fin dall’alto Impero e perseguita da-gli imperatori cristiani, nelle città vengono accordate importanti immu-nità fiscali a un certo numero di professori e alle loro famiglie. Lo Sta-to, peraltro, versa direttamente degli stipendi, in particolare ai profes-sori pubblici della capitale, ma anche a certi maestri di provincia, persinoin città modeste come Elusa in Palestina. Dopo la riconquista, Giusti-niano, nell’intento di ristabilire l’insegnamento a Cartagine, prevede diversare a ciascuno dei due grammatici e dei due retori che fa nominareuno stipendio annuale equivalente a 70 solidi. Le autorità imperiali pos-sono intervenire anche nella retribuzione dei professori da parte dellecittà. Infine, l’imperatore può conceder loro degli onori, sia a titolo per-sonale, sia in maniera regolare.

Risulta difficile dire se l’intervento dello Stato subisca un’evoluzio-

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ne dal iv al vi secolo. L’accusa mossa da Procopio a Giustiniano di averdistrutto l’insegnamento è sospetta, ma può testimoniare un cambia-mento. Il vi secolo sembra effettivamente segnare una crisi del sistemaeducativo, dovuta alla situazione generale dell’Impero.

3. Principali centri d’insegnamento.

Per quanto numerose città mantengano dei retori e dei grammatici,o lascino esercitare vari maestri privati, i centri culturali importanti so-no molto scarsi e presentano fisionomie diverse.

Costantinopoli deve la sua importanza alla propria condizione di ca-pitale imperiale. L’esempio di Diocleziano, che alla fine del iii secoloaveva sviluppato l’insegnamento a Nicomedia, mostra che gli imperato-ri hanno avuto a cuore di patrocinare lo sviluppo culturale delle città incui risiedevano. Nella capitale, sotto Costanzo, Libanio insegna pubbli-camente la retorica greca e sappiamo che era rappresentata anche la re-torica latina. Alla metà del iv secolo, la vita culturale a Costantinopoliè segnata dalla personalità di Temistio, anch’egli un pagano, filosofo eretore, che ha un ruolo importante come consigliere di Costanzo [Da-gron 719]. In quest’epoca, gli studenti sono già numerosi a sufficienzaperché una legge del 370 cerchi di respingerne qualcuno. Sotto Teodo-sio II viene organizzata, con una costituzione del 27 febbraio 425, quel-la che anacronisticamente si chiama l’«Università» di Costantinopoli[Lemerle 686].

I professori privati insegneranno in dimore private, mentre l’audito-rium imperiale, sul Campidoglio, è riservato ai maestri dell’insegnamen-to pubblico, che non potranno cumulare alla loro carica un insegnamen-to privato. La legge si occupa poi delle materie insegnate e del numerodi professori retribuiti: tre oratores e dieci grammatici per il latino; cin-que sofisti e dieci grammatici per il greco; due professori di diritto, unodi filosofia. Due testi completano la disposizione: una legge del 27 feb-braio 425 prevede che ciascun professore disporrà di una sala a parte;un’altra legge del 427 attribuisce ad alcuni professori che insegnavanonella capitale la comitiva di prima classe e prevede la medesima ricom-pensa per ogni professore titolare nella capitale, dopo vent’anni d’inse-gnamento.

Se si tiene conto, inoltre, dell’esistenza di una ricca biblioteca pub-blica [Wendel 707], si vede che la sollecitudine imperiale ha saputo do-tare la capitale di istituzioni che le assicurano una buona posizione nel-l’Impero d’Oriente.

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Il caso di Atene è totalmente differente. Il suo ruolo culturale, chenon deve niente alla sua situazione amministrativa, deriva completa-mente dal passato. In effetti, si tratta dell’unica città «universitaria»della tarda Antichità, ossia l’unica dove le scuole hanno un ruolo impor-tante.

L’Autobiografia di Libanio, l’Elogio di Basilio di Gregorio di Nazian-zo e le Vite dei sofisti di Eunapio di Sardi ci illuminano sull’insegnamen-to ad Atene, dove si trovano giustapposte varie scuole spesso rivali, cia-scuna delle quali costituisce un’unità a parte. Gli studenti, giunti da tut-to l’Impero e disputati dai retori, si riuniscono presso il maestro indimore private. I sofisti, come altrove, si dividono tra titolari di catte-dre pubbliche e professori privati. In città ce ne possono essere fino adodici o quindici attivi contemporaneamente. L’Accademia neoplatoni-ca, spesso chiamata la Scuola di Atene, è un’istituzione privata, con pro-prie risorse che le derivano in particolare dai beni che le sono stati in-testati nel iv secolo da Plutarco (di Atene). È costituita da un capo del-la scuola (scolarca), da alcuni filosofi e da un piccolo gruppo di studentidi alto livello. Il v secolo è contraddistinto dall’attività di Proclo a ca-po dell’Accademia. Nel vi secolo, l’insegnamento ad Atene declina. Leleggi di Giustiniano, secondo Malala, colpiscono in particolare l’Acca-demia neoplatonica, che è chiusa nel 529 [Beaucamp 254]. I filosofi, se-condo Agazia, partono allora per la Persia, ma presto tornano nell’Im-pero. L’invasione slava, alla fine del vi secolo, arreca alla città un colpomortale.

A lungo si è contrapposta la tradizione filosofica di Atene a quellacontemporanea di Alessandria [Blumenthal 701]. A dire il vero, nume-rosi filosofi attivi ad Atene lo sono stati anche ad Alessandria. L’inse-gnamento nella capitale egiziana è particolarmente attivo e dura più chead Atene: ancora nel vii secolo, Stefano di Alessandria – forse da iden-tificare con Stefano di Atene – vi insegna, prima di recarsi a Costanti-nopoli su invito di Eraclio. Ad Alessandria ha sede anche un approfon-dito insegnamento medico.

In rapporto ad Alessandria, Antiochia sembra più defilata. Le sue isti-tuzioni d’insegnamento sono quelle di una grande città, la terza dell’O-riente, e di una capitale regionale. Nel iv secolo gode della presenza diun oratore eccezionale, Libanio, tornato a insegnare nella propria patria,dove attira numerosi studenti [Petit 705-6]. Le sue opere costituisconola miglior testimonianza di ciò che poté essere il ruolo di un sofista.

Anche la città di Gaza, nella Palestina meridionale, è celebre per lasua «scuola». Non sembra tuttavia aver sviluppato istituzioni differen-ti da quelle di altre città, come Cesarea di Palestina o Cesarea di Cap-

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padocia, ma alla fine del v e nel vi secolo i suoi sofisti sono stati più bril-lanti che altrove e le loro opere in prosa o in versi sono state conserva-te in maniera migliore. A fianco di Enea di Gaza, formato ad Alessan-dria e attivo come sofista intorno al 500, e di Giovanni di Gaza, poetacontemporaneo di Giustiniano, nonché di due Zosimi, occorre segnala-re soprattutto due detentori di una cattedra municipale di retorica, en-trambi cristiani: Procopio di Gaza (465 - c. 527), formato ad Alessan-dria, e il suo discepolo e successore Coricio.

La scuola di Beirut, in Fenicia, è un caso particolare [Collinet 703].A partire dal ii secolo è dedicata al diritto e sotto Giustiniano, primadella sua chiusura provocata dai gravi terremoti seguiti al 550, Beirut èl’unica città oltre a Roma e Costantinopoli dove sia attestato questo in-segnamento. L’organizzazione degli studi, con un cursus di quattro e suc-cessivamente cinque anni, è ben conosciuta, in particolare tramite la Vi-ta di Severo di Antiochia di Zaccaria di Gaza (Patrologia orientale, 2), che,dopo essersi formato retoricamente ad Alessandria, viene a prepararsial suo futuro mestiere di avvocato presso alcuni maestri di Beirut.

iii. la letteratura di lingua greca.

La produzione scritta, nel basso Impero, non è separata dalle prati-che scolastiche, e questo spiega il posto occupato dai commentari o daitrattati tecnici, nonché dalla retorica e dalla poesia. La vitalità della let-teratura tuttavia, oltre che dalla funzione sociale della paideia, derivaanche dalla nuova posizione occupata dal cristianesimo. Il periodo pro-tobizantino infatti è caratterizzato dalla coesistenza di una letteraturaprofana, classicizzante, e di una letteratura cristiana contraddistinta daun duplice riferimento alla cultura greca e alla Bibbia. In parte al mede-simo livello della letteratura profana, tale letteratura esplora anche altriregistri, modificando i generi tradizionali, rivestendo forme nuove e im-piegando, a fianco della lingua dotta, forme di greco più semplici.

La complessità di questa produzione letteraria, in cui si contrappon-gono testi profani, se non pagani, e cristiani, ma anche, all’interno del-la stessa letteratura cristiana, correnti dotte e correnti volgari, rende dif-ficile ogni giudizio d’insieme sul periodo. Piuttosto che parlare di un de-clino e opporre la fecondità del iv secolo e della prima parte del vall’epoca successiva, meno brillante per la letteratura dotta, si può esse-re sensibili ad alcune evoluzioni che rendono l’età di Giustiniano un se-

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colo importante per una letteratura meno classica; il cedimento è co-munque netto alla fine del vi secolo.

1. Importanza della letteratura profana.

La letteratura profana resta legata ai valori dell’ellenismo; può esse-re anche apertamente pagana e occorre tener conto, a partire da Giam-blico all’inizio del iv secolo fino a Simplicio sotto Giustiniano, dell’im-portanza del movimento neoplatonico. Senza dubbio i filosofi di questatendenza costituiscono solo una piccola cerchia, presente soprattutto adAtene e Alessandria, ma godono di una certa influenza anche presso al-cuni cristiani, che essi combattono apertamente, come fa Proclo nel vsecolo, o più tardi in maniera velata e che nondimeno seguono il loro in-segnamento o leggono le loro opere. Quest’ambiente assai fecondo pro-duce essenzialmente commentari di Platone e di Aristotele, ma gli sia-mo debitori anche di biografie: Vita di Porfirio di Proclo, Vita di Isido-ro di Damascio, Vite dei sofisti di Eunapio. Questa corrente filosoficacessa di essere esclusivamente pagana solo in epoca assai tarda e nell’A-lessandria del vi secolo la conversione di un Giovanni Filopono, filosofoe contemporaneamente teologo cristiano, segna un punto di svolta.

La filosofia, bastione del paganesimo, è un caso estremo. Negli altricampi, la letteratura profana è un luogo di coesistenza piuttosto che diconflitto tra autori di cui talora è inutile domandarsi a quale religioneappartenessero. La retorica occupa un posto di primaria importanza[Kennedy 720]. Si tratta di un’arte codificata e la sua teoria esercita lapropria influenza su tutti i generi letterari. All’inizio dell’Impero cri-stiano, produce ancora nuovi manuali: se Ermogene e Menandro Reto-re appartengono all’epoca anteriore, Aftonio, i cui progymnasmata (eser-cizi preparatori) diventano dei classici, è un autore della fine del iv se-colo. La retorica è soprattutto un’arte pratica. Sia pagani impegnati comeLibanio [Schouler 721] e l’imperatore Giuliano (iv secolo), sia cristiani,tra i quali spicca soprattutto, nel iv secolo, l’oratore cristiano per eccel-lenza, Gregorio di Nazianzo, seguito più tardi da Giovanni Crisostomoe ancora da Procopio e Coricio di Gaza (vi secolo), hanno lasciato unaproduzione abbondante e pregevole. Tale eloquenza non si limita allafunzione epidittica: può avere ancora una portata politica, come dimo-stra nel iv secolo l’esempio del pagano Temistio.

La poesia, importantissima nell’insegnamento e rivale della retoricain prosa, di cui assume certe funzioni, è oggetto di una vera infatuazio-ne collettiva che è rispecchiata al contempo dalla moltiplicazione delle

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iscrizioni metriche, nel v e vi secolo, e dal movimento di poeti itineran-ti (iv-v secolo) di origine egiziana e perlopiù pagani che girano di cittàin città a cercare le forme di mecenatismo che assicureranno la loro for-tuna e permetteranno loro di arricchirsi nell’amministrazione imperia-le [Cameron 708]. Alcuni nomi meritano di essere segnalati: Nonno diPanopoli, celebre per l’epopea delle Dionisiache, ma anche per una Pa-rafrasi del Vangelo di Giovanni, divenuto una sorta di caposcuola [Chu-vin 710]; Cristodoro di Copto, un altro egiziano, cui dobbiamo una de-scrizione dei bagni di Zeusippo a Costantinopoli; Giovanni di Gaza ePaolo Silenziario, che praticano analogamente il genere dell’ekphrasis(descrizione); Agazia Scolastico, autore di epigrammi tramandati dal-l’Antologia palatina [Cameron 709].

La storia profana, profondamente permeata di retorica, resta un ge-nere dotto, praticato sia da pagani come Eunapio e Zosimo [Paschoud717] sia da cristiani. Gli storici, secondo la tradizione della storia per-petua, prendono spesso le mosse da un predecessore: così giungono aformare un catena che va da Eunapio di Sardi all’inizio del v secolo fi-no a Teofilatto Simocatta alla fine del regno di Eraclio e la cui succes-siva interruzione è indice dell’impoverimento della vita culturale. Tragli storici profani si possono segnalare specialmente Ammiano Marcel-lino, che nel iv secolo scrive in latino le sue Res Gestae [164], e Proco-pio di Cesarea, attivo sotto Giustiniano, che a fianco della sua grandeStoria delle guerre ha lasciato dei curiosi Anecdota (la «Storia segreta») eun lungo trattato Sulle costruzioni dell’imperatore Giustiniano [De Aedi-ficiis 181; Cameron 714].

2. Vitalità della letteratura cristiana.

La qualità della letteratura pagana fa comprendere di fronte a qua-le sfida si trovino gli autori cristiani. I loro testi sacri sono disprezzatidai letterati e i cristiani hanno il dovere di dimostrare di poter stare al-la pari con i propri contemporanei pagani e di essere anch’essi i legit-timi eredi della cultura ellenica. Riescono a farlo con successo gli auto-ri dell’«età dell’oro della patristica», che nel secolo successivo alla fon-dazione di Costantinopoli sviluppano la dottrina cristiana per darle lasua forma classica. I tre dottori cappadoci, Basilio di Cesarea, Grego-rio di Nissa e Gregorio di Nazianzo – il Teologo, e l’oratore cristianoper eccellenza –, con una solida formazione retorica e filosofica, bril-lano in vari generi: eloquenza sacra, lettere, poesia, esegesi, trattati teo-logici, spirituali o ascetici. Un discepolo di Gregorio di Nazianzo, Eva-

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grio Pontico, stabilito in Egitto a Kellia e la cui cultura filosofica è og-gi meglio apprezzata, è senza dubbio l’autore più importante della sto-ria della spiritualità orientale (SC, 170-71, 356). Nella medesima epo-ca, nell’Antiochia di Libanio e poi a Costantinopoli, è attivo l’oratorepiù fecondo dell’Antichità cristiana, nonché uno dei più ammirati: Gio-vanni Crisostomo [Baur 729].

Il periodo successivo al concilio di Calcedonia (451) sembra menobrillante di quest’età dell’oro. Nessun oratore sacro sembra avere la sta-tura di un Giovanni Crisostomo o di un Gregorio; occorre tuttavia te-ner conto anche di un’evoluzione, in altri settori, che non si può ridur-re a un declino. È il caso della teologia: con le dispute cristologiche delv secolo il dibattito si fa infatti più tecnico e diminuisce la cura dellaforma letteraria. Gli specialisti elaborano nuovi strumenti: catene ese-getiche che riuniscono estratti ricavati dai principali commentatori del-la Scrittura; florilegi patristici dove si registrano le citazioni di autore-voli padri. Se una simile attività genera spesso testi tecnici e aridi, nonsi può trascurare, nel medesimo periodo, la presenza di costruzioni teo-logiche dall’audacia spesso sorprendente: alla fine del v secolo è attivol’autore misterioso che si cela dietro il nome di Dionigi l’Areopagita. Ilvi secolo vede d’altra parte lo sviluppo di un interessante movimentoorigenista [Guillaumont 642]. L’epoca di Giustiniano è un secolo im-portante per la teologia bizantina e la fine del vii secolo può ancora es-sere illuminata dall’opera di Massimo il Confessore.

La letteratura storica e biografica, per parte sua, rivela forme nuovela cui apparizione è ascrivibile al cristianesimo. Parallelamente alla lette-ratura profana, i cristiani sviluppano la propria tradizione storiografica.Il personaggio chiave, in questo settore, è Eusebio di Cesarea (260 c. -339), che crea o trasforma diversi generi [Sirinelli 737]. La sua Storia ec-clesiastica costituisce un’innovazione per il soggetto (la storia della Chie-sa) e per il suo metodo. Sarà proseguita da tutta una serie di storici del-la Chiesa: in particolare, nel v secolo, Socrate, Sozomeno e Teodoreto,Teodoro il Lettore nel vi e infine Evagrio Scolastico poco prima del 600[Allen 728]. A Eusebio dobbiamo anche un’opera cronologica che avràun’importante influenza sia in Oriente sia in Occidente: la Cronaca, do-ve il tempo della storia profana è concordato con quello della storia sa-cra. Il calcolo del tempo resta una preoccupazione dei dotti bizantini,sia di lingua siriaca come Giacomo di Edessa, sia di lingua greca con ilChronicon Paschale composto sotto Eraclio9.

A fianco della storiografia cristiana dotta occorre lasciare spazio aopere di livello più basso, il cui esempio è, sotto Giustiniano, la Crono-grafia di Giovanni Malala, cronaca universale e storia dei regni dalla crea-

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zione fino all’epoca contemporanea, che dà del passato un’immagine di-storta, sintomatica di una società la cui memoria si è trasformata e cri-stianizzata [Jeffreys 734]. Nello stesso periodo, la curiosa Topografia cri-stiana di «Cosma Indicopleusta» propone una geografia propriamentecristiana [Wolska-Conus 738].

Eusebio di Cesarea è anche autore di una terza opera che si può ac-costare alla storia: la Vita di Costantino, in cui fissa durevolmente l’im-magine del sovrano cristiano, in un testo che appartiene alla ricca lette-ratura biografica dei cristiani10. In quest’ambito, la letteratura dotta ècontraddistinta dalla diversità dei soggetti trattati: pii fedeli di cui sipronuncia l’elogio funebre, come Gregorio di Nazianzo fa per suo fra-tello, il medico Cesario (SC, 405); sante monache, come Macrina, la cuivita è stata composta dal fratello Gregorio di Nissa (SC, 178); santi mar-tiri, santi vescovi, santi monaci; santi profeti con la Vita di Mosè di Gre-gorio di Nissa, in realtà un trattato sulla vita spirituale (SC, 1 bis). Ar-riviamo qui a toccare il campo dell’agiografia, ricco di opere apparte-nenti a generi letterari diversi [Van Uytfanghe 742] e che rappresentanolivelli culturali disparati.

Nell’ambito dell’agiografia narrativa, il culto dei martiri provoca lanascita di opere – passioni e raccolte di miracoli – spesso scritte in unalingua semplice. Le Vite dei santi monaci, benché il loro modello più in-fluente, la Vita di Antonio di Atanasio (SC, 400), sia scritta da un ve-scovo colto, si sviluppano essenzialmente nell’ambito monastico, di cuiriflettono le preoccupazioni e i gusti letterari. A fianco delle vite stori-che, che possono combinare, come con Cirillo di Scitopoli nel vi seco-lo, la fondatezza storica con la volontà di edificare e la piacevolezza del-la narrazione, appare anche tutta una letteratura fantastica che propa-ga modelli ascetici all’interno della cristianità: è il caso della Vita di MariaEgiziaca (vi-vii secolo). Vengono ugualmente classificate nell’agiografiamonastica alcune raccolte di narrazioni edificanti: Storia dei monaci d’E-gitto (fine del iv secolo), Storia lausiaca di Palladio (v secolo), Prato spi-rituale di Giovanni Mosco (vii secolo).

Il caso dell’agiografia, incaricata di promuovere il culto dei santi, mo-stra come i cristiani abbiano sviluppato forme letterarie adattate a fun-zioni nuove. L’abbondanza delle omelie è un ulteriore esempio del me-desimo fenomeno. Lo sviluppo di una liturgia più ornata comporta d’al-tro canto la produzione di una ricca innografia, ed è in questo settoreche fa la sua comparsa la creazione poetica più originale dell’epoca pro-tobizantina: il kontakion, lungo poema narrativo dedicato a un episodiodella storia sacra o alla vita di un santo. Dotato di struttura strofica,rompe con la metrica tradizionale e dotta per tener conto del greco con-

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temporaneo. Il più celebre degli autori di kontakia, Romano il Melodo,originario della Siria, è attivo a Costantinopoli sotto Giustiniano [Gros-didier 733].

La letteratura cristiana si allontana dai canoni della letteratura clas-sica in numerosi aspetti. Ci si può anche domandare se non volga deltutto le spalle alla paideia tradizionale. Non mancano testi dove i cristia-ni proclamano di respingere la cultura profana e di privilegiare, in no-me del Vangelo, una cultura più semplice. Questa tendenza importanteè ben attestata in ambito monastico. Senza dubbio, non bisogna con-trapporre troppo nettamente il monastero alla città e i monaci sono spes-so sensibili ai valori di una società che dichiarano di rifiutare; tuttaviail mondo monastico, più lontano dalla civiltà urbana, produce una let-teratura esclusivamente religiosa, spesso autonoma in rapporto alla cul-tura profana, talora più aperta al mondo dei villaggi e del deserto; favo-risce e diffonde testi scritti secondo regole semplici, con un livello lin-guistico assai basso. Gli Apoftegmi dei Padri (SC, 387), le cui collezioniprincipali datano alla fine del v secolo, o il Prato spirituale di GiovanniMosco11 nel vii sono buoni esempi di questa letteratura.

iv. le letterature copta e siriaca.

Nella parte orientale di un Impero multilingue, due idiomi diversidal greco e dal latino hanno acquisito il rango di lingue letterarie: il cop-to e il siriaco. Ciascuna, a modo suo, contribuisce alla diversità e allaricchezza della cultura del basso Impero.

1. Letteratura copta.

Il copto [cap. xiv, pp. 447-49; Albert 34], con i suoi dialetti, è la for-ma assunta dall’egiziano all’inizio della nostra era, quando è scritto conun alfabeto derivato dal greco, ma arricchito da alcune lettere supple-mentari. Per quanto alcuni testi copti arcaici (magia, astrologia) esista-no a partire dal i secolo, occorre attendere il iii per veder nascere unaletteratura essenzialmente funzionale: testi scientifici (medicina, magia)o religiosi, perlopiù cristiani. A partire dal iii secolo, sono stati tradot-ti alcuni libri della Bibbia; e una tavoletta scolastica, in cui a fianco diversetti del salmo 43 nel dialetto di Akhmim compaiono una parafrasi

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greca dei primi versi dell’Iliade e diversi esercizi, illustra il modo in cuiin Egitto coesistono le culture profana e cristiana, greca e copta. Nel ivsecolo è completata la traduzione saidica della Bibbia, mentre vengonoelaborate versioni in altri dialetti. A fianco dei libri canonici, gli apocri-fi occupano un posto importante e la letteratura copta si apre ai testi pa-tristici, liturgici, ascetici, agiografici. Si tratta essenzialmente di tradu-zioni [Orlandi 748]. Fa eccezione un settore: quello della letteratura mo-nastica. Antonio senza dubbio ha scritto in copto alcune lettere che sonostate conservate [Rubenson 655]; Pacomio e i suoi due successori, Teo-doro e Orsiesio, hanno lasciato a loro volta numerose opere – lettere,regole, catechesi, testamenti – alcune delle quali in epoca antica sonostate onorate da una traduzione latina. È proprio nell’ambiente mona-stico che, nel v secolo, compare l’autore copto più importante: il gran-de egumeno Scenute di Atripe († 466), di cui possediamo numerose ca-techesi. Poco dopo, Besa, un altro archimandrita, lascia un’opera im-portante [Kühn 746].

La letteratura copta comunque non è esclusivamente cristiana e va-rie scoperte hanno messo in luce testi d’importanza eccezionale per laconoscenza delle correnti religiose rivali del cristianesimo, gnosi e ma-nicheismo.

Tredici codici copti databili alla metà del iv secolo, scoperti pressoNag Hammadi nell’Alto Egitto poco dopo la seconda guerra mondiale,trasmettono 46 trattati, tutti tradotti precedentemente dal greco, per-lopiù gnostici ma anche ermetici o cristiani (Vangelo di Tommaso). Al-tre due scoperte, una nel 1929 a Medinet Madi vicino al Fayyum, l’al-tra nel 1991-92 nell’oasi di Dakhla, hanno fatto conoscere questa voltatesti manichei in copto e in qualche caso bilingui (copto e siriaco), par-ticolarità che mostra come la traduzione copta dei testi manichei possaessere avvenuta direttamente a partire dal siriaco.

L’originalità e l’importanza della letteratura copta derivano in par-te dalla storia dei testi. La letteratura greca, tramandata principalmen-te dai manoscritti medievali, ha attraversato numerosi filtri; la tradizio-ne dei testi copti, invece, è più papirologica e i suoi contenuti, malgra-do i limiti incontrati nell’ambito della letteratura dotta, riflettono ladiversità dei testi letti nel basso Impero. In genere i testi presenti in cop-to hanno avuto un equivalente greco e la letteratura copta, anche quan-do non è una semplice traduzione, appare in continuità con alcuni set-tori della letteratura religiosa greca.

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2. Letteratura siriaca.

Il siriaco, nato dal dialetto aramaico parlato nella regione di Edessa,è una lingua letteraria e deve a questa caratteristica una grande stabilitàper tutto il corso di una storia che comincia nel i secolo della nostra erae s’inoltra nel Medioevo [Albert 34; Baumstark 38; Duval 745]. Nonnasce con il cristianesimo ma, ben presto legato a esso, ne costituisce unveicolo importante verso l’Oriente: non solo nelle comunità aramaichedella Persia, ma anche verso l’Armenia, l’India, la Cina. I testi siriacisono essenzialmente cristiani, ma è certamente esistita una letteraturaprofana. Peraltro, occorre ricordare che Mani, nel iii secolo, redige insiriaco tutti i suoi testi, salvo uno.

La coesistenza del greco e della parlata siriaca è un fenomeno anco-ra mal conosciuto. Nella regione che corriponde grossomodo al patriar-cato di Antiochia esiste tutta una popolazione variamente bilingue, masi trovano anche ellenofoni puri o Siriani che non conoscono il greco. Siammette che la ripartizione delle due lingue obbedisce a fattori geogra-fici – greco più diffuso a ovest dell’Eufrate, siriaco a est – e sociali, giac-ché il greco era la lingua delle città e delle classi benestanti. Gli autorisiriani, anche quando sono bilingui, scrivono le proprie opere in un’u-nica lingua. Al tempo della crisi calcedoniana, l’opposizione delle con-fessioni non coincide con la ripartizione dei linguaggi, ma progressiva-mente il greco diviene la lingua della Chiesa calcedoniana, mentre laChiesa giacobita privilegia il siriaco. In questa sede ci limitiamo ai testiprodotti nell’Impero, ma anche la Persia ha prodotto una ricca lettera-tura siriaca, soprattutto nestoriana.

La letteratura siriaca, posta sotto la quadruplice influenza mesopo-tamica, persiana, biblica e greca, presenta un’originalità assai marcata.Nel iv secolo, i suoi aspetti specifici che la distinguono dal mondo gre-co sono percepibili negli scritti del «Saggio persiano» Afraate (SC, 349,359) o, all’interno dell’Impero, di Efrem, diacono di Nisibi stabilitosia Edessa dopo la morte dell’imperatore Giuliano (363), le cui opere poe-tiche, esegetiche, teologiche hanno esercitato una grande influenza e so-no state assai presto tradotte in greco. La letteratura siriaca di ogni epo-ca contiene altre importanti opere originali.

Tra gli apocrifi dell’Antico Testamento, occorre menzionare la Ca-verna dei tesori (v-vi secolo) e, per il Nuovo Testamento, la Dottrina diAddai, relativa alla conversione di Edessa: si tratta di un testo del iii se-colo successivamente rimaneggiato. Nel vi secolo, nel campo della teo-logia e della polemica teologica spiccano il grande dottore anticalcedo-

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niano Filosseno di Mabbug e la poesia di Giacomo di Sarug. Anche l’a-giografia di lingua siriaca si rivela brillante. Infine, la storiografia si di-stingue per la sua diversità e la sua qualità: a fianco di scarne cronache,vi si trovano opere vive e ricche come la Cronaca dello Pseudo-Giosuè loStilita.

Il mondo siriaco non si è accontentato di ricevere, e a sua volta hadato: la nascita del kontakion greco deve senza dubbio qualcosa alla poe-sia siriaca. Tuttavia, l’influenza della cultura greca non ha mai smessodi accrescersi nel corso del periodo qui affrontato: la si può percepirenella produzione originale in siriaco e si riflette nel gran numero di tra-duzioni sempre più fedeli.

Il caso delle traduzioni della Bibbia è sintomatico. Alcuni libri dellaBibbia sono tradotti molto presto dall’ebraico in siriaco. Tuttavia, neliv secolo la Peshitta (versione «semplice» della Bibbia) è rimaneggiata inbase al testo dei Settanta. All’inizio del vii secolo, Paolo di Tella tradu-ce nuovamente la Bibbia in siriaco, questa volta in base al greco degliHexapla di Origene. Il Nuovo Testamento, d’altro canto, verosimilmen-te riflette la preoccupazione degli ambienti siriaci di disporre di un’im-magine fedele dei modelli greci: l’uso del Diatessaron di Taziano, cheaveva fatto concorrenza ai Vangeli canonici, è proibito a partire dal vsecolo; le versioni siriache dei quattro Vangeli sono ricontrollate sul gre-co nel v, vi e anche vii secolo. La celebre Scuola dei Persiani, che è at-tiva a Edessa dal 400 circa fino alla sua chiusura sotto Zenone, basa ilsuo insegnamento sulle opere tradotte in siriaco di Diodoro di Tarso,Teodoro di Mopsuestia e Nestorio, pur concedendo grande spazio allalogica aristotelica.

Molti padri greci, oltre ai dottori nestoriani, passano in siriaco: peresempio nel vi secolo Sergio di Reshaina traduce il corpus areopagitico,mentre Paolo di Callinico fa lo stesso per alcuni scritti di Severo di An-tiochia; nel vii secolo, a Cipro un altro Paolo traduce Gregorio di Na-zianzo. Contemporaneamente, peraltro, la letteratura siriaca si arricchi-sce di opere propriamente scientifiche, filosofiche e mediche. L’Isagogedi Porfirio e alcune parti dell’Organon sono utilizzate in traduzione si-riaca presso la Scuola dei Persiani. Nel vi secolo, Sergio di Reshaina tra-duce alcune opere di Galeno, alcuni scritti filosofici e compone lui stes-so vari trattati di logica. Intorno al 640, nel monastero di Kennesrè, di-venuto un centro dello studio del greco, il dotto Severo Sebokht studiala teologia, le matematiche, la filosofia e commenta Aristotele. La suaopera è proseguita da Giacomo di Edessa, da Atanasio di Balad, che ri-traduce l’Isagoge, e da Giorgio degli Arabi che, nel 687-88, traduce l’Or-ganon.

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La conquista araba non segna un punto di rottura per la scienza si-riaca. Lo studio dei testi greci, ormai confinato a cerchie ristrette, tut-tavia prosegue e questo interesse dei dotti siriaci per la scienza ellenicaè un fenomeno importante nella storia della cultura.

v. verso i secoli oscuri.

La seconda parte del vi secolo e il vii nella sua interezza sono segna-ti da una crisi della paideia tradizionale che si rispecchia nel declino del-le scuole e nell’esaurimento della produzione letteraria, in particolareprofana. In seguito alle difficoltà esterne e interne che affliggono l’Im-pero, le belle lettere tendono a sparire e Bisanzio sprofonda nei secolioscuri, da cui uscirà solamente alla fine dell’viii secolo, e soprattutto nelix. Alcuni autori vedono nella politica di Giustiniano una causa del de-clino della paideia e numerose misure di questo imperatore vengono ci-tate nel dibattito storico.

Oltre al celebre episodio della «chiusura» della scuola neoplatonicadi Atene [Beaucamp 254], si tratta innanzitutto delle leggi che proibi-vano ai pagani di insegnare. La seconda è particolarmente chiara: «Proi-biamo che qualsiasi insegnamento sia professato da coloro che sono af-fetti dalla follia sacrilega degli Elleni». È difficile dire in quale misuraquesta proibizione abbia potuto colpire l’insegnamento nella totalità del-l’Impero. D’altro canto, la disposizione con la quale Giustiniano riser-va l’insegnamento del diritto a tre città è stata vista come sintomaticadi una concentrazione delle istituzioni d’insegnamento. Infine, Proco-pio rimprovera a Giustiniano di aver eliminato gli stipendi dei medici edei professori, provocandone la scomparsa. Questo passaggio, tuttavia,è tratto da un libello polemico e sembra contraddetto dalla legge del 534,che creava posti di professore per Cartagine.

Il regno di Giustiniano non segna la fine delle scuole e alla fine delvi - inizio del vii secolo troviamo ancora parecchie inequivocabili men-zioni che lo dimostrano. Sofronio, futuro patriarca di Gerusalemme, pri-ma di prendere l’abito monastico intorno al 600 era sofista a Damasco;in Egitto incontra un altro sofista, anch’egli di Damasco, provenienteda una famiglia in cui si esercitava questa professione da diversi secoli.Tichico, che insegna la filosofia e le matematiche a Trebisonda, si eraformato all’inizio del regno di Eraclio studiando tre anni ad Alessan-dria, uno a Roma e infine a Costantinopoli, dove segue le lezioni di «un

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uomo celebre, un dotto di Atene, la città dei filosofi, che insegnava aifilosofi della Città».

Sembra dunque che, ancora intorno al 610, si possa ottenere un’i-struzione ad Alessandria, che presto cadrà nelle mani degli Arabi, e aCostantinopoli. Il maestro di Tichico aveva d’altro canto studiato adAtene. Tichico rifiuterà di succedere al proprio maestro e resterà a Tre-bisonda. D’ora in poi, alla fine del regno di Eraclio, sembra che non visia più un insegnamento di filosofia a Costantinopoli e gli studenti del-la città andranno da Tichico per istruirsi [Lemerle 686]. Il cambiamen-to forse è indice di nuove condizioni: all’insegnamento impartito in lo-cali pubblici a Costantinopoli fa seguito quello tenuto nel martyrion diSant’Eugenio a Trebisonda, presso un maestro dall’aria più medievale.Alcune scuole sembrano dunque essere rimaste in funzione – forse a ri-lento – fino alle invasioni della fine del vi e del vii secolo o, per quantoconcerne Costantinopoli, all’incirca fino alla fine del regno di Eraclio.Quanto alla produzione letteraria, si percepisce un declino, anche se ta-le declino non è uniforme.

In Egitto l’ultimo poeta conosciuto è Dioscoro di Afrodito [Fournet711], attivo nel terzo quarto del vi secolo, e ad Alessandria l’ultimo fi-losofo è Stefano, forse giunto da Atene, che si stabilirà a Costantinopo-li su invito di Eraclio. In Palestina, i poemi anacreontici di Sofronio,scritti agli inizi del vii secolo, attestano l’attività di un sofista di forma-zione, ma appartengono al registro religioso. A Costantinopoli, è possi-bile che la vita culturale abbia subito una flessione sotto il regno di Fo-ca prima di riprendere qualche slancio sotto Eraclio. A ciò sembra allu-dere la prefazione delle Storie di Teofilatto [185, pp. 3-5], che riveste laforma di un dialogo in cui la Filosofia, lamentandosi di essere stata mo-mentaneamente bandita prima di essere richiamata da Eraclio, doman-da alla Storia, anch’essa scomparsa per qualche tempo, cosa l’abbia fat-ta rinascere, e si sente rispondere che tale resurrezione è merito del pa-triarca. Sergio di Costantinopoli, infatti, sembra aver protetto le lettere.

Teofilatto, sotto Eraclio, prende le mosse dall’opera di MenandroProtettore, che copriva il periodo 568-82 [177]. Per trovargli un succes-sore, bisogna arrivare all’incirca al 770 e al Breviarium di Niceforo. Que-sta interruzione della storia dotta è un segno di crisi. Si possono perce-pire anche altre evoluzioni. Si pensi alla Storia ecclesiastica di EvagrioScolastico [169; cfr. Allen 728], scritta in un greco dotto nell’Antiochiadella fine del vi secolo, che si apre a tematiche che appartengono allastoria profana; all’inverso, l’opera di Teofilatto ammette soggetti cheappartengono piuttosto alla storia ecclesiastica. La rarefazione della let-teratura profana alla fine del vi secolo è dunque da imputare a un du-

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plice movimento: non solo esaurimento della produzione, ma anche evo-luzione dei generi e abolizione della separazione tra letteratura profanae letteratura religiosa.

Quest’ultima, per parte sua, non dà segnali evidenti di declino e al-la fine del vi e nel vii secolo si possono registrare numerose opere im-portanti. Abbiamo già notato il caso di Evagrio per la storia ecclesiasti-ca e soprattutto, sotto Eraclio, di Giorgio di Pisidia, la cui opera abbon-dante ed elaborata, in cui si mescolano soggetti sacri e profani, contieneepigrammi, poemi epici, morali e didattici. In campo teologico, a fian-co di Sofronio, che si segnala al tempo della crisi monotelita, occorre ri-cordare il grande nome di Massimo il Confessore (c. 580 - 662). Si de-vono segnalare anche i capolavori costituiti dal Prato spirituale di Gio-vanni Mosco (intorno al 615) e dalla Scala di Giovanni del Sinai (intornoal 650), autentica summa della spiritualità orientale. Nel suo insieme laletteratura religiosa, meno legata alla vita delle città, resiste più a lungodi quella profana: sarebbe dunque superficiale parlare di un declino ge-nerale. Si possono tuttavia osservare alcuni cambiamenti nelle modalitàdi tale produzione. La letteratura profana, nel vii secolo, sembra spari-re dalle province e concentrarsi nella capitale. Si noterà anche l’impor-tanza presentata per la letteratura religiosa, con autori come Sofronio,Mosco, Giovanni Climaco e Massimo, dalla Siria e dalla Palestina, os-sia province destinate a essere presto perdute dall’Impero.

Nel vii secolo, l’ellenismo si trasforma ed entra in crisi, ma resta suf-ficientemente vigoroso perché la sua influenza si faccia sentire durevol-mente. In terra islamica, dove il greco resterà scritto e parlato in alcuniambienti, sussistono centri di cultura greca come San Saba in Palestina.D’altro canto, la scienza greca sarà trasmessa agli Arabi, sia direttamen-te, sia tramite le traduzioni siriache. Infine, la stessa paideia, con alcu-ni dei suoi metodi d’insegnamento e dei suoi valori, nonché alcuni deisuoi testi, troverà nella Costantinopoli medievale un’erede che la riven-dica.

1 Trad. it. in Un tempio per Giustiniano. Santa Sofia di Costantinopoli e la «Descrizione» di Pao-lo Silenziario, a cura di M. L. Fobelli, Roma 2005.

2 Cfr. r. p. duncan-jones, Age-Rounding, Illiteracy and Social Differentiation in the Roman Em-pire, «Chiron», 7 (1977), pp. 333-53.

3 Cfr. g. cavallo (a cura di), Le biblioteche nel mondo antico e medievale, Roma 1989.4 Cfr. p. courcelle, Les lettres grecques en Occident, Paris 1948.5r. browning, Medieval and Modern Greek, Cambridge 19832.

6libanios, Autobiographie, Paris 1979.

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7 Trad. it. basilio di cesarea, Discorso ai giovani, a cura di M. Naldini, Firenze 19902.8 Per la vita di sant’Eutimio cfr. Kyrillos von Skythopolis, a cura di E. Schwartz, Leipzig 1939.9j. beaucamp e altri, Temps et histoire I. Le prologue de la Chronique pascale, TM, 7 (1979), pp.223-301.

10eusebius caesariensis, De vita Constantini, a cura di F. Winckelmann, Berlin 1975 [trad. it.Eusebio 170].

11 PG, 87; cfr. SC, 12 [trad. it. Il prato, a cura di R. Maisano, Napoli 20022].

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jean-michel spieser

x. L’arte imperiale e cristiana: unità e diversità

Sembra ormai definitivamente passato il tempo in cui bisognava scu-sarsi se si attirava l’attenzione del lettore sui rozzi monumenti della de-cadenza. A partire da A. Riegl1, è divenuto chiaro l’interesse delle pro-duzioni artistiche della tarda Antichità anche da un punto di vista squi-sitamente estetico. Tuttavia, la nostra maggiore preoccupazione inquesta sede è di evidenziare come la lunga trasformazione politica, eco-nomica, sociale e religiosa del mondo mediterraneo e dell’Europa occi-dentale sia inseparabile dalla trasformazione della produzione artistica.In quest’ambito, come e forse più che in altri, non c’è nulla di sorpren-dente nel vedere le evoluzioni lente avere la meglio su mutazioni bru-sche e spettacolari. Ciò nonostante, il raggruppamento dei fenomeninuovi in alcuni periodi, reso ancor più evidente dalla prossimità di mu-tamenti politici, permette di evidenziare alcune cesure.

Così, benché sia stato opportunamente dimostrato che persino il re-gno di Costantino e la pace della Chiesa non comportano uno stravolgi-mento dell’Impero, è chiaro che l’apparizione del cristianesimo sulla sce-na ufficiale provoca un certo numero di innovazioni. La più spettacola-re è la comparsa di una grande architettura cristiana: le scelte diCostantino e dei suoi architetti sono destinate a essere a lungo decisiveper quanto concerne i principali elementi e un buon numero di caratte-ristiche secondarie dell’edificio cultuale cristiano. In maniera parallela,tuttavia, sono destinate a proseguire le manifestazioni già tradizionalidi un’arte funeraria cristiana, che ci è nota soprattutto tramite i sarco-fagi e le pitture delle catacombe romane. In questo periodo, che coprela maggior parte del iv secolo, il maggior numero di testimonianze cri-stiane proviene dalla parte occidentale di quello che è ancora l’Imperoromano; conviene far riferimento a esso, giacché numerosi indizi mo-strano che non c’è motivo di contrapporre un Oriente a un Occidente,in questi decenni. Non è neppure strano che si trovino immagini il cuisignificato pare oscuro e altre che, a causa di somiglianze superficiali,sono falsamente chiare: è solo gradualmente che prende campo un mo-

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do di pensare il cristianesimo che ci è più familiare e che quest’ultimocessa, grazie all’azione e soprattutto agli scritti dei padri della Chiesa,di essere concepito con concetti che erano stati coniati per sistemi dif-ferenti [Cameron 684].

Tale periodo di maturazione del cristianesimo termina con il regnodi Teodosio: un analogo riferimento cronologico occidentale potrebbeessere il pontificato di Damaso. È allora che trionfa l’ortodossia nicena– se ne vedono le conseguenze nell’iconografia –, che si sviluppa il cul-to dei martiri – la natura stessa dei martyria è allora destinata a cambia-re – e che compaiono o si sviluppano gli elementi più caratteristici del-la decorazione pittorica delle chiese. Ancora all’inizio di questo perio-do, le testimonianze più numerose e più chiare provengono dall’Occi-dente; ma alcuni testi e alcune tracce mostrano che nel bacino orienta-le del Mediterraneo l’evoluzione è la stessa.

Il regno di Teodosio segna, per l’Oriente, l’inizio di un lungo perio-do, che si può far arrivare fino agli ultimi anni del regno di Giustinia-no: la parte orientale dell’Impero romano si allontana allora progressi-vamente da quella occidentale, ma i concetti espressi tramite monumen-ti e immagini non conoscono variazioni essenziali. Intorno alla fine delvi secolo si profilano nuovi cambiamenti; è solo allora che il simbolismoche circonda il potere imperiale è definitivamente e completamente cri-stianizzato2. La lontananza del tempo degli idoli permette anche a cer-te pratiche legate alle immagini di riapparire in una forma nuova e cri-stianizzata: si sviluppa allora un culto delle immagini che si è voluto met-tere in relazione, in maniera troppo limitata, con le difficoltà incontratedall’Impero e le angosce che ne derivavano ai suoi abitanti.

Le principali cesure da noi evidenziate sono significative per un’ar-te che esprime il cristianesimo. Tuttavia, l’arte com’era concepita dalleélites dell’Impero romano, per valorizzare il potere imperiale, per esse-re un segno di distinzione sociale o un elemento della vita civica, conti-nua a svilupparsi per tutto il periodo qui trattato (e anche oltre, per tut-ta la durata dell’Impero bizantino). Per abitudine, continueremo a par-lare di arte profana per caratterizzare questi monumenti, ma almeno unaparte di tale produzione, quella che riguardava l’imperatore, dipendedalla categoria del sacro, che è più ampia di ciò che chiamiamo «arte re-ligiosa». L’insieme di questa produzione «non religiosa» resta profon-damente legato ai periodi precedenti, e conviene parlarne all’inizio.

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i. un’arte «profana».

1. L’arte nelle città.

Durante quasi tutto il periodo in esame, la città resta la cornice del-la vita e dell’attività delle élites dell’Impero. Si è visto [cfr. sopra, p.224] come questo stato di cose sia soggetto a cambiamento e come, no-nostante gli sforzi di Giustiniano, la città tradizionale tenda a poco apoco a divenire un guscio vuoto, al punto che le difficoltà della fine delvi e degli inizi del vii secolo sono sufficienti a far crollare questa corni-ce. Nel iv e nel v secolo, tuttavia, per quanto la maggior parte dei nuo-vi monumenti sia costituita da chiese, i monumenti tradizionali conti-nuano a essere mantenuti – naturalmente con l’eccezione dei templi. So-prattutto, è ancora evidente la preoccupazione per l’urbanesimo.L’esempio più celebre è la pianificazione dell’Arcadiana a Efeso, sottoil regno dell’imperatore che le ha dato il nome. Peraltro, l’archeologiaha rivelato che, a partire dal vi secolo, alcune botteghe debordano sul-lo spazio stradale: ciò mostra una certa insensibilità nei riguardi dellamonumentalità delle grandi strade colonnate che sono ancora attestateovunque, con tetrapili e tetrastili regolarmente collocati agli incroci. Nel-le città si continuano a erigere dimore monumentali – forse questa co-stituisce una differenza essenziale tra l’Oriente e l’Occidente, dove as-sai presto i grandi proprietari costruiscono ville sulle proprie terre. I ca-si di Apamea e Atene – ma si trovano anche altri esempi in Grecia ealtrove – sono particolarmente ben conosciuti grazie a lavori recenti [So-dini 564-65]. Costantinopoli è un caso particolare a causa dell’ampiez-za delle realizzazioni urbane, ma queste ultime, dovute alla volontà de-gli imperatori, rappresentano egregiamente la quintessenza dell’urbane-simo della tarda Antichità, con le sue strade colonnate e i suoi fori.

Le ultime vestigia della scultura a tutto tondo sono ugualmente con-nesse con gli spazi pubblici [Bauer 751]. L’ostilità del clero nei confron-ti della scultura a tutto tondo è ben nota e la esclude dall’ambito del-l’arte religiosa. Tuttavia, abbiamo già accennato al fatto che il cristia-nesimo dà la sua impronta alla maggior parte dell’attività culturale soloverso la fine del vi secolo e fino ad allora esiste sempre una produzioneartistica in rapporto con il funzionamento tradizionale della città. Inparticolare, sono state attribuite a un laboratorio di Afrodisia, ancoranel v secolo, alcune statue a tutto tondo che rappresentano magistrati

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municipali e governatori. L’esempio più celebre, grazie alla qualità del-l’opera, proviene da Efeso: un busto, di cui si conserva solamente la te-sta (al Museo di Vienna), rappresentava Eutropio, che aveva rivestitovarie funzioni municipali. Queste immagini si fanno sempre più rareman mano che il tempo passa; sopravvivono più a lungo nelle regioni do-ve esiste una forte tradizione di laboratori di scultura. È il caso dellasuccitata Afrodisia, di cui si conosce la celebre scuola di scultura, che siè sviluppata in epoca imperiale; è anche il caso di Atene e di altre regio-ni della Grecia, benché la scultura della tarda Antichità vi sia stata stu-diata meno sistematicamente. Solo un numero relativamente scarso ditali statue è sopravvissuto, ma la loro importanza resta attestata dagliepigrammi onorifici incisi sulle basi, conservati in numero maggiore etrasmessi inoltre da raccolte di testi, in particolare l’Antologia Palatina3.Tuttavia, a partire dalla fine del vi secolo e in ogni caso nel vii non sitrovano più attestazioni di simili sculture. Si conoscono ancora, almenoper tradizione letteraria, alcune statue imperiali: occorre citare una sta-tua di Foca a Roma, eretta nel 608. È possibile che vi sia ancora una sta-tua di Costante II nell’agorà di Corinto, secondo la testimonianza diun’iscrizione [Spieser 566, p. 327, n. 67]. I più recenti frammenti con-servati sembrano essere una testa, in cui si riconosce Giustiniano, eun’altra che si potrebbe identificare con Teodora [Weitzmann 816, p.33, n. 27].

Ciò non stupisce: è noto quanto tenacemente si siano mantenute nelcontesto dell’arte imperiale alcune tradizioni romane. La legittimazio-ne del potere attraverso l’arte imperiale è avvenuta con una continuitàche rende difficile percepire una cesura netta.

2. Un’arte imperiale.

L’arte imperiale, infatti, rimane una componente essenziale per que-sto periodo. Come ha dimostrato Zanker4 per le epoche anteriori, i cam-biamenti stilistici spesso rispecchiano un nuovo modo di mettersi in sce-na da parte dei principi.

I ritratti imperiali del iv secolo continuano questa tradizione. I ri-tratti dei tetrarchi vogliono dare l’apparenza di una forza brutale, di cuil’espressione più famosa è un busto conservato al Museo del Cairo.Un’altra testa di Galerio, forse originaria di Tessalonica5, mostra comepossano essere impiegati mezzi stilistici differenti. I ritratti di Costan-tino e dei suoi primi successori sono ancora assai numerosi. In riferimen-to a essi si usa spesso, riprendendo il titolo di un famoso libro, la for-

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mula di «cosmic kingship», valorizzando così la continuità con la conce-zione del potere imperiale sviluppatasi durante il iii secolo, che fa del-l’imperatore un personaggio fuori dal comune. I ritratti monumentali diCostantino vanno in questo senso. Gli sguardi rivolti verso l’alto con-tribuiscono alla medesima impressione di assimilazione dell’imperatorea una divinità. Costantino, su alcune monete, è addirittura rappresen-tato mentre sale al cielo su una quadriga. Peraltro, con il passar del tem-po i tratti individuali tendono a sfumarsi, al punto che anche il confron-to con le monete non permette sempre un’identificazione certa. È il ca-so anche del «colosso di Barletta», benché attualmente si ritenga cherappresentasse Leone I6. Si tratta dell’unico esempio conservato quasiintegralmente e permette di immaginare l’impressione d’insieme forni-ta da una tipologia di statue la cui esistenza peraltro è ben documenta-ta. Si possono accostare a questo bronzo monumentale i frammenti diuna statua in bronzo dorato scoperti in diverse zone del sito di CariãinGrad7, senza dimenticare, in un genere differente, la statua equestre diGiustiniano I presso l’Augusteo di Costantinopoli, ancora attestata daun disegno del xvii secolo [Grabar 774, p. 46]. In un altro genere, in cuisi prolunga la tradizione romana o si riprende una tradizione attestatain maniera intermittente, occorre sottolineare il numero relativamentealto di ritratti di imperatrici, o più genericamente di donne della casaimperiale, espressione del potere concreto riconosciuto alle Augustae.

Le colonne trionfali costituiscono un altro segno di continuità conl’arte imperiale romana. Che siano semplici colonne monumentali comequella di Costantino, o decorate da bassorilievi disposti in modo da for-mare un fregio continuo che si sviluppa a spirale sul modello delle co-lonne di Traiano e Marco Aurelio, come quelle di Teodosio e di Arca-dio, tali monumenti contraddistinguono i fori di Costantinopoli.

Pur restando nella scia di una tradizione secolare, le forme dell’arteimperiale sono innervate da un significato differente che trascina l’im-magine imperiale, in modo quasi impercettibile, verso una nuova sfera.Non si tratta più di mostrare un imperatore divinizzato, che per così di-re partecipa della divinità nella propria persona, ma un imperatore ser-vitore di Dio che deriva la propria legittimità da tale sottomissione aDio. Tale concezione, verosimilmente, non si è imposta subito dopo Co-stantino. Come ha dimostrato C. Mango [502], il modo in cui, all’inter-no del mausoleo che si era fatto costruire e che è all’origine della chie-sa dei Santi Apostoli, Costantino aveva fatto collocare il proprio sarco-fago attorniato dai cenotafi degli apostoli indica una volontà di farsiassimilare a Cristo piuttosto che il desiderio di farsi considerare comeun tredicesimo apostolo, secondo una lettura che s’imporrà rapidamen-

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302 La civiltà bizantina e i suoi fondamenti

te. Dovremo riparlare delle relazione tra il Cristo e l’imperatore, ma l’as-sociazione tra immagine imperiale e immagine del Cristo, come si puòvedere nell’avorio Barberini del Louvre o nei mosaici di San Vitale a Ra-venna, è destinata a divenire un elemento essenziale dell’iconografia im-periale.

L’arte imperiale comprende anche la commissione, l’uso e l’ostensio-ne di oggetti di lusso, che tendiamo a qualificare troppo rapidamentecome profani, mentre invece la prossimità all’imperatore e la ricchezzadei materiali utilizzati danno loro un valore sacro. Si pensi per esempioal famoso missorium di Teodosio, senza dimenticare alcuni avori impe-riali, talora eseguiti in occasione dei consolati ricoperti dagli imperato-ri. Tali prodotti fabbricati per i sovrani non erano sostanzialmente dif-ferenti da quelli destinati a un’élite sociale ed economica, non ancoracosì concentrata a Costantinopoli quanto lo sarebbe stata nei periodisuccessivi. Certo, i mosaici del Gran Palazzo di Costantinopoli, di cuiadesso si conosce la datazione intorno al 500, sono di una qualità ecce-zionale [ Jobst 778], ma un tale tipo di pavimento si ritrova in numero-se dimore aristocratiche.

3. Un’arte per un’élite raffinata.

La maggior parte del periodo qui in esame è caratterizzata dalla per-manenza, non solo a Costantinopoli ma anche nelle città provinciali, diuna élite sociale benestante, la quale deriva una parte della sua legitti-mità dalla cultura e sa come metterla in mostra tramite i monumenti chefinanzia.

In questi ambienti si trova una pratica della commissione d’arte che,nella sua essenza, non è fondamentalmente differente da quella che èdovuta all’iniziativa degli imperatori. Non ci si trova ancora di frontealla situazione della Corte bizantina in epoche più tarde, quando i «po-tenti» imiteranno le pratiche imperiali; al contrario, in questo caso so-no gli imperatori che, al loro livello e con mezzi considerevoli, perpe-tuano i costumi del gruppo sociale cui appartengono. Tali costumi deri-vano dalla tradizione dell’evergetismo, ben nota a chi studia la cittàgreco-romana, in particolare della tarda Antichità. Tuttavia l’oggetto ditali pratiche evergetiche cambia ed esse saranno sempre più monopoliz-zate dalla Chiesa a danno dei tradizionali monumenti pubblici.

Inseparabile da tale evergetismo è l’ostentazione della ricchezza edella cultura, che si manifesta nel lusso delle case, cui si è già accenna-to. Gli scavi austriaci a Efeso hanno permesso di conoscere la decora-

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zione di case che sono in effetti costituite da veri e propri appartamen-ti e la cui decorazione ad affresco è eccezionalmente ben conservata. Ta-li pitture coprono un intervallo cronologico che va dal i al vi secolo, sen-za che ci sia una vera cesura nel repertorio. I temi mitologici, in parti-colare varie rappresentazioni delle Muse, restano importanti per tuttoil corso di questa evoluzione.

I mosaici pavimentali sono più conosciuti e meglio conservati degliaffreschi. Ritroviamo ancora una volta temi tradizionali del mondo an-tico, come la caccia, per esempio il celebre mosaico di Apamea conser-vato a Bruxelles, oppure le rappresentazioni dei mesi e di un altro tipodi scena di caccia, ad Argo nella villa del «falconiere» (inizio del vi se-colo), oppure scene propriamente mitologiche come mostrano numero-si pavimenti in Siria, per esempio una serie di mosaici della prima metàdel iv secolo provenienti da un’abitazione di Filippopoli [Balty 933 e750]. Non bisogna del resto dimenticare che il iv secolo è anche quellodi Giuliano: un altro complesso importante, scoperto in un edificio tro-vato sotto la cattedrale di Apamea, è attribuito non solo al suo regno,ma addirittura al suo intervento personale. Comunque sia, appartiene aun ambiente colto, che aveva familiarità con le interpretazioni filosofi-che delle figure mitologiche. D’altro canto, è vero che i soggetti mito-logici diventano più rari nei mosaici nel corso del v secolo e sono sosti-tuiti da scene di caccia o di combattimento tra animali. Tali temi talo-ra arricchiscono l’iconografia dei dittici consolari in avorio, eseguiti inoccasione dell’entrata in carica dei consoli all’inizio dell’anno.

Tuttavia, il legame con la tradizione antica resterà attivo su altri sup-porti. Si stabilisce così una effettiva continuità grazie alla quale, nono-stante l’influsso sempre più forte del cristianesimo sull’immaginario, latradizione dei temi e anche delle forme antiche non sarà mai completa-mente interrotta nel mondo bizantino. In particolare, la continuità deitemi mitologici può essere seguita sul vasellame d’argento. Naturalmen-te, il confronto tra un piatto d’argento del tesoro di Mildenhall, che rap-presenta un satiro e una menade, e un piatto dall’iconografia assai simi-le, conservato al Museo dell’Hermitage, mostra che tra la metà del iv el’inizio del vii secolo le forme si erano allontanate dallo stile classico[Kitzinger 780]. Ma al contrario, se si paragona quest’ultimo piatto coni contemporanei mosaici di San Demetrio a Tessalonica, la sua prossi-mità con l’Antichità diviene sorprendente. Si capisce che lo stile è do-vuto a una scelta legata alla funzione e alla destinazione dell’opera e chequello utilizzato per i mosaici non è una semplice conseguenza dell’al-lontanamento dall’Antichità e di una perdita di abilità tecniche.

La cultura delle élites è attestata anche dall’interesse per l’edizione

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304 La civiltà bizantina e i suoi fondamenti

di testi antichi. Si sa che a partire dal i secolo la pergamena e il libro co-minciano a sostituire il rotolo di papiro8. Ci sono giunte alcune rarissi-me edizioni illustrate di testi antichi, perlopiù in forma di frammenti, afianco delle più antiche Bibbie, o parti di Bibbie, illustrate. Per quantoin questa sede non sia il caso di dilungarsi sul Virgilio del Vaticano (ms.lat. 3225), evidentemente prodotto nel mondo latino, occorre menzio-nare l’Iliade ambrosiana, assai frammentaria, che si può datare intornoal 500 e che proviene, se non dalla stessa Costantinopoli, almeno dalMediterraneo orientale. Un altro manoscritto di lusso mostra la conti-nuità, a fianco della cultura nel senso tradizionale del termine, della cul-tura scientifica: si tratta del Dioscoride di Vienna (ms. med. gr. 1), che,com’è stato recentemente dimostrato, era stato offerto ad Anicia Giu-liana, e non commissionato da quest’ultima9.

ii. il cristianesimo nell’arte.

Dilungarsi in questa sede sullo sviluppo dell’arte cristiana nel iv se-colo è paradossalmente difficile, dal momento che la maggior parte deimonumenti conservati, almeno per quanto concerne pittura e scultura,si trova nel mondo occidentale e in particolare a Roma. Tale predomi-nio «occidentale» nei monumenti conservati non deve indurre a falseconclusioni e dev’essere perlopiù attribuito ai casi della successiva sto-ria delle due parti dell’Impero. In Oriente non mancano però notevolivestigia precostantiniane, comprese quelle di Dura-Europos, dov’è sta-to rinvenuto il più antico edificio cristiano con decorazione pittorica.

Innanzitutto sono necessari alcuni cenni preliminari, per evitare equi-voci riguardo a questo secolo. Nel iv secolo, e in particolare nell’epocacostantiniana, il cristianesimo non si era ancora stabilizzato né nel suocontenuto, né nei suoi modi espressivi. Ne risulta che talora è difficileinterpretare alcune delle sue manifestazioni, che ci sembrano strane per-ché derivano da un modo di pensare il cristianesimo secondo alcuni sche-mi che la Chiesa, in seguito, cercherà di eliminare. Un mutamento es-senziale giungerà a compimento verso la fine del iv secolo. Il miglioresempio è dato dalla recente lettura, a opera di C. Mango, del mauso-leo costruito da Costantino per se stesso e che è all’origine della chiesadei Santi Apostoli. Se ne è già discusso in precedenza [pp. 199, 301-2].L’attitudine dell’imperatore, che ha cercato di farsi assimilare al propriodio, il Cristo in questo caso, è stata rapidamente reinterpretata, a par-

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tire da Eusebio, in modo da far credere che Costantino volesse solamen-te essere un tredicesimo apostolo.

Nonostante lo scarso numero di resti, tutto induce a credere che,malgrado alcune differenze stilistiche, il repertorio orientale non doves-se essere fondamentalmente differente da quello attestato in Occiden-te. Ciò è suggerito da un gruppo di statuette in marmo di squisita fat-tura, originarie dell’Asia Minore e oggi al Museo di Cleveland, proba-bilmente del terzo quarto del iii secolo e dunque precostantiniane.Quattro di esse mostrano episodi della vita di Giona, sei sono ritratti el’ultima rappresenta il Buon Pastore. Qualunque sia stata l’utilizzazio-ne precisa di questo gruppo di immagini, viene comunque da ipotizza-re, se si pensa all’utilizzazione del tema di Giona nelle catacombe e suisarcofagi, che anche in Oriente l’arte cristiana si sia inizialmente svilup-pata come arte funeraria. I sarcofagi cristiani, è vero, vi sono poco at-testati e non sembrano molto anteriori al 400. Si vedrà più avanti che,per quanto concerne le decorazioni delle chiese, le nostre conoscenze so-no ancora minori, ma è vero che, in questo caso, gli esempi romani nonpermettono di risalire, per grandi decorazioni figurate, a date anterioriall’ultimo terzo del iv secolo.

L’epoca di Costantino è stata decisiva per l’architettura cristiana:sotto il suo impulso, a Roma come in un certo numero di città orienta-li – gli esempi meglio conosciuti sono quelli di Antiochia e soprattuttoGerusalemme – le sue scelte sono state determinanti per l’ulteriore evo-luzione dell’edificio di culto cristiano. È inutile passare nuovamente inrassegna in questa sede le ragioni che gli hanno fatto scegliere la basili-ca per i grandi luoghi di culto [Brandenburg 754], a cominciare dallachiesa episcopale di Roma, che diventerà San Giovanni in Laterano.Praticamente contemporanea è la basilica costruita a Tiro, di cui Euse-bio ci ha dato la descrizione. Tale pianta permette di rispondere a uncerto numero di esigenze della liturgia cristiana, ma il fasto e la magni-ficenza che le sono facilmente associati, e che lo saranno ancora di piùgrazie all’intervento imperiale, diverranno ormai inseparabili dalla gran-de architettura cristiana, benché alcuni testi patristici, in particolare let-tere di san Gerolamo, avanzino riserve su questo lusso. Costantino e isuoi architetti sono all’origine anche dell’altro tipo di pianta utilizzataper le chiese, ossia la pianta centrale. Il più antico esempio conosciuto,ancora una volta tramite Eusebio, è l’Ottagono di Antiochia. Se la ba-silica cristiana è, per certi aspetti – essenzialmente a causa della polariz-zazione provocata dal santuario e dall’abside –, più differente dalla ba-silica civile di quanto non si voglia ammettere, le soluzioni adottate nonmodificano molto le sue strutture da un punto di vista tecnico; al con-

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trario, nell’Ottagono, lo spazio centrale è circondato da spazi lateraliche potevano già formare una sorta di deambulatorio. In ogni caso, sitratta della soluzione adottata per la rotonda del Santo Sepolcro, dovelo spazio centrale è delimitato da colonne e circondato da una galleria.

Se l’insieme di basilica e rotonda a Gerusalemme, attribuibile perentrambe le componenti a Costantino10, sembra corrispondere in appa-renza alla coppia formata da una chiesa per la sinassi e da un martyrionnelle forme per lungo tempo considerate abituali, l’esempio dell’Otta-gono di Antiochia, che era la cattedrale cittadina, mostra chiaramenteche la pianta non era legata alla funzione (come indica anche, di conver-so, San Pietro a Roma, che è senz’altro un martyrion pur essendo co-struito su pianta basilicale). Non è esagerato affermare che tutta l’ulte-riore architettura religiosa è destinata a svilupparsi su queste due tipo-logie.

1. Lo sviluppo dell’architettura cristiana.

1.1. Basi l ica e pianta centra le .

Senza dubbio è difficile parlare di un vero sviluppo della basilica dalpunto di vista formale, in quanto le basiliche costantiniane presentanogià le caratteristiche essenziali delle basiliche dei secoli successivi. Perdefinirle sommariamente, si potrebbe dire che la loro architettura è de-finita da una progressione che, dall’esterno all’interno, dal più al menoaccessibile, va anche dal profano al sacro. Senza entrare adesso nel me-rito delle varianti regionali, si può dire che s’impone una sorta di tipo-logia generale.

Il contatto con la città, via o piazza, avviene tramite un cortile, spa-zio ancora quasi profano – l’atrio – circondato da portici, talora con l’in-termediazione di propilei. Il nartece, spazio chiuso trasversale, che ingenerale occupava il posto del quarto portico, era accessibile ai catecu-meni, che non potevano oltrepassarlo. Comunicava ampiamente con lenavate, in genere tre o cinque. Non è inutile notare come nei testi con-temporanei che ci descrivono le basiliche, che si tratti di Eusebio o, nelvi secolo, di Coricio di Gaza, le navate laterali fossero designate comeportici. Non si tratta di una semplice questione lessicale, ma di una dif-ferente percezione dello spazio architettonico, come se le navate latera-li fossero percepite alla stregua di spazi indipendenti che fiancheggiava-no uno spazio di natura differente. Ciò, forse, può essere in relazionecol fatto che, in alcune regioni, la navata centrale era riservata al clero,

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mentre i fedeli rimanevano nelle navate laterali. In ogni caso, la navatacentrale era lo spazio attraverso il quale il clero si dirigeva in processio-ne – di grande importanza nel rituale di epoca paleocristiana – verso ilsantuario, segnalato dalla presenza dell’abside, inondato di luce graziealle grandi finestre che vi erano aperte. Il santuario conteneva l’altare,intorno al quale erano organizzate le celebrazioni liturgiche, separatodalla navata per mezzo di un pluteo, che diviene rapidamente un pluteoa colonnine le cui aperture potevano essere chiuse da tende. La varian-te più importante consisteva nella presenza o nell’assenza di un transet-to, spazio trasversale che s’interponeva tra le navate e l’abside. La suafunzione non è sempre chiara, ma senza dubbio serviva essenzialmentead aumentare lo spazio disponibile per il santuario.

La progressione architettonica dall’atrio all’abside, che dunque eraanche una progressione verso il sacro, era inoltre sottolineata dalla de-corazione [cfr. infra]. L’edificio basilicale, per la propria struttura, per-metteva di inscenarla facilmente. Tuttavia, anche l’edificio a pianta cen-trale poteva essere strutturato in modo da evidenziare un’organizzazio-ne analoga e si è potuto dire che quest’ultima tipologia era l’invenzionepiù originale degli architetti di Costantino [Brandenburg 754]. In effet-ti, le chiese a pianta centrale perfettamente simmetriche sono rare: è ilcaso di Santo Stefano Rotondo a Roma. La maggior parte di esse sonoinvece munite a est di un santuario ampiamente sporgente, che terminain un’abside e ha un aspetto assolutamente analogo a quello del santua-rio di una basilica. Il ruolo delle navate laterali è svolto dal deambula-torio, separato dallo spazio centrale per mezzo delle colonne e dei pila-stri che sorreggono la cupola.

Il successo di questo tipo di pianta è considerevole. Il più antico esem-pio conservato è sicuramente San Lorenzo di Milano; la trasformazio-ne subita dalla Rotonda di Tessalonica, senza dubbio intorno al 520,quando il mausoleo di Galerio fu trasformato in chiesa, la rese un ana-logo edificio dotato di deambulatorio. Tuttavia, gli esempi più numero-si, per giunta costituiti da monumenti di grande importanza, si trova-vano in Siria: la cattedrale di Apamea, quella di Seleucia di Pieria, lachiesa dei Santi Sergio, Bacco e Leonzio a lungo considerata come lacattedrale di Bostra, la «nuova» cattedrale di Bostra, forse quella di Re-safa-Sergiopoli, per non citare che i più spettacolari testimoni della pro-sperità di questa provincia. Tali esempi dimostrano ancora una volta chele chiese a pianta centrale non sono necessariamente martyria.

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1.2. Chiese, martyr ia e pel legr inaggi .

La nozione di martyrion necessita di un chiarimento. Il culto dei mar-tiri traeva la propria origine dagli onori resi ai morti in un periodo, il ivsecolo, in cui le pratiche funerarie, che hanno un’eco nello sviluppo del-l’arte funeraria cui si è fatta allusione in precedenza, sono ancora essen-ziali per radunare i cristiani. La Chiesa ha cercato di regolamentare ta-li manifestazioni, che spesso assumevano forme poco compatibili conl’austerità da essa rivendicata e che potevano rivolgersi a persone la cuiortodossia non era da essa riconosciuta. Ancora una volta, questi even-ti possono essere ricostruiti in maniera più agevole per l’Occidente, do-ve papa Damaso ha un ruolo fondamentale. Tuttavia è a Milano versola fine del iv secolo, su impulso di Ambrogio, che compare la volontà diriunire il corpo del martire e l’altare, e di associare conseguentemente ilculto del martire e la sinassi eucaristica: ciò fa venire meno la distinzio-ne tra i due tipi di edificio. In Oriente si profila la medesima tendenza,ma assume una forma differente: se infatti la volontà di santificare l’al-tare tramite la presenza di reliquie finisce per generalizzarsi analoga-mente all’Occidente, perlopiù sono reliquie assai frammentarie quelleche vengono poste in una fossa di piccole dimensioni, praticamente inac-cessibile, collocata sotto l’altare. San Demetrio di Tessalonica o San Gio-vanni di Studio a Costantinopoli ne sono due classici esempi. In Siriasono ben attestate differenti sistemazioni, di forma variabile, ma sem-pre corrispondenti al medesimo bisogno. A fianco di tale pratica, il cul-to dei corpi santi, accessibili all’adorazione dei fedeli, si sviluppa in for-me diverse, ma che non sono in relazione con l’altare. Il possesso di uncorpo santo è una questione importante per le chiese, in quanto può at-tirare pellegrini e dunque la prosperità. Il caso di San Demetrio di Tes-salonica è ancora una volta illuminante: non potendo rivendicare il pos-sesso del corpo del santo, il culto, ignorando completamente la reliquiacollocata sotto l’altare, si concentra su un ciborio posto nella navata cen-trale, dove il santo, a quanto si diceva, soggiornava di tanto in tanto.Simili situazioni sono tanto più importanti per una Chiesa che, nel mon-do romano orientale, non svilupperà un sistema ordinato di chiese par-rocchiali: a fianco delle chiese episcopali, le chiese sono invece fondatesenza concertazione da fondatori privati in condizioni che rendono i lo-ro mezzi di sussistenza spesso aleatori. Benché talora si utilizzi l’espres-sione di martyrion per le chiese che vantano il possesso di un rinomatocorpo santo, è più illuminante riconnetterla alla nozione di pellegrinag-gio. Il luogo di culto strutturato per il pellegrinaggio che, se non il più

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perfetto, è comunque il meglio conservato, si è creato intorno alla co-lonna su cui san Simeone Stilita ha trascorso gran parte della propria vi-ta, con quattro basiliche disposte in croce intorno alla colonna (Qal’atSiman) e il villaggio di Deir Siman, luogo di ospitalità per i pellegriniche si è sviluppato nei suoi paraggi.

1.3. Santa Sofia e lo svi luppo del la cupola.

È facile comprendere il successo della cupola. Anche senza parlaredel valore simbolico che era facile prestarle e a cui, come mostrano i te-sti, i contemporanei erano sensibili11, la percezione del volume genera-to da una cupola di grandi dimensioni è un’esperienza estetica che nonha colpito solo i fedeli di quei secoli, ma che anche noi siamo sempre ingrado di percepire. Basiliche e edifici a pianta centrale coesistono un po’dappertutto, benché si abbia l’impressione che le prime siano state piùnumerose in Grecia, mentre gli edifici a pianta centrale sembrano par-ticolarmente sviluppati in Siria. Certo, questi ultimi sono indubbiamen-te più dispendiosi da costruire, ma ci sono alcune basiliche (si vedanoper esempio San Demetrio di Tessalonica o San Leonida di Lecheo) perle quali l’impegno della decorazione, in particolare l’utilizzo di marmi,spesso importati dal Proconneso soprattutto per i colonnati e i capitel-li, di origini varie e policromi per i rivestimenti murari, è tale da nonpermettere di affermare che la scelta della basilica fosse dovuta a ragio-ni economiche. Queste basiliche di grande qualità, a differenza di edi-fici più modesti, hanno avuto bisogno dei servigi di un direttore dei la-vori competente, per non usare il termine architetto, che sapesse basar-si su un progetto teorico, mentre edifici più modesti devono essere staticostruiti ricorrendo a modelli standardizzati. A maggior ragione, gli edi-fici a pianta centrale necessitavano dell’intervento di artefici competen-ti e dotati di un solido sapere teorico.

Dopo la messa a punto, se non l’invenzione, della pianta centrale condeambulatorio, l’innovazione più importante e più gravida di conseguen-ze fu quella di adattare la cupola alla basilica, o piuttosto la basilica allacupola. Il problema tecnico era duplice: occorreva saper assicurare la tran-sizione tra il quadrato su cui doveva poggiare la cupola e il cerchio chene costituiva la base; poi occorreva capire come sarebbe stato possibile,in un edificio longitudinale come la basilica, sorreggere la cupola in ma-niera uguale da tutti i lati. La soluzione dei pennacchi per passare dalquadrato al cerchio era nota ai Romani, tuttavia non è mai stata, a quan-to pare, utilizzata su grande scala, ma solo in alcuni piccoli mausolei. Èpossibile, ma i pareri sono discordanti, che il primo tentativo in tal sen-

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310 La civiltà bizantina e i suoi fondamenti

so sia stato San Polieutto a Costantinopoli, costruito nel 524-27 su ini-ziativa di Anicia Giuliana. Quest’edificio, di cui si conservano solo lefondamenta, è comunque di estrema importanza, perché la sua decora-zione architettonica scultorea indica un profondo rinnovamento del vo-cabolario decorativo grazie all’adozione di forme sassanidi.

Tuttavia, è Santa Sofia che per i posteri costituisce il simbolo di ta-le rinnovamento architettonico: l’audacia dei due architetti, Antemiodi Tralle e Isidoro di Mileto, ha persino compromesso la solidità dell’e-dificio. Santa Sofia resta un edificio eccezionale che, in effetti, non eb-be successori diretti. La formula della basilica a cupola propriamentedetta, con una cupola centrale sorretta da quattro volte a botte, verràelaborata solo successivamente, prima dell’iconoclasmo, ma in una da-ta difficile da determinare, benché si sia cercato di dimostrare che San-ta Sofia di Tessalonica, che corrisponde a questa tipologia, sia stata co-struita con questo impianto verso la fine del vi secolo. L’architettura bi-zantina posteriore dipenderà perlopiù da questo modello di base.

2. La decorazione delle chiese.

Anche i primi sviluppi della decorazione delle chiese non sono chia-ramente attestati nella parte orientale dell’Impero romano, nella qualesi conservano pochi monumenti del iv secolo. Occorre dunque fare ra-pidamente il punto su quanto è possibile apprendere dall’Occidente ro-mano, benché, prima dell’ultimo terzo del iv secolo, le domande sianopiù numerose delle certezze. Allo stato attuale delle conoscenze, i se-guenti elementi sembrano certi: le decorazioni monumentali, con scenee personaggi, non sembrano attestate prima di questa data, la più alta arisultare verosimile per gli affreschi della navata di San Pietro a Roma(e senza dubbio per il mosaico dell’abside, qualunque ne sia stato il sog-getto); la decorazione della navata principale e dell’abside di San PaoloFuori le Mura risale all’incirca al 400; il mosaico dell’abside di SantaPudenziana è dei primi anni del v secolo (forse tra il 410 e il 417), quel-li della navata di Santa Maria Maggiore sono contemporanei alla sua fon-dazione (432-40).

Pochissime fonti permettono di istituire un paragone con le decora-zioni della pars Orientis per il medesimo periodo. I testi parlano assaispesso di immagini isolate, come il sacrificio di Isacco e ritratti di san-ti; più raramente, di cicli narrativi: Asterio di Amasea descrive nel 400le immagini che raccontano il martirio di santa Eufemia. Tuttavia, nonc’è alcuna testimonianza per grandi cicli che prendano inizio dalla Crea-

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zione e neppure che illustrino la vita di Cristo. Questa non è una ragio-ne per pensare che non siano esistiti. La testimonianza di Epifanio diSalamina, che domanda all’imperatore Teodosio di far bruciare le ten-de su cui sono rappresentati il Cristo, i profeti e gli apostoli, di far spa-rire gli affreschi e, se possibile, i mosaici, non ci informa con precisio-ne sulle immagini esistenti. Comunque, tali immagini esistevano e inOriente come in Occidente l’iconografia dei personaggi sacri non è an-cora completamente fissata, dal momento che Epifanio argomenta lapropria ostilità verso le immagini facendo riferimento alle differenze trale diverse rappresentazioni di una stessa persona.

2.1. Le immagini absidal i 12.

Solamente per il vi secolo siamo meglio informati grazie a qualcheraro testo e a monumenti sopravvissuti. Non bisogna farsi depistare dal-l’assenza di immagini nella Santa Sofia di Giustiniano. L’immensità del-lo spazio e la distanza alla quale sarebbero state collocate immagini maldistinguibili (come è possibile comprendere dal fatto che la Vergine, raf-figurata nell’abside nel ix secolo, resta poco visibile dalla navata nono-stante le sue dimensioni) bastano a spiegare questa scelta. Come in Oc-cidente, l’immagine più importante è quella che decora l’abside princi-pale dov’è celebrata la liturgia. Fino alla metà del vi secolo, vi campeg-gia come figura principale l’immagine di Cristo. I più celebri esempi con-servati sono quelli del monastero di Cristo Latomo, oggi chiamato piùfrequentemente Hosios David, a Tessalonica, e di San Vitale a Raven-na. Queste due immagini sono pressappoco contemporanee. Dal mo-mento che in un’abside romana anch’essa quasi contemporanea, quelladei Santi Cosma e Damiano, il Cristo occupa ugualmente un ruolo pre-minente, non è fuori luogo ritenere che queste immagini perpetuino latradizione di cui Santa Pudenziana è il nostro primo esempio. Tra Orien-te e Occidente, dunque, non c’era una fondamentale opposizione pertali immagini absidali. Si possono facilmente analizzare nei medesimitermini: non tentano di rappresentare il Cristo storico, incarnato, masono concepite come visioni di Dio, come forme nelle quali Dio può mo-strarsi, come aveva già fatto per alcuni profeti dell’Antico Testamento;devono così suggerire che la liturgia si svolge in presenza di Dio. L’ap-parizione di questa immagine verso la fine del iv secolo va messa in re-lazione col trionfo dell’ortodossia nicena sull’arianesimo nel contestodell’Impero.

Tuttavia, a metà del v secolo questa formula, come se non sembras-se più soddisfacente, tende a essere sostituita da nuove immagini. Nel-

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la basilica dedicata dal vescovo Eufrasio a Poreã (Parenzo), pressappo-co contemporaneamente a San Vitale, la decorazione absidale è paralle-la a quella di Ravenna, ma la figura centrale del Cristo è sostituita daquella della Vergine col Bambino. Un’immagine analoga si trovava nel-l’abside di San Sergio di Gaza, un po’ più antica (senza dubbio del 536),nota solamente tramite la descrizione di Coricio di Gaza. Questa icono-grafia preannuncia l’immagine che, nei secoli posteriori, è destinata adivenire la più frequente nelle absidi bizantine. Qualche tempo dopo, aSant’Apollinare in Classe di Ravenna e contemporaneamente nella chie-sa principale del monastero di Santa Caterina del Sinai, fondata da Giu-stiniano, questo posto è occupato da immagini della Trasfigurazione.Tale scelta comporta una maggiore distanza tra lo spettatore e l’imma-gine: nella formula tradizionale, l’immagine in un certo modo aveva lafunzione di teofania e mostrava Dio presente, mentre invece nella Tra-sfigurazione la teofania è mostrata attraverso il riferimento a una scena«storica». Questa distanza è ancora più grande a Sant’Apollinare, giac-ché la stessa scena della Trasfigurazione è evocata solo in maniera pret-tamente simbolica.

L’uso del Cristo come immagine di Dio, tuttavia, non sarà abbando-nata nel mondo bizantino: è alla base dell’immagine del Pantocrator che,dopo l’iconoclasmo, occuperà le cupole bizantine. Le immagini di Cri-sto nelle absidi di Bauit, adesso datate al vii secolo, hanno il medesimosignificato.

I rari esempi conservati non permettono affermazioni generali sullealtre immagini presenti nel santuario. A San Vitale di Ravenna, benchéquest’interpretazione non sia unanimemente accettata, la scelta dellescene rappresentata intorno all’altare di San Vitale ha legami profondicon la liturgia, alla quale non è difficile dimostrare che queste immagi-ni fanno allusione.

2.2. Immagini del le cupole e programmi narrat ivi .

Si conosce ancor meno il programma delle navate o, più in genera-le, degli spazi situati al di fuori del santuario, giacché questa osserva-zione riguarda tanto le chiese a pianta centrale quanto le basiliche. Trale prime l’unica decorazione, a mosaico, parzialmente conservata è quel-la della Rotonda, adesso chiamata San Giorgio, di Tessalonica. La suadatazione è ancora discussa: questi mosaici potrebbero essere di pocoposteriori al 520, ma alcuni autori preferiscono pronunciarsi per il ter-zo quarto del v secolo. Un Cristo in piedi che regge una croce, rappre-sentato in un medaglione sorretto da angeli, occupava il culmine della

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cupola. Era circondato da una serie di personaggi di cui si conservanosolo i piedi; infine, nella parte bassa della cupola si trova il celebre fre-gio dei santi davanti a un fondale di architetture. In genere si ritieneche vi sia rappresentata la Seconda Venuta di Cristo13. Tuttavia, nonpossono essere addotti paralleli che permettano di trarre conclusionipiù generali da quest’unico esempio, tanto più che, all’inverso, la de-corazione contemporanea dell’abside è ignota, poiché l’Ascensione, icui resti sono ancora visibili nella conca, risale al ix secolo. Nella cupo-la di San Vitale a Ravenna non è conservata alcuna traccia di decora-zione ed è poco plausibile che nel vi secolo vi fossero stati mosaici o af-freschi; al massimo si può ipotizzare una decorazione non figurativa astucco. La descrizione di Coricio di San Sergio di Gaza non menzionadel resto alcuna figurazione nella cupola (che peraltro, a quanto si puòarguire dalla sua descrizione, non era necessariamente in muratura, mapoteva essere stata di legno). Dunque è senz’altro l’immagine absidalea costituire in genere l’immagine più importante, qualunque fosse sta-ta la copertura della chiesa.

Coricio è la nostra unica fonte anche per le scene rappresentate nel-le navate: ci descrive una lunga serie di episodi della vita di Cristo, com-presi alcuni miracoli. Tale ciclo non va dunque considerato il precurso-re immediato dei cicli mediobizantini [cfr. inoltre infra]. Coricio tutta-via precisa di non descrivere tutte le scene rappresentate e non fornisceindicazioni sulla disposizione di tali immagini nella chiesa. Non cono-sciamo l’organizzazione di questo ciclo in rapporto allo spazio dell’edi-ficio: nelle chiese romane della fine del iv e del v secolo le immagini sileggevano da ambo le parti della navata a partire dal santuario, mentrenelle chiese bizantine posteriori all’iconoclasmo le immagini giravanoattorno alla chiesa14. Il primo sistema è ancora utilizzato a Sant’Apolli-nare Nuovo, nel primo quarto del vi secolo, per i miracoli e per le sce-ne della Passione di Cristo. Tuttavia questi cicli, eseguiti ancora duran-te il regno dell’ariano Teodorico, sono di per sé talmente isolati e la lo-ro origine è talmente controversa che non possono contribuire più ditanto all’avanzamento della discussione. È certamente opportuno rite-nere che, ancora nel vi secolo, se si eccettua qualche principio fonda-mentale che doveva essere rispettato, i committenti avessero una gran-de libertà nella scelta e nella disposizione della decorazione figurativa.

2.3. I mosaic i pavimental i .

In maniera tutto sommato comprensibile, i pavimenti a mosaico pos-sono raramente essere associati alle decorazioni a mosaico delle navate

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e delle volte: sono sopravvissuti tanto meglio quanto più era breve la vi-ta degli edifici in cui erano collocati. Ciò forse ha permesso a numerosipavimenti di edifici sacri di essere ritrovati in Grecia e in Siria, regionidove numerose chiese sono state abbandonate nel vii e nell’viii secolo.I mosaici erano meno costosi dei pavimenti di belle lastre di marmo odi quelli fatti con decorazioni di opus sectile, ma erano comunque assaidiffusamente utilizzati in monumenti che anche per il loro decoro archi-tettonico testimoniano dell’agiatezza dei committenti. Spesso sono as-sociati ad altre tecniche: la ripartizione nella chiesa corrisponde alla ge-rarchia degli spazi e i pavimenti più costosi si trovano nei santuari.

Questi cicli sopravvissuti permettono, più che per i mosaici parieta-li, meno numerosi, alcune osservazioni sul metodo di lavoro15, nonchésull’esistenza di laboratori che sono stati in particolare individuati a Ga-za. Gli stessi mosaicisti lavorano indifferentemente per chiese e sinago-ghe; alcune iscrizioni ci forniscono i nomi dei mosaicisti; tali firme so-no più frequenti di quanto non saranno in seguito nell’Impero bizanti-no. La maggior parte delle iscrizioni parla dei donatori, come accadràfrequentemente nel prosieguo della storia dell’arte bizantina. Si trattaperlopiù dei donatori dei pavimenti o di parti del pavimento, a dimo-strazione innanzitutto del carattere relativamente secondario di tale de-corazione: le iscrizioni di fondazione propriamente dette erano poste inluoghi più in vista [cfr., per l’Italia, Caillet 757]. Questi pavimenti fi-nanziati da più persone rappresentano donazioni meno onerose e mo-strano che le pratiche evergetiche divenivano accessibili a un maggiornumero di persone [Cutler 762].

Senza cercare di ripercorrere in questa sede i dettagli di un’evoluzio-ne cronologica che non procede necessariamente di pari passo in tuttele regioni, occorre tuttavia richiamare l’attenzione su un progressivo ar-ricchimento del repertorio, dalle decorazioni geometriche a un copiosoassortimento zoomorfo che va per la maggiore nel vi secolo. I soggettipropriamente religiosi sono estremamente rari: la più notevole eccezio-ne conosciuta è il mosaico che rappresenta Adamo a Huarte16. Questariluttanza è dovuta alla volontà di non veder calpestate immagini dalcontenuto esplicitamente sacro. Viene messa in relazione con un edittodi Teodosio II tramandato dal Codice giustinianeo (1.8.1), che a dire ilvero proibisce solo la rappresentazione sul suolo delle croci, ma è facilecapire come, pur senza una costrizione legale, abbia potuto diffondersiuna proibizione di fatto.

Le immagini figurate sui pavimenti, tuttavia, non avevano necessa-riamente solo una funzione ornamentale. H. Maguire [791] ha mostra-to la prudenza con cui occorre interpretarle: talora dicono esplicitamen-

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te cosa rappresentano, talaltra hanno un evidente significato simbolico.Resta il fatto che spesso, davanti a ciascun singolo pavimento, il com-mentatore moderno rimane perplesso sulla sua interpretazione. Tutta-via il contemporaneo, che camminava su questi mosaici quando si reca-va ad assistere a una liturgia, senza dubbio non era meglio informato esperimentava la medesima difficoltà, se mai si poneva la questione. Co-munque fosse, questi mosaici concorrevano allo splendore dell’insiemee perciò contribuivano a elevare l’anima verso Dio, secondo il principiodell’anagogia espresso nelle opere attribuite a Dionigi l’Areopagita.

3. Le arti suntuarie.

Una parte delle osservazioni fatte sui mosaici pavimentali si applicasenza difficoltà anche agli oggetti e alle decorazioni in metallo preziosoutilizzati nelle chiese. Il loro impiego era giustificato dal valore simbo-lico connesso a tali materiali, al punto che anche uomini di chiesa dallareputazione ascetica, come il patriarca Severo di Antiochia, giustifica-vano il loro impiego. Come per i mosaici, i doni potevano essere di va-lore assai variabile, al punto che il merito della donazione è accessibilea un ampio ventaglio sociale, tanto più che varie persone potevano as-sociarsi per uno stesso oggetto. Tuttavia, è con evidente voluta esage-razione che lo stesso Severo di Antiochia affermava in un sermone cheil più povero di coloro ai quali si rivolgeva era comunque in grado di do-nare una libbra d’argento alla chiesa17. Tali oggetti non erano solo quel-li che servivano all’eucaristia propriamente detta, come calice, patena,asterisco (un esemplare è conservato nel tesoro di Sion) [Boyd 753, fig.7.1], rhipidia (ventagli) – un paio dei quali, decorato di cherubini e se-rafini, è conservato [Mundell Mango 798] –, ma anche croci, incensie-ri, lampade (queste ultime categorie esistevano anche in bronzo). Gli og-getti così offerti erano destinati sia a un uso effettivo, sia a essere con-servati nelle chiese come «tesori», che potevano essere alienati solo incircostanze eccezionali.

I numerosi ritrovamenti di oggetti liturgici in argento permettono,se li si confronta con le informazioni fornite dai testi letterari e da qual-che raro testo documentario, di farsi un’idea del valore delle donazionie delle gerarchie sociali ed economiche da esse implicate. M. MundellMango ha riunito la documentazione essenziale18. Dal iv al vii secolo,dal momento che il rapporto tra l’oro e l’argento era restato stabile, lastudiosa ha potuto determinare il valore degli oggetti di cui si conosce-va il peso. Questi pesi, e dunque i valori corrispondenti, sono assai va-

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riabili. Numerosi oggetti liturgici pesano esattamente 1 libbra. Il lorovalore di circa quattro solidi corrisponde a quello di un pannello di mo-saico pavimentale. Una patena poteva peraltro pesare fino a 20 libbre,ossia corrispondere a un dono da 80 solidi, un costo che risulta altroveattestato per le riparazioni di un’intera chiesa.

Alcuni donatori o gruppi di donatori forniscono numerosi oggetti, senon addirittura la totalità delle suppellettili liturgiche di una stessa chie-sa. Alcune scoperte archeologiche hanno permesso di ritrovare comples-si di oggetti provenienti da una medesima chiesa. Si è cercato di rico-struire con argomenti solidi, ma che non sono stati unanimemente ac-cettati [Mundell Mango 798], il tesoro della chiesa del villaggio di KoperKaraon a partire da gruppi di oggetti oggi dispersi (la dispersione è for-se posteriore alla scoperta del tesoro). L’altra collezione che occorre as-solutamente citare, notevole per la qualità del lavoro, in particolare perdelle costose lampade traforate, è il tesoro di Sion [Boyd 753].

Le donazioni più importanti, e di conseguenza gli oggetti più spet-tacolari, sono state fatte dai sovrani. Sono conosciute soprattutto daitesti, talora da immagini (è il caso della patena e del calice tenuti da Giu-stiniano e Teodora nei mosaici di San Vitale a Ravenna). Sono già atte-state per Costantino nel Liber Pontificalis; in maniera meno ovvia, Co-sroe II fa un’importante donazione di oggetti liturgici alla chiesa di Re-safa nel 592. I sovrani non si accontentano di oggetti d’argento, ma neoffrono anche d’oro. Non sembra che, per quanto riguarda questo pe-riodo antico, tali oggetti d’oro siano stati conservati.

Solo una parte di queste suppellettili liturgiche è decorata, senza chei personaggi rappresentati, per esempio la Comunione degli Apostoli sul-le due patene dette di Riha e Stuma, siano necessariamente di qualitàelevata. Ciò deve rammentarci che la maggior parte di quello che è sta-to ritrovato apparteneva a chiese di villaggio, cosa che certo aveva ri-percussioni sulla loro qualità.

L’argento era ancora utilizzato in grande quantità come rivestimen-to architettonico. Questo utilizzo è conosciuto grazie a fonti testuali.Vi sono numerose attestazioni che parlano di cibori rivestiti d’argentoe di troni episcopali o templa ornati nel medesimo modo. Occorre limi-tarsi a ricordare l’esempio indubbiamente più prestigioso, il templon diSanta Sofia com’è descritto da Paolo Silenziario. Questo tipo di deco-razione è attestato senza soluzione di continuità a partire dai rivesti-menti donati da Costantino alla basilica del Laterano fino al ciborio disan Demetrio, rifatto verso la fine del vi secolo nella sua chiesa di Tes-salonica grazie a una serie di donazioni. Quest’ultimo esempio mostrache per quest’uso si ricercava esplicitamente l’argento, giacché, nella

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narrazione del miracolo di san Demetrio [211, 1.6.60] che ci riporta que-st’episodio, il santo raccomanda proprio al futuro donatore di offrire alvescovo dell’argento e non dell’oro.

iii. dalla fine del vi alla metà del vii secolo.

1. Icone ed eulogie.

Alcuni esempi appena citati ci portano alla fine del vi e all’inizio delvii secolo. Nell’uso dell’argento nelle chiese c’è un’effettiva continuitàper tutto il corso del periodo affrontato in questa sede. Non succede al-trettanto per le immagini in generale e alla fine del vi secolo è stato ge-neralmente associato un cambiamento. Le immagini cristiane divengo-no allora più numerose e si sviluppa il loro uso privato. Dal momentoche vi sono poche costruzioni o nuove decorazioni che siano messe inopera, è difficile trarre conclusioni sull’evoluzione del programma de-corativo delle chiese, ma le poche tracce suggeriscono in maniera analo-ga che un posto importante fosse riservato a pannelli isolati, la cui fun-zione non doveva essere molto differente da quella delle immagini mo-bili di cui è chiara l’importanza [cfr. cap. viii].

Le testimonianze letterarie ci mostrano lo sviluppo di quelle chel’Occidente moderno chiama «icone», ossia immagini mobili, perlopiùdipinte su un pannello di legno, per quanto immagini similari venganoeseguite anche in metalli preziosi e avorio e su tessuti. Possono esserel’oggetto di una devozione personale da parte di chi le possiede, il sup-porto di una meditazione, ma soprattutto permettono il dialogo tra ilfedele e il santo personaggio rappresentato nell’immagine. Alcune ico-ne conservate nel monastero di Santa Caterina del Sinai mostrano leloro caratteristiche generali [Weitzmann 819]: perlopiù, uno o più per-sonaggi vi sono rappresentati frontalmente. I mezzi stilistici variano,ma, pur con sfumature che qui non possono essere trattate in dettaglioe con alcune notevoli eccezioni, la tendenza è verso immagini in cui ilvolume sparisce e lo spettatore è fissato da uno sguardo frontale. I mo-saici di San Demetrio di Tessalonica, posteriori al restauro del 630 cir-ca, mostrano in maniera chiarissima la conclusione di questa evoluzio-ne stilistica; si può istituire un confronto con un drappo raffigurante laVergine conservato al Museo di Cleveland. Benché la questione stili-stica vi si ponga in termini differenti, occorre citare i numerosi avori

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del vi secolo in cui Cristo o la Vergine occupano il pannello centrale diuna placca.

Negli stessi anni si sviluppa l’uso di oggetti chiamati «eulogie», «be-nedizioni». Erano legati ai pellegrinaggi, che divengono sempre più im-portanti. Le eulogie sono in un certo modo souvenir di pellegrinaggio,ma non erano semplicemente conservate in quanto tali dai pellegrini. Illoro detentore si aspettava da esse diversi benefici. Vi sono numerositesti che menzionano questi oggetti portati al collo o appesi al letto. Ta-li oggetti o il materiale di cui sono costituiti sono stati in contatto conun luogo santo o con un corpo santo o, più semplicemente, provengonodallo stesso luogo santo. Sono note le ampolle di san Mena o le eulogiedi Simeone Stilita. Le più celebri sono le ampolle che provengono dallaTerra Santa, in particolare quelle che sono conservate nel tesoro dellacattedrale di Monza e a Bobbio. L’iscrizione principale che vi comparemostra che venivano dal Santo Sepolcro e che contenevano dell’olio cheera stato messo in contatto, o più verosimilmente che era stato conte-nuto nelle lampade in prossimità della reliquia della Croce a Gerusalem-me. Su ciascuna faccia compare di solito una scena della vita di Cristo;quelle rappresentate più frequentemente, spesso associate sulla medesi-ma ampolla, sono in maniera assai comprensibile la Crocifissione e le PieDonne al Sepolcro, immagine perlopiù utilizzata per mostrare la Resur-rezione. Si ritiene frequentemente che i dettagli di tali immagini s’ispi-rino direttamente alla topografia dei Luoghi Santi, o talora a un’imma-gine, un mosaico per esempio, che decorava il santuario principale di unluogo santo. Se ne vuole concludere che si tratti di un’iconografia crea-ta sul posto, un’iconografia «palestinese», il cui ruolo sarebbe essenzia-le per lo sviluppo delle immagini bizantine.

Tuttavia, questa maniera di mescolare situazioni presenti alla rap-presentazione di un avvenimento passato ha un significato che sembramolto più interessante della semplice possibilità di determinare l’origi-ne dell’iconografia. Le scene rappresentate non sono più legate al tem-po: si stabilisce una sorta di confusione tra tempo ed eternità. In modopiù concreto, il pellegrino, quando è presente nei Luoghi Santi o quan-do vede queste immagini, rivive la scena e si identifica con un testimo-ne. È stato dimostrato che due personaggi, rappresentati ai piedi dellaCroce su alcune ampolle, dovevano essere interpretati come rappresen-tazioni degli stessi pellegrini. Queste immagini vanno accostate ai testiin cui i pellegrini affermano di rivivere la scena che si è svolta nei luo-ghi dove essi si trovano. Questo legame stabilito tra differenti epoche,questo modo di superare il tempo sarà una costante dell’arte bizantinanei secoli posteriori.

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La protezione arrecata dalle eulogie ai loro detentori dà a questi og-getti un significato apotropaico che è anche quello attribuito a immagi-ni o a iscrizioni che si trovano al di sopra delle porte delle chiese e del-le case. Alcune di queste ampolle mostrano in modo ancora più esplici-to tale legame con le immagini e gli oggetti apotropaici. Sulla loro facciaprincipale sono rappresentate sette (in un caso nove) scene della vita diCristo, sei delle quali sono disposte in cerchio intorno a una scena cen-trale. La stessa serie di scene si ritrova sul corpo di qualche anello e sualcuni braccialetti, dove sono associate a segni specificamente apotro-paici. La disposizione circolare rafforza tale carattere, tanto più che lescene formano un circolo chiuso anche per il loro contenuto, poiché rap-presentano in questa forma cursoria un ciclo completo della vita del Cri-sto, dall’Annunciazione all’Ascensione. Non è difficile accorgersi chequesti cicli, per la scelta delle scene che li compongono, preannuncianoi cicli della vita del Cristo così come sono destinati a svilupparsi nellechiese bizantine dopo l’iconoclasmo. La stessa serie si trova anche al-l’interno del coperchio di un reliquiario conservato nei Musei Vaticani,ma è differente dai cicli attestati nelle chiese paleocristiane, compresoquello descritto da Coricio di Gaza: questo dimostra che la spiegazionedella differenza non va cercata nella geografia. Allo stesso modo, que-sta serie differisce dai cicli della vita di Cristo rappresentati sugli avoridel v e vi secolo, dove i miracoli sono ancora largamente presenti.

2. Una nuova sensibilità cristiana.

I due fenomeni appena descritti non vanno contrapposti. Icone e cul-to delle immagini si sviluppano a fianco di oggetti il cui significato apo-tropaico è evidente. Certo, si possono introdurre sottili distinzioni traatteggiamenti «religiosi», caratterizzati dalla preghiera davanti alle im-magini, e atteggiamenti «magici», caratterizzati dalla credenza nel po-tere magico di altre immagini. Tale distinzione, che riprende quella, ac-colta con grande favore dalla storiografia recente, tra «credenze popo-lari» e «religione delle élites», non corrisponde a quanto ci mostrano lefonti. Il ruolo svolto da un’icona della Vergine nella difesa di Costanti-nopoli, per esempio, è solo un caso tra tanti che mostrano il carattereufficiale del culto delle immagini. Si è anche voluta vedere nello svilup-po del culto delle immagini la conseguenza delle crisi che cominciavanoa travagliare l’Impero bizantino a partire dalla fine del vi secolo: l’an-goscia delle popolazioni minacciate avrebbe permesso uno sviluppo de-gli atteggiamenti irrazionali.

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Sono peraltro possibili altre spiegazioni. Questo periodo è anche quel-lo in cui il cristianesimo si è definitivamente e completamente impadro-nito dell’immaginario e dei simboli. Nell’ambito imperiale, tale evolu-zione è simboleggiata dal mutamento della titolatura di Eraclio, che viintroduce l’espressione «pistos en Christo» (fedele in Cristo), nonché daimmagini come quelle che compaiono su una serie di piatti d’argento, incui alcune rappresentazioni di scene della vita di David, eseguite con ar-te raffinata, alludono all’imperatore. Lo sviluppo delle immagini cristia-ne e i nuovi aspetti del loro uso sono la conseguenza di un duplice mo-vimento: l’allontanamento dall’Antichità permette una cristianizzazio-ne delle pratiche apotropaiche, che ritrovano una legittimità di cui era-no prive quando apparivano troppo legate alle antiche credenze. Dalcanto loro, le autorità religiose tenterebbero con successo variabile dicontrollare queste pratiche e le immagini su cui si basano. Il culto deisanti, che appaiono come intercessori, è connesso a tale sviluppo delleimmagini, proprio come nel caso del culto della Theotokos, il cui svilup-po, a partire dalla fine del vi secolo, è ben conosciuto [Cameron 616;Vassilaki 812]. È a questo livello che l’indebolimento del potere centra-le, indipendentemente da quali ne fossero le cause, ha potuto avere unruolo e permettere lo sviluppo di forme religiose non controllate. Que-sto stesso contesto permette di spiegare la contemporanea apparizionee soprattutto il successo delle immagini achiropite, non fatte da manod’uomo19. C’è sempre stato bisogno di un appoggio istituzionale perchédivenissero oggetto di venerazione, spesso di lunga durata, su un terri-torio che superava l’ambito locale. Occorre innanzitutto citare la cosid-detta immagine di Camuliana, dal nome del villaggio dell’Asia Minoredove una donna l’avrebbe trovata dentro un pozzo asciutto, circostan-za indicatrice del suo carattere miracoloso. Tale immagine, la prima aessere portata in processione attraverso l’Impero, sarà utilizzata per pro-teggere l’esercito nel corso delle campagne.

L’immagine di Edessa compare analogamente verso la fine del vi se-colo, in occasione degli scontri tra Bizantini e Persiani per il possessodella città. Si riteneva che fosse l’immagine inviata da Cristo ad Abgar,re di Edessa, che desiderava incontrarlo. Il Cristo l’avrebbe creata po-nendosi un panno sul volto. L’immagine di Edessa, a differenza di quel-la di Camuliana, che finisce per cadere nell’oblio, è destinata a una fa-ma ancora più grande a partire dal x secolo, quando, durante il regno diCostantino Porfirogenito, il mandylion, come sarebbe stato chiamato, èritrovato in Edessa riconquistata e trasportato a Costantinopoli. Lapreoccupazione di avere immagini autentiche, che legittimano le imma-gini nel loro complesso, è presente in queste storie, così com’è presente

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nelle storie che nella medesima epoca fanno risalire un’immagine dellaVergine a san Luca, che l’avrebbe ritratta20.

Il culto delle immagini, i miracoli che procurano, i santi personaggicui ci si rivolge attraverso di esse, piuttosto che il segno di una sorta diregressione intellettuale sono la manifestazione di un cristianesimo cheha assimilato comportamenti umani che inizialmente gli erano estranei.I cambiamenti nel cristianesimo alla fine del vi secolo segnano la fine diun periodo; lo sviluppo delle immagini cristiane è un’indicazione certadel fatto che il cristianesimo non era più imbarazzato dalle modalità dirappresentazione, se non di pensiero, legate a un passato che del restogli aveva fornito i suoi primi modelli.

1a. riegl, Spätrömische Kunstindustrie, Wien 1901 (seconda ed. 1927).

2av. cameron, Images of Authority: Elites and Icons in Late Sixth-Century Byzantium, in m.

mullet e m. scott (a cura di), Byzantium and the Classical Tradition, Birmingham 1981, pp.205-34.

3l. robert, Hellenica, IV. Épigrammes du Bas-Empire, Paris 1948.

4p. zanker, Augusto e il potere delle immagini, trad. it. Torino 1989.

5g. dontas, Collection Canellopoulos (IX): portrait de Galère, BCH, 99 (1975), pp. 521-33.

6u. peschlow, Eine wiedergewonnene byzantinische Ehrensäule in Istanbul, in o. feld e u. pe-

schlow (a cura di), Studien zur spätantiken und byzantinischen Kunst. F. W. Deichmann gewid-met, Bonn 1986, III, pp. 75-79.

7a. grabar, Les monuments de Tsaritchin Grad et Justiniana Prima, CArch, 3 (1948), pp. 49-63;frammento inedito trovato negli scavi della città bassa nel 1990; MEFRM, 103, I (1991), p.446 e fig. 10.

8k. weitzmann, Illustration in Roll and Codex. A Study of the Origin and Method of Text Illustra-tion, Princeton 1947 (nuova ed. 1970).

9a. cutler, Uses of Luxury. On the Function of Consumption and Symbolic Capital in ByzantineCulture, in a. guillou e j. durand (a cura di), Byzance et les images, Paris 1994, p. 298.

10v. corbo, Il Santo Sepolcro di Gerusalemme, Gerusalemme 1982.

11k. e. macvey, Domed Church as a Microcosm. Literary Routes of an Architectural Symbol, DOP,37 (1983), pp. 91-121.

12 Cfr. Spieser 809.13

w. e. kleinbauer, The Iconography and the Date of the Mosaics of the Rotunda of Hagios Geor-gios, Thessaloniki, «Viator», 3 (1972).

14j.-m. spieser, Décor de portes et hiérarchisation de l’espace dans les églises paléochrétiennes, «Klio»,1995, pp. 433-45.

15 Ma adesso si veda i. andreescu-treadgold, The Mosaic Workshop at San Vitale, in a. m. ian-

nucci e altri (a cura di), Mosaici a San Vitale e altri restauri, Ravenna 1992, pp. 1-8.16

p. e m.-t. canivet, Huarte sanctuaire chrétien d’Apamène, ive-vie s., Paris 1987.

17m. mundell mango, The uses of liturgical silver, 4th-7th centuries, in r. morris (a cura di), Chur-ch and People in Byzantium, Birmingham 1990, pp. 245-61.

18m. mundell mango, The monetary value of silver revetments and objects belonging to churches,AD 300-700, in Boyd 753, pp. 123-36.

L’arte imperiale e cristiana: unità e diversità 321

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322 La civiltà bizantina e i suoi fondamenti

19 Tra le ultime ricerche sulle achiropite di Cristo occorre menzionare g. morello e g. wolf

(a cura di), Il Volto di Cristo, Milano 2000; h. l. kessler e g. wolf, The Holy Face and theParadox of Representation, Bologna 1998.

20m. bacci, Il pennello dell’Evangelista. Storia delle immagini sacre attribuite a san Luca, Pisa 1998.

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parte quarta

Le province

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bernard bavant

xi. L’Illirico

i. l’illirico nel contesto delle strutture amministrative.

Con il nome di Illirico o Illiria (Illyricum, Illyria) intendiamo le duediocesi di Dacia e di Macedonia, congiunte a costituire una prefetturadel pretorio dell’Impero d’Oriente. Tale vasto comprensorio, esteso dalDanubio al Peloponneso, non è delimitato da confini naturali se non asud-est (sistema del Rodope) e a ovest (Alpi dinariche), mentre si aprelargamente a nord-est sulla pianura danubiana e a nord-ovest sulla Pan-nonia. Fra la Dalmazia – tradizionalmente gravitante sull’Italia – e laTracia – naturale espansione del retroterra costantinopolitano –, l’iden-tità del territorio non è nettamente definita, sicché il suo stesso statutostorico riuscì a chiarirsi soltanto con difficoltà.

Sotto la Tetrarchia, i Balcani nel loro complesso – l’Illirico nell’acce-zione geografica del termine – vengono concepiti come un ampio pontegettato tra l’Oriente e l’Occidente. Presto se ne separerà la diocesi diTracia1, lasciando all’Oriente il controllo degli Stretti e del Mar Nero,mentre il resto della penisola continuerà a essere amministrata dall’Ita-lia. Con lo sviluppo di Costantinopoli e l’allontanamento progressivo del-l’Oriente dall’Occidente, l’Illirico verrà piuttosto sentito come il puntodi articolazione delle due partes Imperii, se non addirittura come la postamessa in gioco dal rapporto di rivalità istituitosi tra le stesse. Il susseguir-si delle invasioni altererà successivamente la dislocazione di tale snodogeopolitico per fissarlo durevolmente lungo il corso della Drina, ceden-do la Dacia e la Macedonia all’Oriente. Ma la geografia amministrativacontinuerà in proposito a esitare ancora a lungo, come si vedrà.

1. L’Illirico nel contesto dell’Impero: incertezze dell’assetto ammini-strativo.

Nel iv secolo si designa con il nome di Illirico l’insieme delle tre dio-cesi civili di Macedonia, Dacia e Pannonia, che sin dal 337 circa face-

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326 Le province

vano parte integrante della prefettura congiunta d’Illirico, Italia e Afri-ca: un’area amministrativa comprendente un terzo dell’Impero, quellodei territori centrali inclusi tra la prefettura delle Gallie (dalla Britan-nia alla Spagna) e la prefettura d’Oriente (dalla Tracia all’Egitto). Lanascita dell’Illirico protobizantino appare essere il risultato di una ten-denza duplice, mirante a costituire dapprima una prefettura separatadell’Illirico e poi a suddividerla ulteriormente, unendo da un canto laPannonia all’Italia e annettendo dall’altro le due diocesi rimanenti allapars Orientis [Lemerle 841].

In due occasioni, nella seconda metà del iv secolo, le tre diocesi sa-ranno costituite in circoscrizione prefettizia particolare: la prima voltafra il 357 e il 361, e successivamente quando Graziano dovrà governa-re l’Occidente intero in qualità di tutore del giovane Valentiniano II,dal 375 al 379. In entrambi i casi, tale «prefettura a intermittenza» haper capitale Sirmio.

Con l’avvento di Teodosio, nel 379, le esigenze dettate dalle condi-zioni di ostilità con i Goti inducono a una prima e provvisoria ripartizio-ne del territorio allorché Graziano, soppressa la prefettura illiriciana, con-giunge la Pannonia all’Italia, mentre Teodosio amministra direttamenteDacia e Macedonia dalla sua sede di Tessalonica. A partire dal 380, tut-tavia, queste ultime diocesi sono restituite all’Occidente. L’Illirico cosìriunificato viene presto annesso a una prefettura italica posta sotto go-verno collegiale; tale rimane la situazione fino al 383, quando Grazianoviene assassinato. Già al momento in cui l’usurpatore Massimo invadel’Italia (387) Teodosio si trasferisce a Tessalonica e fa delle diocesi di Da-cia e di Macedonia una prefettura geminata con quella d’Oriente. Pure,dopo il suo trionfo sull’usurpatore a Petovio (388), egli ristabilisce l’an-tica prefettura centrale, di cui dapprima si assume il governo per resti-tuirlo successivamente (391) a Valentiniano II, il quale ne rimarrà, alme-no nominalmente, l’unico sovrano fino alla morte (392). Quando a Mi-lano Eugenio usurpa a sua volta la porpora, tutto l’Illirico ricade sotto ilsuo governo, benché Teodosio, preparando la propria risposta militare,abbia potuto forse riprendere in mano l’amministrazione delle due dio-cesi orientali senza avere il tempo di mutare questo stato di cose all’in-domani della sua vittoria nel settembre del 394 [cfr. cap. i].

La definitiva annessione di Dacia e Macedonia alla pars Orientis, si-curamente di poco posteriore alla morte di Teodosio, si verifica perciòin condizioni di notevole incertezza, da sempre oggetto di forti contro-versie fra gli storici.

Al momento della sua ascesa al trono (gennaio 395) Arcadio può van-tare legittimamente diritti sulla sola prefettura d’Oriente, affidata a Ru-

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Carta 5. L’Illirico orientale.

L’Illirico 327

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MESIA I

MESIA II

SCIZIA

DACIARIPUARIA

DACIA MED.PREVALITANA

DARDANIA

MACEDONIAII

TRACIA

EMIMONTO

EPIRONUOVO

RODOPE EUROPAMACEDONIA I

TESSAGLIAEPIRO

ANTICO

ELLADE

CRETA

Sirmio Bassiana

IstriaTomi

NaissoNicopoli ad Istrum

Filippopoli

Lisso Adrianopoli

Durazzo EracleaLinceste Serre Filippi Topiro

Eraclea

Costantinopoli

Anfipoli

Tessalonica

Fotica Demetriade

Nicopoli

TebePatrasso Eleusi

Corinto AteneOlimpia Argo

Monemvasia

Gortina

SingidunumViminacium

Margum

Bononia

RatiariaOescus

Novae

Durostorum

Odessos

HorreumMargi

Remesiana

Cari™in GradSerdica

PautaliaScupi

Doclea Ulpiana

Scodra

Stobi

ApolloniaByllis

Larissa

Messene

TasoTenedo

Proconneso

porte di ferro

rodopi

stara planina

pin

do

termopili

Danub

io

Morava

pangeo

lunghe

mura

Sava

Drina

Vardar

Strimone

Marica

Tebe(Nea Anchialos)

200 km0 100

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328 Le province

fino, mentre il governo del resto dell’Impero è stato delegato da Teodo-sio a Stilicone; ma il governo di Costantinopoli avrebbe forse potuto al-lora detenere de facto anche il possesso dell’Illirico orientale. Comun-que fosse, l’inimicizia tra Rufino e Stilicone gioca a questo punto unruolo decisivo. Alla morte di Teodosio, Rufino rivendica per Arcadio lasovranità sulle diocesi di Dacia e di Macedonia. Dinanzi alle protestesollevate da Stilicone, il prefetto d’Oriente negozia con Alarico, che coni suoi Goti insorti minaccia Costantinopoli, incitandolo a dirigersi ver-so la diocesi di Macedonia. Appena appresa la notizia, Stilicone – all’e-poca comandante in capo degli eserciti di entrambe le partes2 – muove afronteggiare Alarico in Tessaglia, ma alla vigilia della battaglia decisivariceve da Arcadio l’ordine di far rientrare le truppe d’Oriente a Costan-tinopoli e di evacuare l’Illirico orientale. Il potente magister militum ob-bedisce, riconoscendo così la sovranità di Arcadio sulle due diocesi, su-bito poste sotto l’autorità di un prefetto del pretorio per l’Illirico resi-dente a Tessalonica3.

Senza dubbio, Stilicone non avrebbe ceduto tanto facilmente se nonavesse vagheggiato, una volta liberatosi di Rufino, di ottenere una de-cisiva influenza sul governo dell’Oriente. In effetti, la principale urgen-za delle truppe orientali inviate a Costantinopoli al comando di Gainafu quella di uccidere Rufino. Ma Eutropio, succeduto a quest’ultimo, sioppone con eguale fermezza a ogni ingerenza negli affari d’Oriente e al-la sua caduta (399) sarà il partito antigermanico a prendere il potere aCostantinopoli. Stilicone tenta perciò di riacquistare con la forza le duediocesi, e lo fa in due occasioni: dapprima nel 397, intervenendo in Gre-cia contro Alarico, e nuovamente (ma questa volta, al contrario, cercan-do di servirsene) nel 406.

I due tentativi falliscono e si resta così allo status quo del 395 regi-strato dalla Notitia Dignitatum, che distingue tra una diocesi dell’Illiri-co (nuovo nome attribuito alla diocesi di Pannonia), annessa alla prefet-tura d’Italia, e una prefettura al pretorio dell’Illirico, parte integrantedell’Impero d’Oriente.

Se la spartizione dell’Illirico effettuata in almeno due circostanze sot-to Teodosio non era stata in entrambi i casi che un episodio di breve du-rata, ciò fu certamente dovuto a una precisa volontà dell’imperatore:una duratura divisione sarebbe servita in effetti soltanto a dissociare ladifesa di Costantinopoli da quella d’Italia, intaccando l’unità dell’Im-pero che Teodosio aveva avuto a cuore di preservare. Tale divisione s’im-pone pertanto a partire dal momento in cui la diocesi di Pannonia vie-ne in gran parte occupata dai barbari. I Goti, insediati sin dal 380 inPannonia II e in Savia da Graziano in qualità di federati, sono rapida-

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mente raggiunti dagli Unni, i quali ben presto invadono la diocesi occu-pandone l’intera regione di nord-est. Queste regioni vengono certamen-te riconquistate da Felice, che ristabilisce il limes nel 427, ma poco do-po Ezio, rifugiatosi presso gli Unni dopo essere caduto in disgrazia pres-so la Corte imperiale (432), cede loro vasti territori compresi entro iconfini della Pannonia II – fatta eccezione per la regione di Sirmio – edella Valeria. La perdita progressiva della Pannonia aveva fatto dellediocesi di Dacia e di Macedonia la linea di difesa avanzata di Costanti-nopoli; dal canto suo, la Corte di Ravenna, che anche dopo la morte diStilicone (408) non aveva cessato di rivendicare di tanto in tanto i suoidiritti sull’Illirico orientale, finisce senza dubbio per rinunciarvi defini-tivamente nel 437, in occasione delle nozze tra Valentiniano III ed Eu-dossia, figlia di Teodosio II [cfr. anche infra, pp. 330-31, a proposito diSirmio].

2. Strutture amministrative dalla fine del iv al principio del vii secolo.

2.1. I l quadro provincia le .

A grandi linee ben noto, esso data sostanzialmente all’età di Diocle-ziano, pur avendo subìto qualche lieve modifica sotto Costantino. È pos-sibile classificare le province documentate in età costantiniana in tregruppi:

– a sud, tre province non sfiorate dalle riforme dioclezianee: l’isoladi Creta (con capitale Gortina); l’Acaia o Ellade (Corinto), vecchiaprovincia senatoria, la sola ancora governata in epoca protobizan-tina da un proconsole; e l’Epiro (Nicopoli), detto ormai «antico»;

– al centro, tre province nate dallo smembramento dell’antica pro-vincia senatoria di Macedonia, voluto da Diocleziano: la Macedo-nia (Tessalonica), la Tessaglia (Larissa) a sud e, affacciato sull’A-driatico, l’Epiro nuovo (Durazzo);

– a nord, cinque province derivate principalmente dal frazionamen-to dell’antica Mesia superiore: la Dacia, divisa sotto Costantinonelle tre province di Dacia ripuaria (capitale Ratiaria), Dacia me-diterranea (Serdica) e Dardania (Scupi); per finire con l’ovest, ri-partito anch’esso in due province, Prevalitana (Doclea) e Mesia I(Viminacium).

La regione nel suo complesso costituiva sotto Diocleziano un’unicadiocesi civile, quella delle Mesie, suddivisa in epoca costantiniana (pri-

L’Illirico 329

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330 Le province

ma del 327) in una diocesi di Macedonia (comprensiva delle sei provin-ce più meridionali) e in una diocesi di Dacia (che aggregava le cinqueprovince del nord). I confini delle due diocesi corrispondevano dunquea quelli delle antiche province di Macedonia e Mesia superiore. Talequadro amministrativo subisce, tra la metà del iv e la fine del vi secolo,tre importanti mutamenti.

Il primo riguarda la Macedonia, ripartita dalla seconda metà del ivsecolo (verso il 386, secondo Mommsen) in due province: in effetti, laNotitia conosce, oltre la Macedonia propriamente detta, una MacedoniaSalutaris posta curiosamente a cavaliere sul confine tra due diocesi4. Alcontrario, Ierocle [107] distingue tra Macedonia I e Macedonia II, este-sa da est a ovest (dalla valle della Bregalnica al medio corso della Crna)fra la Macedonia I e la Dardania. Le due suddivisioni paiono difficil-mente sovrapponibili. Si è formulata in proposito l’ipotesi5 che la Ma-cedonia fosse stata riunificata al principio del v secolo per poi esserenuovamente divisa prima della fine del secolo; rimane tuttavia plausibi-le una semplice rettifica dei confini provinciali. Incerto è anche il desti-no della Macedonia II: Procopio non ne fa menzione e il fatto che siacitata fra le province sottomesse all’autorità residente in Iustiniana Pri-ma nel 535 (Nov., 11) ma non nel 545 (Nov., 131) ha potuto far pensa-re che fosse stata soppressa tra queste due date [ma cfr. infra, p. 334].

Il secondo cambiamento consiste nell’annessione alla diocesi dacicadella punta orientale della Pannonia II, comprendente le città di Sirmioe di Bassiana. All’inizio del v secolo la regione fa ancora parte dell’Illi-rico occidentale, ma, ormai completamente separata dall’Italia in con-seguenza dell’avanzata degli Unni, viene ceduta a Teodosio II nel 437dalla reggente Galla Placidia e diviene, pur continuando a serbare il no-me di Pannonia, la tredicesima provincia dell’Illirico orientale. A talestato di cose fa riferimento il Synekdemos di Ierocle. L’Oriente acquisi-sce così, assieme alla piazzaforte di Sirmio, una posizione chiave per ladifesa dei Balcani, e tuttavia la manterrà per poco tempo. Gli Unni sene impadroniranno infatti nel 441, conservandone il possesso fino allacaduta del loro impero (453); la città passa allora sotto i Goti (455), perdivenire in ultimo la capitale dei Gepidi (474). Teodorico la recuperanel 504 e Anastasio riconosce l’annessione ai domini italici con il trat-tato del 510, che lascia ai Bizantini attestati sulla sponda sinistra dellaSava soltanto la regione di Bassiana. Al principio della guerra gotica(535) Giustiniano arriva a riconquistare Sirmio con l’aiuto dei Gepidi,che però l’anno successivo se ne impadroniscono. Finalmente, nel 567,Giustino II approfitterà della rivalità sorta tra Longobardi e Gepidi perottenere da questi ultimi la restituzione di Sirmio, che resterà bizanti-

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na fino a che gli Avari non la espugneranno nel 582. Nell’arco di un se-colo e mezzo Sirmio è stata perciò controllata direttamente per non piùdi vent’anni in tutto dall’Impero d’Oriente. Ma, anche nei periodi incui non ne ebbe il pieno possesso, Bisanzio si sforzò a lungo di conser-vare almeno un lembo della Pannonia (quella «pars secundae Pannoniaequae in Bacensi est civitate» di cui fa menzione la novella 11) che le con-sentisse di tenere la città sotto stretta sorveglianza.

Il terzo cambiamento, più tardivo e non ben documentato, dovreb-be essere rappresentato dalla riunificazione della Dalmazia all’Illirico,avvenuta presumibilmente verso la fine del vi secolo. È questa l’unicaprovincia della diocesi dell’Illirico occidentale che abbia conservato du-rante la seconda metà del v secolo un’amministrazione romana, ma pra-ticamente indipendente dal governo d’Italia. Dal 455 al 480 la Dalma-zia è retta dapprima dal comes Marcellino, quindi da suo nipote, il ma-gister militum Giulio Nepote, penultimo imperatore d’Occidente (474-475). Alla morte di Giulio Nepote (480) essa viene riacquisita da Odoa-cre, pur essendo comunque lasciata al di fuori dell’amministrazione pre-fettizia, come era avvenuto ancora sotto Teodorico. Dopo la riconqui-sta giustinianea (verso il 538) il territorio verrà posto sotto l’autorità diun proconsole, dipendente direttamente dagli organi di governo palati-ni. A quel tempo, la provincia non ha perciò niente a che vedere né conla prefettura d’Italia né con quella illiriciana, benché nel 592 sembri di-pendere da quest’ultima [Stein 151, pp. 801-2]. Questo mutamento am-ministrativo, forse coevo alla creazione dell’esarcato d’Italia (prima del-l’ottobre 584), pare particolarmente motivato dal calo di redditività pa-tito dai domini imperiali, già messi a dura prova dalle invasioni. Fattoche avrà scarse conseguenze, in ogni caso, dal momento che la maggiorparte delle città costiere rimaste sotto il controllo dell’Impero cadononel corso dei primi anni di regno di Eraclio.

Il tratto decisamente più degno di nota è offerto dalla stabilità diquesta organizzazione provinciale serbata fino all’epoca della creazionedei primi temi intorno all’ultimo scorcio del vii secolo, come testimo-niano i Miracula Demetrii (2.1.179 o 2.5.284), che passano in rassegnada un lato le province della Grecia propriamente detta (eccettuata la Ma-cedonia) e dall’altro quelle delle «regioni del Danubio», vale a dire del-la diocesi dacica.

Al contrario, la capitale della prefettura non appare con eguale chia-rezza. Secondo la novella 11 di Giustiniano, essa sarebbe stata trasferi-ta da Sirmio a Tessalonica al tempo di Attila; tuttavia nel 535 l’impera-tore ritiene la frontiera danubiana abbastanza resistente da permetter-gli di dislocare la sede prefettizia più a nord, installandola a Iustiniana

L’Illirico 331

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Prima, la nuova città da lui fondata nei pressi del suo luogo di nascita,in Dacia mediterranea. Da ciò potrebbe sembrar lecito arguire che laprefettura dell’Illirico, installata a Tessalonica nel 395, venga traslata aSirmio dal 437 al 441. Ma nel 437 la situazione in Pannonia continua aessere da parecchi anni così pericolosa da togliere ogni verosimiglianzaal fatto che il governo di Teodosio II possa aver commesso una tale fol-lia. Quanto al trasferimento del 535 – da Tessalonica a Iustiniana Pri-ma –, pare sia rimasto lettera morta, dal momento che il prefetto con-tinua a essere insediato a Tessalonica tanto nel 536 (Cassiodoro, Variae,10.35) quanto indubbiamente nel 541 (Nov., 153), e che nel 545 la no-vella 131 contempla le conseguenze della creazione di una nuova «me-tropoli» soltanto sotto il profilo dell’organizzazione ecclesiastica [cfr.infra]. La sede della prefettura dovette dunque rimanere a Tessalonicadalla fine del iv alla fine del vii secolo. Tuttavia, poiché Tessalonica fi-nisce per essere «il solo centro dell’Illirico in cui continuasse a essereesercitata una regolare amministrazione bizantina» [Lemerle 211, p.176], ben si comprende come il prefetto dell’Illirico sia diventato de fac-to un semplice prefetto (o eparco) della città di Tessalonica.

2.2. Geograf ia ecc les iast ica 6.

Nell’Illirico, l’istituzione metropolitana impiega più tempo ad affer-marsi di quanto non fosse successo in Oriente. Nel iv secolo, unicamen-te Tessalonica e Serdica paiono aver goduto di uno status superiore aquello delle altre Chiese, nella misura in cui i loro vescovi ricoprivano(in Macedonia e in Dacia, rispettivamente) un ruolo analogo a quello diun metropolita, ma esteso a un’intera diocesi civile. L’organizzazionemetropolitana provinciale si affermerà – quantunque in condizioni nonsufficientemente chiare – soltanto all’inizio del v secolo, forse per unamera estensione, dopo il 395, del sistema di governo ecclesiastico già at-testato in Oriente.

Pertanto, dal momento che il secondo concilio ecumenico (Costan-tinopoli, 381) aveva enunciato la regola – mai ammessa in Occidente –in base alla quale veniva interdetta al vescovo ogni ingerenza negli af-fari di una diocesi civile diversa da quella in cui egli aveva la sua catte-dra ed esercitava il suo ministero, l’autorità dei presuli di Tessalonica edi Serdica avrebbe potuto mutarsi a tutti gli effetti in una vera e pro-pria autorità primaziale, in conformità al principio di accomodamento.Ma il prestigio di queste ultime due sedi episcopali non poteva contro-bilanciare né la crescente importanza assunta via via da Costantinopoliné le contemporanee rivendicazioni avanzate dai romani pontefici, mi-

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ranti anch’essi a trasformare il proprio primato onorifico in primato giu-risdizionale.

Ora, per un apparente paradosso, l’Illirico orientale era stato appe-na annesso all’Impero d’Oriente quando vi si stabilì il primato dellaChiesa romana. Se papa Siricio (384-99) non riuscì mai veramente a farprogredire i rapporti, già sommariamente impostati durante il pontifi-cato del suo predecessore Damaso (366-84), con un episcopato illiricoche guardava allora a Milano piuttosto che a Roma, il suo successore In-nocenzo conferisce nel 412 a Rufo di Tessalonica il vicariato della sua«autorità» per l’Illirico – attribuendogli la facoltà di giudicare in sedeecclesiastica e canonica in merito alle cause trasmessegli dai metropoli-ti (fra queste scegliendo secondo la sua discrezione quelle meritevoli diessere rinviate al tribunale romano), di sovrintendere alle elezioni e con-sacrazioni episcopali e di convocare i sinodi locali, allo scopo di contra-stare gli sforzi compiuti da Attico di Costantinopoli per estendere la sfe-ra d’influenza del suo seggio a ovest della diocesi di Tracia.

Il vicariato romano per Illyricum diventa permanente sotto Bonifa-cio, fra il 419 e il 422. Certo, Teodosio II replicherà con una legge del421 subordinando i vescovi dell’Illirico alla cattedra costantinopolitana(CTh, 16.2.45), ma per evitare il deteriorarsi delle relazioni con la Cor-te di Ravenna tali disposizioni verranno revocate l’anno successivo. Nelmomento in cui il quadro giuridico della vita ecclesiastica veniva sem-pre più strettamente regolato da Costantinopoli, il remoto primato ro-mano – di cui il vicariato rappresentava lo strumento – dovette appari-re a buona parte dell’episcopato illirico il miglior modo di mantenereuna relativa indipendenza. D’altra parte, il vicariato servì efficacemen-te agli interessi di Roma, in particolare durante la crisi nestoriana e al-l’epoca della preparazione del concilio di Efeso (431). Pure, l’importan-za progressivamente assunta dalle sedi vescovili delle capitali provincia-li, sostenute da Costantinopoli, scuote ben presto l’istituzione vicariale.Nel 446, papa Leone Magno precisa che il vicario deve consacrare luistesso i vescovi metropolitani e limitarsi a essere consultato per la con-sacrazione dei semplici suffraganei: il pontefice romano ammorbidiscedunque il sistema, salvaguardando i diritti dei metropolitani. Tanto nelsecondo concilio di Efeso (449) quanto in quello di Calcedonia (451), ipresuli illirici non offrirono alcun particolare sostegno alle posizioni ro-mane. In maggioranza agirono – come il resto dell’episcopato orientale– aggregandosi in gruppi provinciali, seguendo Dioscoro nel 449 e mu-tando alleanze due anni più tardi. Gli stessi si astennero inoltre dal pro-nunciarsi in occasione del voto concernente il «ventottesimo canone»di Calcedonia (che affermava la legittimità dei diritti patriarcali vanta-

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ti dal vescovo costantinopolitano sulle diocesi di Tracia, Asia e Ponto),preoccupati della crescente potenza di Costantinopoli e, al tempo stes-so, parzialmente rassicurati dalla momentanea focalizzazione dei suoiinteressi sull’Asia Minore. Il vicariato appare dunque ormai privo di sco-po e i papi – pur senza sopprimerlo formalmente – lo lasciano cadere indesuetudine, inaugurando così un lungo periodo di distensione (duratopiù di trent’anni) nei rapporti fra l’Illirico e Roma. Il vescovo di Tessa-lonica si sforzerà però di mantenere a questo punto la propria autoritàlocale: proposito che tuttavia non può essere realizzato senza l’appog-gio dell’amministrazione imperiale ed entrerà così in conflitto con unafazione dell’episcopato illirico allorché la politica imperiale, sotto Zeno-ne e Anastasio, si mostrerà favorevole al monofisismo. Fornendo il lo-ro sostegno alla reazione calcedonese, i papi Gelasio (492-96) e Ormi-sda (514-23) riallacciano alcuni contatti con le Chiese illiriche: a tale sco-po fanno affidamento sui metropoliti e sugli ambienti monastici diDardania, della Dacia mediterranea e dell’Epiro antico. Ristabilita nel519 l’unità della Chiesa, Doroteo di Tessalonica e il suo successore Ari-stide si mostrano molto restii a rientrare in comunione con Roma, ri-vendicando una preminenza della sede vescovile fondata sullo statutodi capitale spettante alla loro città.

Un’ultima modifica all’assetto della geografia ecclesiastica illiricianaviene apportata da Giustiniano, il quale provvede a limitare i diritti diTessalonica alle province meridionali dell’Illirico, facendo di IustinianaPrima un’arcidiocesi avente giurisdizione su tutte le diocesi daciche, al-le quali aggiunge la provincia di Macedonia II (Nov., 11, del 535). Al-l’interno di tale amplissimo distretto l’arcivescovo, eletto dal sinodo deimetropoliti, costituisce la suprema autorità cui far ricorso in caso di con-flitti tra giurisdizioni locali e ha facoltà di controllo sulle elezioni episco-pali. Il fatto che non fosse tenuto gerarchicamente a riconoscere alcunaautorità superiore può facilmente far comprendere le reticenze manife-state in proposito da papa Agapito. Ma nella novella 131 (pubblicata nel545), pur confermando le prerogative di cui si è detto, vengono apporta-te due modifiche all’assetto precedentemente stabilito: da una parte, laMacedonia II non figura più nel novero delle province poste sotto la giu-risdizione dell’arcivescovo; dall’altra, si precisa che l’autorità di quest’ul-timo «tiene il luogo della sede apostolica romana»; improvvisamente, ilvescovo di Tessalonica riassume perciò il titolo di vicario, di cui si fre-gerà ancora nel vii secolo. Viene stabilito un accordo con papa Vigilio, ilquale, in cambio di un molto formale riconoscimento del primato di Ro-ma, accetta di rendersi garante del sistema imperiale.

Il nuovo assetto giustinianeo, che prevedeva a capo della Chiesa il-

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liriciana due vicari pontifici, quello di Tessalonica per la diocesi di Ma-cedonia e quello di Iustiniana Prima per la diocesi di Dacia, rimarrà so-stanzialmente invariato fino a quando l’avanzata degli invasori avaro-slavi non lo farà decadere. L’epistolario di papa Gregorio Magno, redat-to a cavaliere tra il vi e il vii secolo, ci consente di gettare un ultimosguardo su modalità e limiti dell’intervento di Roma negli affari locali.Se il papa dimostra ancora un certo interesse per le province illiriciane,in particolare per ciò che concerne le questioni giurisdizionali e discipli-nari, egli si rivolge direttamente sempre e soltanto ai metropoliti, sen-za mai servirsi della mediazione dei vicariati. Tuttavia non indirizza isuoi brevi che ai presuli di città situate a poca distanza dalle coste ma-rine: soprattutto al vescovo di Salona, ma anche a quelli di Scodra, Du-razzo, Nicopoli, Corinto, Larissa, Tessalonica. Al contrario, sembranodefinitivamente interrotte le relazioni con le province continentali, fat-ta eccezione (peraltro rilevante) per la Dacia mediterranea, con le sediepiscopali delle città di Iustiniana Prima e di Serdica, presso le qualil’amministrazione bizantina si mantiene attiva fino al 614-15 circa. Ladocumentazione testimonia dunque in modo eloquente della vitalità del-le province ecclesiastiche dell’Illirico, benché inserite entro un quadrogeografico-amministrativo generale ormai ridisegnato sotto l’urto delleinvasioni. Nel concilio ecumenico del 680-81 quattro vescovi di dioce-si illiriciane (i presuli di Tessalonica, Corinto, Gortina e Atene) furonoconsiderati alla stregua di legati del pontefice romano [Duchesne 401,p. 549]. Ancora durante il concilio in Trullo del 692 il metropolita diGortina si dichiarava «rappresentante dell’intero sinodo della santaChiesa di Roma». La regione ecclesiastica illiriciana rientrerà decisa-mente nell’orbita del patriarcato di Costantinopoli soltanto sotto il re-gno di Leone III l’Isaurico (732/733).

ii. costanti della vita regionale fino alle invasioni slave.

1. L’ambiente e le vie di comunicazione.

1.1. Frazionamento del lo spazio e barr iere natura l i .

La complessa articolazione di importanti sistemi orografici – con lacatena delle Alpi dinariche prolungata a sud in quella del Pindo e forte-mente inclinata verso ovest – ha sempre reso difficoltose le comunica-

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zioni terrestri tra le sponde dell’Adriatico e l’entroterra, inconvenientecui pone solo parzialmente rimedio la navigazione marittima e fluviale.

Le province di Prevalitana, di Epiro nuovo e di Epiro antico volgo-no quindi le spalle alla penisola balcanica, orientandosi invece verso l’I-talia. Tenuto conto dell’area del rilievo carsico, le zone adatte all’atti-vità agricola si riducono ad alcune pianure costiere, in particolare quel-la a nord del golfo di Ambracia, con Nicopoli, e quella di Apollonia sullago di Scutari, con Durazzo, Lisso e Scodra.

Le province orientali e meridionali risultano invece più aperte a este a sud, ma vi prevalgono zone montagnose e aree prealpine, da cui l’as-soluta rilevanza assunta dall’economia pastorale sul territorio. Le terrepiù agevolmente coltivabili vi rappresentano di conseguenza una per-centuale minoritaria e frazionata: si tratta di modeste depressioni loca-lizzate prevalentemente lungo il corso dei fiumi, ovvero di pianure in-terne o costiere più o meno estese, generalmente organizzate intorno adantichi centri urbani. Esse sono, da nord a sud:

– in Mesia I: le colline a sud della Sava (affacciate su Sirmio e Sin-gidunum); la valle della Morava occidentale; lungo il corso dellaMorava meridionale, le conche di Margum (Kostolac) e di Hor-reum Margi (åuprija);

– in Dacia ripuaria: il tavolato di loess a margine delle sponde danu-biane (esteso a est in direzione della diocesi di Tracia);

– in Dacia mediterranea: la conca di Naisso e quella di Leskovac (sul-la Morava); il bacino di Serdica;

– in Dardania: la pianura del Kosovo (Ulpiana) e il bacino di Scupi(sul Vardar);

– in Macedonia salutare: la piana di Eraclea Lyncestis e la conca diStobi (sul Vardar);

– in Macedonia I: la grande pianura giacente a tergo di Tessalonicae la bassa valle dello Strimone (Serre);

– in Acaia: la piana di Tessaglia, la valle del Cefiso e l’Attica, le pia-nure costiere del Peloponneso (Argolide, Laconia, Messenia e, so-prattutto, la piana a nord-ovest, da Patrasso a Olimpia).

1.2. Col legamenti terrestr i , f luvia l i e maritt imi.

Le principali vie di terra sono naturalmente condizionate dall’emer-genza dei rilievi.

Tre di esse, lungo le direttrici est-ovest o nordovest-sudest, congiun-

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gevano in età romana l’Italia all’Oriente: a sud, la Via Egnatia (Duraz-zo, Eraclea, Tessalonica, Anfipoli); a nord, la strada che fiancheggiavail corso della Sava e del Danubio (Sirmio, Singidunum, Viminacium, Ra-tiaria, Oescus); fra le due, la grande diagonale balcanica (Viminacium,Naisso, Serdica).

Altre due strade, sulla direttrice nord-sud, mettono in comunicazio-ne l’Egeo e la valle del Danubio: la prima (Viminacium, Naisso, Scupi,Stobi, Tessalonica), che era già stata la grande via di penetrazione del-l’ellenismo verso nord, lungo le valli della Morava meridionale (Margus)e del Vardar (Axios); la seconda (Oescus, Serdica, Germania, Anfipoli)lungo le valli dell’Ispar (Oescus) e della Struma (Strimone).

Le vie di comunicazione nordest-sudovest sono le più difficili a cau-sa della struttura del rilievo: ricordiamo quella che porta da Naisso a Ul-piana e al porto di Lisso e quella che, collegandosi alla grande trasver-sale all’altezza di Serdica, raggiunge la Via Egnatia a Eraclea attraversoPautalia e Stobi. Nella Grecia propriamente detta, il solo grande asseviario è quello che da Tessalonica conduce a Corinto attraverso Larissae le Termopili. Tali percorsi principali sono dovunque integrati da viedi comunicazione secondarie, che all’inizio di questo periodo non assi-curano che collegamenti locali, senza rompere veramente l’isolamentodella regione.

L’importanza relativa di questi diversi percorsi cambia durante l’etàprotobizantina. La Via Egnatia decade alla fine del iii secolo, nel momen-to in cui i traffici tra l’Italia e l’Oriente la trascurano a favore di itinera-ri più settentrionali. Viene inoltre danneggiata dal terremoto che colpi-sce Durazzo nel 346 e da allora non recupererà più l’antica importanza.

La strada danubiana e la grande diagonale balcanica assicurano il col-legamento tra Costantinopoli e l’Italia finché l’Impero controlla l’altavalle della Sava e i valichi delle Alpi Giulie (via Sirmio - Siscia/Sisak -Emona/Lubiana - Aquileia), vale a dire fino alla fine del iv secolo. L’in-terruzione delle comunicazioni terrestri con l’Italia non ne implica peral-tro un totale decadimento, nel momento in cui l’Impero d’Oriente si sfor-za di mantenere sotto il proprio controllo la regione di Sirmio per ragio-ni a un tempo strategiche e commerciali (scambi con il mondo barbaro).

Le strade nord-sud, declassate ad arterie secondarie in età romana,crescono d’importanza all’epoca delle invasioni, venendo allora frequen-temente percorse sia dai barbari, sia dalle truppe imperiali. Tuttavia nonassurgono al rango di itinerari di primo piano, dal momento che Tessa-lonica non soppianta mai Costantinopoli, né per quanto attiene alle re-lazioni commerciali né sotto il profilo dei collegamenti militari con i Bal-cani settentrionali. Infine, al più tardi nel vi secolo, le strade seconda-

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rie, di percorso più disagevole, ma meno rischiose rispetto agli intinera-ri principali, finiscono per assorbire la maggior parte del traffico, comerivelato dalla dislocazione dei fortini eretti a loro difesa nelle regioni ri-maste più a lungo sotto controllo bizantino.

Intere regioni continuano dunque a rimanere lontane dalle grandi viedi comunicazione terrestri. Le più vaste sono, a nord-ovest, la zona com-presa fra la Morava e i confini della Dalmazia; a sud, la Grecia centra-le. Tutti i maggiori crocevia – Viminacium e Oescus, Naisso e Serdica,Tessalonica e Anfipoli – sono situati lungo un terzo della prefettura,quello di nord-est. Dal punto di vista strategico, esiste dunque un con-trasto tra l’Illirico orientale, comprendente la Tracia e, al di là di essa,Costantinopoli, e i rimanenti territori della prefettura. Ma per quantoriguarda gli scambi economici, le sperequazioni indotte dal tracciato del-le grandi vie di comunicazione terrestri vengono parzialmente correttedalla varia dislocazione dei centri urbani e dall’importanza assunta dal-le rotte di commercio marittimo e fluviale.

Il solo grande corso d’acqua navigabile è il Danubio, lungo il qualele imbarcazioni bizantine (navi onerarie o vascelli da guerra) risalgonofino a Singidunum e, oltre, fino a Sirmio, come dimostra la distribuzio-ne dei reperti fittili. Vera arteria vitale, il limes danubiano riveste per-ciò un duplice ruolo, strategico ed economico (scambi commerciali frala Dacia e la Mesia, ma anche tra il mondo barbaro e Costantinopoli). Iprincipali scali marittimi che assicurano i contatti con il resto dell’Im-pero sono Tessalonica e Corinto, seguiti con grande distacco da Nico-poli, dal Pireo, da Tebe e quindi da Demetriade.

2. L’assetto antropico del territorio.

2.1. La rete dei centr i urbani 7.

La distribuzione delle città, progressivamente diradantesi via via chesi procede da sud a nord, è molto squilibrata. Schematicamente, si pos-sono individuare tre zone:

– la Grecia propriamente detta (Acaia, Epiro antico, Tessaglia), ab-bondantemente disseminata di centri urbani;

– la Macedonia e l’Epiro nuovo, ove sono numerosi soltanto in pros-simità delle coste;

– la diocesi dacica, in cui gli agglomerati urbani si sgranano lungo ilcorso del Danubio e di qualche grande asse viario.

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In Acaia, tutto il territorio era dominato da antiche città greche, cuisi erano aggiunte alcune colonie romane quali Corinto (nel 44 a.C.) ePatrasso (nel 15 a.C.). Il numero delle città era già globalmente dimi-nuito in età altoimperiale: Pausania, nel ii secolo, ne contava più di 150nell’Ellade (Epiro e Tessaglia escluse), mentre Ierocle ne enumera ap-pena 79; la rete dei centri urbani rimaneva comunque molto più fitta diquanto richiedessero le necessità amministrative (poco più di un quartosoltanto delle città erano infatti divenute sedi vescovili). In Tessaglia ein Epiro antico, al contrario, le città – ancora poco numerose in età el-lenistica – si erano in epoca altoimperiale moltiplicate in virtù di qual-che nuova fondazione (quale quella di Nicopoli d’Epiro, fondata da Au-gusto sul tipo delle città greche dinanzi alle acque di Azio, teatro dellasua vittoria navale) e soprattutto grazie al passaggio al rango di città dialcune borgate rurali dell’interno.

In Macedonia e in Epiro nuovo l’urbanizzazione di epoca romanarappresentò la continuazione di un processo databile già alla fine del-l’età classica. Si trovano dunque, accanto ad antiche città (colonie gre-che come Anfipoli, fondazioni dei re macedoni quali Beroea o Edessa,centri di età ellenistica come Tessalonica), colonie romane – spesso rifon-dazioni – sorte su territori assai ampi, tanto sulla costa dell’Egeo (Filip-pi, ad esempio) quanto sul litorale adriatico (Durazzo, Byllis). Versonord e nell’entroterra, le città sono rare. Quasi non vi si trova che unsolo municipio (Stobi) e qualche antico centro urbano di tribù elleniz-zate (come Eraclea dei Lincesti): si è prossimi ai limiti estremi raggiun-ti dall’espansione ellenica in questi luoghi.

Radicalmente diversa è la situazione quale si presenta nella diocesidacica. Da lunga data, e peraltro in maniera assai imperfetta, l’urbaniz-zazione ne aveva toccato solamente il margine orientale, considerato perparecchio tempo parte integrante della Tracia (le città indigene di Ser-dica e di Pautalia erano state elevate da Traiano al rango di poleis), e lacosta adriatica, con le città di Scodra e Doclea e il porto di Lisso. Nonesistevano città altrove, prima della conquista romana. Poiché la Mesiasuperiore era sempre rimasta una provincia militare, l’esercito vi era sta-to l’artefice principale di una urbanizzazione molto approssimativa (conScupi, colonia di veterani fondata sotto Vespasiano; Ulpiana e Naisso,basi di truppe ausiliarie; e Horreum Margi, centro di approvvigionamen-to delle guarnigioni di frontiera). L’ovest della diocesi continuava tut-tavia a difettarne parecchio. Solo sul limes risulta una fila abbastanzaserrata di città, tutte nate da un primitivo agglomerato di abitazioni ci-vili sviluppatosi nei pressi di un insediamento militare, fosse esso ungrande accampamento legionario (come nei casi di Oescus e di Ratiaria,

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di Viminacium e di Singidunum) o un campo di truppe ausiliarie (comea Margum, Aquae, Bononia e Augustae, per non menzionare che i mu-nicipi divenuti vescovati in età bizantina). Le antiche differenze tra sta-tuti cittadini risultavano ormai sfumate in età bassoimperiale, ma ave-vano lasciato tracce durevoli nel carattere dei loro abitanti e nell’esten-sione molto variabile dei relativi territori di pertinenza.

I territori urbani non sono dunque contigui che in Acaia, nelle re-gioni costiere di Tessaglia, Epiro e Macedonia e sul limes. In ogni altroluogo si hanno regioni di notevole estensione non caratterizzate dallapresenza di alcuna città e che pure sono ben lungi dall’essere zone disa-bitate (per esempio, l’intera parte centrale e occidentale della Mesia I,ove le valli percorse dalla Morava Occidentale, dall’Ibar e dalla Drinarisultano assolutamente prive di tracce di urbanesimo). Lo statuto di ta-li territori, situati al di fuori di quelli delle città, è poco noto. Inizial-mente sono considerati proprietà dello Stato in quanto possedimenti delvasto latifondo imperiale, venendo successivamente rilevati da diversiservizi amministrativi8, ma in gestione generalmente indiretta ( fundi rag-gruppati in massae, concesse in locazione a conductores), in maniera esat-tamente analoga a quanto avviene per le grandi tenute private e per ipatrimonia ecclesiastici. In effetti, alcune di queste unità amministrati-ve non urbane vengono menzionate da Ierocle: un klima (tractus) e duesaltoi (saltus)9; ma sono territori situati rispettivamente in Macedonia Ie in Tessaglia, vale a dire in province che non sono certo tra le meno ur-banizzate, ciò che lascia pensare alla possibilità che i beni gestiti dallares privata fossero spesso localizzati ai margini dei territori urbani10. Lesole altre zone da cui provengano indizi – soprattutto epigrafici – talida suggerire l’esistenza di possedimenti imperiali, gestiti in questo casodall’esercito, sono le regioni minerarie [Du‰aniç 831]. Altrove, laddovegli specialisti dell’età altoimperiale congetturano «la persistenza di civi-tates peregrinae» in epoca romana11, è probabile che le popolazioni rura-li avessero serbato una certa semiautonomia (donde la loro alquanto ap-prossimativa latinizzazione e il loro cristianesimo spesso superficiale, co-me si vedrà). Nelle vicinanze del limes, esse sono senza dubbio tenute acontribuire in natura all’approvvigionamento delle truppe [Uenze 858];ma lontano dalle grandi vie di comunicazione, se lo Stato non fa affida-mento sulle strutture tribali allo scopo di imporre la responsabilità col-lettiva del versamento dell’imposta in denaro contante, le medesime po-polazioni sono in grado di sottrarsi a ogni forma di amministrazione fi-scale, riducendo così il loro contributo unicamente alla fornitura dicoscritti per l’arruolamento nell’esercito, secondo uno statuto assimila-bile a quello di federati. Tale ipotesi potrebbe spiegare l’ostinazione, a

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tutta prima poco chiara, con la quale lo Stato ha continuato per tantotempo a reclutare nell’Illirico truppe destinate a teatri di operazione lon-tani e proprio nel momento in cui la situazione demografica non era af-fatto favorevole e la regione veniva drammaticamente a mancare di di-fensori.

2.2. I l popolamento.

Risulta essere fortemente eterogeneo fin dall’inizio del periodo quiconsiderato. La differenza che meglio si rileva oppone le regioni nellequali la lingua di cultura è il greco a quelle in cui viene adoperato il la-tino. Il limite fra le due aree, stabilizzatosi nel iv secolo, può essere trac-ciato sulla carta geografica con discreta precisione, soprattutto grazie alcontributo dell’epigrafia: da Scodra sull’Adriatico il confine linguisticorisale verso nord-est, passa accanto a Scupi in Dardania, poi a sud diSerdica, avvicinandosi al Danubio per proseguire in Tracia parallelamen-te al corso del fiume. Tale linea di ripartizione coincide per approssima-zione con il confine tra due diocesi, separando i paesi di antica culturaellenica dai paesi che, nonostante i lunghi contatti con la civiltà greca,non erano stati veramente acquisiti al mondo greco-romano che sottoAugusto e – almeno in un primo tempo – sotto le specie dell’occupazio-ne militare.

La diocesi macedone è dunque massicciamente ellenofona. Nella dio-cesi dacica, al contrario, la vernice greco-romana ricopre una realtà mol-to più variegata: le lingue parlate nella regione prima della conquista ro-mana (da Traci, Illiri, Dardani, Daci; ma anche da Mesi e Triballi) nonpossono essere più rinvenute che allo stato di tracce, sotto forma di an-troponimi o di toponimi, nelle iscrizioni e in qualche testo letterario co-me il De Aedificiis di Procopio [Be‰evliev 824], benché alcune di essepotessero essere ancora in uso nelle campagne, soprattutto nei territorimontani, isolati e scarsamente urbanizzati.

La popolazione cittadina non è affatto più omogenea di quella dellecampagne. I centri urbani più cosmopoliti sono i grandi porti, come Tes-salonica e Corinto, nei quali il commercio è, fin dall’età romana, nellemani degli Orientali. L’Università di Atene attira ancora nel iv e perfi-no nel v secolo studenti e retori da tutto il bacino orientale del Medi-terraneo. Sul Danubio, l’esercito è stato in età altoimperiale uno straor-dinario agente di mescidazione etnica, favorendo altresì la latinizzazio-ne. Ma a partire dal iii secolo i soldati di origine orientale sono divenutisensibilmente più numerosi presso tutti i presidi e il commercio è, an-che qui, una specialità degli Asiatici e dei Siriani.

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In compenso, l’insediamento permanente di barbari giunti dal norddel Danubio non interessa che in modo limitato la pianura danubiana,prima dell’arrivo degli Slavi. Dei Goti sono insediati alla fine del iv se-colo nei territori settentrionali della Mesia I e in Dacia ripuaria, così co-me degli Unni sotto il regno di Marciano. In particolare, la regione diSirmio e di Singidunum riceve un forte incremento di popolazione d’o-rigine barbarica – Gepidi ed Eruli – sotto Anastasio (512) e al principiodel regno di Giustiniano.

3. Il radicamento del cristianesimo.

In Grecia, la diffusione iniziale del cristianesimo segue indubitabil-mente le grandi rotte del traffico marittimo. Già in età apostolica vi sitrovano insediate comunità cristiane (san Paolo scrive a quelle di Corin-to, Filippi e Tessalonica), il cui sviluppo comincia a essere meglio cono-sciuto soltanto dalla fine del iv secolo, ma è comunque certamente piut-tosto lento (soltanto una dozzina di vescovi rappresentano le Chiese diGrecia nel 325 al concilio di Nicea). Il paganesimo tradizionale resistea lungo [Frantz 836]: le Panatenee vengono ancora celebrate in pieno ivsecolo, le Olimpiadi si protraggono fino al 395 e il proconsole d’Acaiasi oppone all’interdizione del culto misterico eleusino voluta da Valen-tiniano I. La svolta decisiva è rappresentata senza dubbio dalla legisla-zione antipagana di Teodosio I, ma più ancora dalle incursioni di Alari-co (395-97), che depauperano i santuari pagani delle loro ricchezze. Glianni successivi al 390 sono quelli in cui le élites urbane cominciano apropendere per il cristianesimo e le basiliche cristiane a moltiplicarsi.Un documento del 458 (le lettere sinodali scritte in risposta all’encicli-ca dell’imperatore Leone I sul concilio di Calcedonia) fornisce un elen-co pressoché completo dei vescovi delle 4 province: 8 sedi a Creta, 21in Acaia, 8 in Epiro antico, 7 in Epiro nuovo. Sono numeri che mute-ranno poco in seguito: senza dubbio, il processo di cristianizzazione siè dunque sostanzialmente compiuto. Atene rimane tuttavia un focolaiodi paganesimo fino a Giustiniano (l’Asklepieion rimane aperto fino aglianni 480, la scuola di filosofia non verrà chiusa che nel 529).

Nella diocesi dacica, il cristianesimo viene introdotto un po’ più tar-di (nella seconda metà del iii secolo), probabilmente ad opera di distac-camenti di unità militari orientali, e si sviluppa lungo le principali diret-trici strategiche. La regione, luogo di confino designato per Ario dopoNicea, diviene un centro assai attivo di diffusione delle idee ariane ne-gli anni 340-60, soprattutto sotto Costanzo II. L’arianesimo illirico be-

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neficia in seguito dell’atteggiamento di tolleranza dimostratogli da Va-lentiniano I, quindi dalla reggente Giustina, fornendo a Wulfila partedell’organico per la sua missione evangelizzatrice presso i Goti prima divenire completamente demolito da Teodosio il Grande dopo il 388. Nelv secolo l’episcopato, colpito duramente dall’invasione unnica, si rior-ganizza progressivamente, pur permanendo in una situazione di relati-va ristrettezza12; all’inizio del vi secolo ogni provincia vi conta da tre acinque seggi.

Nella diocesi macedone, la più forte espansione del cristianesimo av-viene, sotto Arcadio e Teodosio II, non senza il costante sostegno delpotere politico. In compenso, nella diocesi dacica il cristianesimo è piùintellettualmente dinamico e rivela un carattere maggiormente missio-nario, ma risente dolorosamente degli effetti della repressione antiaria-na e delle invasioni del v secolo. Qui come là, si tratta comunque di unfenomeno essenzialmente urbano. I dati diretti sulla cristianizzazionedelle campagne sono troppo scarsi, ma due realtà paiono acclarate. I pro-prietari fondiari, passati tardi al cristianesimo ed esposti a difficoltà eco-nomiche dalla fine del iv secolo, hanno potuto influenzare favorevol-mente la conversione delle popolazioni rurali (attraverso l’edificazionedi chiese nei loro possedimenti, per esempio) meno che in altre regionidell’Impero. D’altro canto, il monachesimo è nell’Illirico un fenomenomolto limitato13. Se si considera il ruolo svolto altrove dai monaci nel pro-cesso di evangelizzazione, lo svantaggio è considerevole. Certamente,alcuni vescovi estendono il loro apostolato all’ambiente rurale: poco do-po il 400, Niceta di Remesiana promuove un’intensa attività missiona-ria presso i Bessi (una tribù tracia), in particolare fra i lavatori d’oro del-le miniere vicine a Naisso, e fonda nelle due Dacie – secondo la testi-monianza di Paolino di Nola – cenobi maschili e femminili14. Ma questo,in sostanza, pare essere un esempio isolato.

È perciò probabile che l’opera di cristianizzazione delle campagnesia rimasta superficiale e incompleta, in particolare nelle zone in cui ilreticolo dei centri urbani è più rado. Tale ipotesi fornirebbe una spie-gazione del rapido e quasi totale naufragio del cristianesimo nelle regio-ni che sfuggono al controllo bizantino al tempo delle invasioni slave.

I Miracula Demetrii offrono, con la loro storia di prigionieri razziatidagli Avari nei territori delle diocesi di Dacia e di Tracia verso il 614-619, un buon esempio di resistenza del cristianesimo (Mirac. Dem., 2.5)[comm. in Lemerle 211, pp. 137-62]. Insediati dapprima nella regionedi Sirmio (donde il loro nome di Sermesiani), trasferiti successivamen-te nella Pannonia transdanubiana, si mescolano ad altre popolazioni(«Avari, Bulgari e altri pagani») e si accrescono di numero, pur serban-

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do i loro costumi tradizionali e rimanendo cristiani. Benché «più di ses-sant’anni» dopo la grande deportazione (dunque intorno al 680), quan-do i loro discendenti erano ormai divenuti in larga maggioranza uominiliberi, il qaghan continua a considerarli un’etnia particolare, mettendoloro a capo un bulgaro di nome Kuber, il quale, essendo a conoscenzadel fatto che il suo popolo aspira a far ritorno alle sue sedi originarie, siappresta a utilizzarlo in funzione delle sue personali ambizioni (niente-meno che la conquista di Tessalonica), ribellandosi al qaghan e guidan-do i Sermesiani a sud del Danubio fino in Macedonia. Questa popola-zione, presso la quale il cristianesimo resiste per due generazioni dopoil forzato trapianto in ambiente pagano, è d’origine prevalentemente cit-tadina. Si sa che gli Avari, tentando di infrangere le strutture dello Sta-to bizantino nei Balcani settentrionali all’inizio del vii secolo, avevanopreso di mira prima di tutto i centri urbani; lo stesso testo dei Miraculaindica a due riprese che i Sermesiani volevano ritornare alle città dei lo-ro antenati15. Tale vicenda conferma perciò indirettamente che il cristia-nesimo balcanico era rimasto un fatto urbano: il suo destino doveva es-sere strettamente legato a quello delle città.

iii. dalla fine del iv all’inizio del v secolo:

una prosperità regionale fragile e insicura.

1. Gli avvenimenti: incursioni gotiche e unniche.

Alla fine del iv e nel v secolo, la penisola balcanica è costantementesotto la minaccia dei barbari. Tuttavia, pure in tali circostanze, e ben-ché più volte messo a sacco, l’Illirico è interessato soltanto marginal-mente – al contrario della Pannonia e della Tracia – dall’insediamentodi popolazioni barbariche sul territorio imperiale. Se ne sono passati inrassegna [cfr. cap. i] gli episodi salienti: la pressione degli Unni, i quali,verso il 375, travolgono i Goti stabiliti a nord del Mar Nero e in Daciatransdanubiana. I Goti rimasti nel territorio della moderna Ucraina sisottomettono, mentre gli altri, fuggendo a ovest, vengono insediati inqualità di federati in Pannonia soltanto per essere presto raggiunti da-gli Unni e precocemente integrati al loro impero in formazione. Altriancora, infine, trovano scampo in Tracia, dove – sfruttati dall’ammini-strazione e dai negotiatores romani, si ribellano e sconfiggono l’esercitoimperiale nei pressi di Adrianopoli (378), arrestandosi tuttavia alle por-

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te di Costantinopoli. Devastano allora la Tracia, la Macedonia e la Gre-cia fino a quando Teodosio permette loro, nel 382, di insediarsi in Me-sia II. Tale foedus non impedisce però una nuova sollevazione nel 388 esuccessivamente nel 395: guidati da Alarico, muovono dapprima su Co-stantinopoli, per poi razziare la Grecia, impadronendosi di Atene e sac-cheggiando il Peloponneso, prima di fare ritorno in Epiro. Nominatomagister militum per Illyricum nel 397, Alarico domina la regione, ma do-po l’eliminazione della fazione gotica di Gaina a Costantinopoli (400)deciderà improvvisamente, nel 401, di trasferirsi col suo popolo in Ita-lia. L’Impero d’Oriente godrà così di una tregua sul fronte balcanico.

Gli Unni intrattenevano buoni rapporti con l’Impero d’Oriente, cheversava loro un tributo affinché tenessero a bada i Goti, e avevano go-duto a lungo del sostegno della Corte ravennate, la quale aveva favori-to il loro insediamento in Pannonia. Divengono tuttavia pericolosi ne-gli anni 425-30, allorché costituiscono in Pannonia un vero e propriostato in cui l’aristocrazia nomade domina un mosaico di popolazioni bar-bariche stanziali che le forniscono sedi presso le quali poter svernare etruppe ausiliarie. Con l’ascesa al potere di Attila nel 434, gli Unni e i lo-ro satelliti attraversano ogni anno il Danubio per mettere a sacco i Bal-cani (scorrerie del 441-42: presa di Sirmio, Singidunum, Viminacium,poi di Naisso e passaggio in Tracia; del 447, attraverso la Macedonia ela Tessaglia, fino alle Termopili). Attila si lascia però presto trascinarein Occidente: dopo due spedizioni in Gallia (nel 451 ai Campi Catalau-nici) e in Italia, muore nel 453 e il suo impero si sfascia all’istante. Aquell’epoca alcune tribù unniche, sottomessesi a Marciano, sono inse-diate in Mesia I.

La ricomparsa del problema gotico nei Balcani è una conseguenzadella scomparsa degli Unni. Nel 455, i Goti si vedono riconoscere lo sta-tuto di federati in Pannonia I e non attaccheranno l’Impero se non quan-do l’Impero stesso si rifiuterà di corrispondere loro il tributo annualepattuito. È quanto avviene nel 457: i barbari sferrano di conseguenzauna serie di incursioni nell’Illirico, impadronendosi successivamente diDurazzo (459). Il nuovo trattato concluso con Teodemiro nel 461 du-rerà dieci anni. Ma dopo la caduta di Aspar (471) i Goti, in guerra per-manente con i loro vicini nel teatro di una Pannonia dissanguata, attra-versano il Danubio (473), devastano la Dacia e la Macedonia e attacca-no Tessalonica. Nel 474 Zenone tratta con Teodorico l’Amalo, accor-dandogli il permesso di stabilirsi in Macedonia. Ma i Goti non vi si in-sedieranno stabilmente: per quindici anni corrono i Balcani, per metàesercito di nomadi in caccia di bottino, per metà popolo alla ricerca dinuove terre, ora strumento di Zenone, ora in lotta con lui. Teodorico

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passa in un primo tempo in Mesia II per scontrarsi con Teodorico Stra-bone (475); deluso nelle sue speranze, riparte per la Macedonia, saccheg-gia Stobi, minaccia Tessalonica, prende Eraclea Lyncestis. Zenone glipropone allora la regione di Pautalia (479), ma Teodorico preferisce oc-cupare Durazzo; mette quindi nuovamente a ferro e fuoco la Macedo-nia e la Tessaglia (presa di Larissa). Si vede offrire terre in Dacia ripua-ria (483), da cui tuttavia lancia scorrerie in Tracia, giungendo a minac-ciare la stessa Costantinopoli nel 487. L’anno seguente, Zenone favori-sce la sua partenza per l’Italia (488).

2. Le città e il contesto urbano.

Dal momento che la città costituisce la cellula amministrativa di ba-se, il suo mantenimento è, in prima istanza, il miglior indicatore del con-trollo esercitato dallo Stato sul territorio. I mutamenti intervenuti allafine del iii e durante il iv secolo hanno un poco sfumato l’assai spere-quata distribuzione dei centri urbani di cui già si è detto: la marginaliz-zazione della Grecia ha comportato la decadenza di numerose piccolecittà; viceversa, le città che rivestono funzione di stazioni di sosta lun-go gli itinerari stradali o sono state elette a residenze imperiali, comeTessalonica o i centri situati sulla grande trasversale balcanica (Sirmio,Naisso, Serdica), conoscono un forte sviluppo. In effetti, tale parzialeripolarizzazione favorisce dunque alcuni grandi centri a detrimento del-le località secondarie.

2.1. L’urbanesimo: quadro urbano, fort i f icazioni .

In maggioranza, le città sono fortificate: i restauri alle opere difen-sive – o le nuove cinte murarie di cui i centri urbani vengono circonda-ti – datano al iii o al iv secolo, proprio al periodo immediatamente pre-cedente le scorrerie degli Eruli o dei Goti (Tessalonica, Eleusi, Dion)ovvero di poco successivo (Atene, Argo). I rifacimenti ai bastioni nonmancano neppure nel v secolo: Stobi viene munita così all’inizio del vsecolo di un nuovo bastione orientale, arretrato rispetto all’antico [Wise-man in 861, pp. 292-302]; le mura di Tessalonica vengono interamenteriedificate verso la metà del secolo sul perimetro della precedente cintaurbica e la difesa ingloba ormai anche l’esteso dosso che domina l’abi-tato [Spieser 856, pp. 59-72]. Le mura delle città del limes smantellatedagli Unni nel 441 (Viminacium, ad esempio) vengono invece lasciatein tale stato e non saranno ricostruite prima di Giustiniano.

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Le nuove fortificazioni vengono raramente edificate con urgenza,anche nel caso in cui si limitino a integrare una gran quantità di elemen-ti di recupero, come nel caso delle mura costruite ad Atene dopo la scor-reria erula del 267, costituite sostanzialmente di spolia provenienti daifabbricati dell’agorà greca. Il loro tracciato denota tanto una straordi-naria persistenza (come a Tessalonica) quanto, al contrario, un forte re-stringimento dello spazio urbano, talora provvisorio. Ad Atene, la cin-ta muraria edificata dopo il 267 non racchiude che lo spazio compresotra l’Acropoli a sud e il quartiere dell’agorà romana a nord, ma si rive-la ben presto insufficiente (alla metà del iv secolo?): nel v secolo, saran-no nuovamente le mura di Aureliano a fungere da linea difensiva.

Assai incostante è il rispetto attribuito agli spazi pubblici preceden-ti. A Filippi, uno dei rari siti archeologici nei quali si sia proceduto alloscavo sistematico di un intero quartiere, l’Ottagono e i vicini edifici ri-salenti al vi secolo tengono conto del reticolo viario, benché riducanodi larghezza alcune strade e ostacolino il percorso di altre, e il foro vie-ne riorganizzato verso il 500 [Spieser in 861]. Ad Atene, l’agorà grecaviene abbandonata e la sua area originaria parzialmente invasa, nel ivsecolo, da modeste abitazioni e da officine metallurgiche. Ma intornoall’agorà romana e alla Biblioteca di Adriano si costituisce allora un nuo-vo centro amministrativo ed economico, che tale rimane almeno fino alprincipio del vi secolo, quando il settore dell’agorà comincia a venire oc-cupato a sua volta da officine, mentre l’abitato e i cimiteri guadagnanole pendici dell’Acropoli. A Tessalonica, l’agorà non viene abbandonatache alla fine del vi secolo: all’inizio del vii secolo i suoi portici, abbat-tuti da un terremoto, non vengono ricostruiti. Si assiste, in effetti, a unaridistribuzione degli spazi pubblici e privati che modifica profondamen-te il tessuto urbano, ma con progressione lenta e in base a tempistichedifferenti secondo i luoghi.

2.2. I monumenti e la molt ip l icazione del le chiese 16.

Alcune città conservano come retaggio del passato un ricco patrimo-nio monumentale. Sirmio viene così dotata nell’arco di sessant’anni, trala fine del iii e l’inizio del iv secolo, di una cinta di mura che racchiudeuna superficie di circa 80 ettari, almeno due terme, molti grandi horreae un «palazzo imperiale» a nord del quale sorge un ippodromo [Bavantin 861]. Un catalogo non molto dissimile da quello che può essere stila-to per Tessalonica, altra residenza imperiale [Spieser 856]. Dovunquepalestre e ginnasi fanno posto ai complessi termali, mentre i teatri ca-dono in desuetudine; e tuttavia, molto gradualmente: se il teatro di Sto-

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bi viene abbandonato alla fine del iv secolo, i suoi sedili marmorei di-velti e la cavea invasa da abitazioni private al principio del v secolo, quel-lo di Tessalonica continua senza dubbio a essere frequentato fino alla fi-ne del vi secolo. Il processo non sembra giungere a piena conclusioneche a Cariãin Grad, creazione artificiale risalente agli esordi del regnodi Giustiniano. Le fortificazioni principali sono in grado di offrire dife-sa a non più di 8 o 9 ettari di terreno e dividono la città in tre aree (acro-poli, città alta, città bassa). Lo spazio urbano è strutturato classicamen-te lungo due grandi arterie viarie fiancheggiate da portici, alla cui inter-sezione si apre una piazza circolare di modeste dimensioni (del diametrodi 22 metri), ma è occupato quasi interamente da edifici amministrati-vi, ecclesiastici o militari, da qualche edificio di pubblica utilità (unagrande cisterna, un complesso termale) e da chiese: dal momento che ilsettore residenziale non disponeva che di uno spazio assai ridotto, lamaggioranza degli abitanti viveva all’esterno della cinta muraria [Bavantin 861].

Nei centri che si fregiano ancora di una panoplia monumentale co-spicua e prestigiosa si continua naturalmente a provvedere alla manu-tenzione di tale eredità del passato fino a quando la costruzione dellechiese non comincia ad assorbire gradualmente l’essenziale delle risor-se finanziarie. La moltiplicazione delle chiese cristiane costituisce il so-lo vero rinnovamento urbano dell’epoca protobizantina, identificando-si nel dinamismo architettonico cittadino. I santuari pagani fanno an-cora parte del paesaggio urbano: le distruzioni sistematiche, rare, sonodovute a iniziative di vescovi o di monaci (tempio di Asclepio a Corin-to, di Afrodite ad Argo). Pochi templi vengono trasformati in chiese,sia per ragioni pratiche (esiguità delle celle) sia perché si esita a consa-crare a Dio tali «ricetti di demoni». Si preferisce piuttosto riutilizzareedifici profani, come la Rotonda a Tessalonica, destinata originariamen-te a essere il mausoleo di Galerio. I rari reimpieghi di templi documen-tati (lo Hephaisteion e il Partenone ad Atene) hanno luogo tardi (ulti-mo scorcio del vi o vii secolo), in un momento nel quale le comunità cri-stiane non possiedono più i mezzi per provvedere alla manutenzione oal restauro delle grandi basiliche17. Quasi tutte le chiese sono perciò edi-fici originali, costruiti fra il iv e il vi secolo. Alquanto rare alla metà deliv secolo (cfr. in proposito la chiesa dell’apostolo Paolo a Filippi, del 340circa), sono più numerose verso il 380-90 (al tempo del rovesciamentodelle élites urbane). L’attività costruttiva subisce un’accelerazione ver-so il 400-10, segnando successivamente il passo fino al 460-70 circa, pe-riodo di pausa cui farà seguito una nuova fase, caratterizzata da unostraordinario slancio che si mantiene costante fino al 530 circa: quasi la

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metà delle chiese conosciute vengono edificate al volgere del v secolonello spazio di due generazioni. Il fenomeno rallenterà bruscamente inseguito, per poi estinguersi a poco a poco nella seconda metà del vi se-colo. È evidente che le costruzioni risalenti alla prima fase apicale (finedel iv - inizi del v secolo) soddisfano a necessità di comunità cristianein espansione, mentre quelle della seconda fase (seconda metà del v -primo terzo del vi secolo) devono essere rapportate al momento in cuiviene dato libero corso all’emulazione fra i committenti, senza rispon-dere per forza a necessità pratiche.

Le chiese sorgono in un primo tempo nelle città a seconda delle cir-costanze, senza alcun piano di cristianizzazione dello spazio urbano e ri-manendo a lungo periferiche a motivo delle maggiori disponibilità e deimigliori prezzi dei territori edificabili. La conquista progressiva dei cen-tri urbani da parte dei gruppi episcopali alla fine del v o agli inizi del vi

secolo (assolutamente paradigmatico è, sotto questo riguardo, il caso diFilippi) rivela la fortuna degli episcopati e va di pari passo con la cre-scente monumentalità degli edifici ecclesiastici. Si tratta soprattutto difabbriche a pianta basilicale, ma nella prima metà del v secolo sono al-tresì attestate costruzioni a pianta circolare (tetraconca di Atene). Emer-ge molto presto un tipo regionale classico, adottato tanto per le chieseparrocchiali quanto per quelle cimiteriali: la basilica a tre navate, piut-tosto piccola, preceduta da un atrio e da un nartece, le navate separateda una duplice fila di colonne che fanno da sostegno a una teoria di ar-chi. Al contrario, verso la metà del v secolo appaiono nei grandi centrichiese di dimensioni più cospicue, di ornato più sontuoso e di più com-plessa architettura (basiliche a galleria dell’Acheiropoietos o di San De-metrio a Tessalonica, di Stobi, di Nea Anchialo).

Nonostante alcune di queste costruzioni eccezionali, l’architetturaecclesiastica dell’Illirico è piuttosto uniforme: la diversità regionale sirivela piuttosto nelle tecniche edili impiegate e nell’ornamentazione [So-dini 853]. Tale relativa omogeneità dà luogo a due conseguenze notevo-li. Innanzitutto, la volontà di emulazione fra gli episcopati, le provinceo le circoscrizioni attigue – lontana eco dell’antagonismo esistente frale città in età ellenistica – trova il modo di esprimersi attraverso la cu-ra di dettagli concernenti l’arredo liturgico interno. Lo si è ben illustra-to a proposito del tribelon (il triplice andito libero fra nartece e navatacentrale), la cui area di diffusione corrisponde esattamente a quella del-l’Illirico ecclesiastico, e della dislocazione dell’ambone, decentrato anord della navata centrale in Acaia e a sud nel resto dell’Illirico, ma al-trove sempre centrato18. La seconda conseguenza derivante dalla stan-dardizzazione di cui si diceva è che nel vi secolo, quando ogni città fi-

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nisce per essere dotata di numerose chiese (nove a Nea Anchialo, treenormi a Corinto, quattro a Nicopoli e a Filippi, ecc.), la diversità del-le forme architettoniche appare, per reazione, un contrassegno di son-tuosità e di ricchezza, valorizzata come tale. In tal modo si spieghereb-be la scelta della pianta ottagonale per la più recente tra le chiese di Fi-lippi e soprattutto il fatto che nella sola «città nuova» del vi secolo, aCariãin Grad, la varietà sembra essere ricercata fin da subito: le ottochiese attualmente note (due grandi e sei piccole) sono tutte edificate supiante sistematicamente differenziate.

2.3. L’abitato urbano.

Le abitazioni riservate agli esponenti delle classi superiori sono le me-glio conosciute, grazie alle numerose dimore signorili costruite fra la fi-ne del iv e il vi secolo conservate nelle città, ad Atene o nel Peloponne-so [Sodini 564 e in 861]. La loro tipologia non rivela nulla di peculiare:sono abitazioni organizzate attorno a una o a più corti circondate da unperistilio, sulle quali si affacciano dei triclinia spesso forniti di un’absidee ornati di mosaici. Altre corti secondarie riuniscono i locali abitativi ve-ri e propri e quelli di servizio. Le piccole terme private sono frequenti el’acqua è onnipresente sotto forma di fontane e di ninfei. Malgrado ladatazione problematica, le nuove costruzioni di questo genere non paio-no molto numerose nel v secolo (a parte ad Atene, dove compensano sen-za dubbio una carenza anteriore) e in ogni caso si diradano rapidamentedopo il 400. Ma molte residenze del iv secolo continuano a essere abita-te, restaurate o modificate. Parecchi facoltosi proprietari fondiari conti-nuano dunque a dimorare ininterrottamente nelle antiche città.

Le abitazioni «medie» rimangono poco esplorate: si conoscono, so-prattutto in Grecia, case senza corte circondata da peristilio, con am-bienti ripartiti da una parte e dall’altra di un corridoio. Ma i riferimen-ti cronologici che le riguardano sono imprecisi. Quanto al contesto abi-tativo popolare, esso è così poco noto da essere spesso confuso addirit-tura con un fenomeno di «squatterizzazione» tardivo. L’agglomerato dicasupole che all’inizio del v secolo viene a occupare la cavea del teatrodi Stobi o quello cresciuto al principio del vi all’interno del teatro diEraclea Lyncestis coesistono pertanto a lungo assieme alle lussuose re-sidenze di quelle medesime città. La struttura di tali quartieri e la tipo-logia delle case che li compongono (ambienti spesso costituiti da due va-ni di forma irregolare, fiancheggiati da minuscoli cortiletti, con un mu-ro elevato a protezione dell’entrata principale e una scala esterna) ricor-dano l’abitato scavato all’interno del fortino di Sadovec [Uenze 858],

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così come quello installato nella seconda metà del vi secolo in prossimitàe nell’atrio della basilica del Lechaion o a sud del tempio di Apollo aEgina. Tale processo di occupazione degli spazi deve essere distinto dal-la «ruralizzazione» (introduzione di attività agricole all’interno del con-testo urbano), fenomeno anch’esso ben documentato in vari periodi. APatrasso, i torchi vinari sono frequenti nelle case di quest’epoca, e per-sino nel centro di Atene il vasto complesso del «Palazzo dei Giganti» sitrasforma alla fine del v secolo in una ricca azienda agricola [Castrén826, p. 14].

2.4. Una contraddizione?

L’impressione così ricevuta di una forte continuità dell’antica civiltàurbana, ben attestata sino alla vigilia del suo crollo alla fine del vi seco-lo, è difficilmente conciliabile con la semplice narrazione degli eventi edei cambiamenti osservati nel corso delle vicende di occupazione del ter-ritorio, giacché essa si fonda largamente su un’illusione. L’analisi ar-cheologica del quadro urbano sopravvaluta sempre la continuità, privi-legiando la comparsa di nuove strutture in rapporto alle condizioni delloro utilizzo. La costruzione di edifici cultuali è misura imperfetta del-la prosperità economica, poiché destinare alla Chiesa contributi deri-vanti da eccedenze può dissimulare molto bene una loro complessiva di-minuzione. Infine, lo studio delle abitazioni signorili lascia in ombra imutamenti sociali (emergenza di una nuova classe di possessores, nellaquale i funzionari e gli impiegati rivestono un ruolo sempre più impor-tante). I segni di ruralizzazione, indizi del fatto che le terre coltivate so-no ormai situate nelle immediate vicinanze cittadine, debbono indurrea correggere le conclusioni tratte dall’analisi dei centri urbani utilizzan-do le rare informazioni di cui è possibile disporre concernenti la situa-zione delle campagne.

3. Le campagne.

3.1. L’ impianto del le grandi vi l lae .

In ogni luogo, ma in particolare nella diocesi di Dacia, gli insedia-menti agricoli meglio noti sono le villae. Ben documentate nell’alto Im-pero, esse hanno rivestito un ruolo inequivocabile nella ricomposizionedei territori agli esordi dell’età romana [Mirkoviç 844]. Il loro statuto èvario (centri di possedimenti imperiali, villae rusticae di grandi latifon-

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disti, insediamenti più modesti) e continua a essere difficile valutarnesingolarmente l’importanza; il loro numero tuttavia fra il i e il iv seco-lo si accresce [Henning 837], la loro attrezzatura si diversifica. La mag-gior parte di esse sorge nelle pianure, in conche o nei fondivalle. La lo-ro moltiplicazione sembra dunque corrispondere a un intensificarsi delprocesso di valorizzazione delle zone basse. Un recente inventario del-le villae ormai note attraverso le ricognizioni archeologiche [Sodini 564]ha messo in luce il fatto che quasi tutte vengono abbandonate nel cor-so del v secolo fuorché in certe regioni del Peloponneso (Corinzia, Ar-golide, Messenia), nelle quali alcuni possedimenti prossimi alla costa con-tinuano a essere coltivati fino al vi secolo. Tale fenomeno generale è sen-za dubbio in relazione con la caotica situazione verificatasi nel v secolo:concentrando beni (principalmente cereali e bestiame) in luoghi soven-te mal difesi e comodamente accessibili dalle strade principali, le villaerappresentavano le prede più facili per le bande armate che vivevano aspese del paese. Agitazioni periodiche, rinnovate per più generazioni,potevano agevolmente condurre al crollo della loro redditività, provo-candone l’abbandono.

3.2. Stato del la conoscenza sui piccol i nucle i abitat i .

A fianco di queste grandi tenute, che non costituiscono affatto l’u-nico modo per mettere a frutto le risorse del territorio, esiste certamen-te un’intera rete di villaggi, alcuni dei quali occupati da piccoli proprie-tari fondiari, altri dipendenti dai grandi proprietari. Si spiegherebbe co-sì il persistere in ambito urbano di una classe di possidenti e la fortunadelle chiese cittadine, dimostrata dalla fioritura delle basiliche. Ma que-sti villaggi di pianura continuano a esserci praticamente sconosciuti. Al-cune comunità rurali hanno potuto trarre profitto dal declino delle vil-lae, recuperando una parte dei terreni e tornando a occupare i centri diproduzione agricola (come si osserva, allo stato attuale delle conoscen-ze, soltanto nella diocesi di Tracia). Ma, alla fine, la rarefazione stessadelle villae mette in pericolo pure i villaggi della pianura.

Di contro, la moltiplicazione in zone di media altitudine (tra i 350 ei 900 metri circa) di siti fortificati secondari databili all’epoca protobi-zantina è spettacolare19: alcuni di essi riutilizzano oppida protostorici,mentre altri sono edificati su suolo vergine. Peraltro, benché pochi sia-no stati fatti oggetto di scavo e la loro cronologia rimanga ancora ap-prossimativa, è certo che tale imponente proliferazione subisce una bat-tuta d’arresto prima della fine del iv secolo, riguadagnando intensità nelv e nel vi secolo (quantunque alcune di tali fondazioni abbiano vita ef-

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fimera). La loro natura è molto diversificata: rifugi temporanei, villag-gi occupati in permanenza, borgate fortificate, fattorie, fortezze e for-tini edificati a guardia di strade secondarie, torri di vedetta.

3.3. Già un problema demograf ico?

Le fluttuazioni della demografia sono molto incerte. Appena conclu-sasi la crisi del iii secolo, lo smagliato reticolo delle città della diocesi da-cica e l’economia intorpidita della Grecia propria denotano una densitàantropica inferiore a quella delle regioni orientali dell’Impero. A ciò siaggiunga che dalla fine del iv secolo l’Illirico non ha mai goduto di unperiodo di pace abbastanza durevole da consentire un lento accumulodi ricchezze e un regolare incremento demografico, e che gli insediamen-ti di federati di origine germanica, limitati alla pianura danubiana, era-no troppo radi per poter compensare la scarsità di popolazione. Quan-tunque sia impossibile calcolare le perdite dovute alle incursioni barba-riche (uccisioni, razzie di prigionieri, deportazioni), si comprende comela situazione demografica dei Balcani sia stata fatta oggetto di valuta-zioni complessive molto negative [Lemerle 842].

La trama urbana non rappresenta tuttavia un indicatore sufficientedella densità della popolazione e un deficit demografico fortemente ac-centuato nel v secolo si concilia difficilmente con la constatazione che,in tante città, il quadro urbano si mantiene stabile o va incontro a unlento degrado, almeno fino alla metà del vi secolo. Infine, un processoabbastanza dinamico di stanziamento in siti d’altura suggerisce non unadesertificazione generale, ma un dislocamento della popolazione ruralenelle zone di media altitudine. Su uno sfondo demografico poco favo-revole, si può congetturare una ridistribuzione progressiva degli uomi-ni, di pari passo con profondi mutamenti nella ripartizione delle ricchez-ze. Questa ipotesi di lavoro pare rendere conto al meglio dei dati a no-stra disposizione.

4. La produzione e gli scambi.

L’Illirico non ospita nessuna di quelle immense metropoli che pola-rizzano le attività produttive e le reti di scambio, strutturando e stimo-lando l’economia di vaste regioni. Tessalonica è talora abbastanza vici-na ad assumere tale ruolo, ma non vi perverrà mai completamente: lasua diretta sfera d’influenza, sul piano economico, rimane limitata alledue Macedonie e alla Tessaglia.

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4.1. Produzione agr icola.

L’agricoltura, l’allevamento e la pesca costuituiscono sicuramente laprincipale fonte di ricchezza. Le derrate fondamentali (cereali, frutta,vino, olio d’oliva) sono prodotte dovunque le condizioni climatiche loconsentano, senza alcuna vera specializzazione: l’allevamento viene pra-ticato nelle pianure (cavalli e bovini) così come in montagna (transuman-za degli ovini); la legna, disponibile in grandi quantità, viene provvistadai territori boschivi prossimi ai massicci montani. Localmente si desti-nano all’esportazione le eccedenze di alcuni prodotti, elencate dalla Ex-positio totius mundi [110] a metà del iv secolo: olio d’oliva e miele diAcaia, grano dalla Tessaglia, pesce (essiccato) dall’Epiro, lardo e formag-gio dalla Dardania. Eppure nel complesso (secondo questa fonte) l’A-caia risulterebbe deficitaria, mentre le restanti province soddisferebbe-ro il proprio fabbisogno: nessuna, tuttavia, è una grossa esportatrice diprodotti agricoli. Un simile giudizio avrebbe potuto essere ancora piùsevero cento o centocinquant’anni piì tardi. In Illirico, la produzionedelle derrate alimentari sembra dunque rivolta soprattutto in direzionedel consumo interno o verso gli scambi a breve distanza.

4.2. Art ig ianato urbano.

L’artigianato è qui un fatto essenzialmente urbano: al di fuori dellecittà, è limitato a determinate attività (edilizia, tessile) e a borgate si-tuate in località che godono di risorse particolari (come nel caso dellafabbricazione di attrezzi di scavo in territori minerari)20.

La produzione di materiali per l’edilizia (mattoni, tegole, pietre) èattestata in ogni provincia e stimolata dalla costruzione di chiese. Le ca-ve di marmo continuano a essere sfruttate in Grecia (Taso, Paro, Tes-saglia, Eubea, Laconia): vi si producono una gran quantità di elementiarchitettonici e di arredo liturgico per le chiese, ma anche, in Attica enel Peloponneso, sculture destinate a ornare le ricche residenze private(nel v secolo). Questi oggetti vengono esportati dovunque si possa giun-gere via mare [Sodini in 159, pp. 163-86, e in 518, pp. 129-46]. Nel-l’entroterra si ricorre spesso a rocce di qualità inferiore (calcare, ande-site, molassa), rivestendo talvolta gli elementi architettonici di stucco.Le officine degli scultori, così come quelle presso le quali si preparano imosaici pavimentali [Sodini 853], esercitano generalmente le loro atti-vità all’interno di un contesto regionale. La lavorazione del legno è co-nosciuta meno bene, ma i recenti rinvenimenti di utensili da carpentie-

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re, falegname e carradore mostrano che, oltre agli impieghi tradiziona-li (carpenteria, veicoli, mobili), esso veniva molto utilizzato nell’Illiricocome materiale murario, soprattutto nelle province dell’interno (pareticomposte da pannelli in legno e argilla mista a paglia), e per la creazio-ne di recipienti (in concorrenza alla ceramica).

L’artigianato della ceramica, presente dovunque, nel corso del perio-do in questione non ha prodotto nei Balcani alcun tipo di oggetto desti-nato a una larga circolazione. Tuttavia è possibile distinguere da un la-to prodotti la cui diffusione è stata relativamente ampia (lampade del-l’Attica nel v secolo, sigillate grigie dalla Macedonia, imitazioni dipintedi sigillate tardive in Grecia centrale) e dall’altra oggetti di produzionestrettamente locale (soprattutto per lo stoccaggio e per il vasellame dacucina), ma a volte apparentati fra loro, a delineare un abbozzo di grup-pi regionali (ad es. in Dardania o sul limes).

È necessario inoltre fare menzione delle manifatture tessili, essen-zialmente in pelo di capra e in lana (cfr. i pettini per la cardatura, i pe-si da telaio e i fusi), assieme al cuoio e alle pelli. Alcuni di tali prodottigodono di un certo pregio (gounae o mantelli di pelle di Dacia).

Ma in Illirico è la metallurgia nelle sue diverse forme, in ragione del-le risorse locali, a dominare gli altri generi di artigianato. Se l’attivitàdelle officine che avevano prodotto nel iv secolo a Sirmio, Naisso e Tes-salonica piatti d’argento a scopo commemorativo non ha seguito nel vsecolo, continua a esistere un’oreficeria diversificata e largamente dif-fusa votata alla fabbricazione di ornamenti in metallo prezioso e in bron-zo per una clientela civile e militare, residente tanto entro i confini del-l’Impero quanto a nord del Danubio. La lavorazione del piombo con-cerne soprattutto le tubature, ma la metallurgia del ferro è di gran lungala più fiorente: cinque delle quindici fabricae di armi imperiali note nel-la pars Orientis all’inizio del v secolo sorgono nell’Illirico (Tessalonica,Naisso, Ratiaria, Horreum Margi e Sirmio). Alcune officine fabbriliidentificate (Drobeta, Cariãin Grad), oltre alla quantità e alla diversitàdegli oggetti di ferro rinvenuti in parecchi siti (utensili agricoli, attrez-zi diversi, armi, chiavi e serrature, chiodi, strumenti di vario tipo, bar-dature e agganci per traino), mostrano che la lavorazione del ferro erauna specialità regionale, in particolare nella diocesi dacica.

4.3. Le miniere.

Lo sfruttamento delle risorse minerarie continua quello già pratica-to in età protostorica e romana. Esso riguarda cinque metalli: l’oro, l’ar-gento, il rame, il piombo e il ferro. La lista dei giacimenti, stabilita su

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quattro province della diocesi dacica [Du‰aniç 831], evidenzia una doz-zina di zone di particolare importanza:

– in Mesia I, la regione situata a sud di Singidunum fino alla monta-gna di Rudnik (oro, argento, rame, piombo); quella che si estendea sud-est di Viminacium (oro, argento, rame, piombo e ferro) e l’al-ta valle del Timok Nero (argento e piombo);

– in Dacia ripuaria, la regione della moderna città di Bor (oro, argen-to e rame) e quella di Montana (oro);

– in Dacia mediterranea, le zone a nord di Naisso (rame), a sud diCariãin Grad (oro, argento, piombo) e le montagne che separanola Morava dall’alta valle dello Strimone e dal bacino di Pautalia (ar-gento, piombo, ferro);

– in Dardania, l’alta valle dell’Ibar (argento, piombo), le alture a estdi Ulpiana (oro, argento, piombo), così come a nord e a est di Scu-pi (oro, argento, rame, piombo);

– in Macedonia I, il massiccio del Pangeo (oro).

I giacimenti d’oro, d’argento, di piombo e di rame sono più disse-minati, quelli di ferro più localizzati (nord-est della Mesia I, sud-estdella Dacia mediterranea). Ma l’elenco è incompleto, giacché privile-gia i siti ancora sfruttati nelle epoche successive, a scapito di quelli chepotevano considerarsi fruttuosi soltanto tenendo conto delle condizio-ni economiche dell’Antichità. Il sistema gestionale delle miniere, i vin-coli giuridici cui dovevano essere sottoposte le attività estrattive cosìcome l’intensità dello sfruttamento dei giacimenti rimangono piutto-sto oscuri.

In epoca altoimperiale, numerose zone minerarie sono situate al difuori dei territori delle città, all’interno di vasti possedimenti imperialio di comprensori fiscali amministrati dall’esercito21. Una buona partedella produzione pare gestita direttamente dallo Stato, anche se alcunifiloni erano sfruttati da privati. Al principio del v secolo, l’estrazionedell’oro è posta sotto il controllo di un comes metallorum per Illyricum,cui sono subordinati dei procuratores metallorum reclutati fra i decurio-ni e incaricati di riscuotere le tasse sul prodotto minerario all’origine.L’estrazione dell’argento, del rame e del ferro pare allora largamente ri-messa nelle mani dei proprietari privati, previo un contributo in metal-lo. I successivi cambiamenti sono poco noti. Il ruolo dello Stato nellosfruttamento delle risorse minerarie così come lo stretto controllo eser-citato sulla produzione debbono teoricamente essersi mantenuti immu-tati. Le chorai e i territoria menzionati nel vi secolo (Procopio, CI) avran-

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no assunto l’assetto dei territori fiscali dell’alto Impero [Du‰aniç 831].Di contro, è verosimile che le incombenze dell’amministrazione centra-le siano state modificate: il ruolo dei decurioni ha dovuto ridursi, men-tre i vescovi si saranno visti attribuire delle responsabilità nella gestio-ne mineraria.

L’altra grande incognita concerne l’evoluzione della produzione apartire dal v secolo22. È plausibile che la perdita del Norico, della Pan-nonia I e di una gran parte della Dalmazia, importanti regioni minera-rie della prefettura italica, abbia influenzato pure l’Impero d’Orienteincitandolo a intensificare le attività estrattive in Illirico e in Tracia.L’abbondanza di manufatti metallici rinvenuti nei siti del vi secolo con-ferma questa congettura, che spiegherebbe anche il fatto che l’ammini-strazione imperiale si sia sforzata con successo di mantenere il suo con-trollo sui territori interni della diocesi dacica fino al 615 circa. Ma laconferma non potrà che giungere dallo studio dei siti minerari e dagliscavi dei villaggi annessi.

4.4. Commercio.

La diocesi di Macedonia, largamente aperta verso l’esterno per la suaprossimità al mare, contrasta con quella di Dacia, assai più isolata. Pon-te tra l’Oriente e l’Occidente, l’Illirico garantisce quell’importante com-mercio di transito nell’area dell’Egeo e sulle isole che fa, per esempio,la fortuna di Corinto. La sigillata africana di epoca tarda occorre fre-quentemente nel sud della penisola ma non a nord, neppure sul limes da-nubiano23, benché le anfore circolino più ampiamente. La loro presenzain gran numero sul Danubio dimostra che le guarnigioni venivano rego-larmente approvvigionate di vino e di olio per via fluviale.

Lungo il limes si esportano nel barbaricum prodotti locali di poco pe-so e di forte valore aggiunto, quali oggetti di toeletta o manufatti vetra-ri. Gli artigiani bizantini cominciano molto presto a lavorare per questaclientela, il che spiega come parecchi oggetti considerati esempi di artesuntuaria «barbarica» siano di fatto oggetti di fabbricazione bizantinautilizzati o indossati dai barbari. Le importazioni riguardano soprattut-to materie prime e prodotti grezzi (pellicce, ambra). Tale commercio be-neficiario permette a una buona parte dell’oro versato in tributi di rien-trare nell’Impero. È un fatto importante per i Bizantini, ma anche peri barbari, che difficilmente potevano farne a meno. Così, quando Atti-la pretende nel 447 di fare evacuare dai Bizantini la riva destra del Da-nubio per una profondità di cinque giorni di marcia, chiede che «il mer-cato» abbia luogo da allora in avanti a Naisso (Prisco, fr. 7): il limes, ai

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suoi occhi, rappresenta tanto un luogo di scambio quanto un ostacolomilitare.

Il commercio regionale è il genere di commercio meno noto. Rispet-to ai prodotti di prima necessità, è quello che soffre meno per i tumul-ti del v secolo e che può essere stato addirittura stimolato dalla ridistri-buzione della circolazione verso gli itinerari sino ad allora secondari. Al-cuni borghi fortificati giocano in tal caso il ruolo di emporia a scapitodelle città. Tale commercio locale non si è mai ridotto al livello di ba-ratto: la circolazione monetaria si mantiene sempre all’interno dei ter-ritori controllati dall’Impero, benché a un tenore piuttosto basso. Il«grande» commercio, il più scarso in termini di volume, concerne es-senzialmente i metalli (lingotti o prodotti finiti). Per questo motivo, es-so è posto interamente sotto il controllo dello Stato, che continuerà aessere esercitato fino alla fine della dominazione bizantina all’inizio delvii secolo.

5. La politica difensiva: ruolo del «limes» e difesa in profondità.

La difesa dei Balcani si fonda, oltre che sulle cinte murarie urbiche,su due pilastri: il limes e le fortezze poste a controllo di alcuni punti stra-tegici localizzati all’interno delle province (valichi e clisurae, nodi viari,zone minerarie). Il limes dell’Illirico serba, alla fine del iv secolo, la fi-sionomia nata dai lavori del periodo tetrarchico e costantiniano (com-pletati sotto Valente). Nella regione delle Porte di Ferro, esso compren-de tre elementi:

– fortezze utilizzate come teste di ponte sulla riva sinistra del Danu-bio;

– campi ausiliari distanti da 15 a 25 km sulla riva destra, ciascuno diessi in grado di ospitare una coorte (generalmente poco meno di 2ettari di superficie), fra i quali sorgono in successione piccoli for-tilizi (da 0,2 a 0,3 ettari) e torri di vedetta;

– in posizione arretrata, alcune grandi piazzeforti poste a sbarramen-to delle valli e delle vie secondarie di penetrazione all’interno delterritorio.

L’insieme non costituisce affatto una barriera continua e impenetra-bile, quanto piuttosto un dispositivo di sorveglianza e di allarme [cfr.cap. v] destinato a controllare gli scambi di beni e i movimenti di uomi-ni. In caso d’invasione, esso non ha efficacia se non in accordo con altriattori: la flotta danubiana, che taglia i contatti fra gli invasori e le retro-

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vie; le guarnigioni delle città di confine, in grado di attaccarle alle spal-le; ma soprattutto i mobilissimi eserciti da campagna. È l’insufficienzadi questi ultimi nei Balcani a costituire, fino al regno di Maurizio, la prin-cipale debolezza del dispositivo difensivo bizantino [cfr. cap. v].

Questo limes illirico (al contrario di quello di Tracia) patisce pocheconseguenze derivanti dai gravi turbamenti della fine del iv secolo, maviene in gran parte smantellato dagli Unni tra il 435 e il 447: l’archeo-logia fornisce conferma alle testimonianze storiche, dimostrando che nu-merose fortezze furono incendiate e alcune rase al suolo. Peggio, nullaviene più riparato per tre quarti di secolo: in occasione delle guerre go-tiche, nella seconda metà del v secolo, e delle prime incursioni bulgaredel vi secolo l’Illirico è privo di una difesa di frontiera organizzata, ben-ché in qualche città dell’interno si provveda a restaurare o a rinforzarele mura di cinta. L’azione di recupero del limes danubiano viene intra-presa con determinazione da Anastasio, però la priorità è attribuita alripristino della difesa di Tracia, dimodoché le opere di restauro comin-ciano in Scizia Minore per poi estendersi gradualmente verso occiden-te (non raggiungeranno Oescus prima degli anni 520). Di contro, le for-tificazioni di siti secondari dell’interno si rivelano alquanto logore e so-no probabilmente dovute più a iniziative locali (città, comunità rurali,vescovi, proprietari terrieri?) che a quella dello Stato, preoccupato delcontrollo del Danubio.

iv. da giustiniano a eraclio: l’epoca dei grandi sconvolgimenti.

1. Incursioni e successivi insediamenti graduali degli Slavi.

1.1. Le grandi tappe delle invasioni bulgare e avaro-slave.

La nostra conoscenza delle invasioni avaro-slave si è molto ampliatagrazie alla pubblicazione e allo studio dei Miracula Demetrii dovuti a P.Lemerle [211] e all’analisi delle emissioni monetarie condotta da V. Po-poviç [848-51]. La cronologia delle invasioni può essere riassunta comesegue.

Nella seconda metà del v secolo tribù slave (Anti e soprattutto Scla-veni) s’insediano in gran numero in Moldavia e in Valacchia, approfit-tando dello smembramento dell’impero degli Unni. Vengono inquadra-te da popoli nomadi – dapprima i Bulgari Cutriguri, quindi gli Avari –,

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che le impiegano come masse di manovra senza mai giungere a control-larle del tutto. Le imprese di queste genti – tanto quelle comuni quan-to quelle condotte singolarmente – porteranno, nell’arco di poco più diun secolo, a un mutamento profondo della fisionomia dei Balcani.

Comparsi per la prima volta sotto Zenone (474-91), i Bulgari diven-gono una minaccia durante il regno di Anastasio (491-518): si lancianoin scorrerie dapprima sulla Tracia (493-502), quindi, unitamente a con-tingenti slavi, sulla Macedonia e sulla Tessaglia (517). Il pericolo si pre-cisa con le incursioni bulgare e sclavene del 528 e del 529 in Tracia. Do-po alcuni successi riscossi dai suoi generali, Giustiniano nel 535 ritieneche la situazione si sia stabilizzata: Sirmio è stata appena riconquistataai Goti allorché egli pubblica la sua novella 11. Ma Sirmio viene nuova-mente presa, questa volta dai Gepidi, nel 536, mentre nel 540 un’impo-nente offensiva cutrigura raggiunge Costantinopoli e devasta la Greciafino all’Istmo di Corinto [cfr. cap. i]. Segue una serie di scorribande, con-dotte talvolta dai Cutriguri, più frequentemente dagli Slavi, fra il 544 eil 551. Sono anni durante i quali si determina una svolta importante: leincursioni diventano regolari; le operazioni vengono estese alla Dalma-zia; gli Sclaveni, agendo sovente di propria iniziativa, attaccano talorapiccole città e possono, eccezionalmente, svernare in territorio bizanti-no. La diplomazia bizantina riesce a stornare il pericolo per qualche tem-po, ma nel 559 Zabergan, alla testa di Cutriguri e Sclaveni, attacca nelcontempo su due fronti, giungendo attraverso la Macedonia e la Greciafino alle Termopili e attraverso la Tracia fino alle Lunghe Mura. Ferma-ti alle porte di Costantinopoli da Belisario, le loro retroguardie minaccia-te dalla flotta danubiana, i Bulgari passano nuovamente il Danubio, purcontinuando a costituire un pericolo fino al 562 circa.

È a quell’epoca che gli Avari, incalzati dai Turchi, giungono nella re-gione del Basso Danubio e sottomettono i Cutriguri. Insediatisi in Pan-nonia, abbandonata dai Longobardi per l’Italia (568), si mostrano dap-prima poco aggressivi, anche se la situazione non si può dire calma: leemissioni monetarie permettono di congetturare nel 571 un’incursionesclavena che, seguendo il corso della Ni‰ava e della Morava, sarebbegiunta fino all’Egeo [Popoviç 851]. Approfittando del fatto che la ripre-sa della guerra persiana aveva lasciato sguarnite le difese bizantine (572),il qaghan Baian attacca a sud del Danubio nel 573/574 e si fa concede-re delle terre nella regione di Sirmio, progettando d’impadronirsi suc-cessivamente della città, chiave dei Balcani recuperata dai Bizantini nel567. Simulando in un primo tempo di agire contro gli Sclaveni a profit-to dell’Impero, li spinge in realtà a sferrare offensive a sud: gli serviran-no di pretesto per gettare ponti sulla Sava e sul Danubio, da una parte

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e dall’altra di Sirmio, che assedia ed espugna nel 582. Le invasioni scla-vene sono in effetti ben documentate per gli anni 578-84: l’offensivadel 578-79 ricordata da Menandro (frr. 47-48: 100 000 Sclaveni sac-cheggiano la Tracia e altre province) deve senza dubbio essere distintada quella di cui fa menzione Giovanni di Efeso, iniziata nel 580/581 (gliSclaveni invadono l’Ellade, la regione di Tessalonica e la Tracia, e sidanno per quattro anni al saccheggio dei Balcani). La numismatica con-ferma gli sconvolgimenti di quegli anni in Grecia, benché probabilmen-te non si tratti ancora di insediamenti permanenti e massivi.

Gli anni 582-91 sono caratterizzati da una nuova serie di invasioni,condotte verso la Tracia e Costantinopoli dagli Avari stessi, ovvero –dietro loro istigazione – dagli Sclaveni verso l’insieme della penisola.Nel 582 l’accordo avaro-bizantino viene rinnovato dietro pagamento diun tributo annuale di 80 000 solidi. Un primo attacco avaro (estate 583)mette a dura prova il limes e dilaga fino ad Anchialo. Maurizio deve ac-consentire a versare un tributo di 100 000 solidi per riprendere posses-so di Singidunum. Ma nel 585 il qaghan incita gli Sclaveni ad attaccarela Tracia, ove saranno sconfitti davanti alle Lunghe Mura. In autunnogli Avari rompono il trattato, lanciando essi stessi una seconda offensi-va, sferrata contemporaneamente in Dacia ripuaria e in Mesia II. Lacontroffensiva bizantina della primavera seguente (586) costringe gliAvari a passare ancora una volta il Danubio con i loro prigionieri. È intale situazione che essi lanciano numerose tribù sclavene su Tessaloni-ca, assediata senza successo per una settimana nel settembre 586 (Mi-rac. Dem., 1.13-15). Tale operazione, concepita senza dubbio come undiversivo, segna di fatto la prima e decisiva fase della slavizzazione deiBalcani: dopo lo scacco subito, gli Sclaveni scendono verso sud per in-sediarsi in massa all’interno di ampi territori della Grecia propria, com-preso il Peloponneso (587/588, secondo la Cronaca di Monemvasia) [Le-merle 843 e 211] e fondando le prime sclavinie in Macedonia [Popoviç850].

Una nuova campagna avara ha luogo nel 588 (quantunque Teofilat-to sembri datarla al 592). Essa prende le mosse da un infruttuoso asse-dio posto a Singidunum e prosegue poi lungo il corso del Danubio (Bo-nonia) e in Tracia: gli Avari prendono Anchialo e avanzano fino alleLunghe Mura. La loro pressione segna in seguito il passo, ma le incur-sioni slave continuano nel 588/589. Le tribù sclavene iniziano allora asvincolarsi dall’influsso avaro, mentre le truppe bizantine riprendono ilcontrollo della Tracia a sud della Stara Planina.

Dopo la pace con la Persia (fine dell’estate 591), Maurizio tenta disottomettere le tribù insediate a nord del fiume impiegando contingen-

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ti militari già di stanza in Oriente, trasferiti per l’occasione nei Balcani(592). I generali imperiali riportano parecchie vittorie nelle regioni tran-sdanubiane settentrionali, senza tuttavia poter impedire nuove scorre-rie slave (su Aquae e Scupi?) nel 593/594. Il qaghan cerca di smantella-re le difese di Singidunum (595), ma il sito viene liberato dalla flotta bi-zantina e gli Avari si accontentano di compiere un’incursione in Dalma-zia. Nel 597 essi riprenderanno le loro operazioni lungo il Danubio e inTracia, diroccando definitivamente le fortezze poste a difesa delle Por-te di Ferro. Bloccano Prisco a Tomi per tutto l’inverno, prendono Dri-zipera e giungono a minacciare Costantinopoli, ma la peste li costringea ritirarsi. Il trattato concluso nel 598 aumenta l’ammontare del tribu-to, ma ristabilisce la frontiera sul Danubio e conferisce conseguentemen-te ai Bizantini il diritto a rivalersi nei confronti degli Sclaveni: in effet-ti, gli Avari sembrano sulla difensiva.

Le ostilità riprendono per iniziativa di Bisanzio (599). I generali bi-zantini spingono i loro attacchi fino alla Pannonia, infliggendo numero-se sconfitte agli Avari e ai loro subordinati Slavi e Gepidi. In Tracia vie-ne riaperta la Via Traiana. In Illirico, i Bizantini impediscono agli Ava-ri di estendere il loro dominio a sud delle Porte di Ferro, verso il centrodella diocesi dacica (601). È l’inizio della seconda grande fase della sla-vizzazione dei Balcani: gli Sclaveni, che nulla ormai può più tratteneresul Danubio e che cercano di sfuggire tanto alla supremazia avara quan-to alle armate imperiali, passano in gran numero in Dacia ripuaria e inMesia I, donde si riverseranno in Prevalitana e in Dardania. Nel 602 iBizantini riportano ancora qualche successo, ma l’ordine impartito daMaurizio di mantenere militarmente la pressione sulle tribù sclavene du-rante l’inverno provoca una rivolta in seno all’esercito e la conseguentepresa del potere da parte di Foca.

L’usurpatore eviterà tuttavia di sguarnire all’eccesso i Balcani. An-cora per qualche tempo i Bizantini rimangono perciò attestati in corri-spondenza delle loro ultime posizioni in Dacia mediterranea: il triango-lo Serdica - Naisso - Iustiniana Prima, donde si ha il controllo della stra-da per Costantinopoli e in cui sono concentrate parecchie miniere. Mai rovesci bizantini del 613 e del 614 in Oriente incoraggiano gli Avari aimpadronirsi di quest’ultimo caposaldo, senza dubbio nel 614 (cfr. lapresenza di profughi di Naisso e di Serdica a Tessalonica verso il 615,ovvero la deportazione di una parte della popolazione urbana di Daciae di Tracia tra 614 e 619, documentate entrambe dai Miracula Deme-trii). Bisanzio non controlla ormai che Tessalonica, oltre a qualche po-sizione costiera nella Grecia storica. La terza grande fase della slavizza-zione balcanica ha inizio. Il processo di acculturazione già avviato tra i

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nuovi venuti e le popolazioni locali progredisce senza che l’Impero siain grado di governarlo.

1.2. Condizioni concrete del l ’ insediamento degl i Slavi .

Costumi e abitazioni. Le consuetudini di vita degli Slavi ci sono no-te attraverso alcune testimonianze (Procopio e lo Strategikon di Mauri-zio [436]) e grazie alle ricerche archeologiche condotte nei territori anord del Danubio. Questi agricoltori seminomadi abituati a vivere neibassopiani, in regioni boscose e paludose a un tempo, non si avventura-no affatto nella steppa aperta e penetrano nelle zone montane soltantoattraverso i fondivalle. I loro villaggi sono situati lungo fiumi e corsid’acqua minori, su poggi asciutti, ai margini di terrazze alluvionali. Abi-tano capanne seminterrate lunghe da 3 a 4 metri, dotate di un forno an-golare a volta, di pietra o d’argilla. I muri, di tronchi sovrapposti o diassi, reggono una tettoia a due falde (il cui colmo è talora sostenuto daun pilastro centrale) coperta con fasci di vegetali, mentre un terrapienoprotegge le parti di muro che si levano sopra il suolo. Le frazioni abita-tive (da 8 a 10 case in media) costituiscono, riunite in complessi da 4 a10 gruppi, agglomerati di qualche centinaio di abitanti. Più agglomera-ti possono corrispondere a una piccola tribù. Questo tipo di abitato, astruttura rada e di concentrazione molto variabile, viene adattato allenecessità di una popolazione ancora non saldamente fissata: anche la du-rata di occupazione dei siti è molto varia (da pochi anni a un secolo epiù) e le dimensioni dei villaggi diminuiscono sensibilmente ai confinioccidentali (Slovacchia).

Tale regime di vita, piuttosto primitivo, progredisce rapidamentesotto l’influsso delle popolazioni con le quali gli Slavi sono venuti a con-tatto, in particolare i Daci romanizzati abitanti i territori dell’attualeRomania. Questa capacità di adattamento è una delle loro caratteristi-che essenziali. In origine, essi coltivano soprattutto il miglio, allevanobovini e bestiame di piccola taglia e praticano la pesca. Presto prendo-no a coltivare il grano e ad allevare cavalli; quelli già avvezzi alla navi-gazione fluviale non tardano ad apprendere la tecnica del cabotaggio inmare. Dalla loro sede a nord del Danubio si aprono agli scambi. In guer-ra cercano di procacciarsi soprattutto il bottino, cui presto aggiungonotuttavia anche terre sulle quali potersi stabilire. Agiscono riuniti in pic-coli gruppi, spostandosi attraverso territori a bassa densità di popola-zione. Viaggiano a bordo di carri, ma possono pure aggirare uno sbarra-mento fortificato passando da posizioni poco accessibili. A lungo inca-paci di espugnare piazzeforti, apprendono dagli Avari l’uso delle mac-

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chine d’assedio. Di contro, la loro organizzazione sociale, che non su-pera il livello della tribù nel corso del periodo in questione, rimarrà alungo arcaica, senza che sia possibile stabilire con loro delle ordinarierelazioni diplomatiche: le tribù potevano certo confederarsi, ma in vi-sta di operazioni militari ben definite (come l’attacco a Tessalonica del586).

Le testimonianze archeologiche. L’archeologia trova difficoltà a illu-strare i primi insediamenti permanenti e a cogliere concretamente la for-mazione delle sclavinie. La documentazione rimane costituita di elemen-ti negativi, vale a dire di tracce di distruzioni che, occorrendo in perio-di nei quali la presenza di Slavi è considerata possibile, vengono lorogeneralmente attribuite. Al contrario, gli elementi positivi risultano es-sere tenui e frammentati. Bisogna distinguere a questo punto tra gli in-siemi omogenei e i casi in cui materiale attribuibile agli Slavi si trovi as-sociato a materiale bizantino.

Non è stato rinvenuto nei territori dell’Illirico nessun abitato ascri-vibile con certezza agli Slavi e databile alla fine del vi o all’inizio del vii

secolo. Si possono tutt’al più menzionare in proposito due siti in Bosnia(dunque al confine con la Dalmazia): l’uno di fine vi - inizio vii secolo,l’altro più tardo (fine vii - viii secolo). È a nord-est della Bulgaria (quin-di in Scizia Minore) che si trovano siti (come Popina, presso Silistra) ca-ratterizzati da un abitato molto simile alla tipologia riscontrata a norddel Danubio24. Anche in questo caso le datazioni, basate sui reperti fit-tili, si mantengono piuttosto larghe. Quanto alle necropoli a incinera-zione isolate, sono molto rare (Olimpia o Kasiç in Dalmazia) e la lorodatazione pone i medesimi problemi (vii-viii secolo)25.

All’interno della produzione ceramica slava è possibile distinguerein età arcaica due gruppi principali di vasellame: quello di Praga-Korãak(brocche ovoidali slanciate, attribuito generalmente agli Sclaveni) e quel-lo di Penkovka (attribuito agli Anti, di forme piuttosto biconiche). Untipo di ceramica ascrivibile all’uno o all’altro di questi gruppi – o a lorofortemente apparentata – è attestata sempre più frequentemente a suddel Danubio, soprattutto nel Peloponneso, ma anche in Tessaglia e nel-la regione del limes. L’attribuzione di tale materiale agli Slavi non è piùdubbia, benché la cronologia resti incerta. La difficoltà deriva non tan-to dal fatto che le popolazioni non slave al momento dell’invasione (indate variabili) hanno cominciato a fabbricare vasellame non tornito,quanto piuttosto dalla constatazione che i gruppi di Praga e di Penkovkanon sono riconducibili a precise tipologie, ma corrispondono a profiliculturali complessi, passibili di sfalsature cronologiche a seconda delle

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regioni. La quantità di materiale disponibile è tuttavia, nella maggioran-za dei casi, ancora troppo scarsa per poter permettere studi di realtà re-gionali specifiche.

Fra il materiale attribuito agli Slavi e occorrente pure in contesti bi-zantini, le fibule digitate e ansate hanno suscitato le più accese contro-versie. L’area di diffusione di queste fibule (tipi I-II Werner e gruppodel Dnepr)26 a nord del Danubio corrisponde effettivamente a quella diterritori d’insediamento slavo, sicché si è potuta interpretare la loro oc-correnza a sud del fiume (si tratta di fibule del tipo I, essendo rappre-sentate le altre da due soli esemplari) come un «indicatore» dell’avan-zata degli invasori. L’origine dei tipi è tuttavia incontestabilmente ger-manica (la quasi totalità degli oggetti di toeletta della civiltà di Praga è,d’altra parte, di origine straniera). Inoltre, le medesime fibule utilizza-te dagli Slavi erano adoperate pure da genti non slave (dai Cutriguri edai Gepidi, per esempio), giacché ne sono state rinvenute all’interno ditombe a inumazione. Infine, se la loro fabbricazione nell’ambito slavoè certa (lo dimostrano i ritrovamenti di stampi a Bernaãevka sul Dne-str, in Ucraina), essa può essere stata praticata altresì in contesto bizan-tino, come è avvenuto per altri oggetti tradizionalmente considerati co-me barbarici (a Cariãin Grad, per esempio, sono state scoperte matriciper la confezione di fibbie di cintura ornate di tamga, insegne di clannomadi).

Ipotesi e direttrici di ricerca. Il quadro che si è descritto può sconcer-tare. Sorprende meno qualora si ammetta che la maggioranza dei primiinsediamenti slavi era situata nelle pianure e nei fondivalle: l’ignoranzapressoché totale da parte nostra circa la presenza di villaggi slavi nell’Il-lirico fino alla seconda metà dell’viii secolo non fa che dare seguito al-l’analoga scarsità di conoscenze intorno all’occupazione delle zone pia-neggianti in epoca romana e protobizantina, ad eccezione delle grandivillae, i soli insediamenti che abbiano lasciato vestigia durevoli.

L’ipotesi concernente l’insediamento slavo nelle pianure – ipotesi dilavoro a nostro parere necessaria – è confortata da una serie di presup-posti. Dal momento che a nord del Danubio gli Slavi abitavano le zonedi bassa altitudine, perché, una volta passati al di là del fiume, avrebbe-ro dovuto mutare il loro stile di vita in assenza di costrizioni? Solevanospostarsi lungo le vie romane, diffondendosi grazie a esse. Lontano daigrandi assi viari, se la nostra interpretazione della moltiplicazione deisiti di media altitudine è esatta, spesso essi non dovevano imbattersi chein terre già coltivate ma prossime, dopo più di un secolo, a inselvatichir-si gradatamente. Tale ambiente naturale conveniva loro perfettamente:

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non avevano motivo di prendere possesso di zone collinari di maggiorealtitudine, dove avrebbero incontrato una forte resistenza. Le vie roma-ne erano certamente utilizzate anche dall’esercito bizantino, che tutta-via badava, nella migliore delle ipotesi, a recare soccorso all’uno o all’al-tro centro urbano minacciato, non avendo alcun interesse ad affronta-re tribù disperse, salvo nei casi in cui fosse stato attaccato direttamente.Sicuramente l’esercito non ha mai tentato una «bonifica» territoriale,non più di quanto le milizie urbane abbiano mai cercato di lanciarsi al-la riconquista di un obiettivo qualsiasi. Le tribù slave non hanno proce-duto al loro insediamento in una situazione pacifica, ma in condizioniche partecipavano della generale insicurezza. Le invasioni slave potreb-bero dunque essere intese come il momento in cui le zone di bassa alti-tudine tornano ancora una volta a essere finalmente occupate e coltiva-te, ma al di fuori del controllo dello Stato.

È all’interno di tale contesto che dovrà essere apprezzata l’occorren-za di oggetti «barbarici» nei siti bizantini, anche laddove la presenza diun abitato slavo non sia per nulla attestata. Gli Slavi non si stabilisco-no mai nelle città, ma spesso si insediano nelle loro immediate vicinan-ze. Dopo i primi contatti ostili, la scarsità dei mezzi militari messi inopera da una parte e dall’altra conduce a una stabilizzazione provviso-ria della situazione, quindi all’istituzione di rapporti commerciali fra inuovi venuti e le popolazioni locali. Gli oggetti di cui si è fatta menzio-ne recherebbero appunto testimonianza di questi modesti scambi. Si èparlato con troppa fretta, a tale proposito, di «costituzione di una cul-tura mista». Sarebbe più opportuno parlare della coesistenza – a parti-re da un momento databile, a seconda dei luoghi, tra la fine del regnodi Giustiniano e gli esordi del regno di Eraclio – di due culture entram-be già miste, giacché la cultura bizantina aveva da molto tempo proce-duto all’assimilazione di parecchi apporti esterni, mentre la stessa cul-tura degli Slavi balcanici era di per sé assai composita [Kazanski 209].

Gli scambi commerciali che le popolazioni bizantine intrecciano congli Slavi provvedono soprattutto a rifornire questi ultimi di prodotti fi-niti (oggetti di toeletta, ma forse anche utensili) in cambio di prodottigrezzi e di derrate alimentari; quando, verso il 676, i Tessalonicesi ten-tano di approvvigionarsi di grano presso i Belegezeti di Tessaglia (Mi-rac. Dem., 2.4), essi non fanno che conformarsi – benché in più largascala e in una situazione di crisi – a usi ormai correnti da quasi un seco-lo. Questo commercio è molto simile a quello che si pratica sul limes.Tutto si svolge un po’ come se la frontiera si fosse estesa all’insieme delterritorio, con due importanti differenze: da un canto, si tratta di scam-bi a breve distanza, legati perlopiù al consumo di beni di prima neces-

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sità; dall’altro, gli scambi dovevano avvenire essenzialmente sotto for-ma di baratto, dal momento che gli Slavi non conoscevano l’uso del de-naro, almeno fino al crollo della potenza bizantina nel suo complesso.

2. L’Illirico nella politica imperiale.

2.1. Fluttuazioni da Giust iniano a Eracl io?

Una svolta importante nella politica di difesa dei Bizantini è segna-ta dal vasto programma di opere di fortificazione lanciato da Giustinia-no e volto a coprire tanto l’area del limes quanto il resto della penisola.Procopio ne ha tramandato un bilancio entusiastico (De Aedificiis, 4),che gli scavi e l’epigrafia corroborano poco per volta27.

Sul limes, l’ampiezza dell’opera compiuta è innegabile. Nell’area del-le Porte di Ferro, la prima parte del regno vede spiegarsi un’intensa at-tività edificatoria in prossimità di quasi tutti i siti esplorati. I vecchicampi ausiliari vengono sistematicamente riattati per consentirvi lo stan-ziamento di un numerus variabile (da 300 a 500 uomini), così come tut-ti i fortilizi e le fortezze intermedie, il cui numero viene egualmente ac-cresciuto di più della metà per mezzo di nuove costruzioni, mentre letorri di vedetta vengono tutte ricostruite sul medesimo schema o inte-grate all’interno di un nuovo fortino.

Nei territori dell’interno, Procopio segnala la fortificazione di alcu-ni siti strategici (Termopili, Istmo di Corinto) e numerosi restauri oedificazioni di nuove mura urbiche. L’elenco non è tuttavia completo(non vi figura, ad esempio, Byllis). Si è sospettato Procopio, al contra-rio, di aver voluto attribuire a Giustiniano realizzazioni anteriori e lascarsità della documentazione epigrafica non consente di distingueretra diretto evergetismo imperiale e altri finanziamenti. Le testimonian-ze archeologiche vengono generalmente a sostegno della veridicità diProcopio per ciò che concerne la cronologia dei lavori, e le iscrizionidell’Istmo di Corinto e di Byllis, in Epiro nuovo, rimarcano l’impor-tanza dell’opera dell’architetto Vittorino, il quale ha «innalzato le for-tezze dei Mesi e degli Sciti, quelle del territorio d’Illiria così come pu-re di tutta la Tracia»: il che sembra effettivamente indicare che Vitto-rino «abbia assunto al servizio di Giustiniano la responsabilità dell’o-pera di fortificazione del complesso delle province balcaniche» [Feis-sel 834]. L’amministrazione centrale, sotto Giustiniano, si applica quin-di pienamente a coordinare gli sforzi volti a munire militarmente l’in-tera regione balcanica.

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La difficoltà maggiore consiste nell’interpretare le liste di origine uf-ficiale che Procopio ha inserito nel libro IV del De Aedificiis: nel testo,che ci è pervenuto con qualche lacuna, egli enumera circa 430 localitàsite in Illirico (sulle poco più di 600 dell’intera penisola) classificandoledapprima per provincia e quindi, per le due Dacie, secondo i centri ur-bani o i «territori» dai quali dipendono, distinguendo ogni volta le for-tificazioni nuove (intorno al 20% del totale) dai restauri. Solo una pic-cola minoranza di tali toponimi è precisamente localizzabile, ma per lamaggior parte si pensa che debbano corrispondere generalmente ai nu-merosi siti fortificati anonimi che continuano a moltiplicarsi nel vi se-colo. Eppure è poco probabile che l’intervento imperiale si sia sostitui-to integralmente alle iniziative locali su siti tanto numerosi e in così bre-ve lasso di tempo. Non si può più sospettare che Procopio abbia attri-buito arbitrariamente a Giustiniano, senza riguardo per la cronologia oper le modalità di finanziamento, tutte le fortificazioni il cui inventariodoveva essere dall’amministrazione costantemente aggiornato, giacchéin tal caso le sue liste si sarebbero presentate molto più lunghe. La ve-rità deve trovarsi senza dubbio a metà fra le due congetture: Giustinia-no dovette incoraggiare la fortificazione dei siti rurali amministrandocon oculatezza gli aiuti statali, al fine di portare a compimento il dispo-sitivo difensivo e di migliorarne la coerenza. Presentando sotto formadi liste tali realizzazioni, di rilievo alquanto variabile, Procopio docu-menterebbe certo lo sforzo difensivo compiuto dal potere centrale sen-za tuttavia permettere di valutarne appieno la vastità.

In ogni caso, la politica di Giustiniano (nonostante la retorica dellarenovatio) non cerca di tornare al passato, bensì di rinforzare e coordi-nare due processi già avviati – da Anastasio sul limes, dai poteri localinell’interno –, in maniera tale da poter stabilire il controllo del territo-rio su nuove basi, in grado di far fronte ai nuovi sistemi di occupazionedel suolo.

La difesa passiva così riorganizzata da Giustiniano rimane in vigoresenza sostanziali modifiche sotto i suoi successori. La sua funzione è du-plice: sorvegliare il limes e alcuni punti strategici; fornire alle popolazio-ni una rete di rifugi molto fitta in Dacia e in Dardania, più rada in Ma-cedonia, Tessaglia ed Epiro. Ciò non serve a impedire le invasioni, male rende più difficoltose: una volta messa al riparo buona parte del po-tenziale bottino, gli invasori dovevano espugnare a una a una le nume-rose fortezze o spingere le loro incursioni sempre più a sud, a rischio diessere sorpresi dall’inverno e di vedere la loro spedizione trasformarsiin una disfatta. Nella misura in cui a tale sistema si affiancano i mezzitradizionali della diplomazia bizantina (pagamento di tributi, corruzio-

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ne di ambasciatori, sfruttamento di ostilità vicendevoli), esso si dimo-stra discretamente efficace, come testimoniano la cronologia delle prin-cipali invasioni (tregua fra il 551 e il 559), la loro direzione (Cutrigurinel 559) e, al tempo stesso, i rari successi diplomatico-militari (riconqui-sta di Sirmio nel 567, vittoria di Tiberio nel 568/569). Si può parlare aragion veduta di un ristabilimento del controllo bizantino sui Balcaninegli anni 540-70 [Whitby 227], ma si tratta di un controllo parziale,imperfetto, arbitrato in base alle smagliature che lacerano la trama del-la popolazione provinciale. Certo Giustiniano non si è rassegnato affat-to alla perdita dei Balcani, ma sembra abbia voluto congelare la situa-zione a prezzo di un minimo investimento di risorse umane, in attesa digiorni migliori.

I contingenti militari effettivi di stanza nei Balcani si rivelano infat-ti costantemente insufficienti: nel momento in cui le guarnigioni per-manenti avrebbero dovuto essere stanziate all’interno delle principalipiazzeforti e quando l’azione della flotta danubiana doveva essere coor-dinata con quella di truppe mobili, molte fortificazioni sono occupatesoltanto da milizie locali – urbane o rurali –, gli eserciti da campagna af-frontano gli invasori soltanto quando vengono minacciate la Tracia eCostantinopoli, mentre lo Stato procede con la consueta regolarità allaleva di truppe destinate all’Italia, quindi all’Oriente. Il degrado della si-tuazione in Illirico dal punto di vista militare non è perciò affatto do-vuto a esitazioni della politica bizantina, ma, al contrario, al fatto che isuccessori di Giustiniano tardano a rivedere la politica di quest’ultimo,a dispetto del dato fondamentalmente nuovo costituito dall’entrata inscena degli Avari. All’inizio del regno di Maurizio l’intero sistema paresull’orlo del collasso, gli insediamenti slavi si evolvono sino a determi-nare una situazione di colonizzazione di massa, mentre gli Avari minac-ciano non solo le città dell’Illirico, ma anche quelle di Tracia e la stessaCostantinopoli.

Maurizio inaugura nel 592 una politica radicalmente nuova. Malgra-do lo scacco subito, deve comunque essere considerata realista e coeren-te. Prevedeva, come sembra, tre fasi successive:

– portare l’offensiva in territorio nemico, facendo passare in secon-do piano la difesa del limes; stroncare le ambizioni degli Avari aldominio militare dei Balcani settentrionali; aiutare gli Slavi di Va-lacchia a scrollarsi di dosso il giogo avaro, obbligandoli nel mede-simo tempo a riconoscere la sovranità bizantina;

– garantire i contatti fra le enclave e le città poste ancora sotto am-ministrazione bizantina e, certamente, ristabilire il limes;

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– costringere infine a una a una le tribù slave già insediate all’inter-no dell’Impero a entrare a far parte dello Stato, vale a dire far lo-ro accettare, in cambio della sicurezza, il pagamento delle tasse, ilservizio militare e la cristianizzazione.

Retrospettivamente, un piano che pare frutto di una smisurata am-bizione. Date la condizioni nelle quali versava la potenza degli Avari(dal 588 sulla difensiva) e l’estrema disarticolazione delle tribù slave,senza dubbio non si trattava di un piano del tutto irrealistico ed è me-rito di M. Whitby l’aver dimostrato che Maurizio giunse assai vicino arealizzarne la prima fase. Né Foca, né Eraclio ebbero in seguito occa-sione di porvi mano per conto proprio.

2.2. Le cause del le var iazioni .

Le variabilità degli sforzi intrapresi dallo Stato nei Balcani non so-no comprensibili che sulla più vasta scala degli interessi generali dell’Im-pero e rivelano l’importanza che il governo centrale accorda all’Illiricoa paragone delle altre regioni. L’importanza della difesa balcanica ottie-ne sempre il secondo posto dopo quella della diocesi d’Oriente: il peri-colo rappresentato dagli altri popoli non viene sottovalutato in relazio-ne alla minaccia sassanide, ma in ragione del livello di prosperità e disolvibilità fiscale incomparabilmente superiori della Siria-Palestina. Fi-no alla conquista araba, sacrificare l’Oriente – anche solo parzialmente– è impensabile. Si comprendono, a questo punto, sia la mancanza d’i-niziativa dimostrata dai Bizantini in Illirico tra il 572 e il 591, sia la par-ziale paralisi successiva al 602.

La politica giustinianea torna d’altra parte a porre l’Illirico in secon-do piano anche dopo il recupero dell’Occidente. Dopo la «pace perpe-tua» conclusa con la Persia nel 532, preliminare indispensabile alla ri-conquista, Giustiniano attua in Illirico una politica strettamente difen-siva non priva di efficacia. Tuttavia, poiché la guerra gotica prosegue,vengono attinte nuove truppe dall’Illirico – senza dubbio, tanto per ra-gioni fiscali quanto per necessità pratica –, fatto che spiega in parte ledifficoltà che seguiranno. Tale linea politica s’interrompe soltanto conMaurizio, il quale opta al contrario per l’adozione di una linea difensi-va in Occidente (creazione degli esarcati) e decide nel 591 che la pacestabilita con la Persia dovrà giovare ai Balcani più che all’Italia. Il dete-rioramento della situazione in Illirico ha finito infatti per mettere in pe-ricolo la Tracia a sud della Stara Planina e direttamente la stessa Co-stantinopoli.

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Questa presa di coscienza tardiva non rimette perciò affatto in discus-sione lo statuto riconosciuto all’Illirico da Teodosio il Grande in poi, va-le a dire quello di posizione difensiva avanzata della capitale. Bisogneràattendere il Medioevo, dopo la perdita dell’Oriente, perché l’Imperogiunga a una lucida considerazione dei due pilastri sui quali ormai essosi regge, da una parte e dall’altra del Bosforo: l’Anatolia e i Balcani.

3. Conseguenze dell’insediamento degli Slavi.

Studiare le conseguenze delle prime invasioni slave ci obblighereb-be a esaminare integralmente la situazione del vii secolo e quindi a su-perare i propositi del quadro cronologico preventivato. Alcuni interro-gativi e osservazioni paiono nondimeno utili.

3.1. La demograf ia e la struttura del popolamento.

L’insediamento degli Slavi ha avuto come primo effetto sicuramen-te quello di aumentare la popolazione, benché si ignori assolutamentein quale proporzione. È opportuno diffidare dall’impiego di metaforetendenti ad avvalorare la convinzione che essi siano venuti a colmare unvuoto demografico, ma soprattutto bisogna guardarsi dal pregiudizio te-nace che li vorrebbe, all’inizio del vii secolo, fortemente maggioritarinelle regioni in cui la loro lingua finirà per imporsi o, viceversa, forte-mente minoritari laddove il greco tornerà a essere la lingua dominante.L’equilibrio futuro sarà la risultante di numerosi fattori, tra i quali al-meno due meritano di essere menzionati:

– le condizioni politico-militari nelle quali si compie la parziale ri-conquista bizantina, che muove dalle posizioni conservate sul fron-te orientale della penisola, a partire dalla fine del vii secolo (dopole spedizioni di Costante II nel 658, di Costantino IV nel 678 e diGiustiniano II nel 687/688, che interessano perlopiù la Tracia);

– le condizioni nelle quali ha luogo più tardi (seconda metà dell’viii

secolo?) la prima ripresa degli scambi: a partire dalle coste in Gre-cia e in Macedonia, favorendo così la diffusione del greco; a parti-re dalla rivitalizzazione dei grandi assi viari più a nord, favorendoquindi la diffusione della lingua slava.

Prima di allora, si può solamente affermare che la presenza slava do-veva essere numericamente non disprezzabile, anzi spesso maggiorita-ria nei territori di pianura.

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Infine, non si dovrà dimenticare che l’avvento degli Slavi non fache complicare una situazione etnica già complessa. Se l’ipotesi prece-dentemente formulata è fondata, in vari siti ha luogo, schematicamen-te, un popolamento a tre livelli, o «piani», in base al quale gli Slavi oc-cupano le pianure, le popolazioni romanizzate le medie altitudini e lepopolazioni che non furono mai completamente romanizzate le zonemontane. I processi di assimilazione e di acculturazione incrociati, ini-ziati alla fine del vi secolo e propiziati dall’eclissi dello Stato, furonoparticolarmente complessi fra le tre popolazioni, non divise da alcunautentico vallo culturale. Tuttavia non si dispone di alcun mezzo perseguirne gli svolgimenti e la pretesa di ricostruirli a ritroso a partire dailoro risultati, che emergono dal vuoto documentario soltanto molto piùtardi, deve essere considerata del tutto vana. È meglio dunque defini-re regionalmente le varie facies culturali su base puramente archeologi-ca, senza voler attribuire loro con fretta eccessiva una precisa designa-zione etnica.

3.2. I l dest ino del le c i ttà e i rapport i socia l i .

Una delle conseguenze più evidenti delle invasioni slave fu un crol-lo della civiltà urbana e, in pratica, la scomparsa della maggior partedelle città. Tale processo fu talora violento (presa della città, deporta-zione della popolazione, incendio e demolizioni non seguiti da rioccu-pazione) e dovuto sovente agli Avari, i quali non potevano rendere si-curo il loro dominio se non riducendo il numero delle città, centri dipotere. Ma molti siti vennero abbandonati senza subire distruzione,ovvero quest’ultima, soltanto parziale, non fu che una conseguenza delloro abbandono. Si verificò perciò spesso una lenta asfissia dei centriurbani, ciò che fa supporre che i rapporti sociali ed economici su scalamicroregionale fossero giunti a un punto tale da non giustificare più l’e-sistenza della città. Raccogliere i dati favorevoli a questa interpretazio-ne dei fatti storici è naturalmente compito più delicato che inventaria-re i siti presso i quali si sia prodotto lo scenario «catastrofico», ma d’in-teresse non minore. Ma la riflessione su questo fenomeno è solo agliesordi…

In ogni caso, si tratti di distruzione o di abbandono, pare proprioche la rada compagine delle élites urbane – ecclesiastiche e militari – ab-bia preso la via della fuga all’ultimo momento o, se si preferisce, che sisia ritirata in buon ordine. Fatto che spiega in gran parte il generale nau-fragio del cristianesimo illirico, il quale facilita a sua volta l’integrazio-ne delle popolazioni «bizantine», sia delle genti che ancora non erano

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state cristianizzate (o che lo erano state solo parzialmente), sia degli Sla-vi rimasti pagani. Le invasioni slave non hanno perciò nulla a che vede-re con la conquista araba dell’Oriente, ma neppure con le invasioni ger-maniche in Rezia e nel Norico, per esempio.

Infine in alcuni casi, apparentemente molto rari, una piccola partedella popolazione urbana sembra essere rimasta sul luogo anche dopo lacaduta o l’abbandono della città. Si sarà trattato di artigiani restii a la-sciare le loro attività? Si può parlare di persistente, quantunque spora-dica, presenza bizantina fino a vii secolo inoltrato? Fenomeni di questotipo potrebbero spiegare certi casi di supposta continuità fra la città tar-doantica e la città medievale (Serdica e Naisso, per esempio).

3.3. Lo sfruttamento del suolo e la produzione.

Lo stanziamento degli Slavi nell’Illirico dovette logicamente signifi-care un aumento globale della quantità di derrate agricole prodotte, dalmomento che il livello tecnologico dei nuovi arrivati non era molto di-verso da quello delle locali popolazioni bizantine e che gli attrezzi da lo-ro utilizzati recarono a lungo l’impronta della tradizione romano-bizan-tina. Il fatto che lo Stato bizantino non abbia fatto nulla per scacciarlideve essere ricondotto alla considerazione che esso aveva ben compre-so il profitto che poteva trarre dalla loro presenza temporanea, sia inse-diandoli sul territorio e sottomettendoli al versamento dell’imposta, siadeportandoli in Asia Minore.

Tuttavia, tale congetturale aumento di produzione non fu seguitoche molto più tardi da una riattivazione degli scambi. Gli indizi più im-mediati sono anzi quelli di un regresso dell’economia: scomparsa dell’u-so della moneta, così come pure delle ceramiche precedentemente dif-fuse su scala regionale. Fino all’inizio della ripresa (sullo scorcio dell’-viii o già nel ix secolo), se pure vi fu aumento della produzione, essadovette servire unicamente a fini di autosostentamento, sollecitando intal modo scambi così modesti, così arcaici e a così breve distanza da farrisultare inutile l’esistenza stessa delle città. Tale dato fondamentaleconcorda bene con quanto si sa dell’assai graduale trasformazione del-l’organizzazione sociale degli Slavi (lenta emergenza delle «sovranità»).Pure, è un dato che si concilia piuttosto male con l’ipotetico carattere«massiccio» dell’invasione.

Siamo dunque ancora molto lontani dal poter proporre un’interpre-tazione più o meno coerente e soddisfacente delle invasioni slave. In as-senza di un rinnovamento di un complesso di testi già messi abbondan-temente a profitto, un reale avanzamento delle nostre conoscenze non

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potrà venire che da un progresso dell’archeologia, attraverso un’operad’inventario paziente e minuziosa, e soprattutto grazie a un’esplorazio-ne non limitata ai soli centri urbani.

1 Accordo del 314 fra Costantino e Licinio, conformemente al quale Licinio cedette l’Illirico alcollega, mantenendo il possesso della Tracia.

2 Le milizie d’Oriente erano state tradotte in Italia da Teodosio al tempo della guerra controEugenio.

3 Seguiamo a questo proposito le conclusioni cui giungono Stein 151; s. mazzarino, Stilicone.La crisi imperiale dopo Teodosio, Roma 1942; é. demougeot, De l’unité à la division de l’em-pire romain 395-410: essai sur le gouvernement impérial, Paris 1951; e Palanque 845. Contra Du-chesne 401.

4 Notitia Dignitatum 109, Or. 3.13.19. La Salutaris sarà stata quindi soppressa come entità am-ministrativa, probabilmente poco più tardi; ancora in 1.135 si attesta tuttavia l’esistenza del-la provincia, posta sotto l’autorità di un praeses.

5f. papazoglu, Makedonski gradovi u rimsko doba, Skopje 1957.

6 Cfr. cap. iv e Pietri 847.7 Cfr. Mirkoviç 844, Velkov 860, Villes 861, Chrysos 427.8 Nel iv secolo sono gli actores della res privata che gestiscono ciascuno un piccolo gruppo di pos-sedimenti. Ma, a cominciare da Valentiniano I, i governatori provinciali sono sempre più spes-so incaricati della riscossione delle imposte sulle tenute imperiali. A partire dalla metà del vsecolo, la res privata subisce un declino a favore delle domus divinae [cfr. cap. iii].

9 Ierocle 107, p. 15, r. 640, 8a (Klima Mestikon) e p. 16, r. 643, 1-2 (Saltos Bouramesios, SaltosIobios). Tali unità gestionali sono poste sullo stesso piano delle poleis.

10 I conductores dovevano provenire in effetti dalla cerchia dei medi proprietari fondiari.11

f. papazoglou (a cura di), Inscriptions de la Mésie supérieure, III/2. Timacum minus et la valléedu Timok, a cura di P. Petroviç, Belgrado 1995, p. 19.

12 Non si hanno per questa regione né testimonianze relative alla presenza di corepiscopi né diborghi rurali innalzati allo statuto di vescovati.

13 Esiste in proposito una differenza sostanziale con la situazione dell’Asia Minore, la quale pre-senta per altri versi tanti punti in comune con i Balcani, e della Tracia (ruolo dei monaci sci-tici; cfr. cap. viii).

14 Altre testimonianze riguardanti il monachesimo illirico, essenzialmente urbano: Diadoco († 468),autore di un manuale di ascetica, è un monaco di Fotice, in Epiro antico; si è già visto in pre-cedenza quale ruolo avessero rivestito i monaci di Dacia e di Dardania al momento della restau-razione del vicariato pontificio negli anni 494-512 (Gelasio, Ep., 8; Simmaco, Ep.,13); un mo-nastero viene menzionato in un’epigrafe rinvenuta presso le terme di Argo [Feissel 96, n. 116];a Beroea è stato conservato l’epitafio della badessa di un convento [Feissel 96, n. 60] e a Tasoun’iscrizione dedicatoria relativa a lavori compiuti presso il cenobio dell’Arcangelo Michele[Feissel 96, n. 255]; il monastero tessalonicese dei Santi Teodoro e Mercurio Stratelati, dettoanche «dei Cocollati» (Koukoulleotai) o «dei Reclusi» (Aproitoi), è noto dalla Vita di san Daviddi Tessalonica.

15 Mirac. Dem., 2.5.287: «[avendo Kuber inteso] il desiderio di questa gente di ritrovare le cittàdei suoi padri…»; 2.5.288: «Essi reclamavano le città dei loro padri, soprattutto quanti fraloro erano ortodossi…»

16 Cfr. anche cap. x.17

j.-m. spieser, La christianisation des sanctuaires païens en Grèce, in u. jantzen (a cura di), NeueForschungen in griechischen Heiligtümern, Tübingen 1976, pp. 309-20.

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18j.-p. sodini, Note sur deux variantes régionales dans les basiliques de Grèce et des Balkans: le tribè-lon et l’emplacement de l’ambon, BCH, 99 (1975), pp. 581-88.

19 Le prospezioni ne hanno rinvenuti a centinaia: in Mesia attorno a âaãak e a Kru‰evac (inedi-ti); in Dacia mediterranea nella regione di Ni‰ e di Cariãin Grad; in Dacia ripuaria nell’inte-ra zona situata tra la Stara Planina e il Danubio (a. g. poulter, Nicopolis ad Istrum: A Roman,late Roman and early Byzantine City. Excavations 1985-1992, London 1995); in Dardania tan-to a nord-ovest, nella regione di Novi Pazar, quanto a sud, intorno a Scupi, in Epiro e in Pre-valitana [Popoviç in 861]; infine in Macedonia orientale (Vinica).

20 Cfr. l’es. di Kraku-lu-Jordan ricordato da i. popoviç, Outils antiques, Belgrade 1988.21 Timacum minus et la vallée du Timok cit., pp. 316-17.22 Sull’aumento della produzione aurea negli anni 360 sgg. si veda Morrisson 594 e il cap. vii.23

j. w. hayes, Late Roman Pottery, London 1972.24

z. vaÏarova, Slawische und slawisch-bulgarische Siedlungen auf dem Territorium Bulgariens vomEnde des vi.-xi. Jahrhundert, Sofia 1965.

25th. völling e t. vida, Das slawische Brandgräberfeld von Olympia, Rahden 2000.

26j. werner, Slawische Bügelfibeln des 7. Jahrhunderts, in g. behrens e j. werner (a cura di), Rei-necke-Festschrift zum 75. Geburtstag von Paul Reinecke am 25. September 1947, Mainz 1950.

27 Cfr. AnTard, 8 (2000).

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jean-pierre sodini

xii. L’Asia Minore

i. lo zoccolo anatolico: il suolo e gli uomini.

1. Definizione geografica: estensione e diversità.

Vasto territorio, più o meno coincidente con quello della Turchiamoderna (782 000 chilometri quadrati), il cui centro si presenta comeuna piattaforma di 1100 m d’altitudine media saliente verso est (Arme-nia: altezza media 2000 m). Tre masse cristalline (massicci della Caria edel Meandro, massiccio nei pressi di Iconio, massiccio del fianco occi-dentale della Cappadocia) sono fra loro collegate da sistemi montuosipiù giovani e marginali, catena pontica a nord e Tauro a sud. Le cimepiù elevate sono costituite da rilievi vulcanici (come l’Ararat, di 5156m, e l’Argeo) che caratterizzano la Frigia, la Cappadocia e il nord dellaGalazia. Tale configurazione orografica ha fatto della regione una riser-va di marmi, mentre i minerali metallici sono particolarmente abbon-danti alla periferia orientale. La natura carsica delle catene minori del-la Licia o della Cilicia ha per di più favorito il perdurare di un’architet-tura regionale basata sull’impiego del calcare, laddove in Cappadocia iltufo vulcanico ha facilitato lo scavo di tombe, di edifici, addirittura dicittà sotterranee. Questa piattaforma è bagnata dal Mediterraneo su duelati, con una estensione verso settentrione (Mar Nero). Le coste, moltofrastagliate, sono propizie alla navigazione di cabotaggio e – segnata-mente in Cilicia – alla pirateria, di cui ancora alla fine del v secolo si odel’eco negli Atti di Tecla [865]. Le valli che delimitano i margini della piat-taforma e i loro ingressi hanno favorito la fondazione di città dotate co-sì di sbocchi verso il mare, che ricevono anche i prodotti provenientidall’intero bacino del Mediterraneo e, per il Mar Nero, dalle steppe del-l’altopiano iranico. Questa sproporzione tra le coste e le valli aperte sulmondo marittimo e l’area centrale della piattaforma spiega la coesisten-za di mondi differenti: urbano e sedentario, da un lato; dall’altro, al difuori delle correnti di scambio, rurale e paesano e, in zone specifiche,nomadico. Un ruolo nel medesimo senso gioca il clima: mediterraneo,con un indice di precipitazioni variabile secondo la latitudine ai limiti

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delle zone costiere, nelle valli e ai margini della piattaforma, è continen-tale e secco nell’entroterra, esaltando l’importanza dei fiumi di più lun-go percorso, come il Tigri e l’Eufrate, e quella dei loro bacini.

2. Diversità di popolamento.

L’ellenizzazione e quindi la romanizzazione hanno prodotto tutta-via una relativa omogeneizzazione tra le popolazioni abitanti il territo-rio. Il greco, lingua veicolata dallo Stato e dalla Chiesa, guadagna ulte-riormente terreno sulle lingue micrasiatiche e semitiche. Si diffonde inol-tre tra le popolazioni periferiche, all’interno delle strette fasce delle zonedi scambio. In ogni caso, la diversità regionale continua ad avvertirsi: ilfabbro cilicio dei Miracula Artemii ha un accento particolare (e uno spe-cifico dialetto), così come la toponomastica della Galazia descritta nel-la Vita di Teodoro di Siceone [864] o quella della Licia rivelata dalla Vi-ta di Nicola di Sion [866] tradiscono lo sfondo galatico in un caso, luvionell’altro. L’idioma celtico in Galazia, il licio, il frigio e l’aramaico nel-le colonie giudaiche di Frigia, il cappadoce, il licaone, per non parlaredell’armeno e dei vari vernacoli semitici, rimangono vivaci nel iv e nelv secolo. Di tutti i particolarismi serbati da queste comunità, oltre allalingua, quello religioso è il più evidente. Alla periferia, gli Isaurici reca-no eloquente testimonianza di tale frammentazione. Essi si oppongono,per esempio, a che i vescovi tenuti ad amministrare il loro territorio ven-gano scelti al di fuori della loro etnia. Né la situazione cambia quandosi tratti di potere locale [Mitchell 877, II, p. 72]. Dalla fine del iv al ter-mine del v secolo, alcune minoranze – esterne al contesto anatolico o inesso integrate –, accolte come liberatrici a motivo delle loro capacità mi-litari, vengono scacciate quando il loro potere sembri divenire troppoesclusivo. I Goti, che avevano fornito cospicui contingenti di ufficiali edi soldati, dopo i fatti di Adrianopoli vengono cacciati da Costantino-poli, come documentato dalla colonna di Teodosio [Stein 151, I, pp.193-95]. Più tardi è la volta degli Isaurici, i quali, cresciuti in potenzasotto Leone, mantengono la loro egemonia sotto Zenone prima di esser-ne privati da Anastasio [Stein 151, I, pp. 358-64, e II, pp. 1-84]. Traquesti due importanti episodi si situa il caso dei Lici. Prefetto del pre-torio d’Oriente sotto Teodosio I dal 388 al 392, il licio Taziano cade indisgrazia. Suo figlio Proculo viene giustiziato ed egli stesso rimandatoin Licia. Una legge proibisce inoltre ai Lici per vari anni gli incarichipubblici. La misura viene tuttavia abrogata: intorno al 450 il nipote diTaziano è prefetto urbano, mentre il suo pronipote è eletto prefetto di

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Caria prima di assurgere al patriziato e di prendere parte nel 464 a unalegazione presso i Vandali [Roueché 102, pp. 63-66]. Pure in Asia Mi-nore l’appartenenza a etnie (o a popolazioni) determinate era dunqueancora fortemente sentita fino al vii secolo [Stein 151, I, p. 212].

ii. l’amministrazione.

1. L’amministrazione centrale e regionale.

L’amministrazione romana dell’Asia Minore1 ha tentato assai prestodi integrare le città e i loro territori – così come pure le regioni poco opunto urbanizzate – all’interno di insiemi maggiormente strutturati, leprovince. Da Vespasiano in poi, nell’Anatolia propriamente detta nonrimangono più stati-clienti. A partire da quell’epoca sino al iii secolo, leprovince vengono rimodellate senza posa, talora in funzione di esigen-ze contraddittorie. L’Armenia pone problemi particolari e Roma esitaper qualche tempo tra annessione e autonomia. Antonino Pio e poi i Se-veri rimaneggiano i confini delle province di Cilicia, di Galazia e delPonto. La provincia d’Asia viene ugualmente modificata e suddivisa at-traverso la creazione di una provincia di Frigia-Caria. Tali riforme am-ministrative vengono sistematizzate da Diocleziano e da Costantino.L’Anatolia fa parte integrante della prefettura del Pretorio d’Oriente.Il territorio è ripartito sostanzialmente in due diocesi: quella d’Asia, asud-ovest, che riunisce le province di Ellesponto, Asia, Lidia, Caria, Iso-le, Licia, Frigia pacatiana e salutare, Panfilia, Pisidia e Licaonia; e quel-la del Ponto, a nord-est, con le province di Bitinia, Onoriade, GalaziaI e II (o salutare), Paflagonia, Elenoponto, Cappadocia I, II e III, Pon-to polemoniaco, Armenia I, II, III e IV [cfr. carta 1, alle pp. 12-13].Inoltre la diocesi asiana è articolata in due gruppi di province, come sot-tolineato dalla Notitia Dignitatum al principio del v secolo. Delle undi-ci province di cui si compone, tre (Asia, Isole, Ellesponto) sono alloradi competenza del proconsole d’Asia, mentre le rimanenti otto dipen-dono dal vicariato d’Asia, che Giovanni di Cappadocia sopprime nel 535[Feissel 348]. Il vicariato del Ponto subisce la medesima sorte, ma verràpiù tardi restaurato da Giustiniano. Le province di Cilicia e di Isauriasono unite alla diocesi d’Oriente, come è logico anche dal punto di vi-sta geografico, e sono fortemente orientate verso Antiochia per quel checoncerne la loro economia, le loro produzioni artistiche e artigianali, la

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loro cultura. Alcune di queste province sono state create molto dopoDiocleziano, generalmente attraverso lo smembramento di province an-teriori. La grande modifica apportata a tale gerarchia deriva dalla crea-zione, nel 536, di un «questore giustinianeo dell’esercito», un illustrisdirettamente subordinato all’imperatore al quale viene affidata la giuri-sdizione civile e militare di un territorio sostanzialmente marittimo com-prendente la Mesia II e la Scizia (separata dalla diocesi di Tracia), la pro-vincia delle Isole e la Caria, così come Cipro. Le ragioni che portaronoalla nascita di tale strano comprensorio sono essenzialmente di naturamilitare e volte innanzitutto a migliorare la difesa basso-danubiana col-legandola amministrativamente alle sue basi marittime arretrate, benfornite di arsenali e di uomini.

2. Le vie di comunicazione terrestri, l’amministrazione e la difesa delterritorio.

Le strade e la difesa del territorio sono interconnesse, giacché la dife-sa del limes dell’Alto Eufrate era stata, in età imperiale romana [French895-96 e 902; Mitchell 877, I, pp. 118-42], la ragione più rilevante permotivare l’allestimento di un’eccellente rete viaria, mantenuta fino al vi

secolo in perfetto stato di percorribilità, anche per ciò che concerne le sueinfrastrutture pesanti, quali i ponti (e segnatamente quello sul Sangario)[Belke 900, pp. 120-21]. Nel De Aedificiis Procopio fa cenno a opere diriparazione stradale in Bitinia e in Frigia. D. French [897, pp. 447-48]ascrive al vi secolo, se non addirittura al vii, il restauro della Via Seba-stea, che congiungeva la Panfilia a Sebastea. Le relazioni con la capita-le rappresentano l’oggetto di tutte le cure dell’amministrazione impe-riale [Lefort 901 e 883]. Quattro grandi arterie con le loro ramificazio-ni attraversavano da ovest a est l’Anatolia. All’estremo settentrione, unastrada conduceva, a partire da Nicomedia (e, più a ovest, da Costanti-nopoli), alla città di Pompeiopoli, quindi a Nicopoli e ai castra di Sata-la; restaurata alla fine del iv secolo (miliario del 367-75), molte delle suetappe sono descritte da Gregorio di Nazianzo e da Giovanni Crisosto-mo [Mitchell 877, II, p. 74]. Le strade da Efeso o da Smirne dirette asud toccavano in successione Apamea, Antiochia di Pisidia, Iconio, Tar-so e Antiochia di Siria. Tra questi due assi stradali, e a loro connesse,due arterie centrali di notevole importanza seguivano entrambe la me-desima direttrice fino ad Ancira, per poi divergere: l’una, più a setten-trione, attraverso Tavion e Sebastea permetteva di raggiungere le guar-nigioni legionarie di Satala o di Melitene; l’altra, più a sud, si riallaccia-

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va all’arteria meridionale all’altezza di Tiana ovvero, passando per Ce-sarea, faceva capo alle piazzeforti legionarie di Zeugma e di Samosatae, più in là, a Edessa. La prima, che i pellegrini percorrevano per recar-si a Gerusalemme, è la grande via che connetteva Costantinopoli alla Si-ria. Essa si sviluppa tra la fine del vi e l’inizio del vii secolo, come atte-stato dalla Vita di Teodoro di Siceone. La madre del santo gestiva una lo-canda che, pur senza costituire di fatto una mansio, doveva tuttaviaessere comunque associata a una tappa ufficiale del percorso. Da tugu-rio malfamato, l’ostello diviene un rinomato luogo di ristoro presso ilquale sostano alti funzionari, componenti della famiglia imperiale (Dom-nitziolos) e un futuro imperatore, Maurizio, così come lo stesso Eraclio.

Il limes romano dell’Alto Eufrate, sorvegliato da guarnigioni moltoimportanti stanziate a Zeugma e a Samosata [Mitford 898], prolungavaverso nord il confine siriano. Delle piazzeforti legionarie di Melitene,Satala [Lightfoot 906; Gregory 904, II] e Trebisonda, la seconda costi-tuisce quella meglio nota. Posta a 1650 m di altitudine, difficilmente ac-cessibile in inverno a causa delle nevi, viene ricostruita in età giustinia-nea, a cui risalgono le mura attuali e le due torri angolari conservate,quella di sud-est e quella di nord-est. Non si è rinvenuta alcuna tracciadel proteichisma di cui fa menzione Procopio. Al centro si levava unachiesa a pilastri cruciformi, forse un martyrion consacrato a sant’Euge-nio, santo militare pontico e cappadoce per eccellenza. Tali fortezze so-no completate da una cerchia di fortini, difese ausiliarie come PagnikÖreni [Harper 905], Dascusa e Sabous (ricostruito sotto Giustiniano)di cui durante la tarda Antichità si provvede alla manutenzione costan-te. Una duplice via rasenta il limes: al di là di esso, l’estensione dei pos-sedimenti bizantini appartenenti alle province di Armenia I e IV, crea-te nel 536 in parte sui territori delle antiche satrapie, costituisce una di-fesa avanzata [Stein 151, II, pp. 289-92 e 470-72].

L’esercito, onnipresente nelle città e nei villaggi, rappresenta tantoun onere quanto una fonte di guadagno. La necessità di fornire alloggioai militari, il loro mantenimento, i reclutamenti forzati ma, al tempostesso, la presenza di bande armate composte di disertori potevano su-scitare attriti con la popolazione locale, creando difficoltà permanenti[Mitchell 877, II, p. 75]. Al contrario, le grandi opere occasionate dailavori di fortificazione, i vettovagliamenti, le spese compiute dai mili-tari di guarnigione stimolano in maniera molteplice la vita economica.Lungo le maggiori vie di comunicazione, il sistema del cursus publicusfunziona in Asia Minore e nel Ponto in modo efficace, nonostante gliabusi cui dà luogo. Tale organizzazione fornisce inoltre agli agricoltoriun importante sbocco per lo smercio dei loro prodotti – ivi compresa,

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in alcuni casi, la fornitura di cavalcature –, offrendo loro anche occasio-ni d’impiego. Nella Storia segreta (30.8-11) [Hendy 592, pp. 294-95 e607; Foss 903, p. 11] Procopio documenta che la soppressione del ser-vizio di posta fra Calcedonia e Dakibyza comportò per la locale popola-zione contadina una grave perdita di guadagno. Allo stesso modo, an-che la Vita di Teodoro di Siceone reca testimonianza dell’impatto econo-mico causato sui centri rurali interessati da tale sviluppo viario.

3. Amministrazione locale: città e villaggi.

Le città sono numerose in Anatolia, soprattutto nella parte a sud-ovest, compresa in gran parte all’interno della diocesi d’Asia. Kodermostra chiaramente2 la densità degli abitati raggruppati nell’area su-doccidentale dell’Anatolia, i cui centri sono spesso località antiche, ce-lebri e legate fra loro all’interno del contesto regionale da una storia ca-ratterizzata da frequenti rivalità (tra Nicea e Nicomedia, tra Smirne edEfeso) e da istituzioni comuni quali il Koinon Asias, che sopravvive an-cora nel iv secolo. Tra le città rivierasche, o poste in prossimità dellecoste, quelle che le fonti letterarie, i monumenti epigrafici e, spesso,gli scavi ci hanno rese meglio note sono Efeso, Smirne, Pergamo, Ni-comedia, Nicea, Iaso, Patara, Perge (che aveva detronizzato Side qua-le capoluogo della Panfilia); nell’entroterra menzioniamo Afrodisia, Ie-rapoli, Sardi, Aizanoi, Sagalasso, Amorio, Ancira, Pessinunte e Cesa-rea. La loro rilevanza è dovuta a parecchi motivi. Efeso rimane un gran-de porto, nonostante il progressivo insabbiamento, così come un’im-portante meta di pellegrinaggio, poiché Artemide è stata sostituita dal-la Vergine e da san Giovanni. Lo stesso può dirsi di Patara. Nicome-dia è a un tempo uno scalo marittimo importante e una tappa ineludi-bile sulla via dell’Oriente. Diocleziano ne fa una capitale, edificando-vi un palazzo imperiale e un circo, delle residenze per sua moglie e suafiglia, ampliando le terme antoniniane e cingendola di nuove mura. Vifa sorgere una zecca e, come già a Sardi e a Cesarea, una fabbrica d’ar-mi. Presto spodestata dal suo rango di capitale in favore di Costanti-nopoli e distrutta nel 358 da un violento terremoto, cui altri farannoseguito nel v secolo (durante i regni di Teodosio II e di Zenone) e nelvi (sotto Giustiniano), continua a essere popolosa e dinamica ancora altempo in cui Teodoro di Siceone la visita, al principio del vii secolo.Altre città, quali Sardi, Afrodisia, divenuta nel 250 capoluogo della Fri-gia-Caria, poi della Caria, sorgono al centro di pianure coltivate. Sar-di, Ancira, dimora estiva degli imperatori alla fine del iv secolo e agli

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esordi del v, Nicea, che ospita nel iv secolo una residenza imperiale, eCesarea sorgono tutte sulle direttrici di grandi assi viari, militarmenteed economicamente importanti.

Quasi tutti tali centri sono stati muniti di cinte murarie (oppure so-no state restaurate cinte preesistenti) nel corso del iii secolo (Nicea, Efe-so, Ancira, Mileto) o del iv (Afrodisia, Sardi, Ierapoli, Perge, Side).Amorio, sviluppatasi tardivamente, non venne cinta di mura, a quel chepare, prima di Zenone. L’Expositio totius mundi [110] celebra a ragionelo schema urbano di Nicea. Ma tutte queste città sono fornite di larghestrade provviste di colonnati e fiancheggiate da botteghe (Sardi, Nico-media, Nicea, Efeso, Cesarea, Limira – strada a colonnati risalente inbase alle iscrizioni rinvenute alla fine del iv secolo [Pulz 899] – e Tiati-ra), spesso dotate di pubblica illuminazione durante la notte (Efeso [Feis-sel 874], Cesarea), abbellite da incroci monumentali decorati da tetra-pili (Nicea, Sardi) o da tetrastili (Arcadianeo di Efeso), ricche di ninfei(Efeso, Ierapoli, Ancira [Foss 911, p. 46]) e di monumenti agli impera-tori (eretti pure in centri come Antiochia di Pisidia [Zuckerman 876])e ai governatori (Efeso, Afrodisia, Ancira, Side, Perge). Le terme con-tinuano a essere restaurate, ricostruite, ridecorate – anche se a Efeso siconstata una progressiva scomparsa delle palestre, legate al declino del-l’istituto dell’efebia – così a Nicomedia, Ancira, Patara, Xanto, Tlos,Ierapoli, Afrodisia, Side, Perge, Amasea, Sebastea Pontica. Il comples-so più pregevole sorge a Sardi, dove il ginnasio, edificato in simmetriarispetto alla sua «corte marmorea» centrale, prospetta una palestra mo-numentale. Le terme che ospita continuano a essere frequentate ed èpossibile che sia stato eletto a sede del buleuterio locale e delle istitu-zioni municipali. I vani sul lato meridionale della palestra vengono tra-sformati – senza dubbio durante il iii secolo – in sinagoga, che pare siarimasta in uso fino all’attacco persiano. Lungo tutto il fianco meridio-nale del ginnasio si aprono, su entrambi i lati della grande arteria a co-lonnati, numerose botteghe appartenenti a ebrei (alle spalle della sina-goga) e a cristiani (settore occidentale). In nessun altro luogo meglio chea Efeso si nota la cura di salvaguardare le facciate antiche e di integrar-le al tessuto urbano dell’epoca. Case sontuose, isolate o a più piani, so-no stipate le une accanto alle altre all’interno della cinta muraria. Gran-di residenze, edificate intorno a un cortile cinto da un peristilio su cuisi aprono gli usci di sale di rappresentanza, sono state scoperte a Sardi,Efeso, Afrodisia, Xanto, Side. Ad Afrodisia una vasta dimora del iv-v

secolo, dai muri decorati di medaglioni recanti ritratti dei grandi saggidel paganesimo e dalle sale ornate di statue, subisce una brutale cristia-nizzazione sotto Giustiniano. Le case a terrazza della via dei Cureti a

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Efeso esibiscono il medesimo lusso, ma secondo una disposizione leg-germente diversa, quantunque vi si rinvengano le medesime corti cinteda peristili e un’analoga gerarchizzazione degli ambienti. Alcune di es-se, tuttavia, sono state abbandonate fin dal iii secolo. Case a due o trepiani si trovano a Cesarea, e teatri vengono ricordati nelle fonti risalen-ti alla fine del iv secolo ad Amasea e a Sebastea nel Ponto; quello di Efe-so viene ricostruito da due proconsoli alla fine del iv secolo. Teatro estadio sono frequentati ad Afrodisia ancora nel vi secolo, come testimo-niano numerose epigrafi onorarie dovute alle fazioni dei Verdi e degliAzzurri [Roueché 102]; lo stesso succede a Efeso, dove nei pressi delteatro e lungo la via dei Cureti sono state incise iscrizioni dagli Azzur-ri, sostenitori di Foca, e dai Verdi, favorevoli a Eraclio. A Telmesso inLicia il locale teatro subisce importanti rimaneggiamenti (fra i quali l’e-rezione di un’imponente tribuna) difficilmente databili, ma assai pros-simi a quelli che vengono svolti ad Afrodisia. Molti di questi luoghi disvago o di queste architetture di rappresentanza, così come gli acque-dotti (a Tralle, Efeso, Nicea, Side) o i granai (ad Andriake), sono dovu-ti alla munificenza degli imperatori, dei governatori delle province e delceto magnatizio urbano, come rivelano tanto le fonti quanto le numero-se iscrizioni di Efeso, di Afrodisia, di Sardi, di Ancira e di altre città.

Gli edifici destinati al culto cristiano sono altrettanto naturalmen-te presenti in questi siti. Ad Afrodisia, la cattedrale viene ricavata daltempio di Afrodite. Ad Ancira, il tempio di Augusto viene trasforma-to allo stesso modo in una chiesa, forse appartenuta a un monastero.Analogamente, il tempio di Didime accoglierà una chiesa all’indomanidella fallita restaurazione pagana promossa da Giuliano. Ad Aizanoiuna prima chiesa (la cattedrale?) viene installata nel tempio di Zeus al-l’epoca della distruzione dell’Artemision [Rheidt 915; TIB, 7.901, p.202]. A Side, l’atrio della chiesa del porto viene eretto all’interno deltemenos di antichi templi gemelli. A Efeso, la chiesa vescovile, consa-crata alla Vergine, è ricavata all’interno di un edificio antico parzial-mente incluso entro il temenos del tempio di Zeus, mentre durante lafase giustinianea dei lavori di costruzione del martyrion di Giovannisulla collina di Ayasoluk si reimpiegano materiali architettonici prove-nienti dal tempio di Artemide. In altri centri, gli edifici sacri si instal-lano all’interno di edifici civili. Ad Aizanoi, una seconda chiesa pren-de possesso del complesso termale (TIB, 7.901, p. 202). Lo stesso av-viene nel caso di una chiesa di Ierapoli. Tuttavia le altre chiese di questacittà, fra cui la cattedrale, sono edifici nuovi. Basiliche urbane com-paiono in gran numero in tutti i siti della regione (Xanto, Iaso, Perge,Antiochia di Pisidia, forse sul luogo stesso della sinagoga in cui pregò

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Paolo3). Bin bir Kilise, in Licaonia, presenta una grandissima quantitàdi chiese, di incerta datazione, che pongono gravi problemi concernen-ti la natura del sito [French 894]. Le chiese vescovili radunano ogni sor-ta di annessi, e in primo luogo la dimora del vescovo. I monasteri pos-sono anche presentare numerose dipendenze edificate a scopo di rico-vero caritativo. Bisogna inoltre includere tra gli edifici ecclesiastici gliospizi per i poveri, gli orfani, i vecchi, che corrispondono a una nuovapreoccupazione introdotta dal cristianesimo. La Vita di Teodoro di Si-ceone presenta il personaggio di un «direttore d’ospizio» (ptochotrophos)a Nicomedia, mentre un’iscrizione menziona un grande ricovero, det-to Geragathis [Foss 903, pp. 12-13]. Ad Ancira, nel v secolo si ha te-stimonianza di una foresteria e di un ospedale [Foss 911, p. 61]. A Efe-so, verso il 430, il futuro vescovo Bassiano fonda uno ptocheion e ospi-ta il vescovo giunto per consacrarlo presso un albergo, gestito senzadubbio dalla Chiesa. Più o meno nello stesso periodo, Firmo di Cesa-rea amministra la Basiliade, un istituto caritativo inaugurato da Basi-lio di Cesarea. Nel vi secolo a Sardi un ostello (xenon) per infermi vie-ne menzionato come luogo di ricovero, in un contesto che non indicacon molta chiarezza chi gestisse tale istituto [Foss 910, p. 116]. Il DeAedificiis [181] fornisce per il vi secolo un copioso catalogo di ospizifondati da Giustiniano in Anatolia. La chiesa di Efeso offre gratuita-mente infermieri, becchini e prefiche agli indigenti.

La classe dei curiali si presenta ancora piuttosto compatta nel iv e nelv secolo. Parecchi indizi tuttavia paiono rivelare che la fuga di questi no-tabili municipali verso le carriere statali comincia alla fine del iii secolo:la carriera di Brioniano Lolliano di Side, il quale si sottrae alle incomben-ze municipali della sua città per inserirsi – per via di matrimonio – all’in-terno di una famiglia di rango senatorio e ottenere così un impiego neipubblici uffici, è esemplare [Carrié 878; Mitchell 877, II, p. 55]. Nel ivsecolo Iperechio, figlio di Massimo, curiale e cittadino tra i più ricchi diAncira, allievo di Libanio, anziché essere soddisfatto del suo eminentestatus locale, compie numerosi passi allo scopo di essere investito di pub-blici incarichi in seno allo Stato, preferendo infine alla sua condizione dicuriale una modesta mansione nell’intendenza militare [Foss 911]. Spes-so i curiali si sono rifugiati nei loro possedimenti per evitare di occupar-si degli affari urbani [Mitchell 877, II, p. 76]. Le responsabilità compor-tate dagli impegni molteplici nei confronti della municipalità vengonoavvertite come oneri, non come onori, benché talora, soprattutto nel ivsecolo, si trovino curiali che si fanno coscienziosamente carico dei lorocompiti: è il caso di due buleuti di Ancira, Albanio e suo zio Achillio, cheverrà portato alla rovina dalle pubbliche incombenze [Foss 911, p. 47].

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Ad Afrodisia, i privati benefattori della città sono più numerosi alla finedel v e all’inizio del vi secolo che non nel periodo immediatamente pre-cedente [Roueché 102, pp. 108-15]. Tra gli impegni che i buleuti non siassumono volentieri, il più penoso consiste nell’esazione delle impostenei villaggi, donde è necessario ricavare somme considerevoli [cfr. cap.17, § v; 864, II, p. 129]. Tuttavia nel vi secolo i curiali sembrano perde-re le loro responsabilità fiscali a vantaggio di «consigli di notabili» che,insieme al vescovo, rivestono un ruolo importante nella gestione delleprovince, segnatamente per quanto concerne l’elezione dei governatori(Nov., 149, del 569) [Laniado 344, pp. 201-52].

I notabili delle città anatoliche appartengono ancora, nel iv e al prin-cipio del v secolo, a una classe che, oltre a grandi ricchezze fondiarie, haricevuto un’educazione retorica, scientifica, filosofica omogenea. I loromaggiori punti di riferimento sono costituiti dai retori o dai filosofi diAtene, di Costantinopoli e di Antiochia [cfr. cap. ix]. Temistio, che hafondato una scuola di retorica nella nuova capitale, desidera essere la gui-da degli imperatori e un certo numero dei suoi discepoli, fra i quali deiGalati, assurgono ad alte cariche statali. Libanio, dopo aver dimorato perqualche tempo a Nicomedia e a Nicea, fu in corrispondenza con l’alta so-cietà di Ancira, città nella quale si riceveva un’autentica formazione re-torica ed esisteva un ricco milieu intellettuale: a quell’epoca, l’Expositiototius mundi rileva il numero di consiglieri, presenti presso le Corti im-periali d’Oriente e d’Occidente, venuti dal Ponto e dalla Paflagonia, dal-la Cappadocia e dalla Galazia. A Sardi è ancora attiva una scuola di re-torica derivata dalla scuola pergamena inaugurata da Edesio. Crisanzio,il fondatore di tale succursale, appartiene all’ambiente senatorio e ha percolleghi Eunapio, Musonio (che fu vicario d’Asia nel 367-68) e il medi-co Oribasio. A Efeso, un discepolo di Edesio di Pergamo, Massimo, èprofessore di Giuliano l’Apostata. Nella seconda metà del v secolo, Ascle-piodoto di Alessandria, dopo gli studi compiuti ad Atene e un viaggio inSiria, si stabilisce verso il 470 ad Afrodisia, ove sposa la sorella di unomonimo che ha offerto alla sua città natale vari edifici (fra cui una tho-los). Lascia la città verso il 484, forse dopo la disfatta dell’usurpatore Il-lo. Alcuni incidenti testimoniano di una tensione esistente tra questo am-biente pagano attivo e una comunità cristiana prossima a divenire ege-mone. Da queste grandi famiglie che ci sono note provengono indiffe-rentemente maestri di retorica o filosofi, uomini politici (buleuti, gover-natori, vicari, prefetti del pretorio e di Costantinopoli), ingegneri (qua-li, nel vi secolo, Antemio di Tralle e Isidoro di Mileto, gli edificatori diSanta Sofia). Da esse escono pure dei vescovi, una volta che si passi allaprofessione della nuova religione come fecero alla seconda metà del iv se-

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colo i padri cappadoci Basilio di Cesarea e Gregorio di Nissa (il cui pro-fessore ad Atene era stato il pagano Imerio, nativo di Prusa).

Il peso dei vescovi posti a capo delle città si fa sentire molto presto inAsia Minore e nel Ponto. La corrispondenza di un Firmo di Cesarea, piùancora di quella di Teodoreto di Cirro, evidenzia i rapporti che legavanoil vescovo agli altri aristocratici della regione. La seconda metà del v se-colo vede accrescersi il loro potere unitamente al forte sviluppo della co-munità cristiana e alla definitiva conversione delle élites locali. Nel vi se-colo, il consolidamento del loro potere politico può fondarsi anche sullalegislazione imperiale, in particolare su quella di Giustiniano e di Giusti-no II: essi si trovano a quel tempo a capo dell’amministrazione finanzia-ria provinciale, partecipano alla nomina e al controllo dei governatori pro-vinciali; acquistano dunque una sorta di doppia legittimità, giacché riman-gono pur sempre i rappresentanti di comunità urbane che tollerano dimalavoglia che siano chiamati in causa per motivi dottrinali [cfr. cap. iv].

Dinanzi a questi notabili, si leva il piccolo mondo dei mestieri e deinegozi. I mestieri, raggruppati in gilde, sono estremamente diversifica-ti in base a chiare designazioni, di cui le centinaia di epitafi rinvenuti aCorico di Cilicia (ma che sono ben lungi dall’essere i soli) ci fornisconoun’idea abbastanza esauriente. Le iscrizioni funerarie testimoniano del-l’importanza dei collegi professionali nell’ambito dell’esazione delle im-poste e delle preoccupazioni dell’autorità imperiale concernenti la ne-cessità di disporre di un corpo sociale organizzato. La dichiarazione pro-nunziata sotto solenne giuramento dagli imprenditori di Sardi nel 459non è indizio di lotte sociali tra padroni e operai, bensì di un impegnocollettivo preso dagli imprenditori al fine di terminare i lavori intrapre-si [Carrié 920].

All’interno dei territori cittadini o compresi entro vasti domini fon-diari sorgono piccoli centri rurali, talora in possesso di grandi proprie-tari (imperatore, città, Chiesa, singoli ottimati locali), talaltra – e piùspesso – liberi. In questo secondo caso, sono governati da oikodespotai(o protoi). Possono trovarsi inoltre sotto la protezione di celebri santua-ri, retti da un clero coadiuvato da attivi corepiscopi (o periodeuti). In Li-caonia, nella Frigia dell’est e in Bitinia, i villaggi sembrano essere statinumerosi e certamente più popolosi di quanto non fossero nelle regionipiù orientali. Gli abitanti sembrano aver attinto un discreto livello diconoscenza della scrittura, così come una buona cultura e una certa fi-ducia in se stessi [Mitchell 877, II, pp. 107-8]. La Vita di Teodoro di Si-ceone mostra l’esistenza di una certa differenziazione sociale in seno almondo rurale, associata talora a una tensione tra i maggiorenti di paesee i semplici agricoltori. Si trovano nei villaggi dei dintorni di Siceone al-

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cuni artigiani coinvolti nell’attività edilizia o nella produzione di uten-sili (fabbri). Ci sono inoltre sia locande sia scuole «primarie». A Strobi-lo, in Bitinia, un epitafio del 585 menziona un certo Alessandro, mer-cante d’abiti originario del chorion di Kadia. Nei possedimenti imperia-li di Cappadocia e del Ponto, il potere dei villaggi è più forte: i pagarchisi vedono riconoscere una certa autorità, mentre a esercitare la giusti-zia è la Chiesa. La Chiesa diventa «la principale fonte di autorità in cam-po sociale» [Mitchell 877, II, p. 72]. Al principio del vii secolo, i gran-di proprietari e la Chiesa dominano nella Vita di Teodoro di Siceone.

Alcuni villaggi potevano svilupparsi fino a occupare una superficieparagonabile a quella di una città, senza peraltro guadagnarne le prero-gative. Giovanni di Efeso scrive a proposito di un paese di Melitene: «iconfini di questo villaggio sono così estesi, ed esso è tanto popolato daaver colmato di nuove frazioni il suo comprensorio» [cit. in Kaplan 552,p. 111]. Vari agglomerati recentemente esplorati, quali Arif in Licia,Osmaniye nei pressi dell’odierna città di Dalaman in Caria o ancoraAlakısla, sempre in Caria, rivelano la loro importanza nelle trasforma-zioni dell’occupazione del suolo. Sono realtà che riconducono a un fe-nomeno di più vaste proporzioni, quello dell’abbandono delle città, di-venute troppo difficili da gestire e le cui caratteristiche d’insediamentonon corrispondono più alle urgenze del momento. Sagalasso, priva diapprovvigionamenti idrici e ormai in rovina, viene abbandonata versol’anno 600 in favore di Aglasun, ricca di acque e meglio difendibile. At-tingono invece lo statuto di nuove città borgate quali Mocisso, sottoGiustiniano, mentre piccole città come Orcisto possono anche decade-re dal loro rango per mutarsi in semplici borghi.

Infine, se l’abitato conglobato domina, l’abitato isolato è ugualmen-te rappresentato. A fianco dei proasteia dei grandi – segnatamente quel-li della Corte imperiale in Bitinia e quelli dei possedimenti aulici di Cap-padocia, in cui un tempo dimorò il giovane Giuliano, quelli della fami-glia di Gregorio di Nazianzo, o ancora quello di Illo ad Akkala (Cilicia)4

– esistono fattorie (monagriai) e masserie isolate, come quelle che sonostate scoperte in Licia, in particolare nella regione di Kyaneai.

iii. il cristianesimo.

La diffusione della nuova religione si attua progressivamente attra-verso la creazione di vescovati suffraganei non soltanto della sede metro-

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politana provinciale, ma anche del capoluogo della diocesi: Efeso per l’A-sia, Cesarea per il Ponto. Costantinopoli, la capitale imperiale, intralciaquesto genere di decentralizzazioni. In occasione del concilio di Calce-donia si riconosce al vescovo della capitale la giurisdizione sulle due dio-cesi (e su quella di Tracia): Efeso e Cesarea non rivestono ormai che unprimato d’onore. Le riforme del vi secolo, attraverso il raggruppamentodelle antiche province o con la creazione di nuove entità amministrati-ve, producono di conseguenza un certo divario tra geografia politica egeografia religiosa nel Ponto, ma non in Asia Minore, che gode di più sal-da stabilità. La creazione del quaestor Iustinianus exercitus non turba me-nomamente l’organizzazione amministrativa ecclesiastica [cfr. cap. iv].

1. La lotta contro il paganesimo.

In Frigia settentrionale, il cristianesimo montanista si propaga allafine del ii secolo nell’alta valle del Tembri. Sul territorio delle città diKotiaeion e Appia i cristiani, se si pone fede alla testimonianza degliepitafi, sono maggioritari dalla fine del iii secolo, e altrettanto nel ter-ritorio di Iconio e di Sinnada. Altri centri della medesima regione, tut-tavia, rimangono pagani. Né Aizanoi né Dorileo hanno rivelato iscrizio-ni cristiane di età precostantiniana. I culti pagani di questa zona dellaFrigia del nord continuano risolutamente a prosperare. Si osserva la me-desima assenza di tracce cristiane sui territori di Ancira, di Galazia, diGermia e di Pessinunte, in cui le iscrizioni cristiane precostantiniane so-no molto rare. La cristianizzazione dell’Anatolia centrale a partire dal-la metà del iii secolo è, a seconda delle località, intensa ma irregolare.

Al principio del iv secolo hanno luogo le ultime persecuzioni; dopo,la vittoria del cristianesimo si delinea con sempre maggiore evidenza. Ilpaganesimo continua tuttavia a essere molto diffuso nelle città e nellecampagne. Ierapoli era ancora largamente pagana verso la metà del ivsecolo (iscrizioni in onore di Dike poste nel teatro della città da FlavioMagno, vicario d’Asia nel 353-54 [Trombley 275, I, pp. 169-70]). Al-trove si mantengono vivaci culti come quello che la Frigia rurale (terri-torio di Laodicea) tributava agli angeli. È questo un culto che trova lar-ga rispondenza all’interno degli ambienti giudaizzanti, interessando ma-nifestamente alcune derivazioni cristiane. Le persecuzioni non sono lasola arma in possesso delle ultime autorità pagane, le quali non esitanoa promettere sgravi fiscali alle città che – come Aricanda in Licia o Col-basa in Pisidia – dichiarino la loro ostilità al cristianesimo. I governato-ri si mostrano anticristiani zelanti, come Eusebio che in Licia condan-

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na alla pena capitale Metodio di Olimpo. I cristiani disertano le città ecercano rifugio nei villaggi.

Malgrado tutto, non pare che la reazione anticristiana di Giulianoabbia riscosso in Anatolia esiti decisivi, quantunque soddisfacesse leaspettative delle élites urbane, che in larga maggioranza professavano ilpaganesimo. L’imperatore tenta di rivitalizzare il culto di Cibele a Pes-sinunte in Galazia salutare, culto in declino, mentre parecchi villaggidella zona rimangono pagani. Il fiasco di Giuliano comporta l’adesionedi quei medesimi villaggi al cristianesimo. Alcune città erano già trop-po cristianizzate per lasciarsi piegare dalle leggi giulianee che ordinava-no la restaurazione del paganesimo: Cesarea viene perfino radiata dalnovero delle città da Giuliano, indispettito di dover prendere atto delfatto che un grande centro urbano si professi così apertamente cristia-no. D’altra parte, la Cappadocia era ben lontana dall’essere interamen-te cristiana. Basilio di Cesarea, zelante vescovo della città verso il 370-379, ammette l’esistenza di pagani – tanto in città quanto nelle campa-gne – all’interno del suo comprensorio episcopale e intrattiene contatticon un decurione pagano, Armazio, il cui figlio si è convertito al cristia-nesimo. La sopravvivenza del paganesimo pare talvolta legata all’origi-ne etnica dei gruppi: lo stesso Basilio di Cesarea menziona tra i paganidelle campagne i Magusei, ai quali si attribuisce un’ascendenza babilo-nese. Essi venerano il fuoco al pari di un dio, chiaro indizio della loroaffinità con lo zoroastrismo [Mitchell 877, II, p. 30].

Verso la fine del iv secolo e l’inizio del v, la legislazione imperialefavorisce una campagna di distruzione dei templi [cfr. cap. ii]. Il proces-so di cristianizzazione si accentua nel v secolo. Tuttavia il culto degliangeli o delle antiche divinità, degradate dalla Chiesa al rango di daimo-nes, continua a essere professato nel centro dell’Anatolia, ove tale per-sistenza si esplica largamente nella forma del culto tributato a san Mi-chele. Analogamente, la presenza di profeti nei culti pagani di Frigiapuò spiegare gli aspetti profetici del montanismo nella regione. Sarà ne-cessario intraprendere grandi campagne di evangelizzazione – nelle qua-li un ruolo considerevole rivestiranno i monaci –, durante il vi secolo,per cercare di ridurre il paganesimo. Giovanni di Efeso si gloria di averprovveduto, nel corso di 35 anni (542-76), a battezzare in Asia, Caria,Lidia e Frigia 70 000 pagani, e a costruire 98 chiese e 12 monasteri. L’at-tività dispiegata da san Nicola di Sion in Licia [866] rivela pure una cri-stianizzazione massiccia dei centri rurali attuata non soltanto con mez-zi violenti (distruzione di santuari pagani) ma anche attraverso opere diallettamento, come pubblici banchetti allestiti in favore di tutti gli abi-tanti del villaggio.

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2. La lotta contro il giudaismo.

Una parte rilevante della comunità ebraica in Anatolia centrale de-rivava probabilmente dai 2000 cleruchi che alla fine del iii secolo a.C.erano stati inviati da Antioco III nelle fortezze di Lidia e di Frigia alloscopo di prevenire eventuali ribellioni. Alcuni di essi furono allora coin-volti nell’opera di rifondazione di Sardi. L’archeologia permette di rin-venirne le tracce grazie alla scoperta, nel pieno centro della città, dellagià citata sinagoga fiancheggiata da botteghe, una buona metà delle qua-li sembra essere proprio appartenuta a ebrei. Altre comunità ebraichesono attestate a Nicomedia e ad Afrodisia. A Laodicea sul Lico, i cano-ni della Chiesa intorno alla metà del iv secolo tentano di porre un fre-no ai troppo stretti contatti tra ebrei e cristiani. In Galazia settentrio-nale vivono altri ebrei che si presume Teodoto di Ancira abbia conver-tito al cristianesimo. Sono state rinvenute iscrizioni, e una menzionenella Vita di Teodoro di Siceone ricorda l’esistenza di ebrei abitanti nelvillaggio di Goeleon (l’odierna Holanta) nel territorio di Germia. LaChiesa non perseguita attivamente questa minoranza, che tuttavia vie-ne fatta oggetto di tentativi di conversione, illustrati nelle Vite dei san-ti. A Sardi, alcuni membri di queste comunità fanno parte della bulè,così come ad Afrodisia [Reynolds 919], ove inoltre, analogamente aquanto avviene a Mileto, vengono riservati posti fissi agli ebrei membridelle fazioni [Roueché 921, n. 180, pp. 220-22]. A Efeso la comunitàebraica doveva essere importante, ma non sono state scoperte al riguar-do che poche testimonianze tardive: forse una sinagoga sorgeva accan-to alla chiesa della Vergine. È verosimile che gli ebrei, allo stesso modoche in altre località dell’Impero, costituissero dei cittadini di secondafascia, particolarmente apprezzati nello svolgimento di determinate at-tività interne al contesto urbano quali quelle di orefici, vetrai, medici,negozianti. Alcuni di essi erano anche agricoltori, come rivela un’allu-sione nella Vita di Teodoro di Siceone. Giovanni d’Efeso, tuttavia, si van-ta di aver trasformato sette sinagoghe in chiese durante la sua campa-gna di cristianizzazione.

3. Le sette e le eresie.

L’Anatolia conosce eresie ben radicate nel territorio, specialmentein Frigia, e partecipa alle più ampie dispute teologiche suscitate dall’a-rianesimo e dal monofisismo [cfr. cap. ii]. Tra le eresie locali, il monta-

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nismo è la più antica. In Frigia le iscrizioni dei montanisti compaionoall’inizio del iii secolo, concentrandosi sullo scorcio del secolo nella re-gione circostante Temenotire. Tale eresia si diffonde nei secoli succes-sivi tanto in Lidia quanto in Galazia. Nel 530 Giustiniano sferra un vio-lento attacco contro il clero montanista, spingendo talora alcuni dei suoimembri al suicidio. Intorno al 550 Giovanni di Efeso distrugge dellechiese montaniste e fa cremare le ossa dei fondatori della setta, già cu-stodite all’interno di un sacello marmoreo e offerte come reliquie allavenerazione dei fedeli5.

I novaziani costituiscono una setta che non garantiva la remissionedei peccati mortali (in particolare per coloro i quali, durante le persecu-zioni, avevano accettato di sacrificare alle divinità pagane). Sono diffu-si in Paflagonia, Frigia, Bitinia e Galazia [Mitchell 877, II, pp. 96-100].Costanzo li affronta in battaglia a Mantineion (nel territorio di Clau-diopoli, oggi Bolu), ove la maggioranza degli eretici cade assieme a ungran numero di imperiali. Si ritrovano dei novaziani pure in Bitinia e inMisia, soprattutto a Cizico. Al tempo di Costantino fondano anche unmonastero a Costantinopoli. La Vita di Autonomo, un vescovo assassi-nato dai pagani per rappresaglia in seguito alla distruzione di un tempioa Soreoi (odierna Tepeköy), sulle sponde meridionali del golfo di Izmit,si svolge in una regione interamente novaziana, il che potrebbe signifi-care che il martire stesso era un novaziano. L’ultimo vescovo novazia-no noto allo storico Socrate (7.46) è un Marcione, trasferitosi da Tibe-riopoli di Frigia a Costantinopoli nel 458. In maniera analoga, anche l’a-rianesimo rappresenta, in Anatolia come nel resto dell’Impero, ungravissimo fattore di divisione nel iv secolo [cfr. cap. ii].

Senza essere la confessione predominante come in Siria o in Egitto,il monofisismo [cfr. cap. ii] è fonte di confusione in Asia e nel Ponto. Ivescovi monofisiti sono decisamente poco numerosi al principio dell’ul-timo quarto del v secolo, essendo presenti solamente nelle due provin-ce di Cappadocia, nelle due Armenie, in Asia, in Caria e nelle due Pan-filie. Esiste pure qualche monastero monofisita, soprattutto nella dio-cesi pontica. Sotto Giustino I (518-27), se vengono eletti alcuni vescovimonofisiti, come Soterico di Cesarea, altri vengono deposti in Cappa-docia, in Armenia I, in Panfilia e in Caria. Nonostante una persistenterepressione sotto Giustiniano, Giacomo Baradeo ordina numerosi sa-cerdoti monofisiti, così come sette nuovi vescovi in Asia Minore (a Efe-so, Smirne, Pergamo, Tralle, Chio, Alabanda e Afrodisia). Ad Afrodi-sia, inoltre, due gerarchie ecclesiastiche parallele – quella monofisita equella calcedoniana – sembrano essersi affiancate dal 542 al 571. Nel571, un editto piuttosto conciliatorio di Giustino II si scontra ancora

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con l’opposizione manifestata da Eliseo di Sardi e da Giovanni di Efe-so, il quale ultimo rimarrà fino alla morte, avvenuta nel 586, ferocemen-te avverso a ogni compromesso con i calcedoniani.

Le dispute hanno un forte impatto sulla popolazione della regione.Basti ricordare i disordini provocati a Efeso durante lo svolgimento deidue concili eponimi. Intere città insorgono in difesa dei loro vescovi mi-nacciati, come Nicomedia in favore di Geronzio, alla fine del iv secolo.

4. L’ascesa del monachesimo6.

Palladio di Ancira, nella sua Storia Lausiaca (del 420 circa), fa men-zione soltanto di qualche monaco residente in Anatolia: Filoromo, cheaveva sfidato Giuliano e donato i suoi averi ai poveri e alle chiese; Ma-gna, alla testa di una comunità di 2000 vergini; o ancora il novazianoEutichiano, un eremita che dimora sulle pendici del monte Olimpo eche introduce una forma di vita monastica a Costantinopoli negli anni340. Questi casi sparuti tuttavia non rivelano affatto il vero volto delmonachesimo anatolico quale si strutturò intorno a Eustazio, vescovodi Sebastea in Armenia dal 335 fino alla sua morte, avvenuta nel 380.Dal 340 egli creò in Armenia, in Paflagonia e nel Ponto comunità obbe-dienti a osservanze estremamente rigide e tali da urtare il clero regola-re, al punto che un sinodo, riunitosi a Gangra sul principio degli anni340, ne denuncia gli eccessi. La famiglia di Basilio di Cesarea, in parti-colare sua sorella Macrina, si iscrive perfettamente nella tipologia mo-nastica eustaziana. La regola basiliana pone le basi del monachesimo ana-tolico. Pare che le comunità sorgessero numerose sul monte Latmo inCaria, a Trebisonda e nel Ponto, intorno a Cizico e ai piedi del monteOlimpo, oltre che nella regione di Nicea, Nicomedia e Calcedonia. LaVita di Teodoro di Siceone rivela l’importanza dei monasteri anche pres-so questa borgata così come nei villaggi dei dintorni. La Cappadocia ègià un centro monastico assai importante nel triangolo compreso fra Ce-sarea e le odierne città di Aksaray e di Ni_de. La regione di Bin Bir Ki-lise mostra ugualmente una forte concentrazione di monasteri o almenodi chiese [Mitchell 877, II, pp. 109-21].

5. Il prestigio spirituale delle mete di pellegrinaggio.

A fianco dei martyria legati alla capitale, come quello di sant’Eufe-mia venerata a Calcedonia, esistono altre mete di pellegrinaggio che at-

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tirano fedeli da tutto il Mediterraneo: il culto dell’apostolo Giovanni edei Sette Dormienti a Efeso, quello di santa Tecla nell’attuale localitàdi Meriamlik in Cilicia, o ancora quello dell’arcangelo Michele a Cho-nai e a Germia. A Ierapoli di Frigia, la tomba dell’apostolo Filippo rap-presenta senza dubbio una speciale attrattiva per la città. Basilio di Ce-sarea descrive l’afflusso di pellegrini diretti al martyrion di Gordio, eret-to fuori le mura di Cesarea, come pure le feste in onore di san Damantee di sant’Eupsichio (Basilio, Hom., 18, PG, 31, 489b-c) [Mitchell 877,II, pp. 67 e 69]. Anche le reliquie custodite nei villaggi attirano i pelle-grini. San Teodoro ottiene lo statuto di città al suo villaggio natale, Eu-caita, grazie alla popolarità del pellegrinaggio compiuto in suo nome.Pharmagoun, in Armenia Minore, è celebre per l’annuale panegiria chevi si celebra. Nei secoli vi e vii, santi quali Nicola di Sion o Teodoro diSiceone attirano le folle al loro passaggio e continueranno a essere fattioggetto di profonda venerazione dopo la loro morte.

Se al prestigio spirituale senza pari rivestito dalla Chiesa si aggiun-gono la sua potenza economica dovuta all’importanza delle sue terre,frutto di donazioni o di transazioni, l’onnipresenza e la varietà dei luo-ghi di culto, il fasto degli apparati (dovizia di marmi, di mosaici mura-li, di argenterie quali può esibire il tesoro di Kumluca in Licia, ad esem-pio [Boyd 753, pp. 5-70]), è evidente che essa nel vi secolo rappresen-ta, nonostante le divisioni al suo interno, il principale potere al di sottodell’imperatore. L’istituzione riveste inoltre un ruolo politico decisivo,poiché nel corso del vi secolo i vescovi sono stati preposti dagli impera-tori a incarichi di gestione e di valorizzazione del territorio.

iv. produzione, demografia e vita economica.

1. Produzione agricola.

I fondi imperiali sono molto importanti in Anatolia: sono situati sul-l’altopiano centrale, fra Ancira e Iconio, in Paflagonia, in Frigia setten-trionale, in Cappadocia. I grandi possedimenti, proprietà di maggioren-ti residenti nelle città, rappresentano anch’essi una porzione non trascu-rabile di territorio agricolo. Un lacunoso registro scoperto a Tralle erisalente agli inizi del iv secolo ci fornisce un’idea della varietà di terre-ni posseduti dai decurioni del medesimo centro urbano. Uno di essi, pro-prietario di 14 fondi – 6 dei quali di estensione limitata (meno di uno

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iugum), 7 di media grandezza (fino a 6 iuga), un altro di 17 iuga e mez-zo, senza frazionamenti –, possiede da solo l’equivalente delle proprietàpiù modeste menzionate nel medesimo documento [Jones 149, p. 784].Questi grandi possedimenti sono gestiti da conductores e da una mano-dopera costituita da fittavoli, coloni7 e schiavi. Nel documento trallia-no, questi ultimi risultano da sette a otto volte meno numerosi dei co-loni. Un caso molto particolare di gestione indiretta ci viene offerto ver-so il 400 dal vasto possedimento, situato nei pressi di Efeso, di proprietàdi un senatore costantinopolitano: esso è gestito dal vescovo della città,Antonino, che viene deposto a causa di gravi prevaricazioni [Foss 908,p. 14]. I beni ecclesiastici sono amministrati come gli altri grandi pos-sedimenti, ma la Chiesa sembra aver avuto difficoltà ad assicurare ren-dimenti ottimali. Questa debolezza spiega in parte il favore in cui, a par-tire dal vi secolo, viene tenuta l’enfiteusi tanto nei grandi domini eccle-siastici quanto nei possedimenti imperiali. È questo un genere dicontratto che apre la strada all’indipendenza economica totale dei fitta-voli benestanti per mezzo del versamento di un modesto canone: si igno-ra, tuttavia, quale diffusione abbia raggiunto in Anatolia. Sussiste infi-ne una piccola proprietà, nelle mani, come si è visto, di una popolazio-ne rurale libera e attiva. Tutte queste varie modalità di gestione di terreniagricoli [Kaplan 552, pp. 135-83] assicurano agli abitanti dell’Anatoliauna produzione sufficiente e, anzi, generalmente eccedente, almeno pa-ri e senza dubbio superiore a quella del ii secolo.

In effetti, una crescita della domanda nasce dal forte sviluppo demo-grafico, che non può essere correttamente valutato ma che va conside-rato come verosimile. È certamente possibile che alcune città, come Per-gamo, abbiano perduto una parte della loro popolazione, ma Efeso, Sar-di (ove viene costruito il quartiere residenziale sulla riva nordoccidentaledel Pattolo) e Afrodisia non mostrano alcun segno di declino. Le cittàdell’Anatolia centrale (Ancira, Amorio) e quelle situate lungo gli assi via-ri diretti al limes e verso la Siria sembrano conoscere nuovi sviluppi. Gliinsediamenti costieri della Caria e della Licia (oltre a quelli fondati su-gli isolotti circostanti) rivelano una crescita senza precedenti. Nelle cam-pagne, i villaggi si moltiplicano e si sviluppano; come si è detto, vengo-no fondati nuovi borghi la cui creazione, prima della seconda metà delvi o anche nel vii secolo, non implica parallelamente l’abbandono di al-tri insediamenti. A tale incremento demografico va aggiunta la presen-za di Costantinopoli alle porte dell’Anatolia, circostanza che non puònon aver stimolato la domanda di provvigioni, anche se le forniture digrano per la città propriamente detta erano incombenza dell’annona egi-ziana. Lo sviluppo demografico segna una battuta di arresto nel 542,

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con l’apparizione della peste che si diffonde largamente anche in Licia(Mira), in Caria (Afrodisia) [Roueché 923, n. 86, pp. 1136-41] e in Ga-lazia. La densità degli insediamenti rurali intorno a Siceone è tuttavianotevolissima al principio del vii secolo: più di venti villaggi nel raggiodi 20 km [Kaplan 552, pp. 127-28].

Le imposte, basate sul livello di qualità dei terreni, distinguono all’in-terno della diocesi d’Asia le terre destinate alla coltivazione degli olivi,quelle piantate a vigneti, l’arativo (destinato alla coltivazione dei cerea-li) e i pascoli. Le vigne e gli olivi fruttano quattro volte di più rispetto aicereali [ Jones 149, pp. 844-45 e 768]. Questi ultimi (grano, orzo, sega-le) costituiscono, insieme all’allevamento, la produzione fondamentaledella pianura anatolica, che beneficia di terreni generalmente fertili, fat-ti salvi la regione di Tuz Gölü e i rilievi più elevati e scoscesi del Tauro,dell’Antitauro e del Ponto. In Bitinia, in Frigia, in Lidia, in Galazia enella provincia d’Asia i raccolti possono essere eccellenti. L’orzo di Ga-lazia è celebre. La Vita di Teodoro di Siceone è ricca di indicazioni con-cernenti la produzione agricola: vi si allude ad aie per la battitura intor-no al villaggio di Sandos, come pure a depositi per il grano e i legumi sec-chi nel monastero di Siceone. L’Expositio totius mundi evoca la ricchezzaagricola della provincia d’Asia, che «produce ogni sorta di buon raccol-to: varietà di vini, olio, riso (oridiam), porpora di qualità e spelta (ali-cam)». Secondo la medesima fonte, l’Ellesponto è un «paese fertile, benfornito di grano, di vino e di olio», la Panfilia è ricca produttrice di oliod’oliva, la Cilicia di vino. La lettera XX di Gregorio di Nissa descrive ivigneti nei pressi di Vanasa (l’odierna Avanos). Di fatto, i contrappesiper frantoio protobizantini rinvenuti in diverse località della Turchia ri-velano una diffusione amplissima dell’olivo, che giunge sino a compren-dere i rilievi della Bitinia, della Frigia e della Pisidia meridionale [Mit-chell 890, pp. 251-52]. Le olive di Tarso erano famose. L’editto di Dio-cleziano sui prezzi menziona pure i fichi di Caria, la Vita di Teodoro diSiceone le mele. La Licia, la Caria, ma anche la Cilicia forniscono il le-gname per i carpentieri e per le costruzioni navali. L’allevamento è pureuna risorsa importante. La Vita di Teodoro di Siceone parla di muli, di be-stiame, di maiali, di pollame, ma non fa mai menzione di capre, che do-vevano peraltro abbondare in Galazia. L’Expositio totius mundi ricorda,da parte sua, i bei cavalli degli allevamenti imperiali. Infine, il gran nu-mero di mulini sulle sponde dei fiumi permette di accelerare la produzio-ne di farina: Orcisto si vanta di possederne parecchi; un’iscrizione rin-venuta a Sardi celebra un «ingegnere» specializzato in questa particola-re branca delle costruzioni meccaniche [Foss 910, pp. 16-18].

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2. La produzione artigianale.

2.1. Miniere e metal lurgia.

L’attività mineraria è conosciuta, tra il iv e il vii secolo, in varie lo-calità ripartite tra l’Ellesponto e la Bitinia, la Frigia, il Ponto, la Pafla-gonia e il Tauro. Nella prima regione si estraggono minerali di rame, zin-co, piombo e argento. La Frigia produce rame, piombo e ferro. La Pa-flagonia fornisce rame, zinco, argento e ferro; il Ponto e il Tauro piomboargentifero, ferro, rame e (soltanto nella regione del Tauro) stagno.

Le miniere alimentano le officine monetarie di argento e di lega dirame (non è attestata la presenza dell’oro presso questi giacimenti), co-sì come le fabbriche d’armi di Nicomedia (armature pesanti per la ca-valleria), di Sardi (scudi e armi da lancio), di Cesarea (armature pesan-ti per la cavalleria), di Irenopoli in Cilicia (lance). Possono essere esisti-te altre fabbriche d’armi altrove? Gli scavi di Amorio hanno dato allaluce recentemente punte di freccia, sezioni centrali di archi e scorie diminerale ferroso. La produzione di oggetti metallici in Anatolia non èassolutamente in dubbio, ma soltanto gli scavi di Sardi [Waldbaum 926;Crawford 927] e di Anemurio [Russell 929] hanno reso di pubblico do-minio, del tutto o in parte, i loro reperti.

2.2. Cave di marmo.

Se il calcare abbonda in certe zone della Frigia, in Licia, Panfilia,Isauria, Cilicia e Licaonia, al punto di poter mantenere la consuetudinedi un’architettura d’aspetto elegante, soltanto i marmi rivestono un’im-portanza economica primaria. Le cave, numerose, sono note per la mag-gior parte già dall’età ellenistica, se non addirittura da epoche più anti-che. L’Impero romano aveva assicurato una diffusione transmediterra-nea alla maggioranza dei marmi micrasiatici, estratti sotto la direzionedel fisco. Questo sfruttamento segna una battuta di arresto nel corsodella seconda metà del iii secolo, ma riprende con ancora maggior lenasotto la Tetrarchia. L’editto di Diocleziano sui prezzi stila una lista del-le cave principali; i testi del vi secolo (Procopio, Paolo Silenziario) de-scrivono le qualità estetiche dei marmi che se ne ricavano. Marmi bian-chi di Proconneso e di Frigia, pavonazzetto di Frigia, marmi bianchi eazzurrognoli di Afrodisia, cipollino rosso di Iaso, africano di Teo, heka-tontalithos o puddinga di Hereke, alabastri vari, graniti di Troade sonoi più esportati, non solamente alla volta di Costantinopoli ma in ogni lo-

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calità dell’Impero, da Ravenna a Cartagine, in Libia come in Egitto,donde in cambio provengono molte pietre di qualità ricercata, i porfidiin particolare [Asgari 879; Monna 880; Sodini in 518, I, pp. 129-45].Ma è disponibile pure ogni varietà di marmi locali, meno cari, che ven-gono utilizzati regionalmente. Il loro impiego in rivestimenti, pavimen-tazioni, elementi architettonici, ma anche nella realizzazione di sarco-fagi [cfr. la lista di sarcofagi imperiali nel De Cerimoniis 167] tradisceun artigianato estremamente attivo e ben organizzato.

2.3. La ceramica.

La conoscenza della produzione ceramica permette di apprezzarnesempre meglio l’impatto economico, in particolare attraverso lo stu-dio della sua diffusione. È possibile notare, all’interno di un contestocommerciale transmediterraneo, la realizzazione di produzioni su lar-ga scala che invadono mercati lontani e che denotano la volontà di fa-re concorrenza a prodotti similari. Il vasellame da tavola prodotto nel-la regione di Focea (Late Roman C o Phocean Red Slip) tra la fine deliv secolo e gli anni 660-80, con un rallentamento verso gli anni 570,sembra legarsi direttamente allo sviluppo di Costantinopoli, ove dal400 rappresentano il genere di stoviglie preferito. Tale produzione sipone direttamente in concorrenza sui mercati orientali, ma anche inOccidente (dove tuttavia dimostra poca capacità di penetrazione), conil vasellame da tavola proveniente dall’attuale Tunisia (African RedSlip), che essa imita, ma a minor costo, essendo di qualità inferiore.Altre terraglie, smaltate, vengono prodotte almeno in parte nella re-gione di Pergamo, altre ancora a Sagalasso o sul litorale del Mar Ne-ro. Grandi quantità di lampade modellate a stampo, prodotte a Efesoe sulla costa occidentale, si diffondono pure nel bacino dell’Egeo e inquello del Mar Nero, facendo anch’esse concorrenza alla produzioneafricana.

A fornire informazioni preziose sugli scambi sono soprattutto le anfo-re, nella misura in cui si sia tuttavia in grado di determinare il loro con-tenuto, la qual cosa non sempre è possibile. La Cilicia con Cipro, Rodie, forse, la Siria settentrionale producono anfore (tipo Carthage Late Ro-man Amphora 1), spesso impeciate, che debbono aver contenuto il vinodi Cilicia menzionato nell’Expositio totius mundi e nel decreto di Abi-do. Nelle vallate dell’Ermo e del Meandro venivano prodotte altre anfo-re (LRA 3), senza dubbio vinarie, monoansate nel iv secolo (tipologiaancora conservata a Sardi nel vi secolo), biansate a partire dal v secolo.Altri oggetti di questo genere, prodotti a Sinope, sono stati rinvenuti e

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identificati in Mesopotamia e a Beirut. Da Samo, infine, vengono espor-tate anfore verso l’Adriatico e l’Italia.

Altre località, come Afrodisia e Ierapoli, hanno mantenuto tradizio-ni di artigianato fittile ininterrotte, ma i loro prodotti ebbero diffusio-ne più limitata. Inoltre, nel corso del vi secolo, le officine ceramiche sisviluppano in numerose città, a Efeso, a Iaso, ad Anemurio.

2.4. I l vetro.

Le fabbriche primarie producono la materia prima sotto forma di lin-gotti ricavati utilizzando natron egiziano (soda) e sabbia pura, prove-niente forse dalla Palestina. In Anatolia dovevano esistere officine se-condarie che provvedevano a foggiare oggetti impiegando i summenzio-nati materiali. È forse il caso di Sardi, dove una bottega ha rivelato piùdi 4000 frammenti di vetro (90% di stoviglie, 10% di lastre). Esistevaforse una vetreria ad Amorio, in cui sono stati rinvenuti lastre, vasella-me e soprattutto braccialetti in grandissima quantità.

2.5. I tessut i .

I grandi centri anatolici sono Tarso, famosa per la finezza dei suoiprodotti, Ierapoli e Laodicea. A Ierapoli, le sorgive termali calde sonoutilizzate anche per la tintura purpurea delle stoffe. Mileto e Nicea for-niscono una porpora meno cara di quella tiria. Tralle è celebre per i suoicuscini. Ma l’industria tessile, in una forma o nell’altra, è estremamen-te diffusa e offre gamme di prodotti assai diversificate e particolarmen-te in conformità alle varie tradizioni regionali. Esistono anche grandistabilimenti controllati dallo Stato a Cesarea e a Cizico. Sotto Giusti-niano viene introdotta nell’Impero la seta, ma la materia prima giungesostanzialmente ancora dalla Cina e transita attraverso l’Impero sassa-nide. Commerciarii bizantini stabiliti sulle sponde dell’Eufrate seguo-no da vicino questo commercio.

2.6. I l cuoio e i pe l lami.

Stando all’Expositio totius mundi, Cesarea di Cappadocia invia in tut-to l’Impero vesti in pelame di capra. Altre pelli, dette di Babilonia, par-ticolarmente morbide, sono utilizzate per la rilegatura di codices o perla fabbricazione di tende, ma anche per le calzature, le cinture e i pet-torali delle corazze. Anche Tralle è rinomata per la produzione dei pel-lami.

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Al termine di questa rassegna, si può ricordare come alcuni mercan-ti in Galazia vendano ancora degli schiavi (Goti) verso il 360, ma il pe-so della schiavitù nell’economia è sensibilmente diminuito rispetto alleepoche precedenti.

v. importazioni e trasporti marittimi.

La maggioranza delle province anatoliche – pur autosufficienti, co-me sottolinea l’Expositio totius mundi – riceve dall’esterno anche unagrande quantità di derrate supplementari. Mancano tuttavia i bilanci re-lativi a siti importanti come Efeso. Per quel che concerne la produzio-ne ceramica, le produzioni locali sono in larghissima misura maggiorita-rie e fungono in qualche modo da sbarramento nei confronti delle im-portazioni dall’Africa settentrionale, dalla Siro-Palestina e dall’Egitto.Le anfore egee (LRA 2) sono attestate, in scarsi quantitativi, nei conte-sti archeologici di Sardi [Rautman 928]. Le rotte marittime che collega-no la Cilicia a Costantinopoli lungo le coste anatoliche rimangono mol-to battute, malgrado il tonnellaggio via via più scarso delle imbarcazio-ni. I carichi naufragati rinvenuti presso Yassı Ada [Bass 931] testimo-niano di questa attività, analogamente ai decreti di Anazarbo e di Abi-do, benché pongano delicati problemi di interpretazione. Il trasportodell’annona da Alessandria alla capitale viene effettuato navigando dicabotaggio lungo le coste della Licia e il restauro dei granai di Andriakedovuto a Taziano, prefetto del pretorio d’Oriente (388-92), sembra inogni caso debba essere messo in rapporto con questo traffico [Grégoire98, n. 120; Foss 889, pp. 24-25]. L’attività commerciale praticata lun-go questa costa ne risulta certamente stimolata.

vi. conclusione.

Il declino della rete urbana e della vita economica causato dalla pe-ste e dalle invasioni, prima persiana – di cui si è forse esagerata la por-tata –, poi quella araba, in un contesto mediterraneo turbato, rimettein discussione la prosperità di una regione ben amministrata, fino ad al-lora provvista di un buon equilibrio demografico ed economico. La cen-

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tralizzazione amministrativa, il potere politico dell’episcopato e dei gran-di proprietari terrieri avevano avuto poco per volta ragione dell’autono-mia finanziaria e amministrativa delle città e della loro gestione da par-te dei curiali. Tale trasformazione da aggregato di città a Stato ideolo-gicamente e amministrativamente molto omogeneo viene frenata in unprimo tempo dalle invasioni e dalla mancata reazione, dopo Eraclio, daparte di Costantinopoli. Per circa un secolo (660-750), il ripiegamentosu regioni che, spesso divise dalla capitale, riscopriranno una certa au-tonomia e la concentrazione di poteri nel quadro dei temi ridaranno nuo-vo vigore a dei poteri locali forti.

1c. nicolet, Rome et la conquête du monde méditerranéen, 2 voll., Paris 2001, II, cap. viii.

2j. koder, The Ecistic and Administrative Structure of Asia Minor after the 6th c. (in greco), inByzantine Asia Minor (6th-12th c.), Athens 1998, pp. 245-65, fig. 6.

3s. mitchell e m. waelkens, Pisidian Antioch. The Site and its Monuments, London 1998 (a pro-posito delle chiese, pp. 201-18).

4d. feissel, Deux grandes familles isauriennes du ve siécle d’après des inscriptions de Cilicie Tra-chée, MiChA, 5 (1999), pp. 9-17.

5 Pietri 246, p. 398; w. tabbernee, Montanist Inscriptions and Testimonia, Epigraphic Sources Il-lustrating the History of Montanism, Macon Ga. 1997.

6 Cfr. cap. viii.7firmus, Ep., 43: il vescovo Firmo chiede a un funzionario di ricondurre alle terre di proprietàdella Chiesa dei coloni che ne erano fuggiti, perché vuole evitare di pagare delle tasse per con-tadini che non lavorano più per lui.

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georges tate

xiii. La Siria-Palestina

La «crisi del iii secolo» nella regione si era tradotta in una serie diavvenimenti drammatici: la peste del 250, l’invasione persiana (297-98)e le persecuzioni dei cristiani. Con la fondazione di Costantinopoli an-che la Siria conosce, come le altre province d’Oriente, i vantaggi e glisvantaggi arrecati dalla vicinanza delle sedi governative, mentre il cri-stianesimo rende gradualmente il loro dinamismo alle lingue e alle cul-ture orientali, soggette da molti secoli all’influenza dell’ellenismo ege-mone.

Dal 330 alla metà del vi secolo, la regione si sviluppa in un contestodi pace quasi ininterrotta con la Persia, conoscendo un incremento de-mografico ed economico che la eleva a un livello di ricchezza mai rag-giunto prima. Dal 540-50, al contrario, dominano le guerre, le catastro-fi naturali, le difficoltà economiche e i dissensi interni.

i. dati costanti: unità e diversità fisiche e antropologiche.

1. Le condizioni naturali.

La Siria è chiaramente divisa dall’Anatolia, a nord, dalle catene del-l’Amano e del Tauro, e dall’Egitto, a sud, dal deserto del Sinai. A esti suoi confini sembrano localizzati sull’Eufrate, ma si situano in realtàal di là del fiume e mutano conformemente alle vicende militari e agliaccordi diplomatici; dopo aver raggiunto il corso superiore del Tigri, illimes è stabilito, verso la metà del iv secolo, lungo il corso del Chabo-ras (©abr). In senso stretto, l’Alta Mesopotamia non appartiene allaSiria, ma si distingue dal resto della Mesopotamia per gli influssi cli-matici che riceve dal Mediterraneo, come la Siria, benché in misura at-tenuata.

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Il rilievo siriano forma una sorta di vasto teatro, di cui Palmira e lasteppa sono il proscenio, mentre il Tauro e i sistemi montuosi che co-steggiano la linea litoranea ne rappresentano i gradini. Tali catene for-mano due file, separate dalla depressione tettonica caratterizzante le val-li dell’Afr¥n, dell’Oronte, della Beqa’a e del Giordano, tra l’Amano anord e le montagne della Galilea a sud, passando per i monti ‘Ansariyye,il Libano e l’Antilibano. Quantunque apparentemente orientata versola steppa e il deserto, la Siria è in realtà totalmente soggetta alle influen-ze climatiche del Mediterraneo. Essa è costituita da tre tipi diversi diregioni: le pianure e le catene costiere, del tutto mediterranee, la Siriainterna, legata tanto al Mediterraneo quanto all’Oriente continentale,e le regioni steppose che si stendono ai suoi margini. Tali divisioni han-no tuttavia contato nella sua storia meno di quanto abbiano significatoalcuni stati di piccole dimensioni, organizzati intorno a città di varia im-portanza, che ne hanno costituito il quadro privilegiato delle alleanze.Considerando l’insieme del territorio, la geomorfologia induce a distin-guere quattro Sirie: la Siria meridionale con l’oasi di Damasco, l’Hau-ran e il Golan; la Palestina e le pianure della Transgiordania; la Siria set-tentrionale, compresa tra il varco di Homs e la dorsale transpalmirenada una parte, il Tauro e l’Eufrate dall’altra; infine la Siria transeufra-tense, vale a dire, di fatto, l’Alta Mesopotamia, l’attuale †ezireh, la cuiaridità è appena temperata da influssi mediterranei.

2. Lingue e identità.

Unità e diversità sono accentuate in Siria dall’appartenenza lingui-stica delle sue popolazioni. Come quelle di Mesopotamia, esse fanno par-te della famiglia semitica, distinguendosene però in forza dell’antichitàe dell’importanza dell’inculturazione greca [cfr. anche cap. iv, pp. 277-278 e 291-93].

L’aramaico nelle sue varie forme è la lingua madre di una grande mag-gioranza della popolazione del paese. Il siriaco, ramo dell’aramaico orien-tale divenuto lingua liturgica cristiana a Edessa, quindi nell’intera Siriadel nord, finisce per prevalere in tutto il territorio siriano. Al suo fian-co sussistono altri dialetti aramaici quali il palmireno, il nabateo, il «si-ro-palestinese», detto pure «cristo-palestinese» o ancora «aramaico mel-chita» (forma dell’aramaico orientale nel meridione siriano, in Palesti-na e in Transgiordania), infine il samaritano. Il dominio dei dialettiaramaici, tuttavia, non ha cancellato affatto le vestigia di lingue più an-tiche come il fenicio, forma regionale del cananeo, né ha impedito l’in-

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Carta 7. La Siria-Palestina.

La Siria-Palestina 405

CILICIA I CILICIA II

SIRIA I

SIRIA II

EUFRATESIA MESOPOTAMIA

OSROENE

FENICIA II

FENICIA I

PALESTINA II

PALESTINA I

ARABIA

PALESTINA III

Anazarbo EdessaNisibi

Cirro

RosoIerapoli

SeleuciaCalcide

Beroea (Aleppo)Barbalisso

SuraCallinico

LaodiceaApamea

AnasartaAndrona

Sergiopoli

Epifania(Hama)

AretusaSalamia Circesio

AradoEmesa(Homs) Palmira

Tripoli

Biblo

Beirut

PorfireonBarcusa Damasco

Tiro

TolemaideFilippopoli

Canata

Emesa(Homs)

Adraha(Hauran)

DionisiaCesarea

Scitopoli

Samaria-Sebaste

Filadelfia

GerusalemmeAscalona

ElusaMampsi

Petra

ZeugmaBatne

Dara

Zenobia

Brad

AntiochiaSan Simeone

Dehes

QalbLoze

Ruweiha

Sergilla TarutiaEmporon

Qasr ibn Wardan

BostraPella

Gadara

Madaba

Gaza

Eboda

AilaIotabe

(golan)

(negev)

(beqa’a)

MARMORTO

Giordano

EufrateC

haboras

Oronte

100 km0

Città

Villaggi o siti

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406 Le province

troduzione di lingue più recenti, quali il safaitico (in Siria meridionalee in Transgiordania) e l’arabo (a Palmira e nelle sue vicinanze, sulla co-sta, nei dintorni di Tripoli e di Tortosa, oltreché a nord del monte Li-bano). L’ebraico non è ormai che la lingua dei sapienti, dei dottori del-la legge e dei rabbini. L’appartenenza della Siria all’area linguistica se-mitica non costituisce perciò che un fattore d’unità relativo. Più che ilretaggio del passato, sono l’evoluzione del siriaco come lingua liturgicae lo sviluppo della Chiesa giacobita che contribuiscono a realizzare l’u-nità linguistica e culturale della Siria, facendone riaffiorare il caratteredi appartenenza alle culture semitiche.

Dopo Alessandro, il greco ha gradualmente acquisito una posizionedominante dovuta al suo ruolo di lingua del governo e dell’amministra-zione, oltreché come vettore di cultura. Ha inoltre contribuito moltopresto a favorire l’inserimento della provincia nell’Impero d’Oriente.La sua diffusione ha raggiunto un’ampiezza considerevole: nel com-prensorio di almeno tre regioni rurali (Massiccio Calcareo, zona basal-tica e Hauran) il novero di iscrizioni redatte in una lingua spesso pococorretta, e perciò realmente parlata, ne attestano la pratica, mentre latoponomastica e l’antroponimica dimostrano che i villici avevano co-me lingua principale il siriaco o un altro dialetto semitico. Per quantofosse stata profonda, la penetrazione del greco non era stata tuttaviain grado di rimettere in causa l’appartenenza della Siria all’area semi-tica.

In realtà, la sua diffusione ineguale ha contribuito ad accentuare ledifferenze regionali. Il greco domina nei contesti urbani, fatti salvi i cen-tri a oriente dell’Eufrate, senza che le lingue semitiche ne siano escluseper questo. La sua preponderanza si afferma a ovest del corso dell’O-ronte, nelle città del litorale fenicio e palestinese. Al di là di quest’area,è ampiamente attestato nelle succitate zone rurali e nella Decapoli tran-sgiordana. A tale predominanza del greco, le lingue semitiche non op-pongono alcuna resistenza organizzata, a parte in Palestina, dove i se-guaci del giudaismo e i Samaritani hanno adottato l’aramaico e conti-nuano a manifestare la loro ostilità nei confronti dell’ellenismo.

Non è facile capire in quale misura le popolazioni di Siria avesserocoscienza di appartenere a una medesima entità siriana e, qualora ne fos-sero consapevoli, di quali contenuti la investissero. L’unica testimonian-za che esprima la coscienza di una identità siriana si rinviene in Liba-nio, nella seconda metà del iv secolo. Nelle orazioni in cui fa l’encomiodella sua patria, Libanio intende dimostrare che la Siria è investita diun ruolo particolare: madre di numerosi retori, essa è una vera officinadelle Muse. La sua grandezza si radica in un passato più remoto di quel-

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lo di Roma, risalente ai re della dinastia seleucide. Egli passa in rasse-gna i benefici che la capitale di Siria, Antiochia, ha ricevuto da Antio-co III. Non sappiamo che cosa pensassero al riguardo i Siriani che nonparlavano il greco, ma nulla rivela l’esistenza di un antagonismo tra i Si-ri ellenizzati e gli altri, almeno nei secoli iv-v.

A tale concezione segnatamente ellenizzante si oppone quella del giu-daismo. Nel diritto rabbinico, la nozione fondamentale non è rappre-sentata dalla Siria, ma dalla Terra d’Israele, che si definisce come il ter-ritorio entro il quale si applicano l’offerta della ®allÇ (la porzione di pa-sta di pane donata ai sacerdoti del Tempio) e la shebi‘¥t (l’anno sabbati-co). Non tutti i territori al di fuori della Terra d’Israele, più o meno cor-rispondente alla Palestina bizantina, condividevano però il medesimostatuto. La Siria (SryÇ), i cui confini sono situati all’altezza dell’Ama-no e dell’Eufrate, è considerata come regione già appartenuta al «gran-de Israele». Allo scopo di rispettare una tradizione che non corrispon-deva alla realtà storica, la Mishnà e il Talmud le riconoscevano alcuniprivilegi: tutto ciò che era permesso agli ebrei in Terra d’Israele eraugualmente consentito in Siria, mentre non tutte le prescrizioni religio-se valide in Terra d’Israele erano tali in Siria.

Anche per i cristiani la Palestina è «Terra Santa» per un duplice mo-tivo: da un lato, perché i cristiani considerano se stessi come Verus Israel;dall’altro, perché Gesù aveva vissuto, predicato e patito la crocifissionein Terra d’Israele; da cui il fiorire di numerosi pellegrinaggi aventi permeta Gerusalemme e altri Luoghi Santi [cfr. cap. viii, pp. 263-68].

La realtà siriana, che si differenzia rispetto alle realtà delle circostan-ti regioni, è dunque oggetto di interpretazioni diverse per quel che con-cerne il suo contenuto e il suo significato, ma fino alla fine del v secolola molteplicità delle sue componenti linguistiche, etniche e religiose nondarà luogo a contrasti di sorta.

3. Il quadro amministrativo.

La regione siriana fa parte della diocesi d’Oriente. Da quando Va-lente ha separato da essa l’Egitto, la Siria ne costituisce la totalità ed ènella sua metropoli, Antiochia, che risiede il comes d’Oriente, vicariodella diocesi, e là si trovano i suoi uffici amministrativi, con un organi-co valutabile intorno ai 600 dipendenti. Ma la sua mansione non è inrealtà così rilevante come potrebbe sembrare, poiché i governatori loca-li rispondono del loro operato direttamente al potere centrale, facendoa meno della sua mediazione. Nel corso del v secolo le diocesi vedono

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declinare il loro ruolo e sotto Giustiniano il titolo di comes d’Oriente siconfonde con quello di governatore della Siria I.

In realtà, in rapporto all’epoca precedente il potere attribuito ai go-vernatori risulta diminuito. Dall’epoca di Costantino, il governatore diAntiochia non ha più il comando delle truppe stanziate nella provincia;con il progredire del cristianesimo, egli viene destituito di ogni compe-tenza in materia di religione, fatti salvi i casi in cui il suo intervento sianecessitato da motivi di mantenimento dell’ordine o di esecuzione dicomandi impartiti dal governo centrale. Tale ridimensionamento dei lo-ro poteri è accentuato dal raddoppiamento del numero delle provincesotto Diocleziano: in Siria, all’inizio del iv secolo si passa a 9 (censitesecondo la lista di Verona), quindi a 11 all’inizio del v.

Antiochia è anche la residenza del magister militum per Orientem, co-sì come la sede del patriarca di Antiochia e di tutto l’Oriente. Tuttavia,il loro ruolo effettivo è meno significativo di quanto la gerarchia ammi-nistrativa possa far sospettare. Il governo imperiale si appella diretta-mente ai duces posti a capo dei vari distretti militari e l’autorità del pa-triarca di Antiochia si scontra con le velleità separatistiche del vescovodi Gerusalemme, che nel concilio di Calcedonia (451) ottiene per la pro-pria sede il titolo patriarcale. Per essere la residenza dei più alti digni-tari civili, militari e religiosi della Siria, Antiochia non svolge tuttaviaper questo funzioni di capitale, dal momento che il potere imperiale sirivolge senza intermediari ai funzionari che ritiene direttamente dipen-denti da sé e che, in molte regioni della Siria, viene contestata la predo-minanza stessa della metropoli. Antiochia è nondimeno la principalecittà di Siria. La sua importanza supera di gran lunga quella di una ca-pitale di provincia per numero di abitanti, ricchezza e prestigio cultura-le. Residenza occasionale, nel corso del iv secolo, di vari imperatori, chevi dimorano per più di dieci anni fra il 337 e il 393, la città è all’epocala seconda capitale dell’Impero d’Oriente.

4. I paesaggi.

4.1. Le c ittà del la Sir ia .

La Siria è una delle regioni più urbanizzate dell’Impero. Antiochiaè, dopo Alessandria, la seconda città dell’Impero nel iv secolo; la terza,quando Costantinopoli diverrà la prima. Le stime relative al numero deisuoi abitanti sono incerte. Nel iv secolo, Libanio e Giovanni Crisosto-mo parlano di 100/150 000 cittadini (con l’esclusione, dunque, di don-

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ne, bambini e schiavi), ovvero di una popolazione nettamente superio-re, da 500 a 800 000 abitanti, il che è difficile a credersi; in ogni caso,si può probabilmente congetturare una cifra di qualche centinaio di mi-gliaia di persone.

Tra le altre città, alcune sono anteriori alla conquista di Alessandroe hanno mantenuto la loro importanza dopo che i Seleucidi, deducen-dovi nuovi coloni e insediandoli in quartieri nuovi edificati a fiancodi quelli antichi, ne hanno mutato i nomi: Beroea-Aleppo, Damasco-Demetriade, Hama-Epifania, ecc. I Seleucidi hanno anche fondato nuo-ve città, costituendo la tetrapoli siriana (Antiochia, Apamea, Laodiceae Seleucia di Pieria). In Palestina, i Lagidi prima e poi i Seleucidi nonhanno lasciato tracce profonde: a parte Scitopoli, non è necessario se-gnalare alcun altro nuovo insediamento urbano. In epoca romana, Ero-de fonda Cesarea di Palestina e ricostruisce Samaria attribuendole il no-me di Sebaste. In Siria, la crescita urbana si manifesta attraverso l’am-pliamento e la trasformazione delle città ellenistiche (ad es. Apamea,Palmira, Gerasa: cfr. infra).

Il periodo protobizantino segna in tutta la regione una nuova tap-pa nel processo di crescita urbana. Tale processo di crescita viene ulte-riormente incrementato dalla creazione e dalla comparsa di nuove città.Sull’Eufrate e ai confini della steppa desertica appaiono nuovi agglo-merati urbani: grazie al pellegrinaggio al sepolcro di san Sergio, unasemplice stazione di posta lungo la Strata Diocletiana diventa la città diSergiopoli; Zenobia viene ingrandita e restaurata sotto Giustiniano;Anasarta, Tarutia Emporon, Salamia, Barcusa diventano città vere eproprie.

La maggior parte delle grandi città, di antica o nuova fondazione, so-no organizzate secondo la medesima concezione urbanistica su piani or-togonali. Essi comportano un’arteria rettilinea nord-sud, ampia e fasto-samente architettata, adibita a funzioni rappresentative e commerciali(così i colonnati di Antiochia o di Apamea), sulla quale si innestano levie secondarie, in un reticolo di linee ortogonali. Ornate di portici, ta-li strade sono fiancheggiate da monumenti pubblici che danno accessodiretto all’agorà. Le principali eccezioni note rispetto a questa tipologiasono Scitopoli e Samaria-Sebaste [Tsafrir 981] e Filadelfia (Decapoli),dove le condizioni topografiche locali hanno imposto un’organizzazio-ne differente ma non il totale abbandono di ogni principio di ortogona-lità. Le città fondate in età bizantina offrono talora varianti a tale mo-dello, con planimetrie in forma di croce che riprendono la pianta dei ca-stra spesso all’origine del loro sviluppo: così Filippopoli, Zenobia e, forse,Sergiopoli e Androna.

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L’edificazione di santuari cristiani e l’emergere di nuove pratichereligiose, ancorché tali da modificare l’aspetto delle città e l’utilizza-zione dello spazio urbano, non apportano sempre mutamenti degni dinota. I nuovi luoghi di culto non trasformano l’ordinamento generaledei centri abitati: ad Apamea, nessuno di questi edifici modifica l’or-ganizzazione primitiva, benché alcuni di essi mutino l’assetto viario.Con il tempo, tali mutamenti vengono convalidati da nuove sistema-zioni. Nel v secolo, la via colonnata continua a essere utilizzata: nel vi

secolo, diviene una strada pedonale e i grandi assi della circolazione se-guono ormai i decumani (est-ovest). La pianta urbana non viene modi-ficata, ma una nuova città sorge direttamente dall’antica [Balty 932 ein 159, I, pp. 79-96].

Tutte le città, compresi i centri palestinesi, sono circondate da unacinta muraria [Sodini 807]. Tali mura urbiche sono particolarmente benconservate ad Antiochia, Apamea, Sergiopoli, Zenobia, Cirro, Dama-sco, Gerasa, Cesarea e Scitopoli. Quantunque alcune di esse risalganoall’età ellenistica, la maggior parte è di epoca romana; più che a scopodifensivo, assolvono a una funzione d’apparato, a parte in Palestina, do-ve Erode le fa erigere per proteggersi da eventuali rivolte. Esse svolgo-no altresì una funzione giuridica, addirittura fiscale, indicando la lineadi demarcazione tra spazio urbano e spazio rurale. Nel vi secolo, allor-ché i rischi d’invasione divengono assolutamente reali, vengono modi-ficate (munite di torri e ridotti, come per es. ad Apamea) al fine di me-glio assicurare la difesa.

In questo paesaggio urbano rinnovato, le chiese rappresentano l’ele-mento più visibile del cambiamento. Il loro aspetto esteriore non richia-ma alcun monumento pubblico noto, benché riproducano piante di edi-fici anteriori. Esse si dividono in due categorie [Lassus 956]. Le une, ditipo basilicale, presentano una pianta allungata in direzione ovest-est;le altre, a pianta quadrata, si suddividono a loro volta in quattro sotto-gruppi: rotonde, poligonali, edifici a croce inscritta e tetraconche a col-laterali. Costruite in pietra e ornate di decorazioni scultoree sempre piùabbondanti e raffinate, le chiese delle città siriane non si distinguonosostanzialmente dalle chiese di altre regioni, ma, più antiche di queste,hanno spesso fornito ai loro architetti i modelli ai quali ispirarsi.

Concepite in base ai medesimi principi costruttivi di quelle delle al-tre regioni dell’Impero, le abitazioni urbane non si differenziano più diquelle edificate in epoca romana. Apamea fornisce al riguardo gli esem-pi più numerosi [Balty in 159, I, pp. 79-96]. La loro pianta quadrango-lare si integra senza difficoltà all’interno delle insulae. Viste dall’ester-no, esse presentano un ingresso tortuoso e muri ciechi, almeno al pian-

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terreno; l’insieme è organizzato intorno a un cortile, dotato di peristi-lio a due livelli, su cui si aprono due o tre ambienti di rappresentanza.Queste case si differenziano da altre abitazioni del Mediterraneo orien-tale per l’ampiezza della superficie sulla quale si sviluppano (tra i 2000e i 4500 metri quadrati ad Apamea).

Nel vi secolo vengono per la prima volta portati seri oltraggi alle pla-nimetrie urbane della regione. Ad Apamea, lungo la via colonnata, deimarciapiedi oltrepassano lo spazio coperto dai portici riducendo la lar-ghezza del piano stradale. Gli stessi portici vengono gradualmente in-vasi dalle bancarelle dei mercanti e sottratti allo spazio pubblico. Nuo-vi sconfinamenti vengono effettuati a favore di chiese e di abitazioniprivate. Fenomeni analoghi si possono osservare a Palmira e a Scitopo-li. È difficile valutare se siano dovuti soltanto a indebolimento delle au-torità cittadine o se piuttosto non esprimano una diversa concezione del-la città.

4.2. I vi l laggi .

La Siria ha il privilegio di aver mantenuto fino a oggi agglomeraticompleti o quasi completi di villaggi dei secoli iv-vi, conservando edifi-ci talvolta di parecchi metri di altezza e, nei dintorni, elementi rilevan-ti della parcellazione. Tali agglomerati forniscono un’immagine fedele,degradata ma non deformata, delle campagne dell’epoca.

Se ne possono identificare tre grandi gruppi: il gruppo settentriona-le, con i villaggi del Massiccio Calcareo e quelli della zona basaltica chesi estende dai confini della steppa dei Jabal Hass e Shbeit sino alla re-gione situata a nord-est di Hama; il gruppo meridionale, con l’Haurane il Golan; e infine, all’estremo sud, il Negev. Altri resti di villaggi so-no disseminati in altre regioni; ne sono state studiate le rovine soltantoin Palestina [Hirschfeld 950].

I villaggi antichi della Siria settentrionale sono scaglionati lungo uncentinaio di chilometri dalla frontiera con la Turchia fino ad Apameasul cosiddetto Massiccio Calcareo (in realtà, una serie di altipiani ondu-lati e percorsi da faglie: i rilievi dei Jabal Sim’an e Halaqa, Barisha, Al-A’la, Zaw¥ye e Doueily-Wastani). Ne sono stati censiti più di settecen-to; fra di essi, una sessantina di agglomerati assai ben conservati risul-tano essere completi e alcuni edifici raggiungono in altezza dai 6 agli 8metri. A nord e a sud sussistono importanti vestigia di parcellazioni cherivelano accatastamenti risalenti all’età romana. Di questo gruppo, duerisultano essere i siti esplorati fino a oggi, Dehes [Sodini 974] e Sergil-la. A est, disposta a semicerchio ai confini della steppa, anche la zona

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basaltica della Siria settentrionale cela resti importanti, oltre ad alcuniagglomerati di dimensioni quasi urbane: Anasarta, Tarutia e Androna.Altri siti sono costituiti da villaggi protobizantini che occupano per lamaggior parte le alture dei Jabal Shbeit, Hass, Al-A’la o piccoli massic-ci, come il Jabal ‘Antar. Ve ne sono tuttavia anche ad altitudini inferio-ri, a contatto con la steppa, come Androna.

Il gruppo meridionale, maggiormente variato, è composto da inse-diamenti di pianura e d’altopiano (quali i villaggi del Golan e della Ba-tanea) o sorti su antiche colate laviche (come in Traconitide), o ancoradisposti sulle pendici di un rilievo vulcanico (come l’attuale Jabal dru-so) o nelle sue immediate vicinanze (l’antico Hauran). Esiste in questaregione un gran numero di siti antichi, benché pochi risultino intera-mente conservati; tuttavia, gli elementi disseminati sul territorio sonocosì numerosi che è stato possibile ricostruirne una mappa [Dentzer 941,Villeneuve 982]. Sul versante orientale alcuni siti, al confine con le re-gioni desertiche, si avvalgono di terreni razionalmente sfruttati graziealla raccolta e alla canalizzazione delle acque torrentizie che durante l’in-verno scorrono a valle dalla montagna. La regione è sottoposta a rico-gnizioni archeologiche fin dal 1975: scavi a Si’a e a Bostra, capoluogoregionale, rilievi e prospezioni (villaggio di Diyateh), ricerche sulle abi-tazioni, sui santuari, la glittica, l’epigrafia e la parcellazione.

Il Negev, i cui rilievi raggiungono altezze superiori ai 600 m, è for-mato da pianure ondulate e da valli fluviali inaridite: riceve meno di 100mm di pioggia all’anno, cui tuttavia le rugiade notturne aggiungono qual-che decina di millimetri. L’insediamento precoce, attestato dall’epocanabatea ma senza dubbio precedente, si intensifica tra i secoli iv-vi, nelperiodo in cui la piovosità pare aumentare. Esso è favorito dalla sua po-sizione, al centro delle vie carovaniere che collegano l’Arabia e il golfodi Aqaba al Mediterraneo e all’Egitto, e dalle opere idrauliche finaliz-zate a propiziare le attività agricole: muriccioli edificati sui declivi trat-tengono le acque piovane, garantendone il deflusso verso il fondovalle,sui terreni coltivati. In questa regione, le tipologie abitative vanno dal-la semplice fattoria a piccoli agglomerati di più edifici rurali, a veri epropri villaggi di maggiore densità, alcuni fra i quali, come Oboda, si ri-velano molto estesi (8,4 ettari); l’unica vera città nella zona è Elusa.

Per il resto della Palestina, Hirschfeld [950] ha fornito una sintesiche prende in esame insediamenti situati in sei diverse regioni, non pe-riferiche e tutte caratterizzate da condizioni propizie alle attività agri-cole: il Golan, la Galilea, il monte Carmelo, la pianura costiera, la Sa-maria e la Giudea [Dauphin 940].

I villaggi possono essere «chiusi» su se stessi, e formare così un tes-

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suto strettamente coeso, o «aperti», organizzati entro un contesto abi-tativo a maglie più larghe. A differenza delle città, i villaggi non espri-mono alcuna deliberata organizzazione dello spazio. L’improvvisazionee l’individualismo presiedono alla disposizione delle diverse costruzio-ni separate da passaggi, che si allungano stretti tra i muri ciechi delle ca-se dalle porte ermeticamente chiuse e terminano in vicoli ciechi o, alcontrario, vanno a sboccare in spazi vaghi e informi. Gli edifici pubbli-ci, in maggioranza luoghi di culto, si trovano tanto al centro quanto aimargini degli agglomerati. L’unica regola osservata riguarda l’ubicazio-ne delle tombe, sempre situate a qualche distanza dalle abitazioni, sen-za perciò essere raggruppate in sepolcreti, sebbene con la crescita delvillaggio finiscano per ritrovarsi all’interno dello spazio abitato.

In tutta la Siria, le case rurali sono costituite da tre elementi basila-ri: edificio principale, cortile interno e muro di cinta, cui si aggiungonotalora altri edifici, destinati ad abitazione o finalizzati a necessità agri-cole, un ambiente sotterraneo adibito a frantoio, a ricovero per le greg-gi o a magazzino, un oleificio, un ingresso monumentale a due piani, ecc.Le differenze regionali osservate sono da mettere in relazione con la na-tura dei materiali di costruzione impiegati o delle colture praticate.

Nella zona del Massiccio Calcareo, gli ambienti a due piani risulta-no sovrapposti esattamente, così come le porte, che danno tutte sullacorte interna. I tetti a doppio spiovente sono ricoperti di tegole. Gli edi-fici sono generalmente preceduti da portici disposti ugualmente su duelivelli e riparati da una tettoia in tegole che continua la copertura del-l’edificio: si tratta di soluzioni architettoniche destinate a proteggeretanto dal freddo invernale quanto dalla calura estiva, oltre a riparare lescale e a permettere di passare da un ambiente all’altro, poiché di radoessi sono direttamente comunicanti fra loro per mezzo di porte. Il pian-terreno viene utilizzato come deposito agricolo e come ricovero per ilbestiame, mentre il piano superiore viene destinato a scopo abitativo.Nel meridione siriano, le case sono organizzate allo stesso modo, ma so-no costruite in basalto, non in calcare. La tecnica di costruzione associal’arco e la copertura in lastre di pietra: moltiplicando il numero di archi,si ottengono ambienti di profondità limitata ma di ampiezza spesso con-siderevole. Nelle case dell’Hauran lo spazio al pianterreno è sovente di-viso in due, con una sezione anteriore corrispondente all’incirca ai dueterzi della superficie e una sezione posteriore chiusa da una serie di man-giatoie disposte tra pilastri, utilizzata come ovile o come stalla, e forni-ta posteriormente di due ammezzati, un pianterreno e un piano lastri-cato. Nella zona basaltica settentrionale le case sono concepite secondoil medesimo principio di quelle del Massiccio Calcareo, con le tecniche

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in uso nell’Hauran; tuttavia non vi si rinviene la stessa tipologia di ri-partizione dell’ambiente al pianterreno che caratterizza questa regione.È possibile, ma non è provato, che le parti sopraelevate siano state co-struite in terra. Nel Negev1 il villaggio di Mezad Yeroham, ad esempio,è costituito da edifici fabbricati intorno a una corte centrale e compo-sti di varie unità abitative – da una a tre – ciascuna dotata di due am-bienti, la cui ripartizione funzionale non è nota. Le case dei villaggi delNegev, per il fatto di essere organizzate intorno a uno o più cortili cen-trali, ricordano in realtà le abitazioni rurali della Siria, non differenzian-dosene che per la loro varietà, la complessità e la costante presenza dilocali scantinati.

L’esistenza di torri, tanto nei villaggi del settentrione quanto in quel-li del meridione, ha sollevato un lungo dibattito. Per Tchalenko, si trat-terebbe di torri di vedetta; secondo altri2, sarebbero state costruite perospitarvi dei reclusi. Di fatto, le torri non hanno tutte la medesima fun-zione, né una funzione unica. In Palestina, Hirschfeld [950] ha scoper-to un particolare tipo di casa dotata di torre, posta talora al centro del-la corte, talaltra unita a una delle ali del corpo di fabbrica. Costruzionimassicce, fornite di mura di almeno un metro di spessore, circondate dauna scarpa in muratura alta non meno di un metro, sarebbero secondoalcuni le abitazioni di villici-soldati, i limitanei ricordati dalla letteratu-ra, ma nulla permette al momento di confermare tale ipotesi.

La presenza di bagni rurali, verificata in seguito ad alcuni eccezio-nali rinvenimenti, è attestata nella regione del Massiccio Calcareo cosìcome a Sergilla [Charpentier 939] e in Palestina [Hirschfeld 950]. Dimodeste dimensioni, fungono pure da luoghi di riunione; funzionanograzie a un sistema di ipocausti, secondo la tradizione romana, benchéalcuni di essi mostrino segni di un’evoluzione che porterà allo hammamarabo.

Nel iv secolo i villaggi possono ospitare al loro interno anche santua-ri pagani, ma soprattutto – a partire dal 350, e sempre più frequente-mente – chiese e, in certe regioni della Palestina, sinagoghe. Nei secoliv e vi vengono edificati grandi conventi quali Turman¥n e Qasr-al-BanÇt,nell’Antiochene.

Lo sviluppo del monachesimo in ambito siro-palestinese [cfr. cap.viii] dà luogo alla creazione di numerosi cenobi nei villaggi e nello spa-zio interstiziale, così come alla colonizzazione di territori liberi, deser-tici o meno. Nel settentrione siriano, i conventi si moltiplicano a suddel Jabal Barisha, dove i villaggi erano meno numerosi, e ai confini del-la steppa occupano anche postazioni militari abbandonate. In Palestina,e più specificamente in Giudea, il movimento si manifesta nella forma

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più pura. Fondando tre laure all’ingresso del deserto di Giudea nel ivsecolo, san Caritone inaugura un poderoso processo di colonizzazionemonastica delle terre desertiche che culminerà nel v e nel vi secolo, consant’Eutimio e san Saba. Nel iv secolo, il deserto è diventato la «cittàdei monaci» [cfr. carta 4, p. 267].

4.3. I paesaggi agrar i .

I paesaggi agrari sono caratterizzati dovunque dalla predominanzadi agglomerati abitativi a dispersione intercalare.

I villaggi (komai), dai più grandi (komai megalai o megistai, fino a 10ettari di superficie) alle più semplici borgate, composte da non più di qual-che casa, coesistono con masserie isolate (epoikiai, ktemata o choria). Ta-lora, col tempo, tali masserie isolate si trasformano in piccoli borghi, quin-di in villaggi, forma stabile e quasi normale dell’abitato rurale. Le distan-ze fra di esse variano in ragione della densità demografica. I villaggirestano nondimeno la principale forma di occupazione del suolo.

I limiti delle circoscrizioni, indicati dai numerosi cippi rinvenuti, ri-salgono al censimento che preluse alla riforma fiscale dioclezianea, men-zionata da Lattanzio. È peraltro ravvisabile pure l’organizzazione orto-gonale della parcellazione in parecchie regioni, a nord di Aleppo, nei Ja-bal Sim’an e Zaw¥ye, nelle zone di Hama, di Homs e nei dintorni diBostra. Al di là di tale scacchiera di strade costruite a fini militari, quae là in pietra, altrove in terra battuta, si potevano percorrere anche viesecondarie dal tracciato sinuoso: ne esistono ancora alcune in Siria set-tentrionale, fiancheggiate da muretti di pietre e larghe circa 2 metri.

Per quanto concerne lo sfruttamento agricolo del territorio, bisognadistinguere due tipi di regioni. Nelle une (valli litoranee, montagne e,nell’entroterra, la zona del Massiccio Calcareo), in cui prevaleva l’agri-coltura secca, non si riscontra alcun genere di installazione specifica aldi fuori delle reti di muretti delimitanti le parcelle territoriali e impie-gati come muri di sostegno e delle cisterne scavate nella roccia, in cuil’acqua piovana veniva immagazzinata durante l’inverno per poter ser-vire durante l’estate al fabbisogno di uomini e animali. In altre regio-ni, dove l’acqua scarseggia, si hanno sistemi d’irrigazione spesso eredi-tati dall’età romana, ovvero risalenti a epoche anteriori, consistenti pri-ma di tutto in un reticolo di canali che prelevano direttamente da corsid’acqua naturali. Estesi territori della valle dell’Oronte sono stati sot-toposti a questo genere di interventi allo scopo di favorire l’agricoltu-ra e, in parte, l’arboricoltura. Nella regione di Emesa, di Aretusa e diEpifania, la messa in opera di tali canalizzazioni è connessa alla costru-

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zione della diga di Emesa, a monte della città. Non si ha nessun indi-zio su quanto si trovava a valle; si sa solamente che l’Oronte era statoreso navigabile da Seleucia di Pieria ad Apamea, ma si ignora in qualemodo. Più a est, Lauffray e Van Liere [957, pp. 51-63] hanno provatoche lungo il corso del Balissos (l’attuale Balikh) e del Chaboras (oggi©abr) erano state costruite piccole chiuse a scopo d’irrigazione e chetale dispositivo era ancora in funzione nel vi secolo. Le condizioni diquesti affluenti della sponda sinistra dell’Eufrate potrebbero anche es-sere state più propizie di quelle offerte dalla valle dell’Eufrate medesi-mo. Un altro genere di installazione permette di trasportare l’acqua fi-no al livello di canali utilizzati per l’approvvigionamento idrico degliorti. L’uso di shadf, funzionanti grazie a viti di Archimede, è docu-mentato sull’Eufrate. Le prime raffigurazioni di norie fanno la lorocomparsa in mosaici del v secolo, ma il loro impiego può forse risalirea epoche precedenti.

Nelle regioni aride o semiaride venivano utilizzati altri sistemi: nel-la steppa situata a settentrione della linea Emesa-Salamia sono stati rin-venuti numerosi qanÇt, che danno vita a oasi artificiali. Mouterde e Poi-debard [964] ne hanno individuato parecchi reticoli nel corso di ricogni-zioni aeree, estesi talora molto a oriente, fin nelle regioni di Qdem e diAmsareddi. Non v’è ancora certezza circa la loro datazione: sarebberorisalenti all’età romana, secondo i due studiosi; ma l’epoca bizantina de-ve certamente essere stata caratterizzata da numerosi scavi del genere:quelli di Androna non possono essere anteriori allo sviluppo dell’agglo-merato che l’epigrafia e l’archeologia datano al v e al vi secolo. Nel Ne-gev è attestata l’esistenza di installazioni di un tipo particolare: un si-stema di muretti edificati obliquamente sui versanti delle vallate, gra-zie ai quali le acque atmosferiche vengono convogliate durante le radema violente piogge lungo i declivi fino a cisterne posizionate nei fondi-valle.

ii. economia e società.

In Siria-Palestina, nonostante la schiacciante predominanza dellecampagne, situazione d’altra parte comune anche al resto dell’Impero,sono nondimeno i centri urbani a detenere una posizione di suprema-zia. Il loro reticolo copre la quasi totalità del territorio: le città sono icentri del potere. Vi si accumulano i contributi dell’imposta pubblica e

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della rendita fondiaria, così come i profitti della mercatura; rappresen-tano i luoghi di esercizio di ogni attività commerciale e sono centri diproduzione artigianale; in breve, sono le città ad animare l’economia.

1. Le città.

1.1. La rete del le c i ttà e le sue sperequazioni .

In testa sono le metropoli, la cui rilevanza e le cui influenze oltrepas-sano di gran lunga il contesto siriano locale; prima fra tutte, Antiochiae il suo porto, Seleucia di Pieria, al quale provvide Costanzo II. «Cittàsplendida che si distingue per i suoi edifici pubblici e per il gran nume-ro di genti venute da ogni dove, essa sovviene alle necessità di tutti: es-sa dispone in abbondanza di ogni bene» [Expositio totius mundi 110];«nessuna tra le città saprebbe tenerle testa per la gran copia delle suericchezze naturali» (Ammiano Marcellino). La sua importanza non è sol-tanto politica, ma è dovuta in gran parte all’entità della sua popolazio-ne, al numero dei grandi proprietari fondiari che vi risiedono, al suo ruo-lo nel commercio globale e negli scambi interregionali come anche ai suoinumerosi artigiani. Sul mosaico di Yakto, composto nel 460 [Liebe-schuetz 958], sono effigiati tutti i mestieri: pescivendoli, mercanti d’o-lio, macellai, operai edili, vasai, artisti, locandieri, ecc. C’è infine unmercato internazionale percorso dalle grandi vie carovaniere che giun-gono dall’Eufrate e che gioca un ruolo importante nel commercio dellederrate alimentari.

Di dimensioni più modeste, Gerusalemme era meta di un pellegri-naggio regolare da parte degli ebrei, ma dopo la disfatta subita in occa-sione della seconda rivolta giudaica (132-35) venne loro vietato di di-morarvi, eccetto una volta all’anno. Costantemente mantenuto nel cor-so dell’intera epoca bizantina, il divieto viene continuamente trasgredi-to, ma la città cessa comunque di essere occupata da una maggioranzadi popolazione giudaica per divenire, in compenso, la Città Santa deicristiani. Il pellegrinaggio di Elena, la scoperta del Santo Sepolcro e del-la Vera Croce che le si attribuiscono, le chiese fatte edificare da Costan-tino finiscono per trasformarla in una capitale cristiana. Quantunque lacristianizzazione della Palestina sia stata condotta meno energicamenteche in altre province della Siria, Gerusalemme è la grande metropoli cri-stiana dell’Oriente, elevata al rango di patriarcato nel 451. Lo sviluppodel monachesimo nella stessa Gerusalemme e in Giudea ne fa il centrodel movimento di pellegrinaggio più importante del mondo romano, fre-

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quentato da ricchi pellegrini che senza badare a spese si prodigano in of-ferte destinate ad ampliare o decorare conventi, chiese od ospizi [cfr.cap. viii, pp. 264-65].

Vengono quindi le città d’importanza sovraregionale: da un lato dellitorale Tiro e Cesarea, Apamea nell’entroterra e forse anche Laodicea,Beirut (Berito), Ascalona e Gaza sulla costa. Tiro è «votata con ardorea ogni genere di commercio», e «non esiste in tutto l’Oriente una cittàche possieda una popolazione tanto numerosa: vi risiedono uomini d’af-fari ricchi e straordinariamente abili» (Expositio totius mundi). La ma-gnificenza del suo porto [Poidebard 964] e la facilità delle relazione cheessa intrattiene con l’entroterra, in particolare con Bostra e, al di là, conlo Hi_iaz, spiegano l’importanza delle sue attività commerciali. Gli sca-vi condotti da M. Chehab danno conto dell’importanza e della densitàdella città. Le iscrizioni della necropoli3 forniscono informazioni circa imestieri e le professioni ivi esercitati: chierici e funzionari militari o fi-nanziari, ma anche artigiani operanti nel campo dell’edilizia, della me-tallurgia, dell’industria tessile (filatura e tintura della seta, ricami), ali-mentare (mercanti di grano, panificatori, vinai o mercanti di garum),banchieri e cambiatori di denaro, vetrai. Un quinto delle professioni do-cumentate ha attinenze con la porpora, specializzazione locale (dalla pe-sca del murice alla tintura delle sete più preziose).

Gli scavi archeologici rivelano pure l’importanza in età bizantina diCesarea, se si considerino la sua estensione, l’urbanesimo, lo sviluppodelle installazioni idrauliche, la varietà e le dimensioni dei pubblici mo-numenti e la grandezza del suo porto, dopo le opere di restauro e di am-pliamento promosse da Anastasio4.

Nonostante i vincoli diretti con il Mediterraneo attraverso l’Oron-te, Apamea – con i suoi 117 000 abitanti censiti all’inizio della nostraera e i 176 000 condotti in cattività dai Persiani dopo la conquista del576 – è piuttosto una capitale regionale, come testimoniato dai 7 kmdi cinta delle sue mura e dalla lunghezza della sua grande via colonna-ta (2 km), la più ampia (37,50 m) di tutte le città della Siria.

Le città portuali – Laodicea, Beirut, Ascalona e Gaza – non rivesto-no tutte la stessa importanza. Il ruolo di Laodicea è complementare ri-spetto a Seleucia nel garantire gli approvvigionamenti ad Antiochia e al-l’esercito. Ascalona e Gaza sono note per rifornire di vino l’Egitto, ilresto della Siria e oltre. Beirut non gode fama di coltivare attività com-merciali degne di nota, ma è sede della scuola di giurisprudenza pressola quale vengono formati i funzionari amministrativi in Oriente: vi siinsegna il diritto romano in latino, poiché la città, in quanto colonia fon-data da Augusto, era stata popolata da veterani di origine latina.

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Una terza categoria è quella costituita dalle città più modeste, carat-terizzate da un’attività economica specializzata, in particolare in quan-to tappe di transito del grande commercio internazionale. Le une sonosituate in Alta Mesopotamia e lungo l’Eufrate: Nisibi, Edessa, Batnefamosa per le sue fiere; ma l’elenco potrebbe allungarsi ancora. Le altresorgono allo sbocco delle rotte carovaniere del deserto. In seguito allaconquista di Traiano e alla distruzione del regno nabateo, Petra entranella fase del declino, ma i recenti scavi rivelano che in epoca bizantinala città conobbe un’incontestabile prosperità dovuta non soltanto allasua fiorente agricoltura, ma altresì ai benefici arrecati dal grande com-mercio carovaniero. Anche le città del Negev sono tappe sulla via cheporta da Petra a Gaza, all’Egitto. Bostra è il centro di un commercioavente per destinazione ultima lo Hi_iaz: cereali e vino prodotti in Si-ria meridionale vi vengono raccolti e inviati a mezzo di carovane, duevolte all’anno, alla Mecca e oltre.

Infine vengono le città che fanno la loro prima comparsa in epocaprotobizantina, senza ottenere sempre lo statuto di città, nei territoriperiferici conquistati dalle popolazioni sedentarie a scapito dei nomadi.Così Anasarta, Tarutia, Androna, Salamia e Umm al-Rassas, come pu-re Sergiopoli – per quanto il suo sviluppo sia essenzialmente dovuto alfatto che essa è la meta del pellegrinaggio compiuto in onore dei santiSergio e Bacco –, a motivo della valorizzazione del territorio quasi de-sertico di cui costituiva il centro; o ancora Zenobia, ricostruita e ripo-polata sotto Giustiniano.

L’insieme di queste città non forma pertanto un reticolo gerarchiz-zato, evidenziante chiari rapporti di dipendenza nei confronti della ca-pitale regionale. Ognuna delle città di maggiore importanza è a capo diun’area di portata ineguale. Così per la produzione del grano, la zonadipendente da Antiochia non oltrepassa i limiti del territorio cittadino:nel 362, quando si verifica una carestia cagionata dalla concentrazionedi truppe ivi raccolte da Giuliano prima della campagna persiana, l’ab-bondanza regna a meno di 150 km di distanza, a Ierapoli, ma il costodei trasporti terrestri è tale da far raddoppiare il prezzo del grano dopoun percorso di oltre 100 km. La crisi non viene domata se non dall’in-tervento stesso dell’imperatore: Giuliano fa vendere sottocosto derratedi grano acquistato a Calcide, a Ierapoli, in Egitto, ricorrendo anche aigranai dello Stato. Per i prodotti di lusso, come le pietre preziose e lesete, lo spazio economico di Antiochia si espande al di là delle frontie-re, giungendo sino alla Cina. In questo spazio immenso è la Siria nel suocomplesso a costituire la chiave del commercio con l’Estremo Oriente.All’interno del suo territorio si individuano tre zone sviluppatesi intor-

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no a porti marittimi in contatto con il resto del mondo mediterraneo:Antiochia e Seleucia di Pieria, Tiro e il gruppo di città (Cesarea, Asca-lona e Gaza) sorte al termine dell’itinerario che, dalle sponde dell’Ocea-no Indiano, passa per la Nabatene e il Negev.

1.2. La gerarchia del le condizioni socia l i ne l le c i ttà.

A capo della gerarchia sono i ricchi, tra i quali si annoverano gli altifunzionari, gli honorati così come i bouleutai o curiales, membri dellabulè, rappresentanti autorevoli dell’autonomia municipale, o di quantorimane di essa.

Sostanzialmente, la ricchezza dei notabili di Antiochia, i possessores,è d’origine fondiaria. Tuttavia, almeno alcuni fra essi praticano attivitàbancarie e commerciali, o le controllano. Costoro traggono profitti dal-le funzioni che esercitano, sia al servizio dell’imperatore, in qualità dihonorati [Petit 706], sia in seno all’amministrazione cittadina, come cu-riales [Laniado 344]. Pur senza raggiungere il livello dei senatori d’Oc-cidente, la loro opulenza è considerevole, come testimonia il lusso del-le grandi residenze scoperte ad Antiochia o a Dafne, e soprattutto adApamea. La letteratura ci ha tramandato i nomi di molti di questi gran-di proprietari, membri dell’élite urbana, in particolare componenti del-la famiglia del vecchio prefetto del pretorio, Talassio I, possessore di be-ni immobili sparsi attraverso un immenso territorio e amministrati daun certo Boeto, originario di Elusa, legato alla casa di Argirio di Antio-chia, appartenente al suo stesso rango socio-economico. Proprietario dinumerosi schiavi, egli si dedica a operazioni di vasta portata, quali l’ac-quisto di legname in Cilicia [Liebeschuetz 958, pp. 42-45].

Tali grandi proprietà non costituiscono latifundia senza frammenta-zioni, come spesso in Occidente. Sono piuttosto aggregazioni di pro-prietà sparse, se non addirittura di villaggi, i cui proprietari si limitanoa ricevere un «canone» che si aggiunge all’imposta [Tate 977]. È peròraro che essi dispongano di residenze di campagna: dopo le sommossedel 362-63 e del 382-84, o in seguito all’insurrezione del 387, i buleutinon sanno dove rifugiarsi per scampare alla reazione imperiale.

Non esiste dato che permetta l’identificazione dei mercanti o dei fi-nanzieri di Antiochia e di altre città siriane. Si sa tuttavia che i curialesvenivano annoverati tra gli speculatori che immagazzinavano il grano inperiodi di carestia, in attesa del rialzo dei prezzi. E dovevano avere inol-tre investito i loro fondi in imprese commerciali redditizie, per quantocostose [Liebeschuetz 958, pp. 49-49].

Negozianti e artigiani appartengono al rango degli humiliores. Co-

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storo formano un insieme molto diversificato, assoggettato al crisargi-ro, e Libanio sottolinea il loro attaccamento al lavoro. Svolgono le loroattività in modeste officine, in parte presso il proprio domicilio. Le piùgrandi «manifatture», quelle di proprietà dello Stato, sono in realtà uninsieme di singole officine giustapposte: alcuni artigiani, insieme alle lo-ro famiglie, vi lavorano con l’obbligo di fabbricare quantità di prodottideterminate per periodo. Le fabbriche più grandi, come le concerie, nonaccolgono più di una dozzina di operai. Numerose botteghe non appar-tengono agli artigiani ma ai curiales e, con sempre maggior frequenza,alla Chiesa.

Al gradino più basso della scala si trovano coloro che la letteraturacristiana designa sotto il nome di «poveri», sostituendo all’opposizionepolitica tradizionale tra honestiores e humiliores quella, puramente eco-nomica, tra ricchi e poveri. Come rilevato da Patlagean [523, p. 424],«il povero si trova al limite incerto e mutevole tra il lavoro e il non-la-voro». Numerosi in tutte le città, anche in quelle di media grandezza,come Edessa, dove trovano riparo sotto i portici, si incontrano soprat-tutto nelle più grandi, in particolare ad Antiochia, ove le pratiche ever-getiche dello Stato (e, via via con sempre maggior frequenza, anche del-la Chiesa) permettono ai più bisognosi di sopravvivere. Questa popola-zione, di notevoli proporzioni, è un temuto fattore di disordine latentei cui movimenti, in assenza di regolari forze di polizia, sono incontrol-labili.

1.3. I l ruolo del le c i ttà negl i scambi.

Il commercio dell’Impero con la Persia e l’Estremo Oriente passa perl’Egitto e la Siria, attraversandone gran parte del territorio. Dopo la ca-duta di Palmira (273), la via che collega la Cina al Mediterraneo attra-verso Ceylon e il Golfo Persico si è spostata a nord, prendendo lungo ilcorso dell’Eufrate e tagliando poi verso Antiochia. Un’altra grande viacommerciale attraversa il deserto arabico fino a Bostra e al grande por-to di Tiro. Lungo tali itinerari transitano su lunghe distanze varietà diprodotti di poco peso ma di prezzo elevato: seta proveniente dalla Ci-na, pietre preziose, spezie. La seta viene lavorata sul luogo, nelle cittàcostiere. I tessuti così confezionati vengono quindi spediti a Costanti-nopoli e in tutte le metropoli dell’Impero. L’argenteria e i gioielli d’orovengono pure venduti in tutto l’Impero. La Siria era intersecata da unreticolo di strade orientate est-ovest o nord-sud, molte delle quali con-vergevano su Antiochia (il che rispondeva a esigenze militari non menoche commerciali).

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Le rotte marittime collegavano i porti di Siria a tutte le altre regio-ni dell’Impero: Alessandria, Costantinopoli o l’Italia, la Cilicia per gliapprovvigionamenti di legname. Alcune navi siriane giungevano sino alMar Nero. L’enfatico quadro del traffico di Seleucia dipinto da Liba-nio nell’Antiochikos non è soltanto retorica: «Ogni genere di bastimen-to vi approda, proveniente da ogni parte del mondo, recando qui le mer-canzie di tutti i paesi, Africa, Europa, Asia, isole e continenti; di tuttociò che v’è di meglio, qui ci viene portato il fiore, poiché il fiuto mer-cantile attira a questi lidi gli animi dei negoziatori; grazie a essi, siamoin grado di cogliere i frutti della terra intera».

Tra i prodotti importati, il marmo arriva ad Antiochia dalla Tessa-glia o da Proconneso o ancora dall’Asia Minore, forse dalla regione diDokimion. Giunto ancora grezzo, viene lavorato ad Antiochia e quindispedito alle altre città. Varia e abbondante era pure la produzione di ce-ramiche. Tra le anfore utilizzate per il trasporto dell’olio e del vino, quel-la di tipo LRA 1 (fabbricata nella regione antiochena, in Cilicia e a Ci-pro) si rinviene in tutto il bacino del Mediterraneo, in particolare nelMediterraneo orientale, segnatamente in Cirenaica, ma anche lungo ilbasso corso danubiano. Viceversa, il tipo LRA egeo è documentato nel-la regione di Antiochia e nell’entroterra. Le anfore vinarie palestinesi(LRA 4, 5 e 6) sono altrettanto ben attestate a San Simeone e a Dehes,dove giungono probabilmente via terra5. La Siria importa vasellame datavola d’origine nordafricana e, soprattutto, la ceramica focese, ma unagrande varietà di lampade viene fabbricata nella regione antiochena.

2. Le campagne.

La kome, o libera comunità rurale, continua a predominare, mani-festando una grande vitalità. Questi villaggi sono realmente villaggi li-beri [Harper 949; Tchalenko 978, III; Sartre 972; Grainger 947], spes-so amministrati da magistrati di vario titolo (dekaprotoi e presbyteroi)che assicurano la ripartizione dell’imposta tra i membri della kome, so-lidale dinanzi al funzionario. Gli abitanti del villaggio finanziano la co-struzione dei luoghi di culto. La condizione dei cittadini rurali sembrarelativamente ugualitaria: i vani domestici corrispondono a una fami-glia coniugale, le differenti dimensioni delle case rispecchiano il nume-ro di famiglie residenti e non una ripartizione tra grandi e piccoli pro-prietari.

Gli esempi di grandi proprietà sono rari. L’epigrafia testimonia didue oikoi imperiali gestiti da un curatore: l’uno sito ad Apamea, l’altro

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nell’Antiochene, a Ormisda, gestito da Magno, comes Sacrarum Largi-tionum e favorito di Giustino II [Feissel 340]. Altri oikoi sono docu-mentati in Fenicia. I fondi conosciuti, che sono pure delle komai, sonoamministrati in valorizzazione indiretta. In Palestina, gli abitanti di mas-serie isolate sono a capo di proprietà non frazionate, dunque di fondinon troppo estesi [Hirschfeld 950].

I villici della Siria-Palestina sono sostanzialmente piccoli cittadinirurali le cui condizioni materiali possono essere molto varie. Coloro chesono insediati in territori periferici godono in generale di maggiore li-bertà rispetto a quanti abitano nei villaggi delle pianure, e conosconouna sorte migliore. Il fatto che molte abitazioni vengano ristrutturate eampliate dimostra che i proprietari disponevano di qualche risorsa ag-giuntiva.

L’economia rurale è essenzialmente un’economia di villaggio che as-socia la policultura ad attività variate. In Palestina, i contadini coltiva-no cereali, legumi, la vite e l’olivo, allevano ovini e bovini e dispongo-no di numerosi frantoi per la produzione del vino e dell’olio. Talora sihanno pure attività più specializzate: pesca, tessitura, fabbricazione divasellame, di oggetti di vetro, di botti, ovvero attività minerarie (comel’estrazione del piombo sull’Hermon). Un quadro analogo è quello of-ferto dal Negev, dove la coltura della vite e l’allevamento ovino occu-pano un posto notevole a fianco delle attività svolte da una popolazio-ne seminomade di allevatori di cui sono state rinvenute le abitazionitemporanee [Hirschfeld 950].

In Siria meridionale e nelle regioni basaltiche del nord i territori pia-neggianti coltivati a grano si contrappongono alla viticoltura praticatasui rilievi (vino di Andar¥n) [Villeneuve 983].

Nel Massiccio Calcareo, l’economia di villaggio associa la policultu-ra e l’allevamento ad attività industriali e di scambio [Tate 977]. Le cul-ture arbustive detengono il primo posto, ma non esiste una monocultu-ra dell’olivo, come ipotizzato da Tchalenko. Archeologia ed epigrafiaconcordano nel rivelare due attività industriali complementari: la pro-duzione di olio o di vino e la costruzione e decorazione di chiese [Nac-cache 965]. I contadini si occupano personalmente della vendita dei lo-ro prodotti, a domicilio o attraverso la vendita itinerante.

In Palestina, il migliore esempio di «stabilimento industriale» aldi fuori del contesto rurale del villaggio si trova nei pressi di Ascalona[Hirschfeld 950, sulla scorta di Israel e Mayerson]: un complesso azien-dale di grandi dimensioni che produce, trasforma, confeziona e vende isuoi prodotti – vino e olio – destinati all’esportazione in giare fabbrica-te sul posto in fornaci alimentate da olive pressate o da ramaglie di vite

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o d’olivo. I proprietari o i gestori risiedono al di sopra dei magazzini ehanno a disposizione bagni dai quali l’acqua si riversa in stagni utilizza-ti a mo’ di vivai. Essi massimizzano i loro profitti assicurandosi il com-pleto dominio della «catena» produttiva.

3. I rapporti città-campagna.

Le relazioni fra città e campagna in Siria settentrionale non possonoessere ridotte a una semplice formula. Il dominio classicamente eserci-tato dalla città sulla campagna non è affatto assoluto: le campagne sonotalora in grado di arricchirsi e di resistere, e rappresentano l’ambito nelquale prende a svilupparsi un potere nuovo. Testimoniano tale arricchi-mento l’infittirsi del reticolo dei centri rurali nella zona del MassiccioCalcareo, nell’Hauran e nel Negev, così come la frequenza numerica deisiti e la densità di popolazione di ciascuno di essi. Nascono nuovi villag-gi, sviluppandosi spesso da postazioni militari, ampliandosi e raggiun-gendo talvolta le dimensioni di città vere e proprie, come nei casi di Ana-sarta, Tarutia e Androna. Nella regione del Massiccio Calcareo, la co-struzione tra i secoli v e vi di abitazioni a semplice pianta ortogonale ele loro decorazioni in pietra scolpita devono aver richiesto l’interventodi muratori professionisti, implicando perciò versamenti di salari attin-ti alle eccedenze del guadagno agricolo. Nella pianura nei pressi di Riha,i tesori di argenteria ecclesiastica venuti alla luce [Mundell Mango 963]provano che la popolazione rurale non era ridotta alla miseria cui la pre-tesa dominazione urbana avrebbe rischiato di sottometterla. Nell’inte-ra regione, la proliferazione di chiese edificate sostanzialmente grazie afondi delle comunità rurali – così come la ricchezza dei loro mosaici –dimostrano che non si è pensato a fare economia.

Le campagne resistono alla pressione delle città in parecchi modi:l’opposizione alla riscossione dell’imposta è un fatto cronico. SecondoLibanio, i membri della bulè investiti dell’incarico di esattori vengonospesso ricevuti a sassate. Il banditismo è frequente [MacMullen 960]:Ammiano Marcellino (28.2.11-14) fa menzione dei Maratocupreni, ori-ginari di un villaggio dell’Apamene, i quali ogni anno compiono incur-sioni ai danni di uno o più villaggi, attaccandoli e saccheggiandoli. Fe-nomeno più complesso, il «patronato» permette di ottenere, in cambiodi contropartita, la tutela che gli alti funzionari accordano a schermodelle richieste avanzate dallo Stato. Infine il monachesimo, i cui valori– così come la lingua, essenzialmente l’aramaico – si oppongono a quel-li prevalenti nelle città, fa progressi nelle regioni rurali siro-palestinesi

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e costituisce un potere diverso, che è necessario considerare seriamen-te [cfr. cap. viii, pp. 262-63; Brown 515 e 638].

iii. espansione e mutamenti (330 - metà del vi secolo).

Dal 330 fino al decennio 540-50 la Siria conosce una sicurezza daminacce esterne pressoché totale: le poche guerre condotte contro la Per-sia non coprono più di dieci anni e vengono tutte portate all’interno delterritorio nemico. Questa pax Byzantina è senza dubbio dovuta più alledifficoltà interne all’Impero persiano che alla qualità della difesa, poi-ché il limes siriano non è che una serie di fortini destinati a scoraggiarele incursioni e soltanto le città fortificate sono in grado di resistere a unesercito organizzato.

1. Crescita demografica ed economica.

I dati archeologici rivelano che la Siria-Palestina ha conosciuto inquest’epoca una forte crescita demografica ed economica. Sulla scortadi un puntuale inventario dei siti conservati, C. Dauphin [940] stimache la popolazione della Palestina dovrebbe essere aumentata dal 150 al200% tra l’inizio del iv secolo e la metà del vi. Da un lato, gli antichivillaggi si ampliano e si addensano, e dall’altro se ne creano di nuovi neiterritori disabitati (o fino ad allora poco abitati). Nel Negev, la produ-zione è stimolata dall’insediamento di limitanei e dal processo di seden-tarizzazione delle popolazioni nomadi. Nell’Hauran, il periodo bizanti-no corrisponde sostanzialmente a una crescita complessiva che talora ri-sulta impossibile quantificare [Villeneuve 982]. In Arabia, l’allargamentodei territori antropizzati, con il corrispondente sviluppo di villaggi nel-la zona basaltica del nord-est della Giordania, ai confini con il deserto,costituisce una realtà palese.

Nel settentrione siriano, a cominciare dal censimento dei resti di qua-si cinquanta villaggi siti nella regione del Massiccio Calcareo, G. Tate[976] stima che fra l’inizio del iv e la metà del vi secolo il numero dellefamiglie mononucleari si sia moltiplicato per 4,5 in questa zona sotto-posta nuovamente ad attività di coltura, in cui la crescita doveva esse-re necessariamente più sostenuta di quanto non potesse essere in Pale-stina.

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Nel complesso, il tasso di crescita deve essere stato del 200 o addi-rittura del 300%, qualora si estenda alla Siria la stima formulata daDauphin per la Palestina: calcolo che non stupisce se riferito all’arcotemporale preso in considerazione, della durata di due secoli e mezzo,e che si spiega senza fatica in un contesto di relativa sicurezza internaed esterna. Tale espansione demografica non avrebbe potuto aver luo-go nel corso di più di due secoli, senza una grave crisi, se non fosse sta-ta accompagnata da un corrispondente sviluppo economico.

Tale sviluppo è caratterizzato da un considerevole aumento delle areeabitate e talora da un pianificato processo di sfruttamento dei terreni(resi coltivabili attraverso attività di spietratura o di irrigazione). Nelnord della Siria, la distanza tra la costa marittima e la steppa passa da-gli 80 km dell’epoca romana ai circa 150 del vi secolo. In alcune regio-ni, l’economia rurale si dinamizza gradualmente grazie a una sempremaggiore apertura agli scambi. L’esempio del Massiccio Calcareo non èun caso isolato. I villaggi conoscono un incremento del numero dei loroabitanti (ciò che implica una riduzione della superficie media del terre-no disponibile per ogni famiglia a 2 o 3,5 ettari) e, al tempo stesso, unarricchimento generalizzato. Come osservato, nel vi secolo lo sviluppodelle aziende olearie richiedeva una manodopera numerosa [Tate 976,per il Massiccio Calcareo; Callot 938 e Frankel 945, per la Siria setten-trionale e la Palestina].

La crescita urbana non è dovuta principalmente a quella, non docu-mentata a sufficienza, della burocrazia civile o ecclesiastica, ma all’in-cremento delle attività industriali e commerciali, anche in Palestina, do-ve si rileva una quantità via via crescente di officine per la fabbricazio-ne di ceramiche d’uso comune e di lusso, di oggetti metallici e di vetro.

2. Espansione e divisioni nella cristianità.

Sotto Costantino, i cristiani sono dovunque una presenza minorita-ria, ma formano comunità solide, la cui origine risale ai tempi apostoli-ci. Al principio del vi secolo, il cristianesimo è diventato la religione del-la grande maggioranza e domina tanto le città quanto le campagne. Leinnumerevoli chiese le cui vestigia si osservano ancora oggi, sin negli an-goli più remoti, testimoniano la potenza e la vitalità del cristianesimosiriano in età tardoantica.

Questo trionfo del cristianesimo è dovuto sia al dinamismo dellaChiesa, sia allo sviluppo del monachesimo, che propone un ideale di vi-ta nuovo e ne garantisce il radicamento nelle campagne [cfr. cap. viii,

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pp. 260-65]. Nei territori rurali, però, sono sostanzialmente gli stessimonaci ad assicurare l’evangelizzazione.

Nella zona del Massiccio Calcareo sono rimaste le vestigia di un grannumero di conventi di dimensioni variabili (ad esempio Telanisso, ai pie-di del colle di San Simeone Stilita, o Turman¥n). Sono tutti costruiti inpietra, secondo la medesima concezione. All’interno di uno spazio deli-mitato da un muro si trovano una chiesa, un cimitero comune, un edi-ficio d’abitazione e uno o più corpi di fabbrica a più piani circondati sutre o quattro lati da pilastri privi di decorazioni, la cui funzione è dibat-tuta: sala capitolare, refettorio e officine [Tchalenko 978; Festugière672], ovvero dormitori [Lassus 955; Canivet 664, pp. 214-15]. Altri mo-nasteri si sviluppano nel medesimo periodo in Osroene, nel Tur ‘Abd¥n,nel meridione dell’attuale Siria, nel settentrione della Giordania e suiconfini, in corrispondenza delle postazioni militari abbandonate, in par-ticolare intorno a Calcide del Belo. In Palestina, l’eremitismo delle lau-re coesiste con la tradizione dei koinobia e le due tipologie sono conce-pite come complementari, secondo un’alleanza sistematizzata all’epocadi san Saba (439-532).

Al di là delle differenze, il monachesimo della regione si caratteriz-za per la forza del suo radicamento, soprattutto al di fuori delle città,nel «deserto», in realtà in zone rurali considerate deserte o abitate dapopolazioni «selvagge» agli occhi dei cittadini. Tale rete di insediamen-ti monastici si sovrappone a quella dei villaggi e i monaci costituisconogli agenti più efficaci del processo di cristianizzazione delle campagne,esercitando nel contempo una notevole influenza sulle vicine città (Fe-stugière, Brown).

La cristianizzazione può rivestire talora anche una forma violenta,particolarmente sotto Teodosio. In tali casi, monaci e vescovi organiz-zano la distruzione dei «ricetti di demoni», ossia dei templi degli anti-chi dèi. È così che parecchi santuari, urbani e rurali, vengono distruttie talvolta trasformati in chiese in seguito a spedizioni guidate da «san-ti uomini»: san Marcello, vescovo di Apamea, fa distruggere fino allefondamenta il grande tempio di Zeus – e così bene che non si è potutorinvenire nessuno degli immensi blocchi di pietra che ne facevano par-te [Balty 932] –, ma viene ucciso successivamente da contadini che di-fendevano il santuario rurale che egli era sul punto di attaccare. Nel 388,a Callinico sull’Eufrate, dei cristiani incendiano la sinagoga, su istiga-zione del vescovo; ma Teodosio non può accettare che gli ebrei sianoposti sullo stesso piano dei pagani e ordina al vescovo di ricostruire lo-ro l’edificio a sue spese.

All’inizio del vii secolo, il cristianesimo non ha ancora eliminato le

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altre religioni. In Palestina, gli ebrei sono maggioritari in Galilea e noncessano di mostrarsi ostili ai cristiani; i Samaritani si dimostrano anco-ra più ostili, giungendo sino all’aperta rivolta. Nell’Apamene, la cristia-nizzazione è rallentata dal forte radicamento sul territorio dei grandisantuari pagani e di dinastie sacerdotali che allignano in quelle regionida lunga data. Nel territorio di Ierapoli, dove domina il grande santua-rio di Atargatis, il paganesimo conserva una posizione di supremazia fi-no alla fine del vi secolo. Nella stessa Alta Mesopotamia, ove la presen-za cristiana poteva vantare origini assai antiche, il paganesimo resiste alungo e gagliardamente, a quanto è possibile giudicare dalle opere pole-miche del diacono Efrem, insediatosi a Edessa dopo la disfatta di Giu-liano.

La vitalità del cristianesimo siriano si manifesta attraverso lo svilup-po di nuovi generi letterari religiosi, tanto in greco quanto in siriaco.Questa lingua assume inoltre un ruolo di lingua di cultura, quantunqueben presto emergano da questa rinascenza radicali differenze di conce-zione [cfr. cap. ix].

3. Cambiamenti nei rapporti sociali.

Il declino dei bouleutai di fronte all’ascesa degli honorati e dei vesco-vi non è un fenomeno specifico della Siria, benché vi sia meglio docu-mentato grazie all’opera di Libanio in particolare [cfr. esempi in Brown718, pp. 152-54] (Teodoreto, Epistole, 2.197-98). Nel vi secolo, i vesco-vi appaiono come i veri rappresentanti delle realtà urbane nel 540: essinegoziano con l’esercito di Cosroe la resa della loro città. Nelle campa-gne, gli «uomini di Dio» risiedono nelle vicinanze dei villaggi, anzichéallontanarsene al modo degli asceti egiziani, ed esercitano un contropo-tere di fatto e un’influenza mediatrice sulla popolazione contadina[Brown 238].

4. La crescita del dissenso.

La Siria è teatro di gravi discordie, che interessano sia le città sia lecampagne. I vari episodi di violenza urbana non sono tanto espressionedi opposizione politica quanto piuttosto del malessere di una popolazio-ne male inquadrata, soggetta all’alea della povertà. Ad Antiochia, il ruo-lo delle «fazioni» sembra marginale. Le tre grandi sedizioni che insan-guinano la città nel 354, nel 372 e nel 387 si verificano in periodi di ca-

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restia e si spiegano inoltre in base a un malcontento dovuto agli eccessicompiuti dalle autorità o a drastici aumenti delle esigenze fiscali. Le fa-zioni del Circo non vi hanno parte alcuna. A partire dalla fine del v se-colo e fino alla fine dell’età bizantina, le violenze sono dovute alle riva-lità tra gruppi religiosi, ortodossi da un lato e nestoriani o monofisitidall’altro, o all’antisemitismo, più acceso fra i Verdi che non fra gli Az-zurri.

Tali controversie religiose oscurano per la loro violenza e la loro por-tata ogni altra forma di dissenso in Siria. Esse sono all’origine delle sfal-dature verificatesi dopo il 451 tra l’Apamene e la Palestina da un lato,guadagnate alle tesi del concilio calcedoniano, e l’Antiochene e le regio-ni orientali dall’altro, favorevoli ai monofisiti (la stessa Antiochia era ilcentro di lotte incessanti). Le controversie danno luogo ad atti di straor-dinaria violenza, particolarmente dal regno di Giustino I in avanti, quan-do il potere centrale si arrogherà il diritto di comminare l’esilio ai ve-scovi ribelli, o quando opposti partiti potranno affrontarsi in campoaperto: così, monaci di Apamea in pellegrinaggio alla volta del conven-to di san Simeone, nei pressi di Aleppo, vengono massacrati durante ilviaggio da partigiani di Severo d’Antiochia e i conventi di Nicerte, neidintorni di Apamea, sono attaccati e saccheggiati.

iv. le difficoltà e la fine della siria bizantina (540-636).

A cominciare dal decennio 540-50, a causa dello stato di guerra pres-soché costante, domina la recessione. Il vi secolo è caratterizzato in Si-ria-Palestina da grandi catastrofi e da cambiamenti di portata epocale.Nel 634, infine, i conquistatori arabo-islamici stabiliscono la loro domi-nazione definitiva sulla regione. La domanda d’obbligo, a proposito diun avvenimento così eccezionale, concerne la possibilità di ravvisare unarelazione tra le catastrofi e i mutamenti suddetti e lo scacco definitivosubito da Bisanzio nella regione.

1. I flagelli.

Si tratta, innanzitutto, delle quattro grandi guerre contro la Persia.La prima campagna, dal 527 al 531, non ha dato luogo a grandi opera-zioni. La seconda comincia nel 540 ed è caratterizzata dall’assedio e dal-

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l’espugnazione di numerose città – Sura, Aleppo, Antiochia (540), i cuiabitanti vengono deportati. L’ultima, scatenata in occasione dell’ascesaal trono di Foca, si traduce in disastri meno numerosi, benché la Siria ca-da sotto l’amministrazione persiana per circa vent’anni [cfr. cap. i].

Nel secondo quarto del vi secolo, le città siriane subiscono ingentidistruzioni causate da terremoti di magnitudo 10-11 secondo la scala Ri-chter. Antiochia e Apamea, già duramente provate nel 458, sono colpi-te nuovamente nel 526 e nel 528. Secondo Procopio e Malala, i quali sitrovavano ad Antiochia al momento del disastro, si arrivano a contare250 o 300 000 vittime del sisma, cifra sovrastimata. Gli scavi di Antio-chia rivelano nondimeno la vastità delle distruzioni: il volume delle ma-cerie era tanto abbondante che la nuova città si era innalzata di un me-tro all’incirca sul livello dell’antico abitato.

La peste bubbonica colpisce la regione così come il resto dell’Impe-ro. Il contagio giunge ad Antiochia poco prima del 542, poi ai centridel litorale e alle città situate sulle grandi strade carovaniere; neppurele campagne vengono risparmiate. La frequenza delle epidemie (558,560-61, 573-74, 592 e 599) non permette riassestamenti demograficidurevoli.

A partire dal 540-50 la Siria è scossa da gravi crisi frumentarie, chesi traducono in ingenti mortalità. Tali crisi mettono in luce la fragilitàdell’agricoltura e l’insufficienza dei trasporti. Alcune sono cagionate dafattori esterni, quali terremoti o epidemie; altre sono invece dovute a fe-nomeni di natura economica: aumenti improvvisi del numero dei consu-matori (come, ad esempio, nel 362-63 ad Antiochia, a causa della forteconcentrazione di contingenti militari in città), carenze nella produzio-ne del grano o di ogni altra derrata. Questi deficit sono spesso dovuti acause climatiche o di altro genere (siccità, invasioni di cavallette). Il ca-so della crisi alimentare abbattutasi sulla regione di Edessa tra il 500 e il502 è stato descritto da Giosuè lo Stilita con una precisione e un’abbon-danza di particolari che permettono di seguirne puntualmente svolgimen-to e dinamiche. La crisi si suddivide in cinque fasi, ciascuna delle qualiarticolata su una mietitura primaverile e su una vendemmia autunnale(Agapio, Michele il Siro, Cronaca di Seert). Le fonti siriache e arabe do-cumentano l’aggravarsi delle crisi di sussistenza nel corso del vi secolo,benché sia difficile distinguere tra crisi locali e fenomeni interessanti laSiria nel suo complesso. Quelle verificatesi nel 491, tra il 502 e il 505 enel 525-26 sono probabilmente circoscritte all’area mesopotamica. A par-tire dal 525 sette crisi – ciascuna delle quali della durata di diversi anni– si succedono nell’arco di meno di un secolo e in un contesto di cata-strofi naturali e di guerre all’esterno del territorio regionale.

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A proposito delle cause di questi fenomeni di crisi, sono state presein considerazione quattro ipotesi. Secondo tali congetture, esse sareb-bero dovute sia alla peste e alle sue conseguenze [Kennedy 954], sia al-le distruzioni causate da sismi e da invasioni straniere [Tchalenko 978].Ma le carestie si susseguono periodicamente, talora indipendentementedalle invasioni, e non sono precedute, bensì seguite da epidemie di pe-ste. L’ipotesi di un mutamento climatico non è provata. Un’altra ipote-si vuole che la prosperità delle campagne, e in ogni caso nella zona delMassiccio Calcareo, si sia in realtà prolungata fino al vii secolo e non siastata mai compromessa se non dall’interruzione delle esportazioni olea-rie verso Occidente [Tchalenko 978]. Ma la cronologia dell’occupazio-ne dei villaggi, così come stabilito in base ai ritrovamenti effettuati ne-gli scavi di Dehes e di Sergilla, rivela che le conquiste straniere – primapersiane, poi arabe – della Siria non si sono tradotte in violente conse-guenze sull’evoluzione del commercio transmediterraneo, la cui diminu-zione ha luogo in maniera molto graduale. Un’ultima ipotesi, che per-mette di comprendere in quale modo, durante le crisi, l’espansione ab-bia potuto riprendere lena, è quella di una crisi «malthusiana»: la crescitadella popolazione è superiore alla crescita delle risorse [Tate 976; Foss944] e conduce alla progressiva colonizzazione di territori periferici me-no fertili. Da qui, un equilibrio fragile e una condizione di frequentemalnutrizione rendono vulnerabili alle epidemie.

Sulla portata e sulle conseguenze delle crisi sono state avanzate dueinterpretazioni. Kennedy insiste sul durevole portato della pestilenzaverificatasi sotto Giustiniano e sulla sua gravità: declino generale deicentri urbani, particolarmente di quelli costieri, scomparsa delle attivitàartigianali e commerciali. Foss pone l’accento sulla diversità di condi-zioni tra città e campagne e, fra le città, la condizione di durevole pro-sperità goduta dai centri urbani del meridione fino all’inizio dell’viii se-colo. Tate propone l’ipotesi di una crisi di tipo «malthusiano»: nellecampagne, alla peste avrebbero fatto seguito fasi di ripresa alternate anuove fasi di mortalità, che si sarebbero verificate ogniqualvolta fossestata superata la soglia al di là della quale la produzione di sussistenzasi fosse rivelata insufficiente; in compenso, a tale fase sarebbe succedu-to un periodo di stagnazione economica causata dalle chiusure dei mer-cati urbani. Da ciò il fatto che i contadini non costruissero più case, masolo, di tanto in tanto, chiese, e che le case continuassero a essere abi-tate [Sodini 974]. Si osserva un’evoluzione simile nel resto della Siria-Palestina, laddove l’evidenza degli scavi non permette di dedurre con-sistenti situazioni di abbandono delle sedi rurali [Hirschfeld 950].

È difficile stabilire una diretta relazione tra il declino economico del-

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la Siria e la conquista araba; anche dopo le logoranti guerre persiane,l’Impero è in grado di opporre un esercito numeroso agli invasori: nel-le battaglie di Ajnadayn (634) e dello Yarmuk (636), la sconfitta bizan-tina non fu dovuta a scarsità di mezzi ma a ragioni di ordine strategico.È la resa delle città a un conquistatore che ignora le tecniche dell’asse-dio che ha conferito alla disfatta di Bisanzio il suo carattere definitivo[Donner 198].

2. I cambiamenti.

Il contesto di tale declino demografico e urbano implica probabil-mente la parziale emigrazione delle élites greche: le grandi case di Apa-mea vengono abbandonate dai loro ricchi proprietari e rioccupate da unapopolazione di origine presumibilmente rurale che ne avrebbe mutatoradicalmente l’organizzazione [Balty 932, III ].

La recrudescenza dei contrasti religiosi, a cominciare dall’età giusti-nianea, accentua le opposizioni regionali ed etniche sia tra i calcedonia-ni (più numerosi nell’Apamene e predominanti in Palestina) e i monofi-siti (in Siria I, nell’Antiochene, in Eufratesia e in Mesopotamia), sia frale tribù arabe della frontiera orientale. Attaccando il monofisismo, dif-fuso soprattutto tra le popolazioni di lingua siriaca e presso alcune tribùarabe, il governo imperiale conferisce un significato religioso e politicoa una frattura linguistica e culturale senza conseguenze prima di allora.Lo sviluppo di una Chiesa monofisita siriana indipendente con Giaco-mo Baradeo (542) è un evento decisivo. La Siria è ormai divisa tra dueChiese: l’una calcedoniana, sostenuta da Costantinopoli (detta per que-sto motivo «melchita», imperiale), l’altra monofisita, il cui centro è si-tuato ai confini del deserto, in mezzo a tribù arabe. Durante l’occupa-zione persiana, la gerarchia calcedoniana viene sostituita dall’alto cleromonofisita. Dopo la riconquista, non può essere trovato alcun accordocon i monofisiti, i quali rifiutano il compromesso proposto da Eraclio,sfidandolo apertamente: al suo ritorno dalla campagna vittoriosa di guer-ra in Persia l’imperatore fa tappa a Edessa, ove assiste alla divina litur-gia senza poter partecipare all’eucarestia, negatagli dal sacerdote mono-fisita.

La persecuzione delle religioni non cristiane suscita diverse resisten-ze: i Samaritani sono tuttavia i soli a spingersi fino alla rivolta; insedia-ti nelle città litoranee di Palestina e nelle vicinanze del monte Garizim,si ribellano sotto Zenone, in particolare nel 529, a seguito della messain atto di misure (527) atte a vietare ai non-ortodossi l’accesso ai pub-

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blici ministeri e a limitare i loro diritti in materia di successione. La som-mossa scoppia a Scitopoli [Dauphin 940]. Gli insorti incendiano variquartieri della città ed eleggono loro re un certo Giuliano, capo di unabanda di briganti che si fa passare per il Messia. La sedizione si esten-de, accompagnata da massacri di vescovi e di preti i cui cadaveri vengo-no fatti a pezzi, da demolizioni di chiese e da nuovi incendi e, nelle cam-pagne, da assassinî e torture di cristiani, distruzioni di case e di poderi.Il moto viene duramente represso dal filarca di Palestina, il ghassanideAbu Karib. L’entità dei danni viene stimata intorno ai 13 centenaria au-rei. Una nuova rivolta ha luogo nel 555: vengono attaccati i cristiani diCesarea e assassinato il proconsole di Palestina. Le fonti documentanoancora tumulti durante l’ultimo terzo del vi secolo.

Quest’ultimo episodio rivela il ruolo crescente assunto dalle tribùarabe, con le quali l’Impero tratta direttamente dal iii secolo per garan-tire la sicurezza delle sue frontiere orientali a sud dell’Eufrate [Shahîd973]. Il più potente dei loro sovrani è il re di Hira, sull’Eufrate, paga-no fanatico, capo della tribù dei Lakhmidi e alleato fedele dei Persiani.Fino alla fine del v secolo, tuttavia, le incursioni arabe nel territorio del-l’Impero sono relativamente rare (quelle compiute dalla regina Mawiyya,nel iv secolo, sono le più importanti).

Alla fine del v secolo due avvenimenti costringono Bisanzio a legar-si con un’alleanza più stretta alle principali tribù arabe. Prima l’offen-siva portata nei territori imperiali dai Lakhmidi, poi dai Lakhmidi in-sieme ai Persiani fra il 497 e il 506, quindi la rivolta delle tribù arabecristiane contro Roma a cominciare dal 498; secondo Sartre [971], sitratta in realtà di una prova di forza il cui obiettivo è quello di mostra-re ai Bizantini che le tribù più forti, con le quali sarebbe vantaggiosostipulare un’alleanza, non erano più i Salihidi, alleati tradizionali del-l’Impero, bensì i Ghassanidi e i Kinditi. Nel 502 Anastasio concludecon queste due tribù un trattato mediante il quale accorda ai re di Ghas-san e di Kinda i titoli rispettivamente di filarca d’Arabia e di filarca diPalestina. Tra di essi e l’Impero vigerà la regola della mutua assistenzamilitare, in caso di attacchi.

Nel 528, con la morte di Harith ibn ‘Amr, ossia di Areta il Kindita,ha inizio un nuovo periodo, caratterizzato dal predominio dei Ghassa-nidi e dalla lenta penetrazione araba nel territorio imperiale. Il filarca-to kindita si indebolisce, smembrandosi, e i filarchi ghassanidi assurgo-no al primo rango. Essi giocano una parte decisiva nella repressione del-la rivolta samaritana, dapprima in Palestina e poi in Traconitide [Stein151; Dauphin 940], il che induce Giustiniano a conferire al capo ghas-sanide le dignità di patrizio e di re insieme a quella di filarca generale,

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facendone l’uguale di Alamundaro il Lakhmide. Come filarca generale,Harith ibn Jabala (531-69) ha l’incarico di difendere il limes, esteso dal-l’Eufrate al Mar Rosso. I Ghassanidi dispongono di un pretorio a Resa-fa/Sergiopoli6, dove possono adunare gli altri capi tribù in occasione delpellegrinaggio di san Sergio e mettere in opera le disposizioni più adat-te ad assicurare la difesa del limes. Essi possiedono inoltre residenze piùa sud e, fatto nuovo, nelle città dell’interno, a Damasco e in vari altricentri dell’Hauran. Benché tutti i membri della tribù risiedano nellasteppa e non sul suolo imperiale, sono comunque in grado di giocare unruolo sempre più significativo negli affari delle province romane. Nonne sono semplicemente i difensori, ma partecipano alla loro vita così co-me ai conflitti che le travagliano. Molto prima della conquista arabo-islamica, le tribù arabe sono insediate alle periferie delle grandi città –ad Aleppo, Calcide e Damasco. In tali centri, le funzioni di potere ven-gono affidate sempre più spesso a degli Arabi [Kennedy 954, p. 181].Situazione politica e demografica nuova, dalle conseguenze tanto piùgravi in quanto i Ghassanidi professano il monofisismo.

L’importanza del loro ruolo non fa che crescere, sia nel corso dellalotta contro i Persiani, sia nei conflitti intestini dell’Impero. Nel 553,Mundhir (Alamundaro) il Lakhmide penetra all’interno dei territori im-periali apportando gravi danni: raggiunto da Harith (Areta), viene vin-to e ucciso nei pressi di Calcide da quest’ultimo, al quale tale trionfo al-l’estero conferisce l’autorità di intervenire nei conflitti teologici, soste-nendo Giacomo Baradeo e la sua nuova Chiesa. Questo ruolo di accre-sciuto potere dei Ghassanidi contribuisce a rendere più stretti i vincolitra gli Arabi e i Siriani monofisiti, la maggior parte dei quali era di lin-gua siriaca.

È questo il contesto nel quale sopravviene la rottura del 580-81 fral’imperatore e i Ghassanidi. Il responsabile principale è senza dubbioMaurizio, prima in qualità di generale e poi come sovrano, ma le opinio-ni degli autori antichi e degli storici moderni divergono sulle sue moti-vazioni: Evagrio crede che il filarca avesse commesso tradimento, men-tre Giovanni di Efeso e, più tardi, Michele il Siro ritengono che fossecaduto in un tranello. Devreesse opta per l’ipotesi del tradimento, maSauvaget7, Stein [151] e Nöldecke giudicano l’accusa priva di fondamen-to. Comunque siano andate le cose, Mundhir viene catturato nell’esta-te del 581, evento che scatena l’ira delle tribù arabe in tutto l’Oriente:incursioni, devastazioni e saccheggi si moltiplicano in tutta la Siria-Pa-lestina, sconfinando sin nelle regioni vicine. Bostra viene posta sotto as-sedio [Sartre 970] e, dopo una battaglia campale, i suoi abitanti nego-ziano la restituzione delle ricchezze accumulate da Mundhir in città per

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scampare al saccheggio. Allo scopo di mettere fine a questo clima di in-sicurezza, Maurizio ripristina il filarcato generale a favore di un fratel-lo di Mundhir e quindi di suo figlio Naaman, ma nel 584 quest’ultimoviene arrestato a sua volta ed esiliato in Sicilia assieme al padre. Il filar-cato si frammenta allora in una moltitudine di filarcati – quindici, se-condo Barebreo –, alcuni dei quali, come già era stato per i Ghassanidi,fedeli a Bisanzio, mentre altri si alleano ai Persiani. Fra di essi, un grannumrero si insedia in Siria, in particolare nelle regioni di Emesa, di Nabke di Qaryatayn. Paradossalmente, la crisi accelera il processo di seden-tarizzazione delle popolazioni arabe, accresce la loro presenza e raffor-za i monofisiti. Per la difesa dei confini, i Bizantini fanno ricorso ad al-tre tribù, specialmente ai Godamiti, stabilitisi nella regione di Tabuk,nel nord della penisola arabica. Essi si troveranno a fianco dei Bizanti-ni a Muta, nel 629, quando i musulmani attaccheranno l’Impero.

v. conclusione.

In un arco di tempo inferiore a quello impiegato per espugnare Ales-sandria, gli eserciti arabi conquistano la Siria. All’interno di questo even-to storico di maggior portata, due cose debbono essere distinte: le cau-se della disfatta militare – una inferiorità strategica reale di fronte a unavversario che disponeva di alleati e poteva fare la sua comparsa dovun-que, grazie alla sua conoscenza del deserto, e lo smantellamento dellapotenza arabo-cristiana dei Ghassanidi [cfr. cap. v, pp. 178-79] – e leragioni del durevole successo dei conquistatori così come del loro defi-nitivo radicamento in Siria. Dalla fine del vi secolo si assiste in effettia un aumento degli elementi orientali in seno alla popolazione locale: in-cremento demografico con infiltrazioni arabe all’interno del territorio;ascesa politica dovuta a una crescita d’importanza del loro ruolo di di-fensori delle frontiere e di tutori dell’ordine nella regione; ascesa reli-giosa legata alla forza del monofisismo; ascesa culturale, infine, graziealla rinascita delle civiltà e delle lingue orientali propiziata dallo svilup-po del cristianesimo, mentre l’occupazione persiana durata circa vent’an-ni ha comportato l’emigrazione e, in ogni caso, l’indebolimento della po-polazione di lingua greca, rimasta estranea al contesto culturale orien-tale e avvertita come rappresentanza del governo costantinopolitano.

I Bizantini, dopo vent’anni di occupazione persiana8, fanno ritornonella regione accompagnati dagli esattori delle imposte e riprendono le

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loro pratiche di oppressione fiscale e religiosa; ma i Siriani avevano or-mai contratto altre abitudini. Non si saprebbe dire, pertanto, se Bisan-zio avrebbe patito o meno un «tradimento» da parte dei Siriani, e inparticolare degli Aramei e degli Arabi di Siria; sulle prime, i conquista-tori parvero loro dei pagani che era necessario combattere a dispetto del-le affinità linguistiche e culturali. Le città che si oppongono più a lun-go agli invasori non sono le capitali dell’ellenismo come Antiochia, cheanzi si arrende senza opporre resistenza, ma Damasco e Aleppo, in cuigli Aramei e probabilmente i monofisiti sono maggioritari. Al principiodella conquista, gli Arabi cristiani si comportano come leali alleati del-l’Impero, combattendo a fianco dei Bizantini. Ma, una volta vinti e al-lontanati dalla Siria questi ultimi, le città che dapprima avevano resisti-to abbandonano la partita, arrendendosi a un avversario che non sareb-be stato in grado di prenderle d’assalto, in assenza di ogni esperienza inmateria poliorcetica. I Greci, tuttavia, non sono tutti costretti a parti-re: fino a ‘Abd-al-Malik (685-705), sono ancora loro a formare i quadrisuperiori del governo e il greco continua a essere la lingua della pubbli-ca amministrazione.

1 The New Encyclopedia of Archaeological Excavations of the Holy Land, 4 voll., Jerusalem 1993,III, pp. 1163-65.

2i. pena, p. castellana e r. fernandez, Les stylites syriens, Milano 1987.

3j.-p. rey-coquais, Inscriptions grecques et latines découvertes dans les fouilles de Tyr, I. Inscrip-tions de la nécropole, Paris 1977.

4 The New Encyclopedia cit., I, pp. 282 sg.5j.-p. sodini, Villes et campagnes en Syrie du Nord: échanges et diffusion des produits d’après les té-moignages archéologiques, in e. aerts e altri (a cura di), Models of Regional Economies in Anti-quity and the Middle Ages to the 11th Century, Louvain 1990, pp. 72-83.

6j. sauvaget, Les Ghassanides et Sergiopolis, «Byzantion», 14 (1939), pp. 115-30.

7 Ibid.8c. foss, The Persians in the Roman Near East, JRAS, 13/2 (2003), pp. 149-70.

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jean gascou1

xiv. L’Egitto bizantino (284-641)

1. Periodizzazione, generalità storiche.

Entrato a far parte dell’Impero romano nel 30 a.C., l’Egitto divie-ne una provincia imperiale sottoposta a un governatore di rango eque-stre, detto prefetto, residente ad Alessandria. A tale ufficio si riconnet-tevano istituzioni specifiche, evocanti talvolta, almeno sul piano termi-nologico, l’età ellenistica. Alcuni di questi termini sono rimasti in usosotto i Bizantini: i nomi dei mesi dell’anno, di origine faraonica (e all’e-poca ancora ben noti in Egitto); la dracma e il talento; l’artaba, misuradi capacità per aridi (nel periodo in esame equivalente a poco più di 39litri); l’arura, misura di superficie (valutabile intorno a un quarto di et-taro); il nomo, nozione di geografia amministrativa che i Bizantini in-terpreteranno come comprensorio cittadino. Sotto i Romani è possibi-le inoltre rilevare tratti – quali le capitazioni, il rigido inquadramentodella popolazione all’interno di statuti personali gerarchizzati, l’assen-za di istituzioni civiche – denotanti una certa soggezione. L’Egitto di-venta, e rimane in età bizantina, il granaio dell’Impero. Tale regime simantiene come un dogma amministrativo fino agli Antonini, benché re-centi contributi abbiano rivelato che furono proprio questi ultimi impe-ratori a favorirne insensibilmente l’evoluzione: è possibile così fin dal iisecolo ravvisare il prepararsi di questa municipalizzazione tradizional-mente rapportata all’età severiana, locale modus operandi amministrati-vo che rappresenta una delle peculiarità maggiormente caratterizzantidell’Egitto bizantino. Bizantino, vale a dire romanizzato e pienamenteintegrato nel contesto dell’Impero.

Relativamente poco travagliato dalle invasioni e dalle vicissitudinipolitiche e militari della seconda metà del iii secolo, eccezion fatta perqualche incursione di genti libiche, per l’impresa palmirena e per alcu-ne rivolte e usurpazioni, l’Egitto ha nondimeno sofferto ai suoi margi-ni di difficoltà materiali le cui cause non si spiegano agevolmente, mache gli scavi permettono di constatare. Le città dell’Alto Egitto, regio-ne in ogni caso poco prospera, subiscono considerevoli ridimensiona-menti (così Edfu). Allo stesso modo, vari villaggi periferici del Fayyum

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438 Le province

scompaiono, come Soknopaiou Nesos, o decadono2. Anche prima delladiffusione del cristianesimo molti templi devono essere andati in rovi-na. Alcuni vengono adibiti a usi profani, come accade al Triphieion delPanopolita, trasformato sotto Diocleziano in residenza ufficiale (P.Pa-nop.Beatty, 1.259-60), o all’Ophieion di Luxor, sempre in epoca diocle-zianea incorporato in un accampamento militare. E al nome di Diocle-ziano (l’ultimo imperatore che abbia visitato l’Egitto) si associa, secon-do la testimonianza degli storici antichi e della letteratura documentaria,una profonda e durevole riorganizzazione dell’Egitto, dimodoché si èsoliti far iniziare dal suo regno (284-305) l’età bizantina.

Seguiranno, fino al termine del regno di Maurizio (582-602), tre se-coli di relativa tranquillità civile, turbata soltanto ad Alessandria da di-sordini religiosi, che poterono talora assumere il carattere di vere e pro-prie rivolte (nel 451 e nel 536), e nel meridione da qualche movimentodi popoli, nel 451/452, ma si trattò di agitazioni che non misero mai inpericolo lo Stato. Giustiniano promulgherà quindi per l’Egitto una le-gislazione differenziata che darà luogo alla riforma di numerose consue-tudini fiscali, monetarie e amministrative. La testimonianza fondamen-tale di tale operazione è il suo editto XIII, emanato nel 539, che rap-presenta anche una delle fonti capitali per la storia del paese. Tuttaviaun evento religioso di grande portata – lo scisma del 451, provocato dal-la deposizione del vescovo Dioscoro di Alessandria al concilio di Calce-donia – innesca (benché al momento non ne apparissero in tutta la lorogravità le conseguenze) un lungo processo di separazione dell’Egitto dal-l’ecumene ortodossa attuato sullo sfondo di incessanti polemiche, ulte-riormente esasperate in seguito alla crisi monotelita verificatasi verso lafine del regno di Eraclio (610-41).

All’inizio del vii secolo, l’Egitto entra in una fase di instabilità poli-tica contrassegnata da sollevazioni (dovute a cause ancora poco chiare)che travagliano Alessandria e denotano aperta ostilità nei confronti del-l’imperatore Maurizio. A cominciare dal 608, l’Egitto è coinvolto neitumulti civili della fine del regno di Foca (602-10), venendo infine sot-tomesso all’autorità di Eraclio sullo scorcio del 609 da Niceta, cuginodell’imperatore, a seguito di cruenti combattimenti nei pressi di Ales-sandria. Lo stesso Niceta vi eserciterà fino al 619 mansioni vicereali.

La dominazione bizantina crollerà nel 641/642 sotto i colpi degli Ara-bi in un singolare marasma istituzionale e con una rapidità che potreb-be sorprendere, se non si tenesse conto della disorganizzazione imputa-bile all’effimera occupazione sassanide del 619-29: se infatti è certo chei Sassanidi lasciarono sopravvivere le istituzioni civili locali, trattaronotuttavia la Chiesa e la popolazione con durezza. Al momento del loro ri-

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Carta 8. L’Egitto.

L’Egitto bizantino (284-641) 439

CanopoAlessandriaTaposiri Panefisi

Tennesi

PelusioRinocorura

Nitria

San Mena Kellia

deserto di scete

BabiloniaTura

Menfi

Clisma

Soknopaiou Nesos AilaIotabe

DionisiaTeadelfia

Arsinoe

Tebtinis (Teodosiopoli?) Eracleopoli Magna(Ehnaslyya)

Ossirinco (Bahnasa)

AntinoopoliErmopoli Magna(Ashmunayn)

Bauit

Licopoli (Assiut)Apollinopoli Parva (Kôm Isfaht) Anteopoli (Qaw al-Kabir)

Afrodito (Kôm Ishqaw)Panopoli (Akhmim)

AbidoTabennesi

Tentira (Dendera)

Medinet HabuCopto(Quft)

TebeHermonthis

Latopoli (Esna)

Apollinopoli Magna (Edfu)

Dush Ombi (Kôm Ombo)

Siene (Assuan)File Berenice

Primis (Qasr Ibrim)

DODECASCHENO

Saqqara

Karanis

Dayr Naqlun

Fayyum

LagoMenzala

Nilo

Monastero Bianco

Nag Hammadi Bau

Abu Sha’ar

Myos Hormos (Qusayr)

Bir umm Fawakhir

KellisOasi diDakhla

Oasi diKharga

Oasi diBahariyya

Faran� Sinai

mons

porphyrites

MARROSSO

MAR MEDITERRANEO

Mareotide

150 km0

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440 Le province

tiro, non rimaneva senza dubbio nessuna struttura efficiente del localeesercito bizantino.

I secoli dell’Egitto bizantino saranno qui descritti come contesto uni-tario. Ma sarebbe forse stata preferibile una trattazione storica in gra-do di porre a confronto il iv secolo e la prima metà del v – l’Egypt inLate Antiquity, per riprendere il titolo di una celebre sintesi di R. S. Ba-gnall [988] precisamente limitata a tale segmento cronologico – con ilperiodo successivo. Fino alla metà del v secolo l’Egitto pare infatti –con le sue istituzioni civiche e i suoi notabili cittadini romanizzati, conla sua civiltà letteraria tanto contigua alla seconda sofistica – ancora tri-butario dell’Antichità. Senza dubbio precocemente avvertita dalle co-scienze, la cristianizzazione pone tuttavia la sua impronta sulla societàe sulle istituzioni in maniera ancora piuttosto discreta. In seguito, la vi-ta municipale viene avvertita soltanto in modo discontinuo e poco rile-vato, mentre fanno la loro comparsa i grandi possedimenti laici ed ec-clesiastici e il cristianesimo si afferma vigorosamente. Mutamenti realio apparenti? Le nostre interpretazioni dipendono a questo punto dalnumero, dalla distribuzione cronologica e dal genere di documentazio-ne in nostro possesso, in gran parte papirologica. Così i numerosi testidel iv secolo ci forniscono precise informazioni sulle realtà cittadine (daicapoluoghi ai villaggi). La casualità dei ritrovamenti fa sì che il v seco-lo continui a essere poco noto: è dunque, probabilmente, una soluzionedi comodo trattarne considerandolo alla stregua di un «separatore» tem-porale. Non sarà forse ancora un effetto del caso se, più tardi, i docu-menti degli archivi municipali si diraderanno sempre di più rispetto aquelli conservati presso i grandi possedimenti?

2. Il contesto geografico.

Il paese comprende sostanzialmente l’asse nilotico. Nel 298, in se-guito all’abbandono della Bassa Nubia (Dodecascheno) da parte di Dio-cleziano, la frontiera politica e militare, che non ostacolava minimamen-te le comunicazioni con i territori nubiani, in particolare per quanto con-cerne il commercio degli schiavi (SB, XVIII, 13173), viene definitiva-mente fissata a File. A est si aggiungeva il deserto arabico fino al MarRosso assieme al quarto occidentale del Sinai, e a ovest il deserto libicoe le sue oasi, dipendenze etniche dell’Egitto, di cui i recenti scavi mo-strano la vitalità economica, culturale e religiosa nel iv secolo, vitalitàtuttavia assai meno avvertita in seguito. La Libia, sotto un certo puntodi vista, può essere considerata come congiunta all’Egitto, di cui all’e-

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poca costituiva una sorta di appendice tanto dal punto di vista ammini-strativo quanto da quello religioso. Studi recenti, basati sulla testimo-nianza degli scritti di Sinesio, la rivelano sotto una luce di prosperitàmaggiore di quanto si ammettesse finora.

I deserti garantivano a Bisanzio alcune risorse minerarie quali il por-fido rosso, nel iv secolo, e l’oro (dal lato arabico), ovvero l’allume (dallato libico). Attraverso porti quali Clisma o lo scalo di Abu Sha’ar (por-to bizantino il cui toponimo antico non è noto), il deserto arabico offri-va via libera agli indikopleustai, i «navigatori del mare indiano» i quali,per la verità, non arrivavano con ogni probabilità al di là delle coste del-l’Etiopia e della Somalia attuali (SB, XXII, 15373). A contatto o nellevicinanze della valle del Nilo, lungo determinati itinerari, i deserti ve-dono sorgere monasteri o luoghi di pellegrinaggio, ma tanto il manteni-mento delle comunicazioni quanto la protezione dei monaci di Faran(nel Sinai) e dei pellegrini di San Mena erano pesantemente a carico del-lo Stato. A partire dall’antica Tebe, all’epoca completamente decaduta,l’estremo sud del paese costituiva una regione di confine molto povera,scarsa di terre coltivabili e solo difficilmente irrigabili a causa del profon-do incasso del fiume. La difesa degli insediamenti era assicurata da guar-nigioni il cui mantenimento gravava sulle città del Medio Egitto. I ter-ritori utili si riducevano dunque alla bassa e media valle del Nilo e allaregione del Delta. La prosperità agricola dipendeva dall’ingrossamentoestivo del fiume, canalizzato e sfruttato dalle collettività locali secondoprocedimenti complessi che troppo spesso si è cercato di ricostruire al-la luce del vasto sistema di catene di bacini messo in opera nel xix seco-lo. Come avevano fatto i precedenti dominatori del paese, anche l’am-ministrazione bizantina osservava e misurava la portata delle piene, ol-tre a garantire la funzionalità di dighe e canali attraverso corvè dicontrollo obbligatorio, ma non ci sono prove tali da testimoniare cheavesse raggiunto una visione d’insieme tecnicamente consapevole del-l’idraulica nilotica: la tradizione e la sovrapposizione di concezioni e d’i-niziative locali avevano preso il sopravvento, molto spesso a prezzo digravi conflitti d’interesse locali tra villaggi e talvolta in seno al medesi-mo villaggio. Il piano alluvionale non era valorizzato completamente.Benché meno estesi che all’inizio dell’epoca greco-romana, ci si imbat-teva ancora un po’ dovunque in acquitrini e aree lacustri, soprattuttonella zona settentrionale del Delta e fino alle porte di Alessandria, do-ve la preservazione di tali bacini idrici veniva favorita da un moto disubsidenza costiera, lento, ma talora capace anche di brusche accelera-zioni, come in occasione del maremoto che nel 365 devastò i terreni agri-coli di Panefisi (Giovanni Cassiano, Conf., 11.3).

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Dal fiume e dalle sue derivazioni dipendevano ancora le comunica-zioni interne, agevoli ed economiche in direzione nord-sud, interrottetuttavia all’altezza della prima cateratta, procedendo al trasbordo viaterra da Siene a File. Gli itinerari terrestri paiono rivestire una qualcheimportanza solo localmente, o rispondere alle necessità specifiche delcursus publicus. Dai papiri di Kellis (villaggio dell’attuale oasi di Dakh-la) si può comunque dedurre che gli Oasiti del iv secolo non avevano ti-more di intraprendere viaggi frequenti e anche molto lunghi attraversoil deserto.

Difficile da calcolare (intorno ai cinque milioni di abitanti, se si adot-ta l’ordine di grandezza ammesso in età greco-romana), la popolazionedell’Egitto bizantino può almeno essere descritta dal punto di vista de-gli stili di vita, delle attività, dei caratteri etnici e delle lingue. Da taliprospettive è possibile notare una varietà maggiore di quel che ci si aspet-terebbe, considerata la semplice geografia del paese.

3. Stili di vita marginali.

Nei siti propriamente lagunari, protetti da cordoni litoranei, insie-me al commercio marittimo si sviluppa in quest’epoca una certa vita direlazione. Questo è, per lo meno, ciò che viene documentato da Gio-vanni Cassiano (Conf., 11.1) a proposito di Tennesi, isola-città sorta sul-le acque del lago Menzala la cui storia ulteriore rivela qualche analogiacon la vicenda di Venezia.

Nelle valli del Delta prevaleva un genere di vita particolare, descrit-to con precisione da san Cirillo, basato sulla caccia, la pesca (il pesce delNilo, essiccato o in salamoia, e il garum erano molto apprezzati), l’alle-vamento di bufali d’acqua, le piantagioni di lino e di papiro. Relativa-mente isolati, gli abitatori delle terre palustri, detti «bifolchi» fino altempo di Cirillo, non godevano di buona reputazione. In una Vita di sanGiovanni l’Elemosiniere risalente al principio del vii secolo vengono pu-re accusati di pratiche obbrobriose e di ignoranza del cristianesimo.

Non meno sinistri erano giudicati i pastori, nomadi o seminomadi,gli allevatori di ovini da lana, poco graditi agli agricoltori per i loro scon-finamenti e la loro delinquenza, presunta o reale che fosse, ma di cuitalora dovette occuparsi, come avvenne ad Afrodito, la polizia territo-riale. E di pregiudizi simili erano oggetto le popolazioni abitatrici deimargini desertici. Luoghi favoriti dei monaci, tali zone ospitavano an-che i sepolcreti e offrivano ricetto alla corporazione dei necrofori, fat-ti oggetto di universale repulsione, e ai briganti che, secondo quanto

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testimoniato dalla letteratura agiografica, rendevano la vita difficileagli eremiti.

4. La vita rurale.

Quanto alle popolazioni sedentarie della piatta regione agricola, siraggruppavano tradizionalmente o addirittura si stipavano in case dimattoni crudi, edificate su poggi di modesta elevazione, d’origine natu-rale o artificiale, destinati a proteggerle dalle inondazioni (si veda in par-ticolare Giovanni Cassiano, Conf., 11.3). In epoca bizantina, secondola tendenza generale già riscontrata in età bassoimperiale, l’abitato ru-rale egiziano appare ridotto, più compatto di quanto non risultasse inpassato, spesso addirittura trincerato all’interno delle mura di cinta diantichi templi (Dsh, Medinet Habu) o circondato da bastioni. La qua-lità abitativa è talvolta mediocre. La rete viaria, non più dipendente dal-l’allineamento dei templi, è disorganizzata.

In base ai dati catastali, l’agricoltura egizio-bizantina presenta trat-ti mediterranei, con forte preminenza delle coltivazioni cerealicole (l’a-rativo occupa più dell’85% del territorio ad Afrodito e ad Anteopolisotto Giustino I) e della viticoltura, giacché il vino, in questo periodo,surclassa la birra, antica bevanda tradizionale dell’Egitto. La vocazioneannonaria del paese, così come le consuetudini alimentari dei Romani,hanno potuto contribuire a diffondere tali colture. Il lino continua adalimentare l’artigianato tessile, non soltanto, come si è visto, nella re-gione dei fondi palustri del Delta, ma pure nelle zone umide della valledel Nilo. Nei pressi dei centri abitati si notano alcune piantagioni, pal-meti, alberi da frutta, ma anche olivi (particolare non ovvio, e che an-cora una volta riflette le influenze romane e mediterranee). Poco legna-me utilizzabile a scopi edili: la materia prima, in questo caso, è prodot-to d’importazione. Al termine di questo periodo, Gregorio Magno ne farecapitare una determinata quantità al collega alessandrino Eulogio per-ché se ne giovi per i suoi armamenti. Piccoli proprietari o coloni, i con-tadini egiziani sembrano patire di scarsità di attrezzi (il ferro è costoso,e può sparire dal mercato) e di una cronica penuria di capitali, causa cheli spinge a ricorrere frequentemente al prestito o a vendite anticipatedel raccolto. Nel corso dell’intera epoca in esame, la proprietà fondia-ria è frammentata, dispersa e – fatto che in sé non rappresenta nulla disingolare, né d’inopinato – distribuita in modo ineguale a favore dei no-tabili cittadini; però il vi secolo appare effettivamente come l’età dei«grandi possedimenti», delle «case» (oikoi), poderose strutture dema-

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niali nelle mani della famiglia imperiale, della Chiesa e di famiglie del-l’aristocrazia senatoria costantinopolitana, come gli Apioni a Ossirinco,a Eracleopoli e ad Arsinoe.

Disponendo di mezzi immensamente superiori a quelli di cui gode-vano i patriziati municipali del iv secolo, le «case» potevano finanziareo mantenere agevolmente equipaggiamenti costosi, ma vantaggiosi, qua-li i traghetti fluviali, le piccionaie (fonti di risorse alimentari e di conci-me a un tempo), le macchine elevatrici idrauliche e i frantoi.

5. Lavoro e servizi.

Grazie ai papiri e alle iscrizioni funerarie, l’Egitto bizantino offreagli studiosi un’impressionante varietà di denominazioni concernentimestieri e prodotti. Non è facile elevarsi al di sopra di questo stadio, ri-ducendo tale molteplicità a una nomenclatura più limitata, poiché inmolti casi si tratta di attività atipiche comuni a tutto l’Oriente, soprat-tutto quelle relative alla sussistenza e all’edilizia (salvo forse i fabbrican-ti di mattoni crudi). Ma si rileverà per lo meno l’importanza dei mestie-ri connessi con la produzione dei tessuti e degli abiti, che paiono riflet-tere una posizione particolare dell’Egitto all’interno dell’Impero. A capodel settore tessile erano degli imprenditori detti pragmateutai, i cui in-teressi potevano essere estesi all’intero paese. Inoltre c’erano molti ora-fi, da un lato per via del fatto che gli Egiziani (in particolare le donnesposate) amavano investire i loro averi in articoli di gioielleria, dall’al-tro perché gli orefici esercitavano anche attività di prestatori di dena-ro, cambiavalute o banchieri. Si rilevano specializzazioni variate all’in-terno di contesti professionali da noi oggi considerati omogenei (e par-ticolarmente nel settore dell’alimentazione, della panificazione e dellamacelleria), ma è anche vero il contrario, come nel caso degli orefici cuisi è appena accennato, con la combinazione di funzioni per noi ordina-riamente distinte. Il vincolo corporativo è universale, posto sotto la tu-tela di collegi esecutivi di epistati o kephalaiotai, capitularii [cfr. infra,pp. 459-60]. Se si manifesta soprattutto nei rapporti che legano gli ar-tigiani alle autorità, tale vincolo esercita pure influenze interne sull’or-ganizzazione della produzione, sulla disciplina e sull’etica professionale(si vedano a tale proposito gli impegni presi dalla corporazione dei «cac-ciatori» di Afrodito nei confronti dei propri capitularii: SB, III, 6704).I più umili fra questi artigiani, i produttori in serie di oggetti confezio-nati utilizzando i materiali più a buon mercato, mattonai e vasai, si di-stinguono a malapena dai lavoratori a cottimo, talvolta intrattenendo

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così con la loro clientela rapporti prossimi a una vera e propria relazio-ne salariale. Ad altri livelli economici, gli specialisti del commercio ma-rino a lunga distanza, soggetti a rischi enormi, hanno necessità di gode-re di forti garanzie finanziarie: si comprende quindi la diretta dipenden-za di tali persone dalla Chiesa di Alessandria (secondo la Vita di sanGiovanni l’Elemosiniere).

In base all’opinione dominante, le attività produttive, almeno nel ive nel v secolo, tendevano a concentrarsi nei capoluoghi cittadini (comepare avvenisse pure in Oriente). È questa un’ipotesi che sarebbe utileverificare. Per lo meno, non è più sostenibile nel vi secolo con il caso,forse eccezionale, di Afrodito, villaggio di qualche migliaio di abitantiche contava una grande varietà di mestieri. Il solo systema ristretto del-le corporazioni del villaggio tassate nel loro insieme (che non esaurisceaffatto il catalogo dei mestieri attestati ad Afrodito) annoverava dal vi

al vii secolo i gualchierai, gli ottonai, i fabbricanti di imbarcazioni, i bec-chini, i fornai, i fabbricanti di mantelli, i sarti, i ciabattini, i fabbri, ipastori, i carpentieri.

6. Caratteri etnici.

Lungo le frontiere egiziane sono state sempre tradizionalmente stan-ziate popolazioni non egizie, come i Blemmi. Secondo la documentazio-ne rinvenuta, queste genti che, grazie a un trattato concluso con Costan-tinopoli, hanno avuto accesso al tempio di Iside a File sino al regno diGiustiniano, sembrano nel vi secolo essersi infiltrate anche nei territoridel Medio Egitto. Analogamente, pare che i Blemmi abbiano usufruitodi un luogo di traffici loro riservato (kommerkion), situato forse nella zo-na di Latopoli e di El-Gebelein, teatro di ritrovamenti di pellami blem-miti (SB, XVIII, 13930; P.KölnÄgypt., 13). San Cirillo ricorda che a Ri-nocorura, al confine con la Palestina, veniva parlato l’aramaico (PG, 70,col. 468). L’Egitto ha ospitato in ogni epoca genti d’origine semitica. Sene constata la presenza in questo periodo non soltanto nella zona egizia-na del Sinai e nel deserto arabico, ma anche nel deserto libico. Sarebbeparzialmente giustificabile ascrivere a questo contesto etnico anche gliebrei e i Samaritani che, dopo le gravi vicende loro occorse nel ii e nel iiisecolo, faranno nuovamente la loro comparsa nel paese, in particolare adAlessandria, a Ermopoli e ad Antinoopoli (in queste ultime due città so-no documentate le attività degli ebrei locali, noti come tessitori e tinto-ri). Siamo altresì almeno a conoscenza del fatto che tali comunità risul-tavano in parte composte da immigrati recenti, che i loro atti ufficiali

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erano occasionalmente redatti in aramaico palestinese – come dimostra-to da un contratto di matrimonio, una ketubbÇ antinoita risalente al 417– e che disponevano di libri sacri scritti nella loro lingua ancestrale, dalmomento che all’epoca la Bibbia dei Settanta era stata ormai lasciata aicristiani. Sorgevano inoltre insediamenti di Libici proprio alle porte diAlessandria. San Mena, il celebre luogo di pellegrinaggio della Mareoti-de, può essere considerato in un certo senso il loro santuario. Il recluta-mento di stranieri nell’esercito, la distruzione delle monarchie vandala eostrogotica sotto Giustiniano avevano portato all’immigrazione in onda-te successive di numerosi elementi allogeni, in particolare germanici (Go-ti, Franchi) e iranici, i quali preservarono per un certo periodo la loroonomastica personale e la loro lingua, trasmettendone qualche tratto al-la popolazione ospite. Il trasferimento di monaci e le elezioni di vescovistranieri (orientali in particolare) hanno contribuito a loro modo alla me-scolanza etnica propria dell’Egitto bizantino.

7. Greci e Copti.

Alcuni studiosi presentano ancora la storia di quest’epoca come sefosse dominata da un’opposizione etnica fra i «Greci» e i «Copti» (in-tesi come «Egiziani» di ceppo indigeno). Una parola dunque sui termi-ni «Greco», «Egiziano» e «Copto», che mi paiono talora equivocati. Èvero che, sia prima sia dopo la conquista macedone, l’Egitto aveva ac-colto parecchi immigranti di lingua greca, i quali avevano mantenutoper qualche tempo – benché meno a lungo di quanto comunemente sicreda – la propria coesione etnica in seno alla popolazione egiziana. IRomani mutarono a propria volta e irrigidirono le distinzioni etniche opseudoetniche rinvenute al loro arrivo, facendone degli statuti persona-li impermeabili a fondamento giuridico e fiscale, ma per nulla conformiai caratteri etnici dei gruppi interessati. Così la loro categoria di «Egi-ziani» (compagine idealmente opposta ai gruppi privilegiati, quali gli«Alessandrini» o gli «Antinoiti») comprendeva di fatto numerosi indi-vidui culturalmente «Greci». In compenso, sotto i Bizantini non vi so-no più «Greci» o «Egiziani», né in senso etnico, né in senso giuridico.Gli statuti personali sono scomparsi e la popolazione libera delle città èromana. La parola «Greci» (o, propriamente, «Elleni») designa all’epo-ca i pagani o i fautori della cultura profana. Tale denominazione è im-piegata dai cristiani con il biasimo che si può immaginare, ma viene fie-ramente rivendicata dai pagani colti. Essa non implica più, in ogni ca-so, alcun significato etnico-nazionalistico.

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L’opposizione tra Greci e Copti non è di fatto attestata in terminisse non in età arabo-islamica3 e rivela una matrice politico-religiosa piut-tosto che nazionalistica. I «Greci» – non più gli Elleni ma i Rm, i «Ro-mani» – sono ormai i Bizantini, visti in particolare come partigiani del-le dottrine professate dal governo costantinopolitano. I loro omologhiegiziani sono i «melchiti» («imperiali»). I Copti – dalla parola araba qubtutilizzata per designare gli «Egiziani cristiani» – sono i fedeli della Chie-sa d’Egitto, opposta a quella di Costantinopoli. È pur vero che, con l’i-slamizzazione dell’Egitto, la minoranza rimasta cristiana, fissata nel suostatuto, ha assunto agli occhi della maggioranza islamica alcuni dei trat-ti propri di un’autentica etnia, ma a questo punto siamo già al di fuoridella storia bizantina.

Il termine «copto» è inoltre impiegato ai nostri giorni per designarel’arte bizantina d’Egitto e i suoi sviluppi posteriori alla conquista ara-ba, così come documentati presso i siti monastici di Bauit e di Saqqara.La natura di tale arte è ancora controversa: alcuni specialisti vi ravvisa-no una declinazione provinciale dell’arte romana d’Oriente la cui qua-lità sarebbe proporzionata alle materie prime disponibili, ai mezzi e al-le necessità delle comunità locali; altri, professanti teorie attualmentein declino, ma ancora ben accreditate presso il grande pubblico, vi ri-cercherebbero reminiscenze dell’arte faraonica – né, d’altra parte, si puònegare che le ornamentazioni d’età faraonica abbiano talora ispirato lafattura delle stele funerarie – o qualche misteriosa idiosincrasia. Non sipotrà giungere agevolmente a un’interpretazione obiettiva dell’arte cop-ta finché non si saranno stabiliti criteri sicuri di datazione e di prove-nienza. Una celebre scultura lignea, l’architrave della chiesa cairota diAl-Mu‘allaqÇ, già ritenuta risalente al iv secolo, è oggi assegnata con si-curezza all’viii. Un tessuto «copto» si è presto rivelato come provenien-te da Eraclea-Perinto.

8. Greco e copto.

La popolazione egizio-bizantina parla generalmente la sua lingua na-zionale, la lingua egizia, ma pratica a vari livelli la lingua greca, comu-ne allora all’intero Oriente (la koinè), anche nei centri minori e nei vil-laggi, come rivelato specialmente dalle prime pubblicazioni dei papiridell’oasi di Kellis. È vero altresì che nei centri di fondazione greca, co-me Alessandria, nei quali si è continuato a parlare greco anche dopo laconquista araba, l’egizio è in larga parte ignorato o non gode di ricono-scimento ufficiale.

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Nonostante il suo accesso di «egittomania», il regime del principa-to, che non garantiva la validità delle transazioni concluse in vernaco-lo egiziano e che teneva in grande onore la paideia greca, aveva causa-to il declino dell’egizio scritto. In compenso, a cominciare dal iv seco-lo, torna sulla scena la lingua egizia. Desacralizzata in seguito all’ab-bandono delle scritture geroglifica e demotica che, tranne a File, nonhanno potuto sopravvivere altrove alla progressiva ellenizzazione del-le classi sacerdotali e all’interdizione che nel 391 colpì gli antichi cul-ti, essa è ormai una lingua scritta per mezzo di un sistema alfabeticoadattato dal greco, lingua dalla quale allo stesso modo trae larghi pre-stiti lessicali, giungendo fino all’impiego di particelle sintattiche. Taletardo egiziano scritto, che chiamiamo copto sull’esempio degli arabi,comprende numerose varietà dialettali d’origine antica, di fatto, mamai emerse con chiarezza precedentemente a causa della stilizzazionegrafica e linguistica propria della cultura letteraria dell’Egitto faraoni-co, che ne aveva fino ad allora impedito ogni manifestazione. La diffe-renziazione più notevole (documentata soprattutto nel vi secolo) oppo-ne l’idioma dell’Alto Egitto, detto saidico, esteso a settentrione fino aErmopoli o a Ossirinco, al bohairico del Basso Egitto, che dal Medioe-vo a oggi è rimasto la lingua liturgica della Chiesa d’Egitto. Un’analisipiù dettagliata rivelerebbe che in molte città è diffusa una diversa par-lata locale: il fayyumico nell’Arsinoita, l’akhmimico a Panopoli, il lico-politano ad Assiut/Licopoli. Allo stesso modo, le oasi possiedono undialetto loro proprio.

Il bilinguismo degli Egizio-Bizantini non è più fondato sulla coesi-stenza degli statuti, delle religioni e delle tradizioni, ma sulle funzionicomplementari delle due lingue. Sotto i Bizantini non esiste più che unasola cultura greco-latina con una religione dominante, il cristianesimo,avente come lingua liturgica il greco. La conoscenza del greco è un re-quisito necessario tanto nella vita amministrativa e professionale quan-to nell’ambito del culto. Il greco ha potuto fungere ancora da lingua fran-ca, permettendo agli Egiziani di trascendere il frazionamento dialetta-le del copto. Quest’ultimo sarà piuttosto impiegato nei rapporti privati– nelle lettere e negli atti meno solenni – o, all’interno di ambienti reli-giosi, fra chierici ormai distaccati dalla vita attiva o ancora indifferenti(se non ostili) alla paideia profana, quali alcuni settari di gruppi d’ispi-razione gnostica, i monaci o i missionari manichei. In età araba, la cul-tura greca non è più necessaria al mondo degli affari e del lavoro, sicchéa partire dalla fine dell’viii secolo il greco finisce per scomparire dallavita secolare, limitandosi a sussistere confinato ad alcune parti della li-turgia o nell’epigrafia funeraria; mentre il copto, sotto forma di tradu-

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zioni dal greco o di opere originali, prende per alcuni secoli il soprav-vento, fino a essere a sua volta sostituito dall’arabo.

9. Latinizzazione e romanizzazione.

È opportuno in proposito valutare il peso della componente latinanella parlata e nella cultura degli Egizio-Bizantini. Al principio della do-minazione romana, la lingua dei conquistatori era confinata all’ammini-strazione di altissimo livello, all’esercito e ai documenti anagrafici rela-tivi ai cittadini romani allora presenti in numero ancora limitato nel pae-se. Sotto i Bizantini, il latino esce dal contesto d’uso dei cittadini romani(giacché tale compagine è costituita al momento dalla quasi totalità del-la popolazione), ma rimane la lingua dell’esercito almeno fino all’iniziodel vi secolo, facendo pure la sua comparsa all’interno delle parti for-mulari di atti amministrativi o in verbali di processi. Nulla che sia ingrado di indicare un uso diretto molto vivo, quantunque molti glossario manuali di conversazione attribuibili a età bassoimperiale siano rive-latori di una domanda di conoscenza in tal senso. Per lo meno, lo svi-luppo degli studi di diritto romano e delle istituzioni scolastiche hannoconferito al latino – soprattutto nel iv e fino alla metà del v secolo (os-sia per tutto il tempo in cui le autorità costantinopolitane hanno conti-nuato a legiferare in latino) – lo statuto di una lingua di cultura, utileanche nella vita professionale, come testimonia la presenza di manoscrit-ti di autori quali Virgilio, Cicerone, Tito Livio, Seneca il Retore, dell’a-nonimo poeta dell’Alcestis Barcinonensis, di frammenti di giureconsultio di codici di leggi. Greco e copto mutuano all’epoca dal latino una quan-tità di vocaboli traslitterati (termini amministrativi e fiscali, nomi di me-stieri e di prodotti, particolarmente dai settori dell’alimentazione, deltessile e della confezione) o ibridati (come signophylax, carceriere), o an-cora di neoformazioni d’origine latina (suffissi in -arios). Tale latinizza-zione indiretta è un aspetto della romanizzazione del paese (non signi-ficando la parola «romanizzazione» in questa sede altro che il processodi integrazione dell’Egitto all’interno dell’Impero romano d’Oriente).Non la si può separare, ad esempio, dall’introduzione del denaro, chefino alla fine di questo periodo è rimasto in Basso Egitto una unità dicalcolo per il pagamento in moneta divisionale, dalla generalizzazionedell’utilizzo di misure romane tradizionali (così il sextarius, la libra), dal-la comparazione delle misure locali con le misure romane (così l’artabacon il modius, attraverso il sextarius), dallo stile di datazione dei contrat-ti (mediante la formula consolare, senza indicare più l’anno di regno),

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dal trasferimento su codex delle edizioni di opere letterarie e giuridiche(oltre che di numerose categorie di documenti amministrativi e fiscali),dalla popolarità delle corse nell’ippodromo che, con l’eccezione del mi-mo, hanno finito per trionfare su ogni altra forma di spettacolo.

10. I comprensori provinciali.

A partire dall’età dioclezianea, il paese è annesso alla diocesi d’O-riente. Conformemente a quanto si è osservato a proposito del resto del-l’Impero, il paese è ripartito in province di diritto comune: innanzitut-to l’Egitto in senso stretto, o Basso Egitto, e la Tebaide, comprenden-te la valle del Nilo e la Grande Oasi. Durante la prima metà del iv secolo,il Basso Egitto viene suddiviso o riunificato a più riprese. Verso il 380-81, unito alla Libia (e, dalla fine del vi secolo, alla Tripolitania), l’Egit-to geografico diventa diocesi indipendente soggetta al prefetto d’Egit-to, il quale fra il 380 e il 382 riceve il titolo di augustale. Alla fine deliv secolo, le province sono ormai divenute quattro [cfr. carta 1, alle pp.12-13]. Il sud, a cominciare da Ermopoli-Antinoopoli, forma la Tebai-de. Il Delta occidentale con Alessandria è denominato Egitto. La regio-ne orientale fino a Rinocorura è detta Augustamnica. Intorno al 396-98, il Medio Egitto – principalmente con le città di Ossirinco, Eracleo-poli e la Piccola Oasi – viene denominato Arcadia. Tali comprensoriquasi non subiranno più mutamenti fino alla conquista araba, ad ecce-zione di qualche ritocco a favore della Libia nel 539 e di un’ulterioresuddivisione della Tebaide in due «eparchie» nel v secolo (quando an-che l’«Egitto» e l’Augustamnica conosceranno la medesima sorte). L’u-nità del paese è dunque interrotta, ma le ripartizioni bizantine non so-no necessariamente arbitrarie. Esse sono talvolta fondate su quegli stes-si reali particolarismi regionali che hanno contribuito del resto arafforzare: il più notevole è quello che oppone la Tebaide e la GrandeOasi alla regione settentrionale del paese, particolarismo agevolmenteverificabile in termini di lingua (come si è visto, i Tebani parlano il dia-letto saidico), di diplomatica degli atti (i Tebani utilizzano formule e sti-li di registrazione loro propri), di culto cristiano (la Tebaide dispone diun proprio santorale) e di civiltà letteraria (la Tebaide rappresenta unfaro dell’ellenismo, con un gusto spiccato per la poesia epica). Presso gliautori «tebani» si ravvisano una coscienza, o addirittura un certo qua-le orgoglio provinciale.

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11. Il governo.

Prescindendo dal caso del prefetto augustale, i governatori provin-ciali sono detti hegemones (o praesides), nel vi secolo archontes. Si trattadi ufficiali che godono di prerogative unicamente civili. Fino all’epocadi Giustiniano, il praeses e i suoi subalterni sono responsabili dell’esa-zione delle imposte dirette di competenza del prefetto del pretorio d’O-riente (vale a dire dell’annona militare, utilizzata in loco, e dell’annonacivile, destinata principalmente a Costantinopoli). Ma, secondo la testi-monianza recata in particolare dalle petizioni degli amministrati, essi so-no prima di tutto dei giudici. Sotto questo rispetto, il frazionamentoprovinciale – ed è probabilmente questo l’intento di fondo delle auto-rità – ha certamente avvicinato l’amministrazione ai suoi sottoposti, tan-to più che i governatori hanno conservato la consuetudine romana deisopralluoghi d’ispezione (epidemiai) all’interno dei comprensori loro af-fidati.

Dal 308, come nelle altre province dell’Impero, l’amministrazionemilitare è distinta dall’amministrazione civile. Ne è a capo un funziona-rio – detto, secondo i periodi, dux o comes rei militaris – dalle competen-ze territoriali variabili (dall’intero Egitto a raggruppamenti di provincecivili, a una sola provincia). Questi comprensori militari portano talorail nome di limes (limiton in greco). Come al praeses, anche al dux sonoattribuite ampie competenze giudiziarie e finanziarie. Egli ha facoltà digiudizio sulle questioni che implicano personale militare. Talora gesti-sce i beni imperiali raccolti presso le varie domus divinae come pure al-cuni diritti indiretti spettanti alla cassa delle sacrae largitiones (così i vec-tigalia sulla circolazione, sulla fabbricazione dei papiri). Sotto Giusti-niano, inoltre, può essere talora reclutato tra i direttori delle dogane(arabarchi). A causa delle sue prerogative militari, il dux gode di mag-gior prestigio rispetto al praeses, divenendo anche un soggetto fecondoper gli autori egiziani di encomia e di altre opere di genere epidittico.

Come in altre province, Giustiniano attraverso il suo editto XIII hacercato di sopprimere tale dualità amministrativa unendo le funzioni deldux e del prefetto augustale a nord o assoggettando i praesides al dux, co-me in Tebaide, nell’ultimo caso sotto il titolo di dux augustalis. Tale rifor-ma – attuata in Egitto non senza precedenti: è risaputo che prima del-l’editto XIII vennero tentate varie altre combinazioni dello stesso ge-nere – pare ancora in vigore sotto Giustino II e Tiberio II. I rapportitra i duces e i governatori civili sono più difficili da cogliere sotto Mau-rizio, Foca ed Eraclio. Se il dux continua a essere presente, è innegabi-

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le la scomparsa della figura del praeses. Per lo meno, siamo sicuri che unodei ministeri precipuamente esercitati dai praesides, quello della giusti-zia civile, se pure non è scomparso del tutto deve essere almeno a ri-schio, come testimoniano non soltanto l’assenza di verbali processualirelativi a cause civili ma anche – più positivamente – la diffusione del-le procedure di arbitraggio o di conciliazione chiaramente destinate aevitare il ricorso alle giurisdizioni civili.

Dopo l’occupazione sassanide del 619-29, la breve restaurazione del629-41 è molto oscura sotto il profilo delle istituzioni. Immensi poteriamministrativi e fiscali, estesi almeno al Basso Egitto se non all’interopaese, sono concentrati nelle mani dell’allora arcivescovo di Alessan-dria, Ciro, locale fautore del monotelismo. Non si comprende in qualemaniera l’attribuzione di tali prerogative potesse conciliarsi con la strut-tura governativa tradizionale.

Prive di lacune nel corso del iv secolo, le liste di duces e di praesidesrelative ai secoli successivi sono meno ricche di dati e spesso confuse.Vi si può notare immediatamente la scarsa presenza di nativi egiziani.Al contrario, pare che nel vi secolo l’Impero abbia spesso deciso di in-vestire di tali dignità i notabili locali – i quali, d’altra parte, non riman-gono in carica a lungo, fatto che può tradire una certa diffidenza da par-te del governo centrale costantinopolitano. Le attività di governo inEgitto sembrano aver favorito carriere più elevate, come testimonianoil caso del celebre Flavio Eutolmio Taziano nel iv secolo e, nel vi, quel-lo di Strategio, già prefetto augustale, poi comes sacrarum largitionumsotto Giustiniano.

Fino a Giustiniano, l’amministrazione provinciale riflette la dualitàdel sistema di governo. Esiste un officium (taxis) civile e, parallelamen-te, un officium militare. Nomi di membri del personale dei due officiaemergono frequentemente nei papiri, spesso come notabili e possiden-ti, per quanto paiano non troppo numerosi. La maggior parte delle fun-zioni amministrative locali sono infatti sostanzialmente imposte alle mu-nicipalità sotto forma di prestazioni di servizi.

12. Le città.

Le città sono ben note nel iii e nel iv secolo grazie ai papiri di Ermo-poli o di Ossirinco, che documentano efficacemente le deliberazioni deisenati locali (boulai). Nel iv secolo compaiono i magistrati caratteristicidell’età bizantina, l’exactor (erede dello stratega, che era un agente im-periale) per la fiscalità, il curator (o logistes), agente per le finanze e l’e-

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dilizia, il defensor (dapprima syndikos, poi ekdikos) per la giustizia, il ri-parius (incaricato di polizia). Attraverso gli obblighi dei munera o litur-gie imposte alla classe dei curiali, a quella dei piccoli notabili o demotaie alla rimanente popolazione, le città prendono parte al funzionamentodella macchina statale, alla quale forniscono, ad esempio, i percettori ericevitori (apaitetai e hypodektai) così come i gestori del cursus publicuso del demanio imperiale. In cambio, le campagne del territorio munici-pale (che mantiene l’antica denominazine di nomo), soggette agli irenar-chi e ai praepositi pagorum municipali (essendo detti pagi i distretti isti-tuiti a sostituzione delle antiche toparchie), passano sotto la giurisdizio-ne del capoluogo, specialmente per quanto concerne la polizia rurale ela fiscalità. È attraverso le città che si attua il processo d’integrazionedell’Egitto in seno al resto del mondo romano-bizantino, è nel capoluo-go che vanno a concentrarsi le classi abbienti, le ricchezze, le istituzio-ni scolastiche, i divertimenti o gli spettacoli allestiti secondo il costumeromano, come le corse nell’ippodromo, che a poco a poco prendono ilposto delle tradizionali competizioni atletiche o letterarie.

Fino alla fine della dominazione bizantina, le città rimangono, alme-no idealmente, il fondamento del sistema amministrativo locale. Giusti-niano non è forse, secondo i decreti governativi egiziani, il «sovrano del-le città che sorgono sotto il sole»? Orgogliose della loro antichità, adu-late dai patriografi, i quali fabbricano per esse delle genealogie mitiche(così per Ermopoli la Cosmogonia di Strasburgo), le città ostentano an-cora le loro vanità protocollari, ornandosi di epiteti d’origine sofistica– clarissimae («splendide»), kallistai («bellissime») – o cristiana (philo-christoi). Ne vengono fondate di nuove, promuovendo grandi villaggi alrango superiore (le due Teodosiopoli; Koussai). Sotto il regno di Giu-stino II, Ossirinco viene ribattezzata Nuova Giustinopoli. Ma la realtàera all’altezza di tali pretese? Le ricognizioni archeologiche nelle areeurbane a tutt’oggi effettuate sono insufficienti. Tuttavia, da ciò che sisa riguardo ad Alessandria o a Edfu (Apollinopoli Magna), sembrereb-be di poter dedurre che le città alla fine del periodo in esame non abbia-no saputo rispettare né il loro ancestrale assetto monumentale né i per-corsi delle vie trionfali ereditate dall’età del principato augusteo. Comegià si è detto a proposito dei villaggi, l’abitato urbano degenera nell’a-narchia e nella mediocrità.

A cominciare dalla fine del v secolo, le istituzioni municipali si evol-vono. Una nuova figura di ufficiale pubblico, il pagarca, che non sem-bra essere esattamente l’erede del praepositus pagi, viene investito del-l’amministrazione delle zone rurali. Alcune magistrature (segnatamen-te il defensor) e i curiali (politeuomenoi) continuano a sussistere, soprav-

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vivendo anche alla conquista araba, mentre il curator già nel vi secolonon appare più (quantunque venga talora ancora evocata la sua carica,la logisteia). Pare, ma è una supposizione che può essere sostenuta soloin via congetturale, che le sue prerogative siano passate di fatto nellemani del pater poleos. La vicenda dell’exactor è poco meno oscura, ben-ché se ne possieda una probabile attestazione nel vi secolo (P.Strasb.,486). In assenza di testimonianze positive, si è pensato talvolta a unacompleta scomparsa dei senati locali (le boulai), ma alcuni documenti,inediti o nuovi, fanno menzione del consiglio di Licopoli (fine del v se-colo) e di quello di Antinoopoli (fine vi e inizio vii secolo). Si ha taloral’impressione che alcune città scelgano di condividere determinate isti-tuzioni (così Anteopoli e Apollinopoli Parva hanno in comune il mede-simo tallone monetario). Come altrove in Oriente, è sensibile nel corsodei secoli una crescita del ruolo pubblico dei vescovi, soprattutto nel-l’ambito dei lavori pubblici, e tuttavia non nelle sedi di giustizia, cometroppo spesso si crede. Sono evidenti in particolare le ingerenze dei fun-zionari o dei rappresentanti locali dei governatori (topoteretai), ovverodei governatori stessi, nei confronti delle istanze finanziarie che prov-vedono a favorire. Ad Anteopoli, sotto Giustiniano, alcuni servizi mu-nicipali quali la remunerazione del medico pubblico, la prigione, il man-tenimento del locale martyrium gravano a carico dello Stato. Nello stes-so modo, il prefetto di Alessandria contribuisce ad approvvigionare dicavalli l’ippodromo cittadino a proprie spese. In città come Anteopoli eOssirinco, le responsabilità finanziarie e amministrative (pagarchia, ma-gistrature, polizia, servizi postali) sono trasferite sulle «case» (oikoi),vale a dire a carico del patriziato locale, delle Chiese e dell’imperatore.Le incombenze affidate alle «case» assumono la forma di munera di lun-ga durata, assolti in maniera collegiale o a rotazione. Si ha, insomma,l’impressione che le amministrazioni urbane nel vi secolo soffrano didifficoltà di funzionamento e che lo Stato abbia avuto necessità di met-terle a carico dei grandi possidenti o di sottoporle a gestione o assisten-za dirette. Alcuni studiosi non riconoscono alle città dell’epoca che un’e-sistenza formale; il che non impedisce che esse rivestano un ruolo poli-tico e militare notevole nel corso del travagliato vii secolo, nel quale agi-scono quasi come piccole repubbliche. In che modo tale capacità di azio-ne autonoma si concili con l’evoluzione istituzionale che si è appena de-scritta, è quanto bisognerà prendere in esame.

All’interno del sistema municipale, i villaggi (komai) sono subordi-nati al capoluogo soprattutto sotto il profilo fiscale, posizione alla qua-le cercano talora di sottrarsi, come dimostra il dissidio che sotto Giusti-niano oppone l’abitato di Afrodito ai pagarchi di Anteopoli. La stessa

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subordinazione vige a livello religioso, poiché i villaggi dipendono dalvescovo della città, a meno che non si trovino nelle vicinanze di un ce-lebre martyrium o non divengano, per la contiguità a un monastero im-portante, una sorta di residenza episcopale (così i Memnonia a ovest diTebe, sito nei pressi del quale dimorano talora i vescovi di Ermonthis).Tuttavia, la vita del villaggio egizio-bizantino rimane un campo di ricer-ca aperto. La molteplicità delle funzioni economiche delle komai, lungidall’essere esclusivamente agricole, non dovrebbe essere sottovalutata[cfr. sopra]. Le loro istituzioni, che parrebbero fondate sul concorso dicollegi di proprietari, chierici e artigiani, sono ancora poco note.

13. Finanze pubbliche.

I redditi dello Stato erano ben lontani dall’avere tutti il carattere del-l’imposta, prelievo pubblico obbligatorio senza compensazione: così leentrate del demanio imperiale o i canoni enfiteutici o ancora – nel iv se-colo e in tempi di svalutazione monetaria – gli acquisti forzati di metal-li preziosi. I diritti indiretti, i redditi derivanti dalle esazioni doganaliinterne ed esterne sono noti soltanto attraverso allusioni, ma con preci-sione sufficiente a dedurre che dovessero rappresentare un gettito di vo-lume non indifferente. Benché tali entrate interessino in linea di prin-cipio la cassa delle sacrae largitiones, la loro gestione coinvolge anche ilgovernatore militare (come già si è visto precedentemente) e l’arabarca.

I papiri ci rendono edotti soprattutto intorno alla fiscalità agraria.Così come in altre province dell’Impero, si tratta di una fiscalità di tas-so o di quotità, e non di ripartizione. Le unità tassabili sono le arure re-gistrate al catasto, quantunque certe anomalie catastali possano sugge-rire che l’arura sia stata anche utilizzata come unità di calcolo, e non ef-fettiva (ciò che avvicinerebbe tale procedimento alla iugatio). Unafiscalità personale retta dai medesimi principî è esistita nel iv secolo, masembra aver presto ridotto il suo campo di applicazione agli strati infe-riori della popolazione rurale. Nel vi secolo se ne sa ormai ben poco.Benché in linea di principio annualmente fissati dalla prefettura del pre-torio d’Oriente, i tassi erano sostanzialmente invariabili, anche se conil processo di stabilizzazione monetaria avviato alla fine del iv secolo sifa strada l’idea di un «canone», ossia di un’imposta fissata una volta pertutte e secondo la massima esattezza possibile, di cui non potesse auto-rizzarsi l’aumento se non sotto forma di supplementi occasionali pro-porzionati (o superindizioni). Nonostante la sua reputazione di oppres-sore fiscale, Giustiniano stesso ha rispettato in Egitto la tradizione del

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canone di cui si è detto. Generalmente, lo storico fiscalista è sorpresodall’immobilismo del vi e dell’inizio del vii secolo, dal momento che idocumenti fiscali registrano dati fondiari e catastali fossilizzati, risalen-ti talora al iv secolo. Solo alla fine della dominazione bizantina la situa-zione di urgenza cagionata dall’invasione araba ha indotto a una fisca-lità di requisizioni (dianomai) assegnate direttamente sulle circoscrizio-ni fiscali.

Le entrate non sono convogliate a una cassa centrale, ma vengonodestinate a spese limitate ad ambito locale, da gestirsi su scala provin-ciale o addirittura esclusivamente urbana (titulus). Tuttavia, almeno sot-to Giustiniano, alcuni tituli paiono essere stati stornati da quella cheavrebbe dovuto essere la loro funzione dichiarata.

Le imposte del iv secolo vengono articolate in numerose voci, cia-scuna delle quali viene fatta oggetto di assegnazioni distinte e reca ilnome del titolo di carico presunto («oro mulare», «primipilon», «ma-rinai d’India»). Nel vi secolo non esistono che due tipi di riscossione,l’una calcolata in prodotti agricoli – specialmente in derrate granarie,con assegnazioni complementari in orzo, foraggio, vino e carne per lamilizia stanziale (talora retribuita di fatto in oro) –, l’altra in moneted’oro (kanonika). Delle entrate, alcune devono andare a incrementarela cassa delle largitiones, che fino all’epoca di Giustiniano ha in Ales-sandria un agente preposto a tale compito specifico, e consistono es-senzialmente di versamenti in metalli preziosi (in particolare il celebrecrisargiro, fino ad Anastasio). Altre interessano la prefettura del pre-torio d’Oriente, comprendendo una parte dei kanonika monetari (di-visi all’occorrenza con le largitiones) e i tributi in natura, assegnati al-l’annona militare e soprattutto al celebre titulus dell’annona civile (em-bole), essenzialmente destinata al sostentamento di Costantinopoli edunque vitale per l’Impero. Giustiniano tratta diffusamente dell’em-bole nel suo editto XIII, ove dichiara che questa deve essere «la primacura» dell’augustale e del dux, fissandone l’ammontare a 8 milioni (diartabe) di grano (circa 26 milioni di modii): una cifra che non sembradistare molto da quella dell’annona del principato. Molto in vista nelvi secolo, il demanio imperiale rappresenta il terzo dicastero finanzia-rio: sotto la direzione dei governatori militari, coadiuvati da dieceti ophrontistai, è l’istituzione che fornisce all’imperatore gli introiti prove-nienti dalle varie domus divinae.

Tranne l’annona civile, la cui spedizione venne sino a Giustinianoaffidata a un’associazione internazionale di liturghi specializzati – i na-vicularii o navarchi –, poi a trasportatori remunerati, la percezione, ladistribuzione, il trasferimento dei proventi delle riscossioni al di fuori

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delle province egiziane sono assicurati da personale provveduto dallamunicipalità.

L’onere economico della fiscalità fondiaria egizio-bizantina offre l’ap-piglio a varie congetture, benché risulti difficile valutarne l’entità effet-tiva per la scarsità di informazioni concernenti i rendimenti agricoli. Bi-sogna peraltro notare che l’annona militare viene erogata in loco, senzaperciò rappresentare per il paese una perdita secca.

14. L’esercito.

Secondo un governatore della Tebaide di età giustinianea, le truppelocali hanno il compito di «salvaguardare la provincia e di respingere leincursioni barbariche». L’Egitto bizantino non si trovava a contatto congrandi potenze. Se pure aveva dovuto, raramente, sopportare le scorre-rie dei Blemmi e, con maggiore frequenza, le aggressioni di popolazionidel deserto libico ai danni delle comunità delle oasi e dei monasteri, laminaccia barbarica non era affatto incalzante. Per questo motivo, le trup-pe d’Egitto erano poco numerose. L’esercito svolgeva principalmentefunzioni di difesa territoriale, talora di polizia, vigilando sul manteni-mento dell’ordine, come testimoniano all’epoca di Costanzo II gli archi-vi di Abinneo, cosicché gli specialisti tendono a ridurre la sua vicendaa una lenta smobilitazione che avrebbe lasciato il paese pressoché im-preparato a far fronte alle successive invasioni sassanide e araba. Larealtà è senz’altro più sfumata. I graffiti e gli ostraka delle oasi, oltre adalcuni papiri, rivelano che i soldati del iv, del v o anche del vi secolo so-no spesso intenti a pattugliare la valle del Nilo o le frontiere desertichedel paese. Periodicamente vengono inviati presso postazioni molto lon-tane dalle sedi ordinarie delle loro unità di servizio (agrariae). In defini-tiva, hanno le loro incombenze.

L’esercito del iv secolo è noto soprattutto dall’elenco delle guarni-gioni offerto verso il 401 dalla Notitia Dignitatum per l’Oriente, da pa-piri provenienti principalmente dal Fayyum e dalla Tebaide, e dai for-midabili resti di fortezze «tetrarchiche» nelle oasi, a Babilonia (a suddel Cairo), nel tempio di Luxor o, in precedenza, a File. Composto didistaccamenti legionari e, secondo una tendenza generalizzata delle for-ze armate bizantine, di numerose unità di cavalleria, esso aspira all’«oc-cupazione permanente di tutti i punti del territorio» (R. Rémondon),con una forte concentrazione di truppe all’estremo sud, verso le localitàdi frontiera di Siene e di File. Tali corpi di limitanei recano spesso no-mi «etnici» («Quadi» delle oasi, «Mauri» di Ermopoli). Gli Egiziani

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stessi, del resto, designano talora i soldati come «barbari». Il che non ècerto elogiativo. Ma è pur vero che il comportamento dei soldati di pat-tuglia può dare luogo a incidenti violenti, soprattutto quando si trovi-no ad alloggiare presso civili. Pure, l’elemento militare si integra rapi-damente nel contesto locale dal quale, del resto, viene in parte recluta-to. A iniziare dal v secolo, i soldati si imborghesiscono, acquistanoterreni o entrano a far parte dell’alta amministrazione militare (archividi Taurino di Ermopoli, archivi inediti di Nemesione di Licopoli, l’unoe l’altro ufficiali dei Mauri). Praticano senza problemi un secondo lavo-ro, come quello di marinaio nella regione di Siene-File (archivi di Pater-muthis). Poco per volta, la distinzione di statuto fra le unità scomparesotto la denominazione unica di numerus (arithmos), così come i toponi-mi indicanti i luoghi di acquartieramento soppiantano le designazioniproprie. Nel v secolo fanno la loro comparsa nuove unità distaccate dal-l’esercito mobile (comitatenses), quali i Leontoclibanarii (un contingentedi cavalieri catafratti), i Daci e i Transtigritani nel Fayyum, forse per com-pensare il logoramento delle antiche unità o per far fronte a minacceprovenienti dal deserto. Nello stesso periodo, un numerus sinaitico diFaraniti si insedia nel monastero di Bau (Pebou) nell’Alto Egitto: perfi-no le fondazioni monastiche vengono dunque tenute in conto nella stra-tegia bizantina. Anche questi corpi d’élite si imborghesiscono, come ave-vano fatto i loro predecessori.

Giustiniano riforma un sistema senza dubbio costoso per i contri-buenti, oltre che probabilmente greve e inefficace. Nel quadro di unastrategia di economia e di mobilità, molti numeri – come quelli di stan-za a Ermopoli e Anteopoli, o come i Faraniti di Bau – vengono sciolti ei membri delle due prime unità sono messi in congedo. Li rimpiazzanounità equestri d’élite, reclutate in occasione delle guerre di riconquista,recanti il nome dell’imperatore (Scythae Iustiniani, Numidae Iustiniani,Bis Electi Iustiniani). Il dispositivo dell’Alto Egitto muta ben poco. Pa-rallelamente, si sviluppano in un contesto apparentemente caotico le for-ze paramilitari, gli ausiliari armati (symmachoi), i buccellari, i quali co-stituiscono le scorte degli ottimati ma vengono assimilati a una miliziaregolare [cfr. cap. v, pp. 180-81]. A causa dei disordini civili dell’iniziodel vii secolo, la situazione di emergenza obbliga a fare ricorso a forzeaccessorie eteroclite in grado di includere anche civili sbrigativamentereclutati, fino a giungere addirittura alle fazioni dell’ippodromo, soste-nitrici dei diversi colori in lizza, che ritroveremo più tardi coinvolte nel-le peripezie militari della conquista araba.

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15. La società.

Una minoranza della popolazione egizio-bizantina è costituita da in-dividui di statuto servile, presenti soprattutto in ambito urbano e do-mestico. La schiavitù, che risulta meno visibile di quanto non fosse inetà romana, aveva forse subito un declino? Il quesito, particolarmentecontroverso, meriterebbe di essere vagliato con accuratezza. La maggio-ranza degli Egiziani è composta di liberi, come rivela la larga diffusio-ne del gentilizio Aurelius (Aurelia). Tuttavia, gli Aurelii che figuranoquali coloni dei grandi possedimenti del vi secolo sono giuridicamentecostretti a garantire la propria «presenza sul posto», restrizione che lipriva di un elemento essenziale della libertà civile senza peraltro ridur-li in servitù (e permettendo loro, in questo modo, di serbare la propriafacoltà contrattuale). I membri del clero non sono degli Aurelii, fattoche può derivare da una diminuzione della loro responsabilità civile odal suo parziale trasferimento alle istituzioni religiose cui essi fanno ca-po. Gli alti funzionari, i militari, alcuni magistrati e i membri delle clas-si privilegiate (clarissimi, illustres) o di professioni particolarmente remu-nerative e prestigiose (così gli argiroprati, che incarnano l’alta finanzadi Alessandria) portano il gentilizio Flavius (Flavia), mantenuto per qual-che tempo pure dai dignitari arabi. A tale criterio fondamentale di di-stinzione sociale si aggiunge tutta la gradazione degli epiteti onorifici edelle dignità, che va dalla classe dei piccoli notabili municipali (thauma-siotatoi, aidesimotatoi) alle famiglie dei clarissimi che, sino all’occupazio-ne sassanide, formano un vero e proprio ordine sociale, una sorta di no-biltà investita di diritti e doveri a lei peculiari. Dispensate da funzionipubbliche e da liturgie personali, le donne godono di un’ampia autono-mia economica e giuridica: non hanno più bisogno, ad esempio, di tuto-ri, e la vedovanza le emancipa totalmente. La vedova ricca e potenterappresenta un tipo sociale caratteristico dell’epoca.

Dall’alto verso il basso della scala sociale, gli individui vengono perla maggior parte raggruppati in associazioni: curiali con i loro principa-les, corporazioni di artigiani, koina di proprietari fondiari, di coloni ru-rali, di necrofori, confraternite di devoti dell’uno o dell’altro santo. Imilitari hanno una sorta di rappresentanza sindacale affiancata alla ge-rarchia dei gradi. Alla stessa maniera, le fonti a disposizione trattanocome collettività anche le vedove e i lebbrosi. Tutti sanno che il feno-meno associativo è stato incoraggiato o istituito d’autorità dallo Statotardoromano, sempre alla ricerca di garanzie fiscali di massima e di con-tinuità nell’esecuzione dei munera. Di fatto, la fiscalità egiziana, le man-

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sioni pubbliche e determinate imposte gravano su specifici corpi profes-sionali, ad associazioni di contribuenti o di agenti liturgici («capitoli»di proprietari, «tribù» municipali, collegi di navicularii). Allo stesso mo-do, le forniture di vettovagliamenti destinate alle città o il controllo deiprezzi vengono negoziati tra le municipalità e le corporazioni professio-nali interessate.

Si constata all’interno di tutti gli ambienti – anche presso il clero,laddove tale tratto non rappresenta una normale consuetudine – unatendenza alla trasmissione ereditaria e in loco delle condizioni e delleprofessioni che pare rispondere al principio della vinculatio (assoggetta-mento alla condizione) degli individui voluta dal legislatore romano-bi-zantino. Ma non si tratta, in sostanza, che di una tendenza: nella realtàdei fatti, né la mobilità delle persone intraprendenti né la loro libertà discelta paiono a questo punto irrimediabilmente ostacolate. Messo in rap-porto all’apparente intransigenza delle leggi, il caso dell’Egitto presen-ta dunque un enigma sociale che necessita di ricerche sulle strutture fa-miliari (e segnatamente sui diritti e sui doveri di primogeniti e di cadet-ti), sul funzionamento interno delle associazioni e sulle surrogazionigiuridiche atte a eludere la vinculatio. Addirittura il significato deglistessi termini professionali potrebbe essere messo in discussione, o al-meno non dovrebbe essere preso alla lettera. Così i vocaboli per «colo-no» (georgos) o «pastore» (poimen) paiono talvolta applicati a semplicilocatari di terreni o a possessori titolari di greggi, senza alcun nesso tec-nico con l’esercizio dell’agricoltura o della pastorizia.

Secondo le regole di cortesia dell’epoca, che rappresentano un’ideo-logia implicita, gli individui sono tenuti a esprimere scrupolosamente,tanto nei rapporti diretti quanto nella corrispondenza, la loro deferen-za o la loro sottomissione nei confronti dei funzionari (i quali prendonopoco per volta il sopravvento sui notabili municipali), delle donne spo-sate e delle persone istruite, giuristi e letterati. In compenso, ci si atten-de da parte dei privilegiati ogni sorta di manifestazioni di «filantropia».Un grande possidente del vi secolo saprà in questo modo ridurre le pro-prie esigenze o annullare i suoi affitti, se le circostanze lo raccomandi-no o se i suoi coloni minaccino velatamente la fuga (come risulta in par-ticolare dall’archivio degli Apioni), o ancora investire cospicui quanti-tativi delle sue ricchezze in opere pie quali gli ospedali o gli ospizi, il cheè quanto rivela con chiarezza il codice fiscale di Ermopoli (P.Sorb., II,69). Questo conformismo di principio è temperato da puntuali accessidi turbolenza rurale e urbana: violenze che talora, più che di personalidissidi fra individui, prendono spesso il carattere di conflitti d’interes-se fra gruppi economici e professionali.

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16. Educazione e vita intellettuale.

Nel iv secolo l’Egitto diviene il vivaio dei talenti dell’Impero d’O-riente, in particolare dei talenti poetici. Chiaramente avvertita dagli an-tichi (Eunapio), tale vocazione è illustrata, in effetti, da nomi quali Clau-diano o Nonno. Secondo la fortunata espressione di Alan Cameron, que-sti poeti sono dei wandering poets, vale a dire poeti itineranti, intesi avendere la propria abilità nelle città o presso i grandi dell’Impero, avididi encomi. Tuttavia, l’Egitto letterario si riduce a una sola provincia, laTebaide, e in particolare alle città di Panopoli (patria di Nonno, di Ciro,di Orapollo, di Pamprepio), Ermopoli e Antinoopoli. Pochi gli uominicelebri nel Basso Egitto, se non ad Alessandria, specializzata piuttostonell’insegnamento della medicina – la «iatrosofistica» (Magno di Nisibi,Gesio di Petra) – e, a cominciare dalla fine del v secolo, nei commenta-ri filosofici (Ammonio, Giovanni Filopono, David, Elia, Stefano).

La scuola e la vita letteraria recidono il legame con le tradizionali isti-tuzioni agonistiche, che preparano ormai alle carriere pubbliche, al fo-ro o al notariato. Testimonia tale orientamento, libresco e pratico al tem-po stesso, il passaggio dal volumen al codex, che è un formato utilitariod’origine romana. I prodotti letterari del iv e v secolo sono fortementetributari dei modelli scolastici profani tradizionali, i nostri attuali «clas-sici» (Omero, Euripide, gli oratori), della Commedia Nuova, che non siè inscritta direttamente nella nostra tradizione (Menandro), dell’arteoratoria della seconda sofistica e dei romanzi greci. D’altra parte, si falentamente strada lo studio del diritto romano, praticato da personagginumerosissimi e influenti nella seconda metà del vi secolo, gli schola-stikoi. A cominciare dal regno di Giustiniano, i manuali come quello diGaio, le opere dei giuristi classici e le glosse, già molto stimate dagli Egi-ziani, vengono sorprendentemente rimpiazzate di comune accordo dalDigesto e dal Codice. Le Novelle e gli Editti diventano a loro volta og-getti di studio, come dimostra la carriera costantinopolitana di Teodo-ro di Ermopoli, epitomatore delle Novelle, o una copia su codice dell’e-ditto XIII recentemente pubblicata da J. Rea.

Parallelamente, il cristianesimo esercita la sua influenza. Senza rifiu-tare i modelli profani e gli esercizi propedeutici della scuola tradiziona-le, il cristianesimo egiziano tenta con successo di adattare la scuola el’arte oratoria ai bisogni specifici della catechesi, della controversisticae soprattutto dell’omiletica episcopale. Le Scritture si introducono nel-le scuole e i padri esperti di retorica – come Melitone di Sardi, Grego-rio di Nazianzo e Giovanni Crisostomo – conquistano lo statuto di mo-

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delli oratorî. Il poeta tebano Dioscoro di Afrodito (cristiano, d’altro can-to), attivo all’inizio della seconda metà del vi secolo, è l’ultimo uomo dilettere egiziano noto a dar prova di una solida cultura profana. La pre-senza di questo tipo di letterati non è più attestata nel vii secolo, epocanella quale, con il declino della lingua greca, si rarefanno anche le oc-correnze di copie di opere classiche.

17. Il cristianesimo.

Non si ricorderanno in questa sede che i caratteri istituzionali, eco-nomici e sociali del cristianesimo egizio-bizantino. Le questioni dottri-nali, le controversie teologiche e disciplinari nelle quali si è trovata coin-volta la Chiesa d’Egitto – l’origenismo, lo scisma meleziano, l’arianesi-mo, il monofisismo – eccedono per la gran parte i limiti del quadroegiziano e vengono trattati nel capitolo ii.

Dalla fine del ii secolo il cristianesimo è manifesto ad Alessandriacon i suoi tratti distintivi, il suo alto livello culturale e il suo interesseper la filosofia, che cerca di introdurre nell’ambito della riflessione teo-logica. Nella valle del Nilo, il primo cristiano di cui rimane testimonian-za documentaria è un alessandrino, Antonio Dioscoro figlio di Origene,il quale al principio del iii secolo prende parte ad Arsinoe a un’assegna-zione di munera concernenti le forniture idriche urbane. All’interno delmedesimo nomo, le istituzioni cristiane ordinarie sono presenti sul luo-go fin dalla metà del secolo. Le persecuzioni del 303-11 hanno duramen-te colpito la gerarchia e i luoghi di culto, ma le posizioni sulle quali ilcristianesimo si è ormai attestato non sono state toccate. Dal 320 in poiil clero fa la sua comparsa nei documenti, assieme ai primi monaci. Unlieve indizio lessicografico, l’uso di koimeterion nell’accezione di «tom-ba», è sufficiente a rivelare che nella medesima epoca il cristianesimogià permea profondamente la società.

A cominciare dalla seconda metà del iv secolo, l’organizzazione ec-clesiastica emerge in piena luce e nelle forme comuni a tutto l’Oriente.La Chiesa d’Egitto presenta tuttavia qualche peculiarità sotto il profilodel culto, della predicazione e delle istituzioni (non si è così ancora ri-scontrata la presenza di un diaconato femminile). Ad eccezione della Ci-renaica, essa non conosce metropoli ecclesiastiche. La giurisdizione me-tropolitana appartiene al vescovo di Alessandria. Detto talora arcivesco-vo (a partire dalla fine del iv secolo), poi patriarca (dal vi secolo) e, finoai nostri giorni, papa, egli è una figura che gode così di un’autorità mo-narchica e immediata sugli altri vescovi, autorità nel vi secolo in parte

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devoluta a un vicario (diadochos) e moderata dai sinodi. Il vescovo diAlessandria, che si dichiara successore di san Marco, gode di grande pre-stigio presso le altre Chiese (a meno che non sia scismatico), alle qualiannuncia la data della Pasqua a mezzo di solenni heortastikai («letterefestali») in greco di cui ci sono stati conservati alcuni preziosi esempla-ri, databili dal vi secolo all’viii.

La vita cristiana si svolge nel contesto della città, che è normalmen-te sede episcopale (benché siano pure documentati titoli vescovili rela-tivi ad agglomerati urbani di statuto poco chiaro, quali Siene o File). Re-clutato inizialmente tra i notabili laici, poi di regola fra i monaci, il ve-scovo provinciale egiziano non è affatto tenuto a essere una cima didottrina né, allo stesso modo, un modello di austerità (il che è natura-le), ma deve padroneggiare perfettamente, unitamente alle Scritture,l’arte della parola pubblica (sermoni, panegirici di santi). Sotto questopunto di vista, e nonostante qualche espressione di degnazione rilevatada chi scrive nell’ambito della moderna letteratura scientifica, il vesco-vo non potrebbe considerarsi un illetterato. Anche i Copti del Medioe-vo – età nella quale i pastori che avessero ricevuto una buona formazio-ne erano ormai rari – hanno conservato come modelli da imitare le ope-re di buoni oratori ecclesiastici, numerosi alla fine dell’epoca bizantina,quali furono i presuli Giovanni di Ermopoli o Costantino di Licopoli.

Il vescovo è assistito da un clero (kleros) che si intuisce numeroso –in particolare per quanto concerne i diaconi – e organizzato in gruppicorporativi tra i quali si distingue un corpo dirigente di egumeni (il ter-mine non era all’epoca connesso con gli istituti specificamente monasti-ci). Buona parte dei chierici sembra vivere di piccoli mestieri: è noto ilcaso di un gruppo di preti artigiani linaioli a Ermopoli, verso la fine delvi secolo e all’inizio del vii. Si sa inoltre di stenografi, esattori o inten-denti demaniali. Il loro ministero richiede il rispetto dei canoni eccle-siastici e la conoscenza di determinate parti della Scrittura (a memoria,come generalmente previsto dalla scuola dell’Antichità).

I luoghi nei quali viene celebrata la sinassi (ekklesiai, hagiai ekklesiai,katholikai ekklesiai) non sono numerosi. Tranne che ad Alessandria, nonsi configurano come un sistema parrocchiale compiuto. Non recano ilnome del santo al quale sono dedicati ma unicamente dei signa simboli-ci – Homonoia, Anastasia, Eirene – o allusivi a particolarità esteriori ostoriche, ovvero al fondatore. In generale, tali monumenti non prolun-gano la topografia cultuale anteriore, contribuendo inoltre a disorganiz-zare il contesto urbano o paesano, strutturato in passato in funzione del-le architetture templari e dei loro viali d’accesso, o dei monumenti civi-ci e delle vie trionfali, già in auge sotto il principato. Le ricchezze che

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rappresentano la fonte di sostentamento delle chiese, tutelate dalla prohi-bitio alienandi, sono assai più consistenti di quelle di cui dispongono imonasteri e i martyria, peraltro molto più numerosi. Quantunque incli-ne a proteggere i beni delle chiese, lo Stato li ha comunque assoggetta-ti assai per tempo ai munera publica, e fra questi alla liturgia particolar-mente onerosa del trasporto del grano prevista dall’embole.

Fenomeno più tardivo di quanto non suggerisca l’agiografia (ad esem-pio, per san Mena), e guardato inoltre sfavorevolmente da autorità qua-li sant’Atanasio e l’archimandrita Scenute di Atripe, il culto delle reli-quie dei martiri – o talvolta di monaci o di prelati eminenti – ha contri-buito grandemente al prestigio religioso dell’Egitto. Se ne hannotestimonianze evidenti in Alessandria alla fine del iv secolo attorno aimausolei di Giovanni il Battista e di san Marco, ma il culmine si ponetuttavia tra la fine del vi secolo e l’inizio del vii. Tale culto produce unaquantità di edifici particolari, i martyria e gli oratorî. Si tratta di tombee di cappelle localizzate di preferenza al di fuori dei centri abitati (co-me San Mena, nella steppa della Mareotide), nei cimiteri (così Ta Bouko-lou, a oriente di Alessandria). Alla venerazione delle reliquie si accom-pagnano riti particolarmente coloriti, quali le commemorazioni annualicon tanto di veglie, agapi, letture e fiere, le incubazioni oracolari e te-rapeutiche (così a Canopo/Menuthis presso il sacello dei santi Ciro eGiovanni), una sorta di turismo religioso (come a San Mena). La popo-larità di certi santi, come Mena e Febammone, si estende all’intero Egit-to, per quanto vi siano città e addirittura villaggi che onorano ciascunoil suo santo prediletto (Filosseno a Ossirinco, Colluto ad Antinoopoli),ciò che comporta una specifica onomastica locale e vari particolarismiconcernenti il culto e le feste.

Soltanto ultimamente si è potuto valutare appieno il ruolo assuntonella diffusione del cristianesimo e del culto dei martiri dalle confrater-nite di laici (philoponoi, spoudaioi) che si impongono come regola di vi-ta l’assiduità con la chiesa o con la cappella e alcune forme di partecipa-zione alla liturgia. Nove di tali associazioni (o philoponeiai) sono al pre-sente attestate per Ermopoli. I loro membri vengono reclutati da tuttele classi sociali, alta aristocrazia compresa.

18. Monachesimo.

Questo movimento di «asceti celibatari» che fuggono il mondo, eche ha fatto dell’Egitto una sorta di seconda Terra Santa, si annuncianel iii secolo per poi strutturarsi nel secolo successivo prima degli scismi

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e delle controversie cristologiche. L’agiografia ne mette in relazione lediverse forme con alcune figure di fondatori quali Pacomio, Macario oAntonio, «eroi» le cui reali personalità storiche ci sfuggono in larga par-te. Quella di Antonio, in particolare, è stata precocemente deformatada una celebre biografia e da tradizioni tendenziose che cercavano direndere il suo pensiero – tinto di origenismo – conforme all’ortodossiapost-nicena, conciliando il movimento da lui incarnato con la consuetu-dine ecclesiastica.

Benché variegato, il monachesimo egiziano presenta caratteri gene-ralizzati. Nonostante vengano reclutati all’interno di tutte le classi so-ciali, e in particolare fra i notabili o addirittura tra le file dell’aristocra-zia, i monaci sono poco favorevoli alla paideia greca. Non vi è dunqueda parte loro alcuna riluttanza a praticare la lingua copta: di fatto, sonoproprio gli archivi monastici ad averci conservato i più antichi monu-menti letterari e documentari, a cominciare da antichissimi manoscrit-ti riproducenti parte dell’epistolario pacomiano. I monaci formano ungruppo, se non cosmopolita, almeno ospitale nei confronti degli stranie-ri, siropalestinesi, latinofoni, etiopi, i quali hanno lasciato un po’ dap-pertutto tracce del loro passaggio.

Fino alla metà del v secolo, il movimento monastico pare dominatoda una corrente eremitica. Gli holy men, eremiti carismatici, come Gio-vanni di Licopoli, i quali non riconoscono altra autorità all’infuori di sé,fioriscono quasi dovunque godendo di considerevole prestigio tra le po-polazioni civili, che non solo impressionano con le loro gesta ascetichee taumaturgiche, ma di cui prendono altresì le difese di fronte all’auto-rità pubblica, intercedendo in loro favore con i funzionari o addirittu-ra presso lo stesso trono imperiale. Scelgono preferibilmente di insediar-si ai margini del deserto, in regioni malfamate e mal custodite dallo Sta-to. Lontani dall’influenza dell’ordinario ecclesiastico, professano talvoltadottrine incontrollate. Fino alla fine dell’epoca bizantina, il monachesi-mo egiziano fungerà da ricettacolo e da deposito di una quantità di dis-sidenze disciplinari – come quella dei saracoti dell’Alto Egitto, senzadubbio monaci girovaghi – e dottrinali come la gnosi, testimoniata daimanoscritti di Nag HammÇdi, e l’origenismo, noto principalmente at-traverso i manoscritti di Tra. Si è oggi in possesso di documenti appar-tenuti a comunità meleziane insediate nei pressi di località alle quali èlegato curiosamente il ricordo di Antonio, sicché non si può dubitaredel fatto che egli abbia vissuto a contatto di scismatici legati all’ariane-simo. Gli eresiarchi e i vescovi monofisiti dei secoli vi e vii si rifugianovolentieri in monasteri sicuri quali lo Enaton di Alessandria, da cui lan-ciano direttive al popolo dei loro fedeli.

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A cominciare dalla metà del v e fino al vi secolo, le relazioni tra i mo-naci e il clero ordinario si normalizzano. I vescovi sono scelti all’inter-no dei monasteri, nei quali talora continuano a risiedere (così Abramodi Ermonthis). Ormai riconosciuti quali persone giuridiche, i monaste-ri guadagnano d’importanza a scapito degli individui che li abitano. Tut-tavia, fino alla fine della dominazione bizantina (e, in un certo senso,fino ai giorni nostri), l’eremitismo – posto sotto il patronato di Antonioe di Macario – rimane la forma di vita monastica ideale, che ci si sforzadi preservare nonostante il peso delle istituzioni comunitarie. Testimo-niano in particolare di questo orientamento le «laure» di eremitaggi tar-divi rinvenute in occasione degli scavi di Esna, in Alto Egitto, di DayrNaqln, nel Fayyum, e di Kellia, nella steppa a ovest del Delta. L’ere-mitismo non viene affatto condannato dai cenobiti, seguaci di un movi-mento che l’agiografia fa risalire a Pacomio. Questa compagine comu-nitaria e disciplinata, dimorante all’interno di complessi claustrali, go-vernata da superiori che portano il titolo di «archimandriti», è mal notasotto il profilo archeologico dal momento che i pacomiani (o tabenne-sioti), come dimostrano i casi dei monasteri di Tabennesi, Pebou/Bau,Mukhonsis, Tesmine/Zm¥nis, sembrano essersi stabiliti sovente nella val-le del Nilo, che forma rispetto alle zone desertiche un ambiente menopropizio alla conservazione degli insediamenti antichi. Abitando in pros-simità di vie d’acqua, i pacomiani hanno sviluppato un servizio di tra-sporto fluviale che lo Stato utilizzerà dal iv secolo per la spedizione del-le derrate annonarie destinate ad Alessandria, o forse addirittura a Co-stantinopoli. Le comunità pacomiane sono inoltre strutturate secondoun ordine rigoroso. Sono evidenti dai loro scritti l’importanza attribui-ta alla sottomissione alla gerarchia ecclesiastica e la professione di orto-dossia, quantunque i papiri Bodmer, che hanno qualche possibilità diprovenire dal cenobio pacomiano di Pebou/Bau, contengano opere pro-fane e apocrifi. Infine, sono nemici particolarmente determinati del pa-ganesimo e dell’ellenismo, come dimostrano specialmente alcuni episo-di di storia monastica relativa all’insediamento alessandrino di Canopo(il cenobio della Metanoia).

I monaci fuggono il mondo, ma in senso piuttosto simbolico, giacchénon si isolano mai completamente rispetto alle vie di comunicazione.Essi sono inoltre padroni dei prodotti del loro lavoro, conservano a vol-te i loro averi e intrecciano con il secolo ogni genere di transazione. Do-tati di uno statuto di personalità giuridica, i monasteri del vi secolo ac-cumulano pertanto delle fortune che gestiscono come tali. La documen-tazione papirologica suggerisce tuttavia che i loro possedimenti, a volteconsiderevoli se rapportati a un contesto paesano (come ad Afrodito,

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ove i monasteri detengono circa un terzo del territorio fiscalmente lega-to al centro urbano), non lo sono affatto se paragonati a quelli di unacittà vera e propria. Non è comunque assolutamente possibile sottova-lutare il ruolo economico del monachesimo, per la consuetudine dei pre-stiti ai contadini o per il commercio di ceste di vimini e di tessuti, tut-ti prodotti eminentemente monastici. Insediati in regioni del paese chei civili hanno abbandonato o che non oserebbero ripopolare, i monaste-ri costituiscono degli avamposti che hanno parte, come si è visto, neipiani di Bisanzio.

19. I rivali del cristianesimo.

Alla fine dell’epoca in esame, il cristianesimo ha profondamente tra-sformato la società egiziana: sono stati appena ricordati la ristruttura-zione delle topografie urbane e rurali, il ripopolamento dei margini de-sertici, i particolarismi onomastici, le consuetudini economiche dei pos-sidenti, le opere pie tanto caratteristiche di questo «evergetismocristiano» che prende il posto del mecenatismo civico d’età altoimperia-le. Ma il cristianesimo può perciò considerarsi egemonico?

La letteratura cristiana d’Egitto o relativa all’Egitto mette talora inguardia i fedeli non soltanto nei confronti dell’eresia ma anche verso fe-di rivali, evocando addirittura, attraverso la voce di Scenute (350-466),il pericolo dell’apostasia. Tali apprensioni non sono necessariamente néretoriche né anacronistiche. Conviene perlomeno tener conto del fattoche un nuovo documento può ribaltare anche le prospettive apparente-mente più fondate, come la scarsa diffusione del mitraismo in Egitto.Sembra per l’appunto che da non molto si sia in possesso di un «cate-chismo mitraico» ermopolita risalente al iv secolo.

Analogamente, meno a cagione del codice manicheo di Colonia (didatazione e di origine controverse, secondo alcuni paleografi) che per irinvenimenti di testi letterari e documentari presso l’oasi di Kellis, si èoggi in grado di apprezzare meglio la consistenza della presenza mani-chea in seno alla vita religiosa egiziana del iv secolo. Di lingua copta egreca, ma ancora assai prossima a un substrato scritturale aramaico, ta-le religione si presenta come un’evoluzione del cristianesimo e addirit-tura come la vera Chiesa.

La sopravvivenza del paganesimo è un soggetto alla moda. Per quelche riguarda l’Egitto, questo fenomeno è forse sovrastimato, del restoa motivo dei polemisti cristiani dell’epoca, i quali confinano volentieritra le manifestazioni dell’«ellenismo» pratiche difficili da classificare

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quali la divinazione, la magia o ancora la credenza nella predestinazio-ne astrale, nella Nemesi (credenza che pare in effetti diffusa a quel tem-po presso alcuni ambienti cristiani). Malgrado la loro cultura mitologi-ca, uomini di lettere egiziani del rango di Nonno o di Pallada senza dub-bio non erano pagani.

Molto indeboliti dal processo di municipalizzazione e dalla romaniz-zazione, i culti dominanti della tradizione faraonica sono poco attesta-ti dopo il iii secolo, salvo che a File, dove il culto di Iside, in seno a unapopolazione largamente cristianizzata e fornita inoltre di un episcopa-to, era protetto da accordi diplomatici con i popoli meridionali. SottoCostanzo II se ne rileva tuttavia qualche segno di ripresa presso il Bu-cheo di Ermonthis e nei curiosi graffiti – in lingua greca, vien fatto dinotare – della montagna tebana, databili allo stesso periodo, che reca-no testimonianza di sacrifici di asini, senza contare (sempre sotto il re-gno di Costanzo) il santuario oracolare di Bes ad Abido. Tuttavia il pa-ganesimo egizio-bizantino, quali che siano le sue proporzioni, risulta difatto così ben mescidato con le concezioni proprie della civiltà religiosagreco-romana che, allorché i polemisti cristiani del tempo attaccano iculti pagani d’Egitto, si ha l’impressione che prendano di mira delle di-vinità greche (Apollo, Crono) e che abbiano tratto le loro informazionida opere greche.

Dopo il 391, le principali manifestazioni del culto pagano vengonoproibite: i templi sono chiusi in blocco e molti documenti del v secoloregistrano non già il loro accaparramento da parte della Chiesa né, amaggior ragione, la loro conversione in luoghi di culto cristiani, quantopiuttosto l’abbandono al quale vengono destinati e la loro vendita, or-dinata dallo Stato sotto un regime di diritto enfiteutico. Strumenti cul-tuali, offerte, biblioteche sono fatti oggetto di saccheggio o di confisca.Si scopriranno santuari clandestini fino alla fine del periodo in esame –in particolare a Menuthis, non lontano da Alessandria, in pieno v seco-lo –, ma la lista non è numerosa. Un paganesimo filosofico (forse un neo-paganesimo), all’occorrenza neoplatonico, si conserva presso la classe in-tellettuale alessandrina fino al vi secolo, convivendo abbastanza serena-mente con i cristiani, benché a prezzo di grande prudenza verbale e diritegno nell’osservanza delle consuetudini. Malgrado i disordini avve-nuti dal 391 in avanti, questi ambienti paiono essere riusciti a conser-vare qualche opera religiosa antica. Il nome di Sukhos, il dio-coccodril-lo dell’antichità, e alcuni dei suoi attributi sono ancora noti a Damascio,autore pagano di età giustinianea.

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20. Alessandria.

Non disponiamo di alcuna valida sintesi scientifica intorno alla prin-cipale città dell’Egitto bizantino. Nonostante gli scavi polacchi, che han-no portato alla luce un edificio semicircolare a gradini identificato daqualcuno con il Senato d’età bizantina, dove sono stati trovati graffitiin lode di cocchieri dell’ippodromo e dei colori, e poi bagni e grandiquantità di oggetti della vita quotidiana – ceramiche, in particolare, chetradiscono legami con Cipro risalenti all’ultimo scorcio del periodo inesame (legami confermati da fonti letterarie) –, la storia della metropo-li bizantina dovrà fondarsi ancora a lungo su una congerie di dati testua-li sparsi, concernenti principalmente le controversie religiose. Nonostan-te il titolo e le promesse di un’opera recentemente edita, non si posso-no identificare con certezza diversi punti rilevanti della topografiaurbana, così come non si ha ancora un’idea precisa del funzionamentodelle istituzioni municipali. Si è a conoscenza degli ordini e delle magi-strature tipiche dell’epoca fino al curator (principio del vii secolo); incompenso, il vindex (un ufficiale fiscale) non si incontra altrove in Egit-to. D’altra parte, alcune deliberazioni civiche associano ai curiali i «di-gnitari» (axiomatikoi, honorati) e i navicularii.

Al confine con il mondo libico, la città è situata sulla stretta fascialitoranea (taenia) che separa il mare aperto dal lago Mariut (Maria) e, aseguito dell’annessione giustinianea della Mareotide alla Libia, non esi-ste perciò territorio rurale che Alessandria possa sfruttare direttamen-te. Scarseggia inoltre di nuovi spazi urbanizzabili e di zone destinate al-lo smaltimento di rifiuti e detriti. Difetta di acqua potabile, come dimo-strano le sue belle cisterne bizantine e arabe, opere dalle quali si puòdesumere che a quel tempo canali e acquedotti non fossero più moltofunzionali. Votata alla vita di relazione, Alessandria dispone di un por-to lacustre, al quale giungono i prodotti dell’Egitto (da cui l’embole), edi un duplice porto marittimo, collegato allo scalo lacustre per mezzo dicanali. Alessandria aveva subito gravi danni in conseguenza dell’assediodi Aureliano, da cui pare si sia risollevata a prezzo di un certo ridimen-sionamento, quantunque i Bizantini facessero mostra di considerarla una«megalopoli». Essa è circondata da bastioni muniti di torri e di portefortificate che sembra – a quanto si può giudicare da un mosaico del vsecolo recentemente ritrovato a Sefforis, in Galilea – lascino al di fuo-ri della propria cinta la celebre colonna di Pompeo, eretta sul sito del-l’antico Serapeo. Del suo passato ellenistico, Alessandria ha conservatoil Faro (restaurato sotto Anastasio), della cui esistenza si ha testimonian-

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za, attraverso le varie trasformazioni alle quali viene sottoposto, fino alMedioevo. Risale all’età di Zenone l’ultima menzione del Museo, chefunge a quel tempo da auditorium per gli agoni oratorî d’apparato. Ilsantuario poliade di Serapide, rinnovato verso il 181-217, continua lasua esistenza fino alla chiusura forzata del 391. Ancora nel vii secolo èattestata la presenza di altri edifici di prestigio di età imperiale, quali ilDromos, una sorta di mercato coperto e di passeggiata extra muros altempo stesso. D’altra parte, tra il iv e il vii secolo l’abitato si è modifi-cato profondamente nel senso di ciò che P. M. Fraser designa come una«demonumentalizzazione». A nord, secondo uno scoliaste del vi seco-lo, le case sconfinano da ogni parte verso il mare (così come avviene, aquanto afferma, pure a Costantinopoli e a Cesarea di Palestina); nellezone del centro e a sud, l’abitato si innalza continuamente sulle mace-rie livellate di edifici anteriori o sugli immondezzai, senza più tener con-to del tracciato viario romano. La cristianizzazione ha contribuito a ta-le disorganizzazione. Si conosce oggi il nome di circa cinquanta tra chie-se e soprattutto martyria e oratorî alessandrini, fortemente concentratia est e a sud della città. Alla distanza di qualche miglio verso oriente, ilpoderoso monastero pacomiano della Metanoia (Penitenza) ha moraliz-zato la località godereccia di Canopo. A occidente, una serie di mona-steri si estende sulla taenia fino a Taposiris. Si noti che la maggioranzadi tali insediamenti si trova extra muros: non assolvono dunque ad alcu-na funzione nell’urbanesimo alessandrino e contribuiscono anzi allo svi-luppo dei sobborghi. Alla tradizionale suddivisione della città in quar-tieri indicati ciascuno con una lettera dell’alfabeto si sostituisce unaripartizione per topoi (rioni) distinti da un monumento o da un’altra par-ticolarità.

Sede dei governatori civili e militari, Alessandria ospita una nume-rosa popolazione di soldati e funzionari.

L’Expositio totius mundi, opera il cui testo greco originale risale al re-gno di Costanzo II, ne esalta – non senza concessioni alla tradizione re-torica degli encomi delle città illustri – la prosperità dei commerci e del-le manifatture, prosperità che colpisce ancora nel vi secolo un viaggia-tore occidentale. Sotto Eraclio, la Vita di san Giovanni l’Elemosiniere famenzione di relazioni commerciali della città con il lontano Occidente.Mercatores bizantini partono regolarmente alla volta dell’«India». Coni ricchi proventi delle loro attività hanno potuto contribuire alla costru-zione del locale martyrion di Giovanni il Battista. Grande centro del-l’industria tessile, Alessandria esporta i suoi drappi istoriati. Pur nonavendo in pratica mai battuto moneta d’oro tra Licinio ed Eraclio, Ales-sandria con i suoi argiroprati è tuttavia un’importante piazza bancaria,

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ben collegata a Costantinopoli. Nella stessa vena retorica, l’Expositio to-tius mundi, ma anche storici quali Ammiano Marcellino, o padri dellaChiesa come Gregorio Nazianzeno, vantano la vita intellettuale dellacittà. A tale proposito, il riferimento principe è senza dubbio costitui-to dalla medicina, la iatrosofistica [cfr. sopra]. Le altre branche del sa-pere e delle lettere sono meno sviluppate o sono fiorite più tardi, comela filosofia, con i grandi commentatori del vi secolo (Giovanni Filopo-no, David, Elia, Stefano). È difficile a questo punto evitare di fare ilnome dei matematici Teone e Ipazia, sua figlia, assassinata nel 415 daintegralisti cristiani, ma le loro opere e i loro commentari (come quellodi Ipazia sull’algebrista Diofanto) non sono sempre giudicati favorevol-mente dagli specialisti.

21. L’Egitto e Bisanzio.

Gli Egizio-Bizantini sono «Romani» perfettamente integrati nel con-testo dell’Impero, che essi percorrono per sbrigare i loro affari fino al-l’estremo Occidente, dove hanno delle basi. Una sorta di colonie egizia-ne sono sporadicamente attestate al di fuori del paese, come nel vi se-colo a Costantinopoli, dove gruppi di espatriati prestano all’occasioneassistenza a loro compatrioti in visita. Gli Egiziani espatriati sono spes-so medici che beneficiano del prestigio derivato dall’aver studiato me-dicina ad Alessandria, o commercianti di prodotti tessili e stoffe, inconformità a quanto si sa dell’economia del paese. Sono già stati ricor-dati in precedenza i wandering poets. Il caso del poeta panopolita Ciro,divenuto prefetto del pretorio verso la metà del v secolo, illustra in ul-tima analisi la penetrazione degli Egiziani all’interno dell’alta ammini-strazione costantinopolitana. Ancora più significativa di tale processodi promozione sociale è la vicenda della famiglia degli Apioni. Nel v se-colo, gli Apioni sono ancora dei notabili municipali. Nei secoli vi e vii

li si vede assurgere alle cariche di prefetto del pretorio, comes SacrarumLargitionum, presidente del Senato costantinopolitano, apparentati – al-l’inizio del vii secolo – a una prestigiosa famiglia senatoria romana.

Obnubilata dai conflitti religiosi, la storiografia dell’Egitto bizanti-no si è proposta a lungo di mettere in risalto l’opposizione del paese al-l’Impero. Gli storici si sono applicati specialmente a rilevare la crescitadi un sentimento nazionale antibizantino, o di un separatismo, fondatosul rifiuto della lingua e della cultura greche e del sistema politico impe-riale. Si è pure sostenuto che gli Egiziani avrebbero accolto con favorei conquistatori arabo-islamici. A giudicare dalla manualistica, dalle en-

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ciclopedie o da recenti opere di sintesi, parrebbe impossibile riuscire ascalzare simili punti di vista ed è dunque senza nutrire alcuna illusioneintorno alla possibilità di far breccia all’interno del consenso stabilito inproposito che espongo in questa sede un’opinione che, senza essere per-sonale – è infatti condivisa da parecchi specialisti –, è esattamente op-posta a quella comunemente professata.

Le divisioni religiose sono intervenute nell’ordine che è loro pro-prio, quello delle istituzioni religiose, e non hanno mai assunto né unaspetto etnico, né sociale, né politico o, a maggior ragione, militare. Laposta in gioco delle controversie non è mai stata costituita né dalla lin-gua né dalla cultura greche. I grandi attori e autori dello scisma nellesue diverse fasi, come il vescovo alessandrino Dioscoro e Severo di An-tiochia, erano uomini di lingua greca e l’impiego del greco si è conser-vato per secoli nella Chiesa d’Egitto. Il processo di separazione tra leChiese d’Oriente si è protratto per quasi due secoli, durante i quali, èvero, il potere imperiale – sotto Giustiniano ed Eraclio (negli anni 631-641) – può essere sembrato fazioso, ma è altrettanto vero che nello stes-so periodo imperatori concilianti, o addirittura favorevoli alle tesi an-ticalcedoniane, hanno stabilito una sorta di statu quo o di regime di tol-leranza (Zenone, Anastasio, Giustino II fino al 571, Eraclio fra il 609e il 619). Gli scismatici egiziani speravano sempre nell’avvento di unpotere favorevole, il che non significa che non desiderassero affatto unimperatore.

Di più: alcuni documenti testimoniano dell’attaccamento degli Egi-ziani al sistema di governo bizantino. È stata scoperta a Edfu in un con-testo archeologico molto tardivo una preziosa icona profana raffiguran-te Costantinopoli nei tratti allegorici della ninfa Antusa/Flora, ed è dif-ficile non vedere in questo quadro un indizio di lealismo. Provenientedalla medesima città, un regesto di atti giudiziari greci e copti ci rendeedotti circa le dispute tra una coppia e un creditore, verificatesi tra lafine dell’epoca bizantina e gli anni 645: i giuramenti leggibili sui docu-menti d’età islamica sono formulati in nome di «ogni autorità aventepotere su di noi», o evocano ancora la «salute imperiale». Questo rico-noscimento del governo arabo ormai vigente appare rassegnato e cau-teloso più che entusiastico. Assai più tardi, il titolo funerario copto diun monaco egiziano di Kellia data al regno dell’imperatore Giustinia-no II (685-95 o 705-11), quasi che gli asceti dell’epoca avvertissero an-cora qualche difficoltà ad astrarsi dal quadro bizantino. Ricerche con-dotte in sede paleografica o sulla lingua dei papiri greci di età araba po-trebbero mostrare in maniera eloquente che non tutti i legami conBisanzio sono recisi. È ragionevole augurarsi che l’accumulo di micro-

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prove di questo tipo permetterà un giorno di saggiare in profondità l’at-teggiamento degli Egizio-Bizantini di fronte al memorabile sconvolgi-mento del 641/642.

1 L’autore desidera ringraziare per le loro osservazioni F. Dunand, G. Husson, A. Papaconstan-tinou, J.-L. Fournet e R. S. Bagnall, oltre a Denyse Vaillancourt per aver attentamente rive-duto il suo manoscritto.

2 Almeno in base all’opinione fino a oggi condivisa; ma le sofisticatissime esplorazioni archeo-logiche condotte da N. Pollard sul sito della Karanis bizantina (Fayyum settentrionale) rive-lano che il fenomeno è sotto certi rispetti sovrastimato: cfr. The Chronology and EconomicCondition of Late Roman Karanis: An Archaeological Reassessment, JARCE, 35 (1998), pp.147-62.

3 Situazione tuttavia anticipata, negli ultimi decenni di dominazione bizantina, dalla vicendadelle persecuzioni alle quali fu sottoposta la Chiesa monofisita d’Egitto da parte del potereimperiale.

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Conclusioni

Nelle pagine precedenti, non possiamo negare di essere stati indub-biamente segnati – così come lo furono i nostri predecessori, vicini olontani –, a nostra insaputa o meno, dal clima intellettuale e dalle gran-di questioni sociali ed economiche dei nostri giorni. Da Du Cange o Gib-bon a Rostovzev o Piganiol, a Jones e ai «primitivisti» della scuola diOxford, influenzati dalle tesi antropologiche di Mauss, Finley e Polanyi,per concludere con le analisi di tendenza «multiculturale» condotte daicollaboratori della Cambridge Ancient History, gli elogi, le critiche e leinterpretazioni sono di necessità ancorate alle preoccupazioni dell’epo-ca. Gli studi storiografici su tali interrelazioni non mancano1 e C. Le-pelley si è già occupato del dibattito sulla questione [137].

Se l’accostarsi il più vicino possibile all’obiettività e alla certezza ri-mane evidentemente un ideale, le necessità editoriali ci hanno spessocostretto a passare sotto silenzio le lacune o le difficoltà d’interpreta-zione delle fonti – discussioni di cui sarebbe stato troppo lungo dar con-to. Ed è ciò che risulta essere particolarmente e paradossalmente vero aproposito dello svolgimento di vicende politiche e militari intorno allequali talvolta le fonti di cui si dispone sono poche, se non si riduconoaddirittura a una sola [cfr. in proposito le discussioni di Jones 149, I,pp. 77-78, 115, 171-72], o sono troppo tarde e difettose sotto il profi-lo della cronologia, come Teofane, e la ricerca in questo campo, che ta-lora è stata ritenuta superata, rimane al contrario necessaria [Zucker-man 231-33 e 491; Howard-Johnston 205; Kaegi 207]. Le stesse costri-zioni spiegano altresì come non si sia potuta attribuire sufficienteimportanza ai vicini di Bisanzio, nemici o amici, popoli «barbari» o me-no, intorno ai quali la ricerca archeologica ha fornito ugualmente un no-tevole incremento di conoscenze.

È difficile riassumere le nuove linee di forza e i tratti che finiranno,in un lento processo di adattamento e di mutazione, per caratterizzarel’Impero cosiddetto «bizantino» del vii secolo. Il suo preteso conserva-torismo cela una reale capacità di innovazione silenziosa. Bisogna qui

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476 Conclusioni

sottolineare da una parte le novità rappresentate dal dominio del grecoquale lingua dello Stato e della cultura, avente per corollario la crescen-te ignoranza del latino in Oriente (e, reciprocamente, del greco in Oc-cidente), così come l’emergere delle letterature siriaca e copta; d’altraparte, e soprattutto, l’ampiezza della cristianizzazione fu tale che il so-lo fattore di resistenza è ormai costituito dal giudaismo e le devianze re-ligiose si esprimeranno unicamente attraverso movimenti eterodossi. Sitratta di una dominazione religiosa che si manifesta anche per mezzodella conquista dello spazio pubblico e delle sue dimensioni immagina-rie e simboliche, e grazie alla nascita del culto delle immagini. I nume-rosi punti che segneranno la distanza dal modello romano sono special-mente la scomparsa dell’esercito di tipo tetrarchico o costantiniano (sfal-damento delle guarnigioni di confine, declino degli effettivi e deicontingenti «in presenza») a vantaggio di un esercito di proporzioni ri-dotte e di costi unitari più elevati in ragione dell’importanza assunta dal-la cavalleria; il declino delle élites e delle istituzioni municipali, oltre alridimensionamento, per non dire la scomparsa, delle città; il declino pro-gressivo del sistema prefetturale, la creazione degli esarcati di Cartagi-ne e di Ravenna insieme al fenomeno della trasformazione in organismiautonomi, alla metà del vii secolo, di diversi uffici nati in seno all’anti-ca prefettura d’Oriente, ormai la sola a sussistere, i quali formeranno ilnerbo dell’amministrazione mesobizantina; infine, la contrazione del-l’area territoriale bizantina e il depauperamento conseguente all’arrivodegli Slavi nei Balcani, la caduta del limes danubiano e soprattutto laconquista araba delle più ricche province dell’Impero, dalla Siria all’E-gitto.

Le parole «declino», «scomparsa», «depauperamento» possono puressere evitate da qualcuno perché troppo negative, ma le realtà che lesottendono non sono meno incontestabili, per quanto gli autori possa-no cercare di attenuarle o divergano sui dettagli dell’evoluzione e deisuoi momenti, e soprattutto sull’interpretazione e sulle cause di tali fe-nomeni. È dunque opportuno attirare l’attenzione del lettore su alcuniterritori da esplorare. Speriamo ci verrà usata indulgenza se conclude-remo, a questo punto, senza passare in rassegna le acquisizioni e i pro-gressi degli ultimi decenni, ma soltanto formulando alcuni interrogati-vi. Tra le cause di trasformazione – per riprendere la terminologia neu-tra di moda oggi (TRW) –, il crollo della fiscalità tardoantica, la sop-pressione dell’annona, con le sue conseguenze sugli scambi interregio-nali e sul commercio Oriente-Occidente, sono spesso evocati a giusto ti-tolo. Jones sottolineava gli eccessi del prelievo fiscale che altri non rin-vengono nelle fonti papirologiche, le sole che forniscano dati parzial-

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mente quantificabili. Manca però ancora uno studio definitivamente au-torevole sulle finanze imperiali e che ardisca integrare queste indicazio-ni all’interno di un modello coerente, senza essere tacciato di anacroni-smo e di modernismo. Valutazioni corrette (in mancanza di dati quan-titativi) del ciclo malthusiano di popolamento [cfr. cap. xiii], dell’impat-to demografico del monachesimo e, soprattutto, delle conseguenze del-la peste del vi secolo meriterebbero un approccio in grado di associareuna solida conoscenza dei dati testuali e archeologici con le tecniche dianalisi demografica. Si può quindi sperare che l’estensione dell’applica-zione di metodi scientifici (paleobotanici, glaciologici, paleoantropolo-gici, analisi del DNA ecc.) chiarirà l’evoluzione della popolazione e delclima, tuttora discusse se non negate, giungendo a esiti analoghi a quel-li recentemente conseguiti nello studio della ceramica o della moneta,non senza preziose acquisizioni per la storia economica. L’ultima, e nonla minore, di queste direttrici di ricerca non è nuova: essa concerne glieffetti della cristianizzazione sulla società e sui costumi, soggetto soven-te malinteso a causa di predeterminati giudizi di valore. Lo studio di J.Beaucamp [511], per il puntuale confronto istituito tra le leggi e le pra-tiche, oltre che per le prudenti conclusioni cui giunge, offre un model-lo in tal senso. Si è lontani tanto dalle desuete prospettive idealizzantiquanto dalla longeva tradizione che farebbe del cristianesimo l’affossa-tore di Roma e della civiltà antica. Il prossimo volume de Il mondo bi-zantino mostrerà in quale misura l’Impero bizantino abbia parzialmen-te contribuito a trasmettere quella stessa civiltà ai «secoli oscuri». Adat-tando le sue strutture allo scopo di far fronte alle circostanze avverse,Bisanzio è rimasta una colonna del mondo medievale e un esempio cheè parte integrante della nostra eredità.

1 Cfr., tra gli altri, Momigliano 136; Brown 130; Carrié 139, pp. 9-46; Andreau, intr. a 525;Banaji 551; Laiou 518 (II, cap. 35, e Nouvelles perspectives pour une histoire de l’économie by-zantine); Liebeschuetz 133.

Conclusioni 477

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Sintesi cronologica e glossario

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Sintesi cronologica

324 Fondazione di Costanti-nopoli

11 maggio 330 Consacrazio-ne della città

337 Morte di COSTANTI-NO (306-37) e crisi di suc-cessione

COSTANZO II (337-61)

346-50 Offensiva persiana.Costanzo trionfa su Ma-gnenzio a Mursa (351).Unità dell’Impero

359 Presa di Amida da partedi Sapore

GIULIANO (360-63)

363 Giuliano a Ctesifonte;morte di Giuliano

Proclamazione di GIOVIA-NO (363-64)

Pace con la Persia (cessione diNisibi)

VALENTE (364-78)

367-369 Campagna vittorio-sa contro i Goti

375 Pressione degli Unni eavanzata dei Goti

378 Sconfitta e morte di Va-lente ad Adrianopoli

COSTANTE (337-50)

Campagne contro i Franchi egli Alamanni di Costanzo,che riprende possesso del-l’Italia (352)

360 Proclamazione di GIU-LIANO a Lutezia

VALENTINIANO I (364-75)

GRAZIANO (375-83)

325 Concilio di Nicea (pro-clamazione del dogma del-la consustanzialità del Pa-dre e del Figlio)

Atanasio, vescovo di Alessan-dria dal 328 al 373

Efrem il Siro (c. 306 - 373)

Breve reazione pagana

Libanio ad Antiochia e Temi-stio a Costantinopoli, atti-vi fra il 340 e il 388

Armenia e Iberia sotto il con-trollo persiano

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economico

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TEODOSIO I (379-95)

383 Pace con la Persia

387-97 I Goti si insediano inMesia I, sollevandosi piùvolte. Alarico magister mi-litum per Illyricum (397)

395 Spartizione dell’Impero

ARCADIO (395-408)

395-435 Crescente pressionedegli Unni e frequenti scor-rerie in Tracia

400 Eliminazione del partitogoto di Gaina

TEODOSIO II (408-50)

413 Mura teodosiane di Co-stantinopoli

414 Pulcheria, cristiana in-transigente, sorella dell’im-peratore e augusta, eserci-ta un influsso determinan-te fino al 423

422 Pace con la Persia

Tributi versati agli Unni(422, 430, 434)

423 Eudossia, moglie di Teo-dosio II, viene proclamataAugusta

VALENTINIANO II (383-392); usurpazioni di Massi-mo (383-86) e del paganoEugenio (392-94), sconfit-to da Teodosio presso ilFiume Freddo (394)

388-91 e 393-95 TEODO-SIO I in Occidente

395 Spartizione dell’Impero

ONORIO (395-423)

Influenza di Stilicone (†408)

406 Vandali, Svevi e Alaniinvadono la Gallia; loro in-sediamento in Spagna

410 Roma messa a sacco daiGoti di Alarico, passato inOccidente nel 402

VALENTINIANO III (425-455)

Reggenza di Galla Placidia,poi influenza del magistermilitum Aezio (†454)

429 I Vandali in Africa

381 Concilio di Costantino-poli (condanna dell’ariane-simo)

384 Graziano sopprime l’al-tare della Vittoria presso ilSenato romano

391-92 Legislazione antipa-gana

401 Notitia Dignitatum

395-430 Sant’Agostino ve-scovo di Ippona

398-404 San Giovanni Cri-sostomo vescovo di Co-stantinopoli

San Gerolamo (347-420)

415 Assassinio di Ipazia, per-petrato da cristiani fanati-ci ad Alessandria

429-38 Codice teodosiano

482 Sintesi cronologica

Oriente OccidenteContesto culturale, religioso,

economico

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Ostilità con gli Unni (441-43,447)

MARCIANO (450-57)

Apogeo del potere di Aspar,magister militum

LEONE I (457-74)

468 Fallimento della spedi-zione contro i Vandali

Lotte per il potere tra il clandi Aspar (†471) e gli Isau-rici. I Goti in Tracia e inMacedonia sotto i due Teo-dorici (lo Strabone e l’A-malo)

ZENONE l’Isaurico (474-91)

Rivolte di Basilisco (475-76),quindi di Leonzio (484-488), nelle quali interferi-scono i clan isaurici e igruppi rivali di federatiostrogoti

Crisi finanziaria e militare

ANASTASIO I (491-518)

Ristrutturazione finanziaria

Costruzione delle Mura Lun-ghe

498 Sottomissione degliIsauri

502-4 Conflitto, poi pace estatu quo con la Persia

GIUSTINO I (518-27)

439 Genserico, re dei Vanda-li, conquista Cartagine

443 Gli Unni si installano inPannonia

451-52 Attila in Gallia e inItalia

455-76 Successione di variimperatori, nella maggio-ranza dei casi promossi dalmagister militum Ricimero(†472) o inviati da Costan-tinopoli

476 Fine dell’Impero d’Occi-dente. Lo sciro Odoacre,«re di nazioni», deponeROMOLO (475-76) e re-stituisce le insegne impe-riali a Costantinopoli

489 Zenone invia gli Ostro-goti, unificati da Teodori-co l’Amalo (474), in Italia

493 Assassinio di Odoacre

Teodorico re d’Italia (493-526)

431 Concilio di Efeso (MariaTheotokos)

451 Il concilio di Calcedoniadefinisce l’unione delle duenature nella persona delCristo

Espansione del monofisismo

484 Henotikon e scisma conRoma (scisma acaciano)

519 Fine dello scisma acaciano

Sintesi cronologica 483

Oriente OccidenteContesto culturale, religioso,

economico

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GIUSTINIANO I (527-65)

527-32 Guerra e pace con laPersia

532 Rivolta di Nika

540-45 Conflitto con la Per-sia

562 Nuovo trattato di pacecon la Persia

Inizio delle incursioni slavenei Balcani

GIUSTINO II (565-78)

572 Ripresa delle ostilità conla Persia

Penetrazione di Slavi e Avarinei Balcani

TIBERIO II COSTANTI-NO (578-82)

MAURIZIO (582-602)

591 Pace con la Persia. Unaparte dell’Armenia diventabizantina

592-602 Offensiva sul Danu-bio contro gli Slavi

602 Rivolta militare

FOCA (602-10)

Slavi e Avari nei Balcani

605 Presa di Dara e iniziodell’avanzata persiana inAsia Minore

608-10 Rivolta di Eraclio

ERACLIO (610-41)

533 Riconquista dell’Africa

535-55 Riconquista dell’Ita-lia

554 Intervento in Spagna

568 Arrivo dei Longobardiin Italia

Fine vi secolo. Creazione de-gli esarcati bizantini di Ra-venna e di Cartagine

605 Il re longobardo Agilulfo(590-616) conclude unatregua con l’esarca

528-33 Codice giustinianeo,Digesto e Istituzioni

529 Chiusura dell’Accade-mia ad Atene

532-37 Ricostruzione di San-ta Sofia

542 Inizio della peste

553-54 Il V concilio ecume-nico a Costantinopoli con-danna i «Tre Capitoli» (piùo meno nestoriani)

Politica religiosa filoromana

484 Sintesi cronologica

Oriente OccidenteContesto culturale, religioso,

economico

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614 Caduta di Salona e dellecittà dell’entroterra balca-nico

610-28 Campagna contro iPersiani: perdita di Geru-salemme (614) e dell’Egit-to (619); assedio di Costan-tinopoli (626); vittoria bi-zantina a Ninive (627)

636 Disfatta dello Yarmuk.Il califfo ‘Umar (634-44) siimpadronisce della Siria,poi di Gerusalemme (638)

622 Egira (fuga di Maomet-to a Medina)

632 Morte di Maometto

Fallimento dei tentativi dicompromesso e di unionecon i monofisiti: monoe-nergismo, monoteletismo(Ekthesis, 638)

638 Vittoria araba di QÇdi-siyya

642 Fine dell’impero sassa-nide

Sintesi cronologica 485

Oriente OccidenteContesto culturale, religioso,

economico

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Glossario

Acatisto («non seduto») inno alla Vergine, recitato in piedi, che fu rimaneg-giato in occasione dell’assedio avaro di Costantinopoli (626)

acemeti («senza sonno») comunità monastica di Costantinopoli che pratica-va la preghiera ininterrotta, da cui il nome dei suoi appartenenti

achiropita («non fatta da mano d’uomo») immagine di Cristo o della Verginedi origine miracolosa

adaeratio conversione in contanti (da aes = bronzo) di un’imposta o di un sa-lario

ambone tribuna sopraelevata da dove si fanno letture o proclamazioni litur-giche

annona («mietitura annuale») designa il rifornimento pubblico dell’eser-cito o delle grandi città, e per esteso la tassa in natura che lo per-mette

antecessori professori di diritto nelle scuole di Beirut o di Costantinopoliapoftegmi massime e storie dei padri del desertoarchimandrita («capo del gregge») superiore di un monasteroartaba misura di capacità egiziana da 72 sesti, utilizzata per i cereali

(c. 39 litri)arura misura di superficie egiziana (c. 2756 metri quadrati)asterisco accessorio liturgico a forma di croce (a «stella») disposto al di so-

pra della patena per evitare il contatto tra il velo che la ricopre e ilpane consacrato

autopragia delega della riscossione delle proprie tasse a un villaggio o un la-tifondo, che è allora detto «autopratta»

basileus («re»; pl. basileis) titolo dell’imperatore, divenuto ufficiale nel 629capitazione all’origine sorta di «testatico», poi unità di imponibile (caput) com-

binata con lo iugumcartulario incaricato delle scritture nell’amministrazione pubblica e privatacenobita monaco che pratica la «vita in comune» (koinobion, che di conse-

guenza indicava anche il monastero)cesare coimperatore, di rango inferiore all’augusto regnante, destinato a

succedergliciborio baldacchino onorifico a quattro lati che sovrasta l’altare

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clarissimo titolo conferito anticamente a tutti i membri del Senato, nel tardoImpero ai senatori di terza classe

codice libro rilegato, scritto su papiro o pelle, che tende a sostituire il ro-tolo nei suoi usi letterario e documentario

codicillo brevetto di nomina, in forma di piccolo codicecollatio glebalis imposta che gravava sui senatori in proporzione al loro patrimonio

fondiariocollatio lustralis imposta indiretta sugli scambi e i servizi prelevata nel iv secolo ogni

cinque anni («lustro») in oro e argento (gr. chrysargyron)comitatus la Corte e l’entourage imperiale, compresa la parte dell’esercito co-

sì designataconcistoro consiglio che riuniva l’imperatore e i suoi principali ministricorepiscopo «vescovo di campagna» posto a capo di una comunità rurale e i cui

poteri episcopali furono rapidamente ridotticostituzione atto imperiale, in particolare legge o rescrittocubiculum camera (imperiale), appartamenti privati e, per esteso, insieme dei

funzionari (eunuchi) al servizio dei sovranicuriale membro di un senato municipale (curia)curopalata modesto funzionario incaricato della manutenzione del Palazzo;

nel vi secolo, dignità conferita ai membri della famiglia imperialeo ad alleati stranieri

cursus publicus servizio di vetture e animali destinati ai trasporti pubblicidecennali feste celebrate in occasione del decimo anno di un regnodemi «fazioni» del Circo, organizzate in quattro «colori», formate dai

cittadini che avevano diritto all’annonadiocesi circoscrizione amministrativa civile che raggruppava varie provin-

ce; circoscrizione ecclesiastica guidata da un vescovodomus divina («casa divina») possedimento dell’imperatore o messo a disposizio-

ne di un personaggio importantedonativa doni in denaro distribuiti dall’imperatore in occasione della sua

ascesa al trono, dei suoi anniversari o di festedux (pl. duces) comandante militare (da cui l’it. «duca» e «duce»)ekphrasis descrizione letteraria (di città, opere d’arte ecc.)embolos viale affiancato da porticiencratismo tendenza ascetica estrema che impone un’«astinenza» completa e

condanna il matrimonioenfiteusi locazione di lunga durata (99 anni) che dà un diritto di quasi pro-

prietàenkomion discorso di lode, panegirico in onore di città o importanti perso-

naggi (imperatori, governatori, patriarchi ecc.)epoikion fattoria o gruppo di abitazioni esterne a un villaggioergasterion laboratorio-bottegaescubiti corpo di guardie create alla metà del v secolo

488 Glossario

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esicasta monaco o eremita che cerca, tramite la rinuncia, la tranquillità (he-sychia) dell’anima per accedere a Dio

evergeta benefattorefabrica laboratorio imperiale che produce armifederati barbari legati all’Impero da un trattato (foedus), poi truppe ausilia-

rie barbarichefilarco capo di una tribù araba (phyle), in particolare comandante di auxi-

lia alleati di Bisanziofollis (pl. folles) all’origine «sacco» di denari e valore contabile, poi mo-

neta di bronzo creata da Anastasio con un valore di 40 nummigarum salsa di conserva di pescegirovaghi monaci itinerantiillustris titolo dei senatori di prima classe, in particolare i membri del con-

cistoroipostasi termine che designa l’esistenza individuale, applicato alle persone

della Trinità in opposizione alla natura (ousia) unica di Dioiugum (pl. iuga) unità fiscale per l’imponibile dell’imposta fondiariakellion (pl. kellia) cella monasticakoinè lingua greca «comune» a tutto l’Orientekome (pl. komai) collettività rurale di diritto pubblicolaura (gr. lavra) tipo di monastero che raggruppa celle disperse intorno a

una chiesa e strutture comunilibbra (lat. libra; gr. litra) unità di peso romana (c. 326 grammi)limes all’origine, passaggio tra due campi, sentiero, linea di demarcazio-

ne, settore militare sotto comando speciale ed, estensivamente, zo-na confinaria

limitanei soldati di frontiera le cui terre sono esenti da imposteliturgia («servizio») funzione imposta a certe categorie socialimagister militum (praesentalis) comandante dei soldati («in presenza» della Cor-

te imperiale)magister officiorum comandante degli uffici, responsabile delle cerimonie e dei servizimartyrion monumento, talora a pianta centrale, costruito nel luogo della se-

poltura di un martiremelodo compositore di canti sacrimessaliano (sir. «orante»; gr. euchites) movimento ascetico di origine sirianamodios «moggio», misura di capacità (il moggio di 22 sesti dei documenti

egiziani corrisponde al moggio castrensis o militare di circa 12 litri)utilizzata nel fisco

monachos «solitario» e, per esteso, monacomonoenergismo movimento teologico del vii secolo che attribuiva all’ipostasi del

Cristo un’unica operazione (energia) divina e umanamonofisismo dottrina secondo cui, dopo l’incarnazione, in Cristo non vi sono

più due nature ma una sola

Glossario 489

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monotelismo dottrina del vii secolo secondo la quale nella persona di Cristo esi-steva un’unica volontà

nartece spazio perpendicolare alle navate in cui si penetrava entrando nel-la chiesa

nummus (pl. nummi; gr. noummion, pl. noummia) moneta di bronzo di po-co valore

officium insieme dei funzionari al servizio di un responsabile civile o mili-tare

oikion (pl. oikia) casa; persone che abitano sotto lo stesso tetto (cfr. il «fuo-co» medievale)

oikoumene mondo «abitato», o almeno mondo civilizzato che l’Impero roma-no aveva per ideale di dominare

oncia (lat. uncia; gr. oungia) unità di peso da 1/12 di libbra (c. 27 grammi)optio (pl. optiones) quartiermastro che amministrava la distribuzione del-

l’annona militareoro oblatizio (aurum oblaticium) oro offerto in occasione dell’ascesa al trono del-

l’imperatorepaideia educazionepalatini agenti delle Sacre largizionipalladio statua di Pallade Atena, che si riteneva essere stata portata da Enea

a Roma, trasferita a Bisanzio da Costantino; per esteso, statua oicona protettrice di una città

periodeuta prete-visitatore, dalle funzioni simili a quelle del corepiscopoprogymnasmata «esercizi preparatori», manuali che preparavano ai concorsi retoriciprooimion (lat. prooemium) preambolo o introduzione di un documento o di

un’opera letterariaproteichisma fortificazione avanzata che protegge il bastione principalerationalis delegato (contabile) delle Sacre largizioni o della res privata in una

diocesirescritto lettera dell’imperatore in risposta a una domanda o a una petizioneroga (pl. rogai) remunerazione in contanti di funzionari civili e militarisacellario (da sacella, «borsa») tesoriere privato dell’imperatorescholae guardia imperiale creata nel iv secolo, ridotta nel vi secolo a un ruo-

lo ornamentalescriniario membro di un ufficio finanziario (scrinium)sinassi «assemblea» liturgica, perlopiù eucaristicasitones amministratore municipale eletto, responsabile dell’acquisto pub-

blico del grano (sitos)solidus soldo, moneta d’oro creata da Costantino con il peso di 1/72 di lib-

bra (4,55 grammi)spectabilis titolo dei senatori di seconda classe, in particolare dei duces e dei

vicarispudeo (gr. spoudaios) membro di una confraternita di laici (detto anche

philoponos)

490 Glossario

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stilita asceta che risiede sulla sommità di una colonna (stylos)stipendium (pl. stipendia) salario militare versato in contantisynone requisizione di prodotti, che venivano dedotti dalle tasse del pro-

duttoretagma reggimentotemplon separazione tra il santuario e la navata di una chiesa; in origine una

bassa cancellata, diviene in breve un’alta barrieratetrapilo arco trionfale od onorifico a quattro facce organizzate intorno a un

quadrato coperto da una voltatetrastilo monumento dotato di quattro colonneTheotokos «Madre di Dio» o, più esattamente, «Genitrice di Dio»topotereta «luogotenente», rappresentante di un dux o di un altro funziona-

riovexillatio (da vexillum, «stendardo») distaccamento prelevato da alcune le-

gioni in vista di campagne militari

Glossario 491

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Indice analitico

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I numeri in neretto rimandano a carte o figure.

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Abgar, 320.Abinneo, archivi di, 167, 457.Abramo di Ermonthis, 455, 466, 468.Abu Bakr, 50.Abu Karib, 433.Acacio, patriarca di Costantinopoli, 76-78, 271.Acaia, 46, 329, 336, 339, 340, 342, 349, 354;

vedi anche Ellade.Acatisto, inno, 47.acclamazioni, 31, 85.Acemeti (Akoimetoi), 26, 261, 271.achiropite, immagini, 247, 320.acquedotti, 202, 415, 416, 469:

– «di Valente», 47, 198, 200, 202, 205.adaeratio (aderazione), 100, 101, 185, 233.Adrianopoli, 15, 183, 227, 327, 344, 379.adscriptio, 220.Africa, 15, 16, 20, 23, 27, 32, 35, 37, 40, 43,

103, 114, 116, 117, 277, 326:Chiesa, 130, 146, 147, 268.economia, popolamento, 209, 212, 215, 222,

229, 230, 401.esercito, 164, 171, 174, 177, 186.

African Red Slip (ARS, ceramica sigillata), 399.Afr¥n, 404.Afrodisia, 214, 299, 378, 383-87, 392, 393,

396, 398-400.Afrodito, 217, 439, 442-45, 454, 462, 466.aftartodocetismo, 78, 79.Agapito, papa, 78, 134, 334.agentes in rebus, 60, 105, 106.agiografia, 288, 292, 464-66.Aglasun, 389.Agostino di Ippona, 20.Aizanoi, 378, 383, 385, 390.Ajnadayn, 432.Alamanni, 7, 9, 15.Alamundaro (Mundhir), 179, 434, 435.Alani, 20, 163.Alarico, 19, 20, 25, 179, 328, 342, 345.Albania, 48.albergo, 382, 386.Aleppo (Beroea), 415, 429, 434, 436.

Alessandria, 5, 7, 14, 18, 22, 26, 43, 45, 49,111, 211, 222, 223, 228, 387, 401, 408, 422,437, 438, 441, 445-47, 450, 452-54, 456,461-66, 469-71:Chiesa, vescovo, 58, 129-31, 141-43.cultura, 276, 294.economia, popolazione, 62, 65, 67-80.insegnamento, 274, 280, 282-84.Serapeo, 18, 58, 469.vita religiosa, 240, 255, 257, 259, 271.

Alessandro l’Acemeta, 157, 170, 260.alimentazione, 216, 224, 225, 418, 444, 449.allevamento, 215, 216, 354, 397, 423, 442.allume, 441.Amano, 402, 404, 407.ambiente, 155, 211, 219, 347, 350, 351, 363,

364, 366, 389, 415, 443, 453, 470:– rurale, 211, 219, 415.

Ambrogio, vescovo di Milano, 17, 56, 57, 308.Amida, 11, 30, 35, 41, 43, 230, 262.Ammiano Marcellino, 6, 10, 11, 153, 277, 286,

417, 424, 471.Ammonio, 461.Amorio, 383, 396, 398, 400.Amr, 51, 433.Amsareddi, 416.anacoreti, 253-59, 265-68.anafora (preghiera), 239.Anasarta, 405, 409, 412, 419, 424.Anastasio, imperatore, 28-31, 44, 57, 62, 75-

79, 122, 171-73, 179, 188, 202, 203, 228,233, 243, 252, 276, 330, 334, 342, 359, 360,368, 379, 418, 433, 456, 469, 472.

Anastasio il Persiano, 45.Anatolio di Costantinopoli, 71.Anazarbo, 231, 378, 401, 405.Ancira, 11, 45, 64, 66, 67, 197, 226, 378, 381,

383, 385, 386, 390, 392, 394-96.Andriake, 385.Androna (Andar¥n), 405, 409, 412, 416, 419,

423, 424.Anemurio, 378, 398, 400.Anfipoli, 337-39.

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496 Indice analitico

anfore:– africane, 32, 401.– egee, 399, 401.

angeli, culto degli, 312, 391.Anicia Giuliana, 204, 205, 250, 304, 310.annona, annonario, 46, 92, 100, 101, 205, 223,

227-30, 396, 401, 443, 451, 456, 466, 476:– militare, 185, 186, 233, 451, 456, 457.

anomei, 63, 67.antecessori, 94.‘Antar ( Jabal), 412.Antemio di Tralle, 310, 387.Anteopoli, 219, 439, 443, 454, 458.Anti, 36, 38, 364.Antinoopoli, 439, 445, 454, 461, 464.Antiochene, 218, 230, 263, 414, 423, 429, 432.Antiochia, 5, 9-11, 15, 22, 26, 29, 33, 35, 44,

91, 111, 115, 203, 378, 405:architettura, 305, 306.Chiesa, vescovo, 65-73, 75-81, 126, 129,

130, 143-45, 239.economia, popolazione, 211, 217, 223, 226-

228, 242.insegnamento, 273, 279-81, 283, 284.vita intellettuale, 287, 291, 292, 294.vita religiosa, 261, 263, 407-10, 417-22, 428-

430, 436.Antiochia di Pisidia, 378, 381, 384, 385.Antioco III, 392, 407.Antologia palatina, 286, 300.Antonio, monaco, 255.apaitetai, 453.Apamea, Apamene, 39, 44, 216, 225, 263, 299,

303, 307, 381, 405, 409-11, 416-20, 422,424, 427-32.

Apioni, 444, 460, 471.Apoftegmi dei Padri, 256, 257, 275, 289.appello, giurisdizione di, 105, 114-17.Appia, 378, 390.approvvigionamento, 15, 23, 92, 170, 175, 186,

201, 205, 223, 225, 256, 339, 340, 454.Aquae, 340, 362.Aquileia, 7, 12, 17, 38, 79, 265:

Chiesa, vescovo, 133.scisma, 79, 134.

arabarca, 455.Arabia, Arabi, 30, 35, 50, 51, 58, 69, 79, 155,

156, 171, 175, 178, 192, 229, 263, 292, 294,412, 425, 433-36, 438, 447, 457.

aramaico, 291, 379, 404, 406, 424, 445, 446,467.

Arcadia, provincia d’Egitto, 450.Arcadio, imperatore, 18-20, 40, 57, 62, 205,

301, 326, 343.Arãï‰, 47.Archimede, viti di, 416.

arcivescovato, 111.Areta il Ghassanide (Harith ibn Jabala), 30, 434.Areta il Kindita (Harith ibn ‘Amr), 433.Aretusa, 415.argenteria, 186, 222, 224, 395, 421, 424:

tesori, 39, 45, 46, 303, 315, 395.tesoro di Sion, 316.

Argo, 303, 327, 346, 348.Argolide, 212, 336, 352.arianesimo, ariani, 62, 63, 65-70, 179, 465.Arianna, imperatrice, 8, 25, 29.Arif, 389.Ario, 5, 62, 65, 66, 342.arithmos (numerus), 161, 458.Armenia, Armeni, 7, 9, 15, 17, 39, 40, 43-47,

49, 80, 114, 155, 164, 174, 175, 177, 193,209, 226, 291, 377, 380, 393-95.

armi, 162, 163, 171, 172, 184, 186:fabbriche di –, 105.

Arsenale, 106.Arsinoe, 173, 439, 444. artaba, 437, 449.arte profana, 298.artigianato, 217, 225, 226, 229, 259, 354, 355,

399, 443:– rurale, 217, 226.– urbano, 217, 225.

arura, 437, 455.Ascalona (Ashqelon), 405, 418, 420.ascesa al trono, 24-26, 42, 90, 184, 326.asceti, 241, 253, 254, 258, 261, 262, 270, 276,

428, 464, 472.Asemo (in Mesia II), 172, 173.Asia Minore, 16, 24, 33, 45, 46, 49, 61, 65, 68,

173, 334, 377-402:cultura, arte, 278, 305, 320.economia, 278, 305, 320.popolazione, 207, 209, 212, 213, 215, 216,

226.vita religiosa, 239, 260, 265, 269.

Asia, diocesi, 129, 382.Aspar, 22-26, 202, 345.Assiut, 439, 448.associazioni, 459, 464.Atanasio di Alessandria, 253, 255, 256.Atanasio il Cammelliere, patriarca monofisita,

145.Atargatis, 428.Atene, 9, 21, 30, 40, 58, 218, 327, 335, 342,

345-51, 387.atrio, 245, 306, 307, 349, 351, 385.Atti di Tecla, 377.Attico, 333.Attila, 23, 24, 36, 331, 345, 357.Augustae, 301, 340.augustale, 168, 222, 450-52, 456.

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Augustamnica, 13, 450.Aurelius, gentilizio, 159, 459.Ausonio, 14.autocefali (arcivescovi), 128.autopragia, 218.auxilia, 159, 161, 164, 189:

– palatini, 161, 197, 331.Avari, 38-40, 43, 46-48, 155, 164, 173, 212,

331, 344, 359-62, 369, 372.avorio Barberini, 36, 302.Axum, 30.

Babilonia, 51, 400, 457.Baduila, vedi Totila.Baian, 38, 360.Balcani, 15, 33, 36, 39, 40, 42, 45-47, 49, 178,

179, 207, 208, 210, 212, 213, 226, 234, 325,330, 337, 343-45, 353, 355, 358-62, 367-69,476.

Baleari, 25, 32.Balissos, 416.banchieri, 233, 234, 444.Barcusa, 405, 409.Barisha ( Jabal), 411, 414.Barletta, colosso di, 301.basileus, 89.basiliche, 6, 202-5, 243, 244, 248, 249, 305-7,

309, 312, 316, 348, 349.Basilio di Cesarea, 68, 239, 269.Basilisco, usurpatore, 8, 26, 76, 177, 271.Bassiana, 327, 330.Basso Danubio, 207, 381, 422.Batanea, 412.Batne, 405, 418.battesimo, 6, 58, 60, 237-40, 269:

– forzato degli ebrei, 60.battistero, 238, 248.Bau, 439, 458, 466.Bauit, 312, 439, 447.Belisario, 31, 34, 36, 163, 171, 172, 175, 218,

222, 360.Beozia, 212.Berito (Beirut), 280, 284, 400, 405, 418.Bes (divinità egiziana), 468.Bessi, 343.Betlemme, 6, 245, 265, 266, 267, 268.Bibbia, 16, 60, 276, 284, 289, 292.biblioteche, 276, 468.bilinguismo, 221, 448.Bin Bir Kilise, 394.Bîr Umm Fawâkhir, 208, 439.Bis Electi, 458.Bisanzio (città antica), 197-99, 249, 445, 467.Bitinia, 9, 11, 13, 226, 380, 381, 389, 393, 397.Bizacena, 12, 31, 171.Blemmi, 24, 156, 445, 457.

bohairico, 448.Bonifacio, comes, 23.Bononia, 327, 340, 361.Bostra, 35, 171, 307, 405, 412, 415, 418, 419,

421, 434.botteghe, 45, 205, 222, 225, 299, 384, 388,

392.Brioniano Lolliano, 386.Britannia, 6, 12, 15-17, 20, 21, 326.Bruzio, 12, 34, 38, 216.buccellari, 180, 181, 187, 189, 458.bulè, boulai, vedi curie. Bulgari, 30, 36, 38, 343, 359, 360.Byllis, 327, 339, 367.

Cagliari, 216, 231.Calcedonia, 42, 45, 47, 197, 242, 243, 378,

383, 394:concilio (451), 22, 24, 26, 35, 62, 70-78, 80,

81, 128, 129, 137, 139, 142, 149, 150,270-72, 280, 333, 342, 390, 408, 429,438.

Calcide, 405, 419, 427, 434.calendario liturgico, 240, 241.Callinico, 37, 41, 427.cammelli, 227.Camuliana, immagine di, 247, 320.cancelleria imperiale, 93, 105.canone (tassa), 396, 420, 455.Canopo/Menuthis, 439, 464.capitale imperiale, 91, 92.capitatio (capitazione), 100.capitum (foraggio), 185, 456.Cappadocia, 9, 13, 39, 44, 108-10, 114, 115,

218, 239, 276, 377, 380, 389, 391, 393-95.Caria, 13, 377, 380, 381, 383, 389, 391, 393,

394, 396, 397.Cariãin Grad, 216, 301, 327, 348, 350, 355,

365.carità, 10, 20, 54, 55, 190, 223, 251, 252, 257,

259, 269.Caritone, santo, 415.Cartagena, 12, 25, 32.Cartagine, 12, 23, 25, 31, 43, 177, 180, 210,

211, 281, 293, 399, 476.cartulari, 109, 124.case divine (domus divinae), 37, 107, 108, 218,

451, 456.Cassiodoro, 28, 217, 332.castrensis, 109.catafractarii, 162.catasto, 455.catecumeni, 238, 239, 306.cavalleria, 16, 162-64, 167, 173, 177, 398, 457,

476.cavalli, 39, 185, 216, 354, 363, 397, 454.

Indice analitico 497

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498 Indice analitico

cenobiti, cenobitismo, cenobi, 257-59, 262,264, 266, 272, 466.

ceramica, 32, 217, 229, 355, 364, 373, 400,401, 422, 426, 469, 477:– sigillata africana, 229.

cesare, 90, 116.Cesarea di Cappadocia, 68, 197, 283, 378, 398.Cesarea di Palestina, 405, 409, 410, 418, 420,

433.Ceylon, 229, 421.Chaboras (Habr), 403, 405, 416.chartophylax, 124.Cherson, 12, 173.Chiesa:

beni, 125.chiese «cattoliche», 124.costruzioni, 248, 249.fondazioni private, 124.

Chiesa giacobita, 144, 145, 272, 291.Chio, 229, 230, 393.Chonai, 395. ciabattini, 445.Cibele, 390.ciborio, 308, 316.Cilicia, 10, 12, 44, 197, 210, 380, 388, 395,

397-99, 401, 420, 422.Cina, 291, 400, 419, 421.Cinegio, 18.Cipro, 13, 43-45, 117, 208, 209, 212, 229, 292,

378, 381, 399, 422, 469:Chiesa, 71, 72.

circo: colori, vedi fazioni.giochi, 184, 223, 383, 429.

Cirenaica, 163, 171, 188, 422, 462.Cirillo, patriarca di Alessandria, 22, 72.Ciro, patriarca di Alessandria, 51, 452.Ciro di Panopoli, 21.Cirro, 405, 410.città, 210-12, 216, 217, 221, 223, 226, 229,

299, 305, 334, 338, 339, 346, 347, 356, 358,369, 372, 373, 377, 380, 382, 383, 390, 391,394-96, 404, 406, 408-10, 415-22, 424-28,430-34, 436, 438, 441, 445, 448, 452, 460,470, 471, 476:amministrazione, 101, 110-13:

titoli, 111.clarissimi, 98, 459.Claudiano, 461.Claudiopoli, 378, 393.clero, 54-56, 61, 120-23, 148, 182, 191, 239,

250, 252, 260, 299, 307, 388, 393, 394, 459,460, 462, 463.

clibanarii, 162, 172.clima, 207, 211, 215, 216, 261, 377, 435, 477.

Clisma, 229, 439, 441.codex, 276, 450, 461, 467.Codice giustinianeo, 30, 94.Codice teodosiano, 94, 252.codicilli, 97, 105.codificazione, 92, 94, 107.coemptio, 233.collectarii (cambiavalute), 233, 444.coloni, 220, 396, 409, 459, 460.colonnati, 299, 309, 384, 409.colonne trionfali, 301.comes:

– domesticorum, 98, 106.– d’Oriente, 115.– metallorum, 208, 356.– rei privatae, 107.– sacrarum largitionum, 107.

comitatensis (esercito mobile), comitatenses (sol-dati), 7, 155, 159-61, 164-66, 173, 175, 177,180, 183, 187, 458.

commerciari, 100, 400.concili, 22, 36, 55, 63-67, 69, 75-78, 260, 278,

394:– ecumenici, 96, 132, 147, 150; vedi anche

Calcedonia, Costantinopoli, Efeso, Nicea.concistoro, 94.conductores, 340, 396.consolare, 114, 449.consolato, 26, 37, 88, 98.contadini, 16, 166, 183, 211, 219, 220, 255,

373, 383, 396, 423, 431.copto, Copti, 277, 289, 290, 446-49, 463, 465,

467, 472, 476:Chiesa, 81, 438, 447, 448, 462, 463, 467,

468, 472; vedi anche Alessandria.Vedi anche letteratura.

corepiscopi, 120.Coricio di Gaza, 306, 312, 319.Corico, 225, 378, 388.Corinto, 36, 40, 224, 300, 327, 329, 335, 337-

339, 341, 342, 348, 350, 357, 360, 367.Corsica, 25, 32.Cosroe II, 40, 42.Costante, imperatore, 7, 9, 10, 55, 66.Costante II, imperatore, 192, 371:

statua di –, 300.Costantino di Licopoli, 462.Costantino I, imperatore, 121, 158. Costantino II, imperatore, 4, 6, 7, 248. Costantino III, usurpatore, 20, 248. Costantinopoli:

– cristiana, 55, 242, 243, 249-51, 261, 262,268, 270-73, 299, 304, 309, 310.

arte, 301, 302, 319, 320.assedio (626), 47.

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Chiesa, 64-81.concilio (360), 65, 67, 68.concilio ecumenico I (381), 149.concilio ecumenico II (553), 149, 150.cultura, 21, 275-78, 280-86, 289, 293-95.fondazione e sviluppo, 5, 6, 197-205. Gran Palazzo, 198, 217, 302.Ippodromo, 33, 199, 250, 347, 450, 453,

454, 458, 469.Lunghe Mura, 30, 36, 203, 327, 360, 361.Mese, 44, 199, 200, 250.monasteri, 270, 271.mura marittime, 23.mura teodosiane, 22, 202.Nuova Roma, 35, 91, 129, 203.popolazione, 204, 205, 210, 211, 223.reliquie, 242, 244.San Giovanni di Studio, 200, 308.San Polieutto, 198, 200, 204, 250, 310.Santa Sofia, 31, 37, 140, 200, 201, 204, 205,

217, 225, 243, 249, 250, 270, 275, 309-311, 316, 387.

Santi Apostoli, 10, 199, 200, 201, 249, 250,301, 304.

Sant’Irene, 199, 200, 205, 243, 249, 250.sede patriarcale, 70, 74, 332.Università, 21.

Costanzo II, imperatore, 7, 10, 14, 55, 59, 64,66, 96, 97, 121, 153, 249, 276, 342, 417,457, 468, 470.

Costanzo Cloro, 165.costituzioni imperiali, legislazione, 30, 93, 94,

99, 166.credito, 233.Creta, 114, 208, 229, 327, 329, 342.Crisafio, 21, 70, 74.crisargiro (chrysargyron), 6, 29, 100, 108, 225,

421, 456.cristianesimo, 53-81, 237-77, 304-21.cristianizzazione, 5, 6, 18, 21, 22, 48, 53-58,

178, 198, 201, 204, 222, 224, 234, 238, 240,251, 319, 320, 340-43, 349, 370, 384, 390-392, 417, 426-28, 440, 476, 477.

Croati, 48.Ctesifonte, 11, 45, 49.cubiculum, 102, 109.culto dei santi, 237, 241-43, 288, 319.cupola, 205, 307, 309, 313.curator civitatis, 112, 452, 454, 469.curatore dei possedimenti imperiali, 107.curie, curiali (decurioni, buleuti), 6, 10, 29, 56,

59, 100, 112, 121, 185, 221, 226, 281, 386,387, 392, 402, 420, 424, 453, 459, 469.

cursus publicus, 227, 382, 442, 453.Cutriguri, 36, 38, 359, 360, 365, 369.

Dacia, 13, 16, 17, 20, 155, 160, 211, 325-29,332, 334-36, 338, 342-45, 355-57, 368.

Dacia ripuaria, 155, 329, 336, 342, 346, 356,361, 362.

Dafne, 420.daimones, 391.Dalaman (in Caria), 389.Dalmati, 162.Dalmazia, 12, 27, 212, 325, 331, 357, 360, 362,

364.Damascio, 468.Damasco, 44, 50, 169, 172, 175, 293, 404, 405,

409, 434, 436:metropoli, 144.

Damaso, papa, 68, 133, 134, 308.Danubio, 12, 13, 15, 16, 23, 26, 36-42, 155,

156, 172, 173, 183, 207, 227, 325, 327, 331,336-38, 341, 342, 344, 345, 353, 355, 357-366.

Dara, 30, 36, 39, 40, 41, 43:metropoli, 144.

Dardanelli, 198, 229.Dardania, 327, 329, 330, 334, 336, 341, 354-

356, 362, 368.Dascusa, 378, 382.Dayr Naqln, 466.Decapoli, 406, 409.declino economico, 208, 431.defensor, 14, 452.Dehes, 405, 411.Demetriade, vedi Damasco.Demetriade (in Tessaglia), 327, 338.demi, vedi fazioni.demoti, 223, 230.deportazioni, 213.diaconesse, 121, 140, 462.diaconi, 121, 125, 191, 238, 463.diaconie, 206, 223, 266.dianomai (requisizioni), 456.Didime, 384.Digesto, 30, 94, 276, 460.dignità, 97, 98, 155, 459.dilectus, 181, 184.diocesi, 16, 64, 110, 115, 116, 325, 326, 328,

332, 340, 343, 380, 390, 407.Diocleziano, imperatore, 6, 62, 153, 158, 167,

176, 182, 197, 227, 282, 329, 380, 383, 408,415, 438, 440, 450.

Dion, 346.Dioscoride di Vienna, 276, 304.Dioscoro, patriarca di Alessandria, 70, 71, 73,

74, 136, 472.Dioscoro di Afrodito, 294, 462.diplomazia, 48, 105, 360, 368.diritto, 16, 31, 56, 92, 169, 191, 223, 246, 278,

Indice analitico 499

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500 Indice analitico

280, 282, 284, 293, 326, 362, 407, 418, 449,450, 461, 468:– canonico, 74, 333.

diritto d’asilo, 95.dittici, 78, 239, 303.Doclea, 327, 329, 338.Dodecascheno, 439, 440.dogane, 100, 106, 226, 231, 451, 455.Dokimion, 422.domenica, 240, 256, 266.dominato, 84, 89.donativa, 37, 184, 233.dromones, 176.Durazzo, 26, 226, 327, 329, 336, 337, 339,

345.Dsh, 439, 443.dux, 105, 106, 163, 169, 171, 188, 451, 456.Dvin, 37, 41.

ebraico (lingua), 292, 406.ebrei, 50, 223, 247, 392, 407, 417, 427, 445.economo, 123, 124, 139, 250, 258.Edesio di Pergamo, 387.Edessa, 35, 41, 43, 79, 125, 262, 271, 287, 291,

292, 339, 382, 404, 419, 421, 428, 430:immagine di –, 247, 320.scuole, 280.

Edfu, 437, 453, 472.editti, 73, 75, 79:

– di Milano, 55.– XIII (di Giustiniano), 189, 438, 451, 456,

461.educazione, 9, 190, 251, 273, 274, 282, 387.Efeso, 33, 45, 210, 378, 381, 385, 389, 396,

399, 400:architettura, arte, 299, 302.concilio I (431), 22, 69-73, 243.concilio II («brigantaggio») (449), 22, 24, 73,

149, 333.vita religiosa, 243, 269, 386, 390-95.

Efrem, 78, 291, 428.Egina, 212, 351.Egira, 50.Egitto, 18, 25, 26, 33, 35, 43, 44, 48-51, 113,

114, 326, 437-73:monachesimo, 253-60.

egumeni, 268, 272, 463.ekdikos, ekdikoi, 124, 139, 453.Ekthesis (638), 49, 80.Elena, 8, 245, 417.Eleusi, 327, 342, 346.Elia, patriarca di Gerusalemme, 77, 254.Ellade (Acaia), 13, 39, 46, 48, 111, 114, 327,

329, 336, 338-40, 349, 354, 361.Elusa, 281, 405, 412.

embole, 456, 464, 469.Emesa (Homs), 44, 242, 405, 415, 416, 435.Enciclica, 76.enfiteusi, 396.epiclesi, 239.epidemie, 23, 214, 430, 431.Epifania/Eudocia, figlia di Eraclio, 46.Epifania (Hama), 405, 409, 411, 415.Epifanio di Salamina, 246, 311.Epiro, 46, 212, 216, 327, 329, 334, 336, 338-

340, 342, 345, 354, 367, 368.Eraclea (Perinto), 327, 447.Eraclea Linceste (Lyncestis), 327, 346, 350.Eracleona, figlio di Eraclio, 51.Eraclio, imperatore, 42-44, 46-49, 60, 80, 81,

89, 153, 179, 181, 191-93, 203, 204, 207,244, 245, 247, 283, 286, 287, 293-95, 320,331, 366, 367, 370, 385, 402, 432, 438, 451,470, 472.

Eraclio Costantino, figlio di Eraclio, 46, 51.eremiti, 443, 465.eresie, 61, 260, 392.Ermopoli, 173, 211, 216, 248, 439, 445, 448,

450, 453, 457, 458, 463:Chiesa, 126.codice fiscale, 168, 460.

Erode, 408, 410.Eruli, 23, 36, 161, 342, 346.Erzerum, vedi Teodosiopoli.esarca, 40, 43, 117, 271.esercito, 153-93, 216, 221, 229, 233, 247, 320,

339-41, 344, 345, 362, 366, 381, 382, 440,446, 449, 457, 458, 476.

Esna, 439, 466.Etiopia, Chiesa di, 142.eucaristia, 54, 120, 237-39.Eudocia, consorte di Eraclio, 46.Eudocia, figlia di Valentiniano III, 8, 25.Eudocia (Atenaide), consorte di Teodosio II, 8,

21, 22, 46, 245, 265.Eufemia, martire, 242, 310, 394.Eufrate, 11, 13, 17, 43, 44, 155, 378, 400, 403,

404, 406, 407, 409, 416, 417, 419, 421, 427,433, 434.

Eufratesia, 13, 128.Eugenio, usurpatore, 17, 56, 179, 326.eulogie, 318, 319.Eulogio, patriarca di Alessandria, 443.eunomiani, 61-63.eunuco, 21, 70, 102.Euria, 212.Eusebio, governatore, 390.Eusebio di Cesarea, 65, 246, 287.Eusebio di Nicomedia, 65, 136.Eustazio di Sebastea, 269, 270, 394.

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Eutiche, eutichianismo, 69-71, 73-75, 78, 131,138, 139, 270.

Eutichiano, 394.Eutichio, patriarca di Costantinopoli, 138.Eutimio, 280, 415.Eutropio, 19, 20, 300, 328.Evagrio Pontico, 214, 256, 257, 265, 286.Evagrio Scolastico, 287, 294.exactor, 452, 454.excubitores, 160.Expositio totius mundi, 354, 470. Ezio, 21-23, 25.

fabbri, 217, 355, 445.falegnami, 355, 445.fanteria, 160-64, 178.Faran (in Palestina), 265, 267.Faran (nel Sinai), 439, 441.fattorie, 211, 216, 353, 389, 412, 415, 423.Fayyum, 167, 173, 219, 290, 437, 439, 457,

466.fazioni, 11, 31, 43, 223, 385, 392, 428.federati, 19, 21, 25, 29, 178-81, 328, 340, 345,

353.Felice, magister militum, 329.Fenicia, 155, 169, 172, 175, 284, 405, 423.feste:

– della Vergine, 241, 244.Dormizione, 148.Epifania, 238, 240.Natale, 148, 240.Pasqua, 240.

fiere, 230, 419, 464.Filadelfia (Amman), 405, 409.filarca, filarcato, 433, 434.File, 58, 439, 440, 442, 445, 448, 457, 463,

468.Filippi, 327, 339, 342, 347-50. Filippo apostolo, tomba di, 395.Filippopoli, 226.filosofia, 62, 274, 275, 280, 282, 285, 292, 293,

342, 462, 471.Filosseno, vescovo di Ierapoli, 77, 202, 292,

464.Firmo di Cesarea, 386, 388.fiscalità, 45, 87, 99-101, 103, 185, 219, 231,

234, 452, 453, 455, 456, 459, 476.fiumi, 227, 336, 363, 379.Flaviano, patriarca di Antiochia, 71, 73, 78.Flaviano, patriarca di Costantinopoli, 26, 49,

71, 73, 78, 79.Flavio (gentilizio), 24, 162, 167, 390, 452, 459.flotta, 22, 23, 25, 31, 43, 44, 47, 155, 162, 175,

176, 186, 229, 358, 360, 362, 369:– annonaria, 43, 229.– danubiana, 22, 360, 369.

Foca, imperatore, 42, 43, 181, 184, 186, 294,300, 362, 370, 385, 430, 438, 451:statua a Roma, 300.

foresta, 202, 208.fori, 301.forni, 230.fortezze, 11, 43, 51, 154-58, 169, 171-74,

193, 353, 358, 359, 362, 367-69, 382, 392,457.

Franchi, 10, 30, 38, 48, 446.Fravitta, 175.Frigia, Frigi, 60, 61, 210, 216, 377, 379-81,

390-93, 395, 397, 398.frigio (lingua), 379.funerali, 10, 223, 239.

Gaina, 19, 20, 176, 328, 345.Galazia, 13, 219, 377, 379, 380, 387, 390-93,

397, 401.Galerio, tetrarca, 165, 197, 307, 348:

ritratto, 300.Galilea, 59, 404, 412, 428, 469.Galla Placidia, 8, 22, 330.Gallia, 9, 10, 15, 17, 20, 21, 24, 27, 28, 164,

220, 345.Gallo, 8, 9, 60.Gamaliele, patriarca giudaico, 59.Ganzak, 41, 47.Garizim (monte), 59.garum, 229, 231, 418, 442.Gaza, 33, 58, 120, 175, 216, 248, 264, 283-85,

312, 313, 405, 418-20.Gelasio, papa, 134.Gelimero, 31, 37.Genserico, 23, 25, 31.Gepidi, 36, 38, 330, 342, 360, 365.Germano, 42, 178.Germia, 378, 390, 392, 395.Gerolamo, santo, 20.Gerusalemme, 10, 26, 31, 44, 49, 50, 58, 71-

75, 78, 81, 191, 206, 212, 223, 240-46, 249,264-66, 267, 268, 271, 305, 318, 382, 405,407, 417:Chiesa, 129, 145, 146.monachesimo, 264.sepolcro di Cristo (Santo Sepolcro), 244,

306, 318, 417.Gesù, 62, 69, 72, 240, 246, 407.Ghassanidi, 33, 50, 179, 434.Giacomo Baradeo, 35, 79, 393, 432, 434.Giorgio di Pisidia, 295.Giovanni Cassiano, 441-43.Giovanni Climaco, monaco del Sinai, 264, 295:

Scala santa, 264.Giovanni Crisostomo, vescovo di Costantino-

poli, 69, 70, 126, 131, 136, 138, 139, 143,

Indice analitico 501

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502 Indice analitico

219, 222, 239, 251, 270, 285, 287, 381, 408,461.

Giovanni di Cappadocia, 31, 380.Giovanni di Efeso, 35, 37, 39, 58, 214, 262,

361.Giovanni di Licopoli, 465.Giovanni Filopono, 461, 471.Giovanni lo Scolastico, patriarca di Costanti-

nopoli, 150.Giovanni Mosco, 288, 295.Giovenale, patriarca di Gerusalemme, 71-75,

129, 146, 268.Gioviano, imperatore, 11, 67, 153, 187.Giudea, 58, 211, 266, 412, 414, 417.giudeo-cristianesimo, 60.giulianisti (monofisiti), 26, 29, 35, 45, 49, 50,

61, 62, 70, 75-81, 179, 243, 262, 263, 393,429, 432, 434-36, 465.

Giuliano l’Apostata, imperatore, 9-11, 14, 18,54, 56, 67, 91, 95, 153, 202, 205, 274, 276,281, 285, 291, 303, 387, 389, 391, 394, 419,428, 433.

Giulio Nepote, imperatore, 27, 331.Giustina, imperatrice, 8, 17, 343.Giustiniano, imperatore, 29-31, 35-38, 42, 85,

89, 92, 93, 97, 104, 112, 113, 280, 293, 330,331, 334, 342, 346, 348, 360, 366-71, 438,451, 452, 454-56, 458:Codice e leggi, 30, 222, 234.costruzioni, 202, 204-6, 250, 251, 264, 265.politica religiosa, 57-61, 75, 77-79, 122, 148,

150, 151, 240, 268, 271, 272, 472.riconquista e misure militari, 31, 35, 79, 164,

170-77, 179, 180, 188-90, 192, 193, 202,204, 205, 209, 229, 277, 281, 331, 366,370, 371, 432, 458.

Giustino I, imperatore, 29, 60, 187, 393, 429,443.

Giustino II, imperatore, 37-40, 79, 87, 89, 90,107, 148, 176, 177, 202, 240, 330, 388, 393,423, 451, 453, 472.

gnosi, gnostici, 60, 290, 448, 465.Golan (Gaulan), 59, 211, 404, 405, 411, 412.Gortina, 211, 327, 329, 335.Goti, 7, 15, 16, 19, 20, 23, 25, 26, 28, 30, 34,

36, 61, 67-69, 155, 161, 163, 164, 175, 178,179, 183, 326, 328, 330, 343-46, 360, 379,401, 446.

governatori, 45, 93, 109, 113-16, 281, 300,385, 387, 388, 390, 407, 451, 452, 454-56,470.

grammatikos, 279, 281.grammatistes, 278.granai, 202, 204, 228, 229, 385, 401.Grande Chiesa, 61; vedi anche Santa Sofia.grano, 32, 33, 170, 185, 202, 215, 227-31, 354,

363, 366, 396, 397, 401, 418, 419, 423, 430,437, 456, 464.

Graziano, imperatore, 8, 14-18, 56, 68, 178,326, 328.

greco (lingua), 21, 60, 221, 255, 273, 277, 278,282, 284, 287-92, 294, 341, 371, 379, 406,407, 428, 435, 447-49, 451, 461, 462, 470,472, 476: letteratura, 291.

Gregorio di Nazianzo, 10, 64, 68, 182, 204,221, 257, 279, 283, 285-88, 292, 381, 389,461, 471.

Gregorio di Nissa, 64, 286, 288, 388, 397.Gregorio Magno, papa, 40, 131, 133, 141, 191,

212, 335, 443.Greutungi, 15, 16.gualchierai, 445.Guardia imperiale, 104, 106; vedi anche excu-

bitores, scholae, protectores.

Halaqa ( Jabal), 411.Halys (fiume), 226, 378.Hama (Hamath), vedi Epifania. Harith ibn ‘Amr, vedi Areta il Kindita.Harith ibn Jabala, vedi Areta il Ghassanide. Harran, 58.Hass ( Jabal), 411, 412.Hauran, 211, 404, 405, 406, 411-14, 424, 425,

434.Henotikon, 26, 76, 77, 148.Heortastikai (lettere festali), 463.Hi_iaz, 418, 419.Himyar, 30, 142.Hira, 433.Historia Augusta, 165, 166.Homs, vedi Emesa.honestiores, 421.honorati, 98, 420, 428, 469.Horreum Margi, 327, 336, 339, 355.Huarte (in Siria), 314.humiliores, 420, 421.Hypapante (festa della Purificazione), 148, 240.

Iaso, 383, 385, 398, 400.Iberia, 15, 40, 41, 47, 48.icone, immagini, 246, 247, 298, 300, 312, 317,

319, 320, 476.Iconio, 197, 377, 378, 381, 395.Ierapoli (Eufratesia), 77, 80, 384, 385, 390,

400, 405, 419, 428.Ierapoli (in Frigia), 378, 395.Ierocle:

Synekdemos, 110, 330, 339, 340.Illirico (Illyricum), 9-11, 16, 19, 20, 25, 27, 36,

40, 43, 46, 164, 178, 277, 325-373:Chiesa, 129, 133, 332-35.

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illustres, 233, 459.imbarcazioni, 11, 176, 198, 228, 230, 401,

445.Imerio, 388.imperatore:

potere nella Chiesa, 148.successione, 5-7, 22, 24-29, 42, 44-46, 51, 89.

Impero, unità/divisione, 16-19, 326.incendi, 204, 225, 433.India, 229, 291, 441, 456, 470.indikopleustai, 441.indizione, 44, 100.ingegneri, 387.Innocenzo, papa, 333.insegnamento, 56, 61, 62, 65, 222, 238, 239,

256, 257, 274, 275, 278-84, 292-95, 461.Ipazia, 22, 58, 471.Irenopoli, 378, 398.irrigazione, 167, 169, 218, 415, 426, 441.Isauria, 13, 26, 29, 67, 210, 213, 217, 242, 243,

380, 398.Isaurici, 23, 25, 223, 379.Isidoro di Mileto, 310, 387.Islam, 49, 175, 268, 295.Israele, 407.istituzioni caritatevoli, 126, 127, 252.Italia, 9, 17, 19, 20, 23, 24, 27, 28, 34-36, 38,

40, 48, 57, 79, 164, 174, 177, 179, 180, 209,211, 220, 229, 325, 326, 328, 330, 331, 345,346, 360, 369, 370, 400, 422.

iugatio, 100, 454.iuniores, 182.Iustiniana Prima (Cariãin Grad), 301, 327, 330-

332, 362:arcivescovo, 134.

jihad, 50, 192.

Karanis, 216, 218, 219, 439.Kavad I, 30.Kavadh-Siroe, 48.Kellia (Celle) (monastero), 256, 257, 287, 439,

466, 472.Kellis, 439, 442, 447, 467.kiborion, vedi ciborio.Kinda, 433.Kinditi, 433.Kitharizon, 41, 43.koimeterion, 462.koina, 459.kontakion (contacio), 47, 288, 292.Kotiaeion, 378, 390.Kratovo, 208.Kuber, 344.Kumluca, 395.Kuvrat, 48.

labarum, 55.laici, 75, 120, 223, 242, 259, 440, 463, 465.Lakhmidi, 33, 50, 179, 433, 434.lampade, 224, 247, 315, 316, 318, 354, 399,

422.Laodicea, 378, 390, 392, 400, 409, 418.largizioni, 107.Larissa, 327, 329, 335, 337, 346.laterculum, 105.latino (lingua), 9, 18, 180, 186, 221, 238, 255,

273, 277, 278, 280, 282, 286, 289, 304, 340,418, 449, 476.

Lattanzio, 182, 190, 415.laure, 265, 266, 415, 466.lavori pubblici, 112, 454.Lazica, 33, 36, 41.legioni, 158-62, 166, 187, 189:

– palatinae, 160.legname, 208, 217, 229, 245, 313, 317, 354,

355, 397, 420, 422, 443, 447.legumi, ortaggi, 216, 225, 229, 231, 397, 423.Leone I, imperatore, 25, 27, 57, 76, 187, 301,

342.Leone III, imperatore, 335.Leone Magno, papa, 69, 71, 137, 333.Leonzio, usurpatore, 26.letteratura, 56, 257, 273-77, 279, 284-92, 295,

420, 443, 463, 467:– copta, 56, 257, 273-77, 279, 285-92, 295,

421, 438, 463, 465.– siriaca, 277, 287, 289-93, 404, 406, 428,

432, 434, 476.lettura, 60, 234, 275, 278, 301, 304.Libanio, 14, 219, 221, 279-83, 285, 287, 387,

406, 408, 421, 424, 428:Antiochikos, 422.

Libano, 404.Liber Pontificalis, 316.libertà di culto, 55.Libia, Libici, 141, 398, 440, 446, 450, 469:

– I e II, 13, 155, 156.libri, 254, 276, 289, 290, 304.Licia, 208, 215, 269, 378, 379, 380, 385, 389-

392, 395-98, 401.Licinio, 5, 6, 55, 165, 175, 470.Licopoli (Assiut), 259, 439, 454, 458.limes, 7, 22, 36, 40, 45, 154-58, 169-72, 175,

179, 329, 338, 340, 346, 355, 357-59, 361,366-69, 381, 382, 396, 425, 434, 451, 476.

Limira, 384.limitanei (soldati), 158, 166, 170, 171, 175,

193, 414, 425, 457.lingue, 210, 221, 273, 277, 278, 289, 291, 341,

379, 403, 404, 406, 435, 442, 447, 448.lino, 216, 442, 443.

Indice analitico 503

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504 Indice analitico

Lisso, 212, 336, 337, 339.liturgia, 77, 238, 239, 245, 249, 251, 288, 305,

311, 312, 315, 448, 464.liturgie (munera), 111, 453, 454, 459, 462,

464.Longobardi, 36, 38, 40, 330, 360.Luoghi Santi, 244, 245, 264, 266.

Macedonia, 16, 17, 20, 25, 207, 211, 325, 326,327, 328-30, 332, 334, 336, 338-40, 344,345, 353, 355-57, 360, 361, 368, 371.

macedoniani (eretici), 63.Macrina, 394.Madaba, 248, 405.Maggioriano, imperatore, 27.magia, 54-56, 213, 289, 468.magister:

– equitum, 16, 164.– militum, 9, 15, 17, 19-21, 23-26, 29, 37,

42, 102, 164, 170, 173-75, 177, 182, 192,331, 345, 408:– per Orientem, 408.

– officiorum, 36, 94, 104-6, 165.– peditum, 164.

Magnenzio, usurpatore, 9.Magno di Nisibi, 461.Magusei, 391.Malala, 158, 174-76, 204, 283, 287, 430.malattie, 213, 214.mandylion, 320.manicheismo, 60-62, 277, 290, 467.Maometto (Mu®ammad), 50.Maratocupreni, 424.Marcello di Ancira, 66.Marcello di Apamea, 427.Marciano, imperatore, 8, 34, 35, 60, 71, 74, 75,

187, 250, 266, 342, 345.Marciano, usurpatore, 26.marcioniti, 60, 61.Mardin, 43.mare clausum, 227.maremoto, 441.Mareotide, 446, 464, 469.marinaio, 458.Marizza (fiume), 226, 227.marmo, 228, 248, 305, 309, 314, 354, 377,

384, 393, 395, 398, 422.Martina, imperatrice, 46, 51.martiri, 55, 175, 241, 242, 249, 269, 288, 298,

308, 393, 464.Martiropoli, 17, 40, 41, 174.martyrion, 199, 242, 248, 249, 294, 306, 308,

382, 385, 395, 454.Massenzio, tetrarca, 165.Massiccio Calcareo, 406, 411, 413, 414, 423-

427, 431.

Massimino Daia, 165, 255.Massimo, filosofo, 387.Massimo, usurpatore, 17, 326.Massimo il Confessore, 81, 268, 287.matrimonio, 19, 22, 24, 25, 40, 46, 60, 220,

239, 251, 254, 329, 386, 446.mattoni, fabbricanti di, 444.Mauretania, 12, 23, 32.Mauri, 162, 168, 171, 173, 174, 457.Maurizio, imperatore, 42, 58, 148, 172, 190,

191, 438:Strategikon, 39, 42, 178, 180, 189, 191, 363.

Mawiyya, 178, 433.Mecca, 50.medicina, medici, 213, 280, 283, 288, 289,

293, 392, 454, 461, 471.Medina, 50.Melania la Giovane, 125, 265.meleziani, 61, 259.Melezio, vescovo di Antiochia, 65, 67, 68,

143.Melitene, 41, 226, 280, 378, 380, 381, 382,

389.Memnonia, 455.Mena, santo, 243, 318, 464; vedi anche San Me-

na (santuario).Menandro Protettore, 294.mercati, 211, 230, 399, 431.Meriamlik, 395.Mesia, 13, 16, 155, 172, 211, 327, 329, 336,

338-40, 342, 345, 346, 356, 361, 362, 381.Mesopotamia, 9, 11, 33, 35, 39, 40, 43, 47, 59,

110, 153, 155, 170-72, 175, 178, 260, 400,403, 428, 430.

messalianesimo, 260.mestieri, 217, 225, 388, 417, 444, 445, 449,

458, 463.metallurgia, 208, 355.Metanoia (monastero), 466, 470.metropoli, metropoliti, 111, 122, 127, 128,

136, 210, 211, 221, 332, 353, 462:– onorifiche, 137.– onorari, 128.

Michele arcangelo, culto di, 395.Michele il Siro, 214, 430, 434.Milano, 17, 18, 38, 55, 66, 132, 308, 326, 333.Mileto, 378, 384, 392, 400.militia, 87, 101, 166.mimi, 252, 450.minerali, miniere, 208, 209, 355-57, 362, 377,

398.missorium di Teodosio, 302.mitraismo, 467.Mocisso, 378, 389.modius, 449.monachesimo, monaci, monasteri, 18, 26, 50,

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55, 58, 70, 75, 77, 191, 204, 223, 237, 240-242, 248, 250, 252-72, 280, 288, 343, 348,386, 391, 393, 394, 414, 417, 424, 426, 441,442, 446, 448, 457, 462-67: – egiziano, 253-60, 465.– girovago, 465.– in Asia Minore, 269.– siriano, 414, 424, 426.– urbano, 253, 259, 262, 265.

Monemvasia, 212, 327.moneta, 5, 14, 26, 28, 29, 32, 45, 46, 184-86,

231, 233, 234, 367, 373, 449, 455, 470, 477:– di bronzo, 26.officine monetarie, 45, 398.ritrovamenti e tesori, 45, 229, 315, 359, 360.

monofisismo, monofisiti, 26, 29, 35, 45, 49, 50,61, 62, 69, 70, 75, 76, 179, 243, 262, 263,334:– egiziano, 462, 465.– in Asia Minore, 392, 393.– siriano, 45, 432, 434.Chiese, 35, 79, 393, 329, 432, 434-36, 465.

monossili, 46, 47.monotelismo, 49, 75, 80, 81, 146, 452.montanismo, montanisti, 60-62, 391-93.Morava (fiume), 208, 226, 327, 336-38, 340,

356, 360.mosaici pavimentali, 303.mulini, 397.munera, vedi liturgie.municipalizzazione, 437, 468.Muta, 435.

Naaman, 179, 435.Nabatene, 420.Nag Hammadi, 61, 290, 439, 465.Naisso (Ni‰), 10, 29, 46, 153, 226, 327, 343.Narsete, generale († 574), 34, 38, 222.Narsete, magister militum († 606), 43, 192.nartece, 306, 349.naviculari, navarchi, 225, 230, 456, 460, 469.Nea Anchialos, 327, 349, 350.neoplatonismo, 277.Nero, Mar, 422.Nessana, 215, 216, 218.nestorianesimo, 69, 72, 75.Nestorio, vescovo, 69, 70, 74, 78, 131, 136,

137, 143, 243, 271, 292.Nicea (325), 5, 61-69, 74, 76, 128, 203, 240,

244, 342, 378, 383, 387, 394, 400.Nicerte, 263, 429.Niceta, 43, 44, 343, 438.Nicola di Sion, 391.Nicomedia, 9, 45, 65, 66, 197, 282, 378, 381,

383, 384, 386, 387, 392, 394, 398.Nicopoli, 329, 335, 336, 339, 350, 381.

Ni_de, 394.Ninive, 41, 48.Nisibi, 11, 22, 30, 37, 41, 229, 280, 291, 419.Nitria, 253, 254, 256, 259, 439.nomo, 218, 437, 453, 462.Nomocanon, 150.Nonno, vescovo di Edessa, 262.Nonno di Panopoli, 286, 461, 468.notai imperiali, 105.Notitia Dignitatum, 87, 113, 116.novaziani, 61.Novelle, 30, 87, 94, 113, 277, 461.numerus, 161, 367, 458.Numidae, 458.Numidia, 23, 32, 171.nundinae, 211; vedi anche mercati.Nuova Roma, vedi Costantinopoli.

oasi (in Egitto), 440, 448, 450, 457.obelisco, 228.Oboda, 412.Odoacre, 27, 28, 331.Oescus, 327, 337-39, 359.officine monetarie, 45, 108, 398.officium, officia, 102, 103, 105, 452:

– ecclesiastici, 124.oikoi, 422, 443, 454.Olimpia, 327, 336, 364.Olimpiade, 125, 252, 270.Olimpiodoro, 222.Olimpo (monte), 378, 394, 397.olivo, 207, 212, 215, 397, 423.omei, omeismo, 63, 65-68. omelie, 275, 288.omeusiani, 63, 67, 68.Onorio, papa, 80.opsikion/obsequium, 181.oralità, 275.Orapollo, 461.ordine equestre, 97, 102.orefici, 217, 392, 444.origenismo, 257, 268, 462, 465.Ormisda, papa, 78, 132, 134.oro:

– oblatizio, 38.miniere, 208, 343.

Orobe, 212.Oronte (fiume), 228, 404, 405, 406, 415, 416.Osmaniye, 389.ospedali, 127, 223, 460.ospizi, 205, 223, 265, 269, 386, 418, 460.Osroene, 155, 170, 262, 405, 427.Ossirinco, 439, 444, 448, 450, 452-54, 464.ostraka, 275.Ostrogoti, guerra gotica, 15, 27, 32, 177.

Indice analitico 505

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506 Indice analitico

Pacomio, monaco, 257, 258, 465.paganesimo, pagani, 5, 6, 10, 14, 18, 20, 53,

54, 56, 57, 62, 221, 247, 274, 284-86, 293,342, 373, 384, 385, 390, 391, 427, 428, 446,466-68.

pagarchi, 389, 454.pagi, 453.Pagnik Öreni, 382.paideia, 255, 273, 274, 276, 279, 284, 289, 293,

295, 448, 465.palatini, 108, 160.Palestina, 6, 20, 26, 44, 50, 58, 59, 110, 114,

212, 216, 217, 242, 244-246, 283, 294, 295,400, 404, 405, 406-14, 417, 423, 425-28,432-34, 445, 470:monachesimo, 263-268.Vedi anche Terra Santa.

palestre, 347, 384.Pallada, 468.Palmira, 157, 169, 172, 175, 404, 405, 409,

411, 421.paludi (in Egitto), 216, 442, 443.Panefisi, 441.panegyreis, 211; vedi anche mercati.Panfilia, 13, 128, 380, 381, 383, 393, 397,

398.Pangeo (monte), 208, 327, 356.pani politici, 37, 230.Pannonia, 12, 16, 25, 26, 28, 30, 36, 38, 42,

211, 325, 326, 328-32, 344, 345, 357, 360,362.

Panopoli, 286, 439, 448, 461.Paolino, vescovo di Antiochia, 65, 69.Paolino di Nola, 343.Paolo Silenziario, 275.papi, 64, 334.Patara, 378, 383, 384.pater civitatis, 112.Patermuthis, 458.Patrasso, 212, 327, 336, 339, 351.patriarcato, patriarchi, 26, 29, 35, 59, 71, 74-

81, 110, 116, 128, 130, 250, 268, 291, 333,417:– ecumenico, 140, 141.– giudaico, 59.

patrimonium, 107, 108.patriografi, 453.patriziato, 98.patronato, 220, 262, 424, 466.Pautalia, 337, 339, 346, 356.Pelagio, papa, 34, 79.pellegrinaggio, 6, 91, 237, 241-45, 261, 264,

266, 308, 309, 318, 383, 394, 395, 407, 409,417, 419, 429, 434, 441, 446.

Peloponneso, 39, 40, 47, 325, 336, 345, 350,352, 354, 361, 364.

penitenza, 170, 239.pentarchia, 130, 151.percorsi, 214, 229, 337, 338, 412, 415, 417,

419, 430:– marittimi, 227, 229, 401, 422.– terrestri, 226, 335, 442.

Pergamo, 9, 378, 383, 387, 393, 396, 399.Perge, 378, 383-85.Persarmenia, 39, 40, 47.Persiani, 7, 9, 11, 22, 23, 30, 33, 34, 36, 38-

42, 44-48, 58, 60, 80, 153, 155, 157, 164,172, 179-81, 192, 203, 212, 245, 247, 280,283, 291-93, 320, 360, 361, 370, 403, 418,421, 425, 429-32, 458:Scuola dei –, 280.

pesce, 217, 229, 231, 354, 442.Pessinunte, 378, 383, 390.peste, Grande Peste (542), 33, 34, 40, 48, 177,

192, 214, 362, 397, 401, 403, 430, 431, 477.petizioni, 93, 167, 263, 451.Petra, 405, 419, 461.Petronio Massimo, imperatore, 25.philoponoi, 120.Pietro, fratello dell’imperatore Maurizio, 172.Pietro Fullone, patriarca di Antiochia, 76, 77.Pietro Mongo, 76, 77, 142.Pietro Patrizio, 36.pneumatomachi, 63, 68.poesia, 275, 284-86, 292, 450.pollame, 216.Pompeiopoli, 378, 381.ponti, 358, 360, 381.pontifex maximus, 56.Ponto, 208, 209, 217, 334, 380, 382, 385, 387-

90, 393, 394, 397:diocesi, 13, 129, 137, 183, 393.

popolazione, 33, 34, 199, 201, 203, 204, 209-215, 340, 353, 363, 364, 371, 372, 396, 409,417, 423, 428, 435, 442, 445-47.

porfido, 199, 441.Porfirio di Tiro, 292.porti, 198, 201, 205, 227, 341, 420, 422, 441,

469.possedimenti, latifondi, 211, 219, 230, 340,

351, 389, 396, 423, 440, 443, 459:– ecclesiastici, 211, 219, 230, 340, 351,

389, 396, 423, 440, 443, 459.– imperiali, 170, 218, 331, 340, 351, 356,

452, 455, 456.posta (servizio pubblico), 227, 383, 409.poveri, 10, 216, 221, 252, 255, 386, 394, 421.povertà, ideale di, 251.praeses, praesides, 114, 451.Prammatica Sanzione, 35, 93, 135.precedenze, 14, 98.prefetto della Città, 14, 92.

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prefettura del pretorio, 93, 100, 102, 115, 176,201, 325, 328, 455, 456.

preghiera, 54, 191, 213, 239, 240, 254, 256,261, 269, 319.

preposito della Camera (praepositus sacri cubi-culi), 107, 109.

presbyteroi, 422.preti, 56, 57, 59, 120, 124, 191, 238, 393, 428,

433, 463.Prevalitana, 327, 329, 336, 362.primicerius, 168.primipilon (tassa), 456.princeps, 102, 105.proasteia, vedi possedimenti.processioni, 249, 251.Proconneso, 228, 248, 309, 327, 398, 422.proconsole, 114, 329, 331, 342, 380, 433.Procopio, usurpatore, 11.Procopio di Cesarea, 28, 29, 31, 33, 35-37, 62,

163, 171, 172, 174, 177, 179, 180, 188, 205,214, 219, 227, 229, 250, 282, 284-86, 293,330, 341, 356, 363, 367, 382, 383, 398, 430:De Aedificiis, 205, 250, 341, 367, 381, 386.

Proculo, 379.progymnasmata, 285.Propontide, 197, 201, 227.proprietari:

grandi –, 168, 180, 217, 219, 220, 222, 299,350, 389, 402, 420, 422, 454.

piccoli –, 218, 219, 396, 443.proprietà imperiali, 388.

protector, 188.Proterio, patriarca di Alessandria, 75.province, 113-15, 155, 156, 329-31, 381, 382,

408, 450, 451:– ecclesiastiche, 127, 331-35.

Psephos, 80.pseudocomitatenses, 160.Pulcheria (Augusta), 8, 21, 24, 70, 71, 74, 249.

Qal’at Siman, vedi San Simeone. Quadi, 15, 457.quaesitor, 92.quaestor exercitus, 117, 381, 390.questore del Palazzo, 93, 106, 107.

Radagaiso, 20.Ratiaria, 329, 337, 339, 355.Ravenna, 22, 23, 28, 32, 38, 73, 312, 313, 329,

333, 345, 399, 476:Sant’Apollinare Nuovo, 313.San Vitale, 234, 302, 311-13, 316.vescovo, 133.

Reggio, 212.reliquie, 45, 199, 242-44, 247, 308, 395, 464:

culto delle –, 247, 464.

relitto, 228.rendite, 25, 29, 168, 225, 226, 457.Resafa, vedi Sergiopoli.rescritto, 93.rese, 215, 457.res privata, 37, 340.retore, 14, 17, 274, 279-82.retorica, 10, 34, 37, 197, 203, 274, 275, 279,

280, 282, 284-86, 368, 387, 422, 461, 471.ricchi, 20, 170, 221, 245, 386, 418, 420, 421,

432.Ricimero, 27.riconquista, 31, 35, 80, 164, 170, 177, 192,

209, 229, 277, 281, 331, 366, 369-71, 432,458.

Riha, 316, 424.Rimini, 38:

concilio, 14, 67.ripenses, 166.ritratti imperiali, 95, 300.rivolta di Nika, 31, 205, 223, 250.Rodi, 45, 399.roga, 186.Roma, 5, 7, 9, 15-18, 20, 23-27, 29, 31, 34, 35,

37, 38, 284, 293, 300, 304-7, 333-35:Chiesa, 64, 65, 67, 68, 71, 73, 77, 78, 80,

130-37, 240, 268, 271, 333-35.popolazione, 34, 204.primato, 131, 132.San Pietro, 310.Santa Maria Maggiore, 310.Santa Pudenziana, 310, 311.

Romolo, imperatore, 27.Rua, 23.Rufino, 17, 19, 265, 328.Rufo, 333.

Saba, monaco, 266, 415, 427.sabellianismo, 63, 66.Sabous, 382.sacellario, 107, 109.sacerdoti cristiani, 6, 10, 71, 75, 121, 191, 280,

372, 455, 463:condizione matrimoniale, 122.stipendio, 126.

sacramenti, 54, 191, 237, 260.sacrifici, 5, 10, 17, 54-57, 310, 468.Sadovec, 350.Sagalasso, 378, 383, 389, 399.saidico, 290, 448, 450.Salamia, 405, 409, 419.salari, 34, 185, 222, 424.Salomone, 32.Salona, 46, 335.Samaria, 405, 409, 412; vedi anche Sebaste.Samaritani, 59, 60, 62, 406, 428, 432, 433, 445.

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508 Indice analitico

Samosata, 378, 382.Sangario (fiume), 378, 381.San Mena, 242, 243, 259, 439, 441, 446, 464:

ampolle di –, 243, 318, 464.San Saba (laura), 295.San Simeone (Qal’at Siman), 309, 405.Santa Caterina del Sinai, 312, 317, 439.santorale, 241, 242, 450.«sant’uomo», 261, 262.Sapore II, 7.Saqqara, 439, 447.Saraçhane, vedi Costantinopoli, San Polieutto.saracoti, 465.Sardegna, 25, 31.Sardi, 45, 225, 279, 283, 286, 378, 384, 386-

388, 392, 394, 396-401, 461.Sarmati, 7, 15.sarti, 445.Sassanidi, vedi Persiani.Satala, 327, 381, 382.Savia, 12, 23.scambi, 228-31, 358, 417, 476:

– commerciali, 36, 228-31, 337, 366.Scete, 256, 259, 439.schiavitù, schiavi, 15, 59, 165, 175, 177, 220,

231, 251, 252, 396, 401, 409, 420, 440,459.

scholae, 106, 160, 164.scholastikoi, 280, 461.scienza, 31, 293, 295.scisma:

– acaciano, 77, 78, 132, 134.– di Aquileia, 79, 133.

Sciti, 175, 177, 367, 458.Scitopoli (Beisan), 211, 266, 280, 288, 405,

409-11, 433.Scizia, 155, 160, 327, 359, 364, 381.Sclaveni, 36, 39, 43.Scodra (Scutari), 327, 335, 336, 339, 341.scrinia, 105, 107.scrittura, 275, 276, 278, 388.scultura, 248, 299, 304, 354, 447.scuole, 22, 58, 278-80, 283, 292, 293, 389,

461.Scupi (Skopje), 226, 327, 329, 336, 337, 339,

341, 356, 362.Sebaste (in Palestina), 242.Sebastea (nel Ponto), 378, 381, 385.Seleucia di Pieria, 228, 307, 405, 409, 416, 417,

420.Seleucidi, 409.Senato, 14, 17, 27, 31, 45, 56, 89, 92, 96-99,

153, 199, 201, 205.senatori, 17, 183, 201, 203, 222, 420.Septem (Ceuta), 32.Serbi, 48.

Serdica (Sardica, Sofia), 46, 226, 327, 329, 332,335-38, 341, 346, 362, 373:concilio (343), 131.

Serena, consorte di Stilicone, 8, 19.Sergilla, 226, 405, 411, 414, 431.Sergio, patriarca di Costantinopoli, 47, 80, 81,

244, 247, 294.Sergiopoli (Resafa), 157, 242, 243, 405, 409,

410, 419, 434:metropoli, 144.

Sermesiani, 343, 344.seta, 224, 229, 231, 400, 418, 421.Settanta, Bibbia dei, 60, 292, 446.Sette Dormienti, 395.severiani (monofisiti), 143.Severo d’Antiochia, 144, 264, 292, 315, 472.sextarius, 449.sfruttamento, 155, 208, 209, 218, 352, 355,

356, 373, 396, 398.Shahrbaraz, 44, 47-49.Shain, 44, 45, 47.Shbeit ( Jabal), 411, 412.Sicilia, 23, 25, 27, 31, 34, 35, 179, 212, 215,

230, 435.Side, 378, 384-86.Siene (Assuan), 439, 442, 457, 463.sigilli, 44.signa, 463.simbolo della fede, 66, 238:

– di Costantinopoli, 68.– di Nicea, 62, 72, 74.– di Nicea-Costantinopoli (381), 62.

Simeone il Giovane, di Aleppo, 243, 262.Simeone Stilita, il Vecchio, 261, 309:

eulogie, 318.Simmaco, 14, 17.sinagoghe, 59, 60, 314, 384, 385, 392, 414,

427.Sinai, 178, 245, 264, 295, 403, 439, 440, 441,

445.sinassi, 239, 306, 308, 463.sinedrio, 59.Sinesio, 163, 171, 184, 441.Singidunum (Belgrado), 23, 36, 226, 327, 336-

338, 340, 342, 345, 356, 361.sinodo:

– provinciale o metropolitano, 64, 128, 129,149, 333, 463.

– permanente (synodos endemousa), 138.Siria, 18, 33, 44, 45, 48-50, 57, 61, 80, 81, 155,

157, 172, 207, 208, 211, 215-17, 219, 224,226, 227, 229, 248, 260, 263, 270-72, 289,292, 303, 307-9, 314, 382, 387, 393, 396,399, 403, 404, 405, 406-8, 411-13, 417-32,435, 436, 476:monachesimo, 260-63.

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Siriani, 291, 341, 407, 433, 434, 436.Sirmio, 28, 38-40, 46, 66, 197, 326, 327, 329-

332, 336-38, 342, 345-47, 355, 360, 369.skeuophylax, 124.Slavi, 36, 39, 42, 46, 47, 155, 342, 360, 363-

366, 369-73, 476.Smirne, 378, 381, 383, 393.sobborghi, 211, 226, 339, 346, 353, 389, 396.Sofia, imperatrice, 37, 39.Sofronio, patriarca di Gerusalemme, 49, 50, 80,

146, 293-95.soldo, 42, 171, 184-86.solidus, 222, 231.spettacoli, 252, 450, 453.spezie, 228, 229, 421.Spoleto, 38.spudei (spoudaioi), 120, 265, 464.stadi, 192, 364, 385, 444.statua equestre, 301.Stilicone, 8, 19, 20, 328, 329.stiliti, 262; vedi anche Simeone.stipendium, 184, 233.Stobi, 327, 336, 337, 346, 349, 350.storia, 286-88, 293-95.Strata Diocletiana, 409.Strategio, comes sacrarum largitionum, 452.Strobilo, 378, 389.suddiaconi, 121, 140.suffraganei, 246, 333, 389.Sukhos (dio egiziano), 468.Sura, 405, 430.Svevi, 20.synone, 186, 187.systema, vedi mestieri.

Tabennesi, 257, 258, 439, 466.talento, 437.Talmud, 59, 60, 231, 407:

– di Babilonia, 59.– di Gerusalemme, 59.

Tarasicodissa, 24; vedi anche Zenone, impera-tore.

Tarso, 44, 292, 378, 381, 397, 400.Tarutia Emporon, 405, 409.Taso, 327, 354.tassazione, 10, 29, 44, 166, 168, 169, 183, 185-

187, 219, 220, 226, 233, 340, 370, 373, 416,420, 422, 424, 455.

tasse, 37, 231, 356, 387, 397, 455.Tauro, 41, 207-9, 211, 377, 397, 403, 404.Tavion, 378, 381.Taziano, 401.teatri, 347, 385.Tebaide, 13, 24, 156, 168, 188, 257, 450, 457,

461.Tebe (in Egitto), 338, 439, 441.

Tecla, santa, 213, 395.Teia, re ostrogoto, 34.Telanisso, 261, 427.Telmesso, 385.Temenotire, 378, 393.temi (themata), 193, 331, 402.Temistio, 14, 201, 203, 210, 282, 285, 387.templi, 6, 10, 18, 54-58, 198, 199, 299, 348,

385, 391, 393, 427, 438, 443, 463, 468.Tenedo, 229, 327.Tennesi, 439, 442.Teodora, imperatrice, 8, 32, 35, 37, 78, 142,

250, 300, 316.Teodoreto di Cirro, 73, 79, 219, 388.Teodorico l’Amalo, re ostrogoto, 26, 27, 30,

179, 313, 330, 345.Teodorico Strabone, 25, 26, 179, 346.Teodoro, prefetto del pretorio, 42. Teodoro, vescovo d’Arabia, 79.Teodoro di Ermopoli, 461.Teodoro di Faran, 80.Teodoro di Mopsuestia, 79, 292.Teodoro di Siceone, 123, 383, 395.Teodoro il Lettore, 287.Teodosio, figlio di Maurizio, 40, 42-44.Teodosio, patriarca di Alessandria, 78, 79, 142.Teodosio I, imperatore, 8, 16-19, 25, 56, 57,

59, 62, 64, 65, 68, 178, 179, 181-83, 190,202, 203, 298, 311, 326, 328, 342, 371,427:colonna, 301.obelisco, 228.

Teodosio II, imperatore, 8, 21, 24, 57, 61, 70-73, 90, 91, 94, 157, 169, 170, 249, 250, 270,277, 280, 282, 314, 329, 330, 343, 383.

Teodosiopoli (Erzerum), 41, 174, 227.Teofilatto Simocatta, 42, 294.Teofilo, patriarca di Alessandria, 136.teologia, 14, 63, 64, 67, 70, 275, 287, 291, 292,

295.Teone, 471.teoria dei due poteri, 134.terme, 198, 199, 201, 204-6, 347, 350, 383,

384.Termopili, 337, 345, 360, 367.Terra Santa, 6, 90, 318, 407, 464; vedi anche

Palestina.terremoti, 33, 49, 224.Tervingi, 15, 16.Tessaglia, 13, 19, 39, 46, 216, 328, 329, 336,

338-40, 345, 346, 353, 354, 360, 364, 366,368, 422.

Tessalonica, 16, 17, 25, 36, 40, 43, 46, 116,211, 226, 311, 312, 317, 326, 327, 328-64:Chiesa, 73, 133.Hosios David, 311.

Indice analitico 509

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510 Indice analitico

Rotonda, 307, 348.San Demetrio, 242, 303, 308, 309, 317.Santa Sofia, 310.

tessile, 400, 418, 443, 444, 449.tetrapili, 299, 384.tetrapoli, 409.Theotokos, 22, 243, 244, 312, 320.Tiana, 378, 382.Tiatira, 384.Tiberiade, 59.Tiberio II, imperatore, 178, 451.Ticinum (Pavia), 38.Timoteo Ailuro, patriarca di Alessandria, 75,

76, 142.Timoteo Salofaciolo, patriarca di Alessandria,

76, 142.Tingi, 32.Tiro, 66, 224, 225, 305, 400, 405, 418, 420,

421.titoli senatorî, 97, 98.titulus, 456.tolleranza, 10, 17, 45, 56, 343, 472.«Tomo a Flaviano», 71, 73, 74.Tomo di Leone, 78.Tortosa, 406.Totila (Baduila), re ostrogoto, 34, 178.Tracia, 11, 15, 19, 23, 25, 26, 29, 30, 36, 39,

40, 51, 164, 173, 178, 179, 193, 198, 202,207, 211, 212, 215, 216, 230, 277, 326, 333,334, 336, 341, 343-46, 352, 357, 359-62,367, 369-71, 381, 390:diocesi, 12, 325, 390.provincia, 327.

Traconitide, 433.tractator, 103.Traiano, imperatore, 11, 203, 301, 339, 419.transetto, 307.Transgiordania, 50, 212, 404, 406.trasferimenti, 122, 242.trasporti, 216, 419, 430:

– fluviali, 259, 466.Trebisonda, 293, 382, 394.Tre Capitoli, 35, 78, 79, 135.tributo, 23, 25, 30, 36, 39, 40, 43, 46, 51, 345,

357, 361, 368.Tripoli, 406.Tripolitania, 32, 450.Tra, 465.Tur ‘Abd¥n, 263, 405.Turchi, 40, 47, 48, 360.Turman¥n, 405, 414, 427.Tyche (fortuna), 203.Typos, 77.Tzani, 174.

Ulfila, vescovo, 14, 16, 67, 69.Ulpiana, 327, 336, 339, 356.Unerico, 25.Unni, 15, 22, 23, 25, 30, 38, 48, 155, 163, 169,

172, 329, 330, 342, 344-46, 359:– eftaliti, 30.

Unuguri-Bulgari, 48.urbanesimo, 248, 299, 346, 384, 418, 470.utensili, 209, 211, 217, 354, 355, 389.Utiguri, 36, 38.

Valente, imperatore, 11, 14, 15, 47, 56, 64, 68,153, 156, 173, 178, 183, 187, 198, 202, 205,358, 407.

Valentiniano I, imperatore, 169, 342, 343.Valentiniano II, imperatore, 15, 17, 162, 326. Valentiniano III, imperatore, 18, 22, 25, 204,

329.Vandali, 20, 23, 27, 29, 30, 32, 174, 177,

380.vasai, 417, 444.vedove, 120, 459.Vegezio, 162, 191.vela latina, 228.Venezia, 38, 442.Vera Croce, 45, 48, 50, 191, 206, 245, 247,

417.vergini, 120, 394.Verina, imperatrice, 8, 26, 27, 249.vescovati, 333, 339, 340, 349, 389.vescovi, 54, 56, 63-73, 76, 79, 80, 113, 119-24,

127, 238, 239, 248, 252, 255, 332-35, 379,386-88, 390, 391, 393, 394, 408, 433, 438,454, 462, 472.

vesti, 182, 185, 246, 389, 400.veterani, 166, 169, 182, 188, 189, 339, 418.Vetranione, 9.vetro, vetrai, 224, 392, 400, 418.vexillationes, 159, 162, 164:

– di cavalleria, 164.Via Egnatia, 197, 199, 226.Via Sebastea, 381.viaggi, 227, 442:

– imperiali, 91.vicario (diadochos), 333, 334, 387, 390, 407,

463.Vigilio, papa, 36, 79, 135, 334.villae, 211, 351, 352, 365.villaggi, 167, 168, 211, 212, 216, 217, 219,

220, 226, 248, 352, 357, 363, 365, 382,383, 387-89, 391, 394-97, 411-15, 420, 422,424-28, 431, 437, 440, 441, 447, 453-55,464.

Viminacium, 327, 329, 337, 338, 340, 345, 346,356.

vindex, 469.

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vino, 33, 37, 185, 215, 229, 231, 239, 351,354, 357, 397, 399, 418, 419, 423, 430, 443,456.

violenza urbana, 30, 42, 223.Visigoti, 15, 28, 32.Vitaliano, 29, 77, 176, 177, 179.vite, 170, 215, 397, 423, 443.Vite:

– di Antonio, 253, 255, 256.– di Nicola di Sion, 379.– di Teodoro di Siceone, 379, 382, 386, 389,

392, 397.Vittoria, altare della, 17, 56.Vittorino, 367.

Xanto, 378, 384, 385.

Yakto, mosaico di, 417.Yarmuk, 432.

Zabergan, 36, 360.Zaw¥ye ( Jabal), 411, 415.Zenone, imperatore, 24-29, 75, 76, 78, 243,

249, 280, 292, 345, 360, 379, 384, 432, 470,472.

Zeugma, 262, 378, 382.

Indice analitico 511

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Stampato per conto della Casa editrice Einaudipresso Mondadori Printing S. p.A., Stabilimento N. S. M., Cles (Trento)

nel mese di settembre 2007

C.L. 18610

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