16 · Giuseppe Russo e nel 1978 il giovane Peppino Impastato, un militante della sinistra ma...

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Il giornalismo d’inchiesta e il “metodo Francese”di Franco Nicastro

Le riunioni da Liggio

J’accuse. La chiave per capire cos’è la mafia

Militari e magistrati, due modi di vedere

Quella generazione del ‘79di Felice Cavallaro

L’escalation di don Peppino Garda

I rapporti tra le cosche siculee mafia italo-americana

La “guerra del dopo Campisi-Corleo”

Il dossier di Mario Francese

Quel filo che collega quei tre sequestri

Quel memoriale promesso da Luciano Liggio

Dietro Mandalà otto nomi, otto delitti

Quando la “mala” tocca un intoccabile

Da Garcia a Russo a Garcia

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SOMMARIO

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Quella sera di trent’anni fa la mafia aprì una nuova stagione criminale. Definì le sue strategie interne ed esterne, i metodi, gli obiettivi. E lo fece cominciando da un giornalista che prima di altri aveva colto

il senso dei cambiamenti in corso nell’universo mafioso. La logica dei fatti poteva dunque rendere chiara e lampante la ragione per la quale era stato ucciso Mario Francese. Ma perché si potesse ricostruire il quadro d’insieme abbiamo dovuto aspettare alcuni anni, le indagini di Falcone e Borsellino, le rivelazioni di Tommaso Buscetta, i maxiprocessi. E finalmente, nel 2001, le prime conclusioni giudiziarie sulla morte del cronista con la condanna degli uomini della cupola.Un’altra cosa i cronisti accorsi in viale Campania quella sera intuirono: che quel delitto era solo l’inizio di una lunga terrificante e martellante catena di sangue. Nel 1977 era stato ucciso il colonnello Giuseppe Russo e nel 1978 il giovane Peppino Impastato, un militante della sinistra ma soprattutto un giornalista sui generis che attaccava il boss Gaetano Badalamenti, lo ridicolizzava alla radio, denunciava i traffici della cosca di Cinisi. Alcuni segnali, insomma, c’erano già stati. Erano arrivati in coincidenza con una ripresa dell’attività investigativa che aveva avuto impulso dopo l’insediamento del procuratore Gaetano Costa. Sin dalle prime battute Costa si era mosso da un lato per rimuovere inerzie, insufficienze, ritardi sedimentati nel tempo e dall’altro per allargare lo sguardo verso il terreno inesplorato degli intrecci tra mafia e politica, del potere finanziario, dei nuovi affari di Cosa nostra: appalti, subappalti, grandi opere pubbliche. Guarda caso, i temi che sempre più spesso riempivano ormai le cronache di Mario Francese sul Giornale di Sicilia. Questa corrispondenza, certamente non casuale, tra nuovi indirizzi investigativi e inchieste giornalistiche non poteva passare inosservata né restare senza conseguenze. La mafia aveva fino a quel momento “tollerato” che Francese si occupasse giorno per giorno dei crimini e dei traffici degli uomini d’onore e ne riferisse con cronache puntigliose e verifiche assidue delle fonti. Aveva consentito che Francese desse voce a tanti testimoni scomodi nei processi di mafia come Serafina Battaglia e Maddalena Gambino e si impegnasse per

trovare un legale a chi non ne aveva per costituirsi parte civile. Cosa nostra aveva perfino consentito che raccontasse la storia di Ninetta Bagarella e delle sue nozze segrete con Totò Riina. Ma non poteva accettare che dalle pagine di un giornale di tradizioni moderate si alzasse il velo sugli interessi delle cosche verso il più grande affare di quel tempo, quello legato alla costruzione della diga Garcia. Francese se ne occupò con un’inchiesta a puntate che non solo arrivò prima dei rapporti dei carabinieri ma finì per svelare la rete degli intrecci che teneva insieme società controllate dai corleonesi. E questo era troppo. Finiva per rompere regole non scritte, esponeva il giornalista in un ruolo “intrusivo”, rendeva esplicita – e agli occhi dei mafiosi inaccettabile – una concezione del giornalismo portata oltre la dimensione espositiva e neutra della cronaca.C’è un’immagine ripresa negli atti del processo che descrive simbolicamente il modo in cui Francese declinava il suo giornalismo: i suoi colleghi lo ricordano tutti con il taccuino in mano nelle aule dove si processava la mafia, a fianco del pubblico ministero, quasi a raffigurare una posizione molto vicina a quella dell’accusa. Sembrano dettagli trascurabili che però agli occhi dei mafiosi assumevano un significato preciso e profondo. E finivano per alimentare un odio accanito. Ricordo ancora il livoroso disprezzo con cui don Agostino Coppola, il prete della mafia, apostrofava Francese nell’aula dove si processavano gli imputati del sequestro di Luciano Cassina, un altro passaggio cruciale della nuova strategia imposta dai corleonesi di Luciano Liggio e Totò Riina, l’uomo che il cronista del Giornale di Sicilia aveva già definito “tra i più sanguinari di Corleone”. Ricordo anche i malumori e le proteste che si levarono dal banco degli accusati quando Francese, assumendo per una volta in pubblico le vesti del testimone partecipante, si avvicinò alla corte per aiutarla a ricostruire la mappa, solo la mappa, dell’area in cui era stato ucciso l’agente Gaetano Cappiello impegnato in un’operazione antiracket.Questo era il suo metodo di lavoro. Un testimone attento, onesto, sensibile, animato da un trasporto civile che lo portava, nei colloqui con il suo direttore Lino Rizzi, a rimarcare la grande distanza culturale e morale tra lui e gli uomini delle cosche.

Il giornalismo d’inchiesta e il “metodo Francese” di Franco Nicastro*

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Ma anche il suo stile aveva segnato, allora, una discontinuità con il giornalismo tradizionale. Lo segnalava acutamente l’avvocato Nino Sorgi, uno dei più attenti e autorevoli penalisti palermitani: “Si deve a lui (Francese, ndr) un’impostazione innovatrice del vecchio concetto di cronaca giudiziaria. Ricordo che un tempo i cronisti dei giornali erano cancellieri: riempivano pagine intere, naturalmente con uno stile notarile, e, comunque, senza mai andare oltre il dibattimento processuale. Ecco, Francese fu credo il primo cronista a Palermo che cominciò a privilegiare la notizia del reato sul nascere, cioè prima di quella fase, diciamo così, protetta che è il dibattimento”. La modernità, e l’attualità, di quello stile diventò una connotazione forte del lavoro di Francese che cercava appunto la notizia “sul nascere” – tanto da trovarsi a vedere da vicino l’esecuzione di un delitto in una taverna della Vucciria – proprio come dovrebbe fare un cronista scrupoloso e rigoroso. Il valore di quell’esperienza non può essere colto nella sua fondamentale importanza se non va opportunamente richiamata la differenza rispetto all’oggi del tipo di rapporto tra le fonti e il cronista. È un tema che investe l’autonomia del giornalista, la sua indipendenza, la sua autorevolezza. Al tempo di Francese, e per un decennio ancora, era il cronista a cercare la notizia “sul nascere”, a seguirne lo sviluppo e a ricostruirne il profilo con un lavoro faticoso, difficile, rischioso. Le fonti difendevano il loro territorio e lasciavano filtrare solo poche essenziali informazioni. Il resto era il frutto di un’opera di ricerca e di verifica che portava il giornalista a contatto diretto con i fatti, i loro testimoni, i loro protagonisti. Non giravano verbali, non si convocavano conferenze stampa, non si offrivano resoconti dettagliati né comunicati. E molte porte restavano chiuse. Se oggi le moderne forme di comunicazione hanno favorito la circolazione delle notizie, con un indubbio vantaggio per la ricchezza dell’informazione, è anche vero che l’omologazione è diventata straripante per l’attenuazione dei filtri critici e che le strategie delle fonti hanno finito per imporre ai cronisti un rapporto di dipendenza. Per questo oggi è giusto chiedersi, anche e soprattutto all’interno della professione, cosa sia rimasto nel giornalismo di quello che si può definire il “metodo Francese” ossia la ricerca sistematica

della notizia condotta con cura e precisione artigianale. Poco, e quel poco rimane per l’impegno di alcuni cronisti che come Francese puntano sulla qualità e investono sull’indipendenza del loro lavoro anche in dissonanza con le scelte degli editori e delle direzioni. Allora come ora la mafia sa cogliere le evoluzioni della professione, sa distinguere una cronaca notarile dall’approfondimento e dall’inchiesta e sa dunque adeguare agli obiettivi più utili le proprie strategie. Con Francese venne eliminato un modello di giornalismo antinotarile e con lui la metafora di un giornalista che racconta la cronaca riempiendo il taccuino di appunti. Trent’anni dopo spetta ai giornalisti conservare la memoria di un modello professionale sempre meno connotato e sempre meno praticato. Specie qui in Sicilia dove è sempre un esercizio rischioso quello di raccontare semplicemente i fatti a dispetto di ogni tentativo di oscuramento e di condizionamento. Tra minacce e autocensure, che è la forma peggiore di abbassare la schiena, la sfida è ancora quella di produrre un’informazione libera. È per questo che prima e dopo Francese si può dire che il giornalismo siciliano abbia scritto le sue pagine migliori.

*Presidente dell’Ordine dei giornalisti di Sicilia

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I lutti di Palermo, gli orrori della città mattatoio che con i macellai di Cosa nostra avrebbe colpito al cuore magistratura e apparato investigativo, istituzioni e politica, maggioranza e opposizione, perfino la

Chiesa, ebbero un picco nel 1979, l’anno cominciato con il delitto di Mario Francese, cronista di giudiziaria del Giornale di Sicilia. Per chi ha vissuto da vicino quel drammatico giro di boa non come distaccato testimone ma da protagonista coinvolto con tormento e dolore, parlarne trent’anni dopo significa evocare il golpe tentato dai “viddani”, dai mafiosi di Totò Riina, i villani di provincia, come li chiamavano i notabili di una capitale grassa e molle, popolata da padrini e banchieri, editori ed esattori, tutti impastati, per dirla con Vincenzo Consolo, di un odore dolciastro di sangue e gelsomino. I golpe, si sa, cominciano dai palazzi dell’informazione. Era difficile allora interpretare l’assalto. Ma anche il lavoro dei cronisti e il loro luogo fisico di lavoro veniva posto sotto osservazione. Scrutati a vista. Come accadeva a Mario che a un tratto avvertì il fiato sul collo dei mafiosi e le attenzioni pelose di quel contesto che Bruno Caruso esplorava rappresentandolo nelle sue incisioni con paradisi botanici contrapposti a velenose teste di medusa. Un contesto composto da notabili, costruttori, professionisti untuosi, mollicci profittatori, non solo pacchiani e volgari sbrigafaccende di politici e potenti che capitava di incontrare anche in redazione. Era la città di allora dove tutto era concesso e tutto doveva sembrare normale, adeguandosi. Con l’avallo dell’omissione colpevole di chi avrebbe dovuto controllare. A cominciare da tanti magistrati ben inseriti in salotti snodo di trame oblique. E mi dispiace evocare il padre di un mio amico, Giovanni Pizzillo, il procuratore della Repubblica sul quale si addensarono i dubbi di tanti suoi colleghi, a cominciare da Rocco Chinnici, durissimo nei suoi diari. Ma è quell’impasto che arrovella ancora, dopo trent’anni. Un impasto perfino topografico. Penso al corpo senza vita di Mario, in viale Campania. Sotto casa. Stesso edificio in cui abitava Pizzillo, per un caso del destino. Stesso stabile dove cresceva il figlio Francesco, mio fraterno amico. E dove venivano

Quella generazione del ’79di Felice Cavallaro

su i figli di Francese, pure Giuseppe, il ragazzo che sarebbe stato preso dall’ossessione del processo, tanti anni dopo, con una caccia a ritroso su intrecci sfociati nella disperazione, nel suicidio, una corda al lampadario. Proprio come era accaduto al figlio di Pizzillo, anima candida, una roccia per noi tutti, anche per Francesca Morvillo, non ancora moglie di Falcone, anche lei della comitiva. Suicida pure lui, un colpo alla tempia, alla fine incapace di reggere il sospetto di interrogativi rilanciati dallo stesso Falcone e altri colleghi del padre. I ricordi feriscono, ma dobbiamo tirarli fuori per capire cos’è successo nelle nostre case. Non solo in quelle dei malacarne. I suicidi di questi due giovani, lontani nel tempo, questi drammi che nessuna indagine avrebbe potuto collegare, riflettono la tragedia di una città a lutto per lunghe stagioni poi dominate da quei “viddani” decisi a sostituire i padrini di città e stringere i loro rapporti con potenti, politici, costruttori, magistrati, giornalisti, nell’illusione che tutti dovessero sempre essere pronti a piegarsi, a prestarsi, ad adeguarsi. A questo travaglio ripenso davanti al buco nero di Viale Campania dove una gelida sera del gennaio ’79 vidi senza vita il cronista dalle suole di scarpa consumate, il compagno di scrivania che m’ero ritrovato accanto nei miei primi passi al Giornale di Sicilia. Ero catturato dalla mole delle sue informazioni raccolte negli ospedali e nelle bettole, negli uffici di magistrati, carabinieri e polizia, ovvero lungo i suoi giri che spesso lo portavano fuori città, in provincia. Per vedere con i suoi occhi, per ascoltare, tornare e scrivere. Svelando per esempio gli imbrogli miliardari per costruire la diga Garcia, il grande affare di allora. Tirando fuori i nomi delle società mafiose. A cominciare dalla ‘Ri.sa’. E che ne doveva sapere la gente della ‘Ri.sa’? Ci pensò lui a spiegare che il nome di quell’azienda celava proprio le iniziali di Riina Salvatore. Il boss che aveva sposato la maestrina di Corleone, Ninetta Bagarella, la sorella di Leoluca, il killer che sei mesi dopo avrebbe ucciso pure Boris Giuliano, il capo della Mobile. Riina passava, come Bernardo Provenzano, per l’uomo più fidato di Luciano Liggio, il grande capo all’Ucciardone. Entrambi suoi “luogotenenti”, come si scriveva allora. Come se si trattasse di un esercito. E lo era purtroppo. Con gli squadroni della morte

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pronti ad agire. Anche con la benedizione di qualche parrino. Perché dalla loro parte stava pure un pezzo di Chiesa, come Don Agostino Coppola, finito in manette per i sequestri che i Corleonesi negli anni Settanta organizzavano al Nord, in Piemonte, in Lombardia. Al processo Mario Francese si avvicinò al pubblico ministero e quel parrino, immaginando chissà cosa, forse un suggerimento, scattò con un “cornuto” che sentirono tutti in aula. Ma non si lasciava intimorire Mario. Nemmeno da croci e crisantemi trovati sul cofano della sua auto. E se c’era da aiutare una povera femmina sola e abbandonata contro i boss che le avevano ammazzato il marito correva a trovarle un avvocato. Prudenza, cominciavano a raccomandargli pure nel suo giornale. Non si capì subito chi ammazzò nel ’77 il colonnello Ninni Russo. E Francese ci lavorò a fondo. Come feci anch’io con l’aiuto di strettissimi collaboratori dell’ufficiale ucciso a Ficuzza. Alcuni articoli del 1978 offrirono una buona chiave per capire cosa accadeva, quale scontro stava maturando fra provincia e città. Scattava l’assalto. Il golpe. E, come tutti i golpe, si progettava di occupare radio, tv, giornali. Ci provavano i Corleonesi, golosi dei rapporti che i grandi boss della città avevano con politica, costruttori, esattorie. La guerra di mafia era vicina. Per i Bontade, gli Inzerillo, i Teresi si preparava la mattanza. Partita dura combattuta anche puntando al palcoscenico del giornale dove veniva bruciata la casa al capocronista, incendiata l’auto al direttore e rubata una BMW all’editore. Questa l’escalation culminata nell’assassinio di Viale Campania, seguito da una resistenza protrattasi un paio d’anni con un direttore venuto da fuori, Fausto De Luca. Breve, difficile resistenza contro una nuova mafia che non si accontentava più del ruolo di elemento parassitario tra pubblica amministrazione e produzione, ma voleva diventare essa stessa Stato e Impresa. Quando questo quadro non era ancora chiaro, Mario Francese cominciò a descriverlo. Prima collaborando a un saggio che sette, otto di noi, sotto la direzione di Roberto Ciuni, preparammo in occasione della visita a Palermo di Sandro Pertini. Poi trasformando le ricerche in un dossier su Cosa Nostra, una mappa su quartieri e “famiglie”. Un

lavoro che non fu pubblicato. Con suo disappunto. Anzi, Francese ebbe la sensazione che il dossier fosse uscito dal giornale. Una copia rimase a lungo poggiata su un mobile di fronte alla sua scrivania. Copia da me spesso consultata per leggere nomi di personaggi che abitavano anche sotto il giornale, boss e contrabbandieri della Kalsa. Francese descriveva una mafia pigliatutto che si occupava di sbrigafaccende, di banche, costruzioni, grandi appalti. Oggi sarebbe facile cogliere nella mancata pubblicazione di quella miniera di informazioni una colpevole manovra dei vertici del giornale. Ma certo se ne pentirono dopo l’agguato a Mario, quando fu consegnata a me una copia per correggere delle sviste e trasformare il lavoro in dieci puntate stampate nell’inserto settimanale del “Sicilia”. Avvertivo la reponsabilità del compito, la necessità di intervenire al minimo, terrorizzato dai miei possibili errori. Doveva essere la stessa copia sparita per tanti giorni dal giornale, come aveva protestato Francese, preoccupato di non trovarla al suo posto. Ma era ricomparsa. E lui, come si legge anche nelle carte processuali, se l’era riportata a casa. Sconfitto e amareggiato perché il suo giornale non dava adeguato risalto all’analisi di un dossier che parlava di una spaccatura dentro la “commissione” di Cosa nostra fra i “guanti di velluto”, cioè i moderati come Gaetano Badalamenti, e i “liggiani” fra i quali emergevano Riina e Provenzano e tanti nomi allora nuovi. Al punto che il giornale concorrente, L’Ora, dopo la morte di Francese s’azzardò a dargli del “visionario”. Una sbandata di colleghi pur con pregi e meriti nell’impegno antimafia. Vuoi o non vuoi, cominciò così un’opera demolitoria giocata soprattutto sull’annullamento della memoria. Non solo a Palermo. Lino Rizzi, il direttore dell’auto bruciata, ebbe per Francese il premio Saint Vincent alla memoria nel giugno ‘79. Poi intitolarono a Mario il premio dell’Unione cronisti, quello del cronista dell’anno. Lo chiamarono “Premio Francese”. E un anno lo consegnò il figlio Giulio, poi assunto al “Sicilia”, ai familiari di Walter Tobagi. Ma anche questo é un mistero. Improvvisamente, il premio dei cronisti non si chiamò più “Francese”, come si rammaricò lo stesso Giulio. Fu anche assegnata per Mario una vistosa targa

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di bronzo a Cefalù. La ritirò Rizzi e la espose in uno scaffale del suo studio. Restò lì col nuovo direttore, De Luca, uno dei fondatori di “Repubblica”, approdato per due anni a Palermo da dove andò via nell’82, subito dopo l’omicidio Dalla Chiesa. Con il nuovo direttore la targa sparì. Per caso un collega la trovò in un magazzino, abbandonata fra tante cianfrusaglie. La prese ed irruppe durante un’assemblea di redazione inveendo contro la direzione, gridando che la targa doveva essere rimessa al suo posto. Così accadde. Per qualche tempo. Piccole storie estranee a una inchiesta giudiziaria che invece ha zoomato sulla redazione in cui ha lavorato Francese, pure su alcuni colleghi che s’erano ritrovati a cena con qualche boss o in sintonia con potenti come gli esattori Salvo. Nulla di penalmente rivelante, per fortuna, ma frizioni, acidità, sordi contropiedi hanno segnato una generazione di cronisti. Con realtà, finzione e veleni che miscelati quasi mai hanno per risultato la verità. O forse trent’anni non bastano per dare il giusto peso alle cose che meritano attenzione e sottrarre zavorra alle ricostruzioni improprie. Ma si può cercare di ricordare e cominciare a raccontare tutto. Sforzo dovuto per una categoria che in Sicilia ha pagato caro, con altri sette giornalisti come Mario Francese caduti sul fronte della notizia.

Dall’albumdella famiglia Francese: Mario con la moglieMaria Sagonae i figli Giulio e Fabio

il Dossierdi Mario Francese

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La mafia è come una congregazione di mutua assistenza che ha suoi uomini in ogni struttura dell’apparato dello Stato e della società dove li infiltra, nell’apparente rispetto della legalità,

per ricavarne vantaggi puntando sulla corruzione, sull’omertà, sul rispetto. Attraverso il suo sviluppo, la mafia ha fornito negli anni possibilità di lavoro illegale o legalizzato, solidarietà, assistenza, collaborazione in ogni iniziativa le cui finalità non sono in contrasto con i principi dell’“organizzazione”.Ma, pur assicurando collaborazione ed assistenza ad uomini inseriti nella malavita, la mafia non si identifica con nessuna delle associazioni a delinquere che proliferano nei quartieri popolari della città. Ogni gruppo può agire nell’ambito di una zona limitata in modo autonomo, purché non infranga le regole dell’“onorata società” e non ostacoli i piani delle “famiglie” che comandano.La mafia protegge questi gruppi così come alimenta ogni iniziativa parassitaria ed antisociale non allo scopo di demolire le istituzioni dello Stato ma, piuttosto, per penetrare meglio nel tessuto sociale e trarne vantaggi sempre più grandi. Nel corso degli anni, c’è stata una vistosa evoluzione all’interno dell’organizzazione, rappresentata come una piramide il cui vertice è costituito da persone non sempre facilmente identificabili che, con criteri manageriali, manovrano le fila di complessi interessi economici a livello nazionale e internazionale. Al vertice esecutivo dell’organizzazione si giunge per meriti propri, per capacità organizzativa, forte personalità, spregiudicatezza, coraggio.Come si vede, siamo davanti ad una moderna concezione dell’organizzazione che è un superamento della mafia di città (preceduta dalla mafia delle campagne e delle borgate), peraltro non in contrasto con le cosche mafiose operanti nelle varie zone. Le cosche cittadine e provinciali in fondo costituiscono le basi di quella che abbiamo definito “una piramide”. Ed ogni cosca da questa moderna organizzazione, come ha sottolineato Henner Hess, trae vantaggi, impensabili in potenza, immunità e nei suoi traffici.Più in generale, l’“onorata società” è riuscita a darsi strutture e mezzi adeguati per un inserimento nei commerci tra Nord e Sud, tra l’Italia e i paesi della Comunità europea.

11 marzo 1979

J’accuse.La chiaveper capirecos’èla mafia

AttIvItà Non è un caso se in questi ultimi anni sono sorte moltissime società di autotrasporti. È emerso con chiarezza anche in occasione del cosiddetto processone ai 114 della “mafia nuovo corso”. È uno dei sintomi relativi all’espansione dei traffici oltre lo Stretto.Ricordiamo che molti titolari di società di autotrasporti, spesso mimetizzati da una sigla o da una denominazione, figurano negli elenchi dei mafiosi. E in diverse associazioni per delinquere ritroviamo camionisti di ogni città. Tuttavia, mentre assistiamo al boom degli autotrasporti, non mancano le società che falliscono: riesce a stare in “sella” chi ha agganci e protezioni e, soprattutto, chi si presta ad ogni “tipo” di trasporto.Basti qualche esempio: la cocaina sequestrata sui camion addetti al trasporto dei marmi, le casse di sigarette trovate su camion carichi di mobili o di cassette di frutta, lo zucchero zootecnico importato a prezzo agevolato dai Paesi del Mercato comune e trasportato con i camion operanti nel porto di Palermo nei centri della sofisticazione del vino. Una società sulla quale gli inquirenti sono riusciti a mettere le mani addosso è quella che ha fatto capo al presunto capomafia di Baucina, Francesco Realmuto, morto recentemente. Una società che ha raggiunto in pochi anni un capitale di oltre un miliardo. ContrAbbAndoIl contrabbando di droga, sigarette, valuta e preziosi è la principale attività che consente alla mafia di dominare la malavita dei quartieri imponendosi come fonte primaria di lavoro. Migliaia di disoccupati, di invalidi, di persone appena uscite dal carcere vivono infatti di contrabbando. Da non sottovalutare un aspetto sociale di fondamentale importanza: sono tutte persone distratte da reati più gravi come gli scippi, le rapine, i furti. Le soCIetà dI QuArtIereStanno, su piani diversi, naturalmente, il contrabbando di droga, valuta e preziosi e quello dei tabacchi.Palermo è divisa in zone ed ogni zona ha i suoi esponenti in seno alla “società” in cui sono rappresentati gran parte dei quartieri. Funziona proprio come una società per azioni, con un amministratore che affida i compiti ai componenti, con il cassiere, con gli uomini designati per reperire

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la merce, con i capi che debbono tenere i contatti con l’“esecutivo”.Per il contrabbando di sigarette la “società” crea delle basi operative che variano da periodo a periodo. Si ricorre ad espedienti suggeriti dall’esperienza. Per sbarcare senza danni un grosso quantitativo di sigarette nella zona di Termini Imerese, si può così attirare l’attenzione della Guardia di Finanza a Balestrate sacrificando un modesto quantitativo di tabacchi. Ogni società ha auto di grossa cilindrata, potenti motoscafi, propri mezzi navali ed automezzi pesanti, tutti ufficialmente di proprietà di persone insospettabili. Ciò spiega le difficoltà della Guardia di Finanza che non è mai riuscita ad individuare i finanziatori del contrabbando, probabilmente personaggi mascherati da un perfetto perbenismo. La ripartizione degli utili varia in base alla cifra investita nell’operazione e ai rischi corsi.È accaduto qualche volta che nella stessa zona si siano costituite più “società”. Inevitabile lo scontro con battaglie caratterizzate perfino da singolari alleanze tra gruppi di contrabbandieri e finanzieri.Gli esponenti delle società mantengono i contatti con i “vertici” esecutivi del contrabbando, rappresentati per anni da Gerlando Alberti, Tommaso Buscetta, Luciano Liggio. Questi ultimi, a loro volta, fanno da tramite con i fornitori tra i quali spiccano i terribili cugini Greco di Ciaculli.L’organizzazione ha i suoi agganci dovunque: si pensi che spesso i contrabbandieri riescono a tornare in possesso dei mezzi sequestrati partecipando alle “aste” giudiziarie. Gli introiti del contrabbando trovano sbocchi diversi. C’è chi investe i ricavi in attività lecite, soprattutto nel settore edilizio, chi torna a partecipare ad altre operazioni di contrabbando e chi costituisce società di diverso tipo: nascono così catene di ristoranti, boutiques, negozi di elettrodomestici, di mobili, bar. Altri controllano case da gioco clandestine, acquistano zavorriere e motopesca, investono in cavalli da corsa, comprano vaste estensioni di ortaggi a prezzi di assoluta convenienza, si dedicano all’usura imponendo tassi di interesse che si aggirano intorno al 20, 30 per cento, ogni tre mesi, ricettano oggetti rubati.Questo complesso ingranaggio spiega la forte solidarietà tra tutti gli anelli della catena, dalla base al vertice e spiega anche perché molti “sconti” non possano essere regolati per le vie legali.

ContrAbbAndo dI stupefACentIDa trenta anni le basi di questo tipo di contrabbando sono Palermo, Castellammare del Golfo, Salemi, Cinisi, Napoli, Roma e Milano. La droga viene smistata in USA, proveniente dalle raffinerie della Francia, della Corsica e dei paesi orientali. Un traffico possibile per i legami tra i vertici esecutivi dell’organizzazione con emissari d’oltreoceano, spesso siculo-americani.Nella penisola e in Sicilia operano numerosi gruppi, collegati con “agenti” di “Cosa nostra”, tra i quali negli ultimi tempi Salvatore Catalano, oriundo di Borgetto, emigrato negli Stati Uniti dopo la conclusione del processo ai 114 della nuova mafia. Catalano è collegato con l’italo-canadese Guido Orsini, abbastanza noto al F.B.I. e alla Guardia di Finanza.È possibile tracciare una planimetria dei gruppi operanti in Sicilia e nella penisola (escludendo per il momento quelli di Milano che fanno capo a Liggio ed Alberti e sui quali tenteremo un approfondimento parlando della “mafia del Palermitano”).NAPOLI: Salvatore Filippone, Gaetano Filippone, Giacomo Sciarratta, Tom Greco, Gennaro Napolitano, Michele Zasa, Tommaso Spadaro e Stefano Bontade.BOLOGNETTA: Giovanni Pitarresi, Salvatore Lo Cascio, Rosario Minì, Antonino Sclafani, Ciro Lo Cascio.ERCOLANO: Antonino e Giacomo Camporeale.ROMAGNA (Lugo): Salvatore Schillaci.PESCARA (Tosca Casaulia): Arturo Vitrano.REGGIO EMILIA (Cavirago): Pietro Salerno di Paceco.MODENA: Antonino Pollina di Alcamo.ARICCIA: Antonino Melodia di Alcamo.RIMINI: Antonino Sorci.TARANTO (Ginosa): Pietro Sorci.BARI (Conversano): Giuseppe Pomo.GENOVA: Calogero Bartolo di Cinisi.ST. VINCENT: Vincenzo Randazzo di Cinisi.VAL D’AOSTA: Faro Randazzo di Cinisi.CATANIA: Giuseppe Calderone e i fratelli Seminara.CASTELLAMMARE DEL GOLFO: Diego Plaia, Giuseppe Magaddino, Giuseppe Scandariato, Giovanni Bonventre, Giuseppe e Serafino Mancuso, i fratelli Cataldo.TAORMINA: Rosario Vitaliti e Francesco Scimone.MARSALA: il gruppo di Vincent Martinez.SALEMI: Salvatore Zizzo, i suoi fratelli e Giuseppe Palmeri.PARTANNA: fratelli Accardo.MISILMERI: Antonio Cimò, Francesco Vasta, Giuseppe

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Chiaracane, Edoardo Ducati, Francesco Mutolo.Il gruppo principale è quello costituito dai fratelli e dai cugini Greco di Ciaculli. Chiamiamolo per comodità gruppo n. 1 e diciamo che è collegato direttamente con il gruppo n. 2 (Pietro Davì e Giuseppe Albanese) e con il gruppo n. 3 (Antonino Salamone, cognato di Totò Greco l’ingegnere, Paolo e Nicola Greco).Il gruppo n. 2, a sua volta, è collegato con il gruppo n. 4 (Teresi, Citarda, Bontade, fratelli Spadaro, Tommaso Magliozzo, Francesco Cambria). Il gruppo n. 3 è invece collegato con il gruppo n. 5 (Alberti) e, a Palermo, con il gruppo n. 6 (Giuseppe Bono) e a Roma con il n. 7 (Mangiapane-Sciarrabba, Corso). Quest’ultimo è in stretto contatto con i gruppi n. 8 di San Lorenzo Colli, n. 9 di Terrasini e Cinisi, e n. 10 di Villabate. Il gruppo n. 4 è collegato con il n. 11 di Carini, che fa capo a Calogero Passalacqua. Il gruppo romano n. 7 è direttamente collegato con i gruppi di Castellammare e del Trapanese. Gruppo romA – LAzIoCostituito da Lucky Luciano (Salvatore Lucania) e dal vecchio boss di Partinico Frank Coppola, è il primo gruppo trapiantatosi nella penisola per tenere i collegamenti con esponenti italo-americani di “Cosa nostra”. Del gruppo fanno parte anche Antonino Buccellato, rappresentante della famiglia di Castellammare del Golfo. Giuseppe Corso (nato nel 1889) e il figlio Giuseppe del ’27, sposato con una figlia di Frank Coppola, entrambi di Partinico, Filippo Rimi e il fratello Natale di Alcamo, Gian Battista Brusca e Giuseppe Mangiapane di Castellammare e Giusto Sciarrabba di Palermo.Il traffico di stupefacenti per gli Stati Uniti ha fatto leva su questo gruppo. Ed è logico, quindi, che a questo gruppo abbiano fatto capo i vertici siciliani del contrabbando della droga, cioè Luciano Liggio, Gerlando Alberti, Gaetano Badalamenti, Tommaso Buscetta e i cugini Greco di Ciaculli.Dal 1975, per presunti rapporti confidenziali con il questore Angelo Mangano, impegnato nella cattura di Luciano Liggio, Frank Coppola sarebbe stato detronizzato. L’organizzazione romana sarebbe ora passata nelle mani del più giovane dei Rimi, Natale, e di Giuseppe Corso junior, implicato nella fuga di Liggio da villa Margherita, la clinica romana in cui era ricoverato.

ALtrI trAffICI CLAndestInIFra le numerose attività in cui è impegnata l’organizzazione mafiosa da ricordare il riciclaggio del denaro sporco (basti ricordare il caso di Alfredo Pantò, dipendente dell’Ente minerario siciliano), il commercio di vino sofisticato (un mafioso di Bagheria, Tommaso Scaduto, ha allestito addirittura una flottiglia con basi a Trappeto, Marsala, Anzio e Genova), il traffico dello zucchero alimentare e zootecnico da utilizzare per la sofisticazione (un processo si è concluso nell’aprile del ’78 con multe fra i 35 e i 40 milioni), il racket del latte sofisticato (la mafia ha abusato delle agevolazioni previste per l’importazione dai Paesi del MEC di latte in polvere ad uso zootecnico, poi venduto come latte genuino), il traffico della valuta e dei preziosi (l’Interpol ha informato la questura di Palermo, con una nota del 21 ottobre 1976, dell’esistenza di un traffico di preziosi tra Italia e Belgio con particolare riferimento a Palermo).Come si vede, la mafia non trascura alcun settore pur di realizzazione guadagni ingenti. Guadagni che le hanno via via consentito di migliorare i propri mezzi, al punto da rendere estremamente difficile il compito di chi dovrebbe sgominare l’“organizzazione”.

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m afia, fenomeno in continua evoluzione, anche nel ’78 contraddistinto da una sua peculiarità. Ai delinquenti assassinati nell’ambito della

lotta tra cosche, alle mezze cartucce uccise per “regolamento di conti”, come dicono gli inquirenti, nel ’78, si sono aggiunte alcune morti decisamente atipiche. Delitti che hanno fatto pensare a ristrutturazioni nell’“organizzazione”, a lotte intestine per l’attribuzione di cariche direzionali in seno alle “famiglie” di Palermo, delle sue borgate e dei comuni della provincia. Eravamo abituati a registrare, dal lontano 1957, omicidi nell’ambito della guerra di cosche contrapposte: tra “liggiani” e “navarriani”, tra seguaci di La Barbera e dei Greco. “Si uccidono tra loro”, era il commento dei dirigenti della squadra mobile e degli ufficiali dei carabinieri. Ma nell’ambito di quale guerra si possono collocare gli omicidi di persone come l’avvocato Gaetano Longo, per molti anni sindaco di Capaci, consigliere comunale democristiano, direttore della Banca del Popolo di Palermo, o dell’avvocato Ugo Triolo di Corleone, vice pretore onorario di Prizzi? Difficile – per non dire impossibile – dare una risposta a questa domanda. Anche perché le analisi sulla mafia sono diventate veramente complesse negli ultimi anni. Si pensi, per esempio, alla sua espansione determinata anche dall’indiscriminata applicazione di misure di prevenzione con provvedimenti di soggiorno obbligato in comuni lontani dalla Sicilia: si è finito per esportare mafiosi e delinquenti comuni in tutta la penisola. E si son esportate anche sacche di miseria, di problemi individuali, certamente non risolti dalle 700 lire al giorno previste per i più indigenti.Si sono così creati vasti strati di diseredati, esposti ad umiliazioni e disagi, facile preda di un’“organizzazione”, come si è detto, pronta all’assistenza, alla collaborazione, alla solidarietà. Naturalmente, a patto che a tutto ciò corrisponda disponibilità, rispetto, omertà.Non si spiega, altrimenti la potenza organizzativa raggiunta da gruppi ai quali fanno capo Luciano Liggio, Gerlando Alberti, i cugini Greco di Ciaculli, Frank Coppola. Personaggi diventati dei veri e propri “simboli” per emarginati che avvertono lo Stato addirittura come espressione di una casta prevaricatrice ed iniqua.

Polizia e carabinieri non avrebbero mai potuto controllare questo gran numero di pregiudicati distribuiti in diverse regioni del Paese. Contemporaneamente si è avuto il perfezionamento dei mezzi di trasporto e di comunicazione. Ciò ha facilitato la ricerca e il consolidamento dei rapporti tra confinati e gruppi di mafiosi stabilitisi sin dagli anni ’60 in Piemonte, Lombardo, Lazio, Toscana e Campania per tenere stretti collegamenti con gli italo-americani di “Cosa nostra”.La mafia si evolveva e le forze di polizia restavano con mezzi inadeguati mentre si approvavano leggi buone nel campo dei diritti civili. Ma proprio queste leggi hanno messo in moto un meccanismo perverso. Si pensi alla legge che garantisce la riservatezza delle conversazioni telefoniche, alle innovazioni del codice di procedura penale finalizzate al potenziamento dei diritti di difesa di ogni cittadino ma anche di ogni imputato, alla riforma carceraria con l’introduzione dell’uso del telefono nelle prigioni.Uomini come Liggio, Coppola, Alberti, Buscetta, pur detenuti, assicurando con il loro prestigio un certo ordine nel carcere hanno goduto in contropartita di privilegi che hanno consentito loro di tenere collegamenti con l’esterno e, soprattutto, con i luogotenenti.Abbiamo fatto un cenno su “Cosa nostra”. I rapporti tra le “famiglie” d’oltreoceano e quelle siciliane si concretizzano nel varo di un programma comune a carattere internazionale formalizzato, o meglio ratificato nelle “assise” di mafia all’albergo Arlington di Binghmantoan dal 17 al 19 ottobre 1956, all’Hotel des Palmes di Palermo dal 12 al 16 ottobre 1957 e ad Apalachin il 14 novembre 1957.Un rapporto della squadra mobile del 28 luglio ’65 mise in evidenza l’intensa attività nel traffico di stupefacenti, valuta e tabacco tra Stati Uniti e Sicilia. Il 31 gennaio ’66 vennero rinviati a giudizio per associazione in traffici illeciti Frank Garofalo di Castellammare del Golfo, residente a Palermo, Santo Sorce di Mussomeli abitante a New York, Vincent Martinez di Marsala, Gaspare Magaddino, Diego Plaja e Giuseppe Magaddino, tutti e tre di Castellammare, Giuseppe Corrito di Villabate, ma residente a Los Gatos negli USA, Giuseppe Scandariato di Castellammare, Filippo Gioè Imperiale di Palermo, Frank Coppola di Partinico residente a San Lorenzo in Ardea di Pomezia nel Lazio, Gaetano Russo di Palermo residente a New

18 marzo 1979I rapporti trale cosche siculee mafiaitalo-americana

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York, Rosario Vitalità di Taormina, Francesco Scimone di Boston residente a Taormina, Angelo Coffaro di Palermo, Giuseppe Bonanno e Giovanni Bonventre di Castellammare, Giovanni Priziola di Partinico residente nel Michigan, Camillo Galante di New York, Raffaele Quarsano di Detroit, Calogero Orlando di Terrasini.Precursori di questa nuova associazione siculo-americana erano stati Salvatore Lucania (Lucky Luciano) e Frank Coppola, entrambi espulsi dagli USA, rispettivamente nel ’45 e nel ’48. Luciano riallacciò rapporti con il palermitano Pasquale Enea, indiziato nel 1909 dell’assassinio del tenente di polizia americana Joseph Petrosino, collegato ad una rete internazionale di contrabbando di droga e ai pregiudicati palermitani Rosario Mancino, Pietro Davì, Giacinto Mazzara e Antonino Sorgi.Non mancava una ricca documentazione sui collegamenti tra le “famiglie” siciliane e quelle d’oltreoceano: il rapporto dell’americano Mc Clellan, le rivelazioni di Joseph Valachi, le note informative tra polizia italiana e statunitense.Segni premonitori dell’inizio del traffico di stupefacenti tra Sicilia e Stati Uniti si erano avuti nel giugno del ’49, quando la Guardia di Finanza arrestò a Ciampino l’americano Vincent Charles Trupie, un corriere che portava addosso 9 chili di eroina. Avrebbe dovuto consegnarli a Francesco Pirico, un milanese poi catturato.Altri “segni”: il 6 aprile 1951 all’aeroporto Urbe di Roma la Guardia di Finanza arresta l’americano Frank Callaci con 3 chilogrammi di eroina. Lo stesso giorno a Palermo viene bloccato l’italo americano Francesco Callaci, zio di Frank; nel luglio del ’51 il nucleo di polizia tributaria di Roma controlla una serie di ditte farmaceutiche del Nord autorizzate al commercio di stupefacenti. Si scopre che dal ’48 al ’50 cinque ditte (Alfa di Savona, Lodi di Genova, Gastoldi di Genova, Sace e Saipom di Milano) hanno venduto 716 chili di stupefacenti regolarizzando i propri libri di carico e scarico con documenti falsi. Furono coinvolti nel traffico Salvatore Vitale, “Totò il piccolo” di Partinico fuggito in America, Cristofaro Caruso di Palermo, latitante, Agostino Simoncini e Salvatore Torretta di Palermo. Denunciate, al termine delle indagini, 23 persone, tra le quali Frank Coppola, allora latitante.Chiusa la “fonte” delle farmacie, la mafia tenta di importare oppio dalla Jugoslavia e dalla Bulgaria e di

impiantare in Sicilia un laboratorio clandestino per la sua lavorazione. La squadra mobile di Palermo e il nucleo di polizia tributaria delle “Fiamme Gialle” di Roma nel febbraio del ’67 presentarono un dettagliato rapporto contro 91 persone. Ci sono tutti i nomi dei boss del gotha mafioso accanto ad altri meno noti. Al processo ne venne allegato un altro scaturito da un rapporto della sezione narcotici della squadra mobile del 23 febbraio ’66 contro Gaetano Badalamenti, Giuseppe Bertolino, Pietro Davì, Elio Forni, Salvatore Greco, Angelo La Barbera, Rosario Mancino, Giacinto Mazzara e Antonino Sorci, tutti accusati come i “91” di “traffici illeciti”.A distanza di dodici anni questi processi sono paradossalmente ancorati alla fase istruttoria, dopo un palleggiamento di competenza tra il tribunale di Roma e quello di Palermo. La magistratura romana ha poi ammesso la competenza dei giudici palermitani. Ma gli atti si sono bloccati all’ufficio istruzione di Palermo in attesa che l’indagine giudiziaria prendesse il via. Naturalmente, a distanza di tanti anni, difficilmente l’inchiesta potrà essere avviata, sia per il gran numero di imputati che per tutte le incombenze formali richieste dalla nuova procedura. Tuttavia l’indagine avrebbe consentito un controllo sulla posizione dei boss della droga e, almeno, avrebbe fornito agli inquirenti una mappa aggiornata dei “gruppi” e dei loro capi. Non se ne è fatto niente.Si tratta di processi ai quali si giunse tra il ’65 e il ’67, cioè dopo l’esplosione della “Giulietta-bomba” a Ciaculli e qualche anno dopo i rapporti congiunti di squadra mobile e carabinieri che tra il ’63 e il ’64, denunciarono prima un gruppo di 33 imputati capeggiati da Angelo La Barbera e, successivamente, altre 54 persone capeggiate da Pietro Torretta.I due processi, abbinati e celebrati presso la Corte di Assise di Catanzaro si sono conclusi con condanne minime per associazione a delinquere e con l’assoluzione per tutti gli imputati, tranne che per La Barbera e Torretta.Evidentemente squadra mobile e carabinieri sono venuti a conoscenza delle operazioni e dei controlli eseguiti dalla Guardia di Finanza soltanto a distanza di molti anni. Un gran numero degli imputati nei due processi tenuti a Catanzaro figurano nei rapporti delle Fiamme gialle. Se gli inquirenti avessero potuto leggerli nel ’60, probabilmente si sarebbe potuto evitare lo spargimento di sangue provocato dalla lotta

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tra le cosche.Si sarebbe dovuto costituire un centro misto di controllo della mafia tra polizia, carabinieri e guardia di finanza. Un centro con uno schedario da aggiornare almeno ogni mese per controllare gli stranieri e gli uomini dalla doppia nazionalità.Il lavoro in comune fra i tre corpi di polizia avrebbe consentito di avviare il tentativo di disciplinare il settore degli autotrasporti e quello dei portuali, settori di cui spesso si serve la mafia per una vasta gamma di attività illecite. E si sarebbero potute controllare le società che spesso costituiscono soltanto il paravento di personaggi ben mimetizzati dietro una sigla insignificante per riciclare denaro sporco, per speculare, o usufruire delle provvidenze che lo Stato e le regioni dispongono per incentivare iniziative industriali e produttive nelle zone depresse.

Mario Francese alle prese con una garadi trotto per giornalistiall’ippodromodella Favorita

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C arabinieri, polizia, studiosi dei fenomeni mafiosi concordano tutti su un punto: che i sequestri dell’esattore di Salemi Luigi Corleo, preceduto di pochi giorni dal rapimento del professor Nicola

Campisi, il sequestro di Graziella Mandalà, moglie dell’ex costruttore Giuseppe Quartuccio, la catena di omicidi intorno a Corleone apertasi nel ’75, l’omicidio del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, la soppressione di Ignazio Scelta e di Baldassare Garda sono le conseguenze più eclatanti di una guerra tra le due cosche dominanti in Sicilia e, forse, addirittura in tutta la penisola.La mafia si sarebbe dunque spaccata in due tronconi contrapposti, con caratteristiche e programmi inconciliabilmente diversi. In questa lotta, il primo tenterebbe di conservare posizioni raggiunte in decenni di intensa attività, l’altro gruppo di imporre la sua legge e i suoi sistemi.Secondo una schematizzazione attendibile, sarebbero queste le due grandi “famiglie” che si contendono il predominio: la cosca dei cosiddetti “liggiani” e quella dei “guanti di velluto”.La prima programma rapine e sequestri e controlla a livello nazionale il contrabbando di sigarette e di droga: l’altra è composta da mafiosi fedeli ai tradizionali schemi dell’“organizzazione” che, attraverso una serie di società-paravento, hanno indirizzato i loro programmi verso le opere pubbliche finanziate dallo Stato soprattutto nel Mezzogiorno e, in particolare, nella Sicilia occidentale colpita nel ’68 dal terremoto. I fondi per la ricostruzione della Valle del Belice hanno fatto gola a tanti uomini direttamente o indirettamente impegnati nella realizzazione di opere stradali, di invasi e dighe.Vediamo quali sono gli eventi appariscenti che suffragano l’ipotesi dell’esistenza di due tronconi mafiosi in guerra in un vastissimo campo disseminato di morti ammazzati. Il primo punto determinante è costituito dalla “promozione” di Gaetano Badalamenti, “capo-famiglia” di Cinisi, 56 anni, a “presidente della commissione” dell’organizzazione mafiosa del Palermitano, dopo la morte del boss di Caccamo, Giuseppe Panzeca, deceduto nel suo letto il 31 marzo 1967. Un’elevazione avvenuta secondo un antico rituale mafioso, con la partecipazione dei “capi-gruppo”, ognuno dei quali rappresentante cinque “famiglie”.

L’altro evento, quasi concomitante, è costituito dalla clamorosa fuga di Luciano Liggio dalla clinica romana del professor Bracci. Accadde il 24 novembre 1969. Trasferito nella casa di cura privata dell’ospedale di Reggio Calabria per essere sottoposto ad un delicato intervento chirurgico alla vescica. Liggio riuscì poi a dileguarsi sotto il naso degli agenti.La fuga ha avuto strascichi pesanti. Se ne interessò la commissione antimafia nominata dal Parlamento per studiare il fenomeno mafioso. E se ne occupò il Consiglio superiore della magistratura, nel tentativo di individuare eventuali responsabilità da parte dei magistrati.Dove si stabilì l’ex primula di Corleone subito dopo la fuga romana e prima del suo arresto avvenuto a Milano, il 4 luglio 1974?Tentò di stanarlo il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, allora comandante del nucleo investigativo di Palermo. Gli diede la caccia seguendo le sue piste finché non riuscì a stabilire la sua presenza in una cittadina della provincia di Palermo tra il ‘72 e il ‘73.Assolto per insufficienza di prove per una serie di delitti al primo processo di Bari, Liggio fu poi scarcerato. Quando seppe della modifica del verdetto in ergastolo al giudizio di appello, non pensò certo a costituirsi.Avrebbe trovato una rete di protezione idonea per garantirgli una tranquilla latitanza solo in provincia di Palermo dove era già riuscito a nascondersi addirittura per 19 anni al punto da meritarsi l’appellativo di “primula” di Corleone. La sentenza di Bari, come si dice in termini giudiziari, fu resa definitiva dalla corte di Cassazione nel ’71: a quel punto per Liggio non restavano alternative alla latitanza.La conferma della sua presenza nel Palermitano nel maggio 1973 l’ho avuta dallo stesso Liggio. Tramite un vecchio avvocato poi scomparso, Franco Berna, la “primula” preannunciò un suo memoriale che avrebbe anche presentato alla Corte di Assise di appello di Bari, cioè ai giudici che lo avevano condannato all’ergastolo, in modo da chiedere la revisione del processo.Con tutta probabilità Liggio si trasferì dunque in provincia di Palermo sia per usufruire della “rete di protezione”, che per contattare i testi sui quali far leva nella stesura del memoriale.Il colonnello Russo era convinto che Luciano Liggio si

26 marzo 1979Quel memoriale promesso da Luciano Liggio

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nascondesse a Piano Zucco, in gran parte controllato a quell’epoca dal parroco di Carini, Don Agostino Coppola, e dai fratelli Giacomo e Domenico. Controllato da loro ma di proprietà di Giacomo Chiello, abitante a Palermo in via Libertà, personaggio sotto certi aspetti ambiguo, causa indiretta dell’agguato subito dall’allevatore Francesco Paolo Randazzo il 27 ottobre 1974, rinviato a giudizio nel ’77 per contrabbando di sigarette.Alla fine del ’73 Liggio, che nel frattempo era andato spesso a Milano eludendo ogni controllo, cambiò parere. Non pensò più alla revisione del processo di Bari. E a me, che aspettavo il memoriale promesso attraverso l’avvocato Berna, fece sapere che non se ne sarebbe fatto niente e che avrebbe preferito “esser considerato morto”.Si trasferì in quel periodo in Calabria. Lo prova un viaggio nella regione di Don Agostino Coppola, poi implicato nel sequestro dell’ingegner Luciano Cassina. Già a quell’epoca Liggio aveva deciso il suo programma: sequestri di persona e controllo del contrabbando.Per mimetizzare i veri motivi della sua missione, Don Coppola si fece accompagnare in Calabria da una ragazza che interrogata, ha poi detto di essersi innamorata del sacerdote e, praticamente, di non essere riuscita a conquistare il suo amore.Dalle Calabrie a Milano: Liggio trovò nella metropoli l’appoggio di Gerlando Alberti, il boss palermitano meglio noto con il nomignolo “’u paccarè”.Ma a Milano Liggio fu poi arrestato perché coinvolto in una eclatante serie di sequestri di persone e condannato a 18 anni di reclusione insieme ad altri siciliani tra i quali spicca padre Agostino Coppola condannato a 14 anni.Ma perché l’ex primula di Corleone rinunciò alla comoda rete di protezione del Palermitano per trasferirsi nelle Calabrie prima e in Lombardia poi?Fuggito dalla clinica romana nel novembre ’69, Liggio appena giunto in provincia di Palermo strinse un patto di ferro con la mafia di Partinico, San Lorenzo Colli e Borgetto. La sua presenza è documentata da un atto notarile con il quale Liggio, revocando ogni sua precedente decisione, nominò la sorella Maria procuratrice legale di tutti i suoi beni. Non solo ma si è certi che in quel periodo fece consegnare alla sorella 40 milioni per acquistare un feudo in contrada Casale dove già possedeva 9 salme di terra. Per questa

operazione Maria Liggio venne incriminata di violenza privata perché, secondo i carabinieri, il feudo sarebbe stato acquistato con l’imposizione e pagato per una somma inferiore al suo valore.Nel Palermitano, Luciano Liggio raccoglie le istanze della malavita e soprattutto di giovani delinquenti gravitanti nel settore del contrabbando, in quell’epoca attanagliato da una forte crisi. È soltanto una coincidenza se la cronaca comincia allora a registrare una clamorosa serie di sequestri? Si va dal rapimento dell’industriale Antonino Caruso, sequestrato nella sua fattoria di Salemi il 27 febbraio 1971, a quello di Giuseppe Vassallo (settembre ’71), al tentato sequestro di Vincenzo Traina ucciso quella notte d’ottobre del ’71 perché resisteva; e si giunge al sequestro di Luciano Cassina avvenuta il 16 agosto 1972.Il clamore suscitato dai sequestri e, in particolare, da quelli di Vassallo e Cassina, tra i più noti e potenti imprenditori palermitani, non possono non provocare reazioni anche nei tradizionali ambienti della mafia.Il colonnello Russo viene così a sapere di una riunione della cosiddetta “commissione mafiosa” presieduta da Gaetano Badalamenti. In quell’occasione i “picciotti” erano stati autorevolmente invitati “a smetterla con i sequestri”.Ogni “invito”, nel gergo della mafia, è un “ordine” perentorio.“Se volete dedicarvi ai sequestri”, ammonì Badalamenti, “organizzateli fuori dalla Sicilia”. Ed aggiunse: “A Palermo non voglio più sentire parlare di sequestri”.Sembra che la decisione del “tribunale della mafia” non sia stata adottata all’unanimità. Avrebbero votato contro i rappresentanti delle “famiglie” di Liggio, Coppola, Scaduto di Bagheria e Gerlando Alberti.Il gruppo Liggio si trovò così in minoranza. Da qui la decisione di Liggio di trasferirsi in Calabria. Ma prima, acquistò a Vaccarizzo di Catania un agrumeto. Naturalmente non a nome suo. Si servì, come prestanome, di Antonino Quartararo, evaso il primo luglio 1970 mentre si trovava piantonato all’ospedale civico di Palermo.Anche con la collaborazione dei fratelli Ugone, poi coinvolti nell’“anonima sequestri”, Liggio fece costruire su questo terreno una villa a due piani con seminterrato adibito a magazzino. Una villa di oltre 400 metri quadrati.

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Mario Francesea passeggiocon la moglieMaria Sagona

I carabinieri e la guardia di finanza poi scoprirono che, sotto il pianerottolo principale, proprio a ridosso delle fondazioni, era stata costruita una cella certamente da destinare a prigione per i sequestri programmati dalla cosca in Calabria, in Puglia e nella Sicilia orientale.Liggio dovette dunque obbedire, per quanto a malincuore alla decisione della “commissione mafiosa” presieduta da Gaetano Badalamenti. Ma era rimasto per tre anni nel Palermitano e aveva avuto modo di rinsaldare i vincoli associativi, oltre che con Gerlando Alberti e Tommaso Buscetta, con quasi tutti i capifamiglia della città, delle sue borgate e della provincia.Il trasferimento di Luciano Liggio da Palermo in Calabria dev essere avvenuto il 25 febbraio 1974. Quel giorno, alle 13, la polizia bloccò in città, a piazza Scaffa, una “BMW 3000”, targata “Napoli 900219”. A bordo c’erano Michele Zaza di Procida (indicato nel febbraio ’73 da Leonardo Vitale come un gregario della cosca di Liggio), il boss di Villafrati Salvatore Santomauro, Biagio Martello (fratello di Mario, condannato a 15 anni di reclusione nel gennaio ’78 per il sequestro di Franco Madonia) e Alfredo Bono di Palermo, fratello di Giuseppe, uno degli imputati al processo dei “114” della cosiddetta “mafia nuovo corso”.Secondo informazioni confidenziali, i quattro che erano armati facevano da scorta ad un’altra auto riuscita a dileguarsi. Fu il colonnello Giuseppe Russo a stabilire che su questa seconda auto si sarebbero trovati Totò Greco l’“ingegnere”, Luciano Liggio e Domenico Coppola, fratello di Don Agostino. Fu lo stesso Russo ad aggiungere successivamente il nome di una quarta persona che avrebbe viaggiato con loro: quello di Giovanni La Barbera.Liggio e i suoi amici prima di partire per la Cabaria avrebbero tentato un vertice di mafia nella borgata di Uditore e, poco dopo, una seconda riunione nel fondo di un avvocato, a Brancaccio-Roccella: cioè dove – secondo le dichiarazioni di padre Giovanni Ajello, incaricato dal conte Arturo Cassina – furono depositati i primi 300 milioni del riscatto pagato (un miliardo e 300 milioni) per la liberazione dell’ingegner Luciano Cassina.

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I l colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, ucciso dalla mafia il 20 agosto ’77 a Ficuzza, non si stancò mai di dare la caccia a Liggio e al suo clan. Fra le varie informazioni che gli giunsero ce n’è una particolarmente

interessante: nel periodo di permanenza di Liggio nel Palermitano, padre Agostino Coppola, tra il ’71 e il 10 settembre ’73 acquistò beni immobili per 49 miliardi e 500 mila lire.Si costituì allora la “Solitano”, una società per azioni che acquistò Piano Zucco cedendolo in affitto a don Coppola e ai suoi fratelli Giacomo e Domenico. Questo nonostante l’impegno assunto dal proprietario del fondo, Giacomo Chiello, con l’agricoltore-allevatore Francesco Paolo Randazzo poi cacciato via a colpi di fucile.Risulta che Agostino Coppola caldeggiò finanziamenti per la “Solitano” presso la Cassa per il Mezzogiorno ricavandone un utile del dieci per cento. A Piano Zucco, secondo i programmi del tempo, avrebbero dovuto essere avviate un’industria del formaggio e un’altra per l’imbottigliamento dei vini pregiati.Contemporaneamente alla costituzione della “Solitano” sorsero altre società fra le quali la “Sifac S.p.A.” (soci Emanuele Finazzo di Cinisi, Vito Giannola di Cinisi e Antonino Nania di Partinico) e la “Zoo-Sicula RI.SA.” (sigla dietro cui va letto il nome di Riina Salvatore, luogotenente di Liggio).La “Sifac”, proprietaria di una cava a Cinisi, si dedicò a forniture di materiale alle ditte impegnate nei lavori edili all’aeroporto di Punta Raisi e all’impresa del conte Arturo Cassina, all’epoca impegnata nella costruzione dell’autostrada Punta Raisi-Mazara del Vallo. C’è una singola coincidenza: l’ingegner Luciano Cassina fu sequestrato il 16 agosto 1972, dopo la prima fornitura di materiale per l’autostrada effettuata il 10 agosto.La “Zoo-sicula RI.SA.” costituita il 5 dicembre 1972 da Franca Migliore di San Giuseppe Jato e da Domenico Farruggia di San Cipirello, era invece impegnata nell’acquisto di immobili. Tra il 26 dicembre 1972 e il 22 dicembre 1973 sono stati comprati terreni ed immobili per 65.850.000 di lire. Tra l’altro, fu comprato un palazzo a San Lorenzo Colli. In un appartamento di questo edificio avrebbe abitato proprio il luogotenente di Liggio, Totò Riina, insieme alla sua compagna, Antonietta Bagarella con cui si sposò segretamente, officiante padre

Agostino Coppola, nel maggio ’73. Nell’appartamento carabinieri e polizia arrestarono un fratello della Bagarella, Leoluca, trovato armato fino ai denti.Il colonnello Russo stabilì inoltre che, in contrada Rocche di Rao di Corleone, la “RI.SA.” comprò undici salme di terreno, ceduto in affitto per trent’anni, in cambio del compenso irrisorio di 30 salme di frumento all’anno, al corleonese Giovanni Grizzaffi, figlio di Caterina Riina, sorella del latitante Totò. Grizzaffi si sposò a Corleone il 6 settembre ’73, per cui la “cessione” deve essere stata un dono di nozze dello zio Totò. Al matrimonio intervennero Giacomo Gambino, Gaetano Carollo, Antonino Ciulla e Francesco Madonia del fondo Gravina. A mILAnoLuciano Liggio, facendo leva su luogotenenti, manovalanza della delinquenza e protettori organizzò tra la Sicilia, la Calabria e la Lombardia una vasta associazione specializzata soprattutto nei sequestri di persona.A Milano il “re di Corleone” si stabilì in un appartamento al quarto piano di via Friuli 15. Un vero e proprio “quartier generale” dove si svolsero diverse riunioni di mafia. Con lui convivevano la triestina Lucia Paranzan ed una bambina, forse sua figlia.La latitanza lo costrinse a ricorrere a travestimenti e a presentarsi sempre con nomi diversi: ora “signor Antonio”, ora “Antonio Paranzan”, altre volte come “signor Michele Di Terlizzi”.Nonostante la sua attenzione nell’evitare di essere notato frequentò spesso la sala da barba di Antonion Balducci e Pasquale Orsini, la boutique “Try 50” di via Umbria, gestita da Tony Casale, il negozio di frutta e verdura di Franco Gavagna in viale Umbria, il bar Lido in piazza Siparich 4, gestito da Angela ed Aldo Beretta.La prima riunione a Milano sarebbe stata tenuta da Liggio negli ultimi mesi del 1970. Questo secondo un rapporto del colonnello Russo. Oltre a Liggio vi avrebbero partecipato Totò Riina, Vincenzo Arena, Giuseppe Taormina e Salvatore Gambino. Si sarebbero stabiliti i programmi da attuare, i sequestri, le competenze territoriali di ciascun gruppo della cosca e i settori da controllare e ai quali dedicarsi con maggior profitto.Il colonnello Russo era convinto che Liggio fosse poi tornato a Milano nella primavera del ’71 dopo la scarcerazione di Gerlando Alberti e la soppressione di

1 aprile 1979Le riunionida Liggio

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Vincenzo Conti, soprannominato “Cucca”, assassinato a Milano il 4 aprile 1971. A questa seconda riunione avrebbero partecipato Salvatore Riina, Salvatore Enea (poi coinvolto nel sequestro di Graziella Mandalà), i fratelli Bono, Gerlando Alberti, Francesco Scaglione, Vincenzo Arena ed altri.Russo scrisse allora: “Non si può sottacere come, ancora una volta, il tempo e il succedersi di nuovi eventi delittuosi, abbiano confermato quanto accertato nelle indagini condensate nel processo ai 114 della mafia nuovo corso. Soprattutto abbiamo ancora meglio delineato i disegni criminosi di una organizzazione criminale che non conosce soste, non ammette insuccessi, aggiorna tempestivamente le sue tecniche, rinnova i propri quadri, estende ai più svariati settori il proprio interesse e la propria sete di lucro”.Ed ancora nel rapporto del 21 maggio ’74: “Le prime indagini a Milano – scrisse Russo – danno la conferma dell’esistenza di agguerriti gruppi di mafia cui è da attribuire la ripresa dei sequestri di persona nella Sicilia occidentale e il trasferimento di tale attività in continente”.Fu proprio Russo ad accertare il collegamento tra il gruppo di Liggio ed altre cosche, tra le quali quella calabrese, contattata attraverso il gruppo di Tommaso Scaduto di Bagheria che fungeva da trait d’union con i clan della Lombardia, della Toscana e delle Marche. Collaborava in questi collegamenti Antonino Di Cristina, 45 anni, imputato della strage di Locri.Il gruppo dei calabresi era composto da famiglie molto note nel gotha mafioso: i Sammarco, i Carone (Sant’Eufemia), i Piromalli (Gioia Tauro). Tra gli altri, anche Vito Gallina, oriundo di Carini, ucciso – secondo i carabinieri – da Girolamo Piromalli e Giuseppe Carbone.Tra gli amici di Liggio figurano, inoltre, i fratelli Quartararo di Brancaccio, Vincenzo Chiaracarne di Palermo, Damiano Caruso di Villabate, Giacomo Taormina arrestato per i sequestri Torielli e Rossi di Montelera. Altri nomi abbastanza interessanti: Domenico Bacchi di Partinico, Giuseppe Scaduto di Bagheria al soggiorno obbligato a San Colombano al Lambro, in provincia di Milano, Pietro Scaduto di Bagheria, contrabbandiere, Antonio Scaduto di Bagheria ma residente a Novara.Si parlò di questi personaggi al processo all’“Anonima sequestri” celebrato a Milano. In quell’occasione il colonnello Russo fornì alla magistratura anche una

lunga lista di amici di Liggio operanti in diverse città italiane.Eccola: Francesco Alterno, autista di Palermo, Gerardo Alterno muratore di Palermo, Giuseppe Alterno camionista della borgata Uditore e il figlio Salvatore camionista. Poi: Francesco Anselmo di Partinico ma barbiere a Roma, Gaspare Anselmo impiegato a Roma, Salvatore Anselmo anch’egli di Partinico, studente. Inoltre: Antonino Badalamenti di Cinisi, Natale Badalamenti allevatore di buoi a Cinisi, Gaetano Badalamenti anch’egli allevatore a Cinisi, Giuseppe Bertolino, produttore di vini a Partinico, Alfredo Bono palermitano residente a Milano, Giuseppe Bono residente a Milano, Giuseppe Briguglio di Partinico, Andrea Cataldo di Alcamo, imprenditore edile, Nicolò Cataldo imprenditore edile di Alcamo, Vito Cataldo impiegato comunale a Balestrate, Gaspare Centineo di Partinico. Seguono nomi di rilievo: Agostino, Domenico e Giacomo Coppola di Partinico, Vincenzo Di Giorgio imprenditore edile di Partinico. Gaspare Di Trapani, agricoltore di Partinico.

L’ArrestoQuando nei rapporti di carabinieri e polizia si parla di una vasta rete di protezione il riferimento corre a questi ed altri “amici”. Non mancarono però – come si è detto – le divisioni. La “triplice alleanza” tra le cosche siciliane, calabresi e lombarde, avvenuta fra il ’73 e il ’75, provocò in tutto il Paese uno stato di allarme generale. E provocò anche reazioni negli ambienti della mafia tradizionale.I primi sintomi della guerra tra “mafia nuovo corso” e “vecchia mafia” si erano già avuti nel ’71 a Palermo.Infatti, il 14 settembre ’71 a Tommaso Natale venne ucciso Francesco Ferrante, alla ribalta della cronaca giudiziaria sin dagli anni cinquanta. Il corpo di Ferrante fu trovato semicarbonizzato dentro la sua “500”. Era guardiano di Villa Boscogrande a Cardillo. Il delitto è rimasto impunito.Subito dopo, il 30 maggio ’72, scomparve in circostanze misteriose un altro uomo della gang di Tommaso Natale, Filippo Pellerito. I due, oltre ad occuparsi del traffico della droga, erano quasi certamente implicati nel sequestro di Giuseppe Vassallo. Con le intercettazioni telefoniche effettuate durante la trattativa per il pagamento del riscatto per la liberazione del figlio del costruttore edile Francesco Vassallo si stabilì infatti che le tre voci registrate

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corrispondevano a quelle di Giuseppe Scaduto di Bagheria, di Francesco Ferrante e Filippo Pellerito.La giustizia non fece in tempo ad accertarlo perché la vecchia mafia “punì” i due con una sentenza irrevocabile di morte.Per la gang di Luciano Liggio le cose erano andate meglio nel Nord. Il “re di Corleone” era coadiuvato dai luogotenenti Totò Riina latitante dal marzo 1970, Bernardo Provenzano, latitante dal 1958, Calogero Bagarella latitante dal 1957, e Leoluca Bagarella. Tutti di Corleone, avevano già all’attivo i sequestri di Luigi Rossi di Montelera, Paul Getty III, Cristina Mazzotti, Luigi Genchini (Milano), Renato Lavagna (Torino), Egidio Perfetti (Milano), Giovanni Bulgari, Saverio Garonzi, Giuseppe Lucchese, Giuseppe Agrati, Baroni.All’attivo dell’“Anonima sequestri” anche gli omicidi di Vito Gallina di Carini assassinato a Fabriano il 5 febbraio ’74 e di Giovanni Gallina, ucciso a Carini il 26 maggio ’74. Questo il motivo per cui i due fratelli sarebbero stati giustiziati: Vito Gallina avrebbe rifiutato di offrire la sua collaborazione al progetto del sequestro della figlia del senatore Francesco Merloni, titolare della “Ariston”, una fabbrica di elettrodomestici.Lo avrebbero eliminato due “fedeli” della gang di Liggio, il calabrese Piromalli e Giuseppe Carbone. Proprio gli assassini ai quali Giovanni Gallina tentò di dare la caccia per vendicare il fratello trovando, però, la morte.Anche le gesta di Luciano Liggio finiscono per registrare una fase discendente. E il 4 luglio ’74 l’ex primula di Corleone, con azione a sorpresa della Guardia di Finanza, viene arrestato nel suo rifugio di Milano dove le Fiamme Gialle trovano armi e munizioni di tutti i tipi.

Un cronista instancabile:Mario Francesea caccia di notiziesulla diga Garcia

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L uciano Liggio fu arrestato nel suo rifugio di Milano il 4 luglio 1974. Due mesi prima, il 23 maggio, era finito in carcere padre Agostino Coppola, uno degli imputati dei sequestri di Rossi di Montelera e Baroni a

Milano, e di Luciano Cassina a Palermo. Non è un caso se, nell’abitazione di don Coppola, furono sequestrati cinque milioni del riscatto Baroni.Le file della cosca furono decimate da numerosi arresti. E i controlli sulle persone bloccate consentirono di accertare che, oltre ad avere acquistato terreni ed altri beni immobili, Luciano Liggio era anche azionista della “S.p.A. Gulf Italia” di Roma, una società presieduta da Nicola Pignatelli D’Aragona Cortes di Napoli. Si appurò anche che parte del denaro proveniente dal riscatto dei sequestri veniva riciclato da uomini di fiducia nei casinò di Saint Vincent, Montecarlo e Sanremo.L’arresto di Liggio, Coppola ed altri componenti l’“Anonima sequestri” scoraggiò chi non rimase impigliato nella rete tesa dalle forze di polizia.Ma i programmi dell’“organizzazione” dovevano essere portati a termine. Molti palermitani del clan lombardo tornarono così in Sicilia pensando già ad altri sequestri, spesso suggeriti più da motivi di vendetta che non da effettive finalità di guadagno. Gli osservatori più attendibili pensano che in alcuni casi il fine sia stato di soddisfare le due esigenze insieme.Si pensi al sequestro di Franco Madonia, il giovane enologo, nipote di don Peppino Garda, un anziano esponente del vecchio ceppo della mafia tradizionale di Monreale, quella capeggiata dai Minasola, dagli Sciortino, dai Viola, dai Miceli. Nato a Pioppo ed imparentato proprio con i Miceli (sua figlia si è sposata con Baldassare Miceli, erede del vecchio capomafia), don Peppino Garda, che ormai non aveva più interessi nell’edilizia, era proprietario di oltre 300 ettari di terreno in contrada Gammari di Roccamena, in maggior parte trasformata in vigneti.Un sequestro anomalo quindi quello di Franco Madonia; realizzato quasi “in famiglia”. Ma la vecchia mafia rinnegava il clan di Luciano Liggio, Gerlando Alberti e padre Agostino Coppola, personaggi-chiave dell’ala aggressiva e spregiudicata della cosiddetta “mafia nuovo corso”.Franco Madonia fu rapito quasi a mezzogiorno dell’8 settembre 1974. In macchina era diretto verso la fattoria del nonno Peppino Garda dove lavorava, come

8 aprile 1979L’escalationdi donPeppinoGarda

affittuario, anche suo padre, don Pietro. A mezzo chilometro da Gamberi, subito dopo Roccamena, un’auto strinse quella del giovane enologo. Costretto a fermarsi, Franco Madonia fu rapito dai banditi.Fu liberato sette mesi dopo, alla vigilia di Pasqua. Riscatto: un miliardo.Carabinieri e polizia sono convinti che quel sequestro, abbia provocato una lunga catena di delitti. Il primo anello di questa catena di sangue è un duplice omicidio: a Giardinello, alle porte del feudo Piano Zucco dei Coppola, cade sotto i colpi della lupara un “ex” della banda Giuliano, Angelo Genovese, fatto fuori insieme al suo dipendente Michele Ferrara di Prizzi mentre mungevano le pecore. Siamo al 27 gennaio 1975.Passiamo al secondo anello della “catena”, l’assassinio di un altro “ex” affiliato a Salvatore Giuliano, Remo Corrao. Viene ucciso a Monreale il 17 dicembre 1975. Era stato interrogato dai carabinieri sette mesi prima di morire, dopo la liberazione del nipote di don Peppino Garda. In casa di Corrao (via Randazzo 14 a Monreale) i militari sequestrarono fra l’altro una banconota di centomila lire proveniente dal riscatto del sequestro di Luigi Genchini di Milano.Corrao sostenne che la banconota gli era stata data alla Banca del Popolo di Monreale nel corso di un’operazione finanziaria. Probabilmente era una bugia. E forse, fu poi ucciso per avere offerto la sua collaborazione a don Peppino Garda. Si tratterebbe dello stesso movente per cui i carabinieri spiegano l’omicidio di Angelo Genovese.Altri due omicidi vengono collegati al sequestro di Franco Madonia, quello di Enzo Giuseppe Caravà, assassinato a San Cipirello l’11 aprile 1976 davanti ad una cantina sociale del paese, e quello di Aloisio Costa, anch’egli ucciso a San Cipirello il 22 gennaio 1977. Non sono pochi i dubbi che il primo dei due delitti sia necessariamente da collegare al sequestro Madonia. Per il secondo appare più verosimile, invece, una relazione con le vendette del “dopo-sequestro Corleo”, al quale – secondo gli inquirenti – avrebbe partecipato anche un fratello di Caravà, Angelo, latitante da diversi anni. Per Costa, infine, si è anche fatta l’ipotesi dei contrasti tra cosche dedite alla sofisticazione del vino.Nella sesta puntata dell’inchiesta torneremo sui delitti provocati dal sequestro Madonia. Per il momento è necessario invece soffermarsi sulla personalità

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di don Peppino Garda, perché la sua “carriera” è emblematica. Il sequestro di suo nipote è un “sequestro-monstre” proprio perché colpisce un uomo rappresentativo della tradizione che, smaliziato dagli eventi, negli anni sessanta firmò la sua neutralità durante la guerra tra i La Barbera e i Greco.Garda rivela un certo tipo di mentalità tipica della mafia non denunciando, per esempio, la scomparsa del nipote.Fu il colonnello Giuseppe Russo, ad una decina di giorni dal rapimento, ad avere la certezza che l’enologo fosse stato sequestro. Ma non trovò alcuna collaborazione nei familiari che, dal canto loro, cercarono ed ebbero contatti con i rapitori.Furono chiesti in un primo tempo due miliardi di riscatto. Cominciò allora la politica del temporeggiamento e della lesina. Per sette mesi don Peppino Garda è stato così impegnato nelle trattative: 210 giorni caratterizzati da viaggi notturni del padre del giovane enologo, Pietro Madonia, e dell’altro genero di Garda, Baldassare Miceli. Gli itinerari venivano indicati per telefono o attraverso messaggi quasi sempre contenuti in pacchetti vuoti di “Marlboro”.I carabinieri controllavano tutto soprattutto con intercettazioni telefoniche e pedinamenti raggiungendo qualche successo: a volte nelle cabine telefoniche o in una roulotte di corso Calatafimi arrivavano tempestivamente e recapitavano i messaggi dei banditi prima dei familiari di Franco Madonia.Una notte i carabinieri notarono una “127” rossa avvicinarsi alla roulotte di corso Calatafimi per depositare un messaggio segnalato a Garda con una telefonata intercettata poco prima da un sottufficiale dell’Arma.Attraverso la targa dell’auto si risalì al proprietario, il gioielliere Mario Martello, con negozio a Palermo in via Aurispa, fratello del latitante Ugo, implicato nell’“Anonima sequestri” di Luciano Liggio.Dai controlli effettuati dai carabinieri venne fuori un lungo elenco di personaggi sospetti che frequentavano la gioielleria. Eccolo: Biagio Prestigiacomo, Nicolò Salamone, i fratelli Bernardo e Stefano Bommarito, Salvatore Brusca, tutti di San Giuseppe Jato. Poi: Benedetto e Francesco Valenza di Borgetto, Andrea Impastato ed Emanuele Finazzo di Cinisi, Francesco Pastoia, boss di Belmonte Mezzagno, e Antonio

Nocera, Luigi Savoca, Francesco Paolo Morello e Stefano Brancato, tutti di Palermo. Si pensò ad una loro partecipazione al sequestro Madonia anche perché facevano una serie di misteriose telefonate da un bar vicino alla gioielleria.Per trovare la causale del sequestro si è scavato abbastanza nel passato di don Peppino Garda, ex-costruttore edile e proprietario di immense distese di vigneti tra Roccamena e Garcia.Tra il 1954 e il 1960, venduta a malincuore la casa paterna di Pioppo (tra Monreale e San Giuseppe Jato) dove nacque anche il suo unico figlio maschio Baldassare, “don Peppino” tentò come molti altri la grande avventura edilizia in città.Era l’epoca in cui, mancando un piano regolatore, si cambiava il volto di Palermo smantellando i fertili giardini della Conca d’Oro per costruire strade dove i palazzi ormai si susseguono uno accanto all’altro, via Sciuti, via Lazio, viale Leonardo da Vinci, via Empedocle Restivo, viale Campania e così via.Giuseppe Garda fondò la società “Conca d’Oro” con il costruttore Giuseppe Quartuccio e comprò, con l’appoggio della Curia arcivescovile, vaste aree in quella che sarebbe diventata la città-nuova. In società con Garda e Quartuccio, entrò anche Francesco Zummo di Monreale.I tre il 28 agosto 1963 vendono alla società capeggiata dal capomafia di San Giuseppe Jato, Nicolò Salamone, e comprendente Alberto Beltrame e Giovanni Simonetti anch’essi di San Giuseppe Jato, 2.104 metri quadrati di area edificabile nella zona di Malaspina per 35 milioni. Un affare per la “Conca d’Oro” che aveva acquistato i terreni per un paio di milioni ed un affare per Salomone e soci.Mentre le “Giuliette al tritolo” segnavano la guerra tra le cosche che operavano in città e nelle borgate, vecchi mafiosi dello stampo di Garda, Salamone, Vassallo, Moncada consolidavano i loro vincoli di amicizia e costruivano le basi della loro immensa fortuna economica.Garda in questo fu aiutato dalla Chiesa. Don Peppino era riuscito ad accattivarsi le simpatie e la protezione dell’arcivescovo di Monreale donando alla mensa arcivescovile, con atto del 22 maggio 1969 stipulato dal notaio Antonino Leto, 2.090 metri quadrati di terreno dell’ex-feudo Riela, da usare a scopo di culto e da destinare alla costruzione di attrezzature scolastiche. Un atto di riconoscenza per tre anni di

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“assistenza” fornita dalla chiesa di Monreale alla società “Conca d’Oro” fondata da Garda il 2 marzo 1966 con atto stipulato dal notaio Giuseppe Marsala.Quartuccio e Zummo non furono i soli soci di don Garda. L’elenco si ampliò abbastanza. Eccolo: Antonino Terranova, Salvatore Moncada, Giacomo Bellomare, Giuseppe Sanseverino, Giuseppe Gorgone di Torretta, Giovanni Simonetti e Nicolò Salamone di San Giuseppe Jato, Alberto Beltrame di Perugia, Giovanni Di Giovanni e il figlio Francesco, Michele Caronia e Gaetano Maniscalco, tutti di Palermo.Quasi analfabeta, ma eccezionalmente pratico e dotato di formidabile intuito, don Peppino Garda lasciò Palermo per tornarsene a Monreale tra la fine del ’68 e l’inizio del ’69, cioè quando con la sentenza di Catanzaro, quasi tutti i “114” mafiosi dei gruppi La Barbera e Greco uscirono dalle prigioni. Don Garda aveva previsto (e gli avvenimenti successivi gli hanno dato ragione) che gli “affamati” di Catanzaro avrebbero cercato di recuperare le posizioni perdute durante la carcerazione.Così “don Peppino” sciolse la “Conca d’Oro” vendendo buona parte degli appartamenti che si era tenuto per sé e comprando contemporaneamente quattrocento ettari di terreno incolto nella vallata compresa tra Roccamena e Garcia: un acquisto del valore di 150 milioni che lasciò perplessi gli osservatori, anche perché si tratta di una zona sulla quale allora aleggiava il rischio dell’espropriazione per la costruzione di una gigantesca diga.Giuseppe Garda non solo acquistò quei 400 ettari, ma fece comprare altri terreni ai suoi più stretti collaboratori. Quasi mille ettari finirono nelle mani di 240 proprietari tra i quali troviamo nomi che vale la pena di ricordare: i Giocondo di Camporeale, Antonino Salvo, Alberto e Luigi Salvo, tutti di Salemi e legati a Luigi Corleo, l’anziano Vito Sacco di Camporeale, parente del più famoso Vanni Sacco, Salvatore Mancuso di Alcamo, già amico di don Vincenzo Rimi e del figlio Filippo, Carmelo Pennino di Corleone, Michele Fundarò di Alcamo, Giuseppina Lo Castro di Salemi, parente dei Salvo e di Corleo, Antonino Terranova, ex socio della “Conca d’Oro”, Antonino Vaccaro di Bisacquino, Giuseppe Serradifalco di Roccamena, Michele Sacco di Camporeale, Giuseppe Mancuso di Alcamo, Francesco Candela di Alcamo, Giuseppe Misuraca di Camporeale, Vincenzo Accurso di Camporeale, Salvatore e Francesco Sacco di

Camporeale, Vincenzo Ferrara di Alcamo, Giuseppe Tramonti di Roccamena, Antonina Palermo con i mezzadri Giorgio Rausi e Giuseppe Ponzio di Salaparuta, Gaspare Teresi, Giuseppe e Vincenzo Cangelosi di Borgetto, Giuseppe Tritico di Poggioreale, Gaspare Tramonte di Poggioreale, Maria Adragna e Giacomo Trapani di Salemi.Questi i più grossi tra i proprietari.Nonostante le voci sulla imminente espropriazione, dall’acquisto della terra incolta alla trasformazione in lussureggianti vigneti il passo fu breve. Non capirono i piccoli proprietari i veri obiettivi della grossa operazione, non capirono né i braccianti né i salariati della terra. I poveri gridarono al miracolo per l’improvvisa trasformazione. E la Regione non lesinò contributi.I braccianti intuirono i veri obiettivi di questa “corsa alla terra” soltanto alla fine del 1974, quando prese corpo il progetto per l’espropriazione delle terre che avrebbero dovuto fare da letto alla superdiga “Garcia”: progetto definitivamente approvato nel 1975 con una previsione di spesa di 17 miliardi da elargire ai proprietari per l’esproprio di terre che, quattro o cinque anni prima, a loro erano costate, complessivamente, meno di due miliardi.Un vero e proprio “affare” determinato non solo dalla “intuizione” di don Peppino Garda, ma soprattutto dalle complicità che i più grossi acquirenti hanno trovato ad altissimi livelli. Il progetto di espropriazione, non a caso, sembra essere stato approvato su misura.

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15 aprile 1979Quel filo che collega quei tre sequestri

L a legge con cui sono stati espropriati gli 820 ettari di terreno per la costruzione della gigantesca diga “Garcia” ha previsto una spesa di 17 miliardi da dividere tra i proprietari che quelle terre, pochissimi

anni prima, avevano acquistato complessivamente per meno di due miliardi.Ogni ettaro di terreno coltivato a vigneto è stato pagato 13 milioni. Cifra raddoppiata nel caso che il proprietario fosse iscritto nell’elenco dei coltivatori diretti. Altri benefici sono stati previsti per mezzadri, coloni, affittuari, compartecipi ed usufruttuari.La legge, nota con il numero “865”, ha così consentito ai grossi proprietari tra i quali spicca don Peppino Garda di creare, al momento giusto, rapporti con la Coldiretti o con terzi per privilegiare larghe fasce di familiari, parenti, amici o fedeli subalterni.Garda, tanto per fare un esempio, ha ceduto “al momento giusto” la sua terra alla moglie Vita Ganci e ai figli Baldassare, Anna, Maria, Ursula e Gaetana, conservandone l’usufrutto. Aveva poi creato rapporti di mezzadria o di affittuariato con i generi Pietro Madonia e Baldassare Miceli. E, grazie a questi rapporti, una prima estensione di 33 ettari gli è stata pagata un miliardo 68 milioni e 960 mila lire: circa 33 milioni e 600 mila lire ad ettaro.Un altro esempio: Michele Fundarò, coltivatore diretto, ha percepito un miliardo e 58 milioni per l’esproprio di 30 ettari. Un altro ancora: i coniugi Antonino Vaccaro e Rosa Perrillo, entrambi iscritti nell’elenco dei coltivatori diretti, hanno incassato 99 milioni e 209 mila lire per due ettari e 96 are. Ed inoltre: Giuseppe Serradifalco di Roccamena ha percepito 145 milioni per quattro ettari e 56 are.Il progetto della diga Garcia, redatto nella sua stesura definitiva nel dicembre 1972, venne approvato il 18 settembre 1974, otto giorni dopo il sequestro di Franco Madonia, enologo, nipote di Giuseppe Garda. Agli osservatori e agli inquirenti è sembrato che la “mafia nuovo corso” abbia voluto colpire Garda sotto il profilo affettivo infierendo con crudeltà sui sentimenti di un vecchio baluardo della tradizionale mafia di Monreale.Al vecchio patriarca, durante i sette mesi di prigionia del nipote, sono giunte offerte da ogni parte d’Italia per i suoi terreni di Garcia e Roccamena. Per rendersene conto basta dare un’occhiata al volume di circa 80 pagine in cui sono tradotte le intercettazioni telefoniche dei carabinieri durante il periodo del

sequestro. Offerte giunte dall’Immobiliare Venezia, da possidenti del Lazio, di Bologna, Napoli, Monreale, Bisacquino e San Giuseppe Jato. Ma Giuseppe Garda tenne duro, non vendendo una sola striscia di terra e cedendo soltanto il cocuzzolo di una montagnola (terra gessosa e non trasformabile) che non rientrava nel piano espropriativo.Con i banditi Garda raggiunse un accordo per pagare il riscatto in tre rate. Il denaro gli veniva ogni volta preparato dalla Cassa centrale di risparmio: 120 milioni pagati il 4 marzo 1975, poi 150 milioni e, infine, il 13 aprile 1973, 730 milioni per un totale di un miliardo di lire.L’ultima rata, quella di 730 milioni, fu consegnata ai banditi da Pietro Madonia e da Baldassare Miceli, partiti in auto dalla loro abitazione di Monreale alle 22 del 13 aprile e rincasati alle 2,35 del giorno dopo.I carabinieri accertarono che lunedì 14 aprile il gioielliere Mario Martello non aveva messo piede nella sua oreficeria. La sua auto fu però vista transitare verso le 15,20 da corso Calatafimi. La mattina di martedì (15 aprile) Franco Madonia fu rilasciato dai banditi. Martello tornò a casa alle 8,15 di martedì con le ruote della sua macchina infangate.Fermato dai carabinieri, non seppe fornire spiegazioni per la sua assenza dalla sera del 13 aprile, alla mattina del 15. Fu arrestato il 18 aprile, imputato di concorso in sequestro, e condannato nel dicembre 1977 a 15 anni di reclusione. Non ha mai parlato e non sono stati identificati i suoi complici.Prima della liberazione di Madonia, in contrada Gamberi di Roccamena era stato ucciso il sindacalista Salvatore Monreale. Non si è riusciti a dare un perché a questa “esecuzione”, né il delitto può essere collegato con certezza al sequestro. Al contrario, la lunga catena di sangue che si sviluppa dopo il rilascio suggerisce una relazione con il “caso Madonia”.Di cinque omicidi abbiamo già parlato nella scorsa puntata. Ricordiamo rapidamente i nomi delle vittime: 27 gennaio 1975, Angelo Genovese e il suo dipendente Michele Ferrara a Giardinello; 17 dicembre 1975, Remo Corrao a Monreale; gennaio 1976, Aloisio Costa a San Cipirello; 11 aprile 1976, Enzo Giuseppe Caravà a San Cipirello.Cinque omicidi tutti ad opera di “ignoti”, come ignoti sono rimasti i complici di Mario Martello, l’unico condannato per il sequestro Madonia e contro il quale i Garda-Madonia, durante il dibattimento, non si sono costituiti parte civile.

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Per avere una visione complessiva dell’attività della “nuova mafia” nella rottura dei vecchi equilibri realizzati dalla mafia tradizionale, oltre al sequestro Madonia, bisogna esaminare quelli del professor Nicola Campisi e dell’esattore Luigi Corleo.La mattina del primo luglio 1975, verso le 10,20 il professor Campisi, docente di criminologia all’università di Palermo, era uscito dall’abitazione paterna di Sciacca, diretto nella cartiera di Menfi, amministrata dalla società ISCA, e di cui il padre era il maggiore azionista. La cartiera è sulla strada statale 115 a circa sette chilometri da Menfi.Il padre a mezzogiorno, non vedendolo arrivare, telefonò a casa apprendendo così che il figlio era partito da un’ora e mezzo. Si ipotizzò subito il sequestro di persona a scopo di estorsione. La conferma si ebbe il giorno dopo, quando il camionista Gregorio Verderame di 29 anni di Sciacca, avendo letto la notizia della scomparsa di Campisi sul “Giornale di Sicilia”, rivelò ai carabinieri di essere stato inconsapevole testimone del sequestro.Raccontò che, verso le 10,30 di quella mattina, percorrendo in camion la “113” in direzione Sciacca – Menfi, in contrada Calì, nei pressi di Quisisana, aveva notato una Mini-minor chiara targata Palermo ferma sul ciglio della strada. Vicino all’utilitaria c’erano altre due macchine, una Fiat 124 color sabbia e una A-112 di colore celestino. Pensando che ci fosse stato un incidente stradale, si fermò per chiedere se qualcuno avesse bisogno di aiuto. Ma in quel momento la 124 e la A-112 ripartirono a gran velocità. Verderame ebbe l’impressione che una delle due auto avesse preso a bordo il ferito della Mini-minor.La “124” fu poi trovata abbandonata a pochi chilometri da Menfi. Sui sedili c’erano dei batuffoli di cotone imbevuti di cloroformio. Nessun dubbio quindi che il professor Campisi era stato sequestrato a scopo di estorsione. E pochi giorni dopo giunsero all’avvocato Remo Campisi le prime richieste anonime: i banditi volevano un miliardo.Verderame, interrogato a lungo, in una foto segnaletica notò una certa somiglianza tra un pregiudicato e l’autista di una delle due macchine fuggite a tutta velocità quella mattina. Si trattava di un autotrasportatore residente a Modena, Antonino Pollina, 44 anni, denunciato nel luglio 1968 per omicidio e associazione a delinquere ma prosciolto, per insufficienza di prove, il 5 gennaio 1969 al termine

dell’istruttoria.Mentre erano in corso le indagini sul rapimento del professor Campisi, da Salemi giunse notizia di un altro sequestro, quello del big delle esattorie Luigi Corleo, 71 anni, abitante nel Palazzo Filaccia di via Matteotti a Salemi.Era stato rapito verso le 13,55 del 17 luglio 1975, mentre si trovava in una sua villa di contrada Gargazzo, vicino a Salemi.Si trattava di un sequestro clamoroso, conosciuto come era Corleo, suocero di Nino Salvo, titolare di una società che ha in appalto uffici esattoriali a Salemi, Marsala ed altre cittadine del trapanese.Vecchio amico di Francesco Cambria, big delle esattorie di Palermo, Messina e Catania, Corleo era riuscito a determinare uno stretto collegamento tra Giuseppe Cambria, il figlio di “don Francesco”, con suo genero Nino Salvo. Un duo che, facendo leva sull’esperienza di Francesco Cambria, oriundo di Floresta (Messina) e di Luigi Corleo ha dato vita a Palermo alla SATRIS, l’esattoria che introita i tributi dovuti dai cittadini al Comune.La tradizione del gruppo Cambria – Corleo – Salvo nella gestione delle esattorie comunali è trentennale. Venne alla ribalta della cronaca soprattutto tra il 1958 e il 1961, quando Silvio Milazzo, deputato regionale della circoscrizione di Caltagirone e già assessore regionale all’Agricoltura e alle Foreste, lasciò clamorosamente la Democrazia cristiana determinando una grossa frattura all’interno del suo partito e fondando l’Unione separatista cattolici siciliani (USCS).Presidente dell’USCS, protetto dall’esterno dal PCI, Milazzo per l’imponente numero di voti riportato nelle elezioni del 1957, divenne presidente della Regione formando una maggioranza eterogenea, battezzata col nome di “milazzismo”.In quel tormentato periodo della vita politica siciliana, il gruppo Cambria-Corleo, già economicamente potente, appoggiò incondizionatamente la DC e il segretario regionale del tempo, Giuseppe D’Angelo, per scalzare l’USCS e riportare i democristiani al governo.Una lotta dura protrattasi per tre anni, durante i quali Milazzo riuscì a governare con l’appoggio esterno delle sinistre e con la partecipazione, nella giunta regionale da lui presieduta, di deputati missini e monarchici.Fu appunto il gruppo Cambria – Corleo – Salvo, con quartier generale all’Hotel des Palmes di Palermo,

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a provocare l’esodo dall’USCS del barone catanese Benedetto Majorana e il crollo definitivo dell’USCS di Silvio Milazzo nei primi mesi del 1961.Milazzo cadde indecorosamente e alla presidenza della Regione lo sostituì, per oltre un anno, Majorana della Nicchiara, presidente di una giunta provvisoria composta pure da democristiani.Il gruppo degli esattori acquisì quindi notevoli benemerenze all’interno della DC, sostenuta economicamente nelle elezioni regionali del 1962 che segnarono il definitivo tracollo di Milazzo. Non è un caso se, proprio in quegli anni, il gruppo consolidò la sua posizione economica nell’isola ottenendo la gestione di moltissime esattorie comunali siciliane.Quando fu sequestrato, Luigi Corleo aveva già passato la mano al genero Nino Salvo. E la stessa cosa aveva fatto Francesco Cambria con il figlio Giuseppe. L’esperienza dei due “giovani” d’altronde era ormai ventennale avendo partecipato alla solidificazione di un impero economico indubbiamente costruito col benestare della vecchia mafia del Trapanese e del Palermitano, quelle – per intenderci – rappresentate dai Rimi di Alcamo, dai Bua di Marsala, da Giuseppe Garda, ma anche dalle vecchie leve della Democrazia cristiana.Come il sequestro di Franco Madonia aveva colpito la potenza economicamente di Giuseppe Garda e dei suoi “amici” per sconvolgere l’equilibrio realizzato nel Monrealese dalla mafia tradizionale, così il sequestro di Luigi Corleo è stato interpretato come un atto di ribellione della nuova mafia ad un impero economico basato su vecchi equilibri. Si voleva quindi sconvolgere la zona della Valle del Belice dove la mafia tradizionale e i vecchi imperi economici da essa sostenuti avevano il controllo sui lavori di ricostruzione dei paesi colpiti dal terremoto del gennaio 1968.In questo ambiente, in fermento dal primo luglio del 1975, il giorno del sequestro di Luigi Corleo, era piombato il colonnello Giuseppe Russo che sarà poi ucciso dalla mafia il 20 agosto 1977 a Ficuzza. Russo conosceva benissimo l’ambiente. Era stato tenente della compagnia di Alcamo dal gennaio al dicembre 1956 e, con lo stesso grado, a Castelvetrano dal gennaio 1957 all’ottobre 1958. Poi, fino al marzo 1962, aveva coordinato le squadriglie formate per la vigilanza delle campagne per prevenire abigeati e catturare latitanti.All’epoca dei sequestri Campisi e Corleo, Russo

comandava il nucleo investigativo di Palermo, incarico affidatogli l’8 gennaio 1969 e mantenuto fino al 15 ottobre 1976, giorno in cui passò alla Legione dei carabinieri, prima di chiedere un periodo di convalescenza a causa di una sciatalgia bilaterale, otite e bronchite cronica, malattie acquisite in vent’anni di carriera durante i quali gli furono riconosciuti 16 encomi solenni.Russo mise in moto il suo apparato investigativo.Il punto di partenza era la richiesta di un riscatto di 20 miliardi pervenuta al genero di Luigi Corleo, Nino Salvo. L’esattore chiese però la garanzia che il suocero fosse in vita e i banditi non si fecero più sentire. Da allora di Corleo non se ne è saputo più niente. È morto nelle mani dei suoi carcerieri per malattia dopo pochi giorni dal rapimento? Ovvero, è morto di inedia abbandonato nella sua cella? Un mistero. Nessuno potrà mai dire se Corleo fu subito ucciso appena si misero in moto gli amici dei Salvo e gli uomini di polizia e carabinieri.Una domanda però è d’obbligo: perché i Salvo chiesero garanzie per essere certi che Luigi Corleo non fosse morto?L’esattore soffriva effettivamente di gravi disturbi renali ma nasce il sospetto che i suoi congiunti siano stato subito informati, chissà attraverso quali canali, della fine del big delle esattorie.

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22 aprile 1979 Militarie magistrati, due modidi vedere

m entre polizia e carabinieri tentavano di individuare le prigioni del prof. Nicola Campisi e dell’esattore Luigi Corleo si accertò che nelle province di

Palermo e Trapani si era costituito un clan che aveva in programma una serie di sequestri. Era stata selezionata una rosa di nomi che, oltre a Campisi e Corleo, comprendeva Antonino Fiore nato a Castelvetrano nel 1920 e residente a Menfi, commerciante di tessuti, Andrea Palermo di Partanna residente a Menfi, notaio, Diego Planeta residente a Menfi, possidente e presidente della cantina sociale “Settesoli” di Menfi.Da non dimenticare che in quel periodo la mafia aveva subito dei consistenti contraccolpi. In Canada era stato arrestato un fratello del capomafia di Salemi, Salvatore Zizzo, perché trovato in possesso di una grossa partita di droga. A Cittadella si trovò un altro quantitativo di droga nelle mani di Giuseppe Palmeri di Santa Ninfa, socio dello Zizzo.A Palermo gran parte dei contrabbandieri di sigarette erano stati allontanati dalla città ovvero arrestati in seguito allo scandalo del furto dei 15 MAB nella caserma di Torre del Corsaro. Nei pressi di Roma le forze di polizia sequestrarono in un grande magazzino di Fernando Lena, noto col nome di “Nando”, macchinari tipografici per la stampa di falsi traveller cheques. In un angolo fu trovata carta speciale stampata per oltre tre milioni di dollari statunitensi in traveller cheques della Bank of America.In crisi anche il settore della sofisticazione del vino dopo le operazioni di polizia con cui si scoprì una organizzazione che comprendeva pure il boss di Bagheria, Tommaso Scaduto, riuscito a fuggire dal soggiorno obbligato dell’Asinara.In crisi anche il vertice della mafia per gli arresti di Luciano Liggio a Milano, di padre Agostino Coppola e dei suoi fratelli a Partinico, di Gerlando Alberti a Napoli.Si tratta di consistenti contraccolpi che provocano un certo sbandamento nell’“organizzazione” e la ricerca di quattrini da parte di tanti gregari.Si giunge così alla costituzione di quel clan che è praticamente una nuova “Anonima sequestri” siciliana, a capo della quale secondo voci confidenziali si sarebbe trovato Vito Cordio, 42 anni, figlioccio di Salvatore Zizzo e capo della famiglia mafiosa di Santa

Ninfa.Si tratta di confidenze che si ebbero dopo l’arresto del boss di Partanna (Trapani), Stefano Accardo, un personaggio di primo piano in materia di sequestri, appalti e subappalti nella Valle del Belice, e – quel che più conta – nelle vicende della diga di Garcia. Un aspetto sul quale torneremo.Subito dopo il sequestro di Luigi Corleo, Accardo fu arrestato perché trovato in possesso di una pistola. Non fu però condannato perché in suo favore testimoniò il maresciallo dei carabinieri Guazzelli, braccio destro del colonnello Russo nel Trapanese. Ci si chiede quale sia stato il prezzo pagato da Accardo per quella testimonianza che gli consentì di tornare libero.Al quesito non c’è risposta. È certo che, dopo la scarcerazione di Accardo, scomparve misteriosamente il boss di Santa Ninfa Vito Cordio, l’anima dell’“Anonima sequestri”. Ed è anche certo che Accardo in quel periodo si incontrò spesso con il colonnello Russo. Si dice che Corleo sia morto di fame e di sete subito dopo la scomparsa di Vito Cordio perché, dopo la fine del capo, nessun componente del clan avrebbe rifornito di viveri il prigioniero. È una voce non controllabile che riferiamo per completezza.I rapporti tra Vito Cordio e Stefano Accardo avevano fatto registrare nell’ultimo decennio profonde spaccature. Cordio aveva cercato di imporre nella zona del Belice la legge del suo gruppo. E si accertò poi che la nuova “anonima sequestri” era composta da “famiglie” di Trapani, Agrigento e Palermo coordinate da Vito Cordio che aveva ottenuto lo “sta bene” della mafia contraria, però, al sequestro Corleo. A questo sequestro la mafia aveva detto “no”. Lapidaria, ma anche storica, l’espressione attribuita a Vito Cordio: “A me hanno detto di no per Corleo, ma si sa che loro lo fanno lo stesso”.E di Cordio, probabilmente ritenuto incapace di garantire gli equilibri e l’ordine nella zona, si perdono le tracce.Proprio nel periodo dei sequestri Corleo e Campisi, un gruppo di forestieri viene ospitato a Menfi nella baracca di un cantiere edile dell’impresa Paralisi. Li ospita Gaspare Biundo, di Partanna, che spesso accompagna gli amici al ristorante “La Fattoria” di Monreale di Settimo Failla.Le indagini del colonnello Russo portano all’identificazione dei “forestieri”. Sono gli evasi Dante

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Anzi di Roma e Pasquale Bianchini di Albano Laziale: un terzo sarebbe Giorgio Graziani soprannominato “dracula” abitante a Roma in via Genoano 194, dove, nel corso di una perquisizione, vengono trovati due assegni della Banca agricola commerciale di Reggio Emilia, agenzia città Valle Ospizio, entrambi emessi sul conto corrente di Girolamo Scaglione, nato ad Alcamo nel ’45 e residente a Reggio Emilia. Sono assegni da uno e due milioni. Si indaga così per scoprire i collegamenti fra “dracula” e Scaglione il quale aveva ospitato alcuni ricercati, compreso Pasquale Bianchini detto “Castrici” e i suoi compaesani Giuseppe Ferro e Giuseppe Renda, ricercati per i sequestri Campisi e Corleo. sCAGLIone e IL frAnCese Scaglione in quel periodo conviveva con Marie Pierre Monito, francese che aveva depositato nel ’75 diciotto milioni in una banca di Cavirago (Reggio Emilia). Saltarono fuori i rapporti di amicizia di Scaglione con Pietro Salerno, un mediatore di bestiame originario di Paceco (Trapani) dov’era nato nel 1917, che si costruì una villa del valore di cento milioni.Una svolta nelle indagini si ebbe comunque con il rilascio del professor Nicola Campisi liberato all’alba dell’11 agosto 1975 dopo il pagamento di un riscatto di 700 milioni. La prigionia era durata 41 giorni.Campisi fu lasciato dai banditi intorno alle 2,30 del mattino alle porte di San Cipirello. Una pattuglia dei carabinieri sorprese una lambretta che procedeva a fari spenti con due uomini a bordo che, vedendo i militari, tentarono invano la fuga. Mentre i carabinieri stavano controllando i documenti, uno dei fermati, poi identificato per Giuseppe Renda di Alcamo, riuscì a fuggire. L’altro, portato alla caserma di San Cipirello, era Giuseppe Filippi, anch’egli di Alcamo.Secondo le prime testimonianze del professor Nicola Campisi, lo avrebbero accompagnato alle porte del paese due uomini proprio su una lambretta.L’interrogatorio di Filippi si protrasse a lungo. Passò da una versione all’altra. Disse prima di trovarsi vicino a San Cipirello per comprare della paglia insieme a Giuseppe Renda. Poi sostenne di essere stato fermato da alcuni uomini incappucciati che gli ordinarono di accompagnare il professor Campisi in paese e di averlo fatto soltanto per paura. Ammise, infine, la sua partecipazione al sequestro affermando di essere disponibile per fare recuperare il bottino,

nascosto in un casolare di campagna sotto alcune balle di paglia.Le dichiarazioni di Filippi non furono verbalizzate perché forse i carabinieri avrebbero voluto farlo confessare davanti al sostituto procuratore della Repubblica, Vincenzo Geraci, che conduceva le indagini.La stessa sera dell’11 agosto, Filippi fu accompagnato in contrada Montagnola di Camporeale. In un casolare di proprietà di Giuseppe Renda, probabilmente la prigione di Campisi. E la mattina del 12 agosto Filippi condusse il colonnello Russo, il maresciallo Scibilia ed altri carabinieri in un suo deposito di paglia, in contrada Canapè, fra Alcamo e Camporeale.Lì – disse – avrebbero trovato il riscatto nascosto in mezzo alle balle di paglia. Una volta dentro il magazzino, Filippi chiese che gli fossero tolte le manette. Il colonnello Russo si guardò intorno, vide che c’era soltanto una piccola finestra sbarrata da una grata di ferro, e consentì.Ma, appena libero, Filippi si inerpicò sulla catasta di balle che toccava quasi il tetto, con un colpo di testa fece saltare alcune tegole e fuggì lasciando di stucco i carabinieri che lo riacciuffarono soltanto otto giorni dopo in casa di una sorella ad Alcamo.Un elemento al quale si diede una grande importanza fu il ritrovamento nel casolare di campagna di Giuseppe Renda dei frammenti di una busta arancione. Ricostruiti, misero in evidenza una scritta: “Ugo Testoni – Sciacca”. Il professor Nicola Campisi di lettere con busta arancione indirizzate allo zio Ugo ne scrisse due. Ma a Testoni una delle due lettere giunse dentro una busta aerea con l’indirizzo scritto con un normografo. Da qui la convinzione che i banditi, prima di recapitarla, ne aprirono una e sostituirono la busta. D’altronde lo stesso Campisi riconobbe come sua la grafia dei frammenti di busta arancione trovati nel casolare di Renda. In sede giudiziaria, sulla validità di questa “prova” si è scatenata una schermaglia destinata a far saltare a tempo indeterminato il processo per il sequestro Campisi. Chiese la perizia tecnica e grafica il difensore di Renda, l’avvocato Paolo Seminara. un tAsseLLo dopo L’ALtro I carabinieri un tassello dopo l’altro tentavano di ricostruire il mosaico. Ecco altri elementi ritenuti importanti. L’otto agosto 1975, quaranta minuti dopo

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mezzanotte, una pattuglia dei carabinieri bloccò sulla strada Montelongo il pregiudicato Giuseppe Ferro di Alcamo. Proprio in quella zona era passato quella sera il padre di Nicola Campisi che avrebbe dovuto consegnare i 700 milioni di riscatto ai banditi, secondo le indicazioni ricevute. Ma l’avvocato Renzo Campisi non incontrò nessuno.Giuseppe Ferro raccontò ai militari che stava tornando da un suo podere in contrada Pigno e fu rilasciato. Ma i carabinieri non lo persero di vista e, il giorno dopo, lo scoprirono mentre telefonava dal bar Vacano di Alcamo Marina in casa Campisi a Sciacca. Non lo arrestarono subito. Decisero di farlo due giorni dopo quando Ferro era già sparito. La sua presenza, insieme a quella di Renda, sarà poi segnalata a Reggio Emilia in casa di Scaglione e di Salerno.Al termine delle indagini per il sequestro Campisi i carabinieri denunciarono 20 persone di cui due identificate soltanto con i soprannomi. Di queste ne furono arrestate otto. Ventidue le persone denunciate invece per il sequestro Campisi.I due processi comunque si dividono non ravvisando né la procura della Repubblica di Marsala, né quella di Palermo, elementi di connessione. Il fascicolo su Luigi Corleo finisce così a Marsala e quello su Nicola Campisi a Palermo.Un mese dopo la stesura dei rapporti di denuncia si scatena nel palermitano e nel trapanese una guerra spietata fra le cosche implicate nei due sequestri. È una diretta conseguenza dei primi provvedimenti adottati dalla magistratura di Palermo. Il riferimento corre agli ordini di cattura emessi dal sostituto procuratore Vincenzo Geraci nei confronti di Giuseppe Ferro, Giuseppe Filippi, Giuseppe Renda. Tutti gli altri denunciati dai carabinieri hanno così via libera. Questo tra la fine del ’75 e l’inizio del ’76.Dal canto suo, la procura della Repubblica di Marsala il 2 febbraio ’76 emette ordini di cattura per associazione a delinquere contro Giovanni Lala, Nicolò Mangiaracina, Silvestro Messina, Angelo Caravà, Gregorio Gulli, Girolamo Scaglione, Salvatore Secolonovo, Mario Stella, Gaspare Biundo, Natale Lala, Leonardo Messina, Antonino Genco, Baldassare Nastasi, Andrea Terranova, Giuseppe Zummo, Silvestro Leopardi, Vittorio Carpino, Giorgio Graziani. Colpiti dai mandati di cattura, inoltre, Vito Gondola, Vito Cordio (scomparso), Antonino Messina, Salvatore Invoglia e Paolo Saladino.

unA seLezIone Al termine della prima fase istruttoria si ha però una selezione con la scarcerazione “per mancanza di indizi” di Gregorio Gulli, Girolamo Scaglione, Gaspare Biundo, Natale Lala, Leonardo Messina, Antonino Genco, Andrea Terranova, Giuseppe Zummo, Silvestro Leopardi, Vittorio Carpino e Giorgio Graziani.Comincia nei giorni in cui questi ultimi tornano in libertà la “guerra” tra le due cosche.È il 27 febbraio 1976. In un ristorante di Mazara del Vallo c’è un banchetto. Presenti l’imprenditore di Montevago Rosario Cascio, il suo protettore Stefano Accardo di Partanna, l’ingegner Ero Bolzoni direttore per conto della Lodigiani dei lavori di costruzione della diga Garcia e il geometra Paolo Lombardino, imprenditore edile anch’egli.Rosario Cascio festeggia così il contratto stipulato con la Lodigiani per costruire il cantiere-operai per la diga e per realizzare la galleria destinata a deviare, fino al termine dei lavori, il corso del fiume Belice. È un banchetto di cui bisognerà ricordarsi, come punto di partenza, nelle indagini per l’omicidio a Ficuzza del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo.

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29 aprile 1979La “guerra del dopo Campisi-Corleo”

d el banchetto organizzato in un ristorante di Mazara del Vallo il 27 febbraio 1976 da Rosario Cascio (festeggiò così il contratto stipulato con la Lodigiani per costruire il cantiere-operai per la diga e

per realizzare la galleria destinata a deviare il corso del fiume Belice fino al termine dei lavori) bisognerà ricordarsi come punto di partenza nelle indagini per l’omicidio a Ficuzza del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo.Quel giorno resterà una data importante perché, ancora una volta, si tentò di uccidere.La comitiva si divise nel primo pomeriggio. I tecnici della Lodigiani tornarono a Garcia con le loro auto. Cascio si diresse con altri tecnici verso Montevago e Stefano Accardo si mise alla guida della sua “Mercedes” diretto a Partanna insieme al geometra Paolo Lombardino. Prima di lasciare Mazara, Accardo fece il pieno di benzina presso un distributore gestito da Antonino Luppino, un uomo con il quale scambiò qualche parola. Fatto il pieno la “Mercedes” partì per l’autostrada Mazara-Punta Raisi.Secondo una ricostruzione attendibile, Luppino – subito dopo la partenza di Accardo e del suo compagno di viaggio – avrebbe informato qualcuno sull’itinerario della “Mercedes”. È certo comunque che, quando l’auto del boss giunse all’altezza dell’abitato di Castelvetrano, da una macchina affiancatasi in velocità furono sparati colpi di mitra e di pistola. La “Mercedes” fu ridotta ad un colabrodo ma sia Accardo che Lombardino rimasero feriti soltanto di striscio tanto che – dopo avere finto di essere morti – proseguirono verso Palermo.Due le versioni sull’attentato fallito: Accardo doveva morire perché punito da chi lo ritiene autore della soppressione di Vito Cordio ovvero doveva essere eliminato perché le sue confidenze al colonnello Russo avevano consentito la denuncia degli autori dei sequestri Campisi e Corleo.La risposta all’attentato non si fece attendere. Il 5 aprile, in contrada Ciaccio di Marsala, un “commando” a bordo di un’auto di grossa cilindrata assalì una “131” uccidendo il latitante Silvestro Messina e ferendo il fratello di Vito Cordio, Ernesto Paolo; si salvarono anche Giuseppe Ferro e Vito Vannutelli.La paternità dell’agguato viene affibbiata ad Accardo, denunciato ma subito dopo scarcerato.La serie continua con l’uccisione di Antonino Luppino,

proprio il benzinaio di Marsala, probabilmente punito per le informazioni fornite al gruppo Messina-Ferro-Vannutelli.Lunghissima la catena di sangue contrassegnata da nomi non sempre di spicco: Cucchiara, Ingrassia, Piazza, Nicolò Messina, Mario Cordio, Casano. Fino all’assassinio di Vito Vannutelli, fatto fuori non appena uscito dal Palazzo di Giustizia di Palermo dopo un rinvio del processo nel quale figurava imputato insieme a Giuseppe Ferro, a Nicolò Messina (ucciso a Mazara il 16 luglio ’77) e al latitante Giuseppe Renda.Vediamo come i carabinieri individuarono le responsabilità di Vannutelli, colpito da due ordini di cattura per il sequestro Corleo e per l’attentato a Stefano Accardo e Paolo Lombardino. Lo arrestarono per caso insieme a Nicolò Messina e a Giuseppe Ferro, anch’essi ricercati per i sequestri Corleo e Campisi.I militari avevano organizzato in contrada Marchese, al confine tra il territorio di Monreale e quello di Camporeale, una battuta nel tentativo di rintracciare gli undici bovini rubati la notte tra il 18 e il 19 agosto ’76 al pastore Vito Sciortino. Ad un tratto avvistarono due individui accovacciati e armati in mezzo ad un vigneto, a due passi da un casolare.Appena videro le divise, i due fuggirono abbandonando una pistola ed un fucile a canne mozze. I carabinieri non riuscirono ad acciuffarli ma li riconobbero: erano Giuseppe Ferro e Giuseppe Renda. Poco dopo sul posto giunse una “126” con a bordo Vito Vannutelli e Nicolò Messina. Avevano un fucile a canne mozze, munizioni e due coltelli. Arrestati i due, si riuscì a mettere le mani addosso a Giuseppe Ferro, latitante da diverso tempo. A Vannutelli fu notificato un ordine di cattura per l’attentato ad Accardo e Lombardino e presentata una notificazione giudiziaria per il sequestro Campisi.Per le armi di cui furono trovati in possesso al momento dell’arresto, Vito Vannutelli, Nicolò Messina e Giuseppe Renda furono rinviati a giudizio il primo febbraio 1977 dal giudice istruttore Mario Fratantonio. Ferro, fu poi condannato a due anni e sei mesi di reclusione, Vannutelli a due anni e Messina a un mese di arresto per favoreggiamento. Quest’ultimo, ritornato a Mazara, sarà ucciso il 16 luglio ’77, quattro giorni dopo la sua scarcerazione.È l’ottavo omicidio della “catena”. Contrastanti le tesi sul movente. Si è ventilata l’ipotesi di un seguito nella guerra fratricida in seno alla stessa cosca dei sequestri per la mancata divisione dei settecento milioni del

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riscatto Campisi. Effettivamente ci furono difficoltà per il riciclaggio del denaro a causa delle traversie giudiziarie delle persone che avevano i soldi.Non manca chi sostiene che Nicolò Messina fu fatto fuori da un clan avverso e vicino a Stefano Accardo.Né si può trascurare l’ipotesi che Nicolò Messina e, dopo, Vito Vannutelli siano stati eliminati perché ritenuti responsabili dell’identificazione di Giuseppe Ferro e di Giuseppe Renda in occasione del loro arresto in contrada Marchese a Monreale. Una delazione che avrebbe consentito ai carabinieri di individuare subito il nascondiglio di Ferro, arrestato mentre Giuseppe Renda, per la seconda volta, riusciva a sottrarsi alla cattura.Una tesi non trascurabile quest’ultima. Di rilievo un particolare: quando il 5 luglio 1977 cominciò il processo per le armi trovategli al momento dell’arresto, Ferro non si presentò in aula per non incontrarsi con Vannutelli e Silvestro Messina, anch’essi detenuti.Comparve in aula, invece, nel gennaio 1978 insieme al compaesano Giuseppe Filippi in occasione del processo per il sequestro Campisi. Notata, infine, la sua assenza dall’aula il 7 marzo 1978, in occasione del processo di secondo grado per cui era stato condannato a due anni e sei mesi di reclusione. Anche questa volta avrebbe così evitato di incontrare sul banco degli imputati Vito Vannutelli.Alcuni particolari meritano attenzione. Nicolò Messina venne ucciso subito dopo la sua scarcerazione. Vito Vannutelli, scarcerato per decorrenza di termini nel febbraio 1978, fu inviato al soggiorno obbligato a Favignana, dove i killer non avrebbero potuto raggiungerlo per le difficoltà che avrebbero incontrato al momento della fuga dall’isola.Vannutelli è stato quindi atteso ad un varco obbligato. Chi ha decretato la sua morte sapeva che sarebbe venuto a Palermo per il processo di secondo grado. All’andata Vannutelli avrà colto alla sprovvista i killer raggiungendo Palermo con la “Ford Capri” di un’amica, Concetta Patti. I killer lo hanno atteso all’uscita dal Palazzo di Giustizia. Vannutelli, alla guida della “Ford Capri” in compagnia della Patti e della sua amante Rosalia Signorello, appena fuori dal tribunale si è diretto verso il Teatro Massimo. Ed è lì che gli assassini, a bordo di una “127” celestina, affiancarono l’auto. Con rara precisione spararono a lupara contro Vannutelli senza colpire le due donne. La “Ford Capri”

rimasta senza guida e piombata sul marciapiede, schiacciò contro la cancellata una studentessa ribaltando poi sul giardinetto del Teatro. La sentenza era compiuta.Con il delitto Vannutelli siamo giunti al marzo ’78, ma di un vero e proprio giallo non abbiamo ancora parlato: quello del sequestro di Graziella Mandalà, avvenuto il 21 luglio 1976. Un sequestro clamoroso perché si tratta della moglie dell’ex costruttore di Monreale Giuseppe Quartuccio. Un sequestro atipico perché mai prima di allora la mafia aveva rapito in Sicilia una donna a scopo di estorsione.Le date acquistano rilievo. Siamo nel luglio del ’76. Un anno prima sono stati sequestrati Corleo e Campisi, vicende successive al sequestro di Franco Madonia, nipote di un personaggio “intoccabile” eppure colpito. I gregari, come si disse, alzavano la testa. La “nuova mafia” squinternava così un sistema basato su equilibri raggiunti dopo anni di lotte interne.

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6 maggio 1979Dietro Mandalà otto nomi, otto delitti

La notizia del sequestro di Graziella Mandalà viene pubblicata dal Giornale di Sicilia la mattina del 21 luglio 1976. Un sequestro che fa sensazione. Atipico: mai prima di allora la mafia aveva rapito in

Sicilia, a scopo di estorsione, una donna. E per di più si tratta della moglie dell’ex costruttore di Monreale Giuseppe Quartuccio, ex socio di don Peppino Garda, il possidente al quale rapirono il nipote Franco Madonia. Questi i fatti: è da poco trascorsa la mezzanotte del 20 luglio. Cinque banditi armati di mitra e di pistola bussano al villino di via San Martino delle Scale, residenza estiva della famiglia Quartuccio. L’ex costruttore sta per mettersi a letto, apre la porta e si ritrova di fronte un giovane che gli dice: “L’Opel di suo cognato si è scontrata con un’altra macchina. Corra all’ospedale”.Quartuccio si precipita verso la camera da letto per informare la moglie sofferente di cuore, e i cinque malviventi piombano dentro. Con il calcio di un mitra colpiscono al capo Quartuccio, lo legano mani e piedi e gli tappano la bocca con una striscia di carta adesiva. Mentre un bandito tiene a bada l’ex costruttore, gli altri prendono di peso la Mandalà e la portano fuori per strada dove c’è un’auto con un complice alla guida. Quindi la fuga con la “124” rossa, una scena alla quale assiste un villeggiante di San Martino che abita vicino.Il clamoroso sequestro viene indagato dalla polizia e dai carabinieri nello scenario di cronaca nera, che in quel periodo sconvolge il Palermitano: fatti allora ancora oscuri.In particolare, i carabinieri collegano il rapimento della Mandalà con il sequestro dell’enologo Franco Madonia, rapito a Roccamena l’8 settembre 1974, per i rapporti avuti in passato tra Garda e Quartuccio, presidente e amministratore rispettivamente della disciolta società edilizia “Conca d’Oro”.Insomma, un altro colpo della “nuova mafia” che tenta di far soldi e, contemporaneamente, di umiliare esponenti rappresentativi della vecchia guardia.Non mancano le tesi alternative. Fra le altre, quella secondo cui il sequestro colpisce direttamente Quartuccio, ritenuto – non si sa ancora se a torto o a ragione – il cassiere dell’“Anonima sequestri” e, come tale, responsabile di qualche torto. È una tesi avallata dalla circostanza che i fratelli della seconda moglie di Quartuccio, tra i quali Pietro Mandalà, sono in odore di mafia, anche se ufficialmente impegnati nella gestione

di una avviata pizzeria in piazza Duomo a MonrealeGli uomini che seguono le indagini sin dalle prime battute (fra gli altri, il questore Domenico Migliorini, il capo della squadra mobile Bruno Contrada e il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo) pensano subito ad un sequestro per vendetta senza, però, riuscire a chiarire di che tipo di vendetta si tratti.Giuseppe Quartuccio riceve la prima telefonata dei banditi tre giorni dopo il rapimento alle 13: “Quartuccio, prepara un miliardo e mezzo se vuoi viva tua moglie”, gli dice una voce con inflessione dialettale interrompendo subito la comunicazione.Da quel giorno i rapitori si fanno vivi con qualche telefonata all’avvocato Giuseppe Candido, amico di Quartuccio. Non si saprà mai chi ha segnalato loro questo nominativo. Quartuccio ritiene che sia stata la moglie: ma la Mandalà, dopo la liberazione, sosterrà di non essere stata lei.L’ex costruttore riceve anch’egli un paio di telefonate a casa, ma, ogni volta, non gli lasciano il tempo di rispondere.Mi dice in quei giorni Quartuccio: “Non riesco mai a dire una parola perché non me ne danno il tempo. Tramite l’avvocato Candido ho così fatto sapere ai banditi che tutte le mie proprietà possono valere 200 milioni”.Una somma che non basta ai rapitori. Altra telefonata: “Dunque, Quartuccio – dice la voce con tono sarcastico – lo dobbiamo fare questo concordato?”.Terza ed ultima telefonata all’ex costruttore, fatta fra il 26 ed il 27 luglio: “Quartuccio, la signora sta male, dovete sbrigarvi se ci tenete a volerla viva”.Ma, attraverso l’avvocato Candido, Quartuccio comunica ai banditi che può subito approntare soltanto 15 milioni. “Allora – è la risposta – Quartuccio non ci tiene ad avere sua moglie viva”. È l’ultimo contatto con i banditi.Colpo di scena il 29 luglio alle 23,30. Un funzionario di banca ha appena parcheggiato la sua auto in piazza Don Bosco, sta per rientrare a casa quando una donna barcollando gli viene incontro. Pensa che si tratta di una ubriaca ma lei si presenta: “Sono Graziella Mandalà per favore mi aiuti”. Pochi minuti dopo arriva un parente della signora e viene avvertito il marito a Monreale.I banditi abbandonano la donna su una 128 blu, accostata ad un marciapiedi di piazza Don Bosco. Le dicono di non muoversi e, per precauzione, prima di

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lasciarla, le coprono gli occhi con dei cerotti.A piazza Don Bosco arrivano immediatamente decine e decine di gazzelle e volanti con carabinieri e funzionari di polizia ai quali Quartuccio dichiara di non avere sborsato una lira per il rilascio. Inizia così il giallo del dopo-sequestro.Poco dopo la liberazione della signora Mandalà un anonimo telefona al giornale “L’Ora”: dice che alla circonvallazione, dietro il palazzo dell’Ente minerario siciliano, c’è un “pacco” con un cadavere. La polizia compie una perlustrazione nella zona ma del “pacco” non si trova traccia. Dall’interrogatorio della Mandalà frattanto saltano fuori vistose contraddizioni che tingono ancor più di giallo le fasi del rilascio della donna.Sono trascorse dodici ore dal rilascio. Siamo in casa Quartuccio, in via Marsala a Monreale. È piena di amici che si congratulano per la felice conclusione della vicenda. Dall’orologio del Duomo si sentono rimbombare dodici rintocchi. Quartuccio dà un’occhiata al suo orologio, lascia la moglie sofferente a letto ed esce.Mezz’ora dopo alcune persone lo vedono dirigersi verso la piazza dove si trova l’oreficeria di Elio Ganci. L’ex costruttore passa davanti al negozio, si ferma col pretesto di guardare un amico che passa da lì. I carabinieri diranno poi che voleva farsi notare da Ganci. E ci riesce. Il gioielliere esce fuori e si avvicina a Quartuccio, si complimenta per la liberazione della moglie. Alcune persone assistono alla scena. Quartuccio e Ganci si abbracciano e si baciano. I carabinieri diranno che il marito della Mandalà si era voluto “godere” l’imbarazzo della “sua vittima”, Ganci, che ritiene implicato nel sequestro della moglie.Non esiste un pronunciamento della magistratura, ma certe coincidenze lasciano perplessi. Pochi minuti dopo che Quartuccio ha abbracciato e baciato Ganci, una 128 (del tutto identica a quella utilizzata dai rapitori della Mandalà per liberarla a piazza Don Bosco) procede lentamente per via Repubblica. Elio Ganci è soprappensiero davanti al suo negozio. Ad un tratto dalla macchina schizzano fuori due killer armati di calibro 38 e lupara. Una raffica di colpi e, per il gioielliere, è la fine. Senza riuscire a dare una risposta i carabinieri si chiederanno: “Quartuccio ha assistito all’esecuzione?”.“Esecuzione” avvenuta mentre il sostituto procuratore della Repubblica Domenico Signorino, sulla

circonvallazione si trova davanti al cadavere di uno sconosciuto scoperto in seguito ad una segnalazione anonima, più precisa di quella giunta al giornale “L’Ora”. Il “pacco” è appoggiato ad un montante di tufo davanti al cancelletto di via Collegio Romano, una piccola traversa della circonvallazione, quasi all’altezza di un grande magazzino, il Sigros.Il giorno dopo, il 31 luglio, all’istituto di medicina legale, il cadavere viene riconosciuto da una donna di Borgo Nuovo per quello del marito, Francesco Renda. Il medico legale, Alfonso Verde, fa risalire la morte a circa 20 ore prima del ritrovamento e quindi a pochissime ore prima del rilascio di Graziella Mandalà.Il corpo senza vita viene ritrovato legato mani e piedi dietro la schiena.Renda, 41 anni, abitante in via Assoro 2 a Borgo Nuovo, sposato con Angela Rizzato, padre di due bambine, era una vecchia conoscenza di polizia e carabinieri. Il 30 gennaio 1976 fra l’altro era stato bloccato su una Mercedes nuova di zecca insieme a Salvatore Enea, 39 anni, anch’egli di Borgo Nuovo, e di Giovanni Orofino, fratello di Michele, imputato di omicidio. In quell’occasione in casa Orofino furono sequestrate delle armi.I delitti Renda e Ganci vengono subito collegati da carabinieri e polizia, che non ne fanno un mistero, al sequestro Mandalà. Comincia, infatti, a farsi strada l’ipotesi di omicidi commissionati addirittura da Quartuccio e dal cognato, Pietro Mandalà, per vendicare l’affronto. In casa Quartuccio viene effettuata una perquisizione e i carabinieri sequestrano 15 milioni, in contanti, probabilmente il denaro che l’ex costruttore avrebbe voluto offrire ai banditi come acconto.Mentre si tenta di far luce sui punti oscuri che trasformano in un vero e proprio giallo il rilascio della Mandalà, ecco altri due omicidi. La catena di sangue si allunga.È il dieci agosto 1976. Nicolò Malfattore e Vincenzo Schifaudo, 23 anni il primo, 22 il secondo, entrambi sorvegliati speciali, poco prima delle 17 sono in un circolo ricreativo nei pressi di piazza Scaffa. Qualcuno si avvicina e dice loro di essere attesi al bar vicino. Appena fuori, a due passi da piazza Scaffa, da una 128 rossa scendono due killer armati di calibro 38 e fucile a canne mozze. La “sentenza” viene eseguita con facilità: Malfattore muore subito, Schifano viene

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inutilmente trasportato all’ospedale dove arriva senza vita.Gli inquirenti navigano nel buio. Per altri 23 giorni non accade nulla. Colpo di scena il 2 settembre: alle 5,15 un gruppo di killer sorprende Salvatore e Filippo Ganci, 56 anni il primo, 50 il secondo, fratelli del gioielliere Elio, assassinato 33 giorni prima a Monreale. L’agguato viene teso proprio davanti allo stand dei Ganci al mercato ortofrutticolo di Palermo mentre i due fratelli, insieme ad alcuni dipendenti, scaricano meloni da un camion.Non è difficile abbatterli perché i killer giocano sulla sorpresa. Un altro loro fratello, Vincenzo, 52 anni, titolare dello stand, riesce a salvare la pelle perché al riparo, dentro lo stand.Non si registrava un delitto all’“ortofrutta” da 18 anni: dal 1958, quando venne ucciso a raffiche di lupara Gaetano Galatolo, “zu Tanu Alati”, il “re” della zona Acquasanta-Montalbo: da quel giorno prese il suo posto Michele Cavataio, uno dei quattro assassinati negli uffici Moncada di via Lazio il 10 dicembre 1969.Anche il duplice omicidio dell’“ortofrutta” viene inquadrato nell’ambito delle vendette seguite al sequestro e al rilascio di Graziella Mandalà. Strenuo assertore di questa tesi è proprio il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo.Il contadino Calogero Mannino, conduttore di un fondo a “Piano dell’Occhio”, tra Montelepre e Torretta, di proprietà di Lucrezia Prestigiacomo, residente in America, mentre ara il suo terreno coltivato ad uliveto si accorge che la pala del trattore rimane impigliata in un sacco. È una scena macabra. Dentro una buca larga circa 60 centimetri e profonda 80 c’è un cadavere avvolto a metà dentro un sacco. Il corpo, con le braccia e le gambe legate dietro il tronco con una fettuccia di canapa, era stato infilato nel sacco dalla testa fino all’addome.Il riconoscimento, all’istituto di medicina legale, è facilitato da due tatuaggi: una farfalla ed una sirena. È proprio Stefano Diaconia, 42 anni, scomparso un paio di giorni prima. La conferma la dà la moglie, Maria Sarchina, abitante in via Re Federico.La cronaca si era occupata di Diaconia il 23 aprile 1963 quando davanti alla sua pescheria di via Empedocle Restivo, un gruppo di killer sparò delle raffiche di mitra contro il boss Angelo La Barbera, in quel momento fermo sul marciapiedi a parlare con lui. La Barbera non fu colpito, invece Diaconia e due

suoi dipendenti rimasero feriti. Un attentato che fece storia perché segnò la fine di La Barbera, costretto a fuggire prima a Roma e poi a Milano. Gli assassini continuarono a cercarlo e tentarono di ucciderlo proprio a Milano in viale Regina Giovanna. Ma La Barbera se la cavò con qualche ferita.Giaconia, dal canto suo, dopo l’agguato di via Empedocle Restivo, finì all’Ucciardone dove rimase fino al famoso processo di Catanzaro, quello contro le cosche mafiose del Palermitano.Il 22 settembre 1976, giorno della sua scomparsa, Stefano Giaconia, al soggiorno obbligato nel comune di Lanciano, si trova a Palermo essendo riuscito ad ottenere un permesso. Riusciva ad ottenerli spesso. Proprio il 22 scade la sua “vacanza” in famiglia. Di buon mattino esce da casa per andare alla stazione, poi nessuno ne ha notizia. Dopo quattro giorni il suo cadavere viene trovato in quel sacco sepolto dalla terra in una buca di “Piano dell’Occhio”.I carabinieri effettuano dei sondaggi nei pressi della “fossa” dove era stato seppellito Giaconia, trovano a qualche metro di distanza un altro cadavere in avanzato stato di decomposizione.Per gli ufficiali dei carabinieri, alla medicina legale, non ci sono dubbi: si tratta del pregiudicato Salvatore Spaduzza, latitante da due anni; lo riconoscono perché ha un dente fratturato ed annerito. Ma, prima ancora di vedere il cadavere, quella stessa sera, i familiari di Spaduzza sostengono che non può trattarsi di lui. Il giorno dopo genitori, fratelli, parenti ed amici della vittima vanno tutti all’istituto di medicina legale del Policlinico. Pur traditi da una certa emozione, dicono tutti di non riconoscere Salvatore Spaduzza in quel cadavere.I carabinieri pensano che soprattutto i genitori di Spaduzza abbiano così tentato di evitare ulteriori danni alla loro famiglia e agli altri fratelli della vitima.Per i rapporti di amicizia tra Spaduzza, Francesco Renda (il primo morto della catena), Salvatore Enea e le due vittime di piazza Scaffa, Nicolò Malfattore e Vincenzo Schifaudo, i carabinieri collegano anche le due ultime vittime col sequestro della Mandalà. Renda, i tre fratelli Ganci, Schifaudo, Malfattore, Spaduzza, Giaconia: otto nomi, otto delitti. Il giallo si infittisce. Le ipotesi di un collegamento al sequestro della moglie di Giuseppe Quartuccio si concretizzano. Ma l’inchiesta riserva delle sorprese.

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13 maggio 1979Quandola “mala” toccaun intoccabile

s ul sequestro e sul rilascio della moglie dell’ex costruttore Giuseppe Quartuccio, sugli otto morti che seguirono alla liberazione di Graziella Mandalà, il colonnello Giuseppe Russo presentò un

rapporto alla magistratura, l’ultimo della sua lunga carriera prima di lasciare il comando del nucleo investigativo dei carabinieri (26 ottobre 1976) per venire trasferito alla Legione di Palermo.Russo presentò il rapporto ma non arrestò Quartuccio. Proprio al contrario di come si comportò il suo successore, il maggiore Antonio Subranni. Quest’ultimo il 23 dicembre dello stesso anno con un suo primo rapporto all’autorità giudiziaria arrestò Giuseppe Quartuccio come mandante degli omicidi di Francesco Renda, Elio Ganci, Schifaudo, Malfattore, Spaduzza, Giaconia, Filippo e Salvatore Ganci. Arresto confermato dal giudice istruttore Marcantonio Motisi, che contestò all’ex costruttore il concorso in sei omicidi: Renda, Elio, Filippo e Salvatore Ganci, Schifaudo e Malfattore. Come si vede, pur essendone indiziato, non ha avuto ufficialmente contestati né gli omicidi Giaconia e Spaduzza, né la scomparsa di Vito Mangione, volatilizzatosi subito dopo il rilascio della Mandalà.Vediamo come Subranni giunge alla determinazione di arrestare Quartuccio. Il suo rapporto rivela anche nei dettagli le sequenze del più eclatante giallo della malavita organizzata.È stato accertato che subito dopo il rapimento della moglie, Giuseppe Quartuccio “bussò” alla porta di un noto boss del triangolo Monreale-Uditore-Borgo Nuovo.C’è chi in quei giorni consigliò a Quartuccio di rivolgersi al gioielliere di Monreale, Elio Ganci, famoso in certi ambienti per avere avuto un ruolo nella scomparsa del gestore del “bar Massimo” Vincenzo Guercio, rapito sotto la sua abitazione di Corso Calatafimi, il 10 luglio 1971. Il gioielliere, secondo le indicazioni dei carabinieri, era legato al clan di Gerlando Alberti e di Loreto Sordi, il capo della rivolta dell’Ucciardone nel 1957.Quartuccio avrebbe chiarito le idee a se stesso il 23 luglio 1976, giorno in cui si recò nella gioielleria di via della Repubblica di Monreale.“La prego – disse a Elio Ganci – mi aiuti a riavere mia moglie che è ammalata”. Ganci choccato e turbato dall’inaspettata richiesta rispose confuso: “Ma… che c’entro io? Che ne so di questi fatti?”. Dal turbamento

di Ganci l’ex costruttore si sarebbe convinto che il gioielliere era proprio uno degli organizzatori del sequestro.I carabinieri sono riusciti a ricostruire attraverso le dichiarazioni di alcuni protagonisti le fasi misteriose della liberazione della Mandalà.Testi chiave dell’accusa sono Rachela Finocchio in Rizzo titolare di un esercizio di generi alimentari a Borgo Nuovo, e Francesca Calì ex amante di Vittorio Manno, il meccanico assassinato alla circonvallazione nel ’74, e amica di Francesco Renda, Giovanni Orofino e Salvatore Enea, tre dei protagonisti del “giallo-Mandalà”.Francesca Calì, madre di un bambino nato dalla relazione con Manno, abita in una villetta a Partanna Mondello, dove in una stanza al primo piano la Mandalà viene tenuta prigioniera durante gli otto giorni del sequestro.Erano stati Renda ed Enea ad imporre la presenza della signora Quartuccio alla Calì obbligandola a vivere per quei giorni al piano terra e lasciando disponibili le tre stanzette del primo piano. Si tratta di circostanze confermate da Francesca Calì che sostiene però di non aver mai visto la prigioniera e di aver intuito che Renda, Enea e Orofino avevano il ruolo di coordinatori di tutte le operazioni.Queste ed altre testimonianze fanno credere ai carabinieri che i carcerieri della Mandalà siano stati nei primi giorni Renda, e successivamente Schifaudo, Malfattore, Spaduzza e Mangione.Arriviamo così alla ricostruzione delle ultime fasi. È la sera del 29 luglio. Nella villa di Partanna Mondello, oltre alla Calì, si trovano Salvatore Enea al piano terra e, a quanto pare, Malfattore e Schifaudo di guardia al primo piano.Improvvisamente una persona bussa alla porta. Risponde la Calì. Lo sconosciuto in modo autoritario dice che deve consegnare un messaggio. Poi dice di lasciarlo su uno dei tergicristalli dell’automobile di Enea, parcheggiata davanti alla villa. La Calì, appena lo sconosciuto si allontana, esce fuori per prendere il messaggio. Lo trova però sul muretto della villa, accanto al cancello. È un pezzo di carta doppia color zucchero, come quella usata nei negozi di generi alimentari.Aperto il messaggio, la Calì legge: “Mi trovo in mano ad amici. Liberate subito la donna perché sarà meglio per me e per voi”. La firma è quella di “Francesco Renda”.

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E non ci sono dubbi che sia la sua: qualcuno sulla carta color zucchero ha incollato la tessera di identità del Renda, quasi un’autenticazione della firma. Ciò che avviene da quel momento nella villa i carabinieri lo apprendono dalle dichiarazioni di Rachela Finocchio, amica di famiglia dei Reina, titolare del negozio di Borgo Nuovo dove – con tutta probabilità – Francesco Renda acquistava i viveri per la Mandalà.La Finocchio ha raccontato di avere incontrato occasionalmente Vito Mangione, che terribilmente scosso e preoccupato le ha fatto delle confidenze ritenendo in pericolo la sua vita.Un racconto drammatico, dalla notte del rapimento della Mandalà fino alla notte della sua liberazione.Secondo questa ricostruzione, la moglie dell’ex costruttore è stata condotta direttamente da San Martino delle Scale nella villa di Partanna Mondello. Quella sera la Calì era stata invitata dagli amici del suo ex amante Manno a non farsi trovare a casa. La Mandalà fu così rinchiusa in una stanza al primo piano mentre i suoi custodi alloggiavano in una stanza attigua.Il Mangione raccontò alla Finocchio della visita ricevuta la sera del 29 luglio dello sconosciuto e del messaggio.Un messaggio che turbò profondamente Enea il cui sgomento si accentuò quando – dopo qualche ora – lo sconosciuto ritornò vicino alla villa gridando: “Ma, non vi siete ancora decisi? Lo capite che dovete liberare la donna”.Sembra che lo sconosciuto abbia anche raccomandato che i carcerieri avrebbero dovuto consegnare la prigioniera ad un suo parente; lo avrebbero trovato fermo a piazza Leoni, quasi all’ingresso della Favorita verso le 23,30.Questa seconda “visita” disorienta i rapitori. Non sanno che fare. Decidono quindi di chiamare a raccolta tutto il clan. Nel giro di poco tempo si svolge una riunione, ma all’appello manca proprio Francesco Renda, il firmatario del messaggio. Si preoccupano e pensano che Renda possa essere caduto prigioniero nelle mani della mafia ed abbia rivelato il nascondiglio della Mandalà e i nomi dei complici.Il “clan” decide di eseguire i consigli contenuti nel messaggio di Renda. Viene rubata una “128”, si invita la Calì ad allontanarsi dalla sua abitazione ma non vengono eseguiti in tutto e per tutto i consigli dello sconosciuto. I carcerieri, infatti, temono di cadere

anch’essi in un tranello. Invece di abbandonare l’auto con la Mandalà in piazza Leoni, si fermano in piazza Don Bosco.Dirà poi Mangione a Rachela Finocchio: “Subito dopo ci riunimmo nella villa di Partanna Mondello. Eravamo preoccupati perché non avevamo più notizie di Francesco Renda. Tutti temevamo per la nostra pelle. Pensammo che della liberazione della Mandalà si fosse interessata la mafia: qualcuno di noi pensò alla mafia di Partanna Mondello. Il capomafia locale chissà forse si era risentito perché non informato di un sequestro che si svolgeva nella sua zona. Alla fine, preoccupatissimi, telefonammo a Monreale a Elio Ganci. Lo informammo di quanto era successo e Ganci ci disse che se il giorno dopo non avessimo saputo nulla su Renda ci saremmo dovuti recare a Monreale per discuterne con lui”.Secondo il racconto di Mangione alla Finocchio il gruppo in effetti la sera dopo, il 30 luglio, andò a Monreale. C’era una gran folla davanti alla gioielleria di via della Repubblica: Elio Ganci da mezz’ora era stato “giustiziato”.Il gruppo, ancor più disorientato, tornò frettolosamente a Palermo. Una volta uccisi Renda e Ganci, dissero in macchina, la mafia poteva ritenersi appagata in quanto loro avevano trattato bene la Mandalà e, obbedendo agli ordini ricevuti, l’avevano rilasciata appena ricevuto il messaggio di Renda. Decisero quindi di separarsi.

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20 maggio 1979Da Garciaa Russoa Garcia

è sera. Nella piccola casetta al primo piano in piazza, a Ficuzza, il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, la moglie Mercedes Berretti e la piccola Benedetta hanno appena terminato di cenare.

Hanno lasciato Palermo nel pomeriggio. La signora Mercedes è stanca, preferisce riordinare la cucina e andare a letto. Russo invece vuol fare due passi. Esce e chiama un amico che abita vicino, l’insegnante Filippo Costa.È la sera del 20 agosto 1977, ore 21.30.In maglietta e pantaloncini, sotto il cielo stellato, fiancheggiando il porticato della caserma della Forestale, Russo e Costa passeggiano diretti verso il bar della piazza. Nessuno saprà mai di cosa parlano.Al bar entra soltanto Russo per fare una telefonata. Costa attende fuori. Un minuto dopo i due amici riprendono la loro passeggiata. Un teste interrogato dai carabinieri, Felice Crosta, ha detto: “Alle 22 li ho visti. Erano diretti verso la parte alta della piazza lungo il viale parallelo a quello principale”.Nello stesso momento c’è chi si accorge di una “128” verde che procede lentamente per il viale principale, evidentemente controllando i movimenti di Russo e Costa. Divide i due viali un largo marciapiedi in parte alberato. L’auto continua la sua marcia fino alla parte alta della piazza, effettua una conversione ad “U” e si ferma proprio davanti all’abitazione del colonnello Russo.I due amici sono vicini alla macchina degli assassini. Non se ne rendono conto. Non possono. Si fermano, Russo tira fuori dal taschino della camiciola una sigaretta e dalla tasca dei pantaloni una scatola di “Minerva”.Russo non ha il tempo di accendere la sua ultima sigaretta. Sono le 22,15. Dalla 128 scendono tre o quattro individui, tutti a viso scoperto. Lentamente, per non destare sospetti, camminano verso i due. Appena sono vicini aprono il fuoco con le calibro 38. Sparano tutti contro Russo, tranne uno, armato di fucile che ha il compito di uccidere Costa.Sono killer certamente molto tesi. Al punto che uno di loro lanciandosi contro Russo per finirlo, gli cade addosso. Si rialza immediatamente e, come in preda ad un raptus, imbraccia il fucile sparando alla testa. È il colpo di grazia. Il killer vuol essere certo che l’esecuzione sia completa e mira anche alla testa dell’insegnante Filippo Costa. È il secondo colpo di

grazia. Si può andar via. Ma l’ultimo killer nella fuga perde gli occhiali che saranno ritrovati sotto il corpo senza vita del colonnello Russo.Numerose persone assistono a queste drammatiche sequenze e, soprattutto, alla fuga perché i killer, a bordo della 128, passano proprio davanti al bar.Ci si convince subito che si tratta di un duplice delitto di mafia. Un agguato preparato nei dettagli almeno da 26 giorni. La 128, trovata abbandonata a tre chilometri da Ficuzza, è stata rubata infatti a Palermo il 25 luglio, appunto 26 giorni prima.

fAttI e mIsfAttI dI unA dIGA La scelta di Ficuzza come teatro di esecuzione non è occasionale. Entrambi potevano essere uccisi più facilmente in altri posti. Russo in via Ausonia sotto casa a Palermo, Costa a Misilmeri dove abita. Invece no. La mafia voleva una esecuzione spettacolare ed esemplare.I mandanti avranno fatto ricorso a killer che conoscono zona ed abitudini del paese. Dovevano sapere, per esempio, che quella sera il “posto” della Forestale era sguarnito e non correvano alcun rischio nel primo tratto di fuga: un chilometro che, senza possibilità di deviazioni nel caso di sorprese, conduce da Ficuzza alla biforcazione del fondo Marino: una strada porta a Corleone e l’altro braccio a Marineo.Gli appunti trovati su Russo, sulla sua “127”, in casa e alla Legione imprimono alle indagini sin dalle prime battute un preciso indirizzo: la diga Garcia. Questa la pista dei carabinieri, che si ritrovano davanti alla formula: mafia-Garcia-sequestro Corleo.Russo quando muore è al settimo mese di convalescenza. Il mese successivo avrebbe dovuto presentarsi ad una visita fiscale: se l’esito fosse stato positivo si sarebbe definitivamente ritirato dall’Arma.Ci si chiede quindi quale strada l’ufficiale avrebbe voluto percorrere nel caso di congedo. Squadra mobile e Criminalpol indagano sulle sue amicizie. Soprattutto una, quella dell’imprenditore di Montevago Rosario Cascio. Poi: il progetto di un’industria da realizzare in Liberia, alcuni suoi viaggi a Roma con Cascio, la sua partecipazione in una società, la Rudesci.Tutti fatti sui quali si indaga. Alla fine, la polizia e carabinieri concordano su un punto: Russo è caduto per aver cercato di ripristinare l’ordine ed evitare soprusi nella corsa dei gruppi mafiosi verso i remunerativi subappalti ruotanti intorno ai lavori per

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la costruzione della diga Garcia (costo: 300 miliardi circa).In particolare, il colonnello Russo avrebbe tentato di non far perdere al suo amico Rosario Cascio il lavoro che si era legittimamente conquistato nella diga Garcia, da dove alcuni gruppi di mafia lo avevano cacciato con una serie di violenze.Il tentativo di Russo non è stato però gradito dalla mafia che intravide nella sua intromissione un serio pericolo per la realizzazione dei programmi iniziati nel ’74 con alcuni sequestri-monstre, finalizzati al predominio assoluto nella zona di Garcia e nella valle del Belice.Un pericolo non infondato perché i gruppi di mafia in fermento avevano già avuto modo di conoscere la tenacia di Russo, soprattutto nella lotta alla “Anonima sequestri”.La nuova mafia ormai aveva preso il sopravvento. E uno dei suoi obiettivi era quello di cancellare l’impresa di Rosario Cascio, di escluderla dai numerosi appalti, cominciando proprio dalle forniture alla Lodigiani, che in quel periodo avrebbe dovuto eseguire lavori per 21 miliardi.Cascio è considerato una pedina fondamentale dei vecchi equilibri della zona, quelli che non piacciono alla nuova mafia. Inoltre era amico di Russo e aveva le spalle protette da Stefano Accardo, il boss di Partanna-Trapani che sarebbe stato uno degli artefici del fallimento del sequestro Corleo.Rosario Cascio, nel corso dell’inchiesta giudiziaria poi affidata al giudice istruttore Pietro Sirena, dichiara di essere stato estromesso dall’ingegner Ratti dell’impresa Lodigiani. Ma Ratti lo esclude. In marzo – è la sua tesi – ci sono pervenute due offerte, una della ditta Cascio e l’altra della “INCO”. Abbiamo ritenuto più conveniente quella della “INCO”.Soffermiamo la nostra attenzione su questa sigla: è quella di una società con sede iniziale a Camporeale, fondata il 26 giugno 1970, registrata a Monreale; ha il programma di aprire cave, lavorare la pietra e fornire materiale alle imprese che ne hanno bisogno. Una società modesta la “INCO”, con capitale iniziale di un milione e duecento mila lire. Ne fanno parte l’imprenditore di Monreale Francesco La Barbera, Giovanni Lanfranca di Camporeale e il cognato di quest’ultimo, il geometra Giuseppe Modesto, dipendente dell’amministrazione provinciale di Palermo, segretario dell’assessore delegato alle

opere finanziate dalla Cassa del Mezzogiorno. Strano compito quello di Modesto che, fra l’altro, richiede 200 milioni alla “Cassa” proprio per potenziare le attrezzature della “INCO”.La società il 10 luglio 1971 porta il suo capitale a 150 milioni e il 22 luglio 1974 a 200 milioni. È l’anno in cui Giuseppe Modesto assume la presidenza della “INCO”.Negli ultimi mesi del ’76 la “INCO” è in crisi: “La situazione redditizia – si legge nella relazione di fine anno allegata al bilancio – è negativa per il ridotto regime di attività degli impianti nel corso dell’esercizio 1976 e per la pesante incidenza degli oneri finanziari per debiti a breve scadenza, oltre che per il ritardo del contributo della Cassa del Mezzogiorno”.Per la prima volta, la “INCO” così fa ricorso al fondo di riserva. La società si presenta in queste condizioni come alternativa all’impresa di Cascio concorrendo all’appalto per le forniture alla Lodigiani.Non si può escludere che il colonnello Russo, dopo essersi tanto adoperato per far superare a Cascio una serie di difficoltà poste da una precedente operazione da effettuare in Liberia, abbia pensato che c’era un solo modo di salvare l’amico reinserirlo nelle forniture di Garcia.Non avrà tentato il colonnello Russo di raggiungere un compromesso con la “INCO” che, non essendo in grado di garantire le forniture richieste dalla Lodigiani, avrebbe potuto reinserire Cascio nel gioco?Morto Russo, la risposta a questa domanda è finita nella tomba con lui. C’è però una dichiarazione di Rosario Cascio, che mi ha rilasciato subito dopo l’interrogatorio del giudice Pietro Sirena, che val la pena di rileggere. Dalle sue parole non si esclude l’“ingerenza” di Russo.“Non comprendo come i Lodigiani e i suoi tecnici – dice – soltanto ora rivelano al giudice istruttore che io sono stato estromesso perché l’impresa aveva ritenuto più vantaggiose le offerte della INCO. Da maggio ad ora nessuno aveva accennato ad offerte della INCO: né io, come erroneamente sostenuto da Lodigiani, a marzo ho fatto offerte per aggiudicarmi le forniture a Garcia in concorrenza con la INCO. È vero che io già rifornivo i Lodigiani e che a marzo avevo soltanto presentato una variazione di prezzi adeguandoli ai nuovi costi. Continuai le forniture anche dopo la presentazione dei nuovi prezzi che non furono mai né respinti né contestati, come dimostrano le fatture di pagamento. L’offerta della INCO è spuntata dopo la morte di

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Russo e non posso neanche escludere che si tratti di un’offerta perfezionata in un secondo momento e, comunque, dopo i fatti di Ficuzza, magari per togliere da ogni imbarazzo i Lodigiani e i suoi tecnici. Comunque la INCO non potrà garantire le forniture che soltanto la mia impresa riesce a produrre per l’attrezzatura di cui è fornita e che le consentono di far fronte contemporaneamente alle esigenze di tutte le imprese che operano nel Belice”.Alla luce di queste parole appare verosimile che Russo chiedesse il rispetto della legalità a chi della legalità è irriducibile nemico, il rispetto della giustizia per Cascio a chi nell’ingiustizia prolifera.“Russo si è spinto”, si sussurrò negli ambienti vicini a Cascio. Il suo era un temperamente impulsivo ma generoso. Si spingeva fino alle estreme conseguenze quando era convinto di essere dalla parte della giusta causa. Un temperamento che lo avrà indotto – magari con durezza – a chiedere giustizia per un amico, cosa che gli è costata la vita.La magistratura, per avallare questa tesi, cerca l’aggancio Russo-Costa alla causa di Cascio. Ma non era forse Filippo Costa l’unico amico che l’ufficiale aveva a Ficuzza e al quale poteva confidare, durante le passeggiate, i suoi problemi? Russo non aveva molti amici. Ma un amico era l’insegnante Costa, probabilmente a conoscenza dell’affare-Cascio.E, ammesso che Russo non avesse rivelato nulla a Costa, chi avrebbe potuto convincere gli assassini?

Mario Fraceseal lavoro all’ufficio stampadell’assessoratoregionale ai Lavori pubblicinegli anni Sessanta

Lunedì 26 gennaio 2009 - Ore 21Palermo, Teatro Politeama

“Una vita per la cronaca

Mario Francesetrent'anni dopo”

Costanza Calabrese • Felice Cavallaro • Filippo D'Arpa •Davide Enia • Silvia Francese • Francesco La Licata •

Franco Nicastro • Salvo Piparo • Ernesto Maria Ponte •Gian Antonio Stella • Salvo Toscano

Ingresso libero