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Apertura: il Mondo come luogo 13. di Jacques Lévy Noi siamo di natura uguale ai sogni. William Shakespeare 1 Si riprenderanno, in questo capitolo finale, i contributi dell’insieme dell’opera, nella prospettiva di identificare le grandi caratteristiche dell’oggetto-Mondo in movimento. Nella sua essenza, la mondializzazione consiste nell’emergere di uno spazio di scala planetaria laddove preesisteva un insieme di spazi ani- mati soltanto da logiche distinte. Ma qual è la natura di questo nuovo spazio? La crescita massiccia degli scambi di ogni genere produce una rete mondiale di cui l’arcipelago delle grandi città costituisce la trama di base (capp. II, 4, 5, 6, 8, 12 e III). Contemporaneamente, appaiono gli elementi costitutivi di una società civile che tende a gestire come un patrimonio comune le pro- prie eredità “culturali” e quelli di uno spazio politico nel quale le differenze non scompaiono, ma in cui tende a stabilirsi una cornice unica di dibattito pubblico (capp. 7, 9, 10 e 11). Tali realtà contribuiscono a fare del Mondo un territorio che può essere suddiviso in svariate maniere in altri territori o in reti, senza per questo perdere la sua ragion d’essere come unità spaziale pertinente (capp. 12 e III). S’insisterà su un’altra caratteristica della mondialità in costruzione: la Terra abitata diventa anche un luogo, ossia uno spazio nel quale si può utilmente considerare la distanza come non pertinente. Il Mondo come luogo significa che lo si può trattare come uno spazio a zero dimensioni, come un punto: in seno a esso possono esserci molte differenze, disparità o diseguaglianze, ma che non sono organizzate dal principio di distanza, di con- tatto e di scarto, di prossimità e di allontanamento. Un Mondo-luogo somiglia a una città a forte urbanità, nella quale densità e diversità esistono su piccole scale. Possiede dei tratti comuni con uno Stato unificato, nel quale il diritto è 1 W. Shakespeare, La tempesta, in Id, I drammi romanzeschi, vol. VI, Arnoldo Mondadori, Milano 1991, Atto IV, Scena I, p. 927.

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Apertura: il Mondo come luogo13. di Jacques Lévy

Noi siamo di natura uguale ai sogni.

William Shakespeare1

Si riprenderanno, in questo capitolo finale, i contributi dell’insieme dell’opera, nella prospettiva di identificare le grandi caratteristiche dell’oggetto-Mondo in movimento. Nella sua essenza, la mondializzazione consiste nell’emergere di uno spazio di scala planetaria laddove preesisteva un insieme di spazi ani-mati soltanto da logiche distinte. Ma qual è la natura di questo nuovo spazio? La crescita massiccia degli scambi di ogni genere produce una rete mondiale di cui l’arcipelago delle grandi città costituisce la trama di base (capp. II, 4, 5, 6, 8, 12 e III). Contemporaneamente, appaiono gli elementi costitutivi di una società civile che tende a gestire come un patrimonio comune le pro-prie eredità “culturali” e quelli di uno spazio politico nel quale le differenze non scompaiono, ma in cui tende a stabilirsi una cornice unica di dibattito pubblico (capp. 7, 9, 10 e 11). Tali realtà contribuiscono a fare del Mondo un territorio che può essere suddiviso in svariate maniere in altri territori o in reti, senza per questo perdere la sua ragion d’essere come unità spaziale pertinente (capp. 12 e III). S’insisterà su un’altra caratteristica della mondialità in costruzione: la Terra abitata diventa anche un luogo, ossia uno spazio nel quale si può utilmente considerare la distanza come non pertinente. Il Mondo come luogo significa che lo si può trattare come uno spazio a zero dimensioni, come un punto: in seno a esso possono esserci molte differenze, disparità o diseguaglianze, ma che non sono organizzate dal principio di distanza, di con-tatto e di scarto, di prossimità e di allontanamento. Un Mondo-luogo somiglia a una città a forte urbanità, nella quale densità e diversità esistono su piccole scale. Possiede dei tratti comuni con uno Stato unificato, nel quale il diritto è

1 W. Shakespeare, La tempesta, in Id, I drammi romanzeschi, vol. VI, Arnoldo Mondadori, Milano 1991, Atto IV, Scena I, p. 927.

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lo stesso ovunque e in cui le solidarietà prevengono la dissociazione di questa o quella regione.

Come si vedrà, sono l’individuo e la sfera politica ad apportare il contribu-to più potente a questa dinamica di “localizzazione” del Mondo. A partire da questa constatazione, si può proporre una valutazione d’insieme dello stato della mondializzazione considerata da questo punto di vista: fino a che punto i diversi luoghi del Mondo possono essere considerati, indipendentemente dalla loro esistenza, come luoghi autonomi, come “pezzi” del luogo-Mondo? Infine, si proporrà una valutazione sintetica dello stato del Mondo così come la si può costruire alla fine del percorso di questo libro.

Il Mondo è un luogo: ovunque a casa mia

L’individuo è diventato il primo attore della mondializzazione. Si è spesso ridotta la mondializzazione all’economia. Esiste, certo, un’intersezione fra la dimensione economica e la dimensione individuale della comparsa della scala mondiale. Gli individui sono lavoratori – talvolta mobili –, consumatori, turi-sti, e il loro ruolo economico è incontestabile. Tuttavia, l’individuo non è un attore mondiale unicamente sul piano economico. Contribuisce a mondializ-zare ben altre cose oltre ai flussi monetari: i modi di vita, le idee, la cultura. Gli individui sono così i principali portatori della dinamica di mobilità (cap. 5) e della tele-comunicazione (cap. 4) su scala mondiale.

Blogosfera

In quest’ultimo ambito, l’idea di luogo s’impone. Facendo sempre più a meno di mediazione, a un costo sempre più debole, gli utenti di Internet possono interagire fra loro a partire da un qualunque punto. Ma questa constatazione resterebbe “tecnologica” – un discorso sulle possibilità – e non “tecnica” – un esame pratico – se non si prendesse in considerazione il fatto che gli attori di questo nuovo episodio della storia della comunicazione sono, in buona parte, gli “individui ordinari”. La comparsa di ciò che si chiama “Web 2.0”, cioè di dispositivi che associano Internet all’“intelligenza collettiva”, basterebbe a mostrarlo: ciò che vi è di più contemporaneo nel Mondo intreccia in maniera quasi indissociabile una scala mondiale e una sostanza sociale specifica, l’indi-viduo capace di progetti e di libera associazione con altri individui.

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Si obietterà che il Web è anche vendita a distanza nei paesi ricchi, censura in Cina e in Siria, e ovunque reti di cavi della cui installazione e manutenzione si occupano potenti aziende. Obiezione accettata, ma senza effetto sul ragio-namento, anzi.

Expedia e Opodo fanno evolvere un vecchio mestiere, Sysco o Alcatel-Lucent si adattano a nuove domande, e il Partito comunista cinese resiste a malapena all’esplosione di una società civile istruita e ingegnosa. L’essenziale è altrove: in eBay, Flickr, YouTube, MySpace, Facebook o Wikipedia (per non parlare dei sistemi di scaricamento illegali), ossia in imprese inizialmente modeste che hanno capito che la domanda di sistemi produttivi planetari im-materiali poggiava su regole del gioco il più possibile semplici per inquadrare gli scambi interpersonali. Questa irruzione si rivela allo stesso tempo, settore dopo settore, irreprimibile e piena di promesse.

La fine del XIX secolo e l’inizio del XX segnarono, in Occidente, l’avvento dell’individuo-lavoratore e dell’individuo-elettore. Con il fordismo e lo Stato sociale, i due ultimi terzi del XX secolo fanno dell’individuo un consumatore con cui bisogna fare i conti. L’invenzione del marketing traduce questa crescen-te sensibilità delle imprese nei confronti della domanda. È il momento in cui tutti i gruppi a definizione biologica (donne, giovani, bambini, persone anziane) conquistano il diritto a essere degli individui a tutto tondo, e in cui le esclusioni causate da scelte (pratiche sessuali, stili di vita) o da elementi indipendenti dalla volontà (origini, handicap) contano sempre meno. In altro ambito, anche i fon-di pensione rappresentano un’inflessione importante facendo passare i futuri pensionati, cioè qualunque individuo ordinario, dal lato del perseguimento del profitto, che egli può senz’altro combinare con altre motivazioni, ma non ha più il tempo di ignorare. Ogni individuo è portato a gestire simultaneamente le diverse logiche, talvolta contraddittorie, della vita economica. Con Internet si apre un universo ancora più inglobante, in cui le attese degli individui non sono più valutate da sondaggi o da studi di mercato: sono essi a farsi produttori, inventori, autori, e il blog, con le sue contraddizioni, la sua instabilità, le sue illusioni – senza dubbio –, ma anche la sua capacità d’imporsi sul mercato dei discorsi, ne è il miglior riassunto. Nel nostro Mondo, i “piccoli” tengono testa ai “grandi” negli ambiti che contano davvero per un individuo: la creazione, l’argomentazione, il giudizio così come l’affermazione e il dono di sé.

L’individuo lascia fortemente la sua impronta al momento dell’invenzio-ne del Mondo che chiamiamo correntemente mondializzazione. In maniera

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inversa, l’individuo stesso come realtà sociale pertinente è anche una posta in gioco di tale avvenimento. L’individuo che mondializza non è colui che si sviluppa negli Stati-nazione dei secoli XIX e XX: è anch’egli coinvolto nel pro-cesso al quale contribuisce.

Norbert Elias (1990) è stato il primo ad associare, per ragioni teoriche fondamentali, emersione dell’individuo e mondializzazione. Società degli in-dividui: l’individuo diventa il primo attore della mondializzazione. La società degli individui e la società-Mondo di fatto non sono che una sola e medesima cosa. È vero che possono esistere “società d’individui” (per opposizione alle società comunitarie) ad altri livelli rispetto a quello del Mondo. Ma, da un lato, la mondializzazione contribuisce a relativizzare i livelli nazionali, infra-nazionali o transnazionali in seno ai quali le sottomissioni comunitarie sono prosperate, dall’altro, e simmetricamente, il Mondo si presenta come uno spazio di libertà, aperto a nuovi modi di organizzazione nei quali le logiche individuali possono affermarsi. Diciamo, per cominciare, che questo genere di enunciati non convalida l’individualismo metodologico o le interpretazioni radicali dell’eredità liberale. Dire che il ruolo e il peso degli individui aumen-tano non significa che la società perda la sua pertinenza. Tutto il contrario: nelle società a Gemeinschaft, le comunità non soltanto prendono in mano il destino delle persone, ma in più lasciano una porzione congrua a solidarietà societali che gli sfuggirebbero. Lo si verifica da qualche decennio nell’Africa subsahariana. All’opposto, nei sistemi a individui forti, la societalità è anch’es-sa forte, esprimendosi con una moltitudine di mutualizzazioni, statali o non statali: protezione sociale, educazione, vita politica ecc. È possibile consta-tarlo ovunque nel mondo sviluppato, compreso – contrariamente a ciò che si crede di notare superficialmente – in America del Nord, dove è solo il polo statale classico “all’europea” a essere relativamente ridotto.

È quindi logico che l’individuo mondializzato non possa più essere lo stes-so individuo che era lentamente emerso in seno alle configurazioni sociali che limitavano strutturalmente il suo ruolo. Lo Stato geopolitico, la comunità più compiuta e la più radicalmente consumatrice della vita dei soggetti, poneva inevitabilmente limiti brutali allo sbocciare delle persone. Si possono chia-mare alteridentità i nuovi tipi d’identità individuali che nascono con questa relativizzazione delle fedeltà e delle scale di fedeltà, e che tendono a costituire la “velocità di crociera” dell’individuo mondiale.

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Alteridentità

In Sé come un altro, Paul Ricœur (2002) ha individuato due tipi d’identità differenti: la medesimezza e l’ipseità. Nel primo caso (essere identici a se stes-si), la fissità e la differenziazione di fronte all’altro sono fondamentali. Nel secondo, il processo d’identificazione si costruisce attraverso uno scambio iterativo dinamico fra l’io e il mondo esterno. Benché tale riflessione sia stata fatta senza riferimento particolare alla dinamica delle società contemporanee, questa dualità fa eco alle analisi che seguono. Si può ipotizzare che l’identi-tà-medesimezza finisca in questo momento il suo percorso storico, mentre l’identità-ipseità le dà il cambio.

Si può d’altro canto collegare questa coppia con un’altra, ugualmente af-frontata da Paul Ricœur nella stessa opera: la dicotomia morale-etica. Infatti, le identità tradizionali, direttamente o indirettamente comunitarie (visto che l’individuo può funzionare eventualmente come una comunità articolata ad altre comunità) e i meccanismi d’identificazione sono per costruzione parti-colaristi e non compatibili con dei principi universali. La morale appare allora come una serie di parapetti che contengono entro limiti socialmente accetta-bili i comportamenti potenzialmente distruttori delle logiche di preservazione e di rafforzamento delle identità. L’opposizione egoismo-altruismo permette allora di dar conto della maggior parte delle azioni individuali. L’ipseità s’in-scrive, al contrario, in una visione non antinomica fra l’io e le relazioni con l’Altro. Ciò che viene dal mondo esteriore costituisce un materiale per la co-struzione identitaria e, inversamente, l’individuo integra l’idea che è egli stes-so un altro. Ciò che permette la stabilità della persona non è più la fissità dei contenuti, ma la continuità di un polo di trattamento dell’esperienza al mon-do. L’identità non è più una “cosa”, ma un rapporto fra cose in movimento, la coscienza del movimento e il progetto di dargli un senso che costituiscono i soli elementi stabili.

Il declino delle fedeltà automatiche crea situazioni ibride che associano in modo contraddittorio elementi di Gemeinschaft e di Gesellschaft, di comunità e di “società degli individui”. Di fatto, anche se ciò appare avvolto da una cer-ta confusione e se movimenti comunitaristi spettacolari (radicalismi islamisti, nazionalismi in Europa, negli Stati Uniti e in America del Sud, guerre etni-che in Africa) occupano il proscenio, l’affrancamento progressivo di fronte a fedeltà a gruppi non scelti e irreversibili costituisce precisamente il campo di studio degli antropologi dell’ibridazione. Questi cambiamenti tendono a

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fare delle realtà psichiche una componente centrale e non più periferica delle scienze sociali (Vrancken, Maquet 2006), come testimoniato dalla svolta pro-posta da Axel Honneth (2002) alla sociologia, riprendendo un filo lanciato da Platone con il thymos e ripreso da Hegel con la stima di sé: sono oramai le questioni classicamente collegate alle relazioni interpersonali – rispetto, umi-liazione, riconoscimento ecc. – a diventare il materiale di base dell’analisi dei rapporti sociali.

L’aumento dei margini di manovra dell’individuo di fronte agli obblighi e alle risorse del suo ambiente modifica la costruzione stessa dell’identità. Questa si sviluppa in due direzioni convergenti: una mobilità biografica più marcata del suo contenuto, un aumento dell’intenzionalità nella sua dinamica. La nozione d’identità si oppone meno alla coscienza e al progetto, e tende a diventare la posta in gioco di un’autocastrazione permanente. È quello che ha portato alcuni autori (come Jean-François Bayart [2009]) ad abbandonare la parola “identità” a vantaggio del termine “identificazione”, che è più proces-suale e rende meno l’idea del fissare. Le identità sono stabilizzazioni provvi-sorie che si sviluppano al ritmo degli squilibri dinamici della personalità, che l’individuo ha imparato ad assumere come una contropartita inevitabile dei gradi di libertà supplementari che ha acquisito nella fabbrica dell’io.

In tale contesto, le scienze sociali hanno tutto l’interesse a prendere sul serio dei processi propriamente psichici che sono anche interamente sociali e caratterizzano la dinamica delle personalità dal punto di vista della loro identità, e ai quali la mondializzazione offre nuove risorse. Così, a comple-mento della coppia assimilazione-accomodamento che Jean Piaget (1974) aveva individuato nei processi cognitivi, alcuni psicologi propongono di ag-giungere un’altra coppia: attivazione-inibizione (cap. 10; e Houdé [2005]). Queste due nozioni sono state concepite in analogia con la genetica, ma esse possono diventare concetti pienamente funzionali anche nelle scienze sociali. Esse permettono di prendere in considerazione l’esistenza di risorse tenute in posizione “dormiente” in una situazione in cui la loro espressione creerebbe una distorsione grave tra l’individuo e il suo ambiente e che, in un contesto adatto, possono rapidamente innestarsi negli schemi d’azione dell’individuo. Così, le diaspore cinesi del Sudest asiatico hanno cominciato il loro percorso in una logica comunitaria etnico-familiare, e hanno a poco a poco attivato un modello individuale che non è interamente proveniente da importazioni esterne ma risulta anche da un’estensione delle logiche di progetto di accu-

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mulazione economica presenti sin dalla partenza. Attivazione e inibizione co-stituiscono, in una prospettiva diacronica, l’equivalente di ciò che possono essere in una prospettiva sincronica gli scapes di Arjun Appadurai (2001) o “l’uomo plurale” di Bernard Lahire (1998), capace di cambiare i suoi schemi e i suoi repertori d’azione quando cambia contesto.

L’incontro fra l’osservazione di una realtà empirica storicamente situata e la risuddivisione delle categorie filosofiche porta a proporre la nozione di alteridentità, per significare allo stesso tempo l’ibridazione alterità-identità e la proposta di un approccio alternativo di fronte ai modi abituali di pensare questa coppia.

La fine dell’esotismo

In questa cornice, le componenti spaziali dell’identità sono logicamente anch’esse coinvolte. I “Qui” e gli “Altrove” non possono più essere definiti una volta per tutte. Tradizionalmente, i geografi concepiscono come univoco il legame identitario fra individuo e luogo: a ogni individuo il suo luogo (Tuan 1977), postulato spesso tradotto dalla metafora del radicamento.2 Si tratta allo-ra di un’identificazione evidente, “naturale” e che va da sé. Il vicino e il locale reggerebbero l’identità. Ora, l’appropriazione di molteplici luoghi geografici, con la mobilità o con altri mezzi, rimette in discussione questo modello; tutti i luoghi di ancoraggio possono essere, per un individuo, dei luoghi d’identifica-zione: basta praticarli, meglio, abitarli (Stock 2006b). Michel Lussault (2007) ha mostrato, a proposito dello tsunami del dicembre 2005, come il fatto che numerosi turisti siano stati colpiti abbia avuto un ruolo nel tipo inedito di mon-dialità di tale avvenimento: non solo perché i paesi d’origine di questi turisti si trovavano coinvolti, ma anche perché ogni turista virtuale – cioè tre o quattro miliardi di persone – poteva facilmente mettersi al posto delle vittime. Per la sua estensione spaziale così come per la complessità dei suoi determinanti, il sistema spaziale dell’attore ordinario ha dimensioni comparabili, più spesso superiori, a quelle della società nella quale esso si sviluppa principalmente. Le identità individuali non possono quindi più essere viste soltanto come piccoli oggetti posti in una grande scatola. Bisogna anche considerarli come strati di spazio organizzati e orientati dotati di una dinamica specifica.

2 Ciò permette a Peter Sloterdijk di coniare l’espressione “l’essere-come-le-piante” (Sein-wie-die-Planzen).

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Ciò porta alla proposta secondo cui il Qui non corrisponde a una sostanza stabile unica. Al contrario, ci sono molti Qui in movimento che, tutti, con-corrono al rapporto con lo spazio di un individuo. Qualunque luogo può diventare il referente dell’identità. Si può allora definire il Qui come compo-nente spaziale dell’identità. Simmetricamente, si dirà che l’Altrove costituisce la componente spaziale dell’alterità.

La mondialità è conseguentemente l’ambiente più favorevole all’emergere e allo svilupparsi dell’alteridentità. La dinamica del rapporto fra identità e alterità è allo stesso tempo una conseguenza e una componente della mondia-lizzazione. Riducendo l’ampiezza delle differenze e creando nuove singolarità a tutte le scale, confermando la grande città come un concentrato del Mondo, la mondializzazione offre in effetti una tavolozza allargata per vivere questa messa in movimento delle identità individuali. Un certo numero di antropo-logi hanno segnalato la comparsa di combinazioni differenti fabbricate con “mattoni” di nature diverse e “la fine dell’esotismo” (Bensa 2006), il trionfo dei bricolage, degli “ibridi” (Hannerz 2001) e dei “bastardi” (mongrel) (Zac-chary 2000).

La nozione di ambiente, nel senso di una realtà inglobante in interazione con le realtà che essa ingloba, può qui essere utile. La descrizione del Mon-do come spazio differenziato passa allora per lo studio di diversi ambienti articolati in vari modi gli uni agli altri, e non per forza secondo una logica di articolazione, ma anche di cospazialità in seno a un luogo unico. I diversi modi possibili di agire in questi differenti ambienti costituiscono il pannello di controllo degli individui, che sono anche una componente di tali ambienti. L’intensità e la velocità delle dinamiche dipendono allora non tanto dalla fun-gibilità reciproca degli ambienti presi nel loro insieme, quanto dalla capacità degli attori di attivare elementi di un ambiente che possono servire in un altro.

L’umano mondiale è arrivato

Il mondo degli individui è quindi, per eccellenza, il Mondo. L’individuo non deve in nessun caso essere pensato come il più piccolo livello scalare. Dal corpo al pianeta, l’individuo è lì, attivamente: è il traghettatore privilegiato delle spazialità, non soltanto attraverso il passaggio delle frontiere, ma anche da una scala all’altra o da uno strato all’altro. Non è una realtà nuova; ciò che è nuovo è che questa posta in gioco si presenta, più o meno, a tutti gli

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individui e non più a una piccola minoranza di grandi viaggiatori o di grandi intellettuali.

Il Mondo degli individui è forse cominciato quando un avvenimento di portata mondiale – lo sterminio pianificato di intere popolazioni – ha potuto comunque, tardivamente, essere interpretato dal punto di vista dell’indivi-duo. Si trova una trama paragonabile in Robert Antelme (1997), Primo Levi (2005), Charlotte Delbo (1965), Imre Kertész (2004) e Jorge Semprún (2005), i quali hanno saputo descrivere una vita in cui la mancanza di potere sul pro-prio corpo non significa affatto assenza di attività, un mondo dominato dalla lentezza interminabile, ma anche scandito da piccole felicità. In Imre Kertész, “essere senza destino”, cioè avere il potere di agire e di influire sul seguito della propria esistenza senza che tutto sia deciso in anticipo, è l’orizzonte paradossale che si può disegnare in un mondo da cui la libertà è comunque bandita. È poter “avanzare passo dopo passo”, fosse pure solo per delibe-rare se sia meglio prendere l’autobus o il tram per andare ad Auschwitz, e rinunciare a dire che le cose accadono, ossia ci “cadono addosso” senza che noi possiamo farci niente. “Pensare dopo Auschwitz” significa dire che, an-che se schiacciato da un peso insormontabile, l’individuo può resistere a una compressione totale, e far vivere intensamente, e non soltanto nella propria testa, la sua realtà d’individuo. Questo atteggiamento differisce da quello del personaggio romantico e postromantico che cerca nelle tragedie della storia, a costo di “sporcarsi le mani”, una compensazione alla sua impotenza di fronte alle forze superiori con le quali è alle prese: gli eroi di André Malraux o di Jean-Paul Sartre differiscono da quelli del XIX secolo soltanto nella misura in cui essi scoprono che la storia non si fa più senza di loro, ma grazie a essi e nonostante essi, senza che possano esserne veramente gli attori. Nei campi di sterminio, lo sforzo di appropriazione di sé non consiste nell’immergersi nell’orrore per trarne una certa grandezza, ma – paradossalmente – nel cerca-re malgrado tutto di creare un’inverosimile banalità che permetta di accedere – a tratti – a un ritmo, a punti di riferimento, a identificazioni provvisorie e a microavvenimenti piacevoli o sgradevoli che contribuiscano a costruire un “quotidiano”.

Associando mondializzazione e individuazione, Norbert Elias ha puntato quindi il dito su un fenomeno essenziale: nel Mondo, l’individuo è a casa come mai e come nessuno. Ma il Mondo fa di lui un individuo di un genere nuovo.

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Capitale spaziale e sociologia del Mondo

In Teoria e struttura sociale Robert Merton (2000) presentava i risultati di un’inchiesta condotta in una piccola città giudicata tipica della società ameri-cana, Rovere (New Jersey). Merton vi opponeva due tipi di persone influen-ti, gli “autoctoni” e i “cosmopoliti”. A dispetto di queste denominazioni, si trattava in entrambi i casi di individui con poca presa sul mondo esterno. La differenza verteva di più sul tipo di legittimità che gli era riconosciuta dai loro concittadini. Gli “autoctoni” giocavano su un’empatia intuitiva, mentre i “cosmopoliti” esprimevano un discorso astratto, staccato dalle poste in gioco immediate. Ciò che è cambiato è che oramai i “cosmopoliti” sono diventati veramente cosmopoliti, il che non impedisce loro, d’altronde, di essere vera-mente autoctoni.

Denis Duclos (1998) ha tentato di individuare l’esistenza di una “iperbor-ghesia” mondiale, ossia, secondo lui, americana, che possiede due modalità secondarie, ma geograficamente distinte, quella della Costa Ovest e quella della Costa Est degli Stati Uniti. Solo il livello mondiale esisterebbe e gli altri, al di sotto di esso, non meriterebbero più tutta la nostra attenzione. Questo di-vario lo si ritrova molto chiaramente, nel registro ideologico, fra gli altermon-dialisti. Toni Negri e Michael Hardt (2007) parlano di impero al singolare, e raccomandano una guerra civile mondiale (“Come può scoppiare nell’Impero la guerra civile delle masse contro il capitale mondo?” chiede Toni Negri), poiché ritengono che la società mondiale esista, con una gerarchia economica e una dominazione politica unificata. Inversamente, gli antimondialisti della scala unica (quella dello Stato-nazione) così come “Le Monde diplomatique”, per esempio, li incarna, cercano ancora di opporre una borghesia comprador a una borghesia nazionale.

Si potrebbe provare a costruire una cornice teorica per una sociologia della mondializzazione e della società mondiale che prenda in considerazione allo stesso tempo la scala mondiale e altre scale. La relazione individuo-Mondo suggerisce, infatti, di riformulare l’interpretazione dei rapporti sociali inte-grandovi la dimensione spaziale. D’altro canto, è tanto più utile in quanto ri-durre i principi di classificazione alla sola economia appare sempre più discu-tibile. Lanciando l’idea che non ci sarebbe una sola specie di “capitale” per definire la “posizione sociale” di un individuo, Pierre Bourdieu ha aperto una breccia che può servire a chi vuole esplorare la complessità delle situazioni sociologiche, anche se non si condivide la postura strutturalista-funzionalista

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di quest’autore. Meglio: la molteplicità dei capitali sociali permette di uscire dalla posizione nella quale si era rinchiuso Bourdieu, quando si è reso inca-pace di pensare tanto le dinamiche biografiche quanto i movimenti storici. La pluralità dei capitali apre anche sulla pluralità dei ruoli, delle strategie, dei sistemi d’azione. E se ci sono tre tipi di capitali, allora perché non potrebbero essercene cinque o dieci?

La nozione di “capitale spaziale” (Lévy 1999b; 2003a) si situa in questa prospettiva. Essa permette di integrare gli stock d’esperienze e le capacità di agire in un insieme che riassume la competenza spaziale di un attore. Questa può svilupparsi nel proprio campo, ma anche scambiarsi con altre specie di capitali: economico, politico ecc.

Ora, la mondializzazione dà un senso rinforzato a tale competenza. La ta-bella 1 permette di comprendere come delle persone sprovviste di capitale economico ma ben fornite di capitale spaziale – i “collegati” (per esempio, migranti internazionali che hanno un progetto di mobilità ben costruito, con già un’esperienza dell’alterità e punti d’appoggio solidi nel luogo d’arrivo) – possano sviluppare una strategia di ascensione sociale vincente, mentre coloro che sono chiamati i “trincerati” (per esempio, gli stipendiati a statuto protetto di un paese sviluppato) sono attori geografici in difficoltà di fronte alla mon-dializzazione a dispetto della loro posizione economica piuttosto favorevole.

Nello studio della mondializzazione, l’individuo costituisce di certo una chiave d’accesso fondamentale. L’individuazione è, infatti, un processo di produzione di singolarità più o meno differenti le une dalle altre, ma in ogni caso irriducibili alla diversità o alla somiglianza degli ambienti che, pure, le hanno fatte nascere. Non solo la sociologia dei gruppi sociali si mondializza (un tassista di Sydney somiglia molto a un tassista di Lisbona, un universita-rio indiano somiglia a un universitario italiano), ma questa sociologia classica è sfidata dalla fluidità delle appartenenze: un tassista o un universitario si riducono sempre meno al loro status professionale. Quindi, gli individui pos-seggono sempre più questo bene comune universale che è l’esistenza di un percorso singolare. La geografia del Mondo non si uniforma, ma gli individui maneggiano tali differenze per giocare in un mondo d’individui in cui essi interagiscono sempre più spesso con altri individui. Il Mondo, quindi, non è più la loro terra di missione, ma il loro terreno di gioco. Ciò che gli individui fanno con il Mondo è trasformarlo in luogo.

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Il Mondo è un luogo: ovunque insieme?

La “localizzazione” del Mondo attraverso gli individui ha le sue proprie ca-ratteristiche: tanti piccoli attori molto diversi gli uni dagli altri e che svilup-pano strategie centrate su se stessi. Il loro contributo alla mondializzazione si constata a posteriori, e senza che ciò abbia fatto parte dei loro obiettivi espliciti. Al contrario, ci si potrebbe attendere che l’altro grande movimento di trasformazione del Mondo in luogo, quello della sfera politica, preceda in modo discendente, tramite l’istituzione di cornici comuni definite prima della loro realizzazione. L’analisi dei processi in corso si rivela più ambiva-lente.

Etica, diritto e sfera politica fanno luogo

Nel suo principio, la sfera politica appartiene a una famiglia di realtà sociali che tendono a trasformare ogni area in un luogo. In seno a questa famiglia si trovano i valori etici, il diritto e la sfera politica. In altri termini, si può dire che qui non è questione di universalità. I cittadini beneficiano di pari trattamento, la legge è la stessa per tutti, i valori non tollerano eccezioni: la differenziazione geografica è considerata come non pertinente su questo piano.

Questi tre ambiti appartengono all’universo affettivo-oggettivo (Lévy 1995), cioè a quello delle scelte fondate su classificazioni gerarchiche non co-gnitive, capaci di creare ambienti condivisi e pregnanti. La cultura scientifica e tecnica – l’universo cognitivo-oggettivo – produce universalità che tendono anch’esse a trasformare il Mondo in luogo. È vero anche per l’arte (cognitivo-soggettivo) e – lo si è appena visto – per l’interindividuale (affettivo-soggetti-vo). La mondializzazione della sfera politica, del diritto e dell’etica s’inscrive in un contesto in cui gli altri tre grandi settori della produzione umana si mondializzano. Si può ritenere che qui si trovi la causa fondamentale di que-sta quarta mondializzazione. Se non ci fosse tale ingiunzione a regolarsi sulle altre universalità, l’etica, il diritto e il politico resterebbero confinati a livelli inferiori poiché questi resisterebbero, e la pressione per superarli sarebbe limitata. La nozione di diritti dell’uomo (o di diritti umani, se si teme di at-tribuire un genere alla parola “uomo”), che risale alla Rivoluzione francese, ha recentemente conosciuto un nuovo destino. Questa inflessione non deriva dalla sua adozione da parte delle Nazioni Unite nel 1948. Il testo francese,

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che somiglia al preambolo di numerose costituzioni, ha potuto essere am-piamente ignorato a causa della sua incompatibilità con numerosi articoli della Carta delle Nazioni Unite (1945) i quali sottoscrivono la tradizione del “diritto internazionale”, segnatamente in materia di sovranità degli Stati e di inviolabilità delle frontiere. Se oggi i diritti dell’uomo si sono inseriti nel dibattito pubblico come riferimento legittimo, è in gran parte perché la mon-dializzazione della conoscenza (grazie all’aumento del livello di formazione, ai media e alla mobilità) e la mondializzazione dell’individuo (quest’uomo concreto che può “mettersi al posto” di altri uomini concreti) hanno mes-so in crisi il modo assai particolare che gli Stati avevano o hanno ancora di considerare l’universale: vero all’interno (Stato politico), falso all’esterno (Stato geopolitico).

L’esistenza di un dibattito su scala mondiale sui valori e le norme non produce affatto discussione. Si parla della possibilità di convergenza tra i si-stemi di valori distinti, in generale (cap. 7) e su argomenti precisi; della pos-sibilità di introdurre l’etica nella transazione economica (cap. 8); del conte-nuto dello sviluppo e dello sviluppo stesso (cap. 10); della relazione uomo-natura e della natura stessa (cap. 11); delle conseguenze del fatto che gli abi-tanti del pianeta vivano sempre più in una temporalità unificata (cap. 12). L’emergere di un nuovo settore del diritto, il diritto mondiale, pubblico ma anche privato, fondamentalmente distinto dal vecchio “diritto delle gen-ti” (gens = nazione) ribattezzato “diritto internazionale”, può difficilmente essere contestato. Infine, la sfera politica tende, in modo disordinato ma accertato, a sostituirsi alla geopolitica (cap. 9).

Tabella 13.1. Due componenti del capitale sociale degli individui in un Mondo mondializzato.

Capitale spaziale

Provvisti Sprovvisti

Capitale economicoProvvisti Attivi Trincerati

Sprovvisti Collegati Circondati

Fonte: tabella dell’autore.

346 Inventare il Mondo

Del Mondo, di qui e di là

Si assiste a una cosmopoliticizzazione (kosmos = Mondo; polis = società mu-nita di funzioni politiche, compresi i valori fondatori del diritto). Si nota, tuttavia, che tali evoluzioni sono complicate e contraddittorie, al punto da diventare talvolta illeggibili. Due approcci della nozione di cosmopolitismo, quello di Immanuel Kant (1956) e quello di Ulrich Beck (2005), permettono di comprendere meglio le contraddizioni contemporanee.

Cosmopolitismi La cosmopolitica di Kant era modesta. Partiva dal princi-pio che non bisognava affatto attendersi un sussulto morale, ma ragionare a “quantità di morale costante”. È quindi più per “realismo” che per “ideali-smo” che egli si attendeva di veder cambiare il paesaggio politico mondiale. Secondo lui, lo sviluppo degli scambi poteva da solo bloccare e sorpassare le logiche della conquista che si nutrono di se stesse, e non sono quindi così facili da destabilizzare. Questa pax economica porterebbe ineluttabilmente a una confederazione degli Stati nella quale questi ultimi conserverebbero l’es-senziale delle loro prerogative, eccetto il diritto alla guerra. Kant non crede-va affatto in una società mondiale politicamente unificata, anche in Europa. Insisteva sul fatto che non bisognava confondere l’ospitalità e la cittadinanza, ossia il diritto alla mobilità, da un lato, e, dall’altro, il diritto di invitarsi ovun-que come membro attivo di una società politica.

Il cosmopolitismo di Beck (2005) è anch’esso modesto, ma in altro modo. Esso parte dalle pratiche sociali degli individui, della società civile, cioè, in un certo senso, della società in quanto non politica. Osserva l’ibridazione ge-neralizzata delle identità, le pratiche sempre meno vincolate, l’emersione di problemi comuni e la necessità di organizzare lo stare insieme. Egli constata che il modo istituzionale di rispondere a tale contesto non può andare bene. Le ricette statali dell’unificazione sociale, infatti, hanno mostrato il loro limite su scala nazionale, ed è pericoloso – oltre che improbabile – applicarle alla scala mondiale. È ciò che egli chiama “universalismo”, che critica e che imma-gina solo in quanto componente di un movimento più ampio che chiama “co-smopolitismo”. Questo non si oppone frontalmente alle identità preesistenti, anche quando esse sembrano opporsi all’apertura: pure le comunità fanno parte del Mondo in corso d’opera, e non è cercando di distruggerle che si creerà un ordine politico legittimo. Su questo punto, Ulrich Beck si distingue da una visione razionalista che Jürgen Habermas ha posto in evidenza poiché

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un siffatto approccio presuppone che il problema sia risolto prima di essere stato trattato. L’idea di mettere intorno allo stesso tavolo – con la ricerca della verità come programma – i partigiani dell’eguaglianza degli individui e i rap-presentanti religiosi cristiani, musulmani o ebrei che difendono con forza – in nome di testi che si ritiene esistere all’infuori della storia – la separazione e la diseguaglianza dei sessi, per discutere di sessualizzazione e di sessualità, appare impossibile. Ciò non vuol dire che la situazione sia bloccata o che le lotte per i valori non abbiano senso. Ma il movimento si verifica spesso dopo, quando il “lavoro del senso” si è fatto nell’ombra, dove e quando non lo si aspettava.

Esiste un’intersezione fra queste due prudenze: i due autori non sottosti-mano la riluttanza degli abitanti del pianeta a entrare in una cornice etico-giuridico-politica unificata, almeno nel caso in cui fosse necessario rinunciare a quelle che già esistono. Le istituzioni mondiali che funzionano attualmente (ONU, OMC, FMI, Banca mondiale, G8...) corrispondono fino a un certo punto alla visione di Kant. Si è potuto rimproverare a Kant di criticare insufficiente-mente lo Stato prussiano, da cui egli dipendeva. Questo gli ha forse permesso di restare “ragionevole” nella formulazione delle sue utopie. La descrizione contemporanea di Ulrich Beck è anch’essa realista. Gli si potrebbe obiettare che il suo percorso tenta un compromesso talvolta acrobatico fra l’attualiz-zazione del progetto dei Lumi (e di Kant) e la posizione realista-progressista (cap. 9) di una parte della sinistra europea. Ciò permette senza dubbio a Beck di rendere complessa l’analisi e di sfuggire al rischio di prendere i propri desideri per realtà.

L’uso dei termini “universalità” o “universalismo” deve essere controllato. La loro storia, quella di una sovraimposizione di norme ad alcuni abitanti del pianeta da parte di altri in nome dell’“universo”, predica prudenza. Si può difendere l’idea che, oramai, le universalità potenziali sono discusse da tutti gli interessati, in tutte le regioni dell’“universo”, e che esse sono diventate concrete. Sono gli enunciati etici o cognitivi giudicati da alcuni attori utili per tutta l’umanità ed eventualmente, dopo dibattito, accettati da essa.

Non si possono che rifiutare le semplificazioni come quella che consiste nell’assimilare universalità e negazione dell’alterità. È ciò che propone Denis Duclos (2007) che ha provato a non dar ragione né all’universalismo né al ripiegamento conservatore. «Non esiste in sé del buono o del cattivo uni-versalismo.» Per arrivare a questa conclusione, confonde universalizzazione

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e generalizzazione, assimilando quest’ultima a un’uniformazione nell’ambito di una teoria psicologica molto personale. «La prospettiva universale attira e spaventa in quanto essa rappresenta per gli umani la soppressione dell’al-terità, il che è un desiderio narcisistico profondo, ma suscita in uno stesso movimento l’angoscia più forte.» È un controsenso totale riguardo la nozione di universalità. Nessuna universalizzazione può pretendere di sopprimere l’al-terità poiché l’universalità, in ogni caso nella sua espressione contemporanea, il cosmopolitismo, poggia sempre sull’esistenza di un orizzonte individuale considerato come insuperabile. Creare, per esempio, un diritto di ingerenza umanitaria (una proposta tipicamente universalista) consiste certamente nel combattere delle differenze, quelle che esistono fra dispotismo e Stato di di-ritto o fra società a principio comunitario e società d’individui, essendo la po-sta in gioco costituita dal diritto di esprimere e di vivere la propria singolarità, a tutte le scale delle sue relazioni con il collettivo.

Il Mondo si caratterizza per la preesistenza e la preminenza di una socie-tà politica rispetto alle istituzioni. Si può quindi pronosticare una dinamica federale che tende a insediare il livello Mondo in politica, ma privilegiando le configurazioni poco strutturate, contingenti e instabili. Questo si esprime anche attraverso federalità oblique (Lévy, Lussault 2003b). Il più delle volte, anche nell’Unione Europea che lo permetterebbe di più, non ci si trova in articolazioni di legittimità come in un sistema federale classico, ma in associa-zioni variabili tra livelli diversi, dal locale al mondiale. La struttura di un’orga-nizzazione come Amnesty International offre un’espressione chiara di questa situazione: i militanti si trovano nelle repubbliche democratiche e agiscono grazie alle cornici nazionali di tali paesi e ai media transnazionali per interve-nire in altri paesi pesando, in modo pragmatico, su ogni attore che abbia una qualsiasi influenza sugli attacchi ai diritti umani che essi combattono.

La Terra si rimpicciolisce, il Mondo s’ingrandisce In un altro registro, lo slogan di Thomas Friedman (2007) «Il mondo è piatto» deve essere consi-derato con prudenza. Se vuol dire che gli oggetti e le idee circolano meglio e più rapidamente sul pianeta, non si può che approvarlo. Se, invece, egli si rappresenta il Mondo come uno spazio isotropo, allora ha torto, poiché pur se le ampiezze delle differenze diminuiscono e creano un Mondo meno arduo, tutto indica (cap. 12) che la cultura dell’alterità dei luoghi conoscerà nel prossimo periodo un nuovo sviluppo... Molto semplicemente perché la

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singolarità è produttiva, non solo nell’ambito del turismo, ma anche in tutte le innovazioni che approfittano di ambienti complessi e originali e/o di società locali mobilitate su un progetto collettivo. I luoghi del Mondo sono più vicini, ma, secondo una metrica topologica, il Mondo non per questo diventa più piccolo, semmai più grande, giacché è costituito da una rete contenente più nodi in media maggiormente consistenti e meglio interconnessi. È in questo modo che si può comprendere lo studio di due economisti (Brakman, Mar-rewijk 2007), che sono stati tentati di analizzare la relazione fra la “distanza”, misurata – è vero – senza grande attenzione, e i flussi internazionali di merci e d’investimenti. Essi concludono che l’effetto della distanza aumenta, con-trariamente a ciò che pretende Friedman. Di fatto, se misurano qualcosa con i loro strumenti un po’ rozzi, è l’emersione di spazi continentali, in Europa in particolare, secondariamente in Asia orientale. Non sono certo le costrizioni fisiche che impediscono oggi più di ieri la circolazione dei beni e della mo-neta. Il commercio a lunga distanza è particolarmente poco costoso quanto a trasporti e i capitali si spostano alla velocità della luce ventiquattr’ore su ven-tiquattro. Eppure, la costruzione di spazi fortemente organizzati per permet-tere una forte intensità di scambi fra luoghi che si somigliano e si completano (come mostra l’Unione Europea) crea degli effetti di luogo su altre scale e con una potenza accresciuta in confronto ai periodi in cui gli spazi economici na-zionali dominavano. Ciò che fa luogo può cambiare, come si vede nel quadro delle logiche economiche (cap. 8): la combinazione azionisti-direzione-sede sociale-impianto-mercato è geograficamente variabile. È ciò che si osserva anche nel calcio professionistico europeo: i giocatori si scambiano su un mer-cato mondializzato, gli allenatori circolano, i club si comprano e si vendono a businessman di tutto il Mondo. Ma, al di là dell’atmosfera economica e delle regole del gioco fiscale, è il pubblico che, in fin dei conti, fa la forza di una squadra, e ciò poggia su un’alchimia dalle componenti varie e difficilmente sostituibili.

L’aumento del numero e della consistenza dei luoghi che il Mondo collega permette di rifiutare l’idea troppo ingenua secondo cui il Mondo si contrar-rebbe. A meno di ritenere che lo spazio mondiale si misuri dalle dimensioni dei suoi vuoti, bisogna ben riconoscere che la somma delle componenti (i luoghi pertinenti collegati tra loro) aumenta, soprattutto se la si pondera con la loro sostanza (quella del numero degli uomini e quella delle loro opere accumulate). La Terra si rimpicciolisce, ma il Mondo s’ingrandisce al ritmo

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in cui si sviluppano le relazioni di distanza e di prossimità con e fra le sue componenti.

Luogo-Mondo e luogo del Mondo

Che il Mondo possa esser letto come un luogo non significa che non abbia senso considerarlo come insieme di luoghi. I due aspetti vanno persino insieme: in quanto processo, la mondializzazione solleva immediatamente la questione della sua differenziazione geografica. Infatti, indipendente-mente dalla propensione della scala mondiale a generare uno spazio più o meno eterogeneo, la diversità dei ritmi che toccano i luoghi del pianeta produce un insieme di distanze fra i luoghi che derivano dal loro grado variabile di coinvolgimento relativo nel processo di mondializzazione. Un primo approccio di tale fenomeno consiste nel misurare i luoghi dal punto di vista di questa partecipazione. I luoghi del Mondo dialogano in un modo complesso con il Mondo che essi contribuiscono a creare. Tuttavia, non si può guardare la mondialità come un residuo astratto di processi locali. Si pone la questione di identificare dei fenomeni che sono, nel loro principio, mondiali.

Misurare la mondializzazione: divergenze, convergenze

Le misure della mondializzazione sono di diverse nature. Si può misurare l’apertura al Mondo, la produzione di beni distribuiti su scala mondiale, o ancora la riuscita in un ambito che riassume più aspetti di una “competenza mondiale”. I diversi indicatori disponibili sono spesso fragili per la qualità dell’informazione sulla quale essi si fondano.

È il caso delle classificazioni delle grandi città. Dal 1997, il GaWC ha com-piuto uno sforzo considerevole (capp. 6 e 8) per classificare in diversi modi le città in funzione degli scambi tra le imprese nell’ambito della finanza. Si è visto (cap. 1) che queste classificazioni rimettevano in discussione le fal-se evidenze sul primato delle città specializzate rispetto alle città generaliste. D’altro canto, identificando più reti (“alfa”, “beta”, “gamma”) di metropoli che producono eccellenza ognuna a suo modo senza “giocare nello stesso cor-tile”, questi studi mostrano che, secondo il criterio scelto, il parametro delle dimensioni può pesare di più o di meno (cap. II).

Apertura: il Mondo come luogo 351

Ora, il fatto che non disponiamo di strumenti veramente affidabili per misu-rare le dimensioni delle città è significativo. Circolano numerose liste di grandi aree urbane mondiali. Esse sono il più delle volte poco affidabili in quanto asso-ciano in modo eclettico strumenti di misure differenti, scegliendo in generale per ogni città la misura utilizzata dall’istituto statistico del paese in questione. A tale riguardo, le statistiche delle Nazioni Unite hanno pesanti pecche, e propongono risultati talvolta fantasiosi. François Moriconi-Ebrard, con la base di dati Geo-polis e il sito Demographia, ha scelto un principio semplice che ha il vantaggio di permettere una buona comparabilità: esso prende in considerazione gli ag-glomerati morfologici la cui suddivisione è fondata sulla continuità dello spazio edificato. Il più delle volte, questa misura sottostima le masse realmente incluse nelle aree urbane, in ragione delle disgiunzioni apparenti che la periurbanizza-zione ha prodotto nei paesaggi urbani. È proprio per mitigare questo difetto che la maggior parte degli uffici statistici ha messo in campo strumenti che colgono, attraverso le mobilità, la componente non morfologica dell’urbano. D’altro can-to, non considerando altro che la popolazione in funzione della sua residenza principale, i dati lasciano nell’ombra una parte degli abitanti effettivi della città: turisti, acquirenti, passanti, residenti secondari o anche lavoratori provenienti da altre aree urbane. Inversamente, e talvolta per la stessa città, l’approccio mor-fologico può anche sovrastimare la massa urbana poiché alcune continuità nello spazio edificato non corrispondono a scambi reali. Inoltre, anche altri approcci, come quelli di Thomas Brinkhoff (Citypopulation 2006), mirano a conciliare i due principi senza scegliere sistematicamente il valore più forte.

Come mostrato nella tabella 13.2, le differenze sono tutt’altro che trascu-rabili. La lista che giustappone i tre elenchi per le prime trenta città ne com-prende trentasette, visto che ciascuna include metropoli che non figurano nelle altre. I principi scelti dagli attori e l’andamento delle serie così prodotte impediscono, d’altro canto, di identificare dei criteri semplici che permetta-no di trattare questi risultati come contributi complementari a un sistema di misura coerente. Seguendo la classificazione dell’una, s’includono così delle città che figurano molto più in basso – fino all’ottantaseiesima posizione – nella classifica delle altre. Nessuna città ottiene la stessa popolazione nelle tre liste e, per una data città, le differenze di misura superano spesso il milione d’abitanti, il che sorprende tanto più che i valori di ogni lista sono spesso for-niti con una grande precisione. Una sola città, Tokyo, ottiene lo stesso posto (il numero 1) in tutte e tre le classifiche.

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Un primo scarto deriva dalla difficoltà di delimitare un’area urbana mor-fologica, a causa dei criteri (segnatamente quelli che vertono sulla presa in considerazione di zone non edificate ma considerate come integrate all’ag-glomerato). La Ruhr, per esempio, pone problemi d’individuazione delle discontinuità. È anche il caso della conurbazione Hong Kong-Macao-Shen-zhen-Canton che si presta a interpretazioni molteplici. Un’altra ragione di tali distorsioni proviene dalla cattiva qualità di alcuni sistemi statistici. In Cina, le difficoltà di contabilizzazione delle popolazioni “fluttuanti” (migranti privati del diritto di residenza) complicano il compito. La popolazione di Canton può così guadagnare o perdere undici milioni di persone da una misura all’al-tra. La considerazione discrezionale degli elementi non morfologici può in-fine comportare scarti importanti. S’incontra allora il problema più generale della suddivisione delle aree urbane, dell’isolabilità dell’oggetto urbano.

Al di là di queste variazioni, si delineano alcuni tratti: le metropoli mon-diali sono innanzitutto asiatiche. Sulle trentasette città citate, ventuno sono situate nell’Asia del Sud, dell’Est e del Sudest, il che corrisponde grosso modo alla parte della popolazione mondiale localizzata in queste regioni, ma in compenso non può essere interpretato dal punto di vista dei livelli di svi-luppo. La differenziazione del Mondo delle grandi città nella mondializzazio-ne si legge in continuità con l’importanza dei serbatoi di popolazioni rurali, essendo le stesse densità intraurbane ampiamente correlate con le densità rurali preesistenti (cap. II). Simultaneamente, l’America e l’Africa mostrano un’urbanizzazione che non entra in questo schema. Nel primo caso, sono le logiche di popolamento originario di un altrove a dare conto per una parte delle gerarchie urbane. Nel secondo, l’urbanizzazione procede, soltanto in parte, per deflusso a partire da un mondo rurale poco denso, ed è la crescita demografica in situ a rendere possibile – e lo farà ancora più nettamente nei prossimi decenni – la comparsa di grandi città. L’urbanizzazione appare quindi al tempo stesso come un esempio di convergenza verso oggetti simili (cap. 6) e di nuove differenziazioni, i cui strumenti di misura costituiscono ugualmente un aspetto.

Misurare la mondializzazione: mondializzanti e mondializzati

In un altro registro, le misure della mondializzazione degli Stati presentano anche fragilità strutturali che risultano innanzitutto dal fatto di essere com-posite. Esse aggregano variabili diverse, di pertinenza diseguale, e della cui

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indipendenza reciproca non si è sempre sicuri. La difficoltà viene in partico-lare dalla mediocre affidabilità di statistiche economiche e sociali di numerosi paesi e dall’inesistenza, in paesi ancora più numerosi, d’inchieste dedicate alle pratiche, ai modi di vita o alle idee politiche. Si aggiunge ancora a queste carenze il livello nazionale dei dati che mascherano disparità talvolta più forti di quelle che distinguono gli Stati presi come un insieme unitario. Infine, ed è senza dubbio l’essenziale, la definizione stessa di ciò che si cerca di misurare non è sempre chiara.

In questo libro sono stati distinti due aspetti della mondializzazione che si applicano a diversi tipi d’attori, mobili come individui o imprese, situati come società o qualsiasi realtà che fa luogo. Una realtà può essere mondializ-zata: essa “importa” produzioni provenienti dal Mondo esterno. O può essere mondializzante: essa “esporta” produzioni verso il Mondo. Essere mondializ-zato senza essere mondializzante vuol dire subire le influenze e le diffusioni senza aver presa sulla creazione dei beni, economici o meno, che circolano. Essere mondializzante senza essere mondializzato significa imporre i propri prodotti senza ricevere impulso dall’esterno. In pratica, tutti gli attori sono al tempo stesso mondializzanti e mondializzati, ma in proporzioni variabili e se-condo gli ambiti. L’Africa subsahariana è mondializzante in materia di musica popolare, mondializzata per quel che riguarda i prodotti manufatti.

I due indicatori più conosciuti (cap. III) sono quello lanciato dalla rivista “Foreign Policy” (A.T. Kearney) nel 1997 e quello dell’Università di War-wick (Centre for the Study of Globalisation and Regionalisation, CSGR), che ricostruisce una serie retrospettiva a partire dal 1982. Il primo propone una media di quattro dimensioni (economia, individui, tecnologia, politica), cia-scuna delle quali è informata da vari dati a ponderazione variabile. Il secon-do procede in modo simile con tre gruppi di variabili: economiche, sociali e politiche.

La comparazione delle classifiche mostra differenze significative, alcune di origine tecnica (la mancanza di alcuni dati esclude certi paesi dalla classifica del CSGR, le divergenze più forti vertono su paesi in rapida evoluzione, come quelli dell’Europa dell’Est), altri risultanti dalla scelta delle variabili. Così la componente “politica” dà più peso agli Stati impegnati sulla scena interna-zionale nella classifica del CSGR, il che permette di far risalire la Francia e il Regno Unito e di far apparire in classifica la Russia e la Cina. Al contrario, la classifica di A.T. Kearney valorizza le pratiche economiche e sociali, il che

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Tabella 13.2. Tre classifiche delle trenta più grandi città del Mondo.

Gli agglomerati di oltre 10 mil. di abitanti

Geopolis (2005) Citypopulation (2007) Demographia (2007)

Popolazione(Mil. ab.)

Posizione Popolazione(Mil. ab.)

Posizione Popolazione(Mil. ab.)

Posizione

Tokyo 31,1 1 33,6 1 34,4 1

New York 27,9 2 21,9 4 20,4 2

Seul 22,4 3 23,4 2 20,1 3

Città di Messico 20,9 4 22,4 3 18,4 7

Giacarta 20,1 5 15,1 14 19,3 5

Manila 18,9 6 15,6 13 17,3 9

San Paolo 18,2 7 20,6 7 18,1 8

Delhi 18,2 8 21,5 6 18,6 6

Bombay 18,1 9 21,6 5 19,4 4

Hong Kong- Shenzhen (G)/Shenzhen (C, D)

17,7 10 9,1 28 11,8 18

Osaka 15,1 11 16,7 10 17,3 10

Los Angeles 14,4 12 18,0 8 15,3 12

Shanghai 14,3 13 17,5 9 14,5 14

Calcutta 14,2 14 15,7 12 14,6 13

Il Cairo 12,5 15 16,1 11 16,0 11

Mosca 12,3 16 13,5 18 14,1 15

Tientsin 11,7 17 8,0 36 5,19 52

Istanbul 11,6 18 11,8 24 11,0 20

Rio de Janeiro 11,6 20 13,6 17 13,5 16

Buenos Aires 11,6 20 13,6 17 13,5 16

Dacca 11,3 21 12,6 20 7,5 32

Caraci 11,1 22 15,1 15 9,3 23

Teheran 10,4 23 12,1 22 7,5 31

Essen (G)/-Ruhr (C)/Essen-Düsseldorf

10,1 24 5,7 54 7,4 34

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avvantaggia i paesi più prudenti. Si osserva comunque una forte analogia tra i due elenchi, che condividono ventidue nomi, tra cui nove dei primi dodici di ciascuna delle due classifiche. Si osserva innanzitutto il collegamento tra livel-lo di sviluppo e punteggio elevato. In primo luogo, il buon posizionamento dei piccoli paesi, in particolare europei: i paesi nordici, la Svizzera, l’Austria e i Paesi Bassi sono nell’insieme meglio classificati dei paesi più popolati del continente. Si vedono anche comparire in buona posizione i paesi dell’Euro-pa dell’Est. Singapore è il solo paese a occupare la stessa posizione nelle due liste, ed è al primo posto. L’Australia, la Nuova Zelanda, Israele e il Canada completano il paesaggio da cui sono assenti Stati relativamente poco rivolti verso il mondo esteriore come il Messico o il Brasile. La mondializzazione è percepita come più “naturale” da società che, da molto tempo, hanno abban-donato la speranza di poter fare a meno del loro contesto vicino o lontano. Esse compensano la loro debole potenza geopolitica con un’apertura multi-forme: accoglienza degli stranieri, mobilità degli autoctoni, scelta di nicchie di mercato promettenti, accettazione del libero scambio in numerosi settori, apertura culturale.

Lagos 8,0 32 10,1 25 9,7 22

Nagoya 7,1 33 8,2 33 9,2 24

Parigi 9,9 25 10,0 26 10,6 21

Pechino 9,8 26 12,8 19 12,2 17

Canton 3,5 86 14,7 16 7,0 36

Londra 9,3 27 12,0 23 8,3 26

Bangkok 9,1 28 8,6 29 8,2 27

Chicago 8,8 29 9,8 27 9,1 25

Ho Chi Minh 5,6 48 5,4 62 8,0 28

Kinshasa 7,2 34 8,2 34 7,9 29

Taipei 8,4 30 6,7 44 6,6 40

Wuhan 4,3 69 8,6 30 4,9 57

Lima 8,3 31 8,2 32 7,8 30

Fonti: Geopolis (http://www.insee.fr/fr/ffc/chifcle_fiche.asp?ref_id=CMPTEF01104&tab_id=19); Citypopulation (http://www.citypopulation.de/World.html); Demographia (http://www.demographia.com/db-worldua2015.pdf).

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Come nei casi delle città, si rileva una convergenza verso situazioni com-parabili, a partire da situazioni differenziate dai modelli storici di dinamica delle società. Tuttavia, anche qui nuove differenze sono attivate a partire da vantaggi e debolezze ereditate, ma rilette in un contesto rinnovato. L’irruzio-ne dell’Irlanda è un buon esempio di riorganizzazione di vecchie identità già mondiali in un altro contesto (attraverso la colonizzazione e l’emigrazione, l’Irlanda è stata precocemente “consegnata al Mondo”) per produrne di nuo-ve, stavolta in un equilibrio migliore tra il mondializzante e il mondializzato.

Il Mondo “si pilota” alla sua scala e alle sue metriche

Uno dei paradossi dei movimenti antimondializzazione è che – per la propria tendenza alla coalescenza, verificata in particolare nelle manifestazioni con-tro le istituzioni mondiali a partire da Seattle (vertice dell’OMC, 1999) o nelle riunioni del Forum sociale mondiale sin dalla sua prima edizione, a Porto Alegre (2001) – essi contribuiscono a far nascere una componente politica della mondializzazione. La scelta del termine “altermondializzazione” è intel-lettualmente più coerente. Tuttavia, esso maschera il fatto che, per una buona parte, questo movimento continua a opporsi non soltanto a ogni comparsa di governance di scala planetaria, ma anche a ogni diminuzione delle prerogative degli Stati. Le coalizioni eterogenee di agricoltori – tra cui alcuni reclamano più libero scambio, altri più protezionismo e altri ancora un aiuto allo svi-luppo più consistente – contengono contraddizioni difficilmente superabili. Stando così le cose, non è la prima volta che un movimento politico tenta di riunire in sé attese contraddittorie che vengono dalla società alla quale esso si rivolge (Lévy 2002).

La mondialità degli anti-Mondo appare di conseguenza come una compo-nente del momento politico attuale. Più generalmente, ciò che gli abitanti del pianeta sperano o temono della mondializzazione costituisce un’indicazione utile per farsi un’idea del seguito di tale evento. Essi non si aspettano tutti la stessa cosa, ma le differenze osservate da un paese all’altro si manifestano anche all’interno di ogni paese.

Se la mondializzazione è pensata nello stesso tempo in cui essa è prodotta, ciò significa che i punti di vista degli abitanti del pianeta si manifestano anche nel divenire del loro habitat. Nel titolo di questo sottoparagrafo, il termine “pilotare”, volontariamente impreciso, e l’uso ellittico di un verbo pronomi-nale passivo, quindi indefinito (“si pilota”), traducono l’idea che non esiste

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Tabella 13.3. L’indice di mondializzazione secondo A.T. Kearney e il Centre for the Study of Globalisation and Regionalisation (CSGR).

A.T. Kearney (2006)

CSGR (2004) A.T. Kearney (2006)

CSGR (2004)

Singapore 1 Singapore Repubblica ceca 16 Australia

Svizzera 2 Belgio Slovenia 17 Paesi Bassi

Stati Uniti 3 Canada Germania 18 Nuova Zelanda

Irlanda 4 Regno Unito Malaysia 19 Russia

Danimarca 5 Stati Uniti Ungheria 20 Corea del Sud

Canada 6 Austria Panama 21 Giappone

Paesi Bassi 7 Svezia Croazia 22 Spagna

Australia 8 Svizzera Francia 23 Cina

Austria 9 Francia Portogallo 24 Giordania

Svezia 10 Danimarca Spagna 25 Malta

Nuova Zelanda 11 Irlanda Slovacchia 26 Norvegia

Regno Unito 12 Germania Italia 27 Polonia

Finlandia 13 Italia Giappone 28 Islanda

Norvegia 14 Malaysia Corea del Sud 29 Egitto

Israele 15 Finlandia Romania 30 Israele

Fonti: A.T. Kearney (http://www.foreignpolicy.com/story/cms.php?story_id=4030); CSGR (http://www2.warwick.ac.uk/fac/soc/csgr/index/download/).

governance mondiale coerente – nessun pilota – (cap. 9), senza voler dire che il “cammino del Mondo” sia disordinato o aleatorio. Questo pilotaggio senza pilota emerge a posteriori e il fascio d’intenzionalità che se ne libera deve es-sere formalizzato con prudenza. “Tutto accade come se” la scala mondiale e le metriche mondiali marcassero il passo nella dinamica mondiale.

Le altre scale e le altre metriche non sono svanite, tutt’altro. Comunità di ogni sorta, ostili alla diversità degli spazi di riferimento, non hanno gettato la spugna, e la geopolitica esiste sempre. Numerosi attori non desiderano inde-bolire le logiche che frammentano il Mondo, e vogliono allontanare dall’oriz-zonte la prospettiva che il Mondo possa disporre di una legittimità geografica paragonabile a quelle che essi difendono. Tuttavia, senza evidentemente sot-tostimare il ruolo di livelli non mondiali essenziali come gli Stati, le grandi im-

358 Inventare il Mondo

prese di scala nazionale o regionale o le strutture comunitarie transnazionali, il Mondo si pilota per una parte sulla propria scala e secondo metriche – reti-colari o territoriali – che corrispondono ai processi operanti a tale livello. Nel grafico 1, si vede in ogni caso che, secondo un sondaggio effettuato in tre aree continentali distinte, gli attori di scala mondiale sono percepiti dai cittadini come influenti almeno quanto le entità di scala inferiore.

Ciò che è più interessante è probabilmente che tali attori portatori di spa-zialità molto diverse si vedono attribuire pesi paragonabili. Ciò dimostra al tempo stesso la persistenza di un “disordine” istituzionale e l’accettazione che gli attori sovranazionali, transnazionali o mondiali sono riconosciuti come effettivi e ciò nei quattro insiemi in cui l’inchiesta era svolta. Questa “cosmopolitica pratica” sembra ben distante dai dibattiti di filosofia politica, ma essa apporta un chiarimento importante poiché è per buona parte in tali configurazioni mentali che si gioca l’avvenire della mondializzazione. Ciò che noi constatiamo qui è che l’immaginario degli individui concorre in modo

Grafi co 13.1. Gli attori della mondializzazione visti dagli individui.

Unione Russia Stati Uniti Giappone

Quali [sono] tra i seguenti attori coloro che hanno più influenza sulla mondializzazione?

Media delle risposte su una scala da 1 a 7 (1 = nessuna influenza; 7 = influenza molto forte)

Governi nazionaliMediaMultinazionaliONG

PersoneONU

OMC

Unione Europea

7

6

5

4

3

2

1

0

Fonti: E. Fabry (a c. di), Les Européens face à la Mondialisation, Fondation pour l’in-

novation politique, 2007, p. 16; Sondage European Youth in a Global Context 2007, Kairos

Future-Fondation pour l’innovation politique.

Apertura: il Mondo come luogo 359

crescente a costituire un insieme di rappresentazioni politiche che si situa esso stesso su scala mondiale. L’idea che il cammino del Mondo sarebbe la semplice risultante di pensieri e di azioni che hanno senso a un altro livello deve quindi essere messa in discussione.

Quale/i lingua/e per il Mondo?

La questione delle lingue permette di sintetizzare le riflessioni precedenti, e di testare la pertinenza di una tesi che rifiuta sia l’idea di una sovraimposizione della mondialità a identità di livello inferiore sia la semplice coesistenza d’im-magini e di pratiche del Mondo prodotte su scala locale e distinte le une dalle altre. Nel primo caso, si dovrebbe vivere la dominazione imposta di una lin-gua inventata di sana pianta o di una lingua imperiale. Nell’altro, la geografia delle lingue non dovrebbe essere intaccata dalla mondializzazione. Ora, nes-suno di questi due fenomeni può essere osservato. L’esperanto ha fallito, ed è invece l’inglese che diventa la lingua veicolare incontestata su scala mondiale. Ciononostante, nulla indica che l’esistenza delle altre lingue sia minacciata da questa preminenza.

Tabella 13.4. Le prime dieci lingue mondiali secondo due tipi di classificazione.

A. Classificazione secondo il numero (in milioni) di parlanti primari

(lingua madre)

B. Classificazione sintetica (in punti) in funzione dei parlanti primari,

secondari, del peso culturale e geopolitico

Cinese mandarino (1.100) 1 Inglese (37)

Inglese (330) 2 Francese (23)

Spagnolo (300) 3 Spagnolo (20)

Hindi-Urdu (250) 4 Russo (16)

Arabo (200) 5 Arabo (14)

Bengali (185) 6 Cinese (13)

Portoghese (160) 7 Tedesco (12)

Russo (160) 8 Giapponese (10)

Giapponese (125) 9 Portoghese (10)

Tedesco (100) 10 Hindi-Urdu (9)

Fonte: Saint-Ignatius High School, disponibile sul sito Internet http://www.ignatius.edu/.

360 Inventare il Mondo

Nella sua opera sullo stato delle lingue nel Mondo, Luis-Jean Calvet (2002) ha utilizzato un modello centro-periferia, che gli permette di classificare in quattro categorie le mille lingue (sulle seimila esistenti) utilizzate da oltre cen-tomila parlanti: “ipercentrali”, “supercentrali”, “centrali” e “altre”. Secon-do tale classificazione, l’inglese è ipercentrale, il cinese, lo spagnolo, il russo, l’arabo, il francese e il portoghese sono supercentrali, il malese, il giapponese e il tedesco sono centrali. Questa tipologia poggia sull’analisi degli scambi fra lingue, così come si effettuano tramite l’apprendimento, la pratica o la tradu-zione. Così un’area linguistica che deve tradurre per se stessa le produzioni delle altre è più periferica di quella che può farne a meno giacché più autori sono portati, per guadagnare un pubblico di lettori, a prendervi posto. Alcune delle dieci lingue più parlate nel Mondo (vedi tab. 13.4) si trovano così nella categoria più debole poiché esse sono “importatrici” della cultura prodotta in altre lingue senza equilibrare tali apporti attraverso le proprie “esportazioni”. Al contrario, la considerazione di altri criteri ha per effetto di modificare si-gnificativamente la gerarchia. Così il francese, che è solo al tredicesimo posto nella prima lista, si ritrova al secondo nell’altra. A proposito delle lingue, si ritrova la coppia mondializzante-mondializzato osservata altrove.

Che cosa cambia la mondializzazione nel paesaggio delle lingue? Essenzial-mente tre punti. Innanzitutto, l’inglese diventa la lingua veicolare del Mon-do, e tutti gli abitanti del pianeta la praticheranno ben presto, in un modo o nell’altro. È la lingua franca del Mondo, come il greco, il latino, il cinese, il francese, l’arabo o lo swahili hanno potuto esserlo o lo sono ancora in una sua parte. Si può d’altronde pensare che quando l’inglese sarà sufficientemente conosciuto e padroneggiato, la distinzione tra anglofoni e non anglofoni s’in-debolirà, come si vede nel film La banda.3 L’inglese sarà allora più che una lingua veicolare: diverrà la lingua vernacolare della società-Mondo.

In secondo luogo, le lingue che dispongono di un certo livello di centralità conoscono un’evoluzione contrastata: esse devono rinunciare al loro statu-to mondiale, ma beneficiano di un trattamento privilegiato ogni volta che è richiesto un aggiustamento minimo degli emittenti di discorsi da parte del pubblico, come nel commercio, nella comunicazione, nella cultura. Esse si rinforzeranno, quindi, ai loro margini, e tanto più in quanto sono state lingue

3 Film di Eran Kolirin del 2007.

Apertura: il Mondo come luogo 361

imperiali per lungo tempo, beneficeranno dell’innalzamento progressivo del livello culturale nelle ex colonie.

È ciò che si vede nella tabella 13.5: nella pratica di Internet, la parte dell’in-glese (pioniere in questa sfera grazie allo scatto iniziale degli Stati Uniti) regre-disce regolarmente, in termini relativi, a vantaggio delle altre grandi lingue. Se il giapponese, il tedesco e il coreano si avvicinano a una certa saturazione del mer-cato e avanzano più lentamente, le altre grandi lingue conoscono una crescita rapida, talvolta folgorante, quando dispongono – come lo spagnolo, il francese, il portoghese o l’arabo – di vaste riserve nelle regioni meno sviluppate della loro area linguistica. Così la Cina, dove Internet ha un tasso di penetrazione di solo il 29,7% nel 2009 (il che rappresenta comunque 408 milioni di persone), ha co-

Tabella 13.5. Le dieci lingue principali di Internet e la loro evoluzione in percentuali (2000-2009).

Parte dell’area linguistica in

rapporto all’insieme degli utenti di

Internet nel 2009

Tasso di penetrazione di Internet in rapporto

alla popolazione dell’area linguistica

nel 2009

Tasso di crescita del numero di

utenti di Internet per lingua

(2000-2009)

Inglese 27,7 39,5 251,7

Cinese 22,6 29,7 1162,0

Spagnolo 7,8 34,0 669,2

Giapponese 5,3 75,5 103,9

Portoghese 4,3 31,4 923,9

Tedesco 4,0 75,0 161,1

Arabo 3,3 17,5 2297,7

Francese 3,2 16,9 375,2

Russo 2,5 32,3 1359,7

Coreano 2,1 52,7 96,8

Le prime dieci lingue 82,8 33,8 379,2

Le altre lingue 17,2 13,2 525,3

Fonte: Internet World Stats, http://www.internetworldstats.com/.

362 Inventare il Mondo

nosciuto una progressione di oltre il 1162% dal 2000. Nei prossimi anni, grazie al suo bacino di circa 1,4 miliardi di persone che lo parlano come lingua madre, il cinese eguaglierà probabilmente l’inglese, il quale, se presenta una popolazio-ne simile, è solo grazie a coloro che in Africa e in Asia lo parlano come seconda lingua. Tale dinamica si applica precisamente anche a questi paesi, come quelli dell’Africa subsahariana, dove la lingua veicolare d’origine coloniale beneficia di un vantaggio sulle lingue vernacolari, raramente scritte. Infine, oggi le altre lingue non arrivano a rappresentare nemmeno un quinto degli utenti, quando invece corrispondono – pur volendo escludere i parlanti che, su Internet, pra-ticano preferibilmente lingue veicolari – a più di un terzo della popolazione mondiale. Queste lingue conoscono un’avanzata spettacolare e, tenuto conto del loro potenziale, ci si può aspettare che tale processo acceleri.

Infine, le lingue che dispongono di un certo numero di parlanti, pur re-stando periferiche, sono le grandi beneficiarie della mondializzazione della tele-comunicazione, sia perché i gruppi linguistici possono esistere attraverso molteplici scambi senza aver bisogno di copresenza, sia perché il costo della traduzione tende a diminuire in termini relativi. Nel 2010 il motore di ricerca Google esiste in 120 nuove lingue e l’enciclopedia Wikipedia in 271.

Questa dinamica crea un paradosso: i non anglofoni diventeranno tutti bilingue e i parlanti di “piccole lingue” poliglotti, mentre gli anglofoni rischia-no un declassamento linguistico. È ciò che si nota da vari decenni nei Paesi Bassi (olandese, inglese, tedesco, francese sono correntemente padroneggiate dalle stesse persone) o, più recentemente, in Catalogna (catalano, castigliano, francese, inglese). Gli anglofoni di lingua madre beneficiano di una comodità apprezzabile nel loro rapporto al Mondo e dispongono, per il fatto che pra-ticano l’inglese senza sforzo, di privilegi sul piano della comunicazione. Ma questi si assottiglieranno man mano che un inglese mondiale (il globish pro-posto da Jean-Paul Nerrière [2005] o altre varianti più sofisticate) diventerà uno standard universalmente acquisito. Se non stanno in guardia, gli anglo-foni diverranno degli handicappati internazionali, esponendo i loro paesi al pericolo di autoesclusione dalla complessità delle altre società.

Insomma, siamo molto distanti da una visione semplicistica che associa la mondializzazione all’imperialismo linguistico dell’inglese e che annuncia la scomparsa delle altre lingue. La minaccia di scomparsa delle lingue non è nuova, e si situa su tutt’altre scale: quella della distruzione delle culture in-franazionali da parte degli Stati o quella della scomparsa di società costituite

Apertura: il Mondo come luogo 363

da pochi membri in seno a un ambiente sfavorevole, come si vede in Africa centrale, in Papuasia-Nuova Guinea o presso gli aborigeni australiani.

Global localities, local globalities

La mondializzazione non è, o almeno non è soltanto, un trasferimento di scala dal locale verso il mondiale. Essa è l’invenzione di un’altra cosa. Il Mondo non può ridursi né alla selezione delle identità preesistenti a livello locale, né alla riproduzione di ciò che già esiste, in formato ingrandito. È un oggetto inedito.

Tale oggetto è certamente in parte il risultato dei movimenti di appropria-zione e d’invenzione provenienti da altri luoghi, e che creano altrettanti mondi distinti (le globalised localities che Martin Albrow [1997] mette in evidenza), ma non solo. La scala mondiale non è più, se mai lo è stata, il semplice aggre-gato di tutte le interazioni locale-locale: meticciamenti, ibridazioni, creolizza-zioni o bastardizzazioni. È importante non confondere i processi – o alcuni di essi – e il risultato, in ogni caso un risultato: il Mondo esiste in sé almeno quanto altri luoghi. I partigiani delle globalised localities vorrebbero credere che la mondializzazione non è altro che un movimento orizzontale o ascen-dente (bottom-up). Infatti, secondo loro, qualsiasi innovazione per emergere necessita di un “ancoraggio” iniziale in un tessuto sociale situato. Il che sem-bra essere riassunto dalla formula, all’apparenza di buon senso, “la mondializ-zazione deve pur venire da qualche parte”. Si può essere d’accordo su questo punto, ma il Mondo offre anche un ancoraggio, costituisce anche un tessuto sociale situato, è anche un da qualche parte, certo non un “da nessuna parte”. Ancorato e situato, si può anche sostenere che lo sia più di qualsiasi altro luogo. Infatti, le sfide planetarie maggiori, la pace, lo sviluppo, la protezione dell’ambiente naturale, sono incontestabilmente calibrate su scala mondiale. Bisognerà quindi abituarsi a incontrare anche delle localised globalities che non sono né dei McDonald’s smontabili, né – loro corollari – dei José Bové qualunque. Una nozione come quella di sviluppo sostenibile non è stata il risultato di un adattamento per allargamento, dell’“aumento di generalità” di una o più concezioni locali. Viene pur da “qualche parte”, ma questo “qual-che parte” (teorie dello sviluppo, coscienza ecologica, ecosviluppo ecc.) si voleva fosse esso stesso planetario. In questa prospettiva, era costruito su tale scala attraverso il dialogo più o meno formalizzato tra ricercatori di origini di-verse. Lo sviluppo sostenibile è quindi stato mondiale sin dalla sua nascita. Il paese delle scienze, quello dell’arte contemporanea è innanzitutto il Mondo,

364 Inventare il Mondo

e ciò non significa un impoverimento, ma la necessità per accedere a questi universi di assimilare e assumere un patrimonio mondiale.

D’altronde, ciò non significa che tale componente della mondializzazione sia discendente (topdown). Perché il Mondo dovrebbe essere “al di sopra” dei luoghi che lo compongono? La mondialità non è una realtà sovrastante più di quanto essa non derivi da una “risalita in generalità” (non si può appunto generalizzare a proposito del Mondo poiché esso è unico). La mondializzazio-ne contemporanea prosegue l’invenzione di un nuovo spazio che si aggiunge a quelli che le preesistevano, ed entra con essi in interazioni dal contenuto non determinabile a priori: è e sarà la conseguenza della scelta degli attori interessati. Così, il fatto che sia creata o meno, in seno al sistema delle Nazioni Unite, un’istituzione di governance dell’ambiente o il fatto che gli Stati Uniti continuino o meno ad assumere il ruolo quasi esclusivo di “polizia delegata” su scala mondiale restano questioni aperte.

Detto ciò, il Mondo possiede delle specificità incontestabili, in particola-re quella di cui nessun altro livello scalare può pretendere di beneficiare: il vantaggio di essere il livello durabilmente ultimo e non sostituibile, quando invece le competenze dei livelli nazionali e infranazionali sono contingenti e possono contestarsi reciprocamente le loro prerogative. Al contrario, il luogo-Mondo, poiché diventa limite nello stesso momento in cui diviene posta in gioco, costituisce la realtà spaziale più inestinguibile che ci sia. Non ammette la minima vaghezza, il minimo slittamento di terreno. È in movimento, come ogni configurazione sociale, ma la sua estensione non crea dibattito.

Dov’è il Mondo? Non lo si sa ancora veramente, è in corso di localizzazione. Il Mondo esiste, non è un’astrazione che avrebbe bisogno di essere posta in o su qualche altro spazio. Per la sua coincidenza esatta con la Terra, esso è il più manifesto e il più stabile di tutti gli spazi, il solo che non rischia di sparire senza preavviso. Il Mondo è quel da qualche parte di cui nessuno può negare l’esisten-za o la pertinenza.

Il Mondo, patrimonio dell’umanità

L’intreccio Terra-Mondo e la coscienza ecologica che ne risulta non lasciano alcun dubbio sulla volontà di considerare la natura terrestre come un patrimo-nio, con inevitabili differenze d’interpretazione su ciò che bisogna salvaguar-

Apertura: il Mondo come luogo 365

dare ed eliminare, come sempre quando si tratta d’inventare un patrimonio. Allo stesso modo, l’esistenza di un patrimonio culturale e la socio-diversità del pianeta producono consenso anche se la tentazione di gerarchizzare que-sto patrimonio a vantaggio dei più “civilizzati” – come un tempo – o dei più “autoctoni” – come oggi – apre, qui ancora, delle controversie senza fine.

A questi due patrimoni, quello del “poter essere abitato” e quello dell’“esse-re stato abitato”, se ne aggiunge un terzo, quello dell’“essere abitato”. Il Mon-do così com’è costituisce il capitale dell’umanità, il patrimonio sul quale essa deve vegliare. È fatto dall’insieme degli attori, delle azioni e degli oggetti che definiscono il suo stato e il suo movimento. Patrimonializzare il presente non significa ammantarlo di sacralità. Il capitale-Mondo comprende ugualmente una dinamica verso altro rispetto a se stesso. La mondializzazione aumenta il capitale spaziale dell’umanità (diffusione e coalescenza delle innovazioni) e il rendimento di questo capitale (economia di scala, diversificazione delle metri-che). La storia delle città permette di comprendere come un oggetto totalmente artificiale e costantemente ricomposto sia divenuto un ambiente al tempo stesso protettore e innovatore. Se la città è oramai la “casa” (oikos) preferita dagli umani, è perché essa mette a disposizione dei suoi abitanti, permanenti o di passaggio, un concentrato (uno fra molti possibili) della parte cumulativa della storia dell’umanità. Ora, la mondializzazione fa del Mondo, appunto, un am-biente simile anch’esso totalmente costruito, sebbene non ovunque edificato.

Parlare di mondializzazione significa per definizione segnalare l’aumento della parte relativa di una risorsa, quella del livello mondiale, senza per questo diminuire quelle degli altri. Lo Stato-nazione ha visto le sue funzioni geopoli-tiche contestate, ma non bisogna comunque esagerare il declino poiché, nella sua ala politica – identitaria, strategica e redistributiva – si è più spesso rinfor-zato in questi ultimi anni. Il livello locale, il cui seme di base è ormai la città, ha ripreso un ruolo di trasmissione maggiore che la logica della scala unica statale aveva tentato, senza mai riuscirci completamente, di soffocare. I luoghi del Mondo non sono mai stati così in salute: sono meno che mai minacciati da una distruzione bellica e il movimento verso la patrimonializzazione si è accelerato in modo spettacolare.

Nel film Babel,4 le persone riescono a comprendersi pur parlando lingue diverse. Solo le logiche di Stato separano gli individui. Questo film è possibile

4 Film di Alejandro González Iñárritu del 2006.

366 Inventare il Mondo

solamente in un Mondo in cui le ampiezze delle differenze geografiche sono di molto diminuite. Una turbata adolescente giapponese sordomuta si trova più distante dal resto del Mondo e innanzitutto dai suoi “cari” di quanto non lo sia un turista americano bloccato in un villaggio del Sud del Marocco, capa-ce di comunicare con gli abitanti, mentre si scontra con altri turisti occidenta-li. Babel è alla nostra portata: né la lingua, né tantomeno la comprensione fra individui e fra società costituiscono ostacoli insuperabili, ma non sappiamo cogliere quest’opportunità. Si è molto lontani dall’allegoria biblica che rende gli uomini colpevoli di parlarsi e di trarne profitto per sfidare Dio, il che por-ta a porre l’urbanità e la mondialità dal lato dell’hyrbis. In un altro film, La stella che non c’è,5 la visita di un operaio italiano in una Cina, come lui, dura e tenera lo riconcilia con uno degli aspetti della mondializzazione: la possibilità di coniugare illimitatamente identità e alterità.

È ormai la mondializzazione a dare il tono della storicità. Come Peter Slo-terdijk (2005) ha mostrato, prima e dopo la mondializzazione non è più la stessa storia (Lévy 2007). Il progetto di essere un Täter, un eroe che ignora gli altri seminando gesti al suo passaggio, si compie. La densità delle interazioni e l’assenza di una via d’uscita creano reazioni potenti che piangono la morte dell’unilateralità.

Coloro che, come Pierre Legendre, credono che l’innovazione etica sia si-nonimo di liquidazione del “capitale simbolico dell’umanità” – cioè del suo patrimonio ideale – non capiscono evidentemente che cos’è un patrimonio: l’invenzione permanente del passato nel quadro di un progetto. È a questo titolo che la produzione della mondialità non è l’antitesi delle identità ma un modo singolare di inventarle. La mondializzazione è l’“accumulazione primi-tiva” del capitale spaziale del luogo-Mondo. Questo diventa in quanto tale, e non più come la semplice somma delle sue componenti, l’habitat e il modo di abitare degli umani.

Un qui, il nostro: che cosa ne faremo?

5 Film di Gianni Amelio del 2006.