12 - I Fedeli D_Amore

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Quaderni del Gruppo di Ur XII I FEDELI D'AMORE I Ediz. Gennaio 2006 - II Ediz Ottobre 2006 - III Ediz. Settembre 2007 Dante Gabriel Rossetti - Dantis Amor - 1860

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Quaderni del Gruppo di Ur

XII

I FEDELI D'AMORE

I Ediz. Gennaio 2006 - II Ediz Ottobre 2006 - III Ediz. Settembre 2007

Dante Gabriel Rossetti - Dantis Amor - 1860

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Ogni quaderno del Gruppo di Ur raccoglie, in forma organica e sintetica, quanto emersonell'omonimo forum, in relazione ad un determinato argomento. In esso si trovano, perciò, siacitazioni degli autori studiati, sia commenti. I quaderni si devono considerare in continuoaggiornamento, dal momento che l'emergere di nuovo materiale sull' argomento trattato puòrendere opportuna una nuova edizione.

Questo Quaderno non è ovviamente esaustivo dell'immensa materia, relativa ai Fedeli d'Amore.Attraverso gli esempi forniti, si è cercato di far emergere soprattutto il significatoanagogico dei loro scritti. Non si troveranno in questa sede quei brani che, pur riguardando iFedeli d'Amore, costituiscono parte organica di altri quaderni: ad es. quello del nostro Ekatlos,nel quale si dimostra che Dante era a conoscenza della falsità della cosiddetta "Donazione diCostantino" (vedi quaderno "Sul Papato"). Nella II ediz. è stata aggiunta l'analisi della Canzone"Donne Ch' avete" e sono stati corretti alcuni refusi di stampa. Nella III ediz. è stata ampliato ildialogo su "Maometto e Alì all'Inferno".Il presente Quaderno è perciò suddiviso nelle seguenti sezioni:1) Ida La Regina: Introduzione2) )A cura di P.Negri: Due Saggi Anteriori a Ur di Arturo Reghini2a) Arturo Reghini: L'allegoria esoterica in Dante2b) Arturo Reghini: Il Veltro3) Ercole Quadrelli: I Fedeli d'Amore4)A cura di P.Negri: Luigi Valli e Il Gruppo di Ur4a) Luigi Valli: Testimonianze di Studiosi delle Tradizioni5) AAVV: Per una Determinazione del Significato Anagogico5a) J. Evola: Sulle Esperienze Iniziatiche dei Fedeli d'Amore6) A cura di Fabritalp ed Ea: Dante e Pitagora di Vinassa de Regny6a) Fr. Petrus: Ciclo Vitale dell'Uomo secondo Dante7) Sipex: Quadro Generale della Commedia8) Afrodite U. e Fr. Petrus: Datazione del Viaggio Dantesco9) AAVV: Maometto ed Alì all'Inferno10) Fr. Petrus: Nicolò de Rossi e Guido Cavalcanti10a) Sipex: La canzone dantesca Donne ch'avete11) Fr. Petrus: Il Filostrato di Boccaccio12) Fr. Petrus ed Altri: Il Filocolo di Boccaccio12a) Appendice: Sogni Inventati e Sogni Reali13) Venvs G. e Fr. Petrus: Fedeli d'Amore e Via del Sacro Amore.

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1) INTRODUZIONEdi Ida La Regina

Col termine Fedeli d'Amore vengono generalmente intesi gli aderenti ad una confraternitainiziatica, presente nel XIII secolo in Italia, Francia (particolarmente in Provenza) e Belgio.Essi veneravano la Donna (o Dama) Unica, una figura simbolica simile alla gnostica PistisSophia, di cui la Beatrice dantesca è l'esempio probabilmente più noto. Simbolicamente affinealla Vergine Maria Nera e isiaca, che adorna tante cattedrali europee (come la Madonna Neradi Loreto o quella di Czestochowa), è descritta da Guido Cavalcanti, come "una giovane donnadi Tolosa", città che non può non far pensare a connessioni con Catari e Albigesi.

Da: "Rime" di Guido CavalcantiXXIX - Una giovane donna di Tolosa

(sonetto)

Una giovane donna di Tolosa, bell'e gentil, d'onesta leggiadria, è tant'e dritta e simigliante cosa,

ne' suoi dolci occhi, della donna mia,

che fatt' ha dentro al cor disiderosa l'anima, in guisa che da lui si svia e vanne a lei; ma tant'e paurosa, che non le dice di qual donna sia.

Quella la mira nel su' dolce sguardo,

ne lo qual face rallegrare Amore perchè v'è dentro la sua donna dritta;

po' torna, piena di sospir', nel core, ferita a morte d'un tagliente dardo che questa donna nel partir li gitta.

Un altro dei Fedeli d'Amore, Francesco da Barberino (che ebbe, come maestro, lo stesso diDante, cioè Brunetto Latini), nell'opera "Del Reggimento e de' Costumi delle Donne", ladescrive invece con questi versi:

Ella è colei, ch'à compagno il figliuoloDel Sommo Iddio, e sua Madre con esso:Ell'è colei, che con molte siede in cielo,Ell'è colei, che in terra ha pochi seco.

Il valore iniziatico del simbolo della Donna è confermato dal fatto che Beatrice, nella DivinaCommedia, ha la funzione di condurre Dante in Paradiso, da vivo e non da morto.

I Fedeli d'Amore si esprimevano in un linguaggio segreto, il "parlar cruz", atto a non farsicomprendere dagli altri, la "gente grosa". Una parte del loro stesso nome, "Amor", cela

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probabilmente il termine composto "A-mor(s)" (= senza morte), a significare che la loro praticainiziatica aiuta a non morire spiritualmente. Lo stesso Dante del resto afferma esplicitamenteche il significato vero delle proprie parole è nascosto, ora molto, ora poco. Ad es., in Purgatorio,VIII, 19-21 dice:

aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero,che 'l velo è ora ben tanto sottile,

certo che 'l trapassar dentro è leggiero

Non a caso, in un sonetto toscano del quattrocento, attribuito al Boccaccio (ad es da FrancescoDe Sanctis nella Storia della Letteratura Italiana), Dante è paragonato ad una "Minervaoscura", delle cui opere è necessaria "temporale e spiritual lettura".

Dante Alighieri son, Minerva oscurad'intelligenza e d'arte, nel cui ingegnol'eleganza materna aggiunse al segno,

che si tien gran miracol di natura.

L'alta mia fantasia pronta e sicurapassò il tartareo e poi il celeste regno,

e il nobil mio volume feci degnodi temporale e spirital lettura.

Fiorenza gloriosa ebbi per madre,anzi matrigna a me pietoso figlio,colpa di lingue scellerate e ladre.

Ravenna fummi albergo del mio esiglio;ed ella ha il corpo, e l'alma il sommo Padre,

presso cui invidia non vince consiglio.

2) A cura di P. Negri

DUE SAGGI ANTERIORI A UR DI ARTURO REGHINI

Prima del saggio "Il Linguaggio Segreto dei Fedeli d'Amore", pubblicato su Ur come PietroNegri, Arturo Reghini aveva scritto altri saggi sull'argomento. Il primo dei due che proponiamovenne pubblicato nella rivista Nuovo Patto del Settembre-Novembre 1921. A differenza dellamonografia di Ur, non è mai nominato Luigi Valli. Questi, pur essendosi segnalato già nel 1906per una "Lectura Dantis" dedicata al canto XIX del Paradiso, iniziò a essere veramente notosolo dopo che, nel 1922, cominciarono ad apparire le prime opere di più ampio respiro quali: "IlSegreto della Croce e dell'Aquila nella Divina Commedia" e "Il Simbolo Centrale della DivinaCommedia: La Croce e L'Aquila". Seguirono, nel 1925, "La Chiave della Divina Comedia" e, nel1928, "Il Linguaggio Segreto di Dante e dei Fedeli d'Amore".

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2a) ARTURO REGHINI

L'ALLEGORIA ESOTERICA IN DANTE

Sotto il senso letterario della Commedia, ossia sotto la peregrinazione di Dante attraverso i treregni delI'Inferno, del Purgatorio e del Paradiso, si nasconde senza alcun dubbio una allegoria.Non c'è bisogno delle esplicite dichiarazioni di Dante in proposito per esserne certi. Questaallegoria non è semplice, ma molteplice e dai commentatori ne vengono di solito riconosciutidue aspetti, quello morale e quello politico. L'interpretazione morale, o filosofico-morale, vedeallegoricamente raffigurata nella Commedia la via che l'uomo deve percorrere per superare ilpeccato e raggiungere la virtù in modo da sfuggire all' inferno ed al purgatorio e da guadagnarecolla perfezione morale il paradiso.Questa allegoria, come del resto il senso letterale del poema sacro, ha innegabilmente unaspetto nettamente cristiano pure abbondando di elementi pagani; e sulla scorta di Aristotile, diS. Tommaso e della scolastica è stato profondamente penetrato dai commentatori.L'allegoria polltica ha per base la lotta tra l'impero ed il papato, e vi figura largamente anche lapersecuzione dei templari da parte di Fillppo il Bello e di Clemente V. Naturalmente vi sono deipassi suscettibill della sola interpretazione morale, altri rivestiti del solo simbollsmo politico, edaltri ancora che comportano una doppia interpretazione morale e polltica.L'allegoria politica è quasi sempre trasparentissima e molte volte Dante fa addirittura a meno diogni velo e fa manifesta tutta la sua visione lasciando pur grattar dove è la rogna. L'allegoriamorale ha una apparenza talmente cristiana da autorizzare tutti i cristiani e tutti i frettolosi nelconcludere ad attribuire a Dante una ortodossia cattollca, mentre l'allegoria politica ci rivela contutta sicurezza un Dante partigiano dell'impero e nemico acerrimo della Chiesa, difensore a visoaperto di quell'ordine dei Templari condannato e ferocemente perseguitato per eresia dallaChiesa, un Dante che esalta Cesare, l'Impero romano, la civiltà classica, e che elegge a propriaguida, maestro e signore Virgilio pitagorico ed imperialista.I motivi che hanno indotto Dante a servirsi dell'allegoria non sono dunque di natura politica,inerenti alla sua posizione nella lotta tra guelfi e ghibelllni, perché in tal caso sarebbe naturale ditrovare più fitto il velo nei passi che trattano di politica, mentre invece il velo si fa più spesso neipassi che trattano argomenti di morale, di filosofia, di religione, di metafisica; e talora per quantoi commentatori aguzzino gli occhi non riescono a chiarire il senso, oppure ognuno di essi finiscecoll'intendere diverso dagli altri.Quale è dunque la ragione che ha spinto Dante all'uso dell'allegoria, anche a costo di non farsifacilmente capire?Fantasia di poeta? Passione per l'enimmistica? No certo, perché noi sappiamo che una dottrinasi asconde sotto il velame delli versi strani. E se l'apparenza è cristiana non potrebbe la sceltadifferire dall'apparenza? Non potrebbe la dottrina così gelosamente nascosta essereeterodossa, molto eterodossa? Sicché Dante puzzerebbe forte di eresia e sarebbe un nemicodella Chiesa anche sul terreno religioso oltre che su quello polltico?Le professioni di fede cristiana che egli fa ripetutamente non bastano ad eliminare il dubbio. Seegli infatti era eretico o pagano e non voleva finire arrosto, era forzato a professarsi cristiano. Especialmente volendo levarsi il gusto di esaltare Virgillo, Cesare, Roma che il buon mondo feo, illatin sangue gentile, e gli imperatori che avevano aspetto gentile ossia pagano, occorreva inqualche modo tranquillizzare i sospetti facendo anche l'apologia del cristianesimo. Bisognaricordare che in quei tempi la carità cristiana poteva sbizzarrirsi a suo piacimento; i numerosiseguaci di quel S.Domenico che negli sterpi eretici percosse animato dal santissimo zelo disalvare le anime (nonché la Chiesa pericolante) andavano per le spiccie e Dante stesso avevaumani corpi già veduti accesi. A che prò fare la fine che poi toccò a Cecco d'Ascoli, quando erapossibile dedicare la vita, e l'enorme ingegno e sapienza ad un grandioso disegno polltico ereligioso? Nonostante le sue professioni di fede cattolica, Dante aveva amici che andavan

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cercando come Dio non fosse, ed eretici dello stampo di Sigieri egli ficca tranquillamente inparadiso, mentre popola di papi l'inferno. Dante stesso fu accusato di eresia secondo risulta daantichi documenti, e secondo narrano i suoi primi commentatori. L'eresia pagana di Dante fusostenuta dal Foscolo, e poi dal Rossetti con enorme copia di argomenti, ed infine dal pretecattolico Aroux. Un gesuita che volle fare la critica delle opere del Rossetti si ebbe da questitale esauriente replica che più non fiatò.Non si pone mente che anche nell'apparenza Dante non segue sempre pedissequamente SanTommaso; ne differisce apertamente in questioni importantissime; p.e., nella dottrinaescatologica (Purg. XXV 88-102) per adottare una teoria delle ombre dei defunti che è inperfetto accordo colla concezione pagana. Egli fin da principio si inspira a Virgilio, da cui soloprende lo bello stile che gli ha fatto onore. Il suo poema non è che una commedia; e comunquesi intende la parola, nel senso moderno od in quello dionisiaco, si è sempre condotti lontanodall'apparente senso cristiano. Nelle grandi llnee la Commedia è uno sviluppo del VI cantodell'Eneide, e Dante ripete quanto Virgilio fa fare ad Enea. Enea scende vivente nell'Ade,rinviene nella selva il ramoscello di mirto degli iniziati, ed apprende de visu la verità dei misteriorfico-pitagorici sopra l'uomo e la immortalltà condizionata. Ed anche Dante corruttibile ancora,ricalca la medesima strada collo stesso scopo e facendo uso del medesimo simbollsmo. Scopofondamentale, come oramai è noto e provato, dei misteri orfici, pitagorici, eleusini, isiaci, eraquello di conferire all'iniziato la conoscenza vera dei principii della vita (Cicerone -De Lege II,14), la beatitudine, l'immortalltà privilegiata. Ciò si otteneva mediante la iniziazione che constavadi prellminari pratiche catartiche, di cerimonie simboliche e di vere e proprie estasi come ciaffermano Plutarco, Apuleio, ed altri antichi scrittori e come oramai si viene riconoscendo daimoderni (Vedi p.e. Macchioro-Zagreus). Per tal modo l'uomo veniva rigenerato e dopo la mortelo attendevano i campi Elisii.Il soggetto della Commedia è l'uomo, o meglio la rigenerazione dell'uomo, la sua metamorfosiin angelica farfalla, la Psiche di Apuleio. È dunque il medesimo soggetto dei misteri.Non le sole qualità morali cambiano; Dante si purifica di grado in grado, passa per crisi ecoscienze varie e numerose, cade come corpo morto, sviene, rinviene, si addormenta, siravviva nell 'Eunoè, la sua mente esce di sè stessa, si illuia, si india, si interna, s'infutura,s'insempra, passa al divino dall'umano, all'eterno dal tempo; e finalmente dislega l'anima sua daogni nube di mortalità. Questo non è un perfezionamento morale, è una vera pallngenesi di tuttol'essere che si attua nel simbolico viaggio. Il velame asconde non soltanto delle disquisizionimorali sopra i peccati e le virtù, ma l'esposizione di mutamenti interiori nella coscienza delpellegrino.I due fiumi del paradiso terrestre sono un evidente imprestito ai misteri orfico-pitagorici.Scoperte archeologiche recenti han fatto rinvenire le così dette laminette auree di Turii, chevenivano sepolte insieme al defunto orfico, cui dovevano servire di viatico, quando arrivavanell'Ade. Quivi egli incontrava due fonti, quella del Lete e quella di Mnemosine, ossia quelladell'oblio e quella della memoria. Bevendo all'acqua del Lete, il defunto perdeva ogni memoria,e finiva, miserabile larva incosciente nel fango. Bevendo alla fresca sorgente di Mnemosine sisalvava, ed andava tra gli immortali, nei campi elisii. La formula contenuta nella laminetta orficaaffermava: «Son figlio della terra e del cielo stellato. Fammi dissetare alla fresca sorgente diMnemosine, perché io possa essere nume divino e non più mortale». Questo il senso dellaformula invocatoria orfica; e questa concezione orfico-pitagorica è analoga alla concezioneescatologica dei misteri eleusini, ed è svolta nella teoria platonica delle anime e dellaconoscenza. Dante, a meglio affermare il carattere pagano delle catarsi del purgatorio, da cuiesce puro e disposto a sallre alle stele, introduce alla fine della cantica non solo il Lete, ma ilmeno familiare Eunoè (Purg. XXVIII, 131; XXXIII, 127-145), come egli lo chiama, che «latramortita sua virtù ravviva», ossia che dà a chi è morto la resurrezione, la seconda nascita.Dante vorrebbe pur cantare in parte lo dolce ben che mai non l'avria sazio; ma si dà lacombinazione che ei non ha più lungo spazio, sono piene tutte le carte ordite a questa canticaseconda; e sopra tutto non lo lascia più ir lo fren dell'arte. Adelante, Pedro, con juicio. Siamo inpieno mistero pagano.E chi consideri quale sia stata la guida di Dante capisce che doveva condurlo proprio lì. Dantesmarrito nella selva selvaggia ed aspra e forte dei pregiudizi e dell'ignoranza cristiana, incontra

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fmalmente in Virgilio, la personificazione della sapienza esoterica, questa voce che per lungosilenzio (dieci secoli di era volgare) pareva fioca; e Virgilio si presenta immediatamente nellasua qualità di iniziato, che ha trasceso la natura umana:«Non uomo, uomo già fui»; ed è per questo che Dante lo prende per duca, maestro e signoreche lo inizii e lo renda immortale.Ora la concezione pagana non accordava alle anime umane una vera e propria sopravvivenza;conducevano nell'Ade una vita immemore di larve incoscienti; e solo gli iniziati, gli eroi e queiche Giove rapiva al sommo concistoro erano immortali. Ed il Cristianesimo ebbe il sopravventosopra i misteri, perché mise democraticamente la salvezza e l'immortalità à la portée de tout lemonde.Bastò andare a farsi battezzare e credere che Gesù era risuscitato per essere salvato. Una veracuccagna per tutti i poveri di spirito, e per tutti i delinquenti cui i misteri chiudevano la porta.Arnobio p.e. spiattella pari pari di essersi fatto cristiano perché il cristianesimo a differenza deimisteri garantiva a tutti l'immortalità.Dante, che prende a guida Virgilio, e che tratta paganamente tutta la questione dellapallngenesi, pensava dunque anche egli che non tutti gli uomini potevano eternarsi? che lecredenze cristiane non erano sufficienti allo scopo? che le pecore matte ed i superbi cristianinon avevano diritto di cittadinanza nella città eterna, e dovevano finire tra la perduta gente?Parrebbe di sì, posto che non dai preti ma da Brunetto Latini egli apprese "come l'uom sieterna". Esaminando l'opera di Dante senza preconcetti e partiti presi, si arriva a riconoscerenella rinascita spirituale mediante la metamorfosi operata dall'iniziazione il soggettofondamentale della Commedia, la dottrina nascosta sotto il velame delli versi strani.L'allegoria dantesca ha dunque un importantissimo aspetto mistico, metafisico, veramenteesoterico. Aspetto che ancora non è stato riconosciuto. Esso sfugge anche al Rossetti ed all'Aroux, i quali pure riconducendosi per l'interpretazione dell'allegoria ai misteri classici, siriferiscono sempre alla parte cerimoniale di essi. Ed è naturale che sia così, perché perpotere accorgersi ed intendere le allusioni ed i riferimenti convenzionali od allegorici occorreconoscere l'oggetto dell'allusione o dell'allegoria; ed in questo caso occorre conoscere leesperienze mistiche per le quali passa il mistero e l'epopta della vera iniziazione.Per chi ha una qualche esperienza del genere non vi ha dubbio sopra l'esistenza nellaCommedia e nell'Eneide di una allegoria metafisico-esoterica, che vela ed espone le successivefasi per cui passa la coscienza dell'iniziando per divenire immortale. Il simbollsmo di cui piùfrequentemente si serve Dante è quello della navigazione, della peregrinazione. Egli è unpellegrino per la diserta piaggia, per lo stretto passo, per l'aspro diserto, prende un'acqua chemai non vi corse, è un navigante pel mar dell'essere. Specialmente il simbollsmo del mare, dellanave, della vela è sempre adoperato per trattare dei fatti interiori.È questo velame che egli alza per correr migliore acqua; e come egli stesso dice è sotto questovelame che si asconde la dottrina.È un simbollsmo arcaico, mediterraneo, pagano, già usato da Virgilio e da Ovidio. Esso è usatoanche dai cristiani che di navi e navate parlano nei loro templi riferendosi alla navicella di S.Pietro. Ma questa navicella è frutto di una delle tante appropriazioni compiute dai seguaci delprofeta asiatico; non è altro che la navicella di Giano; di un dio cioè prettamente romano, sposodi Venilla, la dea del mare e delle sorgenti, ed inventore della costruzione dei navigli. Si vedeche cosa diventa l'impresa di Ulisse nella Commedia. Ulisse, il navigatore per eccellenza, ha untale ardore a divenir del mondo esperto, e delli vizi umani e del valore che non è vinto dalledolcezze del figlio, dalla pietà dèl vecchio padre, e dal debito amore di Penelope; e perciò simette per l'alto mare aperto; e dopo averne navigato tanto da divenire vecchio e tardo vienefinalmente a quella foce stretta, ov'Ercole segnò li suoi riguardi acciocché l'uom più oltre non simetta. Ma Ullsse ed i suoi compagni non tornano indietro per questo; anzi ricordano che nonsono stati fatti a viver come bruti ma per seguire virtute e conoscenza; e quindi si avventuranocon folle volo nell'alto passo per ottenere l'esperienza del mondo senza gente, di retro al sol;cioè di quella condizione in cui la coscienza vive di vita tutta interiore, al di là e fuori di ognicelebrazione dovuta ai sensi umani, ed in cui non c'è né gente né sole.Ma questa è un'acqua assai perigliosa e non tutti possono trarsi a riva e volgersi a guardare lopasso che non lasciò giammai persona viva, e che può superare solo chi muore di morte

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mistica. È un varco folle (Parad. XXVII), un'impresa assai ardua, non pileggio da piccola barca(Parad. XXIII), e c'è da rimanere travolti e sommersi dal mare dell'essere che si richiude sopra iltemerario. Questo dice Dante, dopo avere premesso: (Inf. XXVI, 21) «più l'ingegno affreno ch'ionon soglio».Ma Dante non va come Ulisse alla ventura; egli è guidato da Virgilio, più savio che ei nonintenda, e per ascoso cammino giunge a riveder le stelle. Per correr migliore acqua alza la velala navicella del suo ingegno; e dopo le varie pratiche e cerimonie che subisce nel purgatorio, sipurga ritualmente e ravvivatosi nel fonte di Eunoè, ne esce rinnovellato di novella fronda, puro edisposto a salire alle stelle (Purg. XXXIII). Dopodichè è opportuno invocare il buon Apolloall'ultimo lavoro (Parad.I). All'aspetto di Beatrice ci "si fa tale dentro", qual si fè Glauco nelgustar dell'erba che il fè consorte in mar degli altri dei (Parad. I, 69-70), ossia si sente morire edivenire immortale come Glauco, quel Glauco che dice di sé: Ante tamen mortalis eram, sedscilicet altis deditus aequoribus (Ovid. Met.) Dante non sa proprio dire altro e si scusa dicendoche: «Trasumanar significar per verba Non si poria; però l'esempio basti a cui esperienza graziaserba» (Parad. I, 70-72). Per verba non si può, ma per erba sì.Egli non ha più l'illusione del mondo materiale, ha un altro senso della realtà: «tu non se' interra, sì come tu credi» ma tu siedi al tuo proprio sito; giacché come dice nel Conv. IV, 28: «lanobile anima ritorna a Dio, siccome a quello posto, ond'ella si parti a quando venne a entrarenel mare di questa vita».Cosa accade delle anime non nobili non è detto.Ed ora che si sente del mortal mondo remoto (Par. II) si sente a sua volta in grado di far daguida non agli altri che sono in piccioletta barca, ma a quei pochi che drizzano il collo per tempoal pan degli angeli, l'ambrosia che rende immortali come l'erbetta di Glauco. È vero che l'acquache ei prende giammai non si corse; ma egli ci ha tutta la sapienza pagana che lo assiste:"Minerva spira, e conducemi Apollo e nove muse mi dimostran l'Orse" e Dante incoraggia questipochi navigatori a mettere tranquillamente per l'alto sale il loro naviglio, servando s'intende ilsuo solco dinanzi all'acqua che ritorna eguale; e promette loro meraviglie da stare a pari diquelle che videro quei gloriosi argonauti che seguirono quell'altro navigatore ardito checonquistò il vello d'oro (Parad. II, 1-18). Ed infatti, giunto alla fine della navigazione, e giuntol'aspetto suo col valore infinito (Parad. XXXIII), arriva a vedere che nel suo profondo siinterna, legato con amore in un volume ciò che per l'universo si squaderna. Crede diavere visto la forma universal di questo nodo, e ne resta ammirato quanto rimase ammiratoNettuno, quando vide l'ombra d'Argo ossia la nave Argo, la prima nave che solcò i mari. I pochiche han servato suo solco sino alla fine vedono dunque che Dante mantiene la promessa fattaloro nel canto 11.Così si spiega questo passo che è uno dei più oscuri di tutto il poema. Ma, intendiamoci, unavera spiegazione si può dare solo a quelli che passano per consimili esperienze; giacché questoè un mistero che «intender non lo può chi non lo prova»; ed io non posso che ripetere le paroledi Apuleio dopo l'iniziazione: "Ecce tibi rettuli, quae, quamvis audita, ignores tamen necesseest" (Apuleio - Metam. XI, 23).

***

Un'altro saggio di Arturo Reghini su Dante, pubblicato prima di quello apparso in Ur, è "IlVeltro", comparso nel giornale Impero del 24 aprile 1923. Si possono notare diversi accenni aquell'Imperialismo Pagano, che Reghini, aveva teorizzato già nel 1914 ("Imperialismo Pagano"in Salamandra del Gennaio-Febbraio 1914) e che, per un certo periodo, sognò potesse esereattuato dal fascismo. Ne 1928, Evola ne fornì una sua variante in un opera dall'identico titolo(Imperialismo pagano, Atanor, Todi-Roma) che fu la causa principale del deplorevole dissidiotra i due personaggi. Dissidio storicamente inutile, visto il Concordato tra Stato e Chiesa del1929, che faceva diventare utopica la realizzazione a breve di quell'idea, però maiabbandonata da Reghini. Il presente saggio è anche utile per riflettere sul concetto tradizionaledi "vaticinio", che non è mai stato concepito come previsione di un evento ineluttabile (chetoglierebbe agli uomini la benchè minima libertà), ma come percezione di una favorevole"tendenza" verso certi eventi, che sta pur sempre agli uomini attuare o contrastare.

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2b) ARTURO REGHINI

Il VELTRO

I classici dell'Imperialismo, filosofi, politici, profeti insieme, sono quattro: Virgilio, Dante,Machiavelli, Mazzini; italiani tutti. Coloro che con maggiore coscienza hanno tradotto in attol'Idea son due: Cesare e Napoleone, Italiani pur essi. Virgilio, il cantore delle origini, il foggiatoredi versi perfetti, credette vedere intorno a sé i segni precursori dell'ultima età predetta dai Librisibillini, e vaticinò la discesa dal cielo di un fanciullo che avrebbe dovuto instaurare l'Etàdell'Oro. Sembrò avverarsi la profezia colla nascita di Gesù, ed il Poeta pagano parve dare la mano alprofeta ebraico, "teste Davide cum Sybilla".Diciamo parve, in quanto che, se a Gesù si volesse applicare il vaticinio virgiliano, bisognerebbeammettere che non si è ancora tutto attuato, perché è ben vero che Gesù è nato (ed anchemorto), ma l'Età dell'Oro è ancor da venire. È vero che non bisogna aver furia!Ma ogni dubbio ci sembra scompaia quando si ricordi che Virgilio era un Pitagorico, e chel'avverarsi di tale profezia, ad un Pitagorico, in quel momento, doveva apparire sicura edimminente. Infatti la Filosofia pitagorica, che tutto riduce e somma nella Monade universale,porta direttamente alla concezione monarchica; all'unità della Monade corrisponde l'unità delpotere, la monarchia; ed il Fondatore della Scuola Italica attuò, come potè, nel suo Sodalizio diCrotone, il concetto sociale unitario. Or quando Virgilio scriveva, l'unità politica era stata attuatasulla maggior parte del mondo conosciuto da quell'immenso Genio di Cesare, che seppecorrere l'alea, ed a tempo debito, marciare su Roma. La concezione pitagorica, l'antica profeziadella Sibilla e la pienezza dei tempi dicevano naturale e quindi fatale che a coronare l'operascendesse di cielo in terra una divina progenie. Questo il Veltro virgiliano.Dante, per cui Virgilio è duca, maestro e signore, ha tutta l'aria di essere similmente inspiratoquando, a più riprese, profetizza ed invoca la venuta del Veltro, a fare morire di doglia la lupa,ed in attesa a fare penare assai i commentatori.La concezione politica imperialista ha nell'uno e nell'altro altissimo poeta la stessa impostazionepitagorica. Intorno a questa Idea centrale ruotano secoli e secoli di storia italiana ed europea. Il Veltro dantesco non è in modo speciale Arrigo Imperatore, né alcun altro personaggiodeterminato; il Veltro è l'uomo divino che, data la costituzione del mondo, deve fatalmentemanifestarsi presto o tardi. Dante con ardente affetto il sole aspetta, fiso aspettando pur chel'alba nasca; il suo cuore palpita affrettandone, invocandone la venuta, ma la sua mente sa checosi è scritto. La sua fede nell'avvento fatale di un vero Imperatore poggia sulla prodigiosa suaconoscenza metafisica, sociale, scientifica. Come Virgilio, egli è un Vate nel senso classicodella parola.A questa coscienza del divenire politico si accoppia la piena, sicura coscienza del dirittonaturale del Popolo Romano a tenere l'Impero.Virgilio afferma che spetta al Popolo Romano il "regere imperio populos"; Dante lo ripete;Mazzini lo ripeterà poi con l'uno e con l'altro. La Romanità era ancora cosi viva nel mondo cheanche se fosse stato un tedesco, come Alberto, l'Imperatore sarebbe stato sempre romano. MaDante vuole che in Roma tenga la sede dell'Impero e da Roma tragga il prestigio; perché Roma,e solo Roma, possiede, quasi per magia, carattere universale ed eterno. E questapredestinazione naturale all'Impero, questa virtù del Popolo Romano, potentemente sentita daMazzini, esule e povero, alimentava la sua tenacia e fede nei destini della terza Italia, quando ilsacro romano imperio pareva acquisito per sempre a casa d'Asburgo.Le virtù romane, quelle autoctone, presentano i requisiti necessari per un ufficio d'imperio.Prima la fortezza, la virtù del guerriero, la salda tempra del popolo che non piega ai rovesci,oggi ed allora come a Canne; poi la virtù della misura, dell'equilibrio; la prudentia politica di

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governo, la giustizia, virtù sociale del cittadino, la temperanza, la virtù dell'uomo nella condottaprivata. Virtù congenite, sane, indipendenti dalle credenze e da sanzioni extra-sociali. VIrtù ditutti e per tutti, e non dei pochi come la fede, la speranza e la carità, virtù dei santi e per santi,intese a scopi ultra-umani se non inumani. Queste le basi del diritto naturale del PopoloRomano; queste le virtù che necessita avere. L'Imperatore, quello auspicato da Dante, il Veltro,non ciberà terra né peltro, ma Sapienza, Amore e Virtute. Le virtù umane e nemmeno quelleordinarie dei santi non bastano. Occorre la diretta inspirazione divina, bisogna che, come ildivo Giulio, si immedesimi con Giove, con quell'lmperador che lassù regna. La supremapotestà terrena deve sentire la sua unità colla Monade. Egli deve imperare per volere divino eper diritto divino. Sissignori, per diritto divino, o inconsolabili cortigiani del popolo sovrano! "Voxpopuli non est vox Dei". Che la potestà imperiale, del resto, debba derivare e derivi direttamenteda Dio non è soltanto un corollario di Filosofia pitagorica; lo afferma anche la religionedominante per bocca dell'apostolo Paolo: "Omnis potestas a deo est". E senza dubbio questopensiero inspirò Napoleone quando, nel giorno della incoronazione a Re d'Italia, tolti di mezzogli intermediari, si pose in capo da sé la corona. E ben fece perché se, come il Manzoni afferma,Iddio stampò in lui più vasta orma del suo spirito creatore, da Dio stesso fu suscitato epredestinato. Il Veltro è quindi perfettamente al suo posto al sommo della gerarchia.Quando la gerarchia non sussiste, l'assetto sociale precipita. Quando l'Imperatore indulge asentimenti personali o pretende volgere l'Impero a beneficio di popolo non predestinato, il Fato,cui sottostanno gli Dei, si abbatte su di lui e sull'opera sua. Carlo V esce di senno, unaincredibile testardaggine determina Waterloo, sulla Marna e sul Piave si noveran miracoli.Oggi l'Italia sta risanando. Affiorano le antiche virtù. Il suolo sacro della Patria esprime lesuperbe legioni che Augusto amava; e le masse van ripulendosi del morbo asiatico. "Romalocuta est"; ed i popoli già tendon l'orecchio alle parole di rinsavimento, già figgon lo sguardo aisegni precursori della nuova aurora. Ed in verità, il popolo saprà vivere austeramente,virtuosamente, se il Duce avrà la fede e la reverenza romana per gli Iddii della Patria; sia lecitoa noi, nel giorno natale di Roma, leggere i segni secondo il costume dei Padri e dichiarare faustii presagi.

3) ERCOLE QUADRELLI

I "FEDELI D'AMORE"

Quel che segue è un saggio di Ercole Quadrelli sui Fedeli d'Amore, estratto da "Il progressoreligioso" n°2, Rivista bimestrale del movimento contemporaneo, Città di Castello, 1929. E' unsaggio molto importante per svariati motivi:- E' del 1929 e perciò contemporaneo alla rivista Krur. Segue di un anno il saggio di Pietro Negri"Il Linguaggio Segreto dei Fedeli d'Amore", uscito nella seconda annata di Ur e a cui Quadrellifa un brevissimo riferimento finale. - Mostra il vero stile letterario di Quadrelli (che usa ad es. abitualmente l'accento, all'inizio diparola, al posto della lettera h) e conferma perciò che gli scritti firmati Abraxa erano sìinsegnamenti dati oralmente da Quadrelli, sulla base del Corpus Philosophorum Totius Magiae(*) di Kremmerz, ma trascritti da Evola col suo stile. - Ridimensiona infine certe pretese di Guenon nel campo degli studi danteschi e soprattuttoalcune critiche guenoniane a L.Valli.

(*) Quello autentico e non quello spesso storpiato già nel titolo (da taluni trasformato in CorpusPhilosophicum Totius Magiae).

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L'ineffabile Essere primissimo - sì difficilmente pensabile senza immediato rischio diblasfemamente confonderlo col Nulla - Lui, sì pienissimo, con il Nulla vuotissimo - che cosa abaeterno e in eterno lo mosse, e move, a perennemente uscire dall'unità sua semplicissima, perdirompersi in molteplici densità innumerabili? Mistero, a cui non è escogitabile nome alcunoadeguato; attività ineffabile d'ineffabile Agente; necessità libera, nudità sovrabbondante,coerenza di scissione, immobilità di propulsione, slancio dell'uno verso il diverso, impeto dellaRealtà ad anche parere ciò che Ella già è. Amore? Mistero. Amore di esuberanza, caso mai:traboccamento di plenitudine, effusione di magnificenza: dono. Amori di bisogno - diinvocazione, di dedizione - dopo: dal diverso che riaspira a unità , dal piccolo che bramaampliamento, dal crepuscolare che scongiura più luce: più calore, più forza, più vita. E cosìl'Ineffabile va, della Sostanza, perennemente facendo a sè stesso un tramite di cui Egli stesso èla sede e il viandante; della Energia, facendo a sè stesso un palpito di cui Egli stesso è il ritmoed il musico; della Luce, un ammanto di cui Egli stesso è la contenuta contenenza,l'unimolteplice vibrazione, la visibile e l'invisibile fiamma, l'immateriale olio, l'occulto Accensore;della Vita, un innumeriforme prorompere di singole affermazioni e di voraci assorbenze, traversocui Egli stesso è il divorato e il divorante, il sacrificatore e la vittima. Triangolo, che, nelsalomonico esagramma, scende, si immerge, s'involve: traverso alla nebulosità , alla fluenza,alla liquidità , al colloide, al solido, al compattissimo: all'indiscomponibile ione, sedici volte,dicono, più denso del plà tino: e, dunque, sedici volte più complicato, più scomponibile, piùinaccessibile, all'infinito: nell'infmito al di dentro: al di dentro di tutto ciò che altro non è, di Lui, senon esteriorità . Scende, Egli, e si involve: e, naturalmente, nè si perde, nè si depaupera o àltera, Egli che dovunque e comunque non è mai fuori di sè: in cui tutto morendo nasce enascendo muore e vivendo dilegua, in Lui che persiste in tutto quanto da Lui emerge od in Lui sisommerge. Non si perde, non s'altera: non c'è essere che possa agire a depauperazione di sè,se non fosse per incapacità o costrizione. E, come dalla nebulosa al sole - al pianeta, al fluido,alla selce, al metallo - si va Egli più e più immateriando, così dal fango alla mucillagineall'ameba, al vegetale all'animale all'uomo, si va Egli - triangolo, che, nel salomonicoesagramma, riascende - riliberando, rievolvendo, ridisimpacciando. Tra l'uomo e Lui, quantealtre forme di esseri? E attorno all'uomo, tra gli animali e tra gli alberi - nella terra, nell'acqua,nell'aria - proprio null'altro di vivo? Nulla, nei mari, di più dià fano che le meduse? Nulla,nell'aria, di più sottile e più vasto che non le nubi? E, gl'interminabili spazi dell'etere, disabitati?E non altrettante o più, le sue forme, che quelle dei gas? E la enorme gamma delle vibrazioninote alla Scienza - ignote ai nostri sensi - proprio nessun essere che le percepisca? Quantiinterrogativi di cui non Shakespeare e non il suo Amleto avrebber sorriso; di cui non, permillenni, sorrisero o sorrideranno le umane stirpi. Prima ancora - e fosse pur questa unaconvenzionale priorità di non più che natura - prima ancora di esprimersi in plasmi di materie -energie meccaniche, si sarebbe Egli espresso in forme di sostanze-potenze. E, curiose diesperienze anche all'in giù, tante e tante di queste avrebbero anch'esse tentata la sfinge delladiscesa - questo, il peccato originale? di ciascuno di noi? di un'adamica anima universale? - nètroppo si chiesero se altrettanto agevole sarebbe stata poi la riascesa. Pitagorico-platonicisussurri, rintracciabili un po' in tutte le ampie civiltà , e sui quali non ha voluto dirci Dante, checosa realmente ei pensasse, o avesse talvolta pensato, o talvolta fosse ancora tentato apensare (Par. IV, 49-63). Sussurri, non di disperazione: difficile la riascesa, ma non impossibile;esistente anzi, per questo, un'apposita tecnica, pazientemente studiata da collegi sacerdotali,traverso a secoli di dominio pacifico, nei penetrali di certi lor templi famosi. Ne abusaronoperfino; ciò ch'era dato a redenzione dell'Umanità , ne fecero strumento di privilegio, adominazione di casta; nè la punizione si farà gran tempo aspettare.

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Fu Cristo a voler esteso il privilegio, a tutti i semplici di cuore. Fu Paolo, che, cuori ancor piùsemplici, volle andarne sopratutto a cercare dove la carnalità era massima. E, tutti

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indistintamente, gli Apostoli e i primi Discepoli, non davano semplicemente parole diedificazione: imponevano anzi le mani, e trasmettevano lo Spirito: uno spirito non già immateriale e impercettibile, ma fluidico, ma sentito, ma trasformante anche i fisici lineamenti,ma raddrizzante le organiche deformità , ma fenomenicamente avvertibile, spesso, anche a tuttii presenti: credenti che diventassero, miscredenti che rimanessero, o immaginantisi magaridiabolicità . Non sono pochi i testi in cui tutto ciò è chiarissimamente detto, e poco importa senessuno ci abbia ancora pensato: chiarissimamente detto, come si trattasse insomma e su pergiù - per ben più nobili motivi, su ben più vasta scala intensiva, e con effetti ben più duraturi dìquella fenomenologia prodigiosa, a cui attende finalmente, con scientifici intenti, lametapsichica. Ma non senza motivo aveva ammonito il Maestro, «Non vogliate buttarmargarite dinanzi ai porci». Nelle propagande a masse, tanto difficile diventava il passare alvaglio il buon grano, quanto facile lo era invece stato nelle lunghe discipline dei templi. Infatti,una prima ardua impresa degli epìscopi, fu appunto il metter freno a cotesto anarchicovisionarismo dei troppo semplici, a coteste apocalittiche glossolalìe da pitonesse incontrollate. Ele trasmissioni dello Spirito furon nuovamente ristrette ad un clero, e, tra questo stesso, a delleèlites direttive: le tante scuole gnostiche, contro cui se la sarebbe presa Plotino, nè ciò fece lorogran male; ma contro cui sempre più se la prese la enorme massa dei - prima ammessi eadesso esclusi - cristiani medesimi, il che condusse al disastro. Il disastro - sin dove ciòconcepibile e possibile sia - per lo Spirito Santo medesimo. Chè, messa ormai su una viad'inconfessabile diffidenza, drizzava pronte e minacciose orecchie la dirigente Chiesa ufficiale,ad ogni sussurrata eco di Pneuma, di Spirito, di Paracleto. E senza ufficial tempio nèriconosciuto altare, rimase lo Spirito Santo per secoli e secoli; e quando per primo Abelardo,verso il 1123 - a futuro, imprevisto rifugio di luce per la sua Eloisa - osò intitolare dal "Paraclète"un semidesertico oratorietto di pace vanamente inseguita, ebbe ancora a difendersi, controteologi, con argomenti teologici. E, in Abelardo, sfioramenti molti di eresie molteplici, ma - ascanso di possibili equivoci un po' più innanzi - nessun sentore, fosse pur minimo, di tradizioniiniziatiche. Due secoli ancora dovrà però aspettare la stessa ineffabile Trinità , a che una suaspeciale festa sia ufficialmente sancita (1333) da Giovanni XXII (1). Sbanditi intanto dalladirezione i trasmissori dello Spirito, non eran rimasti - per far Chiesa - che gli accanimentidialettici sulle dottrine, e il consolidamento delle gerarchie esteriori: due forze ancora enormi, inquanto attinte dalla Grecia la prima, e la seconda da Roma. Anche rimasero, a dir vero, i riti:quasi tutti i più importanti riti. Ridotti a valori prevalentemente simbolici, ma spieganti, anchecosi, la vitalità della Chiesa cattolica, di fronte a quelle che, pur appellandosi a una più astrattaspiritualità , à nno sempre più rinunziato a quelle ultime riconnessioni pratiche, con l'anticaChiesa Vivente. La quale, dicono, non perì mai del tutto; e ne vanno ancora cercando il filo,traverso alla storia delle cristiane eresie. E se del tutto non perì mai, bisogna pur riconoscereche, per secoli parecchi, dovette vivere piuttosto male: anche esotericamente. Contaminazionidi tradizioni le più varie - caldaico-egizie, siro-fenicie, manicheo-mitriache, ellenico-celtiche,neoplatonico-gnostiche, ebraico-arabiche - fecero si che nessuna manifestazioneeretico-iniziatica risultasse riannodabile a un dato ceppo indiscusso. In quelle a diffusionimomentaneamente trionfanti (Albigesi), il peso bruto delle masse avide risoffocò l'internafiamma spirituale. In altre, potentemente organizzate (i Templari), la conquista del mezzo - laricchezza - fece dimenticare la nobiltà dello scopo. Bisogna giungere ai Lulliani, aiRosa-Croce,. alla linea degli hermetisti benedettini, alla fiorita mistico-platonica,pitagorico-cabalistica, alchimistico-terapeutica, in Italia e in Europa, per avere un qualcosa di cuianche le forme esteriori appaiano meritevoli di riconnessione alle antiche misteriosofie più pure.

(1) Cfr. ABELARDO e ELOISA, Lettere; Roma, Formìggini.1927; pagg. 46-50, e specialmentepag. 48.[n.d.u. : Prima Traduzione Italiana dal Testo Latino di Ercole Quadrelli. Prefazione di AntonioBruers]

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E invece, secondo un genialissimo fra i nostri studiosi (2), ecco una insospettata reviviscenza di

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esse, anche nella scuola dei Fedeli d'Amore. Insospettata sino ad un certo punto: dimenticatae negletta, piuttosto, dall'ultima generazione di letterati positivisti; qualcosa di quasi identico fuanzi già sostenuto dall'obliato Gabriele Rossetti; qualcosa di molto prossimo, dal Foscolo e dalPascoli; e appunto a questi tre è dedicato il libro che sarà pietra miliare. Qualcosa divariamente non remoto fu detto, per i romanzi cavallereschi, dall'Aroux: per la Vita Nova, dalPerez; per il Cavalcanti, dal Salvadori: per l'Acerba dell' Ascolano, dal Crespi: un po' da tutti, perla Donna del Guinizelli, o per la Beatrice di Dante: assolutamente da tutti, per

l'amorosa madonna Intelligenza

di Dino Gompagni, indiscussa e indiscutibile donna non di carne e non d'ossa. E insospettataconvien dir la cosa sino a un certo punto soltanto, anche per l'esser stato ormai vasto ilconsenso dei critici: specialmente quello degli insieme poeti e filologi, i più competenti, cioè,nella fattispecie (3). Il dissenso, da tutti e soli gli ostili per motivi tutt'altro che critico-storici:sentimentalismi femminùccei, quietovivere da cristallizzati, preoccupazioni pseudoortodossiche,gelosiucce di scuole e chiesuole. Miserevolissima manifestazione di un po' tutto questo, larecensione del Giornale storico della Letteratura Italiana (n° 271-72). Per un tema d'una siffattaimportanza letterario-filologica e religioso-civile-politica, proprio di lì doveva venire unatrattazione più ampia, un'approvazione o un'opposizione più documentata; una discriminazione,insomma, più diligente. Invece, adunatosi, pare, un concilietto d'illustri redattori, fu affidato alBertoni l'incarico di lavarsene le mani. Il quale se la cavava infatti con una paginetta di «ti vedo(cara) e non ti vedo; ma sì, come no?, però, chissà », su bazzecolette culminantinell'insinuazione che ancidere significhi anche altre cose che uccidere. Le quali altre cose(asserite nell'Enciclopedia di quel benemerito Scartazzini che, l'italiano, non era insommaobbligato a saperlo più che tanto) contraddirebbero addirittura a Dante, nel commento al sonettoVII della Vita Nova; ma se una il Bertoni ne avesse saputa di suo - e si fosse degnato di dircela -ecco ci sarebbe stato, nella sua eiaculazioncella, almeno un protozoo, meritevoledi...microscopio. Certo, non insospettata, la cosa, all'umile (ma non poi tanto) sottoscritto. Ilquale, un quindici anni fa, sospettando che nelle antiche nostre rime il futuro endecasillabofosse (e, nella poesia popolare, rimanesse) un variabilissimo verso doppio, or tetra-esatonico edor esa-tetratonico - variabile perciò dalle 10 sillabe alle 14 - e normallizzato non già da unametrica, ma da un pausato ritmo musicale entro cui fosse adagiabile - ne ricercai le prove in unpo' tutti i relativi codici più antichi; e ve le trovai. Ma che notai strani ritorni di forme o formule daconvenzione segreta: da così dicibile gergo massonico (1913), stranamente in anticipo. A fiancodei miei estratti ritmicometrici, notai persino, talvolta, qualche interrogativo in tal senso; macredetti la cosa una ristretta singolarità eccezionale, nè sospettai possibile ritrovarne la chiave.Sapevo il gran concetto in cui eran stati tenuti - come savi quelli che i nostri professori ci avevanridotti a letterati; ma contro l'esautorazione non protestava neanche il mio cuore: ciò che di lorointeressava anche me, era proprio il lor esser anche stati dei talvolta genialissimi perdigiorno; inarmoniose fanfaluche, talvolta anche elevate. - Il più delle volte, però... - Ma, nella stragrandemaggioranza, ahimè... - Come mai tanta gente s'era sobbarcata a tramandarci anche tante -così a occhio e croce scempiaggini?E la chiave - o la principal chiave - doveva ecco invece ritrovarla il Valli: i pretesi perdigiornoerano, anche in rima, dei combattenti; e, anche le scempiaggini, erano invece documentistrategici. Salute ai sedentari poltroni, che àn potuto non restarne commossi: alle femminette inbrache e barbe più o meno tremu1e, che se ne son sentite montar le bizze negli eviratiprecordii; ma, da personcine posate, non à nno osato portarle in pubblico; un universitario, chea Firenze - sì, dico! - ai suoi (sperabilmente inobbedienti) pupilli, proibisce lettura e discussionidel libro; ma insomma, forse questo l'unico, disgustoso, mucillaginoso caso del genere;dell'universitario ò anzi dimenticato, e non voglio certo più chiedere, il nome. O che d'altronde aFirenze (à già pensato il Filologo) c'è forze, neanche, Università ?

(2) VALLI LUIGI, Il linguaggio segreto di Dante e dei «Fedeli d'Amore»; Roma, Biblioteca diFilosofia e Scienza, n° 10, pagg. 454, in 4°, 1928.(3) Senza far torto a nessuno - e sì per informazioni che impressioni mie - mi sia lecito

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menzionare, honoris causa, il Mazzoni, il Cesareo, il Panzini, l'Orvieto, il Bruers, e unamaggioranza grande fra i più valenti dei giovani.

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Ma che gran porta spalancata oramai, e che nessuno chiuderà più; grande porta oltre cuibalzare - sperabilmente, in folla - i futuri studiosi, sopratutto italiani, dietro a una letterariainiziativa finalmente italiana. Tutti quegli antichi canzonieri, da ripubblicare: scrupolosamenterispettandone anche i ritmi, e nelle redazioni più antiche. Tutti quegli aggruppamenti da studiarsiex novo, non tanto come di rime, quanto come d'intenzioni (4).Tanti oscuri da metter in lucecome uomini di fede e di azione che per un'idea lottavano - e bene o male a rimares'industriavano poichè questo era il convenuto mezzo di darsi notizie, ammonimenti,incoraggiamenti - e anche lavate di capo - senza rischiar troppo da presso la scomunica o ilrogo. E un'epoca eroica scopriranno, naturalmente, gli studiosi; poi un'epoca di rilassamento, diformulario, d'inflazione, di moda; e riprese, ridecadimenti, risurrezioni, scomparse: come in ogniumano movimento di anime. Tutte intese, le alte gerarchie ecclesiastiche, - alla salvaguardia deilor privilegi, delle loro agiatezze, dei loro ozi, sì raramente studiosi. Tutto chiuso, il Monachismo,nell'isolamento suo splendido, e generalmente grasso, e spesso spesso scostumato: vecchio edurevole bersaglio a tutta la novellistica neolatina, ed, episodicamente, anglosassone. Scarso einascoltato il basso clero, povero e ignaro quanto le sue pecorelle. E perfino esiliatosi adesso ilPapa, là in Avignone: nè maggiormente curante dell'italico giardino in convulsione, di quantooccorra a che un pseudo-romano imperatore non vi si stabilisca. Dunque propriomorta-impietrita la Chiesa? Dunque ancora e ancora vacante,

nella presenza del Figliuol di Dio,

il saggio di Pietro? Ma poichè invece immortale è la Chiesa, dov'è dunque mai tra gli uomini, laocculta Ecclesia vivente? E poichè il Seggio non deve possibilmente vacare più a lungo, chidunque vi insedierà un successore legittimo? E chi, nell'Italia contro sè stessa armata da città a città , da quartiere a quartiere - da torre a torre, o da palagio a palagio - rimetterà pace eunità ? - L'Aquila riporrà sull'altare la Croce, si era già detto il Valli che si fosse detto Dante (5);e questo, in sostanza, ridice egli qui che si fossero detto i più illustri fra i Fedeli d'Amore.Romano Giure, per la cristiana Speranza. Quindi, serrata di alcuni spiriti eletti, intorno a quanti,di quel Giure, rivestissero almeno, ancora, una vistosa ed armata parvenza. Gruppo, perciò, diufficialmente eretici, perchè, il papato visibile, lo credevano ormai nulla più che adulterio. Non sivede, anzi, donde la legittima imperiale autorità avrebbe tratto il legittimo insediabile, se non dalsenso della legittima Chiesa: quella stessa, cioè, dei Fedeli d'Amore. Ne avrebbe fatto parte,per caso, qualche dignitario ecclesiastico? Ai tempi del Petrarca, certamente sì: un cardinaleColonna; e si estendeva tale Chiesa, quanta ne abbracciarono i petrarcheschi viaggi, dallebighellone apparenze ai petrarchisti carissime. Non parrebbe, invece, ai tempi di Dante; nè aDante poteva risultare (e infatti poi, a dir vero...) niuno più adatto di sè. Sicchè la spiegazionelegittima del «Cinquecento Dieci e Cinque = DXV », rischia proprio di esser quella che parevala più abnorme: «Dantes Xristi Vèrtragus» (Veltro), o, secondo altri, «Vicarius». Spiegazioniormai antiche, e, in ogni modo, non del Valli, che si è accortamente sempre trattenuto dallospingersi a coteste conseguenze particolari. D'altronde, nulla di eterodosso, stavolta, e neanchequasi di nuovo, per Dante. Se il suo Arrigo VII fosse davvero riuscito a coronarlo e mitrarlo interra, come sopra sè - sopra al suo stato di laico - lo aveva fatto San Pietro in cielo, e se fraRoma e Avignone fosser poi corse scomuniche - e il definitivo trionfo storico fosse rimasto aRoma - un diverso capitolo esteriore, ecco tutto, avrebbe scritto quella ecclesiastica Historia chene conosce ben altri.

(4) Cfr. EGIDI FRANCESCO, in La Scuola Superiore, Anno 111, 3-4; pagg. 48-52, in fine. Esegnaliamolo doverosamente, questo filologo - uno - che non è stato "al ver timido amico"; nonà avuto paura di compromettere la sua serietà .(5) L'allegoria di Dante, Secondo il Pascoli; Bologna Zanichelli, 1922 - Il segreto della Croce e

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dell'Aquila; idem, idem, - La chiave della Divina Commedia; idem, 1926. - Note sul segretodantesco...; in Giorn. dant., I serie, XXVI, 4; II, XXVII, 1; III, XXXIII, 3; IV, XXIX, 4. - Per la Crocee l'Aquila; in Logos, 1924; e in qualche Lectura Dantis.

***

Ma eran tutti di questo parere, i Fedeli d'Amore? Osò niun altro di quei laici, sinchè laico rimase- e del solo Folchetto ricordo un'ecclesiastica assunzione, se pur non fu conversione - pensarealtrettanto per sè? E come mai il Cavalcanti, iniziatore di Dante, abbandonò a un certo puntola partita, e i due amicissimi divennero, in sostanza, nemici? E, quella parola iniziatore, quantaestensione aveva di significati concreti? quanto profondamento nella tradizione iniziatica? Uncui costante cardine in Occidente - dalla alchimia egizio-greca alla arabo-europea - si è che tresiano le umane sostanze psichiche: la lunare-sensitiva, la mercuriale-razionale, lasolare-angelica. Obnubilata e traviata la seconda, dalla prima; avviluppata e generalmentedimenticata la terza, da entrambe le altre. E iniziazione era ammissione a pratiche di liberazionedella minore e della maggior prigionieria. Tritemiano scioglimento dell'uno in tre, aricomposizione del tre in un nuovo uno, dove il predominio sia ormai dell'angelico: del menoremoto della Deità stessa suprema. Se al di sotto si faccia entrare in còmputo il corpo fisico, ese, al disopra, una universal Quintessenza; o se anzi si faccia dell'anima lunare e dellamercuriale un'unica psiche, chiaro risulterà con quanto varie, e apparentemente contraddittorienumerazioni, abbian potuto gli Alchimisti complicare un mistero abbastanza semplice. Ma se,venendo a noi, mi faccio, di tutti cotesti Fedeli citati dal Valli, a ristudiare pazientemente illinguaggio, non trovo sicuri riflessi di ciò, fuorchè appunto nel Cavalcanti (p. 34 e 224).

Cosa m'avien, quand'i' le son presente,ch'i' no la posso a lo 'ntelletto dire:

Veder mi par da la sua labbia uscireuna sì bella donna, che la mente

comprender no la può: chè 'mmantenentene nasce un' altra di bellezza nova;

da la qual, par ch' una stella si muova,e dica: «La salute tua è apparita ».

Si cerchino pure - di questi «versi strani» quant'altri mai - interpretazioni le più varie possibili; lapiù immediatamente adesiva sarà ormai questa sola: che dal corpo fisico si sprigiona l'animalunare, e da questa la mercuriale: da cui eromperà ultima l'angelica stella cavalcà ntea, moltoanaloga all' «angelica farfalla» di Dante. E moltissimi invero i riflessi di carattere iniziatico,rintracciabili anche nel sommo nostro Vate: specialmente nel suo Fiore (6), nella Vita Nova, nelConvivio e in qualcuna delle Epistolae, nonchè magari delle Eclogae. Però nessuna sicuraallusione, mai, a qualcuno di quei caratteristici fenomeni concreti, inconfondibilmente saltantiagli occhi, dove siano anche rarissimi e inattesi, come per esempio nel Don Chisciotte. O,meglio, uno di essi, sì, anche in Dante: ma proprio nel Fiore, e poi mai più: e riguardante unacosa subito nota ad ogni primo avviato ai tentativi della Grande Opera. Poi stranissimo, sì,anche il fatto del non esserci quasi stucco nella pitagorica Basilica di Porta Maggiore (7), chenon sia commentabile con qualche verso della Divina Comedia; stupefacentissima lacoincidenza che quasi al centro di questa stia un dantesco ratto alla Ganimede come, nel belmezzo del central soffitto di quella, si è dianzi, di quel ratto, riscoperto lo stucco. Ma insomma,qui e quasi ovunque, non altro che riflessi dottrinali: evidentemente attinti da buona fonte, manon mai intarsiati d'una qualche concretezza di personali esperienze; simbologie, molte; realtà specifiche, quasi mai nulla. Temperamento enormemente passionale, finì forse a sgomentarsiperfino lui, degli anche sconcertanti fenomeni, a cui dovette probabilissimamente dar luogo losprigionamento dell'anima lunare, e dei quali potrebb'esser riverbero la men castigata parte delFiore. Spirito orgogliosissimo, forse più ancora s'impazientì e irritò d'un troppo lungo durared'alternative incessanti; e riputò più savio il rinnegare la Beatrice sua prima, per la filosoficaDonna Gentile. E quando a Beatrice tornò, se la era rifoggiata a suo modo: la aveva

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ortodossissimamente teologizzata e cattolicizzata, facendo parte per sè stesso anche in ciò; efece indubbiamente cosa personalmente bellissima. Però? Però, ecco:

Guardaci ben! Ben sem, ben sem Beatrice.

Stranissimo verso, che mai più gli si sarebbe neanche affacciato alla mente per quegli istantidivini, se qualche dubbio su quella reale identità , non fosse, talvolta, andata turbando anche lui.Odiosa, poi, quasi stupidamente, la paternale che subito ei si fa rifilare da Lei, se non gli fossepremuto di giustificarsi e riautenticarsi presso terzi, che non tutti gli vollero ancor credere,nonostante tutto. Sin dove gli credettero il Boccaccio e il Petrarca? Sui quali due, i non moltiaccenni del Valli sono quasi più impressionanti che gran parte di tutto il resto; ma ben altrorimane ancora a scavare da entrambi: specialmente dal Filòcolo e dal Bucolicon del primo,nonchè dal Secretum e dalle Epistolae del secondo. Fra quelli che intanto a Dante non vollerocredere, fu proprio quell'Ascolano che - rinascituro Bruno? - preferì giungere, per la Donna sua,al papato del Rogo. Per lui (p. 257), nè Dante divinizzò mai il suo corpo (mai lo rese albergo estrumento di liberata anima angelica), nè mai fu in Paradiso con quella sua Beatrice; fu, sì giù ininferno e in purgatorio; ma,

fondando li soi pedi - en basso centro,là lo condusse - la sua fede poca,e so ch'a noi - non fe' mai ritorno.

Bellìssima cosa, che un inferno e un purgatorio iniziatici li abbia percorsi anche un Dante;bruttissima, che, proprio il paradiso, si riducesse per fede poca a cercarselo altrove. Ma, se cosìè, cosa farci? Nulla da vantarsene più del giusto, e nulla da rammaricarsene più del dovere;verità da indagarsi con precisa freddezza obiettiva, senza preconcetti di sorta. E, senzapreconcetti di sorta, dimostratissima riesce la risollevata e innovata tesi che tutti in genere iFedeli d'Amore fossero dunque una segreta fratellanza filosofico-religioso-politica: a basicertamente mistiche, non però sempre nè ovunque iniziatiche. Era semplicemente la TradizioneIniziatica, ad attingere, anche tra loro, i più promettenti per acceso cuore, saldi nervi e mentaleequilibrio. Chi avrebbe mai detto, che, dinanzi al proteiforme Guardiano della Soglia,indietreggerebbe un Dante, dove il Cavalcanti era invece passato? Ma neanche questiprecisamenti interessano ancora il Valli. I cui rammodamenti del movimento, alla misticapersiana, non mi sembrano a proposito, che per le esteriorità di dettaglio. Ma neanchestrettamente a proposito mi sembrano i raccostamenti che un dotto storico ecclesiasticoavrebbe piuttosto voluti, con Gioachino da Fiore. Fiore, sì, infatti, anche lui; e, «di spiritoprofetico dotato». Ma sembra che, per quei Gioachimiti, fosse il monaco puro e semplice adover prendere una sia pur ascetica - ma completa, assoluta, esclusiva - direzione dell'Umanità, in tutti quanti i poteri: dal papale all'imperiale, e dal dottrinale all'economico. Non bastanodunque coincidenze di qualche terminologia, e nemmeno comunanze di qualche genericoprogramma a cui accenneremo da ultimo. I Fedeli d'Amore erano, credo, tutti un po' troppo gai,per sognarsi una universale malinconia di quel genere, tra le accese lor rose e i variopinti lorfiori, i lor verdi lauri ed i freschi lor mirti: magari selvaggi talvolta, ma non lungi, mai - non solo inPoliziani, ma neanche in Marsilii Ficini - da chiare acque e da misteriali fontane. E il piùpersonale, e più meritorio sforzo filologico, del Valli? Quello di un ottimo metodo statisticoinduttivo: cercare quale senso, per certe singole ritornanti parole soddisfacesse non in questo oquel passo, ma in tutto un blocco di estratti dagli autori più vari. E, per esempio, à così trovatoche se per Amore di Madonna s'intenda quello della Sapienza Santa, tutto ciò che pareva sìspesso metaforico e artificioso, freddo ed enfatico, diventa appropriato e naturale, caldo ecommosso. Ovvio, d'altronde, che Amore e Madonna significassero anche, talvolta, la stessasegreta fratellanza, o locale o totale. Che, oltre alla morte di errore e peccato con la meretricechiesa dirigente, ci fosse in quelle rime una morte mistica: quella che dagli antichi Misteri passòanche in Paolo (8) e in Agostino, e via via in altri ed in altri, sino a Riccardo da San Vìttore:quella che è rinascita in excessu mentis, e principio d'una superior vita; morte di sensitiva erazional Rachele, per apparizione d'un'angelica Beatrice intuitivi-unitiva; niuna meraviglia più, se

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Dante non ne voglia parlare (Vita Nova, XXVIII) anche perchè «converrebbe essere, me,laudatore di me medesimo ». Che le Donne aventi intelletto d'Amore non erano, dunque, che glistessi occulti condiscepoli della Sapienza Santa; non consta infatti che le vere e proprie donnedi allora, avessero, generalmente, maggior intelletto d'Amore, che poco prima o poco dopo diquei lor strani Fedeli. E così via, per tante e tante interpretazioni novelle, sino a quella che ilpiangere significasse costrizione a simulare; che saluto alludesse a promozione di grado; chepietra sasso, marmo fosse la Chiesa, promiscuamente or corrotta ed or santa, e spessoimprigionante e imprigionata come in sepolcro; donde una luce quasi sempre convincente sulletante rime or petrose, or antipetrose, ed ora insieme l'una cosa con l'altra.(6) D'accordo col Valli - e con egregi assai - in cotesta attribuzione, non posso consentire conloro per la cronologia. Se non giovanilissima, fu certo, il Fiore. primissima opera un po' vastadella futura gran Musa; opera di quando il futuro creatore d'una lingua italiana, si erasemplicemente assunta, anche lui, l'impresa di nobilitare con forme d'una lingua illustre,- colFrancese - il suo dialetto fiorentino: come, per il suo dialetto bolognese, aveva fatto il Guinizelli.Ma, per constatar questo, bisogna tenersi al testo del Fiore così com'è nel manoscritto; e, per ilGuinizelli, alle redazioni più antiche: non già alle man mano sempre più toscanizzate eitalianizzate, dagli stessi successori immediati.

(7) Cfr. CARCOPINO JEROME, La basilique pythagoricienne de la Porte-Majeure; Paris, 1926.Il Carcopino non à però pensato a richiami danteschi.(8) Cfr. testo e rimandi di GUIGNEBERT CH. Quelques remarques sur... le Mystère paulinien(Rev. d'hist. et de philos. relig.; sept-oct. 1928). Ma «rèalisant la vèritè dans d'Amour » (p. 424)[- ??? (IV, IS) -] sono proprio espressioni da prendersi in tutta la forza della felicissimatraduzione novella, se si voglia penetrare anche il recondito legame fra Sapienza e amore inqualsiasi genere di Fedeli d'Amore. Fra i rimandi. cfr. specialmente MACCHIORO VITTORIO,Orfismo e Paolinismo; Montevarchi, Cultura Moderna, 1922; pp. 311.

***

Quali le resistenze ancor possibili? Quelle dei competenti prosuntuosi e pigri: i quali si credonosapientissimi essi soli, e suppongono possibile che un autore di nuova tesi non sia passato eglistesso traverso alle difficoltà, ai dubbi, alle obiezioni che subito si presentano a chiunque, sunon controllate genericità , o in isolati dettagli. E poi quelle dei prima di tutto esteti - e cioè poisensuali: quali più, quali meno - che mal sopportano dedicate ad astrazioni, certe soavimusiche, come "Tanto gentile"; o certe calde scene, come "Guido, vorrei"; o certe realisticheirruenze, come "Così nel mio parlar" (pp. 351-55). E infatti anch'io avrei talvolta voluto escluderedall'allegoricità, divampamenti e fremenze d'una potenza siffatta. Ma chi vieta, anzitutto, chenell'allegoria complessiva siano introdotti episodici riverberi di vita reale e realistica?Non si fanno, anche oggi, opere di tutta invenzione, materiate, qua e là, di vita vissuta eosservata? E che ne sa la moderna mentalità nostra - scientifica e scettica - delle gamme dicarità e di odio, in medievali passioni di tutt'insieme fede-pensiero-politica? O chi negherebbe,a chi realissimo vedrà un suo volo su Gerione, la capacità di rappresentarsi nemica viva epresente, una odiatissirna casta minacemente incombente ovunque e da ovunque? - E poi, nonvedete?

«lo mi vendicherei di più di mille ».

O chi era mai dunque

«questa scherana micidiale e latra »?

questa traditrice di più che mille amanti? una qualche vecchia sgualdrina? E infatti poi, sì:meretrice e omicida, man mano più e più, da ormai un millennio: da «Ahi, Costantin». E alleosservazioni, almeno io, non seppi più che rispondere. Neanche al Valli è invece riuscito diavere «elementi sufficienti » ad «una soluzione defmitiva », per quell'enigma forte delle "Tre

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donne intorno al cor" (395-65). Quante volte stancatavi sopra, anch'io, la mia multisizientecuriosità ! E, altrettante volte, riconosciuto infrangibile quel superbo divieto:

Canzone, a' panni tuoi non ponga uom mano.

E mano dovrebbe infatti, adesso adesso, avercela posta un qualche mio eccelso buon Angelo,poichè semplice, aderentissima, unica, è la spiegazione che mi è qui balenata inattesa. Laeccelsa fra le eccelse canzoni dantesche, non è che una più sublime trasposizione della favoladei Tre anelli. Sorella a quella ormai onnipresente Sapienza che è madre ad Amore, Drittura ècioè la Legge Mosaica, direttamente data da Dio. Su mistico fonte di mistico Nilo, generò essapoi la Religione Cristiana, che procreò, per riflesso, la Metafisica Musulmana. à’ specificatocosì, come ai tempi di Dante lo avrebbe fatto ogni uomo di pensiero; e non mi opporrò nèconsentirò a chi, specificando più ancora, volesse pensare ai tre contenuti esoterici:precabalistico, gnostico, alchimico. Chè tali cose - indistintamente tutte - non mi sembrano chetransitorie maschere della Tradizione Iniziatica, essenzialmente esperienza dapprima econoscenza dappoi; poi, ancora una volta, non credo che, neanche al puro e sempliceunionismo esteriore, si sia mantenuto fedele il maturo Dante definitivissimo. Ma, chel'identificazione di Drittura sia indubbia, risulta anche da quello strano contegno di Amore: piùinteressantesi, persino lui, alle due altre, e, con lei, pietoso, sì, ma anche fello, da quando «perla rotta gonna » (la più sbrindellata lei fra le tre, e la più lontana, per tante ragioni, dalla terza),

la vide in parte che il tacere è bello.

Fellonerìa che pareva insomma un po' trivialuccia, e che diventa semplicemente obiettiva erealistica, in quanto allusiva alla circoncisione. E, identificata l'una, seguono spontaneamente lealtre. E poichè i tre grandi aggregati spirituali - che, figli d'uno stesso Dio, avrebber dovuto esseruno - erano invece nientemeno che ostili, non era davvero possibile più di così, udire al mondo,

... nel parlar divino, consolarsi e dolersi.così alti dispersi.

Ed eran dunque le tre chiese, che anche i Fedeli d'Amore speravano conciliabili in unicasapienzial Chiesa d'Amore. Non forse, alla corte del lor Federico, se ne eran date superiorconvegno le tre civiltà ? E anche frate Elia vi si era un dì rifugiato. Onde, qui sì, potevano - inquesto programma pratico - veramente allearsi e confluire i più vari indirizzi: a tendenze siaeretiche che ortodosse, a programmi sì ascetici che attivi, a riti tanto greci quanto latini, aorganizzazioni vuoi monacali o vuoi laiche, e, forse primi fra tutti, i francescani in genere e igioachimiti in ispecie - donde, più addietro, un inciso non previsto nella mia prima stesura -; ma,quasi al centro di tutti non tanto per intima vita specifica, quanto per episodico programma dioccasionale beneficità anche, sì, la Tradizione Iniziatica. Niente bisogno di giungere al Pico, alReuklin, al Kunrath; basta già allora, per tutti, Raimondo Lullo - cotesto infaticabile eimmarcescibile atleta di tante e sì varie battaglie - il quale, proprio in quegli anni e per quellaunione (9), percorreva e moveva terre e mari; ma non riusciva a smovere nè un papa nè unaltro nè ancora un altro, sinchè, per il suo unicattolico sogno, trovava, ottantatreenne, lo sfidatoe risfidato martirio.Tutte cose, mi pare, che definitivamente troncano la testa al toro, se pur qualche vèrtebracervicale potesse ancora resistere, in cotesto sfiancatello toro della opposizione antivalliana.Sfiancato che non fosse, pessime ausiliarie sarebbero alla battaglia, certe iniziatiche recensionicome quella, fresca fresca, di Voile d'Isis. Nella quale, sùbito Renè Guènon riconosce alvolume del Valli «une documentation formidable» (109), ma, non meno subito, al Vallirimprovera «de n'avoir pas la mentalitè initiatique qui convient » (110). Cosa per cui, tanti erroriavrebbe il Valli commessi: - 1° non essersi accorto che il guenoniano Esotèrisme de Dante (ionon l'ò letto ancora) à una portata «proprement initiatique» (111); - 2° aver creduto il Rossettiappartenente a quei Rosa-Croce che erano invece assai prima spariti dal mondo... occidentale;proprio così: «du monde occidental » (111). Come se gli aurei Anelli Iniziatici non fasciassero

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ormai più tutta quanta la Terra, magari allargandosi a tutto il cosmo planetario-solare: per chi,anche così, se ne contenti; - 3° non aver capito i veri significati di tradizionale (per quella che franoi è oggi la tradizionale interpretazione dantesca), nè di cuore in genere e di cuor gentile inspecie (110-11); - 4° aver creduto autori autorevoli un Mead, un Saunier, un Taxil (così infascio) e aver citato di seconda mano un segreto Recueil non potuto citare di prima (111-12); -5° aver, in conclusione, mescolato «l' èsotèrique et l' exotèrique» (112), confuso i punti di vistainitiatique e mystique, e assimilato le cose iniziatiche «à une doctrine religieuse» (113).Fortunatamente il Guènon passa subito ad asserire che «une tradition vraiment initiatique nepeut pas etre hètèrodoxe». Consolantissimo evento. Il Guènon si riconferma, cioè, di quei tali -rispettabilissimi - occultisti spiccatamente francesi, che non contenti di accaparrarsi un veroiniziatismo propio, fabbricano anche un vero ortodossismo agli ortodossi, per poi trionfalmenteconcluderne le ortodossie di cui sopra. Ed è inutile perseguire l'egregio critico su queste vie,dietro ad appunti, appuntucci e appunterelli, fatti con pur evidenti intenzioni di simpatia. Il Vallinon à bisogno che glie lo dica io, di non lasciarsi impressionare da coteste lezioncelleimportune. Continui, in una seconda edizione, cioè che gli è benissimo riuscito nella prima.Riduca magari, ancor più, la pur già discreta e sempre dignitosa polemica, e poi faccia pursempre e soltanto opera di critico puro, di storico puro, di puro esegeta. Fin dove arrivasserogl'intenti eretici, e donde venissero le riconnessioni iniziatiche, le son cose che debbonosbocciare, man mano, da sè. E quando un K, che fra altre iniziali di medaglia volevaprobabilissimamente dire Katholicus, glie lo si voglia far leggere Kadosch (119), si riservi pure ildiritto di chiedere, non dico il diploma originale, ma una qualsiasi ragione che elimini glianacronismi. Il che non vuole affatto dire che il Guènon non sia un iniziato e magari un Adepto -ancora una confusione rimproverata (112) - ma ch'egli potrebbe semplicemente far a meno dicogliere ogni occasione per riasserire che, iniziato, egli lo è, ma che gli altri occidentali ingenere, e certi suoi nemici in ispecie - a scanso di equivoci, non mi consta affatto che mi sianopunto amici - hè, poveretti! quelli, no, non lo sono; sicchè, «pour une fois» o una volta tanto,contro cotesti odiati nèognostiques, perfino «la critique (quella profana) a raison» (117, nota).Non si potrebbe, tra noi fuori-soglia, sulla soglia, a mezza soglia, smetterla una buona volta diguardarsi in cagnesco? e credere, invece, che anche nel mondo iniziatico ci sia posto per tuttele buone volontà ? che tutte le strade conducono proverbialmente qui a Roma? - Roma e Amor,sì (113-14), ma anche (Vergilius) Maro, e anche Orma (10) -? E badare ognuno, per contoproprio, a fare quei tanti passi innanzi che non guastano mai - nè mai sono troppi - pur nessuno.E agli altri, augurare che magari ci sorpassino - e così pur fosse che molti ci sorpassassero -per il gran meglio di loro, e di tutti.Con sollievo si può quindi ripensare a un'analoga recensione ormai vecchia e con indirizzimagari affini, ma di tutt'altro tono (11). Italiana, questa, e rispecchiante una iniziatica culturaamplissima, occidentalissima, e senza toni maggiori su noterelle minori. Basata talvolta su queidottrinali raffronti a cui mi duole di non poter dare altrettanta importanza, ma anche insistente,più spesso, su utili dettagli, quasi sempre documentabili.

(9) Cfr. Dr. LUCIEN - GRAUX, Le Docteur llluminè; Paris, Fayard, 1927; un ben informato ecomplessivamente assai cauto lavoro,(10) Un ORMA in cui son certo che "O" non vuoi dire nè Occidente nè Oriente - nè grande nèpiccolo - ma per la cui "R" ò un vago sospetto di riferibilità a quei Rosa-Croce che il Guènoncrede rifugiati in ...oriente.(11) PIETRO NEGRI, Il linguaggio segreto..; nella rivista romana UR, anno II (1928), fasc. 3-4,pp. 71-80.

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4) A cura di P. Negri

Luigi Valli e il Gruppo di Ur

Luigi Valli fu un attento lettore della rivista Ur. Nel I vol. della sua opera principale "Il LinguaggioSegreto di Dante e dei Fedeli d'Amore", cap. 9, cita ad es. il saggio "Un codice alchemicoitaliano" di Pietro Negri (Ur I/9). Il saggio che qui riportiamo, intitolato "Testimonianze diStudiosi delle Tradizioni", si trova invece nel II vol. della medesima opera. In esso, oltre agliinterventi sulla sua opera di Pietro Negri, Ercole Quadrelli e Renè Guenon, sono consideratianche quelli di Antonio Bruers e Sebastiano Arturo Luciani.Antonio Bruers (Bologna 1887-Roma 1957), segretario di Gabriele d'Annunzio, ricoprì lecariche di vicecancelliere dell'Accademia d'Italia e poi dell'Accademia dei Lincei. Fu redattorecapo dal 1908 e poi direttore (1931-1939) della rivista di ricerca psichica "Luce e Ombra", oveconobbe, tra gli altri, Emilio Servadio. Oltre a molte opere su D'Annunzio e sulla letteraturaitaliana e straniera, scrisse opere su Vico, Croce, Beethoven, Mozart, Vivaldi. Si interessò inparticolare a Tommaso Campanella: è infatti il curatore dell'opera "Del senso delle cose e dellamagia", Laterza 1925 e autore dei saggi "Per il monumento a Tommaso Campanella in Stilo"Roma S.A.P.I. 1922 e "Roma nel pensiero di Tommaso Campanella", Istituto di studi romani1940. Frequentò Ercole Quadrelli. Fece parte del Gruppo dei Romanisti, una vera comunità di"Vestali" della memoria dell'Urbe, che ne ravviva il fuoco dal 1940 a tutt'oggi. Tra le altreiniziative, è consuetudine che durante la cerimonia che si svolge il 21 Aprile in Campidoglio perla celebrazione del Natale di Roma, ricorra la presentazione al Sindaco delle prima copiadell'annuario la "Strenna dei Romanisti", un volume, ogni anno nuovo, di scritti su Roma, relativialla sua storia, alla sua arte, ai suoi personaggi.Rispondendo a Vittorio Fincati (messaggio n° 190 di questo forum), diremo che è a questo"Natale", che cade nel segno dell'ariete, e non al Natale a noi abituale, che Ekatlos si riferiscenel saggio apparso nel 1929 su Krur.Sebastiano Arturo Luciani (Acquaviva 1884-1959), figlio del fisico Michele Luciani, vissesoprattutto a Roma, si occupò di arte, letteratura, filosofia, scrivendo alcune centinaia tra libri earticoli pubblicati in quotidiani e riviste. E' probabilmente da considerarsi il primo critico italianodel cinema. Fu tra i firmatari di uno dei manifesti del futurismo "Le sintesi visive della musica"(1924). Esperto musicologo suscitò particolare interesse con la sua nota "Una nuovainterpretazione del fenomeno degli armonici" del 1913, «nella quale per la prima volta laassonanza è considerata come base naturale di tutta l 'armonia e della tecnica musicale anticae moderna» (A. De Angelis). Studiò e praticò la falconeria, producendo scritti come "Dantefalconiere", "Il trattato di falconeria dell 'imperatore Federico II", "La caccia col falcone". Scrisse su Dante Alighieri anche "Leggere Dante" e "Saggi sulla Divina Commedia".

4a) LUIGI VALLI

TESTIMONIANZE DI STUDIOSI DELLE TRADIZIONI

Molte altre testimonianze mi sono venute naturalmente da coloro che, pur occupandosi diletteratura, non hanno disprezzato sistematicamente, come si usa nelle scuole, gli strati piùprofondi del pensiero che molte volte la letteratura nasconde.Pongo primo tra questi Antonio Bruers (Dolce stil nuovo, Il Lavoro d'Italia, 30 dicembre 1927).

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Egli è tra coloro che hanno dato alla mia tesi l'appoggio di una approvazione molto calda emolto autorevole. Dirò di più, egli ricorda nel suo articolo di avere augurato dopo lapubblicazione del mio libro « Il segreto della Croce e dell'Aquila nella Divina Commedia » che ioapprofondissi le opere rossettiane che egli, a differenza della enorme maggioranza dei nostriletterati, aveva lette. Devo in realtà a lui l'essermi accostato al Rossetti e mi è caroriconfermargli qui la mia gratitudine per il suo prezioso consiglio. Il Bruers espone un dubbiosulla eccessività della mia tesi simbolica e scrive: «Il Valli, afferrato e quasi rapito dalla suamirabile scoperta, tenderebbe ad escludere, in una misura che mi sembra eccessiva, i valoripoetici dei Fedeli d'Amore., valori che a mio parere, si identificano nelle figurazioni femminili enaturali ». Riconosco volentieri che il problema del quanto di donna vera o meglio di vereimpressioni amorose e terrene sia rimasto nella poesia dei Fedeli d'Amore, è problema nonfacile a risolversi con precisione assoluta. Secondo me (come secondo ìl Perez) quando Dantenella Vita Nuova dice che i poeti devono rimare su materia amorosa, questa "materia" ècontrapposta alla "forma" nel senso scolastico. La materia amorosa (cioè i ricordi, leimpressioni, le parole dell'amore) costituivano, diremmo noi, il materiale al quale l'idea iniziaticadava forma, col quale cioè costruiva la vera poesia. Ora io non ho mai negato (Il LinguaggioSegreto, pag. 417 e seg.) che questa gente sia stata innamorata, il che vuol dire che la materiaamorosa l'abbia tratta da esperienza diretta e personale oltre che da ricordi letterari e daimitazione di altri. Ma quando era esperienza personale e quando ricordo letterario eimitazione? Difficile dirlo ed è cosa da sentire caso per caso. E certo che Dante nel suo sonetto «Guido vorrei» esprimeva un'idea segreta (come dimostrano la risposta di Guido e il momentoin cui i sonetti sono scambiati) ma è ugualmente certo che l'idea gli è venuta da un vero sospiroche deve aver fatto un giorno sognando una passeggiata in barca con amici e donne gentili,come, per qnanto abbia adombrato il saluto rituale (cantato dagli altri poeti del dolce sti1 nuovoe da essi soli) nel sonetto «Tanto gentile », il sonetto è nato, come io ho già scritto, da un'impressione vera di adorazione per una bella donna che passava pel via tra l'ammirazionecommossa di tutti.Io non escludo dunque la presenza di donne vere e non escludo che in qualche caso si siaavuto lo spunto da ispirazioni realistiche immediate, impressioni d'amore che poi la convenzionemistica o il pensiero segreto informò di sè. Ma non solo l'ispirazione diretta subì l'elaborazionedel pensiero convenzionale, ma per la maggior parte dei casi la presenza di questa ispirazionediretta non appare menomamente e l'evidente convenzionalismo testimonia che si elaboravanoelementi letterari.Un altro dei pochi che non arrivano completamente nuovi a questo argomento è S. A. Luciani(Dolce stil nuovo, Tribuna, 22 febbraio 1928). La conoscenza che egli ha dei precedenti gli fatrovare naturalmente la mia tesi molto ovvia. Dopo riassunte le mie idee egli scrive: "Da quantosi è appena accennato si può facilmente argomentare quale importanza oltre che letteraria,filosofica e storica abbia il 'Linguaggio' del Valli, libro geniale e suggestivo, che può esserel'inizio di una nuova e più esatta valutazione di tutta l'arte del Medio Evo". Egli fa due riserve,l'una sulla possibilità . che la Pietra sia una donna reale (ma di questo non dà nessunargomento), l'altra sulla possibilità che ci possano essere poesie originariamente erotiche,ridotte poi a significato mistico, cosa che io sono lontano dal negare in modo assoluto: per ilfamoso sonetto «Tanto gentile » la mia tesi è molto simile alla sua. Importante e lucidissima misembra la formula riassuntiva del Luciani , secondo la quale «si tratta qui come in tutta l'artemedioevale della incarnazione di una idea, non della idealizzazione di una realtà». Egli concludeaccennando ad eventuali attenuazioni della mia tesi: «Il Valli ha dato in realtà un colpo ditimone troppo brusco alla nave della critica ufficiale, perchè essa non dovesse sbandarsi. àˆcosa' inevitabile tuttavia che questa nave muti rotta una buona volta ».Pietro Negri ('Ur' Marzo 1928) è un profondo conoscitore di tradizioni. Considera il mio librocome uno spezzone di gelatina. gettato in mezzo alle solite idee della scuola e mi indica, comeargomentazioni nuove, alcuni ricollegamenti abbastanza importanti per quanto poco noti, di fattie di idee del mondo iniziatico. Certo è importantissimo, a proposito del ricollegamento posto dalRossetti tra l'amor platonico del Medioevo e gli antichi nùsteri, il fatto che la Rosa sia anche nellibro di edificazione iniziatica di Apuleio quella che deve salvare l'uomo imbestiato e che siaappunto la mèta di tutta la sua avventurosa ricerca, la quale rappresenta indiscutibilmente la

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rigenerazione spirituale coronata dalla iniziazione. Il Negri ritiene con me che il Rossetti siastato condotto alla sua interpretazione dalla conoscenza di antiche tradizioni. «Il Misterodell'amor platolonico» del Rossetti non è dedicato come gli par di ricordare a un B. L. chesarebbe Bulwer Lytton, erudito di esolerismo, bensì a un S... K. . . Questi è Seymour Kirkup cheera però anche lui un erudito di esoterlsmo (I). Ritengo notevolmente importanti anche i moltiraffronti che egli fa del simbolismo dei Fedeli d'Amore con quello che era diffuso in altrimovimenti iniziatici e specialmente nell'alchimia. Tornerò io stesso sulla importanza del raffrontotra la figura del 'rebis' alchemico da lui riesumata e la figura «moglier e marito» di Francescoda Barberino.

(I) Dall'epistolario ancora inedito del Rossetti si può rilevare che mentre Hookam Freer cheaveva dato il danaro per la stampa del 'Mistero dell'Amor Platonico' ne chiese poi ladistruzione, il Rossetti chiedeva al Seymour Kirkup che evitasse questo disastro. Per alcuni anniil libro fu tenuto in casa Rossetti e non diffuso. Morti il Rossetti e i due suoi amici, altri persuasela vedova Rossetti a distruggerlo.

Ercole Quadrelli (Progresso Religioso, marzo 1929) non solo ha accolto con grande fervore lamia interpretazione, ma ha vivacemente polemizzato contro qualcuno dei miei oppositori dellatradizione scolastica e col Guenon al quale rimprovera di fabbricare una ortodossia iniziaticaartificiosa per suo conto, ma io desidero soprattutto di fissare un emendamento che egli haproposto a una mia interpretazione e che mi sembra ottimo. Cecco d'Ascoli nel suo sonetto a Dante scrive:

Usa cautela e spesso la ricapita,e sappiti mostrar Francesco e Rodico.Va, come ti convien, diritto e clodico.

Capiterai, come quei che ben capita. . .

E evidente che qui il consiglio è di usare per prudenza un linguaggio o una condotta doppia.Posta la lotta tra i 'franceschi' (di Filippo il Bello) ed i Templari avevo immaginato che quelRodico potesse alludere a Rodi invece della vicina Cipro, sede dei Templari. Il Quadrelli mi faosservare che Rodico potrebbe benissimo ricollegarsi invece. a 'ròdon' (Rosa) e quindisignificare semplicemente 'seguace della Rosa'. L'interpretazione è molto più chiara e piùragionevole della mia e merita senz'altro di sostituirla.R. Guenon, studioso ben noto delle tradizioni iniziatiche, ha dedicato al mio libro un lungoarticolo nella rivista Le Voile d'Isis (fèvrier 1929). Egli è l'autore del libretto 'L'esoterismo didante' (Paris 1925). E' naturale che egli consenta con me perchè da lungo tempo le tradizioniiniziatiche avevano rivendicato a sè Dante e i Fedeli d'Amore, io anzi ho espresso il dubbio cheil Rossetti, che ebbe le prime idee sul contenuto segreto dell'opera di Dante a Malta, dove eraentrato in rapporto con un gruppo di Rosa-Croce, abbia avuto da loro notizia di questi contenutisegreti che poi ricercò più o meno disordinatamente per via critica. Il Guenon trova che la miaargomentazione è basata su testi precisi che ne costituiscono tutto il valore e riconoscendo lasolidità del mio metodo e l'importanza della mia dimostrazione, mi espone cortesemente alcuneobbiezioni e alcune conferme. Le obbiezioni si concretano in questo, che io parlo un linguaggioinesatto quando mi riferisco alle tradizioni iniziatiche perchè non le conosco.E' verissimo. Non ho mai avuto contatti con tradizioni iniziatiche di nessun genere. La miaformazione spirituale e mentale è nettamente critica e finchè il Pascoli e il Rossetti non mihanno aperto gli occhi, la tradizione scolastica era riuscita a impormi le sue interpretazioni. Madebbo dichiarare che io insisto nel tenermi al mio metodo critico e storico. La mia frase 'far lastoria per la storia' che al Guenon dispiace, è semplicemente l'insegna di un metodo criticopositivo e il fatto che i grandi spiriti del Medioevo dei quali io mi occupo agissero diversamente,come egli mi ricorda, non mi tange appunto perchè essi erano uomini del Medioevo e io sono unuomo del secolo xx.Può anche darsi, come egli dice, che il Rossetti non possa essere stato Rosa-Croce "perchè iveri Rosa-Croce erano spariti dal mondo occidentale assai prima ", ma ognuno comprende che

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questi problemi interni delle tradizioni iniziatiche, chi siano i Rosa-Croce veri e chi i falsi,rappresentano per me problemi secondari e quasi insolubili. Riconosco perfettamente che allachiarificazione di tutto il problema che io ho posto sarà utilissimo il concorso di coloro cheseguono quelle tradizioni; però se io prima di citare uno o un altro storico di tradizioni occultedovessi aspettare da non so quale autorità la lista degli storici accettati e non accettati,ortodossi e non orlodossi, credo che il mio lavoro non potrebbe mai andare avanti. So di certoche c'è della gente che si dà il titolo di Rosa-Croce anche oggi. Anche chi sa pochissimo degliambienti iniziatici sa che in essi ogni gruppo si attribuisce il titolo di ortodosso e di eredelegittimo vero ed unico dell'antichissima tradizione. Ecco perchè non ci troviamo d'accordosull'uso della stessa parola ortodosso, che per me naturalmente significa la dottrina della Chiesadi Roma e per il Guenon significa altra cosa. Sono quelle "mèprises que les profanes manquentrarement de commettre" come egli dice ed io riconosco che, essendo profano, parloevidentemente un linguaggio diverso dal suo; ma dove non posso consentire è là dov'egli diceche io faccio una confusione tra punto di vista mistico, e punto di vista 'iniziatico'. Non so daquali mie parole possa essere sorto questo equivoco. La confusione sarebbe stata certo grave,perchè tutti sanno quanto misticismo niente affatto iniziatico abbia pervaso il Cristianesimo e ilCattolicismo.Ma il Guenon accenna a molti fatti che possono affiancare la mia argomentazione, alcuni deiquali non privi d'importanza, per esempio quello che non soltanto nel titolo di Rosa Mystica maanche sotto altri aspetti la Vergine è stata avvicinata alla figura della Sapienza e con essaconfusa. Altra nota importante: a proposito della terza novella del Boccaccio nella qualeMelchissedec afferma con la parabola dei tre anelli che tra Giudaismo, Cristianesimo eIslamismo 'nessuno conosce quale sia la vera fede', egli mi dice che secondo la tradizioneiniziatica Melchissedec sarebbe appunto il rappresentante della tradizione unica nascosta sottotutte queste forme esteriori. Mi ricorda, a proposito dei probabili rapporti fra i Fedeli d'Amore e iTemplari, che il grido di guerra dei Templari era 'Vive Dieu Saint Amour!'.Naturalmente non posso che consentire col Guenon quando egli accenna ai moltissimi puntidella mia trattazione che avrebbero bisogno di ben altro sviluppo.Concludo. L'incontro delle mie constatazioni con quelle di qualche tradizione iniziatica è incontrodi due ordini di pensieri che vengono da vie diverse, con diversi intenti, con diversissimavalutazione forse dei fatti storici che si hanno sott'occhio. Mi compiaccio delle concordanze suifatti, mi spiego le discrepanze sui termini e sui giudizi, sono ben lieto di apprendere dati di fattonuovi, continuo nel mio metodo e nel mio intento che è puramente storico. Cosi quando ilGuenon, accennando anche alla mia scoperta delle simmetrie della Croce e dell' Aquila e aquesto venire alla luce del segreto di Dante dopo sei secoli, dice che questo è accaduto "parcequ'il ètait prèvu que le secret devait etre gardè pendant six siècles (le Naros chaldèen)", io permio conto continuo a credere che la cosa si vada chiarendo oggi soltanto perchè oggi l'abbiamostudiata senza preconcetti, con molto più materiale a disposizione e con buon metodo.

5) Per Una Determinazione Del Significato Anagogico

Tullio Quasimodo: Ritengo che uno dei nodi da sciogliere, riguardo alla dottrina dei Fedelid'Amore, è decidere a che cosa si riferisca esattamente il significato anagogico e perciòiniziatico delle loro opere. Mi sembra infatti che i vari studiosi, riguardo a questo più alto livello disignificato (e perciò non considerando altri significati di livello più basso come ad es. ilsignificato etico-politico), abbiano sostanzialmente suggerito le seguenti soluzioni:a) il linguaggio "amoroso" dei Fedeli d'Amore nasconde delle pratiche esoteriche genericamente

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concepite e perciò non necessariamente basate sull'uso iniziatico dell'amore.b) il linguaggio "amoroso" indica proprio l'uso iniziatico dell'amore, ma inteso quale "amorplatonico", cioè senza contatto fisico. Per intenderci si tratterebbe di pratiche analoghe a quelleindicate nel primo dei due saggi di Abraxa, dedicati alle "operazioni a due vasi".c) il linguaggio amoroso indica l'uso iniziatico dell'amore richiedente il contatto fisico, comeavviene per le pratiche del secondo saggio di Abraxa.d) il linguaggio amoroso ha più significati iniziatici tra quelli citati, ad es. b) e c) o addirittura a),b) e c).EA: Penso non vi sia alcuna difficoltà ad ammettere tutti e tre i significati anagogicisuggeriti (cioè la soluzione d=a+b+c). Riguardo al primo, si può notare che la pratica esotericaha degli aspetti comuni, qualunque sia la metodologia adoperata, aspetti che perciò si ritrovanosempre in qualunque scritto esoterico. Tuttavia la scelta di un linguaggio amoroso come gergonon può essere casuale. Infatti altri linguaggi tradizionalmente usati (e perciò collaudati)nell'esprimere contenuti esoterici erano a disposizione, a es. il linguaggio epico e mitologico.Perciò l'uso del linguaggio amoroso si spiega con la necessità di utilizzare (pena un'eccessivavaghezza di significato) espressioni non troppo diverse dalla metodologia effettivamenteutilizzata. Riguardo a quest'ultima, tutte le tradizioni esoteriche indicano che, dal punto di vistadell'esperienza interiore, non vi è sostanziale differenza tra le pratiche senza o con contattofisico, così che i testi relativi (non solo quelli dei Fedeli d'Amore) sono applicabili ad entrambe.Tuttavia, dato il periodo storico (dominato dal cattolicesimo exoterico e sessuofobico) e levicissitudini politiche alle quali furono soggetti diversi rappresentanti di questa corrente (acominciare da Dante), reputo non facili pratiche sistematiche con contatto fisico e perciò ritengoche siano state prevalenti quelle senza contatto fisico. Frater Petrus: Come mai nonostante i numerosissimi studi su Dante e le molteplici "chiavi dellaDivina Commedia", proposte da illustri commentatori, la principale opera di Dante rimaneancora, per molti studiosi, un enigma?Il più esoterico tra i grandi commentatori, e cioè Gabriele Rossetti (1), aveva soprattutto comeobiettivo di mostrare agli scettici come nell'opera dantesca vi fossero degli evidenti influssi degliambienti iniziatici. In ciò egli è pienamente riuscito e le conferme venute poi da altri autori, comelo stesso R.Guenon, non aggiungono proprio nulla alle argomentazioni di Rossetti, nè i loroopuscoli sono lontanamente paragonabili alle monumentali opere del Nostro. Questi tuttavia nonvolle o forse non ebbe tempo di affrontare direttamente il significato più intimo della Commedia.

Luigi Valli, dal canto suo, sulle orme di Rossetti, ma anche di Giovanni Pascoli, illustrò sì delleimportanti simmetrie, ma più idonee a disvelare i risvolti politico-religiosi dell'opera, che nonquelli esoterici propriamente detti. Valli, infatti, pur geniale nelle sue intuizioni e meticoloso neisuoi studi, disponeva più di uno "sguardo" religioso che esoterico. Un autore piuttosto trascurato e che meriterebbe maggiore attenzione è Pietro Magistretti, unodei primi membri della Società Storica Lombarda, che individuò nei simboli del "Fuoco" e della"Luce" un aspetto essenziale della Commedia, giacchè come egli stesso dice, nella prefazionedella sua opera principale (2), "ove si sottraessero alla Divina Commedia la luce e il calore, essane morrebbe, per così dire, come l'albero cui fossero tolti tali elementi che l'aria gli trasmette".

(1) Gabriele Rossetti [Vasto (Chieti), 28 febbraio 1783 - Londra, 26 aprile 1854] non è daconfondersi con il figlio Dante Gabriel Rossetti (Londra 1828 - Birchington 1882) fondatore dellaFratellanza Preraffaelita.(2) P. Magistretti, Il Fuoco e La Luce nella Divina Commedia, Milano - Dumolard, 1888.

EA: In relazione agli studi sui Fedeli d'Amore, e agli studiosi un po' dimenticati, D. di Mambro ,che saluto, mi ha giustamente ricordato il nome di Carlo Vecchione, le cui opere sono citateanche da Gabriele Rossetti. Attualmente una di esse, Della Sapienza Riposta Della LetteraturaAntica Seguita Da Dante, Napoli 1850, viene pubblicata gradualmente per capitoli, con una notaintroduttiva di G.Lo Monaco, all'indirizzo Internet: http://it.geocities.com/tidelar/Introduzionesr.htmSe Pietro Magistretti ha evidenziato l'importanza de "Il fuoco e la Luce nella Divina Commedia",

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Guglielmo Bilancioni ha sottolineato la corrispondente importanza del suono, nel suo studio "ABuon Cantor Buon Citarista", Formiggini, Roma, 1932.Sagittario: Per quanto riguarda in specifico la Divina Commedia, si può anche dire,analogamente a quel che si è già detto in questo forum per l'Apocalisse, che essa sia un libromagico, veicolo di una duplice magia: se si considerano gli episodi narrati come situati nel"tempo sacro" è la descrizione di un itinerario interiore. Se si considerano, invece, situatiall'epoca di Dante, allora le apparenti profezie sono altrettanti sortilegi, atti al ripristino di uncerto tipo di tradizione. Sortilegi che gli studiosi di Dante, consapevolmente oinconsapevolmente, alimentano e rinnovano, come una vera e propria ininterrotta catena dimaghi, operante dall'epoca di Alighieri ad oggi. [n.d.u. : Questo tema è stato approfondito da Sipex nel suo "Quadro Generale dellaCommedia": vedi, in questo stesso quaderno, la sezione 7.]Quirino_Spqr: Da tutti gli autori, che abbiamo riletto assieme finora, viene semplicementeaffermata o confermata l'esistenza di un generico significato anagogico, nelle opere dei Fedelid'Amore. Il primo autore che abbia fatto un passo oltre è probabilmente J. Evola, che hacollegato il significato anagogico a pratiche inerenti la Metafisica del Sesso. Dalla suaopera omonima, trascrivo il seguente brano. Qualche perplessità mi ha destato la frase "Ilsignificato del nove è di essere la prima potenza del tre; quello dell'ottantuno, è di esserne lapotenza perfetta (33)". Penso si tratti di un refuso di stampa e che si possa correggere la frase(eliminando la parentesi) in "Il significato del nove è di essere la prima potenza del tre; quellodell'ottantuno, è di esserne la potenza perfetta".

5a) J. EVOLA

Da Metafisica del Sesso:

"Sulle esperienze iniziatiche dei FEDELI d'AMORE"

“…L'affiorare della donna iniziatica attraverso quella reale è chiaramente esposto in alcunerime di Guido Cavalcanti, il quale sembra essere stato uno dei capi principalidell'organizzazione: “Veder mi pare da le sue labra uscire – una sì bella donna, che la mente –comprender non la può; che ‘nmantinente – ne nasce un'altra di bellezza nuova – da la qual parch'una stella si muova – e dice: la saluta tua è apparita” Sia Cavalcanti, sia Dante sia Cino daPistoia dicono essere “per la virtù che li dava la mia immaginazione”, cioè attraverso il fattoevocativo di cui si è parlato, che Amore prende dominio sull'anima del suo fedele. Va poirilevata l'anfibologia semantica propria ai termini salute e saluto in quasi tutta la poesia dello StilNovo. Il saluto della misteriosa donna, indicato quale il fine dell'amore, sempre di nuovo è taleda conferire anche la salute a chi lo riceve; esso, cioè, propizia una esperienza e provoca unacrisi delle quali può procedere la salute in senso spirituale, per un suo potere che mette allaprova la forza di chi l'ottiene e che spesso perfino la eccede. Dante dice appunto: “Qual soffriredi starla a vedere – diverrà nobil cosa, o si morria – e quando trova alcun degno che sia – diveder lei, quei prova sia virtude;- che gli avvien ciò che dona salute”. Si può riportare allo stessocontesto la visione, nella quale Amore si presenta nei tratti inconsueti, tutt'altro che arcaici esentimentali, di un Signore di pauroso aspetto. Nelle sue braccia, dice Dante “mi parea divedere una persona dormire nuda, salvo che involta mi parea in un drappo sanguignoleggermente; la quale io riguardando…conobbi che era la donna della salute, la quale mi avevail giorno innanzi degnato di salutare”. Attivare attraverso l'amore questa donna vista nuda edormente, cioè latente – è quella che i testi ermetici chiamano la “nostra Eva occulta” – significalasciar agire su sé un potere capace di uccidere, di provocare la morte iniziatica. Il temaricorrente fino alla monotonia in tutta questa letteratura è che all'apparire della donna nellamente il cuore è morto. Al veder la donna e al riceverne il saluto Lapo Gianni dice “Allora mirafforzai per non cadere – il cor divenne morto, ch'era vivo”. Guido Guinzinelli parla di un saluto

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e di uno sguardo mortali e si paragona a colui che “sua morte vide. – Per gli occhi passa, comefa lo tuono, che ferisce per la finestra de la torre, - e ciò che dentro trova, spezza o fende”Amore mette in guardia chi vuole vedere la donna, dicendo “Fuggi, se ‘l perir t'è noia”. In unatale esperienza non si deve dunque temere la morte; una profonda frattura interiore può essereinfatti la conseguenza. Una canzone, che forse è dello stesso Cavalcanti, parla di una “passionenuova – tal ch'io rimasi di paura pieno;- ch'a tutte le mie virtù fu posto un freno – subitamente, sich'io caddi in terra- per una luce che nel cor percosse, e se libro non erra, lo spirito maggiortremò si forte – che parea ben che morte – per lui in questo mondo fosse giunta”. In non diversitermini Dante descrive questa esperienza di folgorazione: al percepire l'improvvisa vicinanzadella donna del miracolo, per la forza d'Amore tutti gli spiriti sente distrutti, sussistendo soltantoquelli della vista, ma staccati dagli organi fisici, come in un raptus estatico. Così a Dante sembradi cadere per terra e dice “Io tenni li piedi in quella parte della vita di là dalla quale non si puoteire più per intendimento di tornare”, più oltre si parla di una trasfigurazione; in un altro passo eglitorna sul motivo della distruzione operata dall'amore. Peraltro, nel cabbalismo si parlava delmors osculi, della morte data dal bacio, e espressioni analoghe si ritrovano anche fra i poeti delsufismo persiano.

Considerando nel loro insieme gli scritti dei Fedeli d'Amore, appare che a produrre codesti effettitalvolta è l'azione diretta della donna (il suo apparire), talaltra una sua azione indiretta: la suaimmagine, il suo saluto la sua idea porta Amore dalla potenza all'atto, nei termini di una forzache desta terrore e che uccide iniziaticamente. A tale azione Cavalcanti parla anche di unazione sull' ”intelletto possibile” termine, questo, tolto all'aristotelismo averroista ove essodisegna il voùs, il principio intellettuale nel suo aspetto trascendente che nell'uomo comuneesiste appunto al solo titolo di una possibilità. Secondo la via seguita dal vero Fedele d'Amore èdunque mediante la donna-vita che tale possibilità viene ad atto, cioè che si fa realtà nella suacoscienza, trasformandolo. Cavalcanti scrive “Voi che per gli occhi mi passate il core – edestate la mente che dormia”, e aggiunge che amore “prende loco e dimoranza nel possibileintelletto come un subietto”. Guinzelli indica il “core” come sede della “nobiltà” che viene ad attoper effetto della donna. Nello sviluppo dell'esperienza il momento emotivo-traumatico sembradunque trapassare in un puro intelletto (la “rinascita nella mente”, di cui parla il CorpusHermeticum). La “nobilitate” di cui a tale riguardo spesso si parla (indicando l'Amore come il“Signore de la nobilitate”), portata ad atto dalla donna nell'estasi che essa provocava, è unaperfezione ontologica non priva di relazione con tale risveglio dell'essenza intellettuale; in tuttele cose, dice Dante citando anche Aristotele, la nobilitate è la perfezione della loro natura, e atale proposito si parla anche di denudamento, si usa di nuovo il simbolismo della nudità: Amoreè potenza capace di far uscire lo spirito dal suo “albergo” di farlo volare “nudo, senza scorza”.

In genere, il tema ricorrente è una crisi a cui segue il principio di una vita nuova otrasformata, per il che non mancano talvolta espliciti riferimenti al mistero androginico. Il daBarberino fa dire a Amore “Li colpi pe' son di cotal natura, - che qual si crede di quegli essermorto, - allora in vita maggiore si ritrova”. In una tavola egli ordina i gradi dell'esperienza, di cuisi tratta, in una specie di gerarchia. In questa illustrazione si vedono delle figure maschili efemminili simmetriche che, come è abbastanza evidente e come il Valli aveva già notato, vannoprese a coppie, a paia. Uomini e donne sono colpiti dai dardi d'Amore, in modo più o menograve; da principio cadono a terra, ma via via che ci si avvicina a una figura centrale sono inpiedi e hanno delle rose, simbolo della rinascita iniziatica. Dopo l'ultima coppia, che reca ladidascalia “Da questa morte seguirà vita”, non vi sono più un uomo e una donna separati ma viè un'unica figura androginica, al disopra della quale Amore, tendendo lui stesso delle rose,spicca il volo su un cavallo bianco. La figura androginica ha una didascalia con le parole “Amoreci hai di due facta una cosa, con superna virtù per maritaggio”. I significati-chiave nonpotrebbero essere dati in modo più chiaro: dopo la crisi, che anche nei primi gradi ferisce,atterra, uccide, il congiungimento con la donna e la suprema vertù per maritaggio conduconoall'androgine (che nell'illustrazione è raffigurato esattamente come il Rebis ermetico), stato di làdel quale Amore svilupperà verso l'alto, in un volo o rapimento, in una direzione trascendente,l'esperienza. E in effetti un altro Fedele dell'Amore, Nicolò de' Rossi, trattando dei “gradi e della

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virtù del vero amore”, considera come culminazione di essi tutti l'estasi “quale dicitur excessusmentis” (si aggiunge: sicut fuit raptus Paulus), il che vale quando dire l'apertura dello spirito astati superindividuali e superrazionali dell'essere.

In particolare è interessante che Dante riferisca all'azione di Amore anche un vincolamento esoggiogamento dello spirito vitale, cioè della parte naturalistica, o parte yin, dell'essere, allaquale fa esclamare “Ecce Deus fortior me, qui veniens dominabitur mihi”. E' come se per ilrisveglio di un superiore principio (l'intelletto possibile passato all'atto, la nobilitate – in terminiindù: il principio luminoso Shiva) una gerarchia nuova si stabilisce fra i vari poteri dell'essereumano. Nel Convivio pur predominando una interpretazione più allegorico-sapienzale che nonanagogica e iniziatica (è alla prima, che Dante dice esplicitamente di arrestarsi), la “miracolosadonna di vertude” è detta destare il “dritto appetito” quello che “disfà e distrugge lo suocontrario”; da lei promana un fuoco “che rompe li vizi innati, cioè connaturali” avendo “potestadein riconseguita natura in coloro che la mirano, ch'è miracolosa cosa”. La salute conseguitaattraverso il risveglio e questa nuova situazione interiore delle potenze dell'essere assicura lapartecipazione all'immortalità iniziatica. Abbiamo già menzionato l'etimologia convenuta,servendosi della quale un esponente provenzale della stessa corrente, Giacomo di Baisieux,identifica l'amore al “senza morte”, alla distruzione della morte, per cui egli parla degli amanticome di “coloro che non muoiono” e che vivranno “in un altro secolo di gioia e di gloria”. In ognicaso resta ben ferma, nei Fedeli d'Amore, la concezione della donna a cui si è uniti, come delprincipio possibile di una vita superiore sì che al suo distaccarsi si affaccia nuovamente l'ombradella morte. Cecco d'Ascoli dice appunto “Io sono al terzo cielo trasformato – in questa Donna,ch'io non so chi fui. – Per cui sento ognora più beato. – Di lei forma il mio intelletto,mostrandomi salute agli occhi suoi, - mirando la virtù nel suo cospetto. Dunque io sono Ella: ese da me si sgombra – allor di morte sentiraggio l'ombra.

Circa i Fedeli d'Amore concluderemo accennando ancora a due punti. Il primo riguarda ilsimbolismo numerico. Si sa della parte che il numero tre coi suoi multipli ha sia nell'operaprincipale di Dante che nella Vita Nova. In questa, è specialmente la prima potenza, o quadrato,del tre, ossia il nove, ad aver risalto. Nel primo incontro la donna ha nove anni (il che, dati glieffetti traumatici prodotti dalla visione di essa, dovrebbe già far escludere l'interpretazionerealistica di Beatice come bambinetta di tale età). E' all'ora nona che avviene il saluto, comepure una delle visioni più significative narrate dal poeta. Il nome della donna dice Dante “nonsoffre di stare in altro numero se non il nove”. Il numero riappare come durata di una certadolorosa malattia di Dante. Come spiegazione Dante si limita a dire che “lo numero tre è laradice del nove, però che, senza numero altro alcuno, per sé medesimo fa nove”. Quanto al tre,egli, riferendosi alla Trinità cristiana, lo chiama “lo fattore per se medesimo de li miracoli” econclude dicendo “Questa donna fu accompagnata da questo numero del nove, a dare adintendere che elle era uno nove, cioè uno miracolo, la cui radice, cioè del miracolo, è solamentela mirabile Trinitade”. Questo è in fondo, un parlare a metà, mentre negli ambienti a cui Danteapparteneva si doveva certamente conoscere un aspetto più preciso e universale delsimbolismo del tre e delle sue potenze. Abbiamo giù ricordato come il tre sia il numero delloyang e come esso abbia anche significato ciò che nasce dall'aggiungersi dell'Uno al numerofemminile, al Due, per ricondurre, di là da esso, all'unità. Nell'antico Egitto il tre era il numerodella folgore, ma anche quello della forza vitale e dell'ente-vita invisibile chiuso dentro il corpo, ilkha. Peraltro, allo yang fu anche associato il nove e, infine, l'ottantuno, tanto che quest'ultimonumero ha una parte curiosa, cui accenneremo, perfino in un dettaglio delle tecniche sessualitaoiste. Il significato del nove è di essere la prima potenza del tre; quello dell'ottantuno, èdi esserne la potenza perfetta (33). Quest'ultimo numero porta, in un certo modo, di là dallastessa esperienza della “donna del miracolo” - e non è senza significato il fatto che lo stessoDante, nel Convivio, ne parli dandolo come l'età di una vita perfetta e compiuta; egli ricordaanche che tale fu l'età di Platone e giunge a dire che il Cristo avrebbe raggiunto tale età se nonfosse stato ucciso. Ma questa età simbolica figura anche in altre tradizioni – non diversa età, fral'altro, fu attribuita a Lao-Tze. Nel complesso, si tratta di cicli di compimenti dell'Uno che ritrovasé stesso attraverso la Diade, il Due, il femminile, sviluppandosi come l'atto, la potenza di sé

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stesso fino ad essere identico a questa sua stessa potenza a stabilirsi nella “nobilitade”. Ora,Dante che fa morire Beatrice il giorno 9 del mese di Giugno, nota peraltro che in Siria il giugno èil nono mese e, per ultimo, egli aggiunge che tale morte avvenne quando “lo perfetto numeronove era compiuto”, cioè nell'81 del XIII secolo.

Il secondo punto, su cui volevamo dire, riguarda proprio la morte della donna, di Beatrice. Giàdal Perez, poi dal Valli, tale morte è stata messa in relazione con quella della Rachele biblica,ricordando come da Agostino e da Riccardo di S. Vittore la morte di Rachele fosse stataassunta a simbolo dell'estasi, dell'excessus mentis. Il Valli pensa che anche nella Vita Nova lamorte della donna sia “una figurazione del trascendere della mente sopra se stessa nell'attodella contemplazione pura: mistica rappresentazione della mente che si perde in Dio”. Maquesta interpretazione ci sembra poco adeguata; non solo essa verte sul piano semplicementemistico, piano che non è quello dei Fedeli d'Amore, ma, secondo noi, inverte addirittura lasituazione di cui si tratta. Di certo, la morte della donna contrassegna la fase ultima dellaesperienza che s'inizia col saluto sui lei, e a tale riguardo nel c. XXVII della "Vita Nuova" sitrovano espressioni enigmatiche. Dopo aver riferito della morte di Beatrice, Dante aggiunge lemisteriose parole: “Non è convenevole a me trattare di tale evento, perché trattandoconverrebbe essere me laudatore di me stesso”: quasi che l'evento, la morte di Beatrice,tornasse a sua gloria. L'interpretazione mistica del Valli non calza, perché se si fosse trattatodella morte della mente (“l'uccisione del mentale”, del manas, secondo la terminologia yoghicaindù) si sarebbe avuto semplicemente a che con uno deglii effetti della donna e d'Amoresull'amante; a tacere che il morire, interpretato come un mistico naufragare, riguarderebbeallora non la donna, bensì il Fedele d'Amore: mentre è detto il contrario, è la donna a morire, agloria del Fedele d'Amore.. a noi non sembra troppo arrischiato l'idea opposta, cioè che iltermine ultimo dell'esperienza sia rappresentato dal superamento della donna nellareintegrazione completamente attuata. E' ciò che nell'ermetismo corrispondente all'”Opera alRosso” dopo l'”Opera al Bianco” (cui precede l'”Opera al Nero”, la “morte” o “dissoluzione”),ossia una condizione di virilità ristabilita di là dell'apertura estatica; stato finale, questo, per ilquale, sempre nell'ermetismo, si parlava talvolta di un uccidere colei da cui era stati uccisi maaltresì “generati” (rigenerati). E, come si è visto, oltre al nove, proprio l'ottantuno Dante faintervenire per la morte della donna.

Verso una tale interpretazione conduce anche un punto che, ci sembra, non è stato mai messosufficientemente in risalto, ossia che mentre nel misticismo cristiano l'anima fa da femina quale“fidanzata” dello sposo celeste, in tutta questa letteratura, ma altresì nella varietà delsimbolismo della donna, precedentemente ricordate nella saga e nel mito, le parti in genere siinvertono, perché è il soggetto dell'esperienza ad avere la qualità maschile. Né ci si potevaattendere altro, se i Fedeli d'Amore erano una organizzazione iniziatica e non mistica. Unultimo dettaglio non privo di significato: con una apparente anomalia Guido Cavalcanti, il quale,come si è detto, deve essere stato uno dei capi di quella organizzazione, afferma che Amorederiva e prende dimora non nel cielo di Venere bensì in quello di Marte – “lo qual da Marte venee fa dimora”; e Dante, tacitamente, sembra che condividesse tale veduta. E', questo, un punto,di cui a nessuno sfuggirà il valore segnaletico.

Ci siamo soffermati alquanto sui Fedeli d'Amore perché con essi si stabilisce in un certo modoun raccordo fra alcuni dei principali motivi da noi messi in rilievo nel corso del presente studio,anche nel campo dell'eros profano. In questo campo, un Knut Hamsun ha potuto parlare, perl'amore, di “un potere di annientare l'uomo e poi di nuovo innalzarlo e segnarlo col suo marchiorovente”. Stendhal riporta le seguenti espressioni per un caso reale del cosiddettocoup-de-forude : “Una forza superiore di cui ho terrore mi ha tolta a me stessa e alla ragione”.Nel sentire l'alito di Lotte, Werther dice: “Credo di precipitare come colpito da un fulmine”.Devesi ritenere che fra i Fedeli d'Amore esperienze consimili, mediate dalla donna, venisserosviluppate e integrate, fuor da tutto ciò che è letteratura e iperbole. Nello loro composizioni lostesso tema è preciso e ricorrente, così come sono ricorrenti, e stanno ben in evidenza, altritemi da noi sporadicamente raccolti studiando i fenomeni di trascendenza dell'amore profano:

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raptus e morte, significato profondo del cuore, trauma nel cuore considerato come luogoocculto (la “segretissima camera del cuore” di Dante) e luogo da purificare (“il cuore gentile”)perché in esso prenderà inizio il mistero folgorante del Tre per effetto della donna-miracolo e del“Segnore di nobilitate”.

Concludendo, nel riguardo dei Fedeli d'Amore vanno dunque respinte sia le interpretazioniestetiche e realistiche che vogliono riferire il tutto a donne reali e ad esperienze di unsemplice amore umano trasposte, sublimate e iperbolizzate dal poeta, sia leinterpretazione puramente simboliche che fanno entrare in giuoco mere astrazionisapienzali o anche personificazioni di una Gnosi (la “Sapienza Santa”) come potereilluminante, però senza nessuna relazione effettiva con la forza della femminilità. Il secondo èstato il punto di vista seguito dall'esegesi non solo del Valli, ma anche del Guenon e delReghini; se può essere accettabile nel caso di ambienti mistici di derivazione più o menoneoplatonica (includendo Bruno), e anche della poesia arabo-persiana fiorita tra il IX e il XIVsecolo, esso, secondo noi, risulta incompleto nel caso dei Fedeli d'Amore. Se ci si riferisce adessi, l'alternativa va superata, e come fondo essenziale si deve considerare la possibilità dievocazioni e di contatti a fini iniziatici col principio occulto della femminilità in una regioneliminale, immateriale, più in là della quale non vi sono più che le forme della magia sessualevera e propria come estremo sviluppo delle possibilità dell'eros sul piano non profano. Questo èil dominio che avremo ancora da trattare dopo aver fatto cenno alla terza delle soluzionielencate all'inizio, a quella delle trasmutazioni ascetiche e yoghiche delle forza del sesso.

Ciò a parte, nel complesso di tutto quanto è evocazione e partecipazione possono veniredistinte due vie che, rispettivamente, stanno nel segno dei due archetipi femminilifondamentali: Demetra e Durga. La prima via si basa sul principio femminile-maternoconsiderato come scaturigine del sacro, e conduce verso una immortalità, una pace e una lucequasi sulla stessa linea di ciò che nello stesso ambito profano e umano può venire a chi prenderifugio presso la donna materna; in questo contesto il pitagorismo potè riconoscere alla donnauna particolare sacrità e si potè parlare perfino della madre iniziatrice. L'orientamento di talecorrente, data qui come un esempio, risultando chiaro dal fatto che la casa di Pitagora, dopo lasua morte, fu trasformata in un sacrario di Demetra. La stessa figura di donna si potenzia nelmito nei termini della Vergine celeste e della Madre divina mediatrice. L'altra via passa inveceper Durga, il femminile afrodisiaco abissale, e può essere tanto via di perdizione quanto via disuperamento della Madre nel segno di quelli che noi abbiamo chiamato i Grandi Misteri in sensoproprio.

EA: Soffermiamoci dunque sulla frase del testo evoliano "Il significato del nove è di essere laprima potenza del tre; quello dell'ottantuno, è di esserne la potenza perfetta (33)".Presa in un senso letterale e matematico, la frase contiene due errori:- nove non è la prima potenza del tre, bensì la seconda; la prima potenza è infatti il tremedesimo;- ottantuno non è la terza potenza del tre (pari invece a ventisette) bensì la quarta potenza.Se, come ha proposto Quirino, si togliesse il 33 tra parentesi, permarrebbe pur sempre il primoerrore.La frase è tuttavia corretta, se interpretata "ad sensum". Evola intendeva infatti dire: "Ilsignificato del nove è di essere il quadrato del tre; quello dell'ottantuno e di esser, a sua volta, ilquadrato del nove." Infatti Seneca, a proposito della perfezione dell'ottantuno, scriveva:"perfectum numerum quem novem novies multiplicata componiunt".Frater Petrus: Credo anch'io che Evola volesse esprimere il fatto che nel nove il tre è statomoltiplicato una sola volta per se stesso, mentre nell'ottantuno è stato moltiplicato tre volte perse stesso. Ha solo utilizzato in modo inesatto il termine potenza. Che la perfezione siaindicata da tre alla quarta (ottantuno), piuttosto che da tre alla terza (ventisette) si ricollega aquanto ha detto Massimo sulla maggior perfezione simboleggiata dal tetraskele rispetto al

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triskele. Se infatti poniamo un tre in corrispondenza di ciascun braccio di questi due simboli epoi li moltiplichiamo tra loro, nel caso del triskele il prodotto sarà ventisette , che perciò (dato ilsignificato complessivo del triskele) potrà sì esprimere un certo grado di perfezione, ma che nonesce dai limiti della Natura. Nel caso del tetraskele i quattro tre daranno per prodotto ottantuno,che indicherà perciò il sovrannaturale (l'atto perfetto dello Spirito) che si aggiunge allaperfezione naturale. Si tratta, come dice Evola nel seguito del brano proposto da Quirino, delcompimento dello Spirito, che nel rapporto con la Natura ritrova sè stesso; ma si ritrova (è benesottolinearlo) "potenziato". In altri termini, non si tratta di uno svincolarsi dello Spirito dallaNatura, per rientrare semplicemente in sé stesso; tale disidentificazione potendo servire solo invia preliminare. Poi lo Spirito deve, per così dire, "sposare" la Natura (nozze alchimiche) e infinevolgersi a dominarla. Il simbolismo occidentale delle "potenze" del Tre (cioè dello Spirito=Unosommato alla Natura=Due), ha un suo equivalente nella nota frase del Tantrismo shivaita che"lo Spirito (simboleggiato da Shiva) è come un cadavere (shava) senza la sua Potenza(Shakti)".EA: Se si tiene presente quanto già è stato detto, nel Quaderno dedicato alla Porta Magica diRoma, appare chiaro il significato delle potenze del Tre, in relazione all'Opus alchimicum.Nell'uomo comune che, per la sua preponderante dipendenza dalla Natura, può dirsi "UomoNaturale", il connubio tra Spirito e Natura ha dotato lo Spirito (Sole) di tre corpi dimanifestazione nella Natura (Mercurio, Luna e Saturno), che con lo Spirito medesimocostituiscono i "quattro corpi" dell'Ermetismo. Le tre qualità della Natura (Prakriti) e cioè albedo(sattva), rubedo (rajas) e nigredo (tamas) non sono mai isolate, ma sempre mescolate, in variaproporzione: nel Mercurio prevale l'albedo, nella Luna rubedo, nel Saturno nigredo. Si tratta delprimo Tre, "base" di tutte le successive eventuali "potenze". Se l'uomo rimane a questo stadio,pur essendo perfetto (trino) in quanto uomo, alla sua morte lo Spirito ritorna in sé stesso,abbandonando i tre corpi di manifestazione, che seguono destini inerenti alle rispettive qualità,così che non permane, nella Natura, alcunchè che possa dirsi (se non con scarsa motivazione elimitatamente al corpo mercuriale) appartenente a quell'individuo.Il primo passo dell'opus consiste nell'assumere il dominio del corpo mercuriale (trasformazionedel mercurio in oro). Nel Mercurio predomina albedo, tuttavia in misura diversa nei suoi treaspetti principali. Nella lunula superiore del simbolo del mercurio (intelletto ricettivo) albedoprevale nettamente. Nel cerchio col punto centrale (Egoità e Mente quale Sensorio comune)rubedo, pur seconda rispetto ad albedo, è in elevata proporzione. Nella croce sottostante(Elementi Elementanti o Elementi Sottili) è nigredo ad essere seconda ad albedo.Il dominio di queste tre mescolanze mercuriali costituisce il secondo Tre, che moltiplicato per ilprimo (la "base") produce il Nove, simbolo perciò, in tale ambito, del primo e più semplicenucleo di individualità, in grado di sopravvivere alla morte. Nel reincarnarsi o, più in generale,nel trasmigrare, questo nucleo (sole-mercurio) dipenderà ancora dai servigi della Natura, chedovrà fornirgli, tramite le comuni modalità, i corpi lunare e saturnio, ai quali non è ancora ingrado di sopperire da solo.Il secondo passo consiste nell'assumere il dominio del corpo lunare (trasformazione dell'argentoin oro). Nella Luna predomina rubedo ma, anche in questo caso, in diverse proporzioni, aseconda dei cicli ai quali è sottoposta la vitalità. La Luna crescente è simbolo di fasi, nelle qualialbedo cresce progressivamente, pur rimanendo seconda rispetto a rubedo. La Luna calante èsimbolo di fasi nelle quali nigredo cresce, pur rimanendo seconda rispetto a rubedo. La LunaPiena e la Luna Nera sono simboli di momenti di "transito" nei cicli della vitalità, nei qualirubedo, che è sempre dominante, inibisce la qualità che stava crescendo, stimolando laricrescita dell'altra che era in diminuizione. Il dominio della crescita, della diminuizione e deltransito degli aspetti vitali antagonisti costituisce il terzo Tre che, moltiplicato per il precedenteNove, produce il Ventisette. Questo secondo grado di realizzazione è ancora "nei limiti dellaNatura", in quanto il praticante non è ancora capace di darsi da sé un corpo grossolano dimanifestazione (ma solo uno "sottile", cioè sole+mercurio+luna), così che, per assumerne uno,deve ancora prenderlo tra quelli prodotti normalmente dalla Natura.Il terzo passo consiste appunto nell'assumere il dominio del corpo saturnio (trasformazione delpiombo in oro). In Saturno prevale nigredo, anche qui in diverse proporzioni. A questo livellogrossolano, le mescolanze delle tre qualità vengono chiamate, dalla Tradizione, "Umori". In

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Occidente gli umori sono chiamati: Flegma, Bile e Sangue; in India sono detti Flegma, Bile eAria. Aria e Sangue si corrispondono simbolicamente, basti pensare che il secondo è veicolodella prima. I tre umori non vanno confusi con il concetto che ha di essi la medicina profanacontemporanea. Per fare un esempio, l' "Aria", simboleggiando tutto ciò che ha naturavibratoria, comprende anche le oscillazioni elettromagnetiche e le trasmissioni nervose. Nonpossiamo, però, qui soffermarci sulle submodalità di questi umori, ci limiteremo a ricordare che,qui in Occidente, una delle più note è la distinzione tra "bile gialla" e "bile nera". Più importante èosservare che, nel flegma, prevale nettamente nigredo; nella bile, rubedo è seconda a nigredo;nel "sangue-aria", albedo è seconda a nigredo. Il dominio di questi tre Umori costituisce ilquarto Tre che, moltiplicato per il precedente Ventisette, produce l'Ottantuno. L'adepto, giunto aquesto punto, è "al di là della Natura"; non nel senso che è staccato da essa, ma nel senso cheper manifestarsi, in uno qualunque dei suoi "corpi", non è più soggetto agli automatismi dellaNatura.

6) DANTE E PITAGORA

di Paolo Vinassa De Regny

Fabritalp: Volendo approfondire l'uso del simbolismo pitagorico nell'opera di Dante, potrebbeessere utile leggere o rileggere assieme alcuni brani di "Dante e il simbolismo pitagorico" diPaolo Vinassa De Regny, F.lli Melita Editori, Milano, 1988.EA: Benissimo, ti aiuterò nella trascrizione. Si tratta dell'ultima edizione dell'opera: PaoloVinassa de Regny- Dante e Pitagora - Gioacchino Albano, Milano,1956. Su questo autoresegnalo la seguente nota di A. Boni, "Ricordo di Paolo Vinassa De Regny", in «BollettinoSocietà Geologica Italiana», LXXVII (1958), fasc.1, pp. 237 - 240.

Paolo Emilio Vinassa De Regny, nacque a Firenze nel 1871. Studiò Scienze Naturaliall'Università di Pisa, allievo del Canavari, fu attratto dallo studio della geologia e paleontologia.Nel 1902 divenne professore straordinario di Mineralogia e Geologia presso la Scuola SuperioreAgraria di Perugia; fu poi a Catania dal 1908 al 1911 e a Parma dal 1911 al 1924. Vulcanologodurante l'eruzione dell'Etna del 1910 e volontario negli Alpini durante la prima guerra mondiale,dal 1924 fu a Pavia, alla stessa cattedra che fu dell'abate Antonio Stoppani (1824 - 1891) e diTorquato Taramelli (1845 - 1922), uno dei fondatori della Società Geologica Italiana. De Regnyrestò a Pavia dal 1941. Fu rettore dell'Ateneo di Pavia, socio dell'Accademia dei Lincei,dell'Accademia d'Italia e di altre importanti associazioni scientifiche; fu anche senatore delRegno. Ma De Regny fu soprattutto un geologo rilevatore, stratigrafo e tettonista. Esercitò lasua attività in Montenegro, in Libia e in Dancalia, regione di cui tracciò una prima cartageologica. Fondamentale la sua opera di paleontologo, tanto da essere richiesta ancheall'estero, nello studio della fauna fossile di Timor e del Karakorum, scrisse un manuale dipaleontologia (edito da Hoepli) su cui hanno studiato generazioni di studenti; dal 1897 al 1941diresse, inoltre, la Rivista Italiana di Paleontologia. In campo geologico si dedicò allageochimica, elaborando una teoria sulle relazioni fra le strutture atomiche e la frequenza edistribuzione degli elementi. E' ricordato dai molti geologi che furono suoi allievi come un grandedivulgatore. Morì a Cavi di Lavagna nel 1957.

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Estratti da

VINASSA DE REGNY PAOLO

"Dante e Pitagora"

1. - Il Numero

Numeris quos in Scripturis

esse sacratissimos

et mysteriorum plenissimos

dignissime credimus.

AGOSTINO - Quæst. in Genesim - I, CIII

Il concetto di numero è fondamentale nell'uomo, anche il meno evoluto. L'idea numerica piùsemplice è quella di avvertire una modificazione nella quantità di oggetti che cadono sotto inostri sensi. Sembra che anche taluni animali, come certi uccelli in rapporto alla quantità delleuova, abbiano un vago concetto di numero come quantità , qualora questa venga cambiata. Maesclusiva dell'uomo è la facoltà di contare. Il primo metodo di conteggio si è basato certamentesugli arti, specialmente le mani; cosà si è arrivati al dieci, base del sistema decimale. Se l'uomoavesse avuto sei dita per mano certamente avrebbe prevalso la numerazione duodecimale che,tra parentesi, sarebbe stata assai più comoda. La numerazione duodecimale è rimasta nelconcetto di dozzina. Taluni popoli, ad esempio gli Esquimesi, si direbbe abbiano introdotto nelconteggio anche le dita dei piedi, arrivando cosà ad una numerazione vigesimale. Traccia di talenumerazione è rimasta anche nel francese. Ciò che dà un'inutile complicazionenell'espressione di un numero; ad esempio 92 in francese implica una moltiplicazione ed unasomma: esso è difatti quatrevingtdouze, cioè: 4x20+12. Quando fu scoperta e introdotta lascrittura, i numeri, che prima erano indicati con semplici segni, vennero poi identificati conlettere alfabetiche; cosà, è ben noto, fecero ad esempio i Romani. Anzi la numerazione romanaperdurò sino al secolo XV, benchè, già poco dopo il 1200, il mercante pisano Fibonacci, che fuanche valente matematico, avesse portato dall'Oriente la numerazione indiana, impropriamentedetta araba. La scienza del numero difatti, nata forse in Grecia, passò in India e dall'India agliarabi. Questi ebbero anzi grandi matematici e diedero il nome all'algebra, parola la cuiderivazione dall'arabo (art. al) è chiarissima. Fu questa numerazione che diede modo disviluppare in modo straordinario specialmente l'aritmetica. Infatti coi numeri letterali romaniperfino le operazioni fondamentali erano di una difficoltà enorme. E' noto un aneddoto relativoad un mercante olandese del Medio Evo, che voleva far studiare il figlio, e che chiese consiglioai dotti del tempo.

«Se volete che vostro figlio impari l'addizione e la sottrazione - gli fu risposto - potetemandarlo in un'Università germanica; ma se pretendete che sappia fare anche lamoltiplicazione e la divisione occorre che lo mandiate in un'Università italiana ».

Dal quale aneddoto risulta non solo la stima di cui, nel Medio Evo, godevano le Università italiane, ma anche la grande difficoltà che presentavano le due ultime operazioni, che oggi inostri bimbi eseguiscono nelle prime classi elementari (1).

Nell'antichità dunque l'aritmetica, per noi assai facile, era una scienza alta ed astrusa, tanto cherimase riservata solo ad alcuni ingegni superiori ed in modo speciale alla casta sacerdotale.

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Nell'India, che forse fu erede della scienza aritmetica italo-greca, detenevano i misteri delnumero i sacerdoti brahmani. Vedremo presto che lo stesso era avvenuto in Egitto.

Retaggio dunque spesso esclusivo del sacerdozio, il numero assunse quindi, sino dall'inizio, unsignificato sacro, divino; ed al numero ed ai suoi simboli venne cosà dato un contenuto mistico.

Come si è accennato, i cosiddetti numeri arabi, la cui introduzione in Europa si deve alFibonacci, tardarono molto ad essere adottati dal pubblico. Ed anche per questo sistema dinumerazione perdurò il mistero. Il sistema aritmetico moderno, detto di posizione, si originò perla scoperta, forse di un ignoto indiano, che rese facili tutte le operazioni introducendo il simbolodello zero. Fu questa una delle più grandi scoperte dell'umanità . Lo zero, che ha vari significatiin aritmetica, pel pubblico grosso sta a rappresentare il nulla. E invece non è affatto cosà. Lozero fu destinato, all'inizio, a segnare un vuoto. Era cioè il segno che indica come sulpallottoliere (uno dei più antichi strumenti di calcolo, usato però anche oggi dai popoli orientali)una determinata fila era vuota. Facciamo un esempio. Se su di un pallottoliere risultavano sucinque file le cifre 8, 3, 5, non si sapeva come scriverle, in modo da dare un concetto della loroposizione. Poteva aversi 83005, oppure 80305 o anche 80035. L'indicazione, mediante unalinea o un circoletto delle file vuote del pallottoliere, segnava la posizione in esso delle variecifre, e quindi il valore diverso del numero ottenuto. Nacque cosà l'aritmetica detta appunto diposizione, per merito della quale le operazioni, che colle lettere numeriche risultavanocomplicatissime, si resero alla portata di tutti.

Questo zero portò, come si è detto, la rivoluzione nell'aritmetica e cosà apparve come qualcosadi miracoloso. Da questo concetto mistico si ebbero una quantità di espressioni rimaste nellinguaggio, e che appunto accennano ad un che di segreto, di misterioso. Gli arabi chiamaronolo zero siphr, che nel latino divenne zephr (da cui zero); per altre lingue "siphr" divenne invece "cifra". Che poi il nuovo sistema di numerazione, che facilitava le operazioni aritmetiche, fossequalcosa di misterioso si rileva dalle locuzioni derivate da siphr, cioè: in cifra, decifrare ecc., lequali tutte indicano qualcosa di segreto. E questo tanto più che, come si è visto, la numerazionearaba fu ostacolata dai misoneisti, dai tradizionalisti e perfino proibita dalla Chiesa. Fu in unConsiglio di Cardinali del 1299 che venne espressamente proibito l'uso delle cifre arabe. Anchel'Arte maggiore dei commercianti di Calimala nello stesso anno emise un analogoprovvedimento. Ma è certo che molti mercanti usavano il nuovo sistema in segreto. Questeproibizioni contribuirono ad aumentare il misterioso nel numero. Dante, tradizionalista come tuttii sapienti del suo secolo, benchè già da tempo taluni seguissero la nuova numerazione, forse laignorava; certo non ne tenne mai conto, mantenendosi costantemente fedele alla numerazioneromana.

A proposito di questa numerazione occorre una breve digressione. All'inizio quasi certamente leindicazioni numeriche si fecero non con lettere ma con segni. è naturale che il segno uno fossedato da un tratto più o meno verticale. Dopo l'uno veniva la decina, che si segnava con due trattiincrociati. Anche oggi i contadini analfabeti segnano i sacchi, i barili, in questo modo. Il centinaioera indicato con tre segni angolari e il migliaio con quattro segni a zig-zag. Oltre il migliaio non siandava. I segni quindi erano quelli indicati nella figura 1:

fig. 1

Se osserviamo tali segni si vede chiaramente che l'uno è analogo alla lettera I, il dieci alla X, ilcento, arrotondato, alla lettera C ed il mille alla M. Sono dunque quattro le lettere numerichefondamentali. Ma tutti sanno che esistono anche le lettere V, L e D, per 5, 50 e 500, che sono la

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metà di dieci, di cento e di mille. Tali lettere sono pure derivate dai segni precedenti. Difatti,dividendo meccanicamente per mezzo di un tratto orizzontale il segno del dieci, vien fuori unaV, che è il dimezzamento della X; e tagliando ugualmente un cento, C, angoloso, vien fuori unaL. Tagliando invece verticalmente il segno delle migliaia ne riesce una specie di gancio, che,arrotondato, si può identificare con una D.

Risulta dunque che le vere lettere numeriche sono quattro e solamente quattro, poichè le altresono il dimezzamento meccanico di esse. Ora queste quattro lettere, I, X, C e M, occupanonell'alfabeto una posizione che ha un valore numerico sacro, mistico. La I è la nona letteradell'alfabeto. E poichè l'uno è, come meglio vedremo, il logos, il numero non-numero ma originedi tutti i numeri, poichè è quello che moltiplicato o diviso per se stesso o elevato a qualsiasipotenza resta sempre uno, è il simbolo di Dio. Molti casi abbiamo che confermano questa idea.Il Valli (2) cita una figura di Francesco da Barberino, che si fa raffigurare inginocchiato davantiad una lettera iniziale di un suo capitolo, che è appunto una I. E Dante ci dice che: «I sichiamava in terra il Sommo Bene ». E ciò in opposizione a quanto scrisse nel "De VulgariEloquentia " ove il nome di Dio è indicato con El. Ma El è l'ebraico Eli, mentre la lingua usata daAdamo è scomparsa. La scelta di I per il nomen Domini si deve al fatto che tale lettera, comesi è detto, è anche l'Uno, cioè Dio. Ubertino da Casale afferma che I è giustamente il nomenDomini perchè è la mediana delle vocali e simboleggia quindi il Verbo tra il Padre e lo Spirito.Nè si deve dimenticare che coll'I si forma il Triunus, il III, simbolo, secondo Agostino, del DioUno e Trino. Può interessare il fatto che anche Laotseu, 600 anni prima di Cristo, dava grandeimportanza all'1.

La X è la ventunesima lettera dell'alfabeto, cioè tre volte il misterioso sette. Appunto perchè ilsette è il mistero, in matematica l'incognita si indicò con x. Il centinaio ha colla C la terza lettera,e finalmente l'ultima, la M, occupa il dodicesimo posto e vedremo quanto il 12 sia numeromistico.

Dante queste lettere usava nei suoi computi e ad esse dava somma importanza. Quando sivoglia parlare di numerismo dantesco bisogna sempre tener presente la numerazione letteraleromana e non la nostra araba, che Dante non conosceva, o che non volle forse conoscere.

(1)Se ne può dare un esempio. Se si dovesse moltiplicare 1001 per 288 (cioè in cifre romane MIper CCLXXXVIII) o dividere l'uno per l'altro detti numeri, ci troveremmo davanti ad un problemaper noi oggi, se non assolutamente, certo difficilmente solubile.(2)Valli, Il linguaggio segreto dei Fedeli d'Amore. Note aggiunte, pag. 121.

2. - Pitagora e i Pitagorici

Una delle più alte manifestazioni filosofico-scientifiche si affermava, seicento anni prima diCristo, a Crotone per merito di Pitagora. Si impose difatti allora la filosofia del numero-idea,vanto della solare, armonica civiltà mediterranea, italica. Non si trattava pei pitagorici direconditi e cervellotici significati cabalistici. Fu gloria di Pitagora di fare assurgere quasi areligione il numero.

Pitagora, il filosofo scienziato un po' mitico, che i suoi seguaci considerarono un semidio, ècelebre per sè e più che altro per la sua scuola, che continuò a lungo dopo la sua morte; e chefu mistica, iniziatica, retta dal giuramento della sacra tetractis, la quaternità . I pitagoriciadoravano difatti questa divina tetrade, costituita da 1, 2, 3, 4, la cui somma dava 10. Riportodal Dantzig (3) la preghiera dei pitagorici alla Tetractis: «Benedici a noi, o numero divino, tu dacui derivano gli dei e gli uomini. O santa, santa Tetrade, tu che contieni la radice, la sorgentedell'eterno flusso della creazione. Il numero divino si inizia coll'unità pura e profonda, eraggiunge il quattro sacro; poi produce la matrice di tutto, quella che tutto comprende, che tuttocollega; il primo nato, quello che giammai devia, che non affatica, il sacro dieci, che ha in sè la

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chiave di tutte le cose».

Oltre alle speculazioni filosofiche sul numero si deve ai pitagorici la fondazione del metodosperimentale, duemila anni prima di Galileo; e inoltre il concetto di fisica-matematica, l'idea diinfinitesimo, il teorema detto appunto di Pitagora, e, nella teoria delle proporzioni, la sezioneaurea, base dell'architettura e delle arti figurative sino a Leonardo almeno. Non certo oggi. è unpitagorico, Parmenide, che dimostrò sferica la Terra. E un altro pitagorico, Filolao, insegna chela Terra non è al centro dell'Universo. Aristarco nel 300 a.C. lo segue. Ma questa esattaopinione dei grandi pitagorici viene sommersa dalla dottrina geocentrica di Tolomeo.Occorreranno i genî di Copernico e di Galileo per farla rivivere.

Pitagora fu dunque uno scienziato pei suoi tempi veramente sommo, ma fu anche il filosofo cheapplicò il numero all'Universo. Il numero nel pitagorismo non è una quantità astratta ma unavirtù intrinseca ed attiva dell'Uno Supremo, Dio, sorgente dell'armonia universale. Il numero peipitagorici era perciò l'essenza delle cose, poichè il numero è dovunque. L'Universo esiste ingrazia del numero; il Cosmos (nome proposto da Pitagora) non solo è ordine (4) matematico maè altresà bellezza, armonia, poichè armonia e ordine sono inseparabili.

La scuola pitagorica ha portato l'armonia dei suoni anche nei cieli. I pianeti distano, peipitagorici, dello stesso intervallo proporzionale, che la scuola pitagorica aveva dimostratosperimentalmente esistere tra le note musicali. Le sfere celesti perciò risuonavano di unaperfetta armonia. E all'idea pitagorica accede Dante, il quale appena iniziata la sua salita ai cieliresta attonito non solo per l'enorme luce ma anche per la magica armonia musicale dovuta aColui che tutto muove. E per tutto il Paradiso si avrà sempre luce, canto, suono, armonia fuoridell'umano.

Pitagora non lasciò alcun trattato: difatti la sua scuola si basava solo sull'insegnamento oraleagli iniziati. Fu primo Filolao, discepolo di Pitagora, che coi suoi scritti svelò una parte almenodegli insegnamenti del maestro. Filolao afferma che armonia e numero non sopportano nècomportano errori. Si deve a Filolao il concetto di concordia discors, avendo egli asserito chel'armonia è l'unità del multiplo, è l'accordo del discordante, il nostro contrappunto musicale. Lostesso autore scrive che «tutte le cose che sono a nostra conoscenza hanno un numero;poichè è impossibile che qualsiasi cosa possa esser conosciuta o immaginata senza numero ».

Pei pitagorici ogni cosa fisica è decadica, poichè, come dice Teone Smirneo, la decaderacchiude in sè pasan füsin; ogni proprietà ed essenza fisica. Ne riparleremo. E Temistoasserisce che i dieci numeri erano eideitikoi, formativi. Secondo Porfirio poi era doveredell'uomo di combattere sempre l'ametrion, la mancanza di simmetrie nelle cose.

La scuola pitagorica ha pure un altro vanto: quello di avere identificato aritmetica e geometriaeguagliando l'unità , origine di tutti i numeri, al punto, origine di tutte le figure. Da ciòl'importanza dei primi quattro numeri e corrispondenti punti, per cui si potevano costruire tutte lefigure, e la cui somma dava il perfetto dieci.

I pitagorici, che avevano trovato sperimentalmente il rapporto dei suoni, trovarono pure che lefigure geometriche soggette al tatto ed alla vista erano perfezione di numero. Circolo, sfera efigure poligonali regolari, tutte costruibili con squadra e compasso, erano gli elementi con cui ilDio Supremo aveva costruito armonicamente l'Universo (5).

Grandioso è pertanto il concetto dei pitagorici di far significare al numero un'idea. Da essi venneappunto il concetto di numero-idea, concetto che è pure di Platone. Queste concezioni sono lavera grandezza della scuola pitagorica, poichè, come dice lo Chaignet, concepire la proprietà dei numeri è matematica, ma scorgere il rapporto tra numero ed essere è profonda filosofia. Edun altro ammiratore dei pitagorici, Barthelemy Saint Hilaire (6), chiama gloria della scuola l'ideapitagorica, che la natura fisica si riduca tutta a figure geometriche e queste a numeri, scoprendo

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in tutte le armonie della Natura le armonie musicali, i cui rapporti si risolvono con numeriproporzionali.

In Italia per lungo tempo non si è data quasi importanza a Pitagora, questo colosso del nostropensiero mediterraneo, tutti occupati come eravamo a correr dietro ai nebulosi filosofi nordici.Fortunatamente oggi si torna a lui. E ne fanno fede il volume dell'Alessio e più che altro unpoderoso studio del Capparelli, di cui è comparso da non molto il primo volume; indicatientrambi nell'elenco bibliografico.

Ma torniamo adesso all'argomento che più interessa, quello cioè numerico, relativo allaTetractis. Dato il concetto pitagorico dell'uno-punto, la tetractis si rappresentava anche con untriangolo perfetto; come indica l'annessa figura 2. Da ogni angolo si sale da 1 a 4; la somma deipunti è 10, numero che tutto comprende.

fig. 2

L'indicazione del numero coi punti è rimasto anche nel nostro linguaggio matematico col termineche noi diciamo quadrato, cubo ecc. Così 3 ² è uguale a 9; ma segnato coi punti risultaprecisamente un quadrato, come indica la figura 3. Lo stesso si dica del cubo. Il quadrato peròaveva anche un altro nome; era la dünamics, la potenza, nome che è rimasto anche nellanostra nomenclatura aritmetica.

fig. 3

Quanto al valore dei componenti la tetractis, possiamo osservare che l'uno non è un numero;esso è il principio di tutto; en archà pòinton ha in sè tutto ed è pur sempre uno: è la normaleimmateriale, l'idea, il logos. Ma insieme è anche il punto, origine ed inizio di tutte le figure pianee solide. Nell'Uno e nel Punto è adombrato il Creatore. Dice Severino Boezio ( "Ars geometrica", pag. 397): Primus autem numerus est binarius; unitas enim... numerus non est, sedfons et origo numerorum.

Un verso di Dante (Par. XV, 57) parrebbe banale: esso dice: «raia da l'un, se si conosce, ilcinque e il sei ». Sembra un'asserzione senza scopo: ma essa è pitagorica: ogni numero deriva,raggia, dall'uno, se ben si considera, se ben si conosce. Son quasi le parole di Boezio. Maquesta idea è diffusa. E la troviamo anche negli antichi filosofi cinesi, vari secoli prima di Cristo.Per Hoi-nan-tseu l'uno è la radice di tutte le cose; per Wei-kiao esso è la sostanza della ragione;mentre per Lao-tseu è la ragione che produce l'uno. Per molti altri filosofi cinesi l'uno è lamonade che tutto produce.

Il due è perciò il vero primo numero: da esso sia con la sua somma 2+2, sia collamoltiplicazione 2x2, sia colla sua potenza 2 ² si genera sempre il perfetto 4. Macontemporaneamente il 2 è da questi generato (4-2=4:2=radice di 4=2). Il due è la lunghezza, èla linea terminata da due punti opposti; esso è perciò l'origine delle antinomie, dei contrari dellostesso tipo: bene e male, caldo e freddo ecc.

Il tre è il primo numero dispari (poichè, come si è visto, l'uno non è vero numero). Ma il tre è

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anche la più semplice superficie chiusa in un'area, il triangolo coi tre punti ai vertici. Ora iltriangolo è l'origine delle figure piane, che tutte possono risolversi in tanti triangoli; in essiabbiamo lunghezza e larghezza. Ed esso è pure la faccia della prima e più semplice figurasolida, il tetraedro, connesso al quattro.

Il quattro, generato dal due e generatore dello stesso due, è il prodotto di due fattori uguali(2x2) e cioè l'isos isachis; geometricamente ci dà il tetraedro (il tetragono di Dante) con trepunti in un piano e il quarto fuori. Il tetraedro è la figura geometrica più semplice che chiuda lospazio a tre dimensioni. Esso, formato da quattro triangoli, è l'origine delle figure solide che tuttesi possono risolvere in tetraedri. In esso abbiamo le tre dimensioni del nostro mondo fisico:altezza, lunghezza, larghezza. La figura 4 dà un'idea di questi fatti:

fig. 4

La somma dell'uno, del due, del tre e del quattro dà il dieci, la decade perfetta, che comprendel'Universo fisico. Si ha cosà la sacra tetractis su cui giuravano i pitagorici, e che non era ilquattro, come alcuni hanno supposto, ma il complesso dei primi quattro numeri, nei quali eracompreso il punto, la linea, il triangolo e il tetraedro, che andavano cioè dal punto immaterialesino ai corpi con altezza, larghezza e spessore: pasan füsin.

Nel giuramento pitagorico questa perfetta tetractis, che si assommava nella decade, è detta «sorgente dell'inesauribile natura ». E nel commento di Jeroele ai versi aurei (Ed. Carabba, pag.47) si dice che la «quaternità è la fonte dell'eterno ordine delle cose ». Bisogna poi ricordareche pei pitagorici la decade non era formata da dieci numeri successivi come la nostra decina,ma era la somma dell'unità coi tre numeri fondamentali, ed era essa stessa unità . Ogninumero superiore al dieci era formato da varie decadi a sè stanti; difatti pei pitagorici, comeunità di misura, non si andava oltre il dieci, la tetractis. Nel già citato commento di Jeroele(pag. 122) si dice che «l'intervallo finito del numero è la decade...; ma il valore, la virtù delladecade è la sua quaternità ».

Dante pure accede a questa idea del dieci, poichè dice nel Convivio (2, XIV, 3) dal diece in sunon si va se non esso diece alterando (nel senso latino) cogli altri nove e con sè stesso.

Ma con questo non è terminato il numerismo pitagorico. Pitagora, difatti, da un suo probabileviaggio in Egitto portò un altro principio geometrico, che è anzi quello che lo ha reso celebreanche al pubblico mediamente cólto. Ed è il noto triangolo rettangolo, che porta il suo nome, eche venne considerato mistico, sacro. Questo triangolo a lati speciali non è però una suascoperta. Già gli Assiro-babilonesi, duemila anni avanti Cristo, ma specialmente gli Egiziani loconoscevano. Vi era anzi in Egitto una casta sacerdotale, gli Arpedonapti, addetti all'ufficio ditracciare perpendicolari e contorni geometrici esatti per edifici e proprietà . Dalla storia dellamatematica sappiamo in qual modo essi riuscirono a tracciare un triangolo esattamenterettangolo. Una corda veniva divisa in dodici parti uguali ed i suoi due capi assicurati ad unpiolo. Si poneva poi un secondo piolo in corrispondenza della divisione 3, e quindi un terzo alladivisione 7 in modo che la corda risultasse tesa. Il triangolo cosà formato risultavaperfettamente rettangolo.

Se Pitagora conosceva, come certamente conosceva, questo procedimento egiziano, sembraperò esclusivamente opera sua l'aver notato che i tre numeri consecutivi 3, 4 e 5 dei due catetie dell'ipotenusa erano i soli che sussistessero appunto cosà consecutivi. Sua è pure laconstatazione delle relazione: 3 ²+4 ²= 5 ². Cioè il ben noto teorema detto appunto di Pitagora,

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che cioè la somma dell'area dei due quadrati costruiti sui cateti è uguale all'area del quadratocostruito sull'ipotenusa. La dimostrazione geometrica, che mette in figura la relazione numerica,pare sia dovuta ad Euclide. Ora da questa relazione sussiste pure che un triangolo rettangolo,che abbia un lato (cateto) lungo 3 e l'altro cateto lungo 4, ha necessariamente il terzo lato(ipotenusa) lungo 5. Questo triangolo coi lati 3, 4 e 5 è un triangolo speciale, sacro; e Platone lopose ad emblema della sua Repubblica. Plutarco, pitagorico esso pure (7), dice (De Iside etOsiride) che la Trinità egizia era rappresentata da questo triangolo. Il cateto 4 era la base,Osiride, il cateto verticale, 3, era Iside e l'ipotenuta, 5, Oro (8). In altro passo lo stesso Plutarcochiamò questo triangolo: il più bello di tutti. Sussiste anche il fatto che non esiste altra serie dinumeri consecutivi per le lunghezze dei lati di un triangolo rettangolo all'infuori di questa serie 3,4 e 5. Non possono perciò aversi serie come 4, 5, 6 oppure 5, 6, 7 ecc. (9). Da ciò l'essenzafilosofica mistica di questi tre numeri la cui somma 12 è, come il 10 della Tetractis, numero dialta perfezione (10).

Per la scoperta di questa relazione dei tre numeri 3, 4, 5 e delle loro proprietà , Pitagoraespresse la sua gratitudine alla Divinità , che gli aveva manifestato questa verità straordinaria,sacrificando, secondo Apollodoro, un'ecatombe. Ma poichè Pitagora era vegetariano, laleggenda non regge. Ha quindi maggior valore l'affermazione di Porfirio che il sacrifizio fusimbolico mediante una figura di bue composta da farina di farro. L'influenza pitagorica si rilevaanche dalla numerazione latina. Il due è il numerus binarius; il tre il ternarius; poi si ha ilquaternarius... il denarius ecc. Ma per l'Uno si ha unitas e non unarius. Ciò che conferma, coldocumento eminente probatorio della lingua, come l'uno fosse considerato quale entità a sè ediversa dal rimanente dei numeri.

I numeri del triangolo sacro hanno un significato non solo nella loro successione e nella lorosomma totale, ma anche sommati due a due. Cosà il 3+4 dà 7. Il sette è l'ebdomade, è ilnumerus virginalis, quello cioè che non è generato e non genera. Non ha madre perchè ènumero primo, indivisibile. Non genera, è verginale, perchè, moltiplicato per il numero minorepossibile, il 2 dà il 14, che è oltre la decade, è cioè la decade più quattro. La stessa proprietà dinon generare ha anche il 6, che moltiplicato per 2 dà 12, oltre la decade; ma il 6 è generato dal2 e dal 3; non è quindi senza madre e non è cosà misterioso come il 7, che fu sempre, inparecchie religioni, ed anche nella nostra, considerato appunto come misteriale.

Sommando il 3 col 5 si ha 8. Ora 8 è il doppio del perfetto 4, è anche il primo numero cubicopossibile (2 ³=8); è cioè il primo numero che esprime potenza di potenza. Ma è anche l'unionedell'origine dei numeri, l'uno, col numero vergine, il sette. è pertanto numero sacro e vedremocome lo abbiano adoperato i numeristi cattolici, come Sant'Ambrogio.

Sommando finalmente il 4 col 5 si ha il perfetto nove, che è la dinamis, la potenza del già perfetto tre.

Abbiamo cosà, da tempi antichissimi, un complesso di numeri di un significato speciale mistico,accolto da numerosi adepti, i quali si sono continuati sino a noi. E posso dire sino a noi, poichèanche il D'Annunzio era talvolta numerista. Lo prova la stesura della Laus Vitæ ove predomina ilmisterioso sette. Sono difatti 8400 versi (7x1200) distribuiti in 21 (3x7) canti e in 400 strofeciascuna di 21 versi. Ma torniamo agli antichi.

(3)Dantzig, Le nombre. Payot, Paris 1931, pag. 127.(4)Dice Eustachio (Ad Iliad., I, 16): Kosmos gar e taxis: il mondo è ordine.(5)Il fatto che la scuola pitagorica era iniziatica e segreta fece sà che col tempo si ebbero unaquantità di sètte, continuatesi poi per secoli, affermatesi anche a Roma, come ne fa fede laBasilica di Prima Porta. Esse terminano poi con gli epigoni frammassoni, seguaci soloformalmente dei numeri mistici, della squadra, del compasso, come pure del grande architetto.Dato il periodo che questo misticismo portava in sè, la Chiesa cattolica è sempre stata contraria

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a queste sètte nascoste, di tradizione, non di essenza, pitagorica. Tale opposizione era vivaspecialmente al tempo dei dicitori in rima, quali erano i «Fedeli d'Amore », di cui faceva parte,ma poi «parte per sè stesso » anche Dante. Sui Fedeli, sulla loro opera, sul loro linguaggio siconsulti la magistrale opera del Valli e i recenti e documentati lavori del Ricolfi, pubblicatispecialmente nella Biblioteca della Nuova Rivista storica.(6)Phytagore et la phylosophie pytagoricienne, Paris, 1875.(7)Non si potrebbe, anche oggi, da un fisico esprimere una più perfetta definizione dellamonade, l'elemento fisico elementare costituente, che non quella data dai pitagorici. Questamonade, questo quid integrante è il «punto immateriale posto in una determinata posizione ».Si potrebbe dire senz'altro: il punto situato. E da ciò pure si rileva che fu Pitagora a stabilire ladiscontinuità della materia.(8)Bisogna ricordare che l'Universo pitagorico, retto dal numero intero, è l'Universo sensibile,quello della vita quotidiana dei nostri sensi, della realtà comune. Le quantità irrazionali,secondo i pitagorici, appartengono al mondo dell'Infinito.(9)Plutarco, Opuscoli morali. Iside e Osiride. Trad. Adriani, VI, 310, Firenze, Piatti, 1821.(10)Boezio segna altri numeri interessanti per questi lati come: 6, 8, 10; 15, 20, 25; ma essirientrano tutti nell'espressione generale: n3, n4, n5, cioè multipli del 3, 4, 5. è interessane notareche anche in talune chiese si è mantenuto, forse avendone però dimenticato il significatooriginario, questo numero 12 diviso in 3+4+5. Si suona l'alba con dodici rintocchi, e certe volteseparati nei tre numeri sacri. Cosà in Santa Maria sopra Minerva, a Roma, l'alba viene appuntosuonata con tre, poi quattro, poi cinque colpi di campana.

3.-Virgilio e i Latini

Le linee fondamentali sin qui accennate del pitagorismo son chiare in Platone (11), il cuiprofondissimo dialogo Timeo ne è tutto permeato. Ma di questo non occorre parlare per nonfare inutile sfoggio di erudizione. Ricorderemo tra i pitagorici, come si è già detto, il nome diPlutarco, che, nei suoi opuscoli morali, è prettamente numerista. Tra i latini imbevuti dipitagorismo ricordiamo Cicerone. L'eclettico filosofo fu pitagorico, forse in seguito al suo periododi governatorato a Tarso; poichè a Tarso confluiva tutto quanto aveva rapporto alla misticaorientale. Furono pitagorici numeristi Ovidio, che mette spesso in evidenza il tre e nei Fastisegnala il dieci e i suoi multipli come fausti per Roma. Fu numerista Apuleio che dice del Sette:Eum numerum præcipue religionibus optissimum divinus ille Pythagoras prodidit. L'idillio diAusonio verte tutto sul tre e anche Orazio (Odi III; 19) canta: Tribus aut novem miscenturcyathis pocula commodis. E Seneca, a proposito dell'81, scriveva: perfectum numerum quemnovem novies multiplicata componiunt. Basterebbe il VI dell'Eneide per rilevare tutto ilpitagorismo di Virgilio; ma egli fu anche il più perfetto numerista tra i latini. In modo specialeappare in Virgilio il sette, diviso spesso in tre e quattro. Il terque quaterque beati (Eneide, 1, 94)è ben noto. Ma una espressione analoga si ha anche nelle Georgiche (1, 410) col ter gutturevoce aut quater ingeminat, e ancora nell'Eneide (IV, 587) si legge: "Terque quaterque manupectus percussa ". Questa divisione del 3 e 4 era rimasta anche nel Medio Evo nel Trivio eQuadrivio della cultura.

Del numerismo in Virgilio non so che alcuno si sia espressamente occupato, benchè esso siamanifesto. Vi accenno sommariamente. Dodici, numero sacro, sono i libri del poema. Dodici gliavvoltoi visti da Romolo. Nel testo predomina in modo assoluto il 3 coi suoi multipli: tre volte tre,tre volte quattro, tre volte cinque, tre volte dieci, tre volte cento. Il 30 è indicato dal numero deiporcellini che Enea vede là dove sarà costruita Roma. Più raro il quattro, sia come tale, siaquattro più quattro. Ma il numero del mistero, il sette, viene spesso ripetuto, anzi è il primo acomparire nel poema. Sino dal primo libro ci si presentano «sette e sette leggiadre ninfe e belle». Enea si ricovera coi sette compagni superstiti, combatte cogli avversari delle sette navi e tuttie sette distende a terra. I profughi vanno raminghi, secondo la profezia, per sette anni. Aifunerali di Anchise il serpe, animale simbolico e mistico, per sette volte e con sette giri siavvolge al tumulo. Sette sono i «non domi giovenchi ». Nel nono libro compaiono i sette ramidel Nilo; sette e sette sono i Rutuli, capitani egregi. Nel decimo libro troviamo i sette figli di

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Forco e sette sono i dardi avvelenati. Poi nel dodicesimo libro il rinforzato scudo è trapassatonei suoi sette doppi. Cosà l'Eneide comincia col sette e si chiude col sette.

Ma questa ebdomade torna predominante nella celebre Egloga quarta, su cui tanto si è scritto,e di cui l'opera del Carcopino (12) è forse l'illustrazione migliore. Tale Egloga è unriecheggiamento dell' «Anno grande » della tradizione pitagorica e sibillica. I cristianiinterpretarono invece quell'Egloga come canto messianico; per essa Virgilio nel Medio Evo fuconsiderato profeta.

L'Egloga è nettamente ebdomadica nella sua stesura, ed in essa si ha anche la ripartizione intrivio e quadrivio. La bella poesia comincia difatti con tre versi, cui seguono due strofe di setteversi ciascuna, poi un gruppo di altri ventotto (4x7) versi. Vengono poi quattro versi, che coiprimi tre (terque quaterque) formano ancora sette e finalmente la poesia si chiude con altre duestrofe di sette versi ciascuna. In tutto si hanno cioè 63 versi. Ora il 63 è dato da nove voltesette. Esso è un numero mistico, che aveva un suo aggettivo speciale. Questo aggettivo,perduto però il suo significato numerico mistico, dura anche oggi nella nostra lingua: èl'aggettivo climaterico. Applicato alla vita umana, il 63, anno climaterico (13), era un annomistico, che occorreva superare per aver lunga vita. Augusto, scrivendo al nipote, si rallegradifatti con sè stesso per aver ormai superato l'anno climaterico. Si vede dunque quantainfluenza il pitagorismo avesse nel mondo romano e come Virgilio ne sia stato uno dei principalirappresentanti.

Dante riconosce in Virgilio il suo maestro e il suo autore e dice che da lui ha ripreso «lo bellostilo » che gli ha fatto onore. Su questo «bello stilo » si è scritto e discusso con risultati assaimeschini. Si può considerare la questione anche sotto il nuovo punto di vista numeristico.L'analogia tra Virgilio e Dante nell'espressione ermetica, numeristica, potrebbe far ritenere che «lo bello stilo » sia da riportare a questo modo di esprimersi. Ma sarebbe un'osservazione forsetroppo sottile.

Tutti i commentatori si sono lambiccati il cervello per trovar modo di accordare lo stile di Virgilioe quello di Dante, che difficilmente si potrebbe immaginare più diverso, qualora per stile siintenda il modo di esprimersi scrivendo.

Chi asserisce, come lo Scartazzini, che Dante con quelle parole voglia alludere alla sua operaMonarchia; chi invece, e sono i più, dopo aver ricordato le parole del De Vulgari Eloquentia,vuole che «lo bello stilo » sia quello tragico, che Dante adoprò nelle sue canzoni.

Vediamo per prima cosa quale tra le opere di Dante gli abbia fatto onore, naturalmente primadella Commedia. Mi sembra che il trattato politico Monarchia sia assolutamente da escludere. Inogni caso riterrei piuttosto che si tratti della "Vita nova " con le canzoni, che gli procuraronorisposte più che onorevoli e lusinghiere da parte dei dicitori in rima e dei «Fedeli d'Amore », eche anche Bonagiunta ricorda a lode nel Purgatorio. Quindi «lo bello stilo » dantesco che gli hafatto onore, se si tratta di modo di scrivere, potrebbe essere il suo parlare chiuso, sottile,diciamo pure senz'altro, il suo modo di esprimersi in un linguaggio mistico, numeristico,ermetico. Sebbene il numerismo e il parlare sottile non sia cosà completo e perfetto nelle altreopere dantesche come nella Commedia, pure esso è innegabile nella prosa della Vita nova, cheè tutta ispirata, mistica ed ermetica, e anche nelle canzoni, e specialmente in quelle a cui è natolo «stil novo ».

Vediamo ad esempio come siano disposte le composizioni nel misterioso libretto della Vitanova. Si hanno prima dieci sonetti e brevi ballate, poi una canzone, poi altri quattro sonetti,infine una canzone mediana di importantissimo argomento; ad essa seguono, simmetrici, altriquattro sonetti, poi ancora una canzone e finalmente, per terminare, un'altra serie di 10 sonetti obrevi componimenti. Si ha cosà la successione: 10+1+4+1+10, assolutamente simmetrica. Equesto nessuno credo vorrà dire che sia un caso. Nè credo possa attribuire a caso che le

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visioni della Vita nova sono precisamente sette. Perciò l'ipotesi di riportare l'espressione «bellostilo » al modo di esprimersi ermetico cui abbiamo accennato potrebbe trovare una conferma.Ma non credo affatto che col «bello stilo » Dante abbia voluto alludere solo allo stile letterario.Nella nostra lingua (e anche nella francese) stile è pure modo di vita, modo di comportarsi.Ora Dante seguà, da adulto, uno stile di vita analogo a quello di Virgilio. Onesti, dignitosi,austeri e soprattutto alieni dalla volgarità : schivi di onori, entrambi i poeti riconobbero una solasuperiorità politica, quella dell'Impero. Come Virgilio, anche Dante fu tremendamente solo,isolato non tanto nel modo di pensare ma anche in quello di comportarsi. Come Virgilio, ancheDante ebbe altissimo il concetto della moralità della vita. E fu Virgilio che col suoinsegnamento, il suo esempio allontanò Dante da certe forme di volgarità , come la tenzone conForese, e lo portò su di una nuova via, gli fece assumere uno stile più adeguato all'austerità ,alla signorilità nella vita.

(11) Sulle idee platoniche a questo riguardo è interessante: Robin, La thèorie platonicienne desidèes et des nombres. Paris, Alcan, 1918.(12) Carcopino, Virgile et le mysthère de la IV èclogue. Paris, Artisan du livre, 1930.(13) Vi era pure un altro climaterico di minore importanza, cioè il primo climaterico, il 35, che èdato da 5x7, e che compare anche in Dante.

Prima di passare agli scrittori cattolici numeristi ricordiamo cosà di passata che furon pitagorici:Marsilio Ficino e, più ancora, Pico della Mirandola: a lui si deve la definizione dell'unità , comepunto infinito di tutti i numeri e completamento di qualsiasi cosa. Anche il Cardinale Cusa (Dedocta ignorantia, I, 5) asserisce: non potest autem unitas esse numerus; sed est principiumomnis numeri. Dicendo Uno Dio (dicono Ambrogio e Tommaso, Summa, I, 30, 3) non si vuoleesprimere un valore quantitativo ma un valore assolutamente qualitativo. Furono pitagoriciinoltre il Campanella, ferocemente antiaristotelico, e Giordano Bruno, che fu deciso numerista edimostrò la perfezione della decade, basandosi sulla considerazione che la somma degliestremi successivi dei numeri dava sempre come risultato 10 (9+1=10; 8+2=10 ecc.). Eglianche ricorda la perfezione del sei. Furono dunque pitagorici i neoplatonici ed è naturaleessendo stato Platone un pitagorico. Furono pitagorici Galileo, Copernico, Leonardo,ammiratore ed applicatore della «sezione aurea ». E fu Leonardo che scrisse: «La vera operad'arte risulta dall'accordo di quei certi elementi che formano una divina simmetria ».

4. - I Padri della Chiesa

Col mistero del sette è connessa la fondazione dell'Ordine dei Certosini. Narra il Puteus (Vita S.Brunonis, 41) che il santo vescovo di Grenoble Ugo sognò sette stelle che lo conducevano nelladeserta landa della Chartreuse. La mattina successiva giungeva Bruno con sei compagni, chegli chiedevano un luogo remoto per fondare il loro Cenobio. Per questa ragione nello stemmadei Certosini sono sette stelle attorno alla Croce e al Globo. Alessandro VIII fece coniare unamedaglia con l'effigie di San Bruno e sette stelle. Un numero mistico pitagorico, l'8,cristianamente diventa il numero delle beatitudini, come ce lo prospetta Sant'Ambrogio in questafrase: «Quatuor tantum beatitudines sanctus Lucas dominicas posuit, octo vero sanctusMathæus... Ille in illis octo mysticum numerum reseravit ». A tutti questi padri, che Danteconosceva benissimo, si deve aggiungere un altro autore ammirato da Dante: e fu SeverinoBoezio. Si potrebbe anzi asserire che egli avesse ripreso da Boezio un suo profondoconvincimento: accordare cioè le due filosofie, quella scolastica aristotelica e quella misticapitagorica. Boezio difatti nei suoi scritti cerca e trova questo accordo. Ma le preferenze di Boezionel campo scientifico sono per i pitagorici. Già vedemmo come egli consideri l'unità identicamente ai pitagorici. Per quanto non faccia eccessivo misticismo numerico, pure il suotrattatello di aritmetica è tutto pervaso da un senso generale di armonia, di profondità e diintima essenza del numero, in cui egli sente quasi sempre un senso divino. In un suo trattato(Institutiones arithmeticæ) sono ad esempio frasi come questa: «Omnia quæcumque... naturaconstructa sunt numerorum videndum ratione formata » (pag. 12); egli afferma poi (pag. 41) chei numeri perfetti hanno idea della virtù, e nel numero trova un che di admirabile

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profundissimumque (pag. 52). Il suo trattato sulla Musica è squisitamente pitagorico. Nè potevaessere altrimenti, quando si ricordi che Pitagora e la sua scuola hanno fondatosperimentalmente la scala numerica dei suoni. Tutto ciò che si è scritto sull'acustica e gliintervalli dei suoni sino ai giorni nostri non è che ampliamento e precisazione delle scopertepitagoriche. Di altri numeri cristiani mistici possiamo citare il XXX, tre volte il perfetto X, il XXXIIIche contiene tre volte il perfetto dieci e tre volte il perfetto uno e che altresà simboleggiaCristo-Uomo nei suoi anni di vita mortale cosà accettati dopo l'Opus majus di Bacone. Si hannopoi il C, potenza del perfetto X, ed M dato dal moltiplicare per dieci il numero cento potenza deldieci.L'idea pitagorica del numero, come armonia divina, venne ripresa in pieno dai numeristicattolici, i quali però modificarono il concetto del numero-idea secondo la credenza ortodossa.Dei Padri della Chiesa il più gran numerista è Agostino (ammiratore di Platone) da cui derivadirettamente il Doctor seraphicus Bonaventura, maestro a Dante di mistica francescana. Ilgrande per quanto un po' troppo trascurato Bonaventura fu profondo studioso del vescovoipponate. L'ammirazione sua per Agostino è dimostrata dal fatto che esso si appoggia a lui congrande frequenza. Il Padre Faccin, devoto indagatore della vita del serafico, ha pazientementecontato che egli cita Agostino ben 2.625 volte. Ammiratori delle solari armoniche teoriepitagoriche, questi nostri grandi filosofi cristiani non potevano non essere seguaci del numerocome suprema armonia dell'ordine divino. Nè va dimenticato che Agostino arriva a Dio ancheper mezzo del numero e dell'armonia. Il primo collegium con regole a tipo cenobiale fu fondatodal grande santo, che volle cosà quasi rinnovare le riunioni pitagoriche. Tanto è imbevuto dipitagorismo Agostino che egli definisce il bello come unità , ordine, armonia. Dice difatti Omnispulchritudinis forma unitas est. E dà tanta importanza al numero che lo considera l'essenzadelle cose. Per Agostino l'essere è essere uno e tutto quanto tende ad essere tende all'ordine,al numero. L'albero è albero in quanto è un albero; l'uomo è uomo in quanto è un uomo. Citosolo qualche passo del grande ipponate tra i più interessanti (14). Nel De libero arbitrio ilnumero è considerato in tutta la sua eccellenza e son citati anche i salmi che alla perfezione delnumero si riferiscono. Cosà (pag. 278) egli afferma l'incorruptibilis numeri veritas. E dal salmo146 riporta: Sapientiæ conjunctus est numerus. Dal salmo 176 cita il versetto: Circuivi cor meumut scirem est considerarem et quærerem sapientiam et numerum. Inoltre il capitolo XI del LibroII è tutto in lode della Sapienza e del Numero. Nel De Ordine (II, 146) egli dice ancora: Pulchranumero placent. Ratio sentit nihil aliud sibi placere quam numerus. E continua: «Tutto innatura vuol realizzare il numero e l'unità , che è il numero per eccellenza... Se l'uomo èsuperiore al bruto è perchè conosce e produce i numeri; perchè l'anima è piena di forme(idee!), cioè di numeri; forma, numero è la stessa cosa. Sopra i numeri sensibili e cangianti cisono i numeri spirituali, eterni, intelligibili e invariabili, che l'Unità perfetta ed assoluta domina ».E nel De quantitate animæ (pag. 252) mette in evidenza l'eccellenza del punto geometrico;come nell'opuscolo De musica (pag. 133) avverte che tutto l'ordine sta nel numero. A sua voltaBonaventura è eminentemente fedele al concetto mistico numerista; si può dire che non vi siaopera del Serafico che non contenga qualche accenno alla santità del numero. Egli, nellosviluppare i suoi temi d'ordinario, preferisce il numero tre, e lo stesso numero adopra per ledivisioni; anche per le gerarchie egli ha sempre una tripartizione e complessivamente ne contanove. Nel mirabile Itinerarium mentis in Deum (II) egli dice: «Poichè ogni bellezza e diletto nonpossono sussistere senza proporzione e la proporzione sta principalmente nel numero, occorreche ogni cosa sia secondo numero, e perciò il numero è l'esemplare precipuo dell'animo delCreatore e nelle cose è il principale vestigio per condurle alla sapienza ». Come i pitagoriciavevan dato importanza filosofica a certi numeri, cosà anche i numeristi cristiani ne pongono inevidenza altri: ma come è ben naturale, a tali numeri annettono un senso cristiano. Sono cioèquei numeri che Agostino ha chiamato spirituali, eterni, intelligibili e invariabili dominati dall'Unità. Naturalmente l'importanza massima è data all'1 e al 3. Scrive Agostino (De musica, 138, 2): «Ternarius primus est et totus impar ». Ma continua poi più esplicitamente: «Quare in ternarionumero quadam esse perfectionem video; quia totus est, habet enim principium, medium etfinem ». Dobbiamo ricordare ancora una volta che si tratta di numeri romani, e che quindi il tre sideve scrivere III. Esso ha dunque principio, mezzo e fine tutti uguali tra loro e ciascuno è l'unità. Nel tre è insieme il tre e l'uno; il simbolo della Trinità -Unità è perciò in esso ben manifesto. La decade per Agostino è pure numero perfetto. Egli dice (De musica, pag. 138): «In denario

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numero præfinitum est ». Ed è pure perfetto il 12: «Numerus duodenarius magnum continetsacramentum ». Esso difatti, come si è detto, è la somma dei numeri sacri 3+4+5. Il concetto disomma dei numeristi platonici è abbastanza diffuso. Dice Filone d'Alessandria ( "De vitacontemplativa ") che il 50 è il più santo e il più naturale dei numeri perchè è la somma dellepotenze del triangolo sacro: 3 ²+4 ²+5 ²=50. Dà molta importanza alle potenze dei numerianche Bonaventura. Tutta la sua opera, come si è detto, è basata sul 3, ma anche sul suoquadrato 9. In modo particolare il Dottor Serafico si occupa del valore dei numeri nel suoHexaëmeron. Egli dice del 9: «Secundum hunc numerum (il 9) habent illuminationes Trinitatisesse ». (Hexaëmeron, XXI, 1). E subito dopo, per il 10, osserva: «Novenarium completur etperficitur per additionem unitatis ». Il 7 è spesso citato da Bonaventura come il numero delmistero: l'ebdomade è sempre misteriale. Egli riporta da San Gregorio, che: «Septenarius,secundum Gregorium, est numerus universitatis in majori mundo et in minori et in Deo »(Hexaëmeron, XVI, 5). E poco dopo aggiunge: «Septenarius autem magnum mysterium habet». E conferma e rinforza subito dopo: «Iste numerus... est mysterialis ». Naturalmente hannovalore anche i multipli del 7 (2x7; 5x7). Le potenze, per Bonaventura, sono specialmente quelledel tre. Egli dice infatti (Psalterium David, 88): «Sunt tria, ter tria novem, ter novemvigintiseptem, ter vigintiseptem octuagintaunum » (15). Solo nel Sermo XV del suoHexaëmeron, dopo aver parlato della perfezione del 12, parla anche della sua dinamis, la suapotenza: 12 ²=144. è interessante notare che anche Confucio diede somma importanza alnumero 81, potenza della potenza della potenza del mistico 3. Un numero su cui hanno posto laloro attenzione i cristiani è il sei. Agostino lo considera una perfezione geometrica. Difatti col 6 siforma l'esagono iscritto al circolo e i cui lati sono uguali al raggio. San Beda (Hexaëmeron, II, 1)dice: «Senarium numerum constat esse perfectum, quia primus suis partibus expletur, sextavidelicet, quod est unus, et tertia quæ sunt duo, et dimidia quæ sunt tria. Unum enim et duo ettria faciunt sex ». Bonaventura considera il 6 altamente degno, basandosi al solito sull'autorità di Agostino. Egli dice (Psalterium David, 128): «Tanta est dignitatis huius numeri (senarii) quod,dicit Augustinus, opera perfecta sunt, quæ facta sunt sub senario. Inde dicitur perfectusnumerus senarius ». Anche Nicomaco, nella sua Theologia aritmetica, dà al 6 un grandevalore. L'idea della perfezione del 6 è rimasta anche nel nostro linguaggio: noi difatti diciamoassestare, mettere in sesto per mettere in ordine; ed anche al compasso diamo il nome diseste. Il sei è dunque un numero mistico, relativo specialmente all'uomo; divenne perciòsimbolo della perfezione della vita umana, cioè della giustizia. Tanto questo concetto era diffusoche le città si divisero in sestieri; il Villani difatti nella sua Cronaca (III, 2) dice: «la città ... siresse in sei sestieri siccome numero perfetto». Fuori della vita il numero dell'Uomo perfetto perAgostino è il misterioso 7; difatti il settimo periodo della vita è la morte, grande mistero; e ilsettimo periodo della storia del mondo è il misterioso sabato eterno. Col mistero del sette è connessa la fondazione dell'Ordine dei Certosini. Narra il Puteus (Vita S.Brunonis, 41) che il santo vescovo di Grenoble Ugo sognò sette stelle che lo conducevano nelladeserta landa della Chartreuse. La mattina successiva giungeva Bruno con sei compagni, chegli chiedevano un luogo remoto per fondare il loro Cenobio. Per questa ragione nello stemmadei Certosini sono sette stelle attorno alla Croce e al Globo. Alessandro VIII fece coniare unamedaglia con l'effigie di San Bruno e sette stelle.Un numero mistico pitagorico, l'8, cristianamente diventa il numero delle beatitudini, come ce loprospetta Sant'Ambrogio in questa frase: «Quatuor tantum beatitudines sanctus Lucasdominicas posuit, octo vero sanctus Mathæus... Ille in illis octo mysticum numerum reseravit».A tutti questi padri, che Dante conosceva benissimo, si deve aggiungere un altro autoreammirato da Dante: e fu Severino Boezio. Si potrebbe anzi asserire che egli avesse ripreso daBoezio un suo profondo convincimento: accordare cioè le due filosofie, quella scolasticaaristotelica e quella mistica pitagorica. Boezio difatti nei suoi scritti cerca e trova questoaccordo. Ma le preferenze di Boezio nel campo scientifico sono per i pitagorici. Già vedemmocome egli consideri l'unità identicamente ai pitagorici. Per quanto non faccia eccessivomisticismo numerico, pure il suo trattatello di aritmetica è tutto pervaso da un senso generale diarmonia, di profondità e di intima essenza del numero, in cui egli sente quasi sempre un sensodivino. In un suo trattato (Institutiones arithmeticæ) sono ad esempio frasi come questa:«Omnia quæcumque... natura constructa sunt numerorum videndum ratione formata» (pag. 12);

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egli afferma poi (pag. 41) che i numeri perfetti hanno idea della virtú, e nel numero trova un chedi admirabile profundissimumque (pag. 52). Il suo trattato sulla Musica è squisitamentepitagorico. Né poteva essere altrimenti, quando si ricordi che Pitagora e la sua scuola hannofondato sperimentalmente la scala numerica dei suoni. Tutto ciò che si è scritto sull'acustica egli intervalli dei suoni sino ai giorni nostri non è che ampliamento e precisazione delle scopertepitagoriche.Di altri numeri cristiani mistici possiamo citare il XXX, tre volte il perfetto X, il XXXIII checontiene tre volte il perfetto dieci e tre volte il perfetto uno e che altresí simboleggia Cristo-Uomonei suoi anni di vita mortale cosí accettati dopo l'Opus majus di Bacone. Si hanno poi il C,potenza del perfetto X, ed M dato dal moltiplicare per dieci il numero cento potenza del dieci.Il numerismo cattolico, dopo Bonaventura, continuò per secoli. è San Bernardino che dividesempre gli argomenti delle sue pratiche secondo i numeri. E più recentemente ne fa fede l'operadel P. Atanasio Kircher, "Arithmologia, sive de abditis numerorum mysteriis " stampata nel1665, la quale col solo suo titolo indica bene il contenuto mistico. Il Kircher parla dei numerisecondo le idee pitagoriche; riporta poi, si può dire, parola per parola, certe indicazioni diAgostino che però non cita affatto. Anche per l'erudito gesuita la tetractis si trova in tutte lecose. Del III dice che è il numerus triunus; ed anche per lui è misteriale il 7. Dice difatti (pag.272): «Septenarius numerus arcana continet mysteria ».Si vede dunque che sino quasi all'iniziodel 1700 imperavano tuttora, anche nel clero, le idee sulla mistica del numero, modificate però edirò cosà cristianizzate dai numeristici cattolici medioevali. Su questi autori familiari a Dante, eglisi è basato per la mistica dei numeri, che appare in tutte le opere dantesche ma in modospeciale nella Commedia (16).

(14) Mi son servito dell'edizione Plantin di Anversa del 1576. Opera D. A. Augustini hippon.episcopi per theologos lovanienses repurgata. (15) A proposito di questo 81 è da notare che Dante (Convivio, 4, XXIV, 6), parlando dei periodidella vita umana, gli dà una grande importanza tutta cristiana: «Io credo, se Cristo non fossestato crocifisso e fosse vissuto lo spazio che la sua vita poteva secondo natura trapassare, ellisarebbe alli LXXXI anno di mortale corpo in eterno trasmutato ». E questa è una secca smentitaa tutti quanti asseriscono che secondo Dante la vita naturale umana sia di 70anni. (16) Anche il Bossuet (Apocalypse, 14, 4) dice, a proposito dei 144 mila signati (12x12): «Bisogna intendere nei numeri dell'Apocalisse una certa ragione mistica, a cui lo spirito ci vuoleattenti ».

EA: Il capitolo che ora presentiamo di "Dante e il simbolismo pitagorico" è di fondamentaleimportanza per capire l'atteggiamento spirituale di Vinassa de Regny. Egli, non senza analogieal Papini successivo alla "conversione", è una sorta di "pitagorico cattolico". Pur cioèriconoscendo che in Dante vi sia un influsso pitagorico, nega che Dante sia unesoterista, giacchè il suo pitagorismo sarebbe perfettamente "ortodosso", essendo accettato eveicolato dagli stessi "Padri" della chiesa. L'atteggiamento di De Regny è sintomatico di quelche avveniva in certi ambienti di Firenze dagli Anni Venti in poi, ma che finì con l'influenzareanche personalità non fiorentine, come ad es. Girolamo Comi e Guido de Giorgio (Vedi inproposito il Quaderno "Papini e il Gruppo di Ur").

5. - Il Numero in Dante

Scopo della Commedia è di giungere o, meglio, di far giungere l'Umanità dalla selva delpeccato e del marasma politico sino al Dio cattolico Uno e Trino, nel quale si assomma anche,come vedremo, il supremo quesito aritmetico e geometrico che affannava da secoli l'umanità :la quadratura del circolo. Questa struttura armonica, numeristica, geometrica di tutte le opere diDante, ma specialmente della Commedia, fu detta, da coloro che poco intesero Dante e i tempisuoi, una cabbala; e con ciò dimostrarono di non conoscere la diversità tra la strampalatacabbala giudaica e la mirabile armonia pitagorica del numero. Chi poi parla di cabbala pitagoricafa una contraddizione in termini.

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A dimostrare l'assoluta ignoranza sul valore delle credenze numeristiche nel Medio Evo e inDante basterebbero le parole (17) del D'Ancona. Dice infatti questo autore: «Dante eraossequiente alla dottrina scientifica dell'età sua, anche nella parte più vacua e superstiziosa...Alla stessa dottrina dei tempi appartengono anche queste fantasticherie del Poeta sul numeronove... Vi è una reminiscenza evidente delle dottrine pitagoriche e neoplatoniche da un lato,delle mistiche e cabalistiche dall'altro, e qualche cosa che giunge a lui per superstizione evolgare tradizione ». Quindi Dante nella Vita nova (e più ancora nella Commedia) aveva per latesta reminiscenze, fantasticherie vacue e superstiziose e tradizioni volgari accolte senzacritica. Il Poeta è ben servito da taluni dei suoi più illustri commentatori! Ben diversamente disseil Carducci: «Questa cabala fu il freno dell'arte che fece cosà proporzionata, armonica, direiquasi matematica, l'esecuzione formale dell'immensa epopea ». Il Carducci, toscano, etrusco(gli etruschi erano pitagorici), ha assai meglio intuito e giudicato questa mirabile forma, che,come ad un concetto di perfezione, obbedisce al numero, suprema armonia.Nel precedente capitolo abbiamo veduto come Dante visse in un ambiente ove il misticismo deinumeri, trasmesso da Pitagora sino a Bonaventura, era diffuso tra i laici ed i religiosi; perciò nonè lecito parlare di fantasticherie superstiziose nè di tradizioni vacue e volgari.Dante non si limita ad accettare il ben noto tre e il nove che da tutti i commentatori è ammesso;ma molti altri numeri adopra in un determinato significato. Egli parla spesso del modo «sottile »di interpretare i numeri in rapporto alle cose. Nel Convivio (8, V, 5-7), dopo aver parlato delladivisione degli Angeli in tre gerarchie e ciascuna in tre ordini, aggiunge: «Ed è potissimaragione de la loro speculazione lo numero in che sono le gerarchie e quello in che sono gliordini. E poco dopo (7-9) osserva che «la Trinità è in tre Persone e ciascuna Persona si puòtriplicemente considerare ». E, sempre nel Convivio (XIII, 17), dice: «Li princàpi delle cosenaturali son tre... Non solamente tutti insieme ma anche in ciascuno è numero... per chePittagora poneva li princàpi de le cose naturali lo pari e lo dispari, considerando tutte le coseesser numero ». E finalmente ricordiamo le osservazioni (Convivio, 2, XIV, 2, 3) sulle stelle dellaVia Lattea che sono per lui 1022, cioè 2, 20 e 1000 come Dante stesso dice e sulle deduzionisottili che si possono fare su questo numero, su cui torneremo.Dante è dunque numerista ed anzi segue i numeri pitagorici, resi però sottilmente cristiani daiPadri della Chiesa, da Ambrogio, Agostino e più che altri da Bonaventura: tutti quanti grandisuoi maestri. Dante però non segue tutta la numeristica cristiana. Molti altri numeri mistici citaad esempio Agostino; ma Dante non li considera, limitandosi a quelli pitagorici cristianizzati.Si disse e si continua a dire che Dante è un tomista. L'affermazione, nel senso di credere cheDante sia un puro scolastico, è inesatta. Egli è anche tomista; ma quando occorre si distaccadall'Aquinate. Basterà , a conferma di questo, ricordare il Purgatorio in cui tutto procedesecondo la dottrina francescana e più specialmente bonaventuriana, che è in contrasto conquanto afferma l'Aquinate.Inoltre la scolastica non dà alcuna importanza al misticismo del numero. Nel grande Doctorangelicus difatti la parte mistica numeristica non appare. Invece essa è prevalente inBonaventura, il Doctor seraphicus. Il Righi, profondo conoscitore di Bonaventura, ripete quantoda tempo aveva detto l'Ozanam. Questi difatti aveva osservato che Bonaventura «convertiva indottrina ciò che era narrato dall'estasi e dai rapimenti di Francesco ». Il Righi a sua volta diceche l'esegesi di Bonaventura ha carattere prevalentemente mistico: «Negli scritti teologici eglicerca la Verità , ma più che altro inculca la Bontà , fa tutto illuminare dalla Luce divina,tenendosi però sempre stretto alla guida ed al lume della Rivelazione. Da qui la fonte della suamistica che appare ogni volta che ne capiti l'occasione».Una leggenda ci narra che Tommaso chiese al suo grande amico e antagonista Bonaventuraquale fosse la sua biblioteca. E il Serafico rispose mostrandogli il Crocefisso. La leggenda,come tutte quelle francescane, è bella; ed ha una parte di vero, come tutte le leggende.Bonaventura non avrà avuto una sua biblioteca propria, poichè la regola francescana imponevadi non aver proprietà di sorta. Tutto gli veniva dall'amore della Croce; ma Bonaventura avevaperò letto tutto quanto si riferiva alla teologia e alla filosofia del suo tempo. Sembra esatta lanotizia che egli avesse di propria mano ricopiato tutta la Bibbia e per due volte; le sue letture deiSanti Padri sono certo state complete e numerose. Come già si è detto, Agostino apparel'autore preferito; e tale preferenza è facile a comprendere per la somiglianza dei due grandi nel

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loro sentimento. Giustamente Bonaventura poteva accennare al Crocefisso come suo ispiratore.Nel Serafico si ha il mirabile connubio tra la profonda dottrina dogmatica e il calore delmisticismo francescano, derivato dall'amore a Dio, alla passione di Gesù, alla Vergine madre. «Mentre (dice il Righi, pag. 84) i commenti al libro delle Sentenze gli meritano uno dei primiposti tra i pensatori cristiani e lo rendono uno dei pràncipi della scolastica », pure giustamentepotè Leone XIII, nell'allocuzione al Generale dei Minori dell'11 novembre 1890, dire: «Dopo cheha salito le vette della più alta speculazione parla con tanta perfezione della mistica, che, senzaesagerazione, lo si può ritenere uno dei primi maestri di mistica ».Dante fu perciò, più che tomista, bonaventuriano; cioè scolastico e mistico insieme come fuAgostino. Giustamente l'Ozanam dice che accanto al misticismo dell'Ipponate si deve ricercareil suo dogmatismo. Come fu eclettico Agostino, cosà è Dante. Esso pure batte tanto alla porta diAristotele quanto a quella di Pitagora e di Platone. Non si può però negare a Dante unapreferenza pei mistici.A questo proposito si possono rilevare alcuni fatti di un certo interesse. Quando parla diFrancesco nel Paradiso lo chiama serafico, mentre Domenico è cherubico. Ora i Serafini, nellagerarchia angelica, sono superiori ai Cherubini. Inoltre di Domenico si parla, sà, nei ben noticanti X e XII del Paradiso; ma esso non viene mai più incontrato da Dante. Nell'Empireo invececi sono presentati alcuni santi che stanno presso Dio: Dante ne cita solamente tre: «Francesco,Benedetto ed Augustino ». Sono tre mistici: manca Domenico e primo fra tutti è Francesco. Puòanche esservi nell'elencazione un'omissione involontaria; ma in Dante nulla è lasciato al caso, esi deve perciò ammettere che la citazione dantesca dei tre santi stia a indicare una preferenzaed una superiorità pei mistici. Inoltre la sola santa di cui si parla, in perifrasi, nella Commedia èChiara, la mistica sorella di Francesco (18).Si disse che Dante sia stato francescano o almeno abbia voluto rendersi tale in gioventù; idocumenti mancano; ma certo è che egli sentà fortemente la mistica francescana. Il suo animo,spesso esacerbato e sdegnoso, non era certo quello mite, semplice, ingenuo, entusiasta diFrancesco. La mistica di Dante è perciò quella di Bonaventura, la quale, come sappiamo, è losviluppo scientifico della mistica francescana. Dante pertanto, come si è detto, è altrettantotomista quanto bonaventuriano.Il grande Poeta è eclettico, come lo era Agostino, e sembrerebbe impossibile con quanto siconosce della sua personalità a prima vista intransigente. è un ingegno perfettamenteconciliante. Insofferente, quasi fazioso in certi argomenti, cerca invece l'accordo per le grandiquestioni religiose e politiche. Suo è il sogno della conciliazione tra le due grandi potestà , lareligiosa e la politica, nell'unità della Chiesa purificata, rinnovata e dell'Impero ricostituito innazioni (Imperium et Nationes, il detto di Federico di Svevia); sua la dimostrazione che si possaessere insieme mistici francescani e scolastici tomisti. E lo prova, come vedremo, l'ultimo cantodel poema, ove imperano entrambe le dottrine.Nè va dimenticato che egli è un italiano, un toscano, mediterraneo. Nel suo sangue, nel suomodo di sentire, di pensare, si era trasfusa la millenaria civiltà etrusca, che tutto ordiva secondonumero e armonia. Un altro esempio ci sta a indicare questa predilezione di Dante per laregolarità armonica pitagorica. Tra gli scultori egli cita soltanto Policleto (Purg., X, 32): Oraquesti era noto come autore di uno scritto (il Regolo) sulla proporzione del corpo umano comeprototipo dell'armonia secondo il numero e nel Medio Evo era considerato maestro del calcolodella misura, era cioè un perfetto pitagorico.Epigoni del numerismo furono e sono i frammassoni. Per questo taluni, e primi tra tutti ilRossetti e l'Aroux, hanno voluto vedere in Dante un settario, un illuminato, quasi un protestante,comunque un anticattolico. Nulla di tutto questo. Dante è invece un perfetto cattolico; non solodal punto di vista dogmatico, ma anche come credente e praticante. Egli è veramente, come lochiama San Pietro, un «buon cristiano ». Su questo argomento occorre una breve digressione.Si dice per tradizione che Dante fosse sottoposto a processo per eresia; ma la leggenda non èaffatto confermata. Una sola cosa è sicura; che egli era assai mal visto dagli inquisitori deltempo e su questo ritorneremo. Date le contingenze politiche in quei burrascosi momenti, il suotrattato, Monarchia, venne condannato e pubblicamente bruciato. Ma i tempi mutarono. Ungrande Pontefice, Leone XIII, fece cancellare il Monarchia dall'indice dei libri proibiti. Ma vi è dipiù. Un altro Pontefice, di cui tutti ammirammo la pietà e l'alto ingegno, Benedetto XV,

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proclamò la Divina Commedia il quinto Vangelo e pel centenario dantesco, il 30 aprile 1921,pubblicò un breve discorso, che, dopo quello di Leone XII per Cristoforo Colombo (19), fu ilsecondo esempio di un discorso pontificale al mondo, non per chiarire verità , ma perprospettare la gloria, anche cattolica, di un uomo, che, se non fu un santo da altari, fu certo unuomo provvidenziale, mandato da Dio, e dal Suo Amore ispirato.Come si può spiegare questo rovesciamento di posizioni per cui di un uomo sospetto e diun'opera creduta eretica si fa rispettivamente un messo provvidenziale ed un quinto Vangelo?Dante, cosà profondamente ortodosso, fu certo un feroce nemico di taluni pontefici. Ma questofatto si può riportare alla sua fervente anima di cristiano, che avrebbe voluto vedere la Chiesatornare al suo primitivo splendore, anche per la virtù dei suoi sacerdoti. Opinione questa moltodiffusa tra i fedeli del tempo. Ma i sacerdoti di allora a questo non pensavano. Ci volle Luteroperchè venisse Trento!Quelle animule timorate che si scandalizzarono per le roventi parole dantesche contro i ponteficie il clero del suo tempo, e che pertanto vorrebbero far passare Dante per un eretico, unframmassone, uno scomunicato, dovrebbero meditare su quanto scrivevano allorasull'argomento non dei laici come lui ma papi e santi. Lasciamo pur da parte San Pier Damianoin confronto al quale gli attacchi di Dante alla Curia possono passare per complimenti. Basterà ricordar che questo gran santo dice chiaramente che la Chiesa era divenuta la bottega diSimone. Ma gli stessi pontefici intervenivano.Nel 1254 Papa Innocenzo IV pubblicò una bolla in cui si leggono queste gravi parole: «Intanto inostri uomini di chiesa, divenuti gente di legge, cavalcando superbi destrieri, vestiti di porpora,coperti di gioielli, d'oro, di seta, riflettendo i raggi del Sole, scandolezzato dal loroacconciamento, fanno da per tutto mostra orgogliosa di sè; e nelle persone loro, in luogo delVicario di Cristo, si danno a conoscere eredi di Lucifero, ed eccitano le ire del popolo, non solocontro sè stessi, ma contro la sacra autorità che indegnamente rappresentano. Sara dunque èschiava ed Agar si è fatta padrona ». E lo stesso Pontefice aveva proclamato: «La corrutteladel popolo proviene principalmente dalla corruttela del clero ».Ma non solo i pontefici; anche i santi parlavano al modo stesso. è attribuita a San Bernardo unatremenda orazione contro il clero al Concilio di Reims. Il Mabillon, editore degli scritti del grandemistico chiaravallese, la pone nel Vol. II delle opere suppositicia; ma con tutta questa suaprudenza non può onestamente esimersi dall'osservare che, se anche non si tratta di operagenuina, certamente è un centone di frasi riprese da altre opere di San Bernardo. In questadiatriba feroce contro il clero e specialmente contro i vescovi si dice tra l'altro: «Diciminipastores dum sitis raptores. Paucos habemus pastores, multos excommunicatores. Quare,Domine Jesu, elegisti diabolum episcopum? Plus nitent calaria quam altaria. Non sunt pastoressed traditores ». E continua chiamandoli superbi, nepotisti, nemici dei poveri, peggiori di Giudache si contentò di poco, mentre essi pretendono molto. Sono pure attribuiti a Bernardo attacchiai pontefici tali che quelli di Dante sono complimenti. Il gran santo dice che Roma è Babilonia eil papa è l'Anticristo. Rivolgendosi poi direttamente al Pontefice esclama: «Costui è Pietro, chenon si sa che sia stato mandato in giro ornato di gemme e di seta, coperto d'oro, portato da unbianco palafreno, seguàto da una turba di soldati e assiepato di ministri attorno a lui; eppuresenza tutto questo credè potersi adempiere il salutare comandamento: Se mi ami pasci le miepecore. In questa cosa tu, pastore, succedesti a Pietro non a Costantino ».Anche Sant'Antonio, in una delle sue prediche, esclamava: «L'avarizia rode alcuni preti anzimercanti. Salgono su questo Monte Tabor che è l'altare, e tendono reti per pescare l'oro; e delSacramento della Salute fanno letame di cupidigia ».Ma sentiamo quello che più tardi dirà una santa, la grande Caterina da Siena: «La inflatasuperbia regna nella sposa di Cristo... i prelati non attendono altro che a delizia a stati digrandissime ricchezze... fatti lupi e rivenditori della Divina Grazia ».Il pio frate Cavalca, nel suo Specchio di vera penitenza, dice dei prelati che «si può dire santonon quel prelato che dia del suo, ma che non rubi l'altrui ».Non vi è dunque alcuna ragione di accusar Dante di irreligiosità ; egli ha scritto nè più e forsemeno di quello che scrivevano e predicavano Pontefici e Santi. Ma egli teneva ben distinta lacontingenza delle condanne politiche dal fatto religioso, dogmatico, indiscusso e indiscutibile.Dante è un politico che disprezza i vili, quali il Papa Caorsino, ma quando trova dei personaggi

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degni di lui li onora della sua riprovazione. Cosà fa pel grande Bonifacio, che destina all'Infernoanche prima della sua morte. Ma Dante cattolico inveisce contro l'attentatore di Anagni, controlo schiaffeggiatore dello stesso Bonifacio. Qui difatti non si tratta del Papa ostile ma dell'altadignità pontificia. Bonifacio, per Dante, è degno dell'Inferno, ma è sempre il Supremo Pontefice,il successore del maggior Pietro.Questa distinzione tra Curia politica e Papato religioso, che tanto ha fatto adirare nel recentepassato e fa adirare anche oggi gli intransigenti, ha dunque, come si vede, un'origine antica edillustre. Vediamo ora un poco più estesamente la figura religiosa del grande fiorentino. Sulla suaortodossia dottrinale non si possono affacciare dubbi. Suoi maestri ed autori sono i grandi santidottori cattolici. Ma Dante non è solo il teologo, non è solo il padrone delle Scritture e loro esattoe ortodosso interprete; il sapiente che sa e può rispondere a Pietro sulle verità della Fede edessere approvato; ma è, Dante, buon cristiano, come lo chiama l'apostolo stesso; è il cattolicoper sentimento, il credente persuaso e dotto, ed anche il piamente orante colle preghiere degliumili: l'Ave Maria, il Pater noster. Occorre dir questo per ritrovare intera la personalità di Dante.Oggi purtroppo si usa confondere la cultura religiosa colla religione, colla fede, ed è male;perchè, se per un cristiano è necessaria una cultura, la religione non si deve limitare ad unacredenza intellettualistica, filosofica. Come ben dice il Papini, non si deve avere in sè un Dioteologico; ma occorre un Dio vero, personale, sentito. La cultura religiosa è necessaria: ma lareligione vera è un'infanzia del cuore, da cui la verità : «Se non vi farete come pargoli nonentrerete nel Regno dei Cieli ».Ora Dante fu sà un coltissimo teologo, ma altresà un umile credente in un suo Dio personale. Eben il Carducci potè confrontarlo col Petrarca dicendo mirabilmente che il cantore di Laura fu undevoto mentre Dante fu un credente. Nella Commedia non mancano, anzi abbondano, irichiami alla religione semplice, alla credenza umile, all'abbandono a Dio, come potrebbe fare ilpiù semplice e il più «pargolo » dei cristiani. Dante è quello che ai troppo sapienti chiede: «Chisei tu che vuoi sedere a scranna » e giudicare delle cose divine colla tua vista umana?E' colui che consiglia di star «contenti al quia», che indica che a nostro salvamento bastano leScritture e il pastore della Chiesa che ci guida.Prettamente religioso, ligio alla forma più ortodossa è anche il comportamento di Dante rispettoa due grandi peccatrici, Francesca e Cunizza. Quanta pietà per Francesca! Ma essa è morta inflagrante peccato mortale senza possibilità di pentimento; è dannata. Sembra, ed anzi è, cheDante uomo sia profondamente commosso e addolorato cantando di essa; ma, come cattolicorigidamente credente, la deve condannare. Cunizza certamente fu peccatrice, ma essa ebbemodo di pentirsi e di terminare in virtù la sua vita. Per quanto sian gravi i peccati commessi, laBontà divina accoglie i penitenti quando il pentimento sia totale e sincero; basta il pentimento aredimere dal peccato.Ma vi è un altro esempio, che ha dato tanto da fare ai commentatori. Capeto, in un mirabilepunto della storia di Francia, inveisce contro quel Carlo, pieno di magagne, che però abbiamotrovato salvo nella Valletta amena. Nessuna contraddizione. Carlo, al letto di morte, si pentàsinceramente dei propri misfatti; egli è dunque perdonato; orribili furono i peccati suoi, comequelli di Manfredi, ma la Bontà divina accoglie chiunque si rivolge a lei. Non si può essere piùortodossi, direi quasi catechistici, di cosà.E a questo proposito ricordiamo che Dante ha fatto salvo Rifeo, pagano. Perchè allora non havoluto fare altrettanto per il maesto suo, Virgilio, per il quale si permette solo una nascostasperanza, non di salute eterna ma di mitigazione di pena? Credo che si debba trovare unaspiegazione di questo. San Paolo, secondo la leggenda, ha deplorato di non esser giunto intempo per salvare il Poeta latino. è noto un inno che faceva parte della liturgia della messa diSan Paolo, che pare si continuasse a cantare sino a tutto il 1400. In questo inno si dice chel'Apostolo, dinanzi al mausoleo di Virgilio, piangendo, cosà si esprimesse:

Quem te, inquit, reddidissem,si te vivum invenissem,

pœtarum maxime!

Dove non era riuscito San Paolo non poteva sostituirsi Dante! Egli ha dunque potuto permettersi

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(in perfetta ortodossia!) il salvataggio di Rifeo ma non poteva, come cattolico credente, andarcontro San Paolo e sostituire il proprio al giudizio dell'Apostolo.Profonda è la religiosità di Dante quando nel XIV del Paradiso parla della resurrezione dellacarne. Vi è un anelito profondo alla vita futura; poichè il Poeta canta che non si deve piangerenè temere la morte, sapendo che lassù si vive e si ha il refrigerio della beata pioggia eterna. Edaffettuoso è il pensiero che il riprender la carne possa esser di gioia per le mamme e per i padri;e qui la parola mamma (rima sottile) rende affettuosamente umano il concetto della resurrezionedei corpi.Veramente dunque, quando Beatrice chiede a Pietro di interrogare il suo fedele sulle verità cattoliche, osserva che non ce ne sarebbe bisogno, poichè il santo vede certamente nell'internodi Dante. Ed è forse per questo, per la conoscenza che Pietro ha di lui e della sua semplicefede, che lo invita a sè colla paterna parola «buon cristiano » (20).

***Dante, col suo numerismo, non fu dunque un eretico, un ribelle, nè il suo numerismo va confusocon quello delle sètte eterodosse. Egli aveva, direi, una quasi istintiva mentalità numeristica edarmonica. Questa del resto si trova dal più al meno in tutti noi. Basta mettersi a indagare sulmodo di scrivere di molti autori, anche modernissimi, per rilevare come sia diffusa, ad esempio,l'espressione ternaria anche ripetuta.Alfredo O'Rahilly, membro del Parlamento irlandese, nella sua bibliografia del Padre GuglielmoDoyle (21), cappellano militare morto in Fiandra nel 1917, ricorda come questo gesuita tenessenota e contasse esattamente, giorno per giorno e mese per mese, le aspirazioni a Dio che eglisoleva fare. Dunque questo desiderio e questa inconsapevole attrazione al numero è diffusa. EDante questo numerismo, questa armonia tenne sempre presente nell'orditura di ogni canto e diogni cantica, orditura preordinata a cui, come dice lo stesso Poeta, il freno dell'arte nonpermetteva di trasgredire.Come osserva acutamente il Giusti nel suo saggio sulle Opere del Parini, i forti ingegni, mentresono audacissimi nell'infrangere i ceppi imposti dagli altri, sono poi durissimi ad imporsene deinuovi e terribili.Il numerismo dantesco non ha dunque alcuno scopo ermetico, iniziatico o, per dirla con unaparola espressiva per quanto poco esatta, anticattolico. In questo particolare di un eventualeermetismo eterodosso dantesco non mi trovo quindi d'accordo col Valli. Questi, ad esempio, hacreduto che Dante volesse nascondere la simmetria Croce-Aquila, come se si trattasse di unsegreto pericoloso a svelarsi, dato il temo, lo dirò col Giusti, «agli arrosti propizio ». La mirabilesimmetria Croce-Aquila rilevata dal Pascoli che il Valli ha magistralmente posta in rilievo nondice altro, per quanto nascosta alla «gente grossa », se non quello che Dante ripeteva sempreassai chiaramente; che cioè non poteva aversi giustizia e pace se non con l'accordo tral'autorità religiosa e quella civile, che per Dante non poteva essere che quella imperiale. Nonpoteva certo l'Inquisizione bruciare per questo la Commedia e il suo autore. Certo il Monarchiafu condannato; ma si trattò di condanna contingente, in rapporto cioè ai tempi e alle condizionispeciali della Chiesa di allora; su per giù come fu per la condanna di Galileo. Ma poichè ilMonarchia non conteneva errori dogmatici venne cancellato dall'indice dei libri proibiti, comeaccadde per l'opera di Copernico, che però venne tolta dall' «Indice » solo nel 1758. Assai piùpericolosa appariva la «Beatrice », che poteva somigliare troppo alle «Donne » degli Eretici,tipo Cecco d'Ascoli, che si collegava alla «Donna » degli Orfici. Perciò, come vedremo, Dantemette bene in chiaro che la «sua donna » è ben diversa da quella degli altri Fedeli.Dante dunque, adoperando il numero, non ebbe affatto l'idea di nascondere in esso qualcosa dimeno che ortodosso. Egli, invece, che era tutto, anche uno scienziato, amava, come tutti isapienti dei suoi tempi, di scrivere per la gente «sottile ». Quelli che erano «in piccioletta barca» non potevano comprenderlo: la gente «grossa », quelli che, come dice il Boccaccio,intendevano «alla melanese », erano esclusi dalla possibilità di entrare nel senso volutamenterecondito, ma non eterodosso, della parola dantesca. Questo vezzo degli scienziati si ècontinuato per lungo tempo: essi scrivevano pei dotti, anzi pei doctissimi. Quando l'astronomoHuygens, ed eravamo dopo Galileo, volle comunicare ai colleghi la sua scoperta circa la formadell'anello di Saturno, adoprò un anagramma, che poi dovette decifrare lui stesso. Leonardoscriveva a rovescio e spesso anagrammava le parole più importanti e segrete. Nel mondo

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artigiano (e intendo con questo anche gli artisti) si avevano regole segrete, come quelle degliarchitetti (22), seguaci essi pure del mistero del numero; regole che il maestro rivelava solo aidiscepoli più quotati. Dante quindi non vuol parlare in chiare note, ma avviluppa le sue idee inenigmi e concetti sottili in modo da esser compreso solo dai dotti: Odi profanum vulgus. Al volgoprofano è contrapposto, come qualcosa di sacro, di iniziatico, il mondo dei sapienti.

***Dante fu eminentemente geometrico, perchè egli ricordava che «sempre la Divinità geometrizza» e tutto il poema compose secondo una mirabile geometria. Egli anzi dicechiaramente:

le cose tutte quantehanno ordine tra loro e questo è forma (idea!)

che l'Universo a Dio fa simigliante.

Ora il numero è ordine, è armonia; e pertanto il Poeta adopra il numero, che è perfezione. Dantenon usa che i numeri mistici sacri usati anche dai Padri della Chiesa: solamente dà moltaimportanza al gruppo pitagorico 3, 4, 5 su cui i Padri meno hanno insistito; e un numero poi creasuo, speciale, sul quale torneremo parlando dell'ultimo canto. In conclusione, non Dante ènumerista. Numerista è Dio: e Dante lo segue devotamente.Vi sono taluni che non vogliono accogliere i risultati di questi nuovi studi sul numero in Dante,obiettando che si tratterebbe di un artifizio indegno del grande Poeta. Occorre intenderci suquesta parola artifizio. I dantisti ufficiali, quelli che appartengono all'hortus conclususvalidamente guardato contro gli intrusi, quelli che riproducono da anni gli stessi dischifonografici, non sembrano avere un esatto concetto dell'artifizio. Artifizi stucchevoli son quelli ditaluni modesti dicitori in rima del tempo, artifizio quello di talune rime del Petrarca, dei secentisti,degli arcadi, di gente senza ispirazione che si è sbizzarrita in mille giocarelli. L'artifizio in questicasi è palese e l'artifizio nega la poesia. Ora non si considera in Dante un artifizio la terzinaferreamente legata, la struttura ternaria prevalente, i cento canti costituiti da 1+33+33+33 ecc.;e dovrebbe essere artifizio non adoprare la stessa rima nello stesso canto e più ancora fareimperare, come vedremo, anche nella rima, l'armonica legge pitagorica? E si può dire artifizioquesta mirabile prassi dantesca, soggetta ad innumeri freni dell'arte, che viene scopertasoltanto oggi? L'artifizio si svela subito. Cosà, ad esempio, tutti vedono l'artifizio dell'acrosticodel XII del Purgatorio, colle terzine che tutte cominciano con: Vedea, O, Mostrava. Ma là dovenulla appare a prima vista, e dove son occorsi sei secoli per scoprirlo, non si tratta più di artifizioma di arte sovrana.Quando si ammette la struttura ternaria, il 3, il 33, il 10, il 100, allora, come dice giustamente ilPetrocchi, è illogico non fare il passo completo ed accettare anche gli altri numeri, chechiaramente appaiono quando si analizzi accuratamente la stesura della Commedia. Dante hacostruito la sua mirabile cattedrale al Dio Uno e Trino secondo i dettami dell'armonia, cioè delnumero e della geometria. Numero, armonia, geometria eran connaturati nella mente fuordell'umano grande di Dante, come eran connaturati il verso, la terzina, la rima regolata. Siammetta, come è necessario ammettere, che il freno dell'arte dantesca non si riferisca solo allaterzina, alla rima non mai ripetuta nello stesso canto, alla struttura ternaria di tutto il poema, maanche ai numeri che son perfezione, armonia e avremo un Dante che sovrasta di mille cubiti glialtri, per aver sottoposto al «fren dell'arte » anche la struttura numerica della sua epopea. Nonsi deve però credere che Dante scrivesse secondo un suo prontuario numeristico. L'armonia,la simmetria, il numero erano connaturati in lui. Quando un popolo crea una lingua e un grandescrittore la codifica, la grammatica non esiste ancora. I grammatici vengono dopo e ricercano aposteriori le leggi della lingua che studiano. Cosà facciano noi ricercando nella prassi dantescale leggi del numero, che Dante possedeva nella sua anima.Quelli che non possono negare certi dati di fatto relativi al numero ricorrono a quel comodissimoconcetto di «caso ». Il caso è la scappatoia degli infingardi e dei presuntuosi. Infingardi che nonvogliono sobbarcarsi alla fatica di una più profonda ricerca; presuntuosi perchè non voglionoriconoscere la propria inferiorità . Per Dante non si dà mai che si possa parlare di «caso ». Edel resto basta ricorrere ad un facile calcolo delle probabilità per eliminare questa idea errata.

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Prendo ad esempio, per un tal calcolo, una delle cose più mirabili che siano tra le rime dellaCommedia. Come abbiam veduto, i tre numeri consecutivi 3, 4, 5 del triangolo pitagorico sonsacri, divini. Orbene: la rima Dio è tre volte nell'Inferno, quattro volte nel Purgatorio e cinquevolte nel Paradiso (23). Ed anzi, per non alterare questa mirabile sigla, Dante adopra il latinismoDeo, non certo per deficienze di rima! Dir questo per Dante, che ne ha una stragrandericchezza, sarebbe davvero eresia.Se ricorriamo al calcolo delle probabilità con riferimenti numerici adatti arriviamo all'espressione

1/70.000.000.000.000.000.000.000.000

espressione che alla nostra piccola mente non può dir nulla. Bisogna ricorrere ai confronti.

La luce, a percorrere una distanza espressa da un numero di metri uguale al denominatore diquesta frazione (che rappresenta il numero dei casi possibili fra i quali il caso avrebbe sceltol'unico favorevole dato dal numeratore), impiegherebbe 75 milioni di secoli. Per discendere adun paragone più prosaico si può dire che la probabilità che abbia agito il solo caso equivale avincere 150 quintilioni di volte una quaterna al lotto.Come ho detto, faccio questo solo esempio per non riempire di formule questo volume. Assicuroperò coloro che hanno poca dimestichezza con questi conteggi, che per qualsiasi altro esempionumerico che citeremo in seguito, i calcoli possono esser ripetuti; e tutti, dico tutti, escludonoche si possa parlare di caso.

(17) La Vita nuova, II ed., Pisa, Nistri, 1884, pag. 205.(18) Forse taluni saranno meravigliati di questa asserzione e citeranno il verso38 del CantoXXI dell'Inferno ove in tutte lettere è nominata Santa Zita. Ma questo nome è ricordato a scornodei quasi idolatri Lucchesi, che avevano di motu proprio fatta santa questa Zita. Essa non fusantificata che oltre tre secoli dopo Dante!(19) A proposito di Colombo, ricordiamo che egli pure fu un mistico. Partà pieno di fede piùche di cognizioni scientifiche; perciò potè scrivere: «Dio mi concesse le chiavi dell'Oceano e ilpotere di infrangere le catene del mare, che erano strettamente serrate ». Il misticismo non èraro negli scienziati. Newton si pose a studiare l'Apocalisse. Kepler ricercò le sue legginell'armonia divina e si credè destinato da Dio a svelare agli uomini le verità della meccanicaceleste.(20) Dante e la filosofia cristiana. Loc. cit., pag. 172.(21) Tip. Baravalle, Torino, 1924.(22) I magistri comacini eran forse in questo senso una congrega di iniziati pitagorici.(23) Nell'Inferno ai canti: III, 122; IV, 38 e XII, 119. Nel Purgatorio ai canti: VII, 5; XI, 88;XXVII, 24 e XXXII, 59. Nel Paradiso ai canti: VIII, 90; X, 56; XXIV, 130; XXVI, 56 e XXVIII, 128.Naturalmente non sono rima Dio, nè Uccel di Dio, nè Figliuol di Dio ecc. che hanno altrosignificato da Dio, come dice Dante stesso nel Convivio a proposito della rima e di cui avremooccasione di parlare.

6. - Gematria Dantesca

Prima di entrare nel vivo del numerismo dantesco è necessario dire due parole su di un capitolodella Cabbala giudaica, la Gematria. Dante ricorre ad essa pochissime volte; e lo fa per imitareun altro suo grande maestro, Giovanni, nell'Apocalisse, che è opera tutta intessuta dinumerismo. La Gematria è, diciamo cosí, una scienza, che ricerca l'interpretazione simbolica numerica sia disingole lettere, sia di intere parole, sia delle prime tre lettere di ciascuna parola. Tale scienza fuampiamente coltivata dal rabbinismo. Si dice che vi fossero rabbini che conoscevano il valoregematrico di quasi tutte le parole della Bibbia. Anche i greci indulgevano a questa moda (24). Uno degli esempi piú noti e celebri di Gematria si trova, come si è detto, nell'Apocalisse diGiovanni, ove il mostro terribile è indicato solo con un numero 666. Su questo numero e sulla

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sua interpretazione vi è un'intera biblioteca. Dante scrisse pure una sua Apocalisse ed egli purecome Giovanni indicò con un numero, non un mostro ma un Veltro, Messo di Dio, un Salvatore.È il ben noto «cinquecento dieci cinque» del XXXIII del Purgatorio. Questo numero va scrittoDXV e non, come i commentatori arbitrariamente cambiarono, DVX. Si tratta del numerogematrico 515, sul cui significato pure si ha un'altra biblioteca facente il paio con quella del 666di San Giovanni. La sola cosa che risulti sicura è la diversità tra i due simboli. Per l'Evangelista il666 è la bestia satanica mandata fuori dall'abisso; per Dante il 515 è un inviato celeste chericaccerà la lupa nell'Inferno. Il primo è pessimista, il fiorentino imperiale è ottimista Dante ha però un secondo esempio di Gematria. Nel cielo di Marte le fiamme delle animegloriose si dispongono in «cinque volte sette» (il numero del climaterico minore!) vocali econsonanti a comporre il versetto: Diligite justitiam qui judicatis terram. Di queste 35 lettereDante pone in rilievo, secondo le regole gematriche, le sole prime tre, D, I, L, del DXV. Questofatto permette di dedurre che il numero 515 è numero per Dante di molta importanza; e questoconferma le acute investigazioni del Benini (25) su questo numero e sul 666 nella Commedia.Finalmente si può osservare che la Gematria DIL si ha nel cielo dei giusti e nel versetto cheimpone ai governanti la Giustizia. E il DXV, il Messo di Dio, il Veltro, è colui che verrà adinstaurare la Giustizia nel mondo. A mettere in evidenza l'importanza che Dante ha voluto dare a questo 5. 1. 5. si può rilevare,come ha fatto acutamente e logicamente il Benini, che egli si è proclamato sesto tra i poetiimperiali proprio al 515° verso del poema. Si può riportare anche a Gematria la figurazione ed interpretazione della M ingigliata, l'ultimalettera «del vocabol quinto», cioè terram, del versetto sopraindicato. Su questa M e sulla suaderivazione si è avuto una recente polemica in seguito alla pubblicazione fatta da Mgr. Tondellidi un Liber figurarum attribuito a Gioacchino da Fiore. Lascio da parte la questione se il Liber figurarum sia opera di Gioacchino. Francesco Foberti(26), uno dei piú valenti suoi conoscitori ed uno dei piú fervidi difensori della sua ortodossia,ritiene che anche questo libro sia da riportare alla letteratura gioachimita, ma non a Gioacchino. Condivido pienamente l'opinione del Foberti. Si deve difatti pensare all'enorme mole delle opereche dalle idee, travisate, dell'abate florense ebbe origine. L'idea di una nuova età dello Spirito,di una fine del mondo, del mille e non piú mille, si continua in tutte le opere piú o menoortodosse dei religiosi per parecchi decenni. Ma non è il caso di insistere su questo argomentoche esorbita dal mio assunto, il quale si può riassumere cosí: da dove Dante ha preso l'idea diquel movimento di anime fiammanti, che dopo varie evoluzioni si fermano a formare una Mingigliata e poi un'aquila?; ma, piú ancora, che cosa significa quella M? Prima di tutto riprendiamo e riassumiamo la visione dantesca dei canti che ci interessano; ecominciamo a considerare quello che Dante ci narra del cielo di Marte. Le luminose facelle deibeati formano varie lettere a combinare una scritta che non è dunque continua. Prima una D,poi una I, poi una L; poi tutto il versetto, che è l'inizio del Liber Sapientiæ, con cui si invitano ipotenti ad amare la Giustizia. Le lettere poi scompaiono, salvo l'ultima lettera di terram, che èuna M luminosa d'oro. E su questa M il Poeta vide scendere altre luci sul suo colmo e líquietarsi cantando. L'M ha dunque un colmo: essa cioè è tondeggiante: non è la nostra M angolosa, è l'M gotica,curva in alto. Poi numerose altre faville, altre luci, piú di mille, ad altezze diverse formano la testa e il collo diun'aquila. E l'anime beate, che sono «ingigliate all’m», con poco moto prendon parte esse purea formare la figura dell'aquila. Come si è formata quell'immagine luminosa, quell'aquila a cui sigiunge da una modificazione della M? Ed eccoci al nodo della questione, cioè quel verbo, creato da Dante: ingigliare, che a mesembra assai importante per chiarire il modello che può avergli servito per questa figurazione. Il Gaetani, geniale studioso di Dante, è stato il primo a far osservare che la M di Dante dovevaessere l'M gotica. E ne dà una figura, che poi viene ingigliata. Ma questa M ha sul colmo ungiglio, mentre Dante dice che sul colmo di essa si posano le luci a formare il collo e la testadell'aquila. Inoltre, per aversi poi l'aquila occorre una completa dissoluzione della M. Ma Dantedi questa dissoluzione non parla affatto (27). È necessario dunque ricorrere ad altro tipo di M ingigliata. Effettivamente vi è un'altra figura che

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arieggia alla M, che ha una base a coda d'aquila stilizzata, che possiede uno stelo su cui puòformarsi il collo e la testa dell'aquila, che è ingigliata sopra la M, e che non ha bisogno discomporsi. Questa figura è lo stemma fiorentino, il giglio, degno di essere nel cielo, quando sia formato,come nel Paradiso, dai giusti e non sia il «maladetto fiore» della moneta.

Vediamo questo tipico e storico giglio fiorentino (28): i due petali laterali sono le due gambedell'm tondeggiante, su cui scendono poi le facelle a formare il collo e la testa di un'aquila. I duegigli laterali, «ingigliati all’m», con poco moto, spostandosi di poco, terminano il contornosuperiore delle ali. Dal giglio si è formata un'aquila. Non mi sembra che occorra andare aricercare altri modelli quando ne abbiamo uno cosí noto a Dante, e che «con poco moto» ci dàla figura dell'aquila, derivandola da una M ingigliata, e senza scomporla. A questo proposito non si deve dimenticare che, nel precedente canto di Cacciaguida,Dantericorda espressamene il giglio fiorentino. È lecito quindi pensare che egli avesse presenteil giglio, stemma della sua città. Si potrà forse osservare che Dante, il florentinus natione non moribus, ce l'aveva con Firenze equindi non avrebbe dovuto mettere in cielo il suo giglio.

Ma ricordiamo che Dante è un amante appassionato delle cose a lui care, principalmente la suafede e la sua patria. Come tutti gli amanti intransigenti vorrebbe perfetta la cosa amata. Eccoperché inveisce contro i pontefici, non pastori ma lupi, contro la Chiesa che si corrompe neicostumi, mentre detiene la Verità rivelata, a cui Dante crede con tutte le sue forze e con l'umiltàpiú profonda. Ecco perché è cosí aspro verso la sua città natale, che ama però con affettoimmenso di figlio. È naturale quindi che nella visione della futura giustizia egli veda il giglio dellasua città che si unisce all'Aquila del giusto Impero. Ritengo dunque che l'm ingigliata di Dante derivi senz'altro dal giglio fiorentino. Questa però potrebbe considerarsi questione di poca importanza. Piuttosto è da vedere checosa Dante abbia voluto significare con questa M ingigliata, che prende poi la forma di aquila. Io credo che a domandare al primo che passa che cosa rappresenti la M ingigliata, questi,intuitivamente e senza esitazione, risponderebbe che essa non può essere che la VergineMaria. E cosí ho súbito pensato io pure, credendo che l'interpretazione fosse pacifica. Ma mi eroingannato. Quella che il buon senso consiglia a noi profani, non è l'opinione di molti dantisti diprofessione. Difatti i commentatori piú quotati non parlano di Maria. Il vecchio Buti dice, e non sicomprende con qual fondamento, che in quella M Dante ha voluto indicare il Mondo e dalMondo nascerebbe l'Aquila. Un commentatore piú recente e tra i piú valorosi, il Parodi,asserisce che in quella M si deve leggere Monarchia. Ed il giglio di cui è infiorata la Monarchiasarebbe la casa di Francia. Da questo giglio di Francia si passerebbe poi all'Aquila Imperiale.Secondo il Parodi, dunque, con questa figurazione Dante ha voluto adombrare la sua speranza,che la Casa di Francia si sarebbe sottomessa all'Impero. Ritengo che tutto sia possibile, menoche Dante abbia potuto nemmeno lontanamente sognare una simile sottomissione. La Casa diFrancia e il suo giglio sono messi al bando dal Poeta, appunto perché oppositori e nemici

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irriducibili dell'Impero. Il Trucchi, che ha pubblicato recentemente un'esplicazione della Commedia e che molto spessoha ottime vedute, per caso strano non dà alcuna importanza a questa M, che anche per lui puòessere Mondo o Monarchia. Il Trucchi però propende piuttosto a ritenerla segno di Monarchia.Ma non riconosce alcun valore speciale a questa visione. Eppure Dante avverte in modoesplicito dell'importanza della cosa e ci fa attenti al significato profondo di essa, poiché prima diparlarne si rivolge a tutte le Muse, invocando la fonte a cui esse si dissetano, la Diva Pegasea,che fa gloriosi e rende longevi gli ingegni. Chi ha interpretato come Maria quella M è stato il Laurenti nel suo opuscolo Ermetica edermeneutica dantesca (pag. 188 e seg.). E con questa interpretazione entriamo in pieno camporeligioso e anzi in quello preferito da Dante per la sua venerazione alla Vergine. Di questacreatura eccelsa, fiore dell'Umanità, santificata dallo Spirito Divino, Maria, parla la profezia diIsaia. Rileggiamola: «Et egredietur virgo de radice Jesse, et flos de radice eius ascendet».Germoglierà una vergine dalla radice di Jesse e dalla sua radice sorgerà un fiore. Ecco che sispiegano quelle parole dantesche: surgono, resurgir, salir che rappresentano l'ascendetd'Isaia e si spiega pure quell'ingigliarsi all'm, col fiore germogliante dalla radice. Ma, osserva il Laurenti, vi ha di piú. Isaia continua: «Judicabit in justitia pauperes». Ecco cheviene il concetto di giudizio e di giustizia, cioè le parole segnate dalle divine facelle: «Amate lagiustizia voi che giudicate la Terra». Pare di veder riprodotta la visione dantesca. Il giglio fiorentino, che, privo del petalo centrale, èuna M ingigliata dai due fiori laterali: le luci divine che calano sul colmo dell'M a formare il collo eil becco dell'aquila, le fiammelle ingigliate che, con poco moto, si dispongono a terminare ilcontorno delle ali. Sarebbe cosa bellissima se nell'aquila si potesse riconoscere un simbolo dello Spirito. Ma intutta l'iconografia cattolica lo Spirito non è figurato quale aquila. Occorre allora ricercare se vi sia qualche altro significato sottile, che possa essere invocato aspiegare questa speciale figurazione della M di Maria coll'Aquila. E lo troviamo in una curiosapagina del Convivio (3, V, 2) a cui mi pare non sia stata fatta soverchia attenzione. In questapagina Dante, esplicando il verso «Non vede il Sol che tutto il mondo gira», della canzone Amorche ne la mente mi ragiona, ci dà la spiegazione della rotazione del Sole attorno alla Terraimmobile. In questa spiegazione il Poeta vuol render conto degli antipodi e vi suppone situate,simmetriche, due città. Ma, strano assai, è il nome di esse. Una si chiama Maria e l'altra Lucia!La trasparenza di questi due nomi fittizi è chiara e chiarissimo è pure il simbolo, quando il Poetadice: «Li cittadini di Maria tengono le piante contro le piante di quelli di Lucia». Per mostrareperò anche meglio che in Maria è personificata la Croce, il nome di Maria è ripetuto esattamentenove volte; mentre per Lucia, l'Impero, la Giustizia (simboleggiati nel sei), il suo nome vieneappunto ripetuto sei volte. Cosí, secondo l'idea dominante di Dante, Croce e Impero sono, inTerra, agli antipodi; e da ciò il male dell'Umanità, posta nella selva oscura senza speranza. Ma nel cielo della Giustizia, là dove si auspica la perfezione umana coll'accordo dei due poteri,ecco che la M ingigliata, Maria, si dispone non piú agli antipodi ma intimamente legata all'Aquila,Lucia. L'opposizione assoluta, diametrale del Convivio si cambia cosí nell'auspicata unione dellaCroce coll'Impero. Ed ecco come la cabalistica gematrica viene riportata alle credenzecattoliche ed al grande sogno di Dante, religioso e imperiale.

(24) Stratone, in un epigramma, che non occorre tradurre, dice che proctos e chsisos siequivalgono gematricamente.(25) Dante nelle bellezze dei suoi enigmi risolti: passim.(26) Questioni dantesche e storia francescana. Misc. francesc. XXXIX, Gioacchino da Fiore,Padova, Cedam, 1942.(27) Esposizione della Divina Commedia, Paradiso, pag. 296.(28) La figura soprariportata mi è stata cortesemente favorita dall'Uff. d'Arte del Comune diFirenze quale stemma ufficiale, depositato all'Ufficio di Araldica, ed è ricavata dai vecchissimiesemplari esistenti nell'Archivio e risalenti al 1200. È quindi certo il Giglio di Dante.

Fabritalp: Concluderei con un breve estratto dalla Parte Terza (Il numero nel testo):

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Capitolo I. - L'uno e il tre

[...] Nella Commedia i canti sono cento; numero perfettissimo, perchè potenza del perfetto dieci,nel quale è contenuto l'unità e la trinità nella sua potenza. E i cento canti son divisi in trecantiche ciascuna di trentatre canti, poichè il primo canto non è un canto sopranumerariodell'Inferno, ma è il canto proemiale a tutto il poema. Un canto di più non poteva stare nelPurgatorio. Poteva forse stare nel Paradiso, come canto riassuntivo: ma allora l'Uno, inizio deltutto come vogliono i pitagorici, sarebbe stato al termine non al principio come di dovere, esarebbe stata impossibile la mirabile successione: 1 + 33 + 33 + 33. [...]

6a) CICLO VITALE DELL'UOMO SECONDO DANTE

di Frater Petrus

Scrive Vinassa de Regny: "A proposito di questo 81 è da notare che Dante (Convivio, 4, XXIV,6), parlando dei periodi della vita umana, gli dà una grande importanza tutta cristiana: «Io credo,se Cristo non fosse stato crocifisso e fosse vissuto lo spazio che la sua vita poteva secondonatura trapassare, elli sarebbe alli LXXXI anno di mortale corpo in eterno trasmutato». E questaè una secca smentita a tutti quanti asseriscono che secondo Dante la vita naturale umana sia di70 anni".

Come si concilia ciò con la precedente affermazione dantesca in Convivio, 4, XXIII 6-10: «tuttele terrene vite (...) convengono essere quasi ad immagine d'arco assomiglianti (...) lo puntosommo di questo arco (...) io credo che nei perfettamente naturati esso sia nel trentacinquesimoanno» ?Credo che la cosa migliore sia rileggere per esteso i due capitoli in questione, per poi trarne lepossibili conclusioni.

Dante Alighieri

Convivio - TRATTATO IV

Capitolo XXIII Poi che dimostrata sufficientemente pare la diffinizione di nobilitade, equella per le sue parti, come possibile è stato, è dichiarata, sì che vedere si puote omai che è lonobile uomo, da procedere pare a la parte del testo che comincia: L'anima cui adorna estabontate; ne la quale si mostrano li segni per li quali conoscere si puote il nobile uomo che dettoè. E dividesi questa parte in due: che ne la prima s'afferma che questa nobilitade luce erisplende per tutta la vita del nobile, manifestamente; ne la seconda si dimostra specificamentene li suoi splendori, e comincia questa seconda parte: Ubidente, soave e vergognosa. Intorno de la prima è da sapere che questo seme divino, di cui parlato è di sopra, ne lanostra anima incontanente germoglia, mettendo e diversificando per ciascuna potenza del'anima, secondo la essigenza di quella. Germoglia dunque per la vegetativa, per la sensitiva eper la razionale; e dibrancasi per le vertuti di quelle tutte, dirizzando quelle tutte a le loroperfezioni, e in quelle sostenendosi sempre infino al punto che, con quella parte de la nostraanima che mai non muore, a l'altissimo e gloriosissimo seminadore al cielo ritorna. E questodice per quella prima che detta è. Poi quando comincia: Ubidente, soave e vergognosa, mostraquello per che potemo conoscere l'uomo nobile a li segni apparenti, che sono, di questabontade divina, operazione; e partesi questa parte in quattro, secondo che per quattro etadidiversamente adopera, sì come per l'adolescenza, per la gioventute, per la senettute e per losenio. E comincia la seconda parte: In giovinezza, temperata e forte; la terza comincia: E ne la

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sua senetta; la quarta comincia: Poi ne la quarta parte de la vita. In quest[o] è la sentenza diquesta parte in generale. Intorno a la quale si vuole sapere che ciascuno effetto, in quantoeffetto è, riceve la similitudine de la sua cagione, quanto è più possibile di ritenere. Onde, conciò sia cosa che la nostra vita, sì come detto è, ed ancora d'ogni vivente qua giù, sia causatadal cielo, e lo cielo a tutti questi cotali effetti, non per cerchio compiuto, ma per parte di quello aloro si scuopra; e così conviene che 'l suo movimento sia sopra essi come uno arco quasi, [e]tutte le [terrene] vite (e dico [terrene], sì de li [uomini] come de li altri viventi), [mon]tando evolgendo, convengono essere quasi ad imagine d'arco assimiglianti. Tornando dunque a lanostra, sola de la quale al presente s'intende, sì dico ch'ella procede a imagine di questo arco,montando e discendendo. Ed è da sapere che questo arco [di giù, come l'arco] di su sarebbe eguale, se la materiade la nostra seminale complessione non impedisse la regola de la umana natura. Ma però chel'umido radicale [è] meno e più, e di migliore qualitade [e men buona], e più ha durare [in uno]che in uno altro effetto - lo qual è subietto e nutrimento del calore, che è nostra vita -, avvieneche l'arco de la vita d'un uomo è di minore e di maggiore tesa che quello de l'altro. E alcunamorte è violenta, o vero per accidentale infertade affrettata; ma solamente quella che naturale èchiamata dal vulgo, e che è, è quel termine del quale si dice per lo Salmista: "Ponesti termine,lo quale passare non si può". E però che lo maestro de la nostra vita Aristotile s'accorse diquesto arco di che ora si dice, parve volere che la nostra vita non fosse altro che uno salire euno scendere: però dice in quello dove tratta di Giovinezza e di Vecchiezza, che giovinezza nonè altro se non accrescimento di quella. Là dove sia lo punto sommo di questo arco, per quelladisaguaglianza che detta è di sopra, è forte da sapere; ma ne li più io credo tra il trentesimo equarantesimo anno, e io credo che ne li perfettamente naturati esso ne sia nel trentacinquesimoanno. E muovemi questa ragione: che ottimamente naturato fue lo nostro salvatore Cristo, loquale volle morire nel trentaquattresimo anno de la sua etade; ché non era convenevole ladivinitade stare [in] cos[a] in discresc[er]e, né da credere è ch'elli non volesse dimorare inquesta nostra vita al sommo, poi che stato c'era nel basso stato de la puerizia. E ciò manifestal'ora del giorno de la sua morte, ché volle quella consimigliare con la vita sua; onde dice Lucache era quasi ora sesta quando morio, che è a dire lo colmo del die. Onde si può comprendereper quello "quasi" che al trentacinquesimo anno di Cristo era lo colmo de la sua etade. Veramente questo arco non pur per mezzo si distingue da le scritture; ma, seguendo lequattro combina[zioni] de le contrarie qualitadi che sono ne la nostra composizione, a le qualipare essere appropriata, dico a ciascuna, una parte de la nostra etade, in quattro parti si divide,e chiamansi quattro etadi. La prima è Adolescenza, che s'appropria al caldo e a l'umido; laseconda si è Gioventute, che s'appropria al caldo e al secco; la terza si è Senettute, ches'appropria al freddo e al secco; la quarta si è Senio, che s'appropria al freddo e a l'umido,secondo che nel quarto de la Metaura scrive Alberto. E queste parti si fanno simigliantementene l'anno, in primavera, in estate, in autunno e in inverno; e nel die, ciò è infino a la terza, e poiinfino a la nona (lasciando la sesta, nel mezzo di questa parte, per la ragione che si discerne), epoi infino al vespero e dal vespero innanzi. E però li gentili, cioè li pagani, diceano che 'l carrodel sole avea quattro cavalli: lo primo chiamavano Eoo, lo secondo Pirroi, lo terzo Eton, loquarto Flegon, secondo che scrive Ovidio nel secondo del Metamorfoseos. Intorno a le parti delgiorno è brievemente da sapere che, sì come detto è di sopra nel sesto del terzo trattato, laChiesa usa, ne la distinzione de le ore, [le ore] del dì temporali, che sono in ciascuno die dodici,o grandi o piccole, secondo la quantitade del sole; e però che la sesta ora, cioè lo mezzo die, èla più nobile di tutto lo die e la più virtuosa, li suoi offici appressa quivi da ogni parte, cioè daprima e di poi, quanto puote. E però l'officio de la prima parte del die, cioè la terza, si dice in finedi quella; e quello de la terza parte e de la quarta si dice ne li principii. E però si dice mezzaterza, prima che suoni per quella parte; e mezza nona, poi che per quella parte è sonato; e cosìmezzo vespero. E però sappia ciascuno che, ne la diritta nona, sempre dee sonare nelcominciamento de la settima ora del die: e questo basti a la presente digressione.

Capitolo XXIV Ritornando al proposito, dico che la umana vita si parte per quattro etadi. Laprima si chiama Adolescenzia, cioè "accrescimento di vita"; la seconda si chiama Gioventute,cioè "etate che puote giovare", cioè perfezione dare, e così s'intende perfetta - ché nullo puote

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dare se non quello ch'elli ha -; la terza si chiama Senettute; la quarta si chiama Senio, sì comedi sopra detto è. De la prima nullo dubita, ma ciascuno savio s'accorda ch'ella dura in fino alventicinquesimo anno; e però che infino a quel tempo l'anima nostra intende a lo crescere e a loabbellire del corpo, onde molte e grandi transmutazioni sono ne la persona, non puoteperfettamente la razionale parte discernere. Per che la Ragione vuole che dinanzi a quellaetade l'uomo non possa certe cose fare sanza curatore di perfetta etade. De la seconda, la quale veramente è colmo de la nostra vita, diversamente è preso lotempo da molti. Ma, lasciando ciò che ne scrivono li filosofi e li medici, e tornando a la ragionepropria, dico che ne li più, ne li quali prendere si puote e dee ogni naturale giudicio, quella etadeè venti anni. E la ragione che ciò mi dà si è che, se 'l colmo del nostro arco è ne li trentacinque,tanto quanto questa etade ha di salita tanto dee avere di scesa; e quella salita e quella scesa èquasi lo tenere de l'arco, nel quale poco di flessione si discerne. Avemo dunque che lagioventute nel quarantacinquesimo anno si compie. E sì come l'adolescenzia è in venticinqueanni che precede, montando, a la gioventute, così lo discendere, cioè la senettute, è [in]altrettanto tempo che succede a la gioventute; e così si termina la senettute nel settantesimoanno. Ma però che l'adolescenza non comincia dal principio de la vita, pigliandola per lo modoche detto è, ma presso a otto anni dopo quell[o]; e però che la nostra natura si studia di salire, ea lo scendere raffrena, però che lo caldo naturale è menomato, e puote poco, e l'umido èingrossato (non per[ò] in quantitade, ma p[ur] in qualitade, sì ch'è meno vaporabile econsumabile), avviene che oltre la senettute rimane de la nostra vita forse in quantitade di dieceanni, o poco più o poco meno: e questo tempo si chiama senio. Onde avemo di Platone, delquale ottimamente si può dire che fosse naturato e per la sua perfezione e per la fisonomia chedi lui prese Socrate quando prima lo vide, che esso vivette ottantuno anno, secondo chetestimonia Tullio in quello De Senectute. E io credo che se Cristo fosse stato non crucifisso, efosse vivuto lo spazio che la sua vita poteva secondo natura trapassare, elli sarebbe a liottantuno anno di mortale corpo in etternale transmutato. Veramente, sì come di sopra detto è, queste etadi possono essere più lunghe e più cortesecondo la complessione nostra e la composizione; ma, come elle siano in questa proporzione,come detto è, in tutti mi pare da servare, cioè di fare l'etadi in quelli cotali e più lunghe e menosecondo la integritade di tutto lo tempo de la naturale vita. Per queste tutte etadi questanobilitade, di cui si parla, diversamente mostra li suoi effetti ne l'anima nobilitata; e questo èquello che questa parte, sopra la quale al presente si scrive, intende a dimostrare. Dov'è dasapere che la nostra buona e diritta natura ragionevolmente procede in noi, sì come vedemoprocedere la natura de le piante in quelle; e però altri costumi e altri portamenti sono ragionevoliad una etade più che ad altra, ne li quali l'anima nobilitata ordinatamente procede per unasemplice via, usando li suoi atti ne li loro tempi ed etadi sì come a l'ultimo suo frutto sonoordinati. E Tullio in ciò s'accorda in quello De Senectute. E lasciando lo figurato che di questodiverso processo de l'etadi tiene Virgilio ne lo Eneida, e lasciando stare quello che Egidioeremita ne dice ne la prima parte de lo Reggimento de' Principi, e lasciando stare quello che netocca Tullio in quello de li Offici, e seguendo solo quello che la ragione per sé ne puote vedere,dico che questa prima etade è porta e via per la quale s'entra ne la nostra buona vita. E questaentrata conviene avere di necessitade certe cose, le quali la buona natura, che non viene menone le cose necessarie, ne dà; sì come vedemo che dà a la vite le foglie per difensione del frutto,e li vignuoli con li quali difende e lega la sua imbecillitade, sì che sostiene lo peso del suo frutto. Dà adunque la buona natura a questa etade quattro cose, necessarie a lo entrare ne lacittade del bene vivere. La prima si è obedienza; la seconda soavitade; la terza vergogna; laquarta adornezza corporale, sì come dice lo testo ne la prima particola. E` dunque da sapere,che sì come quello che mai non fosse stato in una cittade, non saprebbe tenere le vie sanzainsegnamento di colui che l'hae usata; così l'adolescente, che entra ne la selva erronea diquesta vita, non saprebbe tenere lo buono cammino, se da li suoi maggiori non li fossemostrato. Né lo mostrare varrebbe, se a li loro comandamenti non fosse obediente; e però fu aquesta etade necessaria la obedienza. Ben potrebbe alcuno dire così: dunque potrà esseredetto quelli obediente che crederà li malvagi comandamenti, come quelli che crederà li buoni?Rispondo che non ha quella obedienza, ma transgressione: ché se lo re comanda una via e lo

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servo ne comanda un'altra, non è da obedire lo servo; ché sarebbe disobedire lo re, e cosìsarebbe transgressione. E però dice Salomone, quando intende correggere suo figlio (e questoè lo primo suo comandamento): "Audi, figlio mio, l'ammaestramento del tuo padre". E poi lorimuove incontanente da l'altrui reo consiglio e ammaestramento, dicendo: "Non ti possanoquello fare di lusinghe né di diletto li peccatori, che tu vadi con loro". Onde, sì come, nato, tostolo figlio a la tetta de la madre s'apprende, così tosto, come alcuno lume d'animo in esso appare,si dee volgere a la correzione del padre, e lo padre lui ammaestrare. E guardisi che non li dea disé essemplo ne l'opera, che sia contrario a le parole de la correzione: ché naturalmentevedemo ciascuno figlio più mirare a le vestigie de li paterni piedi che a l'altre. E però dice ecomanda la Legge, che a ciò provede, che la persona del padre sempre santa e onesta deeapparere a li suoi figli; e così appare che la obedienza fue necessaria in questa etade. E peròscrive Salomone ne li Proverbi, che quelli che umilemente e obedientemente sostiene dalcorrettore le sue corrett[iv]e riprensioni, "sarà glorioso"; e dice "sarà", a dare ad intendere cheelli parla a lo adolescente, che non puote essere, ne la presente etade. E se alcunocalunniasse: "Ciò che detto è, è pur del padre e non d'altri", dico che al padre si dee riducereogni altra obedienza. Onde dice l'Apostolo a li Colossensi: "Figliuoli, obedite a li vostri padri pertutte cose, per ciò che questo vuole Iddio". E se non è in vita lo padre, riducere si dee a quelliche per lo padre è ne l'ultima volontade in padre lasciato; e se lo padre muore intestato,riducere si dee a colui cui la Ragione commette lo suo governo. E poi deono essere obeditimaestri e maggiori, c[ui] in alcuno modo pare dal padre, o da quelli che loco paterno tiene,essere commesso. Ma però che lungo è stato lo capitolo presente per le utili digressioni checontiene, per l'altro capitolo l'altre cose sono da ragionare.

CommentoL'immagine del ciclo vitale umano, che probabilmente Dante aveva in mente nello scriverequesti due capitoli del Convivio, è una ellisse disposta verticalmente, il cui perimetro è diviso inquattro parti da due rette intersecantesi nel più basso dei due fuochi. Con una tale costruzione,solo la parte sinistra (da 0 a 25 anni) e destra (da 45 a 70 anni) del ciclo risultano uguali tra loro.

Come si può notare il trentacinquesimo anno di età si trova effettivamente al vertice deldiametro maggiore ed è in tal senso che esso è il "mezzo del cammin di nostra vita", la quale hauna durata perfetta se è di anni 81 (= 34)

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Dante attribuisce alla prima parte della vita, cioè all'Adolescenza ( fino a 25 anni ) l'umido e ilcaldo (è perciò analogica all'elemento che ha le medesime qualità: l'aria); alla Gioventute ( finoa 45 anni ) attribuisce il caldo e il secco (analogica al fuoco); alla Senettute ( fino a 70 anni )Dante attribuisce il secco e il freddo (analogica alla terra); alla Senio ( fino agli 81 anni teorici )attribuisce il freddo e l'umido (analogica all'acqua). Come indica chiaramente ciò che vienedetto sul corpo di Cristo (se non fosse morto in croce), in riferimento all'alchimia interiore, laquarta età (senio) corrisponde alla realizzazione del "corpo eterno". Esso è vissutodall'alchimista come uno "sciogliersi" dei vincoli ai quali era soggetto il corpo mortale: è perciòsimbolicamente della natura dell'acqua.

7) QUADRO GENERALE DELLA COMMEDIA

di Sipex

Domenico di Michelino (1417 – 1491)- La commedia illumina Firenze - in Santa Maria del Fiore.

Quel che segue è una scheda sintetica della Divina Commedia, destinata ad un primoinquadramento generale dei problemi, per chi parta da un punto di vista esoterico. Susuggerimento di Ea, ho riscritto la "scheda" comunicata in un primo tempo. Essa, infatti, era unsemplice canovaccio di partenza, che di fatto non raccoglieva molto di più delle nozionicomunemente accettate dalla maggior parte degli studiosi. Tenendo conto sia dei miei scrittisuccessivi, sia di quanto, più in generale, è emerso in questo Forum, questa volta ho

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evidenziato un livello "magico" nella struttura della Commedia, che va a determinare glialtri livelli via via più concreti: dottrinale, cosmologico e formale.

Titolo originale: Comedia - Poema in tre cantiche (Inferno - Purgatorio - Paradiso) di DanteAlighieri.

Genesi e Storia Iniziale

La vera genesi di quest'opera è da ricercarsi, come diremo nel seguito, in quella dimensionemagica in cui vissero l'autore e la Confraternita dei Fedeli d'Amore. La discussione relativa adopere precedenti, che abbiano potuto fungere da modelli per la Divina Commedia è moltocomplessa e richiederebbe probabilmente una trattazione a parte. Tuttavia, ai fini pratici,possono anche essere sufficienti i cenni che faremo alle principali tra esse, parlando dellastruttura dottrinale delle tre cantiche.La datazione dell'opera è ancor oggi problematica. I dati oggettivi che abbiamo a disposizionesono:- l'Inferno non contiene notizie posteriori al 1309. La prima menzione di copie manoscritte diquesta cantica è del 1313. Tuttavia si trova una citazione di Inf. V 103-105 (episodio di Paolo eFrancesca) in una copertina, datata 1404, dell'Archivio di Stato di Bologna.- il Purgatorio non contiene riferimenti a fatti posteriori al 1313 e fu divulgato separatamente neidue anni seguenti. - il Paradiso fu terminato negli ultimi anni di vita del poeta. Se si considera autentica la XIIIepistola, quella a Cangrande della Scala, la cui composizione è collocabile, secondo il Mazzoni"tra il 1315 e il dicembre del 1317", a quell'epoca le prime due cantiche erano già divulgate eDante aveva dato inizio al Paradiso, ma non era ancora in grado d'inviarne parte allo Scaligero,che della terza cantica era il dedicatario.Sempre nell'epistola XIII, Dante spiega a Cangrande il motivo del titolo "Comedia". La ragionedel titolo è retorica e connessa al tema trattato ed al livello linguistico: l'opera inizia infatti conuna situazione spaventosa e termina felicemente (al contrario, la tragedia può aver iniziopiacevole ma fine tremenda), e il livello linguistico (la parlata volgare) è dimesso e umile perfacilitare la comunicazione. L'aggettivo "divina", usato da Boccaccio nella sua biografiadantesca, il Trattatello in laude di Dante, fu introdotto solo in un'edizione a stampa del 1555.

Struttura

La commedia racconta un viaggio nei tre regni dell'aldilà compiuto da Dante ("simbolo"esemplare dell'uomo), che si affida a diverse "guide" successive, tra le quali le principali sonoVirgilio (ragione), Beatrice (fede) e S.Bernardo (slancio mistico). Durante il tragitto sonoincontrati numerosi personaggi del passato, le cui svariate situazioni esistenziali sonoconseguenza del male e del bene perseguiti nel mondo terreno.Il poema, secondo quanto Dante stesso afferma riguardo alle sue opere (Trattato II delConvivio), ha quattro livelli principali di significato:- Letterale: il viaggio di Dante nei tre regni oltremondani copre un arco di sette giorni, conpalese riferimento ai biblici sette giorni della creazione del mondo.- Allegorico: il paragone è lo strumento con cui il poeta ritrae il reale, mediante un intreccio dinotazioni varie.- Morale: redenzione dell'anima del poeta dopo il periodo di traviamento (selva oscura) eredenzione politica dell'umanità che, con la guida della ragione (Virgilio) e dell'impero e unaritrovata moralità della Chiesa, raggiunge la felicità naturale (Paradiso Terrestre = giustizia epace).- Anagogico: quello supposto dalla maggior parte degli esoteristi potrebbe essere espostosinteticamente così: la guida della ragione e poi della fede (Beatrice), che muove le montagne(Magia), applicata allo sviluppo interiore (S.Bernardo, Teurgia) porta alla condizione soprannaturale (Empireo, Theosis).

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A questi quattro livelli di significato, corrispondono, in ordine inverso, quattro livelli strutturalidella Commedia:

a) struttura magicab) struttura dottrinalec) struttura cosmologicad) struttura formale

a) Struttura Magica

Tutti gli studiosi che accettano l'esistenza dell'esoterismo sono andati alla ricerca dei "dettagli"del significato anagogico che abbiamo sinteticamente enunciato, ma ... non li hanno trovati.Perchè? In generale, l'esoterismo dà luogo a due tipi principali di prodotti (orali o scritto-grafici quinon importa):1) racconti di esperienze vissute o procedure da seguire per viverle o riviverle (Riti);2) formule, o comunque insiemi più o meno complessi di simboli, che esprimano una volontàmagica propria o di gruppo (Sortilegi).La prima cosa dunque che gli studiosi di esoterismo debbono chiedersi è che tipo di prodottoè la Commedia. La maggior parte di loro non lo ha fatto, dando per scontato che l'aspettoesteriore di "viaggio iniziatico" dovesse per forza corrispondere ad un prodotto del primo tipo,cioè ad un resoconto esperienziale interiore o rituale. Nulla di più errato, giacchè significasostanzialmente confondere il significato letterale con quello anagogico. E' infatti la "lettera"dell'opera che parla di un itinerario iniziatico che culmina, già in vita, con l'unione con Dio;dunque il significato anagogico deve essere un altro! Niente da stupirsi dunque che tuttiquegli studiosi non abbiano potuto trovare ciò che cercavano. Non hanno tenuto presentel'ammonimento di Johannes Schröder, condiviso da altri alchimisti, che ancora nel XVII sec.ammoniva: "Quando i Filosofi parlano senza raggiri, diffido della loro parola; quando si spieganoper enigmi, rifletto".Dunque la Commedia non può essere che un prodotto del secondo tipo: un libro "vivente"(come sono viventi anche certi quadri, statue, edifici, composizioni musicali) una complessaformula magica che, anche se può offrire spunti per riflessioni del primo genere, si propone ununico scopo: di restare intatta nei secoli e di essere ripetuta e perciò rigenerata da quantipiù esseri possibile. Si vuole dunque affermare che Dante non ha dato vita a prodotti del primo tipo? Per nulla, lo hafatto eccome! alla stessa identica maniera...degli altri Fedeli d'Amore a lui contemporanei, con canzoni, ballate, sonetti e rime varie, cioè con componimenti poetici di più limitata estensione,scritti nel "gergo d'amore" (che è sostanzialmente assente nella Commedia) e a volteaccompagnati da un commento narrativo (Vita Nova) o dottrinale (Convivio). Sarabbero statiadatti anche come formule magiche? sì, ma molto meno. Certo i componimenti danteschi dipiù limitata estensione sono letti e studiati, come quelli di Guinizelli, Cavalcanti e tutti gli altri, mala Commedia... addirittura c'è chi la conosce tutta a memoria! Essa è, sul piano magico,quello che, sul piano religioso, è il Credo dei cristiani, cioè la volontà che vi è legata, vienepotenziata tutte le numerose volte che viene letta o studiata o ripetuta a memoria. Qual èquesta volontà? Mi limiterò a dire che alcuni effetti magici si mostrarono già qualche decenniodopo, ad es. quando il modello della Rosa Mistica, descritto da Dante negli ultimi canti delParadiso, si concretizzò sul piano umano con la Confraternita dei Rosacroce. Profezia?precognizione? no, questa è roba da contemplativi: i maghi credono solo ... nella magia!Dunque la struttura magica della Commedia è semplicemente la volontà magica cheDante vi legò (legatura delle sorti, sortilegio). Essa è il Fuoco dell'arte (volere radiante) che perconcretizzarsi, in un primo effetto condivisibile da tutti, cioè l'opera scritta, deve coagularsi,trasformandosi progressivamente in Aria, Acqua e Terra.

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b) Struttura dottrinale

La prima fase di concretizzazione della struttura magica (= Fuoco) si ha nella determinazionedella struttura dottrinale (= Aria, moto delle idee), cioè nella scelta di quell'impiantoteologico-filosofico ed esoterico, più adatto a suscitare l'interesse dei lettori, nei confrontidell'opera. La complessità degli schemi adottati dal poeta richiede che la materia venga trattataa parte, in apposite voci di approfondimento. Perciò, il lettore veda, nel seguito del testo, icapitoli:

- Struttura dell'Inferno- Struttura del Purgatorio- Struttura del Paradiso

c) Struttura cosmologica

La struttura dottrinale (=Aria) si concretizza, a sua volta, ulteriormente nella scelta di unambiente organizzato, di un "cosmos" dove ciò che sarà narrato acquisterà senso ecoerenza. In conseguenza delle scelte dottrinali di Dante , la struttura cosmologica (=Acqua,coesione del contenuto, determinata dall'ambiente scelto) della Commedia coincide in massimaparte con la rappresentazione cosmologica più diffusa nell'immaginario medievale. Il viaggio all'Inferno e sul monte del Purgatorio rappresentano infatti l'attraversamento dell'interopianeta, dalle sue profondità alle regioni più elevate; mentre il Paradiso è una rappresentazionesimbolico-visuale di un cosmo aristotelico-tolemaico cristianizzato.L'Inferno era rappresentato all'epoca di Dante come una cavità di forma conica interna allaTerra, allora concepita come divisa in due emisferi, uno di terre e l'altro di acque. La cavernainfernale era nata dal ritrarsi delle terre inorridite al contatto con il corpo maledetto di Lucifero edelle sue schiere, cadute dal cielo dopo la ribellione a Dio. La voragine infernale aveva il suoingresso esattamente sotto Gerusalemme, collocata a 90° rispetto al semicerchio di 180°formato dalle terre emerse. La metà marina della Terra si estendeva invece su tutta lasemisfera opposta al continente euroasiatico. Agli antipodi di Gerusalemme, e quindi al 90°della semisfera acquea, si ergeva l'isola montagnosa del Purgatorio, composta appunto dalleterre fuoriuscite dal cuore del mondo all'epoca della ribellione degli angeli. In cima al Purgatorio,che peraltro era una creazione recente dell'immaginario cristiano legata alla necessità digiustificare la dottrina delle indulgenze, Dante colloca il Paradiso terrestre del racconto biblico, illuogo terrestre più vicino al cielo.Il Paradiso è strutturato secondo la rappresentazione cosmologica aristotelica, rivisitata inepoca ellenistica da Tolemeo, e risistemata ulteriormente dai teologi cristiani, secondo leesigenze della nuova religione. Nel suo rapimento celeste dietro l'anima di Beatrice, Danteattraversa dunque i nove cieli del cosmo astronomico-teologico, al di sopra dei quali si distende,metafisicamente infinito, l'Empireo - in cui ha sede la Rosa dei Beati, godenti la diretta visionedi Dio. Ai nove cieli corrispondono nell'Empireo i nove cori angelici che, col loro movimentocircolare intorno all'immagine di Dio, provocano il relativo movimento rotatorio del cielo a cuiciascuno di essi è preposto - questo come conseguenza della dottrina dell'Atto Puro e del PrimoCielo Mobile, desunta dalla Metafisica di Aristotele. La struttura cosmologica della Commedia è dunque strettamente connessa alla strutturadottrinale del poema, per cui la collocazione dei tre regni, e, al loro interno, l'ordine delle anime -ovvero delle pene e delle grazie-, corrisponde a precisi intendimenti di ordine morale eteologico.In particolare, la topografia dell'Inferno comprende i seguenti luoghi:- Un ampio vestibolo o Antiferno, dove vengono puniti coloro che nessuno vuole, nè Dio nè ildemonio: gli ignavi. - Il fiume Acheronte, che separa il vestibolo dall'inferno vero e proprio.- Una prima sezione costituita dal Limbo, immerso in una tenebra perenne.- Una serie di cerchi meno scoscesi in cui patiscono i peccatori incontinenti.

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- La città infuocata di Dite, le cui mura circondano la voragine finale.- Il cerchio dei violenti in cui scorre il fiume sanguigno del Flegetonte.- Un burrone scosceso, che dà all'ottavo cerchio, chiamato Malebolge: il cerchio deifraudolenti.- Il pozzo dei Giganti.- Il lago ghiacciato di Cocito, dove sono immersi i traditori.La topografia del Purgatorio è invece cosi strutturata:- Un Antipurgatorio, costituito da una spiaggia su cui vengono traghettate le anime dall'angelonocchiero che le preleva alla foce del Tevere. Specularmene all'Inferno, in esso subiscono laloro purificazione i negligenti, i tardi cioè a pentirsi.- Ai piedi del monte, ancora parte dell'Antipurgatorio, c'è una valletta fiorita in cui espiano i loropeccati i principi negligenti.- Il purgatorio vero e proprio è un monte scosceso, formato da ampi dirupi e cerchi rocciosi, aciascuno dei quali è preposto un angelo guardiano.- Sulla cima del monte c'è il Paradiso terrestre, che ha l'aspetto di una foresta rigogliosa,popolata di figure allegoriche.Topografia del Paradiso:Il Paradiso è situato oltre la "sfera dell'aria" e "la sfera del fuoco" ed è suddiviso nei seguenticieli:- I cielo o della luna: spiriti che mancarono ai voti (intelligenze motrici: Angeli)- II cielo o di mercurio: spiriti che operarono il bene ma per desiderio di gloria terrena(intelligenze motrici: Arcangeli)- III cielo o di venere: spiriti amanti (intelligenze motrici: Principati)- IV cielo o del sole: spiriti sapienti (intelligenze motrici: Potestà )- V cielo o di marte: spiriti dei morti per la fede (intelligenze motrici: Virtù)- VI cielo o di giove: principi giusti (intelligenze motrici: Dominazioni)- VII cielo o di saturno: spiriti contemplanti (intelligenze motrici: Troni)- VIII cielo o delle stelle fisse: spiriti trionfanti (intelligenze motrici: Cherubini)- IX cielo o del primo mobile: cori angelici (intelligenze motrici: Serafini)- X cielo o empireo: la "candida rosa", nove cerchi angelici, Dio.

d) Struttura formale

In base alla struttura cosmologica (= Acqua) viene determinata la struttura formale (=Terra, forma sensibile del poema), cioè il contenuto manifesto dell'opera nella sua peculiareforma organizzativa e linguistico-espressiva. Da questo punto di vista, la Commedia si presentacome un poema didascalico, che prende dal poema epico la protasi e l'invocazione perciascuna delle tre cantiche. E' composta da versi endecasillabi, distribuiti in 100 canti, che sonoraggruppati in tre cantiche di 33 canti ciascuna più un canto introduttivo (1+33+33+33 = 100). Il 3 ricorre anche nella forma metrica, che è la terzina o "terza rima", ossia strofe di treendecasillabi a rima incatenata (ABA\BCB\CDC). Più in generale, i numeri, legano le numerosecorrispondenze formali del testo (ad. es, i canti sesti delle tre cantiche sono di tema politico),legando gli episodi in un'intricata rete di valori dottrinali e simbolici.Sebene il livello linguistico di una commedia debba essere, come Dante stesso dice, dimesso eumile, pure è facile notare nelle tre cantiche un diverso stile. La norma teorica della"convenientia" impone che lo stile sia conforme all'argomento trattato, perciò lo stile si fa via viapiù elevato passando dalla prima alla terza cantica, con intensificazione anche del linguaggiometaforico. Comunque, in generale, Dante ama un'espressione sintetica, che evochi immaginivisive e sensazioni acustiche, ogni volta che esse possano sostituirsi proficuamente ai semplicilegami logici. La giustapposizione sintattica (brevi elementi successivi con stacchi e cesure)ereditata dalla letteratura latina medievale, fa a volte sembrare a noi moderni (abituati ad unmodo espressivo più legato) il suo linguaggio poco fluido.

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Struttura dottrinale dell'Inferno

Nella prima cantica, Dante impiega, per la classificazione delle colpe e la distribuzione deidannati, l'Etica Nicomachea (come dice esplicitamente Virgilio nel canto XI dell'Inferno) e laRetorica di Aristotele con i loro commenti medievali, ma contemporaneamente si avvale diS.Tommaso per quel che riguarda il cerchio degli eretici, dei Mythologiarum Libri di FulgenzioPlanciade e del De Officiis di Cicerone per le partizioni della malizia e della frode.I peccatori più "vicini" a Dio a alla luce, posti nei primi più vasti gironi, sono gli incontinenti,coloro cioè che hanno fatto il minor uso della ragione nel peccare. I peccati di incontinenza,infatti, sono compiuti soprattutto per debolezza o per incapacità di controllo è perciò, più chealla ragione, sono da imputarsi ad un difetto di volontà nel contrastare il male e nel fare il bene. Più in basso stanno coloro che hanno commesso peccati di malizia, cioè azioni legate all'usoerrato della ragione, messa al servizio del male. Essi, a loro volta, possono dividersi in peccatoridi "eresia", peccatori che hanno agito con "forza" (violenti) e peccatori che hanno agito con"frode". L'eresia è il peccato meno grave giacchè è frutto di un autoinganno della ragione.Seguono i peccati dei violenti che hanno agito accecati dalla passione e tuttavia ad un livello diintelligenza maggiore degli incontinenti e degli eretici. I fraudolenti e i traditori sono i peccatoripiù malvagi, perchè hanno scientemente voluto e realizzato il male. Si può frodare chi si non sifida o chi si fida: ingannare chi si fida (tradimento), cioè chi ci è legato da particolari vincoli(parentela, ospitalità , patria comune), è certamente più grave.L'Inferno digrada a cerchi concentrici. Essi sono in numero di nove, ai quali si aggiunge unvestibolo (Antiferno) dove le anime sostano in attesa di conoscere la loro sorte e dove trovanostabile dimora gli ignavi, cioè "coloro che visser sanza 'nfamia e sanza lodo". I primi cinquecerchi comprendono il Limbo (dove sospirano Dio i giusti che non conobbero la rivelazione o ibambini che non ebbero il battesimo) e i quattro cerchi degli incontinenti: lussuriosi, golosi, avarie prodighi, iracondi e accidiosi.I quattro successivi cerchi sono chiusi entro le mura della città di Dite, per indicare la gravità dei peccati. Nel sesto sono puniti gli eretici; il settimo è il cerchio dei violenti, diviso in tre gironi:nel primo sono puniti i violenti verso gli altri - gli omicidi - nel secondo i violenti verso la propriapersona e le proprie sostanze - i suicidi e gli scialacquatori - nel terzo i violenti verso Dio(sodomiti, bestemmiatori, usurai). L'ottavo cerchio, ove sono puniti coloro che hanno usato lafrode contro chi non si fida, è suddiviso in dieci bolge: quelle dei ruffiani e seduttori, adulatori,simonàaci, indovini, barattierà, ipocriti, ladri, consiglieri fraudolenti, seminatori di discordia,falsari. Il nono cerchio, ove sono puniti i traditori, cioè coloro che hanno usato la frode contro chisi fida, è suddiviso in quattro zone: Caina [traditori dei parenti], Antenora [della patria], Tolomea[degli ospiti], Giudecca [dei benefattori]). Lucifero, in forma di immenso mostro con tre teste,dalle ali di pipistrello, è collocato al fondo dell'inferno, che coincide col centro della terra. Muovecostantemente le ali per mantenere ghiacciato il fiume Cocito e strazia nelle tre bocche Bruto,Cassio (traditori e uccisori di Cesare) e Giuda (traditore di Cristo).

Il passaggio dall'Inferno al Purgatorio

Nel canto XXXIV dell'Inferno, Dante incontra Lucifero. Egli ha tre facce: quella davanti rossa, ladestra di colore tra il bianco e il giallo, la sinistra nera. Sotto ciascuna faccia vi sono due alisenza penne, nerastre e simili a quelle dei pipistrelli, così gigantesche da generare col loro mototre venti. Le tre qualità della Natura, albedo, rubedo e nigredo, si esprimono dunque sia in Dio, sia inLucifero, ma in modo opposto. Le tre persone della Trinità , definite da Dante (canto III, versi5-6), sulla base degli insegnamenti della teologia, Potestate, Sapienza, Amore, corrispondononell'ordine a rubedo, albedo e nigredo. In particolare, riguardo a quest'ultima qualità , occorrenotare che, nella Trinità , ha ovviamente anch'essa un significato positivo. La sua tendenza"discendente" assume la valenza di amore per tutti gli esseri. I tre colori sono nominati nellostesso ordine nel caso delle facce di Lucifero. Il rosso della faccia anteriore simboleggia, in

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questo caso, il desiderio insoddisfatto (l'impotenza). Il bianco non puro, ma giallastro, dellafaccia destra indica l'ignoranza. La faccia nera indica l'odio. E' appena il caso di notare chedesiderio, ignoranza e avversione sono considerati dagli iniziati di ogni epoca come i treprincipali ostacoli alla meditazione. Essi sono la fonte di ogni erroneo "dualismo" intellettivo(ciascuna faccia mette in moto due ali) e generano tre correnti sottili disarmoniche (i tre venti),che "gelano" l'uomo nella sua sofferente condizione.

Struttura dottrinale del Purgatorio

Dante passa dall'Inferno al Purgatorio, guidato da Virgilio lungo il corpo di Lucifero, che è infissoal centro della terra, con la testa rivolta verso l'emisfero boreale e i piedi verso quello australe.La montagna del Purgatorio sorge su un'isola rimasta solitaria nell'emisfero australe, dopo lacaduta di Lucifero. Mentre le altre terre si ritirarono nell'emisfero boreale.Nella rappresentazione dantesca della caduta di Lucifero (Inferno XXXIV versi 121-126 eParadiso canto XXIX, versi 49-51) confluiscono tre elementi:1) il testo biblico di Isaia (XIV, 12-17), integrato dai passi dell'Apocalisse (XII, 7-16), di Luca (X,18) e di Matteo (XXV, 41);2) la cosmologia e cosmografia aristotelica che, per Dante, costituiva la descrizione dell'"ambiente" nel quale il dramma biblico si svolse;3) le considerazioni teologico-cosmologiche necessarie per adattare il dramma della caduta diLucifero al suddetto ambiente.La caduta di Lucifero è così presentata in Isaia: "Come cadesti dal cielo Lucifero, stella delmattino?... Tu che dicevi in cuor tuo: 'In cielo io salirò... m'assiderò sul monte del Testamentodalla parte dell'aquilone ; salirò al di sopra delle nubi, sarò pari all'Altissimo'. Ed invece tu saraitrascinato all'inferno, nella profondità del lago". Il lago, identificato da Dante con il fiume delpianto di cui parla Virgilio nel libro VI dell'Eneide, è, nella Commedia, lo stagno di Cocito.Aristotele, nel libro II del De Caelo, afferma che la parte più nobile del mondo è quella da cuicomincia il movimento diurno del sole, cioè l'Oriente. E poichè nell'uomo la destra è più nobiledella sinistra, si deve considerare l'Oriente simbolicamente come la destra del mondo. Se siinscrive in un cerchio, che rappresenti il mondo, la figura d'un uomo visto di fronte, per far sì chela sua destra sia a Oriente, è necessario che la sua testa coincida col polo antartico, e i suoipiedi col polo artico. Perciò il polo antartico è simbolicamente il capo del mondo, mentre quelloartico ne rappresenta le estremità inferiori. Nel cielo antartico debbono dunque trovarsi quellecostellazioni, che mandavano originariamente sulla terra i loro più benefici e salutari influssi eche la terra stessa attraevano a sè, come magnete il ferro, facendola emergere dalle acque conla loro virtù (o potere). Dante, accogliendo questa visione cosmologica, attribuisce alla caduta di Lucifero il cataclismageologico, che determinò il trasferimento delle terre emerse e abitate dall'uomo nell'emisferoboreale, e il contemporaneo formarsi della montagna del purgatorio, sormontata dal paradisoterrestre (Caput Mundi) nell'emisfero australe.

Mentre le anime dannate entrano all'inferno dopo aver attraversato l'Acheronte, sulla barca deldemone Caronte, invece le anime espìanti giungono alla montagna del purgatorio, dalla focedel Tevere, su un vascello mosso dalle ali dell'angelo nocchiero. Il piano dell'isola e la primaparte della montagna costituiscono l'Antipurgatorio. La parte superiore del monte è il Purgatoriovero e proprio . La struttura dottrinaria del Purgatorio segue la classificazione tomistica deivizi connessi all'amore mal diretto. Infatti, i peccati degli espìanti sono originati da tre causefondamentali:

- amore rivolto al male (superbia, invidia, ira), - amore troppo debole per Dio (accidia) , - amore troppo forte per i beni terreni (avarizia e prodigalità , gola, lussuria).

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Perciò il purgatorio è diviso in sette cornici (delimitate dal lato interno dalla parete a piombo sulmonte, e dal lato esterno dal vuoto) in ciascuna delle quali si espia uno dei sette peccati capitali,nell'ordine già citato. Essendo il Purgatorio costruito specularmente all'Inferno (la montagna èl'immagine speculare della voragine), anche l'ordine dei peccati risulta capovolto: il cammino diDante è infatti dal peccato più grave (superbia) a quello più lieve (lussuria). L'ingresso inpurgatorio è consentito solo dall'angelo guardiano, che apre una pesante porta con due chiavi,secondo un rito che allude ad un certo livello dell'iniziazione. Ogni cornice ha un custodeangelico, l'angelo della virtù contrapposta al peccato, e precisamente gli angeli dell'umiltà , dellamisericordia, della pace, della sollecitudine, della giustiza, dell'astinenza e della castità .Disposti al passo del perdono, ognuno di essi cancella una delle sette P, incise sulla fronte diDante dall'angelo guardiano della porta del purgatorio. L'espiazione implica, oltre alla pena fisica che risponde alla legge del contrappasso (ed è atta acolpire più la natura spirituale e intellettiva degli individui che il loro corpo) anche momenti diriflessione e di pentimento, passaggio necessario per il termine dell'espiazione e il raggiungimento dell'estasi propria del Paradiso: perciò le anime sentono voci o vedono sceneche ricordano episodi di virtù premiata o di colpa punita. Gli espìanti, a differenza dei dannatiche restano fissati per l'eternità al luogo in cui devono pagare la loro colpa, percorrono tutte lecornici purgatoriali, fermandosi in ciascuna, a seconda dell'intensità delle colpe. Tenendo conto dell'Antipurgatorio, alla base della montagna, e del Paradiso terrestre, collocatosulla vetta, anche nella divisione del Purgatorio si ripete l'iniziatico numero nove (lo stesso deicerchi dell'inferno) che si ritroverà una terza volta nel Paradiso.Nell'Antipurgatorio, camminano mestamente i negligenti, cioè coloro che, per pigrizia, hannoaspettato a pentirsi fino all'ultimo istante della vita. Sono divisi in quattro gruppi:- Gli scomunicati che devono stare nell'antipurgatorio trenta volte il tempo che durò lascomunica;- I pigri;- I morti di morte violenta;- Gli amanti della gloria terrena.Gli ultimi tre gruppi sosteranno nell'antipurgatorio tanti anni quanti vissero.La sommità della montagna (che si erge verso il cielo, fin oltre la sfera del fuoco) è costituita dalpianoro del Paradiso Terrestre, dove convergono le anime purgate prima di accedere alParadiso. Il Paradiso terrestre è una foresta rigogliosa, antitesi della Selva oscura. In essascorrono i due fiumi Lete ed Eunoè: il primo ha la funzione di cancellare la memoria del male, ilsecondo quella di riaccendere la memoria del bene. Giunto alle soglie del Paradiso terrestre,Virgilio deve abbandonare il Poeta; alla guida di Dante si pone il poeta latino Stazio (Danteimmagina si sia convertito segretamente), che lo condurrà nel giardino celeste, dove sarà accolto da Matelda. Questa è, a sua volta, anticipazione dell'apparizione di Beatrice, discesaper lui dal cielo, ammantata delle tre virtù teologali. Si compie, a questo punto, il rito catarticodella personale confessione e purificazione del poeta, che diviene così "puro e disposto a salirea le stelle". Proprio negli ultimi canti del Purgatorio, inoltre, viene affidato a Dante il suo compitodi scrittore, che è quello di testimoniare agli altri uomini la verità così come l'ha appresa.

Il passaggio dal Purgatorio al Paradiso

Vorrei soffermarmi (così come ho fatto per il transito dall'Inferno al Purgatorio) sul transito dalPurgatorio (e precisamente dal Paradiso Terrestre) al Paradiso. Dante, nell'Eden, si bagna nelLetè e così dimentica il male commesso, si immerge poi nell'Eunoè, per ricordare tutto il benecompiuto, di cui non ha più coscienza, e si ritrova finalmente "puro e disposto a salire le stelle".Le spiegazioni riguardanti i due fiumi si trovano in due canti del Purgatorio.Nel canto XXVIII, Matelda spiega a Dante:"L'acqua che vedi non scaturisce da una polla che sia alimentata dal vapore acqueo convertitoin pioggia dal freddo, come un fiume (terreno) il quale accresce e diminuisce la sua portata; manasce da una fonte costante e inesauribile, che dal volere di Dio attinge tant'acqua, quanta ne

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versa nei due fiumi aperti in due direzioni opposte. Nel fiume che è da questa parte l'acquascorre con un potere che toglie il ricordo del peccato in chi la beve; nel fiume che è dall'altraparte l'acqua restituisce il ricordo del bene compiuto. Da questo lato il fiume si chiama Letè; cosìdall'altro si chiama Eunoè, e l'acqua non opera il suo effetto se prima non è bevuta in entrambi iruscelli".

Nel canto XXX, Dante dice: "Gli occhi mi caddero sulla limpida acqua del Letè; ma vedendorispecchiata in essa la mia confusione, li volsi sull'erba, tanto era il peso della vergogna che mifece abbassare la fronte".

Nel medesimo canto Beatrice conclude:"Un sommo decreto di Dio sarebbe violato, se si oltrepassasse il Letè e si gustasse la dolcezzadelle sue acque senza pagarne il prezzo con un pentimento così profondo da far spargerelagrime".

Il ricordo di sé (1) va di pari passo con lo "sciogliersi" dell'attaccamento egoico ed ha dueaspetti, frutto in realtà della medesima pratica. La presenza a sé stessi non solo porta adisidentificarsi dai sentimenti egoici che appaiono nella mente, ma anche dagli avvenimentipassati e dalla vergogna che proviamo per alcuni di essi. Quella vergogna ci è apparsa spesso,ma ci faceva soffrire, così la relegavamo per più tempo possibile nella subcoscienza. Lapresenza mentale guarda quella vergogna negli occhi: la chiarezza della visione rendemomentaneamente la sofferenza forte come non è mai stata. Ma la presenza mentale continuanella sua azione: quella stessa sofferenza si fa distante, svanisce assieme all'ego che hasbagliato e che ha sofferto e che ora non è cosa diversa dalla presenza stessa. Questa nonsolo purifica così dagli errori, ma ci riporta il ricordo di tutto ciò che abbiamo fatto di piccolo ogrande per l'ascenso spirituale nostro o altrui. Non importa se quei tentativi erano più confusiche efficaci: essi erano sinceri. Svanito il peccato con l'ego che l'ha compiuto, restituitoci ilsenso vero di tutto ciò che abbiamo fatto, conosciamo cos'è la purezza. E' finito il faticoso"Opus mulierum", sta per iniziare l'agile "Ludus puerorum".

(1) Che forse sarebbe meglio chiamare semplicemente il Ricordo, con la lettera maiuscola.

Struttura Dottrinale del Paradiso

Da un punto di vista dottrinario, nella stesura del Paradiso, Dante si è servito della concezionearistotelica dei cieli, così come si era venuta a trasformare nei secoli, e come fu accoltanel mondo cristiano. Egli stesso così la descrive nel Convivio : "Aristotele credette, ..., chefossero pure otto cieli, dei quali lo estremo, e che contenesse tutto, fosse quello dove le stellefisse sono, cioè la spera ottava; (II,3,3); Tolomeo poi, accorgendosi che l'ottava spera si moveaper più movimenti, ..., pose un altro cielo essere fuori de lo Stellato, lo quale facesse questarevoluzione da oriente a occidente... (II,3,5) Veramente, fuori di tutti questi, li cattolici pongonolo cielo Empireo, che è a dire cielo di fiamma o vero luminoso; e pongono esso essereimmobile… (II, 3, 8). Quest'ultimo è il cielo dei beati - Questo loco è di spiriti beati, secondo chela Santa Chiesa vuole, che non può dire menzogna (II,3,10)". Se i cieli si muovono, si pone il problema di chi li muove. Sempre nel Convivio, Dante dice che al loro movimento sono associati "sustanze separate da materia, cioè Intelligenze, le quali lavolgare gente chiamano Angeli" (II,4,2). Dante ritiene che la verità su questa questione siadifficile da vedersi per due ragioni, "e per difetto di ragione e per difetto d'ammaestramento"(II,4,8). Ritorna successivamente su questo concetto, spiegando: "Detto è che per difettod'ammaestramento li antichi la veritade non videro de le creature spirituali" (II,5,1); in parte laraggiunse il popolo d'Israele, ad opera dei suoi profeti. I cristiani, infine, "ammaestrati da coluiche venne da quello, da colui che le fece, da colui che le conserva, cioè da lo Imperadore de

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l'universo, che è Cristo", ebbero completa conoscenza di questa verità.La struttura del Paradiso è perciò costruita sulla base di una cosmologia geocentrica, chepone la Terra al centro di una serie di nove sfere concentriche crescenti, rappresentanti i cielidella Luna, di Mercurio, di Venere, del Sole, di Marte, di Giove, di Saturno, dello Zodiaco o delleStelle Fisse, e del Primo Mobile o Cristallino. Quest'ultimo, che "non ha altro dove che la mentedivina" (XXVII, 109-110), racchiude l'universo sensibile e, nello stesso tempo, ne è al di fuori.Oltre il Primo Mobile è il cielo Empireo, raffigurato come una simmetrica serie di nove sfereconcentriche decrescenti, che sono le sedi di Angeli, Arcangeli, Principati, Potestadi, Virtù,Dominazioni, Troni, Cherubini e Serafini, e il cui centro è un punto di luce abbagliante simbolo diDio (XXVIII, 16-18). L'universo descritto da Dante si compone perciò di due distinte serie disfere, una sensibile e l'altra "celeste" (invisibile ai sensi, coelum viene dacoelare=nascondere) i cui centri sono rispettivamente la Terra e Dio. Dante (XXVIII, 46-57)è turbato dall'apparente mancanza di simmetria: le sfere dell'universo sensibile sono tanto piùperfette quanto più si allontanano dalla Terra, mentre quelle dell'universo celeste divengonotanto più perfette quanto si avvicinano al centro divino. Secondo la spiegazione che mette inbocca a Beatrice (XXVIII, 61-78), l'ordine inverso delle sfere spirituali è solo apparente, e ilcentro divino è in realtà la sfera maggiore. Perciò Dio appare "inchiuso da quel ch'elli 'nchiude"(XXX, 12). Tra i nove cieli c'è dunque una gerarchia di perfezione, dalla luna (più vicina alla terra eperciò più lontana da Dio, più piccola, più lenta) al Primo Mobile (più vicino a Dio, più grande,più veloce ). Dante nella sua ascensione incontrerà le anime dei beati secondo un ordine dimaggior perfezione e beatitudine, ma anche in una precisa corrispondenzasimbolico-astrologica tra la qualità di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dalpersonaggio descritto. E così, nel Cielo della Luna appaiono gli spiriti che mancarono ai voti; nelCielo di Mercurio gli spiriti attivi; nel Cielo di Venere gli spiriti amanti; nel Cielo del Sole gli spiritisapienti; nel Cielo di Marte gli spiriti guerrieri; nel Cielo di Giove gli spiriti giusti; nel Cielo diSaturno gli spiriti contemplanti; nel Cielo delle stelle fisse gli spiriti trionfanti; nel Primo Mobile legerarchie angeliche. La collocazione delle anime dei beati è però provvisoria, sono "scese" nellesfere celesti solo per far capire a Dante le gerarchie interne dei beati, ma il loro vero "luogo" è laRosa Mistica nell'Empireo, l'anfiteatro spirituale dal quale essi contemplano direttamente Dio.L'Empireo, la decima sfera, incorporea, immobile, che raggruppa tutte le altre è la sedevera e propria di Dio, anche se Egli è in tutte le cose ("Trascendenza Immanente"), come giànel primo canto del paradiso, l'incipit chiarisce:

La gloria di colui che tutto moveper l'universo penetra, e risplendein una parte più e meno altrove.

(Par I, 1-3)

Tutti gli altri cieli ruotano tanto più velocemente quanto più sono alti. Dio infonde movimento alPrimo Mobile. Questo movimento passa gradualmente agli altri cieli, che sono presieduti dalleintelligenze angeliche. Il movimento verso il "basso" è in stretta relazione con un simmetricomovimento verso l'alto: quello delle creature che tendono a tornare a Dio. Tutto ciò è in armoniaancora una volta con la dottrina di Aristotele. Questi, in accordo col XII libro della Metafisica, nel libro VIII della Fisica sostiene che la divinità muove il mondo stando ferma, ovverocausa il moto dell'universo come causa finale (se fosse causa efficiente, sarebbe essastessa in movimento), poiché a lei tende - come l'amante verso l'oggetto amato - il "primo cielo",che però per Aristotele, diversamente da Tolomeo e da Dante, era il Cielo delle Stelle Fisse.Il movimento dei cieli si trasmette non direttamente ma come conseguenza dell'atto delleIntelligenze angeliche, che presiedono a ciascun cielo:

Lo moto e la virtù d'i santi giri,come dal fabbro l'arte del martello,da' beati motor convien che spiri,

(Par II 127-129 )

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I beati motori sono appunto le Intelligenze angeliche che, nel presiedere al cielo loro assegnatodal disegno divino, sono causa efficiente del movimento delle rote celesti , che sono solo causestrumentali degli effetti prodotti (musica celeste, influssi astrali etc.), allo stesso modo che ilmartello è solo lo strumento, mentre la causa efficiente è il fabbro. Esempio mutuato daAristotele, e utilizzato anche nel Convivio (I,XI 11) anche se in negativo, perchè lì dar la colpa almartello è menzognera scusa di un cattivo fabbro: " sì come lo mal fabro biasima lo ferroapresentato a lui, e lo malo citarista biasima la cetera, credendo dare la colpa del mal coltello edel mal sonar al ferro e alla cetera, e levarla da sè. In un punto sicuramente Dante si allontana da Aristotele: nel far sua la dottrina pitagoricadell'Armonia delle Sfere:

Quando la rota che tu sempiternidesiderato, a sé mi fece atteso

con l'armonia che temperi e discerni,parvemi tanto allor del cielo acceso

de la fiamma del sol, che pioggia o fiumelago non fece alcun tanto disteso.

La novità del suono e 'l grande lumedi lor cagion m'accesero un disìomai non sentito di cotanto acume.

(Paradiso, canto I, vv.76-81)

"L'armonia che temperi e discerni" è espressione tecnica e musicale: temperare indica qui l'attodell'accordatura, tipico soprattutto di uno strumento a corde come la lira: "le sante corde/ che ladestra del cielo allenta e tira" (Par XV, 5-6 ), mentre nell'espressione discerni è ravvisabile unriferimento alla discretezza dei numeri per mezzo dei quali, secondo la teoria pitagorica,vengono stabiliti i rapporti matematici che organizzano lo spazio sonoro (1) .

(1) Vedi: Nino Pirrotta, «Dante musicus: gothicism, scholasticism, and music» in: Speculum. Ajournal of Mediaeval studies, vol.XLIII, Cambridge Massachusetts, 1968, pp.245-257.

L'origine, perlomeno in ambito occidentale, della teoria nota come armonia delle sfere vienecomunemente ascritta alla scuola pitagorica o a Pitagora stesso, che secondo la testimonianzadi Giamblico (La vita pitagorica, 65-67) poteva udire la musica cosmica.Aristotele confutò tale teoria nel De Caelo. È egli stesso a riportare la giustificazione,attribuita ai pitagorici, del perché non udiamo la celeste armonia: perché un suono o un rumorenon vengono percepiti se non in contrasto con il proprio opposto, il silenzio o meglio l'assenzadel suono medesimo; dal momento che quello prodotto dalla rotazione delle sfere planetarie èun suono che ci è presente sin dalla nascita, non è possibile riconoscerlo, in quanto ci manca lapercezione del suo contrario. Una saturazione per assuefazione, simile a quella provata daifabbri che appaiono indifferenti al rumore provocato dalla propria quotidiana attività lavorativa.Invece, Aristotele, alla domanda perché non udiamo la musica delle sfere, risponde che è così,semplicemente perché non c'è nessuna musica. Se esistesse un suono prodotto dalla rotazionedegli astri, sarebbe talmente forte ed intenso da distruggere la vita sulla terra, cosa che non è.Perciò, non esiste alcuna musica delle sfere. E perché non esiste? Perché gli astri si muovononel medium della propria sfera, e quindi non si produce attrito.

L'ostacolo della confutazione di Aristotele venne aggirato proprio da un aristotelico,Simplicio (vissuto nel VI secolo d.C.), il cui commento greco al De Caelo venne tradotto inlatino da Guglielmo di Moerbeke, nella seconda metà del XIII secolo. Simplicio sposta l'asse delragionamento, dall'udibilità della musica in sé, allo stato ricettivo in cui è necessario si pongal'ascoltatore:

"Forte igitur, secundum virorum philosophiam, solvendam instantiam, dicendo quod non omniasunt invicem commensurata, neque omne omni est sensibile neque apud nos. Insinuant autem

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canes odorantes animalia de longe, quod homines non odorant. Quanto itaque magis, intantumnatura distantibua, quantum incorruptibilia a corruptibilibus et caelestia a terrenis, verum estdicere quod divinorum corporum sonus terrenis auribus non est audibilis! Si autem aliquis et hoccorpus terrenum separatum et autoideale ipsius et caeleste sedile et eos quam in ipso sensuspurificatos habeat, aut per bonam sortem, aut per vitae bonitatem, aut adhuc proptersacerdotalem perfectionem, iste utique videbit quae aliis invisibilia sunt et audiet quae ab aliisnon audiuntur, sicut narratur Pythagoras extitisse. Divinorum autem et immaterialium corporum,si utique fiat aliquis sonus, neque percussivus neque perimens fit, sed generativorum sonorumexcitat virtutes et operationes et cognatum sensum perficit. Et proportionem quidem habetquandam ad sonum concurrentem cum motu terrenorum corporum. Operatio autem quaedamest motus illorum impassibilis soni, qui apud nos fit propter sonativam aeris naturam. Si igitur ibiaer passivus non est, constat quod neque sonus utique erit. Sed videtur Pythagoras sic dicereharmoniam illam audivisse tamquam et in numeris harmonicas proportiones intelligens, et quodin ipsis audibile, audire dicebat harmoniam. -Dubitaret autem utique quis merito, propter quidipsa quidem astra visivis nostris sensibus videntur, sonus autem ipsorum auribus nostris nonauditur. Et dicendum quod neque astra ipsa videmus. Neque enim magnitudinem ipsorum autfiguras neque excellentes pulchritudines, sed neque motum per quem sonus fit, sed velutillustrationem quandam ipsorum videmus talem, velut et solis circa terram lumen et non ipse solvidetur. Forsitan autem neque utique erit mirum, visivum quidem sensum veluti immaterialioremet secundum actum magis axistentem quam secundum passionem, et mulutm aliissupereminentem, claritate et fulgore caelestium honorari. Alios autem sensus neque aliasalteras assignet causas probabiliores, amicus sit sed non inimicus habeatur" (2) .

Come si vede, Simplicio fa esplicito riferimento a Pitagora e alle credenze che volevano che ilfilosofo udisse l'armonia celeste, essendo in condizione di "perfezione sacerdotale" e citaesplicitamente la riconoscibilità di proporzioni e numeri all'interno dell'armonia percepita. PerSimplicio, la musica delle sfere non è dunque tanto una vibrazione propagantesi nell'aria e checolpisca l'udito umano, ma piuttosto un atto intellettivo, con cui l'uomo conosce i rapportiarmonici che regolano la struttura ordinata dell'universo. Tommaso d'Aquino dissentì dalle ragioni addotte da Simplicio, ritornando ai principid'indagine puramente fisico-acustici di Aristotele. Ma non poteva certo convincere in questomodo un Dante, secondo cui "dietro ai sensi/vedi che la ragion ha corte l'ali" (Par II, 56-57) eche era perfettamente d'accordo, sull'imperfezione dei sensi terreni, con Cicerone, secondo ilquale "tum multo puriora et dilucidiora cernentur, cum, quo natura fert, liber animus pervenerit"(Tuscolane, 1, XX, 46). Non a caso, è proprio nel Somnium Scipionis, episodio del dialogoDe re publica di Cicerone, che si ha una descrizione dell'armonia delle sfere, che forse fumodello di quella di Dante: Publio Cornelio Scipione Emiliano racconta come il nonno, PublioCornelio Scipione l'Africano, gli sia apparso in sogno e, nel descrivergli la via Lattea, sede degliuomini che hanno servito e amato la patria, gli abbia parlato, fra le altre cose, della musicameravigliosa prodotta dal movimento delle sfere celesti. "Il suono, - spiega Scipione - per larotazione vorticosa di tutto l'universo, è talmente forte, che le orecchie umane non hanno lacapacità di coglierlo, allo stesso modo in cui non potete fissare il sole, perché la vostrapercezione visiva è vinta dai suoi raggi".

(2) "Simplicii, Commentaria in quatuor libros de Coelo Aristotelis", ff.24v-25r (II, ad t.c.37),riportato in Bruno Nardi, «La novità del suono e 'l grande lume», in Saggi di filosofia dantesca(4. Il pensiero filosofico), Firenze, La Nuova Italia, 1967, pp.73-80.

Nello scandire i tempi del viaggio paradisiaco, Dante ha tenuto presente lo schemadell'opera "Itinerarium mentis in Deum" di San Bonaventura da Bagnoregio, teologomistico (agostiniano e neoplatonico), che prevedeva tre gradi di apprendimento: il primo èquello "Extra nos", cioè della conoscenza sensibile, che culmina in Dante con l'esperienza deicieli sensibili (i primi otto); il secondo è quello "Intra nos", che "ha per oggetto lo spírito, rivolto insé e a sé" e che corrisponde in Dante all'esperienza del Primum Mobile; il terzo è quello"Supra nos", ed "ha per oggetto la mente, che si eleva spiritualmente sopra di sé" e checorrisponde in Dante all'esperienza dell'Empireo.

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In quest'ultima fase del viaggio di Dante, Beatrice lascia il posto a S.Bernardo che in vita"contemplando, gustò di quella pace" (Par XXXI, 111), poiché per innalzarsi alla visionesuprema della Divinità non basta più la scienza teologica costruita sulla fede, ma si richiede"ardore contemplativo" e soccorso di grazia, da impetrarsi con l'intercessione della Vergine.Ancora una volta, non è un caso che, anche nelle opere di S.Bernardo, si ritrovi la teoria dell'armonia delle sfere:" [I tre monaci] incontanente che furono dentro [alla porta d'esso Paradiso], udirono lo suonodella rota del cielo che si volgeva; lo quale suono era di tanta dolcezza e suavitate e di tantodiletto, che quasi non sapevano lo sito dove erano, anzi si posono a sedere dentro della porta,tanto erano allegri e dilettosi di quello suono della rota del cielo!".(Leggenda del Paradiso Terrestre, ne Le sette opere di penitenza di San Bernardo, Venezia,Mongelli, 1846)

8) DATAZIONE DEL VIAGGIO DANTESCO

di Afrodite Urania e Frater Petrus

Afrodite Urania: Raccolgo qui di seguito i versi sui quali si basano i principali tentativi didatazione del viaggio dantesco.

1) Inferno, I, 1

"Nel mezzo del cammin di nostra vita ".

2) Inferno, I, 37-43

"Temp'era dal principio del mattino,e 'l sol montava 'n sù con quelle stelle ch'eran con lui quando l'amor divino mosse di prima quelle cose belle; sì ch'a bene sperar m'era cagione

di quella fera a la gaetta pelle l'ora del tempo e la dolce stagione;".

3) Inferno, XX, 127-129

"... e già iernotte fu la luna tonda: ben ten de' ricordar, chè non ti nocque

alcuna volta per la selva fonda ".

4) Inferno, XXI, 112-114

"Ier, più oltre cinqu'ore che quest'otta, mille duegento con sessanta sei

anni compiè che qui la via fu rotta ".

5) Purgatorio, I, 19-21

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"Lo bel pianeto che d'amar conforta faceva tutto rider l'oriente,

velando i Pesci ch' erano in sua scorta ".

6) Purgatorio, II, 94-102

"Ed elli a me: "Nessun m'è fatto oltraggio, se quei che leva quando e cui li piace, più volte m'ha negato esto passaggio;

chè di giusto voler lo suo si face: veramente da tre mesi elli ha tolto chi ha voluto intrar, con tutta pace. Ond'io ch'era ora a la marina volto

dove l'acqua di Tevero s'insala, benignamente fu' da lui ricolto ".

7) Paradiso, IX, 37-42

"Di questa luculenta e cara gioia del nostro cielo che più m'è propinqua, grande fama rimase; e pria che moia,

questo centesimo anno ancor s' incinqua: vedi se far si dee l'orno eccellente,

sì ch'altra vita la prima relinqua ".

8) Paradiso, XXI, 13-15

"Noi sem levati al settimo splendore, che sotto 'l petto del Leone ardente raggia mo misto giù del suo valore ".

Frater Petrus: Secondo la testimonianza di Ser Piero di Messer Giardino da Ravenna, raccoltadal Boccaccio, Dante vicino a morire (Settembre 1321) avrebbe indicato la propria età in 56anni e 4 mesi. In base a questa indicazione, la sua data di nascita si colloca nel Maggio del1265. Un'ulteriore indicazione ci viene dal XXII canto del Paradiso:

22.106 S'io torni mai, lettore, a quel divoto22.107 triunfo per lo quale io piango spesso22.108 le mie peccata e 'l petto mi percuoto,

22.109 tu non avresti in tanto tratto e messo22.110 nel foco il dito, in quant'io vidi 'l segno22.111 che segue il Tauro e fui dentro da esso.

22.112 O gloriose stelle, o lume pregno22.113 di gran virtù, dal quale io riconosco22.114 tutto, qual che si sia, il mio ingegno,

22.115 con voi nasceva e s'ascondeva vosco22.116 quelli ch'è padre d'ogne mortal vita,22.117 quand'io senti' di prima l'aere tosco;

Dante ascende all'ottavo cielo, quello delle stelle fisse, nel quale si trova la costellazione dei

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Gemelli, che nello Zodiaco segue quella del Toro. Egli afferma di esser nato nel periodo in cui ilsole è in congiunzione con la costellazione dei Gemelli e perciò nel periodo tra il 21 maggio e il21 giugno. Mettendo assieme le due indicazioni precedenti, si ottiene una data di nascitacompresa ta il 21 e il 31 maggio 1265.Secondo Inferno I/1, il suo viaggio inizia "Nel mezzo del cammin di nostra vita " e cioèconsiderando, come era d'uso, una durata media di 70 anni, a 35 anni. Questa informazione èperò piuttosto ambigua, perchè non è chiaro se Dante volesse indicare il 35° anno della sua vita(quando cioè aveva 34 anni compiuti) o se invece volesse indicare di aver già compiuto 35 annio infine se volesse indicare il momento esatto in cui compiva 35 anni. Da sola, questa primaindicazione del poeta è perciò molto vaga, perchè consente solo di collocare l'inizio del suoviaggio iniziatico nel periodo piuttosto ampio (due anni) compreso tra il 21-31 Maggio 1299 e il21-31 Maggio 1301.Consideriamo ora la seconda indicazione che Dante ci fornisce e cioè Inferno I/37-43:

1. 37 Temp'era dal principio del mattino,1. 38 e 'l sol montava 'n sù con quelle stelle1. 39 ch'eran con lui quando l'amor divino

1. 40 mosse di prima quelle cose belle;1. 41 sì ch'a bene sperar m'era cagione1. 42 di quella fiera a la gaetta pelle1. 43 l'ora del tempo e la dolce stagione;

La notte era finita e il sole sorgeva in congiunzione con il segno dell'Ariete, proprio comequando Dio, all'equinozio di primavera, mise in moto per la prima volta il firmamento. Lo zodiacodei "Segni" ha, a differenza di quello delle "Costellazioni", l'enorme vantaggio di poterprescindere dal fenomeno della precessione equinoziale ed è perciò sempre ad esso cheoccorre fare riferimento, quando non vi sia da parte di Dante una esplicita indicazione di farediversamente.Il giorno che stava nascendo non era necessariamente successivo a quello di inizio del poema, perchè si può benissimo ammettere che la peregrinazione nella selva fosse iniziata esattamentea mezzanotte.Questa seconda informazione, che il poeta ci offre riguardo al suo viaggio, ci permette diescludere che esso sia iniziato nel giorno del suo compleanno, che come abbiamo visto cadevanel segno dei Gemelli. Viene invece indicato chiaramente il periodo in cui il sole è in Ariete. Nonè invece ancora chiaro:1) se si tratta del 1300 o del 1301;2) se il poeta intende indicare un giorno esatto: ad es. l'equinozio di primavera (21 Marzo),quando, secondo la tradizione seguita da Dante, venne messo in moto l'attuale firmamento(cioè il II giorno della Genesi, nel quale il firmamento venne creato) o il giorno della nascita diAdamo (25 Marzo= VI giorno della Genesi); o se intenda indicare genericamente il periodo incui il Sole è in Ariete (21 Marzo - 20 Aprile). In ogni caso, l'incertezza sul periodo daconsiderarsi per l'inizio del viaggio si è ridotta di ben dodici volte, rispetto alla primainformazione, (da due anni a due soli mesi) essendo tale inizio sicuramente compreso o tra il 21Marzo e il 20 Aprile del 1300 o tra il 21 Marzo e il 20 Aprile del 1301.

Continuiamo la lettura dell'Inferno, alla ricerca di indicazioni temporali.

II Canto

2. 1 Lo giorno se n'andava, e l'aere bruno 2. 2 toglieva li animai che sono in terra2. 3 da le fatiche loro; e io sol uno...

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Siamo giunti dunque al tramonto.

VII Canto.

7. 97 Or discendiamo omai a maggior pieta;7. 98 già ogne stella cade che saliva7. 99 quand'io mi mossi, e 'l troppo star si vieta.

Il fatto che le stelle inizino la discesa, indica che è passata la mezzanotte.

XI Canto

11.112 Ma seguimi oramai, che 'l gir mi piace;11.113 chè i Pesci guizzan su per l'orizzonta,11.114 e 'l Carro tutto sovra 'l Coro giace,11.115 e 'l balzo via là oltra si dismonta .

I Pesci si trovano all'orizzonte e, poichè precedono l'Ariete, segno in cui, come abbiamo già visto, si trova il sole, ciò vuol dire che sta per sorgere l'alba.L'Orsa maggiore è in direzione del Coro o Maestrale, vento che soffia da nord-ovest.

XV

15. 49 «Là sù di sopra, in la vita serena »,15. 50 rispuos'io lui, «mi smarri' in una valle,15. 51 avanti che l'età mia fosse piena.

15. 52 Pur ier mattina le volsi le spalle:15. 53 questi m'apparve, tornand'io in quella,15. 54 e reducemi a ca per questo calle ».

"Avanti che l'età mia fosse piena" è da ritenersi espressione equivalente a " Nel mezzo delcammin di nostra vita". "Ier mattina" conferma che tutta la narrazione da I/37 a 15/54 è daritenersi avvenuta in poco più di una giornata.

E giungiamo così all'informazione importantissima del XX Canto:

20.124 Ma vienne omai, chè già tiene 'l confine20.125 d'amendue li emisperi e tocca l'onda20.126 sotto Sobilia Caino e le spine;

20.127 e già iernotte fu la luna tonda:20.128 ben ten de' ricordar, chè non ti nocque20.129 alcuna volta per la selva fonda

Secondo un'antica credenza popolare sulla superficie lunare è visibile l'immagine di Caino,oppresso da un fascio di spine. La luna tocca il mare sotto Siviglia e si trova ora al confine tra idue emisferi (boreale e australe), cioè tramonta. La notte precedente ci fu la luna piena, che fupiù volte utile a Dante nella selva buia.Questa informazione è di grande importanza, perchè riduce da due mesi a due soli giorni ilpossibile inizio del viaggio di Dante: Può infatti trattarsi soltanto:1) del plenilunio antecedente alla Pasqua del 1300, cioè della notte del Martedì 5 Aprile: errano

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perciò di sicuro coloro che lo fanno iniziare il 7 o l'8 Aprile;2) oppure del plenilunio del 25 Marzo 1301, cioè di quel 25 Marzo che, come abbiamo già ricordato, è, per tradizione, considerato il giorno di nascita di Adamo.

L'informazione temporale successiva si trova nel canto XXI dell'Inferno:

21.112 Ier, più oltre cinqu'ore che quest'otta,21.113 mille dugento con sessanta sei21.114 anni compiè che qui la via fu rotta.

Ieri, cinque ore dopo l'attuale, si sono compiuti 1266 anni da che questa via fu interrotta. Ilterremoto che causò le interruzioni (cfr. Inferno XII, 37-45) avvenne alla morte di Cristo.Nell'interpretazione di questi versi, alcuni critici letterari si sono serviti della data della morte diCristo (di per sè incerta) fornita da storici o da scienziati o da teologi. Ciò avrebbe senso solo seDante non avesse chiaramente espresso il suo parere in merito. Poichè, invece, egli lo ha fatto,solo la sua datazione (giusta o errata che sia) deve essere utilizzata nell'interpretazione dei suoiversi.

Il poeta affronta il problema della morte di Cristo, nel Convivio (IV, XXIII, 10-11):

"10. E muovemi questa ragione: che ottimamente naturato fue lo nostro salvatore Cristo, loquale volle morire nel trentaquattresimo anno de la sua etade; chè non era convenevole ladivinitade stare [in] cos[a] in discresc[er]e, nè da credere è ch'elli non volesse dimorare inquesta nostra vita al sommo, poi che stato c'era nel basso stato de la puerizia. 11. E ciò manifesta l'ora del giorno de la sua morte, chè volle quella consimigliare con la vitasua; onde dice Luca che era quasi ora sesta quando morio, che è a dire lo colmo del die. Ondesi può comprendere per quello 'quasi' che al trentacinquesimo anno di Cristo era lo colmo de lasua etade".

Come già sappiamo Dante considerava la vita media di un uomo pari a 70 anni. Pertanto,simboleggiando la durata della vita con un arco, il tratto ascendente della vita culmina nelcompimento del 35° anno. Poi inizia il tratto discendente dell'arco, che porta alla vecchiaia e allamorte. Dante afferma che non era cosa conveniente per la divinità vivere la fase discendente,sperimentando così la degenerescenza del corpo ("chè non era convenevole la divinitade stare[in] cos[a] in discresc[er]e") e che per questo Cristo morì nel suo 34° anno. Ma in che mese egiorno? Dante aggiunge che, se non volle vivere l'arco discendente della vita, tuttavia nonbisogna credere che egli non volesse neppure raggiungere la sommità dell'arco ("nè da credereè ch'elli non volesse dimorare in questa nostra vita al sommo"). Ciò significa che, secondoDante, Cristo morì un attimo prima di compiere 35 anni, cioè nel momento di raggiungere ilsommo dell'arco. Ciò si verificò anche per l'ora della sua morte. Dante, citando il vangelo diLuca, dice che "era quasi ora sesta quando morio, che è a dire lo colmo del die", cioè un attimoprima di giungere al mezzogiorno. Bisogna, a questo punto, ricordare che nel corso del Medioevo non era consuetudine iniziare acontare i giorni dell'anno dal primo giorno di gennaio, come facciamo oggi. I più comuni criteri didatazione erano la datazione "a nativitate Domini", cioè a partire dal 25 dicembre, e ladatazione "ab incarnatione", cioè a partire dal 25 marzo (nove mesi prima della nascita). Ilcomune di Firenze, nel XIII e XIV secolo, preferiva questo secondo criterio, ponendo l'iniziodell'epoca cristiana al 25 marzo dell'anno I dopo Cristo. Quale criterio ha seguito Dante nel suopoema? Non certo quello "a nativitate", perchè, come sappiamo, il suo viaggio non avvenne afine Dicembre, bensì in Primavera. Perciò, secondo Dante, Cristo morì un attimo prima dicompiere 35 anni, calcolati "ab incarnatione". Se a questi 35 anni si aggiungono i 1266 indicatidai versi del canto XXI, si ottiene la data del 25 Marzo 1301, cioè una delle due uniche date diplenilunio, precedentemente da noi individuate come possibili per l'inizio del suo viaggio. Questadata è, come si può constatare, simbolicamente importantissima, poichè è:1) La data in cui si incarnò Cristo e perciò il giorno dell'Annunciazione dell'Angelo allaMadonna.

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2) La data (secondo Dante) in cui morì Cristo.3) La data in cui fu creato Adamo nel Paradiso Terrestre.L'Ave dell'Angelo alla Madonna è un ben noto simbolo dell'iniziazione. La morte di Cristo è simbolo della morte iniziatica. La nascita di Adamo è il simbolo della creazione (in virtùdell'iniziazione) del nuovo uomo, che viene a trovarsi in una condizione interiore paragonabile aquella del Paradiso Terrestre.

9) Maometto e Alì all'Inferno

"Mentre che tutto in lui veder m'attacco,guardommi, e con le man s'aperse il petto,

dicendo: 'Or vedi com'io mi dilacco!vedi come storpiato è Maometto!

Dinanzi a me sen va piangendo Alì,fesso nel volto dal mento al ciuffetto.

E tutti li altri che tu vedi qui,seminator di scandalo e di scisma

fur vivi, e però son fessi così."

(Inferno, Canto XXVIII, vv. 28-36)

Tarquinio Prisco: Questi sono una parte dei versi dell'Inferno che Dante dedica a Maometto eal suo genero Alì, fondatore della corrente Sciita. Entrambi si trovano tra i seminatori didiscordie, cioè tra coloro che in vita hanno provocato lacerazioni politiche o religiose o familiari.Maometto ha il corpo dilaniato dal mento al basso ventre. Alì ha una pena complementare,avendo il volto aperto dal mento ai capelli. Entrambi sono puniti nelle parti del corpo che piùhanno peccato: Alì nel cervello, Maometto nella gola, nel cuore e nel ventre.Gli studiosi arabi si sono in genere scandalizzati e, nelle traduzioni da loro fatte già apartire dal 1930, hanno omesso in vario modo i versi dal 22 al 63. Ma non si limitano a questo,pretendendo che Dante debba molto alla cultura araba e in particolare al Libro della Scala, chepresenterebbe diverse analogie con l'Inferno. Dunque, secondo loro, non solo Dante sisbaglierebbe riguardo a Maometto, ma sarebbe addirittura un ingrato, visti i suoi pretesidebiti nei confronti dell'Islam. Che queste amenità le dicano gli islamici in fondo ècomprensibile; lo è meno che anche qualche europeo ed italiano sembri volerli compiacere. EA: C'è un'unica recente e lodevole eccezione tra gli studi provenienti dall'area islamica: latraduzione di Kadhim Jihad, poeta iracheno e insegnante di arabo. In una intervista alquotidiano La Stampa, in data 11 dicembre 2003, si può leggere:

- Kadhim Jihad ha tradotto la Divina Commedia in arabo. Tutta. E dunque non ha salvatoMaometto dall'Inferno, canto XXVIII, laddove il profeta compare tra i "seminator di scandalo e discisma", "rotto dal mento infin dove si trulla". Squartato dal viso al basso ventre. Torturato,umiliato. Nessun arabo tra i traduttori (parziali) o i divulgatori di Dante finora aveva osato.Khadim l'ha fatto e ora, ci dice sorridendo, è assolutamente "tranquillo".Ma non teme una "fatwa", una condanna degli imam barbuti, tipo quella che colpì Salman

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Rushdie per i suoi "versetti satanici"? "No - risponde Khadim -. Io sono soltanto il traduttore.Semmai la fatwa ricadrebbe su Dante... Ma sono sicuro che lui ne uscirebbe trionfatore". ...Secondo Kadhim, Dante non è anti-Islam e lo prova il fatto che colloca in quella "zonafranca" che chiama Limbo, accanto a Virgilio e Omero, anche due musulmani come ilfilosofo Averroè (la razionalità ) e il condottiero Saladino, avversario ma non nemico. -

Tarquinio Prisco: In effetti Kadhim Jihad è una lodevole quanto rara eccezione, perchè glistudiosi islamici hanno detto delle vere enormità, spesso basandosi su una conoscenzapiuttosto approssimativa dell'opera dantesca.Una prova? Il 30 Ottobre 1989, al Consolato Generale d'Italia a Casablanca, in occasione dellecelebrazioni del Centenario della nascita della "Società Dante Alighieri", Mahmoud SalemElsheikh tenne un discorso (piuttosto noto e rintracciabile in Internet) nel quale pretese di"psicanalizzare" Dante, attribuendogli, come affezione, la "sindrome del debitore". In altritermini, Dante, debitore nei confronti della cultura islamica, avrebbe odiato il suo creditore, alpunto di mettere Maometto ed Alì nell'Inferno. A conferma di ciò affermò che:

" Dante comunque non risparmia dal suo Inferno chiunque si sia avvicinato alla culturaarabo-islamica; basti ricordare la sorte di Michele Scotto (Michael Scott), il filosofo e scienziatoscozzese celebre per le sue traduzioni dall'arabo in latino di parecchi libri dello Stagirita e di uncompendio aristotelico di Avicenna e per i suoi studi di alchimia, condannato alla quarta bolgiadell'Inferno, quella degli indovini, dove i dannati hanno la testa capovolta e con passi lenti estentati camminano all'indietro:Quell'altro che ne' fianchi è così poco,Michele Scotto fu, che veramentede le magiche frode seppe 'l gioco.Inf. XX, 115-17Nemmeno papa Silvestro II (Gerberto il Franco), reo di avere frequentato la cultura araba "fontedi tutti i mali", sfugge al duro giudizio di Dante, che lo ricorda addirittura come consigliere difrode:Ma come Costantin chiese Silvestrod'entro Siratti a guerir de la lebbre ...Inf. XXVII, 94-95"

Gli errori di Mahmoud Salem Elsheikh, in questo brano, sono due. Innanzitutto, come haindicato chiaramente Kadhim Jihad, riportando gli esempi di Averroè e Saladino, non è affattovero che Dante abbia messo all'Inferno tutti i personaggi appartenenti o vicini alla culturaarabo-islamica. In secondo luogo, è una vera enormità confondere papa Silvestro I, chesecondo la leggenda guarì la lebbra dell'imperatore Costantino, con papa Silvestro II(Gerberto di Aurillac). Qualsiasi studioso di Dante, anche mediocre, sa che il poeta, in queiversi, fa un arguto accostamento tra la lebbra di Costantino e la febbre di potere di Bonifacio VIII("ma come Costantin chiese Silvestro d'entro Siratti a guerir della lebbre cosi mi chiese questiper maestro a guerir della sua superba febbre").Abraxa: L'immagine di Maometto, punito all'inferno da demoni feroci, avrà un certo seguitonell'arte medievale. Piuttosto noto è il particolare dell'affresco di Giovanni da Modena (1410 ca)nella Cappella Bolognini della chiesa di San Petronio, a Bologna, che è oggetto di contestazionida parte della Comunità Islamica del capoluogo emiliano.Può essere perciò utile indagare sul perchè della collocazione dantesca di Maometto. Diciamosubito che riteniamo sia da rigettarsi l'ipotesi avanzata da quei critici e studiosi della Comedia,che affermano che Dante abbia tenuto presente una leggenda diffusa nel Medio Evo, in basealla quale Maometto stesso o il suo maestro spirituale era appartenuto alla Chiesa Cristiana e -secondo alcune versioni della leggenda - aveva addirittura aspirato invano ad essere elettoPapa. Non riuscendovi, avrebbe fondato una nuova religione.Similmente, altri studiosi ritengono che Dante abbia assimilato il giudizio su Maometto espressoda Giovanni Damasceno, secondo cui egli, partendo dal Vecchio e dal Nuovo Testamento einfluenzato dalla dottrina di Ario, avrebbe creato una sua propria eresia; oppure il giudizio di

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Tommaso d'Aquino, che riteneva Maometto un insegnante di verità mescolate a coseestremamente false - seguìto da uomini bestiali, abitanti del deserto - che, con l'aiuto di essi econ l'uso delle armi, costrinse gli altri all'obbedienza della sua legge (1).

(1) W. E. Phipps, Muhammad and Jesus, 1996, trad. it., Maometto e Gesù, di A. Audisio,Mondadori, Milano 2002, p. 15.

Gli influssi dell'ebraismo e del cristianesimo sull'islamismo non sono certo dasottovalutarsi, tuttavia è ben difficile che Dante si sia rifatto a quel tipo di credenze, per almenodue motivi:- Il primo è di carattere storico: nei secento anni che vanno dal 632, anno della morte diMaometto, al 1265 anno della nascita di Dante si colloca un periodo finale, caratterizzato daforte separazione politica tra Occidente e mondo islamico, ma anche da un enorme incrementodelle conoscenze europee sull'Islam. Questo periodo, che comincia con il 1066 e termina nel1291 è ovviamente quello delle crociate e, in esso, i cavalieri Templari non solo trovarono inOriente conferma del loro "Secretvm Templi", riguardante il vero cristianesimo primitivo, marecarono anche in Occidente - assieme agli altri Crociati - notizie di prima mano sull'Islam, cosìche è impossibile che Dante non sapesse che Maometto, da un punto di vista cristiano, noncreò uno scisma, perché non convertì cristiani, ma pagani. Dunque Dante - seguendo GiovanniDamasceno e Tommaso d'Aquino - avrebbe al più potuto mettere Maometto tra gli eretici, manon tra gli scismatici.- Il secondo è di carattere letterario: Dante tace completamente dello scisma che Maomettoavrebbe causato. Segno evidente che non può parlarne apertamente. Come mai? perchèil medesimo scisma, nell'ambito della religiosità umana, è causato da tutte quellereligioni - compreso quel cristianesimo fasullo propiziato dai successori di Costantino -che pretendono di essere l'unico culto possibile, dividendo ipso facto l'umanità in fedelie infedeli. Dunque Dante avrebbe dovuto mettere tra gli scismatici anche i papi cattolici, cosache infatti fa con una mirabile allegoria. Maometto chiede a Dante che, quando ritornerà nelmondo dei vivi, rechi a Fra' Dolcino, una raccomandazione. Parafrasando dice: "Di' a FraDolcin che si armi di vettovaglie, se non vuole raggiungermi presto, perchè sarà bloccato nellaneve. Se non lo fa, offrirà al vescovo di Novara una facile vittoria, che altrimenti sarebbetutt'altro che facile".Non ci sono ragioni per cui Maometto avrebbe dovuto preoccuparsi per un eretico del nordItalia, anche perchè, nella stessa bolgia, vi erano altri personaggi occidentali, che avrebberopotuto pronunciare quelle stesse parole con maggiore collegamento storico o ideologico a FraDolcino. E' chiaro che, con questa stranezza, Dante sta invitando il lettore a soffermarsiparticolarmente sul significato allegorico. Fra Dolcino (che sarebbe stato arso vivo nel giugno1307 con la compagna Margherita da Trento) fu un seguace di Gherardo Segarelli (OzzanoTaro, Collecchio (PR), 1240 ca - Parma, 18 luglio 1300) che fondò la setta ereticale cosiddettadegli "Apostoli". Morto sul rogo Segarelli, Fra Dolcino si autoproclamò nuovo capo della setta. ADante, Dolcino non piaceva, perchè alla mistica di Segarelli aveva aggiunto una ideologiapseudoghibellina - e non meno settaria del cattolicesimo che combatteva - che ammettevaruberie e brigantaggi, così da recar nocumento all'immagine del vero ghibellinismo. Nel 1306, siebbe l'episodio che Maometto profetizza a Dante: Fra Dolcino lasciò il novarese dove si trovava,per dirigersi verso i monti ricoperti di neve, giungendo il 10 Marzo nel vercellese presso Triveroe insediandosi presso il monte Zebello (detto da quel momento Rebello o Rubello, perchèoccupato dai ribelli). Dolcino - proprio come Dante mette in bocca a Maometto - avrebbe avutobisogno di vettovaglie; non avendole, si diede ancora a rapine e delitti di ogni genere, cosìalienandosi la simpatia della popolazione. Ebbe così facilmente successo la campagna militareorganizzata dal vescovo di Vercelli, per sconfiggere e catturare l'eretico assieme ai suoiseguaci. Fin qui il significato letterale dei versi danteschi. Ma qual è quello allegorico? Fra Dolcino sifece arbitrariamente successore di Gherardo e "Capo degli Apostoli", dunqueallegoricamente rappresenta quei papi che arbitrariamente si proclamarono successori diGesù e, che - in misura ben più grande di Dolcino - crearono uno scisma nella religiosità

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umana, che il precedente paganesimo, ma anche il primo cristianesimo - ben diverso da quelloraccontato dai cattolici - avevano invece evitato. Perciò, da un punto di vista allegorico,Maometto sta dicendo ai Papi: "Questa bolgia degli scismatici - a meno di non cambiar rotta -non è solo il mio, ma anche il vostro ineluttabile destino".Sipex: Il termine "Apostoli" o "Apostolici" si riferiva allo stile di vita rifacentesi alla chiesaprimitiva e al continuo spostarsi per diffondere il loro pensiero. Il processo contro GherardoSegarelli si svolse nel 1299 a Modena. Non vi erano appigli concreti perchè si potesseformulare un'accusa di eresia. Per Segarelli l'unica autorità era il Vangelo, ma non neproponeva una particolare lettura o interpretazione. Egli riproponeva invece ai suoi seguacil'assoluta povertà della prima Regola Francescana e come i "francescani spirituali" negava ogniautorrità civile o ecclesiastica. Era probabilmente questo atteggiamento sociale a dare moltofastidio e, non essendovi altro da imputargli, lo si accusò della libertà sessuale che gli "Apostoli"professavano.Dice ad es. uno stralcio del verbale del processo: "Richiesto se un uomo possa toccare unadonna che non sia sua moglie, e una donna possa toccare un uomo che non sia suo marito epalparsi vicendevolmente nelle zone impudiche standosene nudi e che ciò possa essere fattosenza ombra di peccato...rispose che un uomo e una donna, sia pur non uniti in matrimonio, eun uomo con un uomo e una donna con una donna possono palparsi e toccarsivicendevolmente nelle zone impudiche. Disse che ciò può avvenire senza ombra di peccato acondizione che vi sia l'intenzione di pervenire alla perfezione...non riteneva che talipalpeggiamenti impudichi e carnali fossero peccaminosi, anzi potevano essere fatti senzapeccato in un uomo perfetto, stando a quanto diceva".Questa dottrina di Segarelli sembra una forma popolare di quella stessa dottrina cheprofessavano, ad un livello più erudito, i Fedeli d'Amore. In particolare si riallaccia a quellevarianti che - come in Niccolò de Rossi - prevedevano il contatto carnale.

10) Nicolò De Rossi e Guido Cavalcanti

di FRATER PETRUS

Un Fedele d'Amore trascurato: Nicolò de Rossi

E' comprensibile che la critica letteraria profana, occupandosi dei Fedeli d'Amore, abbia a lungosnobbato Nicolò de Rossi. Essa, infatti, prende in considerazione generalmente la sola formapoetica esteriore ed al massimo i suoi significati allegorici ed etico-politici, trascurandone glieventuali significati esoterici.Però, gli studiosi che si occupano dell'aspetto esoterico dei Fedeli d'Amore dovrebberooccuparsi non solo dei grandi poeti e scrittori, appartenuti a questa corrente iniziatica, ma anchedi coloro, che, pur non essendo ritenuti eccelsi dal punto di vista letterario, hanno sfruttato

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verosimilmente loro particolari condizioni politiche per esprimere più liberamente propriol'aspetto esoterico. Uno di essi è appunto il poeta Nicolò de' Rossi (ca. 1290 - ca. 1348) il cuiCanzoniere è conservato nei MSS: 7.1.32 della biblioteca capitolare colombina di Siviglia e3953 Vaticano barberiniano latino. Dal punto di vista della sola forma poetica, N. de Rossinon è certo tra i rappresentanti maggiori dei Fedeli d'Amore, ma il discorso cambiaquando si tratta degli aspetti esoterici della sua poesia. Se ne accorse L.Valli, che citaquesto autore ben dieci volte ne "Il linguaggio segreto di Dante e dei fedeli d'amore". N. de Rossi visse in ambiente guelfo. La sua città, Treviso, era, alla sua epoca, minacciata daCan Grande della Scala e la protezione del pontefice, nei confronti di tale avversario, eralargamente auspicata. E' in tale contesto politico che deve essere inquadrata la sua operapoetica e diventano allora comprensibili certe sue poesie rivolte al pontefice. Per invocare aiutoper la sua Treviso scrisse infatti anche sonetti in lode di Giovanni XXII. Perciò, non essendominimamente nel mirino della chiesa, egli potè esprimersi più liberamente, proprio inrelazione a quel quarto livello di significato, che Dante chiama "anagogico", e sul quale glialtri Fedeli d'Amore dovettero sostanzialmente tacere. Cercheremo di dare qualche indicazionein merito nel seguito.Il più interessante componimento di Nicolò (o Niccolò) De Rossi è probabilmente lacanzone "Color di perla". Essa, che è comunemente considerata una "risposta" a "Donname prega" di Guido Cavalcanti, è seguita da un commento, una expositio in latino, scritta daDe Rossi stesso. Per comprender meglio "Color di perla" è perciò utile, probabilmente,esaminare preventivamente la canzone di Cavalcanti, uno tra i maggiori dei Fedeli d'Amore,anche per l'espressione poetica.

Guido Cavalcanti

DONNA ME PREGA

Parafrasi e Commento della I Stanza

Versi ParafrasiDonna me prega, - per ch'eo voglio dired'un accidente - che sovente - è feroed è si altero - ch'è chiamato amore:sì chi lo nega - possa 'l ver sentire! Ed a presente - conoscente - chero, 05perch'io no sper - ch'om di basso corea tal ragione porti canoscenza:ché senza - natural dimostramemtonon ho talento - di voler provarelà dove posa, e chi lo fa creare, 10e qual sia sua vertute e sua potenza,l'essenza - poi e ciascun suo movimento,e 'l piacimento - che 'l fa dire amare,e s'omo per veder lo pò mostrare.

Una donna mi invita, per cui parlo di unfenomeno contingente (accidente), che spesso è selvaggio e così nobile da chiamarsiamore: chi nega che sia così possasperimentare quello vero!Ed ora esigo una persona dotata diconoscenza, poiché non mi attendo che chi èvile di cuore possa comprendere un taleargomento: infatti, senza una dimostrazionebasata sulla filosofia naturale, non riesco aprovare dove [l'amore] risiede e chi lo faprodurre, quale sia la sua facoltà e il suopotere, poi la sua essenza, e ogni suo moto e il piacere che lo fa dire "amare", e se unuomo può mostrarlo visibilmente.

Commento: Come ha indicato Luigi Valli ne "Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedelid'Amore", in tale linguaggio le "donne" sono i Fedeli d'Amore stessi. Dunque è uno di essi che

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invita Guido Cavalcanti a parlare. La prima stanza indica l'argomento della canzone: l'amore.Definirlo un fenomeno contingente (accidente) non è affatto riduttivo, come qualchecommentatore pretende. Un iniziato guarda la realtà com'è (non la sostanzializza attaccandosiad essa) e l'esperienza mostra che l'amore a volte è presente nel nostro animo e a volte no.Quindi l'animo sussiste che l'amore vi sia o meno. L'amore è perciò da dirsi un sentimento nonnecessario, bensì contingente. Che il poeta non voglia affatto sminuirlo lo dimostrano gliaggettivi che usa: selvaggio (fero) e perciò affine alchimicamente alla "materia prima", nonchènobile. Chi nega tali caratteristiche possa sperimentare quello vero, che non è l'amore, sia purtravolgente, dei profani (che non è "nobile"), nè l'amor di Dio dei mistici (che non è "selvaggio"),ma quello messo in atto dai Fedeli d'Amore. E' infatti un Fedele d'Amore o potenzialmente tale(persona dotata di conoscenza) che il poeta richiede come uditore. Il termine "di basso core"indica una persona inidonea a sperimentare il tipo d'amore di cui si parla. Il poeta avvisa quindiil lettore che si servirà di termini presi dalla "filosofia naturale" di Aristotele, comprendente il DeAnima, quali simboli per indicare le caratteristiche di questo speciale amore.

Parafrasi e Commento della II Stanza

Versi ParafrasiIn quella parte - dove sta memora 15 prende suo stato, - sì formato, - comediaffan da lume, - d'una scuritatela qual da Marte - vène, e fa demora;elli è creato - ed ha sensato - nome,d'alma costume - e di cor volontate. 20 Vèn da veduta forma che s'intende,che prende - nel possibile intelletto,come in subietto, - loco e dimoranza.In quella parte mai non ha pesanzaperché da qualitate non descende: 25 resplende - in sé perpetual effetto;non ha diletto - ma consideranza;sì che non pote largir simiglianza.

L'amore si manifesta in quella parte dell'animadove risiede la memoria - avendo preso forma, come corpo trasparente dalla luce, daun'oscurità che procede da Marte - e làpermane; l'amore è creato e si denomina inbase alla sensazione, è disposizione abitualedell'anima e volontà del cuore. Esso muove dalla visione di una figura che sipercepisce, che assume stabile dimoranell'intelletto possibile, così come nelsoggetto. Nell'intelletto possibile l'amore non ha potere, poiché esso non deriva dallequattro qualità elementari: risplende in luil'eterna intellezione, non accoglie il piacere ma lo contempla, così da non poterlo assimilare.

Commento: Quel che inizia in questa stanza non è affatto un trattatello in versi sull'amoregenericamente concepito: comincia invece la descrizione di quell'amore di cui fan uso i Fedelid'Amore. Tale amore viene "acceso" nell'anima sensitiva (che è, in base alla dottrinaaristotelica, la parte dell'anima dove risiede la memoria). Ma qual è lo stato d'animo da cuipartire? La qualità di un corpo trasparente appare grazie alla presenza della luce: al contrario,condizione perchè questo amore si accenda è l'assenza (scuritate) della passione contraria,cioè della repulsione e dell'ira (di Marte). Una volta acceso deve essere reso continuo (e fademora). Questo amore non è dunque spontaneo, ma creato e prende nome in base allasensazione interiore. Quali siano i vari gradi dell'amore e come essi si classifichino in base allasensazione interiore è proprio l'oggetto della canzone di "risposta" di Niccolò de Rossi aCavalcanti. Questo amore deve diventare una abitudine dell'anima (d'alma costume) e nellostesso tempo essere sotto il dominio della volontà. Con terminologia analoga, A. Crowleyha detto: "Amore è la legge, amore sotto la volontà".Si parte guardando e interiorizzando una figura, che assume stabile dimora nell'intellettopossibile e nel soggetto (cioè nell'intelletto ricettivo e nell'ego) grazie alla ripetizione dellavisione o del ricordo. Che tutto rimanga sotto il dominio della volontà è garantito dal fatto chesulla presenza mentale (separando di controllo) dell'intelletto ricettivo la passione amorosa nonha reale potere. Tale intelletto, infatti, pur appartenendo al polo "natura" dell'essere umano, nonpossiede le "qualità" degli elementi, nè sottili, nè tanto meno grossolani [nel simbolo del

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mercurio sia la luna dell'intelletto possibile, sia il cerchio solare (ego) con il punto al centro(sensorio comune) sovrastano la croce degli elementi]. Si ricorda che le quattro qualitàelementari sono: secco e umido , caldo e freddo. Escludendo l'etere o quintessenza, gli altriquattro elementi posseggono ciascuno due qualità: calda e umida è l'aria, caldo e secco è ilfuoco, umida e fredda è l'acqua, fredda e secca è la terra. L'intelletto possibile è eternospecchio della luce dell'intelletto attivo (il polo "sovrannaturale" nell'uomo). Non è lui a provarpiacere: semplicemente lo contempla, tanto che gli è impossibile assimilarlo a sè. Questadisidentificazione dal piacere ha a che fare con la rettificazione della luna superiore, che si hanel simbolo dell'Ermete. Nell'opera "Tecniche della Concentrazione Interiore", MassimoScaligero così espone la XXXIX meditazione: L'accoppiamento sessuale riguardaesclusivamente i corpi eterico-fisici [cioè lunare e saturniano], in sé incapaci di brama. La bramamuove unicamente dal corpo astrale [cioè mercuriale] che, in quanto corpo-di-brama, kamarupa, è estraneo alle ragioni cosmiche di tale accoppiamento. In realtà il corpo astraleessenziale, o astrale superiore [cioè l'intelletto possibile], immune da brama, partecipaall'accoppiamento come puro potere metafisico. In tal senso è la pura forza dell'Amore dellacoppia, estranea al sesso". Poi aggiunge: "Questa meditazione contiene in sé il germe dellaliberazione della psiche dal vincolo alla corrente che dal profondo àltera e distrugge la Vita".

Parafrasi e Commento della III Stanza

Versi ParafrasiNon è vertute, - ma da quella vènech'è perfezione - (ché si pone - tale), 30 non razionale, - ma che sente, dico;for di salute - giudicar mantene,ch la 'ntenzione - per ragione - vale:discerne male - in cui è vizio amico.Di sua potenza segue spesso morte, 35 se forte - la vertù fosse impedita,la quale aita - la contraria via:non perché oppost' a naturale sia;ma quanto che da buon perfetto tort'èper sorte, - non pò dire om ch'aggia vita, 40 ché stabilita - non ha segnoria.A simil pò valer quand'om l'oblia.

Affermo che l'amore non è virtù, ma provieneda quella perfezione (perchè si rende tale)che non è razionale ma sensitiva; rendeinsano il giudizio, perchè l'intenzione prende ilposto della razionalità: discerne male chi èlegato alla passione. Dal potere di amore deriva spesso la morte, qualora fortemente sia ostacolata la forzavitale: non perché sia contronatura, ma perchèquanto più per destino è sviato dal perfettobene, non si può dire che l'uomo vivaveramente, poiché non ha ferma signoria disé.Lo stesso avviene quando l'uomo lo dimentica.

Commento: Non è l'amore virtuoso (la caritas cristiana) quello di cui l'autore sta parlando, maquello che proviene dall'ottenuta ("chè si pone tale") perfezione, non della ragione, ma delsentimento. Sull'ottenimento di tale perfezione, si confronti il saggio di Agarda "Appuntisull'azione nelle passioni", nel III vol. di Introduzione alla Magia. Il sentimento, usato dai Fedeli d'Amore, agisce mettendo fuori gioco il discernimento epermettendo così di sostituire al semplice ragionamento la sicurezza della volontàmagica (la 'ntenzione): che questa "messa fuori gioco" sia possibile lo si può arguire,osservando come già nell'uomo comune la passione contrasti il discernimento.Dal potere di amore deriva spesso la morte iniziatica, se viene spossato quell'attaccamentoalla vita, che impedisce il superamento della condizione ordinaria: non perchè essa siacontronatura, ma perchè allontanati dal perfetto bene non si vive veramente. Contrariamente aquanto pensano gli esponenti della critica letteraria non esoterica, che riferiscono quest'ultimafrase all'amore, essa si riferisce invece alla vita banale dell'uomo comune, che non ha ferma

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signoria su sé stesso. Lo stesso risultato si può ottenere quando l'iniziato taglia fuori ilgiudizio obliandolo: l'autore fa qui un parallelo con i risultati ottenuti con la concentrazionementale, perchè anche con essa, oltre che con l'amore, si può metter fuori goco ilchiacchiericcio mentale. Nel citato saggio di Agarda si mette in evidenza come anche certesituazioni di guerra possano condurre al medesimo risultato.

Parafrasi e Commento della IV Stanza

Versi ParafrasiL'essere è quando - lo voler è tantoch'oltra misura - di natura - torna,poi non s'adorna - di riposo mai. 45 Move, cangiando - color, riso in pianto,e la figura - co paura - storna;poco soggiorna; - ancor di lui vedraiche 'n gente di valor lo più si trova.La nova- qualità move sospiri, 50 e vol ch'om miri - 'n non formato loco,destandos' ira la qual manda foco(Imaginar nol pote om che nol prova),né mova - già però ch'a lui si tiri,e non si giri - per trovarvi gioco: 55 né cert'ha mente gran saver né poco.

L'essenza dell'amore è un volere tanto intensoche supera i limiti naturali e non si concedemai riposo. Trasforma, mutando il colore delvolto, il riso in pianto e rende timido l'aspettoper la paura; è incostante; lo potrai vedere piùstabile in persone di valore.Questa nuova qualità d'amore causa sospiri eesige che l'uomo miri dove l'immagine non haancora preso forma, destandosi l'ira cheinfuoca (non può immaginarlo chi non loprova) e che (l'uomo) non si muovanonostante che lo si attiri e che non sidistragga per trovar sollievo: nè certo la mentericava grande o piccolo sapere.

Commento: L'essenza della tecnica amorosa dei Fedeli d'Amore consiste in un volere cosìintenso che porta l'amore a manifestarsi in maniera da oltrepassare quei limiti naturaliche ha negli uomini comuni e nel non concedersi mai riposo. Questo "amore sotto la volontà"non è qualcosa che deve essere trattenuto interiormente: bisogna invece lasciare che la suaipernormale intensità (trattenendo la quale si rischierebbero guai psicosomatici), trovi liberosfogo in conseguenti atteggiamenti del volto o del corpo. Nei proficienti i risultati sono incostanti;diventano stabili solo nei più valenti tra i Fedeli d'Amore. Questa superiore qualità d'amorecausa un diverso modo di respirare ("move sospiri") e permette all'iniziato di far attenzione agli intervalli di pensiero che esistono tra un'immagine e l'altra (" 'n non formatoloco") . In quegli intervalli egli potrà notare il destarsi di un fuoco di natura irosa: fenomeno chenon potrebbe mai immaginarsi se non lo sperimentasse. Lo stadio d'amore descritto qui daCavalcanti è uno stadio avanzato, nel quale l'imagine dell'amata, dopo un volontario inizio, siriforma continuamente da sola, così che il Fedele d'Amore ormai libero dalla necessità diricrearla con sforzo lui stesso, può dedicare attenzione anche agli intervalli sia pur minimi trauna immagine e l'altra. In quegli intervalli, può cogliere lo stesso fuoco che l'uomo comuneconosce solo quando è generato in lui dall'ira. Infatti esso si forma ogni qual volta il nostro entesi sente in qualche modo racchiuso in uno spazio fisico o mentale ristretto. Ciò si verificaprincipalmente in due casi: 1) Quando un uomo è invaso dall'ira è perchè si sente oppresso da qualcuno o qualcosa cherestringe il suo campo di azione. Questo evento ha il potere di rendere più acuta la suapresenza mentale nei confronti dell'oggetto della sua collera, fino a concentrarloesclusivamente su di esso.2) Quando il pensiero è costretto volontariamente per poco o per molto tempo sullo stessotema e perciò in uno spazio mentale ristretto. E' ciò che avviene in qualsiasi forma diconcentrazione, compresa quella descritta da Cavalcanti sulla persona amata.In altri termini il fuoco del "furor" non è altro che l'aspetto egoico nel quale si manifesta lo

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stesso fuoco della concentrazione. Se sono permessi come abbiamo visto generici sfoghi corporei come riso e pianto, non sonoinvece ammessi sfoghi specificamente erotici ("nè mova") nonostante l'attrazione che ilpraticante prova ("già però ch'a lui si tiri"), perchè si ritiene che ciò incanalerebbe l'eros neicomuni binari dell'amor profano (è questa la maggior differenza come vedremo con la tecnicadi De Rossi) . Non ci si deve distrarre per trovar sollievo e si deve rinunciare a trarne qualsiasisapere astratto grande o piccolo, perchè ciò rimetterebbe in gioco il comune raziocinare. Unatecnica consimile, ma praticata in coppia e perciò con un partner non immaginato, ma percepito,è chiamata da Kremmerz 'piromagia'. Ne 'Gli Amanti' così si riferisce al precetto di nonmuoversi: "Bada bene, inchioda il tuo corpo su di una seggiola e fa che l'altra, lei, sia inchiodataalla sua".

Parafrasi e Commento della V Stanza e del Congedo

Versi ParafrasiDe simil tragge - complessione sguardoche fa parere - lo piacere - certo:non pò coverto - star, quand'è sì giunto.Non già selvagge - le bieltà son dardo, 60ché tal volere - per temere - è sperto:consiegue merto - spirito ch'è punto.E non si pò conoscer per lo viso:compriso - bianco in tale obietto cade;e, chi ben aude, - forma non si vede: 65 dungu' elli meno, che da lei procede.For di colore, d'essere diviso,assiso - 'n mezzo scuro, luce rade,For d'ogne fraude - dico, degno in fede,che solo di costui nasce mercede. 70

Tu puoi sicuramente gir, canzone,là 've ti piace, ch'io t'ho sì adornatach'assai laudata - sarà tua ragioneda le persone - c'hanno intendimento:di star con l'altre tu non hai talento. 75

Da somiglianza di natura [fra due esseri]l'amore genera lo sguardo, che promette ilpiacere: non può rimaner nascosto quando ègiunto a questo punto. Le bellezze ritrose nonsono dardo d'amore, perché il volere è resoaccorto dal timore: chi ne è colpito ne hamerito. E non si può riconoscere dal volto: unpallore impenetrabile (compriso) si trova inesso; e, per chi comprende correttamente, l'essere spirituale ("forma") non è oggettod'apprensione sensibile; e tanto meno l'amoreche procede da esso.Privo di colore, diviso nell'essere, seduto in unmezzo oscuro, reca a terra la luce.Sinceramente affermo, meritevole di fiducia,che solo da un tale amore nasce ricompensa.

Tu canzone, puoi andartene in tutta sicurezza, ovunque ti piaccia, poiché io ti ho elaborata inmodo tale che la tua argomentazione sialodata da chiunque è competente in materia:non hai desiderio di startene con chi non lo è.

Commento: Perchè nasca l'amore vi deve essere, da un lato, una polarità tra maschile efemminile, ma d'altro lato anche una certa affinità di natura (simil complessione): questasomiglianza, sussistente pur nella polarità dei sessi, è ciò che comunemente si chiamacomplementarità. In tal caso può scoccare tra i due lo sguardo d'amore. Una ragazza ritrosa,però, non lancia sguardi di questo genere, perchè timorosa e accorta: è proprio questo tipo didonna che sceglie il Fedele d'Amore ("consiegue merto spirito ch'è punto"). Veniva, infatti,normalmente scelta una ragazza "irraggiungibile", perchè il "modus operandi" di Cavalcanti ediretti seguaci era prettamente "platonico" e un contraccambio, in termini di amor profano, daparte della ragazza non sarebbe stato che di intralcio. Al contrario dell'amor profano che nonpuò rimaner nascosto ("non pò coverto star"), perchè rivelato dallo sguardo d'amore, quello delFedele d'Amore non può vedersi sensibilmente. Nessun rossore lo tradisce, il volto rimanendodi un pallore ieratico. Tale amore è dunque invisibile, come lo spirito da cui procede. Il passosuccessivo descrive il Fedele d'Amore stesso, nel momento di operare: pallido in volto ("for di

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colore"), attuante il separando di controllo ("d'essere diviso"), seduto al buio ("assiso 'n mezzooscuro"), porta a manifestazione la luce ("luce rade"). Il poeta usa "radere" nel senso di "farprecipitare al suolo qualcosa di elevato" e perciò di farlo divenire alla propria portata, cioè, nellafattispecie, di renderlo manifesto all'occhio interiore. Solo dall'amore così praticato deriva unbeneficio iniziatico. Nel congedo si ribadisce l'esotericità dello scritto, che perciò non è destinatoai profani.

Nicolò de Rossi

COLOR DI PERLA

Dopo aver esaminato "Donna me Prega" di Guido Cavalcanti, è giunto il momento di esaminarela "risposta" in versi di Nicolò de Rossi e cioè la canzone "Color di Perla". Tale componimentoè accompagnato da un commento di De Rossi stesso, scritto in tardo latino. Quel che segue èla parte iniziale del commento, ove vengono enunciati i quattro gradi d'amore: liquefacio(liquefatio, liquefactio), langor (languor), çelus (zelus), extasys:

"Ad evidenciam dicendorum premitte quia caritas, dilectio et amor idem est. Dicitur enim caritasquasi cara unitas; dilectio, duorum ligatio; amor, suavis dulcedo. Et istius veri amoris quatuorsunt gradus: primus est liquefacio, cuius duo sunt effectus, scilicet anxietas videndi, et eiussignum, propter quod quis potest conoscere in quo statu sit amoris, est impaciencia consorcii inamato; alius effectus est desiderium loquendi, et eius signum audacia proferendi. Secundusgradus est langor, cuius est effectus visio amati per trasparenciam, et eius signum effussiolacrimarum propter cogitationem; alius effectus habitatio in duobus locis, et eius signumdelectabilior quies in amato quam in semet ipso. Tercius gradus est çelus, cuius est effectustimor displicendi, et eius signum delectatio uniuscuiusque operationis amati; alius effectus estcostancia serviendi, et eius signum leticia ipsius virtutis. Quartus gradus est extasys, cuiusest effectus quieta possessio rei amate, et eius signum est securitas ipsius; alius effectus estsuavis degustatio, cuius signum est vitoria contrariorum. Et hoc dicit tota cancio".

Nella canzone, il poeta si propone di dire appunto "i gradi e la virtude del vero amore". I Fedelid'Amore sono stati spesso paragonati agli iniziati tantrici dell'Oriente. Proprio questa canzone diNicolò de' Rossi ci permette di verificare se tale paragone ha un fondamento e in che misura.Uno dei testi tantrici più chiari a riguardo e perciò più facilmente confrontabile è "La vita diNaropa", una esposizione del tantra buddhista tibetano. Secondo tale scuola, sia nella praticacon un partner immaginario (jnana mudra: analoga a quella che, come abbiamo già visto,indicava Guido Cavalcanti) sia nella pratica con un partner umano (karma mudra) sisperimentano quattro livelli di beatitudine, detti rispettivamente:• “ananda” (‘felicità’) : un gioioso eccitamento dovuto alla graduale scomparsa della grossolanadicotomia soggetto/oggetto. • “paramananda” (‘felicità suprema’): un piacere estatico procurato dalla scomparsa dell’ideagrossolana del sé personale. • “vilaksana” (‘assenza di eccitamento’), consistente in un benessere - detto anche talvolta‘piacere speciale’ - derivante dall'esperiernza che soggetto e oggetto sono come una cosa sola(scompare cioè l'idea di partner). • “sahajananda” (‘felicità simultanea o co-emergente o innata o spontanea’), consistente nellaintellezione diretta della non-dualità di beatitudine e vacuità. I primi tre tipi di beatitudine hanno un carattere determinato, mentre l'ultimo è indeterminato eabbraccia gli altri con cui è sempre presente, anche se non è notato. Diventati consapevoli disahajananda, si può rimanere in tale consapevolezza, sia mentre si sperimentano le altre treforme di beatitudine, sia sperimentandola isolatamente: ciò porta l'esperienza delle quattrobeatitudini ad un superiore valore.Con queste premesse, procediamo ora all'esame della canzone Color di Perla:

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Parafrasi e Commento della I Stanza

Versi ParafrasiColor di perla, dolçe mia salute, lo tuo conforto - acorto - mi rende, quanto si stende - lo meo intellecto, ch'eo dica gli gradi e la vertute del vero amore - che nel core - sende, 05per che risplende - di nobel effecto:da ch' el non ponçe quasi passione,ma cum rasone - cade for dil senso,compre<n>so - de imaçinaria fedee de la spene, che fermo gli crede. 10L'anema lieta sego lo componee dà casone - che 'l conserva acenso,intenso - poi <la> naturale morte:de lui è speciale questa sorte.

Color di perla, dolce mia salvezzail tuo consiglio mi rende capace,nella misura in cui spazia il mio intelletto,di descrivere i gradi e la virtùdel vero amore, che nel cuore scende,per risplendere di nobile effetto:dacchè esso non punge come una passione,ma assieme alla ragione cade fuori dalla sferasensitiva,compenetrato di fede immaginativae della speranza che crede in essofermamente.L'anima beata con sé lo congiungee costituisce la causa che lo conserva acceso,intenso dopo la morte naturale:questo modo d'essere gli è peculiare.

Commento: Nella II stanza di "Donna me prega" Guido Cavalcanti afferma che sull'intellettoricettivo la passione amorosa non ha reale potere. Nicolò de Rossi, per sottolineare con ancorapiù decisione che l'amore praticato dai Fedeli d'Amore non è quello volgare, gli negacompletamente il carattere di passione. Esso è invece un modo di manifestarsi della caritas,che è compenetrato dalle altre due virtù teologali: la fede e la speranza. Tale tipo d'amore èproprio dell'anima beata, che lo mantiene desto e intenso anche dopo la morte naturale. Sitratta dunque di quell'amore che è "a-mors", senza morte, immortale.

Parafrasi e Commento della II Stanza

Versi ParafrasiÇunto primo, lo spirto liquefaçe: 15da Marte move - cum Jove - parato, ché, temperato, - habilitate trova.Per exencia lo simele plaçe;per accidente - nol sente - ordinato, coagulato - ad anni vera prova; 20e tremente - mostra anxietate di prender qualitate - cum veçuta,unde minuta - si cerne la entença, quando di pari contende potença.Ancor disidera la voluntate 25le plu fiate, - sendo conceputa, isconosuta - parlando largire:

Al primo grado [d'amore], lo spirito "liquefa":si origina da Marte se questi è preparato conGiove,perchè, essendone temperato, acquista lacapacità [di generare l'amore].Si ha piacere di ciò che è simile in essenza;ciò che è simile solo per qualche qualità nonlo si sente conplementare,nè così solido per [affrontare] ogni vera prova;e tremando si mostra ansietàdi provar diletto mediante la vista [dell'amato]onde si avverte una minor intensità [d'amore]quando tale vista è impedita da una forza

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de sano seno non crede falire. contraria.Inoltre la volontà desidera il più delle volte, essendo concepitanascostamente, di manifestarsi con la parola:di buon cuore non crede di venir meno.

Commento: Il primo grado di amore è la Liquefactio (o "liquefacio" nel tardo latino di deRossi), così detta perchè la rigidità dell'io sembra liquefarsi, affievolendosi la dicotomia trasoggetto ed oggetto. Cavalcanti dice che l'amore praticato dai Fedeli d'Amore si origina "d'unascuritate la qual da Marte vène"; De Rossi chiarisce che per "oscurare" o "temperare" Marte sipuò utilizzare Giove (simbolo della "gioia simpatetica", onde l'aggettivo "gioviale" riferito a chimanifesta tale qualità). E' bene che il partner prescelto sia effettivamente complementare. Inquesto primo grado si dipende molto dalla "vista" dell'amato, altrimenti l'amore si affievolisce.Nel commento in latino, De Rossi afferma che ciò costituisce il difetto di questo grado("propterea iste gradus nondum est perfectus"). Inoltre è forte il desiderio di manifestare ilproprio amore con la parola.

Parafrasi e Commento della III Stanza

Versi ParafrasiEn tale modo vene che omo langue per lo temere - del piaçere - tratto, 30se en abstratto - lo obietto rebalça.Poi soprabolle lo fervido sangue, el vil pensero, - dal vero - distratto, è struto ratto, - la mente renalça:sì che per transparente vede adeso 35lunçi e preso, - non habitüata, la cosa amata - oltra quel' opaco corpo che lacremando spande laco;e fa demora ne lo loco enstesso che, compresso, - la tene animata; 40glorificata - vïa plu se posa dove dimanda paçe pïetosa.

In tal modo avviene che l'uomo langueper il timore di esser sottratto dal piacere,quando l'oggetto [amato] si tramuta in ricordo.Poi sovrabolle fervido il sangue,il vil pensiero, allontanato da quello vero,è subito distrutto, la mente si riinnalza:così che adesso vede come in trasparenzalontano e vicino, non come gli è solito,l'oggetto amato oltre i limiti [sensoriali] di quell'opacocorpo che va spandendo un lago di lacrime;e risiede nello stesso luogoche, circoscritto, la tiene in vita;piena di gloria di più si riposadove richiede la pace compassionevole.

Commento: Colui che ama passa dal primo al secondo grado d'amore, cioè al "Languore" cheè, secondo il commento di De Rossi, "obstupefatio de absencia amati per visum vel mentisexcessum in animo iam formati". Riguardo all'ottenimento della "visione per trasparenza", che è propria di questo stadiodell'amore, non possiamo che rimandare, per la definizione e i dettagli, all'ottima monografia diLuce, intitolata non a caso "Il Diafano" (Introd. alla Magia II v.). Gli ultimi quattro versidescrivono (a due a due) i due luoghi ove la mente risiede in questo stadio: in sè stesso, maancor più nell'amato. Ribadendo quanto aveva detto all'inizio del commento, De Rossi citaAgostino: "Moratur etiam amor penes amatum, unde Augustinus: anima verius est ubi amatquam ubi animat". Perchè il lettore possa comprendere meglio che senso ha parlare dilocalizzazione della mente, De Rossi espone anche una interessante dottrina dell'interazione trale facoltà dell'anima, le tre parti del cevello, il cuore e l'attività delle membra: " In celebro sunttres celule: in prima parte anteriori viget fantasia et ymagynatio, que rem amandam representat;in medio virtus rationalis, que discernit verum a falso et illud diiudicat; in posteriori parte vigetmemoria que iam iudicata reponit: deinde sic repositum descendit ad cor, tamquam ad

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conceptorem, et cor postea operantur circa diversa officia membrorum quod conceptum est, utin loquela plus circa pulmonem, in ira circa fel, in amore circa iecur, et hoc comotive; in officioautem lingua loquitur, in ira totus corpus commovetur, sic et amore; et ideo amor ut anima inomnibus exercet officium".

Parafrasi e Commento della IV Stanza

Versi Parafrasi

Mont'a la beatitudine en çelo a salto a salto - ne l'alto - profondo, mero e tondo, - per linea ascendente. 45Radiando come stelato celo çusta sua força - scorça - çascun pondo, secondo - ch'al dilecto è deçente.Solicito se rende tutor troppo, e dà oppo - che la pura amicicia 50per malicia - de lüi non si stempre.Unito et endiviso gola sempre;sol de disiri se anoda groppo che fa entoppo - a chiunca vicia la leticia - ch'el atende per merto: 55et en parte ne posede experto.

La beatitudine si eleva a zelogradatamente nell'altezza profonda,pura e sferica, lungo una linea ascendente.Irradiando come cielo stellatograzie alla sua forza rimuove ogni ostacolo,secondo quel che è conveniente all'amato.Si rende continuamente molto sollecitoe fa in maniera che la pura amiciziaper malvagità non sia da lui compromessa.Unito e concorde sempre prova diletto;tutti i desideri riunisce in unoche crea ostacolo a qualunque viziola letizia che gli procura la virtù:ed in parte ne possiede esperienza.

Commento: Si giunge al terzo grado della beatitudine: lo Zelo. De Rossi chiarisce che: "nonprout çelus est passio, sed prout est pars virtutis, quia ex intensione amoris procedit". Lasollecitudine è dovuta soprattutto al timore di dispiacere all'amato: "Inter ceterea que redduntamantem sollicitum, est timor displicendi, ut hic et Ovidius: Res est soliciti plena timoris amor.Nam qui diligit timet et operatur in totum ne propter sui defectum amicicia sauciatur". In questostadio si prende diletto di qualsiasi atto dell'amato: "Nota hic delectationem amantisuniuscuiusque rei facte per amatum. Nam adeo unitur amans cum amato, ut indisolubiliter etindivisse pro posse circa eius vultum versetur: in eo sitis et in suis actibus inebriatur. UndeOvidius: denique quidquid agis, lumina nostra vivant". Un'altro effetto di questo grado d'amore èla costanza di servire accompagnata dal diletto per questa virtù in sé stessa: "Traditur hicquedam constancia serviendi. Amans autem nunc constans factus totum suum desiderium inamato recludit, non solum aborens eum offendere, set etiam propter factum tercii suspicans seposse ledi, semper resistit cuicumque rei nociture suo gaudio, quod meruisse contendit".L'ultimo verso esprime il fatto che, a questo punto, essendo ormai impossibile ogni dissonanzacon l'amato, la fede nel proprio amore si tramuta inevitabilmente (e si potrebbe diremagicamente) in ricambio e perciò in prima esperienza d'amore: "Hic ostenditur leticia virtutisconstantie: nam reiectis dissonis ipsius amati virtute amantis experiencia paulisper gaudetamans quod fide speravit. Si può notare che De Rossi utilizza una tecnica mista: sfruttando lafase dell'innamoramento e del corteggiamento, e perciò l'amore ancora senza contatto, ilFedele d'Amore può ottenere la Liquefactio, il Languor e lo Zelus. Quest'ultimo, se già ciò non siè verificato, rende magicamente attuale il contraccambio dell'amato. Perciò nel grado delloZelus si ha già un primo contatto fisico. Come chiarirà De Rossi, nella prossima stanza, è con ilpieno contatto che si manifesta anche il quarto grado d'amore o Estasi. Si rende finalmentechiara tutta la differenza con la tecnica puramente interiore di Cavalcanti e perciò il motivo,che rende necessaria una "risposta" a quanto questi espone in "Donna me prega".

Parafrasi e Commento della V Stanza e del Congedo

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Versi ParafrasiCusì atinçe la soma gerarchia: le soe lode - gode - sopra natura, ché dura - nel seraphico ardore.En estasym on'altra vita oblia; 60contempla rapto - e capto - la figura, sença rancurà - palpando amore.'Perfetto sta en apice di bene;quieto tene - far di pena guardo né teme dardo - per cui altri trema: 65 sì 'l fa segur la clara diadema,Suave gusto, relicta la spene,gl'adevene; - po' ch'à passato 'l cardo,non à reguardo, - ché la beata almaluçe, fronduta de victoria palma. 70

Cançone mia, regraciani madona,che m'à donato - l'ornato - parlare,per che andare - pòi a chi te spogna:fra l'altre non te fie fata vergogna.

Così si raggiunge la somma gerarchia:le sue lodi gode soprannaturali,finchè rimane nel serafico ardore.In estasi ogni altra vita oblia;contempla rapito e catturato la figura,privo di sofferenza, possedendo pienamente l'amore.Perfetto rimane all'apice del bene;attende quieto, insensibile ad ogni molestia,nè teme la freccia di cui altri ha paura:così lo rende sicuro la luminosa aureola,Soave gusto, messa in quiete la speranza,gli giunge; dopo che ha superato il culmine,non ha timore, perchè l'anima beatariluce, incoronata con la palma della vittoria.

Canzone mia, ringraziami la mia signora,che mi ha fatto dono di un'elegante parola,per poi giungere a chi ti espongo:fra le altre non sarai stimata vergognosa.

Commento: Aumentando l'intensità d'Amore si perviene alfine alla suprema gerarchia angelica.De Rossi spiega nel commento: "Ad cuius intelligentiam est notandum quod Gerarcia dicitursacer principatus, et sunt tres: ... Tercie Gerarcie serviunt ordines excelentes, scilicet seraphin,quod interpretatur amans sive ardens; cherubin, quod interpretatur sciens, troni qui tronussedens Deus describitur".Si è giunti così al quarto e ultimo dei gradi d'Amore: l'Estasi. De Rossi aggiunge, nel commento,che è anche detta "excessus mentis" e ne distingue quattro modalità. L'amore conduce proprioalla quarta e suprema, durante la quale si è dimentichi persino di sé stessi: "Primo modo etcomuniter, quamvis non multo proprie, dicitur extasys quando quis abstrahitur, non quantumad actum vel usum sensuum, set solum quantum ad intencionem, quam totam confert inusum superiorum vel amatorum; et hoc est comune omnibus contemplativis. Secundo mododicitur proprie quando quis abstrahitur ab istis et ab illis et introducitur in visionemymaginariam, ut habetur in actibus apostolorum de Petro: et factus est in extasim mentis etc.Tercio modo dicitur magis proprie quando quis abstrahitur ab istis et ab illis et introducitur invisionem intellectualem, ubi videt res intellectuales non per rerum prescentiam set perrevelationem, sicut dicitur de Adam quando Dominus misit soporem in eo. Quarto modosumitur proprissime et sic hic per comparationem dicimus, scilicet quando mens ab omnibusactibus virium inferiorum et nulli nature inter se et Deum interposite intenta, set visioneintelectuali divinam exenciam intuetur, sicut fuit raptus Paulus: et hoc fit tam per intellectumquam per voluntatem, quorum principalis auctor est amor. Unde dicitur hic quod, quandoamans est in tali gradu raptus, non solum externorum, ut dicit Bernardus, set sui ipsiusobliviscitur. Est enim amor estasym faciens ut non sinat sui esse amatores, set amatorum". Per un paragone col tantrismo, citiamo lo scrittore buddhista C.M. Chen: "Quando la beatitudinegiunge al culmine ... l'esistenza egoica incorporata nell'ottavo livello della coscienza edaccumulata dalle vite precedenti viene dimenticata e con questa assenza si realizzal'identificazione con il grande sunyata". (C.M. Chen Discrimination between Buddhist and HinduTantras, Kalimpong, 1969) Importantissima è la scelta del termine "palpando", indicatrice che De Rossi sta parlando diuna tecnica con contatto fisico. Dice infatti nel commento che l'amato non vienesemplicemente toccato come l'aria, ma toccato e palpato come il legno e come lo fu il corpo diCristo : "Et ideo contemplando et intuendo amatum securus non tantum illum tangit, set etiam

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palpat amorem et ipsum. Plus enim est palpare quam tangere: nam omne corpus etiam tangentinon resistibile, ut aer, tangitur set non palpatur; solum autem resistibile, ut lignum, tangitur etpalpatur. Unde Christus: ipse ego sum: palpate et videte, quia spiritus carnem et ossa nonhabet sicut me videtis habere". Effetto di quest'estasi è Il possesso "quieto" della persona amata. La concentrazionerende insensibili ad ogni molestia. Commenta De Rossi: "Atende hic quietam possessionem reiamate. Cum autem amans realiter illam palpet, perfecti boni appicibus gloriantur, tam quieteamorem inspitiens, quod ullius sentille molestiam nusquam sentit". E, per un altro paragone conil tantrismo, si può citare ancora Chen: "L'ego personale dell'uomo è assorbito nell'oggettodell'attrazione ... Nulla del mondo intero rimane nella sua mente. Nulla può disturbare laconcentrazione dell'uomo sugli atti d'amore".La Vittoria di cui si parla è quella sui Contrari, si è perciò raggiunta la CoincidentiaOppositorum. De Rossi, che lo aveva già accennato nella parte iniziale del commento, loconferma ancora con le parole: "Postremo hic ostenditur victoria contrariorum. Anima enim siveintellectus, postquam intravit et excessit cardinem istius gradus, secura nichil timens, victoriosalucet et plena deliciis exultat in numero beatorum".

10a) La Canzone dantesca Donne ch'avete

di Sipex

Dopo la I ediz. del quaderno "Fedeli d'Amore", alcuni, che hanno accolto favorevolmente la miainterpretazione della Divina Commedia, intesa non come semplice viaggio iniziatico (significatoletterale del poema), ma come immenso cosmogramma magico (significato anagogico), mihanno invitato a dar seguito alla mia affermazione che l'iter iniziatico, proposto o affrontato daDante, sia descritto invece in alre sue opere. A tal fine, avendo Frater Petrus esaminato "Donname prega" di Guido Cavalcanti e "Color di Perla" di Nicolò de Rossi, prenderò inconsiderazione la canzone dantesca, "Donne ch'avete intelletto d'amore". Se Color di Perla èconsiderata la "risposta" di De Rossi a Donna me prega di Cavalcanti, Donne ch'avete intellettod'amore è considerata la risposta di Dante. Dante stesso ne "suggerisce" il confronto in unpasso del De Vulgari Eloquentia (II,12,3):"Fra questi l'endecasillabo, quando vogliamo poetare nello stile tragico, merita assolutamente ilprivilegio di prevalere nella testura, per certa sua eccellenza. V'è stanza infatti che goded'essere intessuta di soli endecasillabi, come quella di Guido da Firenze:

Donna me prega, perch'io volgl[i]o dire;

e anche noi diciamo:

Donne ch'avete intelletto d'amore".

Che non si tratti di un accostamento casuale, riguardante la sola forma esteriore, e che questaspecifica canzone sia invece di importanza fondamentale è confermato dal fatto che Dante(Purg., XXIV, 49-57) si fa dire da Bonagiunta Urbicciani da Lucca d'esser stato lui a trar fuori perprimo "le nove rime", proprio con il componimento Donne ch'avete intelletto d'amore. SempreBonagiunta definisce "dolce stil novo" questa nuovo poetare di Dante, in contrapposizione aquello di Giacomo da Lentini, di Guittone d'Arezzo e di Bonagiunta stesso.

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Ma dì s'i' veggio qui colui che foretrasse le nove rime, cominciandoDonne ch'avete intelletto d'amore.E io a lui: "I' mi son un che, quandoAmor mi spira, noto, e a quel modoch'e' ditta dentro vo significando"."O frate, issa vegg'io", diss'elli, "il nodoche 'l Notaro e Guittone e me ritennedi qua dal dolce stil novo ch'i' odo!".

Come è noto, la canzone "Donne ch'avete intelletto d'amore" fa parte della Vita Nova di Dante.Secondo una convenzione ottocentesca (detta comunemente "vulgata"), il testo di quest'opera èstato diviso in quarantadue capitoli ed è stata mantenuta questa suddivisione anche nelleedizioni critiche del 1907 e del 1932. Un più attento riesame dei manoscritti antichi haevidenziato invece che codici lontani tra loro e risalenti a testimoni indipendenti concordano neldividere l'opera in trentuno paragrafi.Il numero dei paragrafi è pari a quello dei componimenti poetici (venticinque sonetti, una ballatae cinque canzoni); però non vi è corrispondenza completa, dato che tre paragrafi ospitano duepoesie (gli attuali 3, 13 e 17, già VIII, XXII e XXVI della vulgata) e altri tre nessuna (16, 19, 31,già XXV, XXVIII-XXX e XLII).La canzone "Donne ch'avete", che si trovava nel cap. XIX della vulgata, fa parte del paragrafo10, comprendente i capitoli XVII-XIX della vulgata.

E' perciò il primo testo poetico che si inserisca subito dopo la "conversione" del poeta. Negatoogni contraccambio esteriore o interiore all'amore del poeta, che soffre fino a "morirne" inpresenza di madonna, egli si decide per un amore gratuito, che si esprima esteriormentenell'esercizio della poesia di lode.Si tratta dunque di un "amore senza contatto", sulla stessa linea di G. Cavalcanti e su diversalinea quindi rispetto a N. De Rossi. Se all'inizio si serve di un supporto del mondo esteriore (ladonna amata, opportunamente scelta affinchè sia irraggiungibile), se ne libera quando èabbastanza forte da determinare la morte iniziatica; cioè quando l'uomo comune non avrebbealtra scelta che immalinconire senza rimedio oppure distogliersi.Per il timore di non esserne all'altezza, Dante rimane diversi giorni con il desiderio di dire e lapaura di cominciare. Come notò acutamente A.Onofri (Nuovo Rinascimento come Arte dell'Io),la nuova poesia, il dolce stil novo, non è completamente figlio della volontà del poeta, anche seessa indubbiamente lo prepara. Il nocciolo dell'ispirazione giunge come una "grazia" d'Amore,che investe non solo la mente, ma contemporaneamente l'organo della fonazione: "la mia linguaparlò quasi come per sé stessa mossa e disse: Donne ch'avete intellecto d'amore". Laconfezione completa del testo richiede però più giorni: "pensando alquanti die".La canzone è composta da cinque strofe di soli endecasillabi in rima, secondo lo schemaABBC, ABBC, CDD, CEE. Per la sua comprensione, Dante fornisce diverse indicazioni. Inparticolare dice:"Questa canzone, acciò che sia meglio intesa, la dividerò più artificiosamente che l'altre cose disopra. E però prima ne fo tre parti. La prima parte è proemio de le seguenti parole; la seconda èlo 'ntento trattato; la terza è quasi una serviziale de le precedenti parole. La seconda cominciaquivi: Angelo clama [v. 15]; la terza quivi: Canzone, io so che [v. 57]"Dunque la prima parte o proemio è costituita dalla prima delle cinque strofe. La seconda partedalle tre strofe centrali. La terza parte o serviziale dall'ultima strofa.Iniziamo dal proemio:

Donne, ch' avete intelletto d'amore,io vo' con voi de la mia donna dire,non perch' io creda sua lauda finire,ma ragionar per isfogar la mente.

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Io dico che, pensando il suo valore, 5Amor sí dolce mi si fa sentire,che s' io allora non perdessi ardire,farei, parlando, innamorar la gente.E io non vo' parlar sí altamente, 9ch' io divenissi per temenza vile;ma tratterò del suo stato gentilea respetto di lei leggeramente,donne e donzelle amorose, con vui, 13ché non è cosa da parlarne altrui.

La prima parte, dice Dante, deve ulteriormente suddividersi:"La prima parte si divide in quattro: ne la prima dico a cu' io dicer voglio de la mia donna, eperché io voglio dire; ne la seconda dico quale me pare avere a me stesso quand' io penso losuo valore, e come io direi s' io non perdessi l'ardimento; ne la terza dico come credo dire, acciòch' io non sia impedito da viltà; ne la quarta ridicendo anche a cui ne intendea dire, dico lacagione per che dico a loro. La seconda comincia quivi: Io dico (v. 5); la terza quivi: E io non vo'parlar (v. 9); la quarta: Donne e donzelle (v. 13)".

Dante si rivolge direttamente alle "donne che hanno intelletto d'amore", destinatari dellacanzone di lode dell'amata, non perchè voglia trattare esaustivamente questo soggetto (v. 3)ma per dare sfogo ai suoi pensieri (v. 4). Pensando al valore di Beatrice, l'Amore si fa sentirecosì dolcemente che, se il poeta ne avesse l'ardire, parlando l'amore si diffonderebbe tra lagente (v. 8). Proprio per evitare il timore di parlare, egli rinuncia ad uno stile aulico e ne sceglieuno più semplice eppur rispettoso (vv. 9-12). Infine rivolgendosi nuovamente alle "donne"destinatarie (v. 13), specifica che non avrebbe senso parlarne ad altri.

Similmente al caso di "Donna me prega" di G. Cavalcanti i destinatari della poesia sonoparticolari "donne", che posseggono "Intelletto d'Amore". E' appena il caso di ricordare che LuigiValli, ne "Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d'Amore", ha definitavamente dimostratoche, in tale linguaggio, vengono chiamati "donne" i Fedeli d'Amore stessi. Nel caso poi inquestione la cosa è evidentissima, perchè l'intera Vita Nova è indirizzata da Dante a "questomio primo amico a cui io ciò scrivo" (par. 19. 10, già XXX 3) innamorato di monna Giovanna oPrimavera (par. 15, già XXIV), cioè Guido Cavalcanti che menziona l'amata, con quest'ultimonome, nella ballata "Fresca rosa novella".Se l'amore è "senza contatto" come in G. Cavalcanti, tuttavia compare subito un aspettoaggiuntivo: accesosi nel poeta, esso può, nel momento stesso di parlarne poetando,essere irradiato ad altri uomini. Questa tecnica, da un lato ricorda la raccomandazione diKremmerz di "orare" non con la sola mente, ma anche con la bocca (l'attenzione alle parolepronunciate con trasporto determina il "silenzio del pensiero", cioè elimina le divagazioni).D'altro lato ricorda l' "amore irradiante", già presente nel Buddhismo delle origini, che portal'amore a piena potenza, non limitandolo al soggetto-oggetto iniziale.La sola differenza è che nel Buddhismo delle origini l'oggetto iniziale dell'amore èaccuratamente scelto come non-erotico (escludendo anche un "eros gentile").Questo poetare, indicato da Dante, deve essere un semplice "isfogar la mente", niente dunquepreoccupazioni razionali di esaurire l'argomento, niente artificiosi stili dottorali. Unico limite in cuisi muove lo "sfogo" è la lode rispettosa dell'amata, visualizzata in uno "stato gentile".

Esaminato il Proemio della canzone, passiamo ad esaminare la parte centrale di essa, nellaquale viene fornito un esempio della teorizzata lode.

Angelo clama il divino intelletto 15e dice: «Sire, nel mondo si vedemaraviglia ne l'atto che proceded' un' anima che 'nfin qua su risplende».

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Lo cielo, che non ha altro difettoche d'aver lei, al suo Segnor la chiede, e ciascun santo ne grida merzede.Sola pietà nostra parte difende,ché parla dio, che di madonna intende:«Diletti miei, or sofferite in pace,che vostra speme sia quanto me piace là, dov' è alcun che perder lei s'attende,e che dirà ne lo inferno: - o malnati,io vidi la speranza de' beati».

Madonna è desiata in sommo cielo: 29or vo' di sua virtú farvi sapere. Dico: qual vuol gentil donna parerevada con lei; ché quando va per via,gitta nei cor villani Amore un gelo,per che ogne lor pensero agghiaccia e père;e qual soffrisse di starla a vedere diverría nobil cosa, o si morría:e quando trova alcun che degno siadi veder lei, quei prova sua vertute;ché li avvien ciò che li dona salute,e sí l'umilia, ch'ogni offesa obblía. Ancor l' ha dio per maggior grazia dato,che non può mal finir chi l' ha parlato.

Dice di lei Amor: «Cosa mortale 43come esser può sí adorna e sí pura?»Poi la reguarda, e fra sé stesso giura che dio ne 'ntenda di far cosa nova.Color di perle ha quasi in forma, qualeconvene a donna aver, non for misura;ella è quanto de ben può far natura;per esempio di lei bieltà si prova. De gli occhi suoi, come ch' ella li mova, 51escono spirti d'amore infiammati,che feron li occhi a qual, che allor la guati,e passan sí che 'l cor ciascun retrova.Voi le vedete Amor pinto nel viso, 55là o' non pote alcun mirarla fiso.

Come per il Proemio è Dante stesso, nella parte in prosa della Canzone, ad indicare il modo incui il contenuto delle stanze va suddiviso:"Poscia quando dico: Angelo clama, comincio a trattare di questa donna; e dividesi questa partein due. Ne la prima dico che di lei si comprende in cielo; ne la seconda dico che di lei sicomprende in terra, quivi: Madonna è desiata [v. 29]. Questa seconda parte si divide in due: chéne la prima dico di lei quanto da la parte de la nobilitade de la sua anima, narrando alquante dele sue vertudi, che de la sua anima procedeano; ne la seconda dico di lei quanto da la nobiltàdel suo corpo, narrando alquanto de le sue bellezze, qui: Dice di lei Amor [v. 43]. Questaseconda parte si divide in due: ché ne la prima dico d'alquante bellezze, che sono secondo tuttala persona; ne la seconda dico d'alquante bellezze, che sono secondo diterminata parte de lapersona, quivi: De li occhi suoi [v. 51]. Questa seconda parte si divide in due; ché ne l' una dicode gli occhi, li quali sono principio de l' Amore; ne la seconda dico de la bocca, la quale è fine d'Amore. E acciò che quinci si lievi ogni vizioso pensiero, ricordisi chi ci legge, che di sopra èscritto che 'l saluto di questa donna, lo quale era de le operazioni de la bocca sua, fue fine de li

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miei desiderî, mentre ch'io lo potei ricevere".

Come si vede, si tratta di una suddivisione dicotomica, nella quale è sempre la II parte adicotomizzarsi ulteriormente. Dante ammette che avrebbe potuto indicare altre suddivisioni, mache non lo ha fatto per riserbo esoterico:"Dico bene, che a più aprire lo 'ntendimento di questa canzone si converrebbe usare di piùminute divisioni; ma tuttavia chi non è di tanto ingegno, che per queste che sono fatte la possaintendere, a me non dispiace se la mi lascia stare, ché certo io temo d' avere a troppicomunicato lo suo intendimento, pur per queste divisioni che fatte sono, s'elli avvenisse chemolti lo potessero audire".

La tre stanze, che costituiscono la lode, seguono sostanzialmente lo schema del trimundio: laseconda stanza è dedicata al cielo, ove risiede il "Divino Intelletto", la terza all'intermundio ovesi manifestano le "potenze" (virtù), la quarta infine al mondo fisico, sede della bellezza naturale,ovvero di ciò che "appare".La seconda stanza ci trasporta dunque sul piano divino. Un angelo, nella sua qualità dimessaggero, annuncia al Divino Intelletto l'agire meraviglioso di Beatrice, che procede dallasua animicità luminosa, irradiantesi fino all'Empireo. Il Cielo e i suoi Santi richiedono lapresenza di Beatrice, ma il divino giudice ha compassione di Dante e decide che Beatrice perora resterà sulla terra, per permetter a lui che, "perder lei s'attende", di dire alle animedell'Inferno: "O mal nati, io vidi la speranza de' beati". Se "Madonna è disiata in sommo cielo", viene spontaneo illustrarne le virtù: è quanto avvienenella terza stanza, che enumera appunto le virtù, cioè i poteri, che lei ha sugli esseri umani: - rende "gentile" ogni donna che le si accompagni;- al suo passaggio, Amore lancia nei cuori villani come un gelo, a causa del quale i loro pensierighiacciano e muoiono;- chi soffre alla sua vista può divenir nobile oppur morire;- chi è degno di vederla sperimenta la sua stessa virtù, il suo potere, "ciò che li dona salute, e síl'umilia, ch'ogni offesa obblía". L'umiliazione, lo spossamento (l'ermetica putrefactio) dei limitidell'uomo reca cioè l'oblio dei medesimi, che prima ne tarpavano le possibilità.- ma è certo "che non pò mal finir chi l'à parlato". Precisazione importante, perchè Dante, comedice la stanza precedente, andrà all'Inferno, ma non per permanervi, giacchè "à parlato" conBeatrice, ne ha ricevuto il "saluto", cioè "la salute", la salvezza. La sua discesa agli Inferi èdunque transitoria, come quella di Cristo, come quella degli Iniziati.Nella quarta stanza continua la personificazione di Amore, che si chiede come possa una cosamortale essere così bella e pura. Dante passa quindi alla, prima e unica, descrizione fisica diBeatrice. Vengono evidenziati:- il "color di perle", la sua carnagione chiara, che Nicolò De Rossi, come sappiamo, sceglieaddirittura come nome della sua donna;- la sua bellezza suprema in ambito naturale, che la rende modello, archetipo terreno, perchè "per esempio di lei bieltà si prova";- gli occhi da cui "escono spirti d'amore infiammati", che colpiscono chiunque la guardi e chetrovano riscontro in quel "lume pien di spiriti d'amore" della ballata "Veggio negli occhi de ladonna mia" di Guido Cavalcanti;- "Amor pinto nel viso, là o' non pote alcun mirarla fiso", luogo che l'indispensabile commento inprosa di Dante chiarisce essere, non gli occhi, ma quella bocca, che proferisce il saluto. Amoreè dunque come "il rossetto" di Beatrice.

Terminiamo con l'analisi del congedo, cioè dell'ultima strofa della canzone. Dante, nella parte inprosa, dice che "è quasi una serviziale de le precedenti parole". E chiarisce: " Poi quando dico:Canzone, io so che tu, aggiungo una stanza quasi come ancella a le altre, ne la quale dicoquello, che di questa mia canzone desidero. E però che in questa ultima parte è lieve aintendere, non mi travaglio di più divisioni".

Canzone, io so che tu girai parlando

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a donne assai, quand' io t' avrò avanzata;Or t'ammonisco, perch' io t' ho allevataper figliuola d'Amor giovane e piana,che là ove giugni, tu dichi pregando:«Insegnatemi gir, ch' io son mandataa quella di cui loda io somo ornata».E se non vuoli andar, sí come vana,non restare ove sia gente villana:ingégnati, se puoi, d'esser palesesolo con donne o con uom cortese,che ti merranno là per via tostana.Tu troverai Amor con esso lei;raccomandami a lui come tu dèi.

Questo congedo, apparentemente semplice a comprendersi, viene ovviamente tenuto in scarsaconsiderazione dalla comune critica letteraria, che ignora il fatto che gli esoteristi hanno spessonascosto intenti profondi, dietro espressioni dal'apparenza banale. Dal punto di vista letterale, lastanza di congedo è costruita nella forma di un'apostrofe alla canzone stessa che, evitando ognicontatto con la "gente villana", dovrà mettersi in cammino per palesarsi solo ai suoi destinatari.Sappiamo, dall'inizio della canzone, che destinatari sono le donne dotate di "intelletto d'amore".Proprio in questa stanza, Dante specifica che con tale termine egli non si riferisce solo adesponenti del gentil sesso, perchè la canzone può esser palese non solo "con donne", maanche con "uom cortese", che la conduca per la via più breve (tostana) al destinatario ultimodella poesia, cioè alla stessa Beatrice. Si tratta del tradizionale "envoi" o invio del messaggiopoetico, tipico della lirica cortese.Le pratiche iniziatiche, di alta ascesi, terminano spesso con una "dedica", degli effetti dellapratica stessa, ad un insieme di destinatari più o meno vasto. In ambito buddhista, ad es.,sovente la pratica finisce con l'augurio che essa possa recar beneficio a tutti gli esseri senzienti.Più riservato, Dante dedica la canzone a tutti i Fedeli d'Amore, con l'auspicio che essiconducano la canzone a Beatrice, cioè, per tramite della canzone, giungano allo stessoobiettivo dell'autore. Non si tratta di semplice "altruismo", ma di indirizzare la forza complessivadella "catena" iniziatica verso il medesimo obiettivo. Nel caso del buddhismo la "catena" è ingenere estesa a tutti gli esseri senzienti.

11) Il FILOSTRATO di BOCCACCIO

di Frater Petrus

Boccaccio (Firenze? 1313 - Certaldo, 1375), ha trattato la "dottrina d'amore" praticamente intutte le sue opere. Tuttavia quella che la sintetizza più efficacemente è probabilmente ilpoemetto in ottave (1), denominato Filostrato.

(1) L'ottava (o ottava rima) è una strofa composta da otto endecasillabi, i primi sei a rima

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alternata e gli ultimi due a rima baciata, secondo lo schema ABABABCC.

Come indica lo stesso autore, all'inizio dell'opera, il titolo (formato con l'accostamento di untermine greco, "filos", e di uno latino, "stratus") vuol significare "uomo vinto e abbattutod'amore".Da questo punto di vista, l'amore è in fondo un aspetto di quella folgore di Zeus che, secondo ilmito, abbattè la superbia dei Titani. L'Amore, se usato in modo iniziatico, ha la capacità ditrasformare la percezione egoica in percezione d'amore. Così Boccaccio esprime, in una strofa del poema, la trasmutazione indotta dall'Amore in Troilo oTroiolo, ultimo figlio di Priamo, innamoratosi della bella Griseida (l'antica Briseide) figlia diCalcante:

III, 93

Ed avvegna ch'el fosse di realesangue, e volendo ancor molto potesse,

benigno si faceva a tutti eguale,come ch'alcun talvolta nol valesse.Così voleva Amor che tutto vale,

che el per compiacere altrui il facesse;superbia, invidia e avarizia in ira

aveva, e ciò ch'ognun dietro si tira.

Nel proemio in prosa, Boccaccio affronta il problema relativo all'individuazione dell'aspettod'Amore, che dona all'amante la più grande beatitudine. Gli aspetti che prende inconsiderazione sono tre:- pensare a lei nel segreto del proprio cuore,- parlare di lei coi propri amici,- essere con la donna amata. La prima "tecnica", puramente immaginativa, è ciò che in Oriente viene detto "Sigillo dellaConoscenza" (Jnana Mudra) e prevede l'uso di un partner puramente interiore o interiorizzato.La seconda tecnica è una variante della prima. Il "parlare con gli amici" non significaovviamente un semplice chiacchierare, nè implica che gli amici siano presenti in quel momento;indica invece il cantare il proprio amore in poesia. All'immaginazione della prima tecnica siaggiunge l'esaltazione dello stato poetico, in tutto simile a quella di chi pronuncia un innodurante un rito:

72 Era contento Troiolo, ed in canti

menava la sua vita e 'n allegrezza;...

La terza tecnica è quella descritta da Abraxa in Ur e può essere, come sappiamo, con osenza contatto fisico. Boccaccio afferma che, dopo aver a lungo creduto, come molti altri, chela beatitudine maggiore si raggiunga pensando segretamente all'amata (I tecnica), ora sainvece che la beatitudine di essere con l'amante (III tecnica) sorpassa di gran lunga quellaottenibile nelle altre due situazioni. Nel poema descrive lo stato in cui l'Amore dispone i dueamanti; in esso conoscenza materiale e immaginativa si mescolano indistinguibilmente:

III, 34

Ei non uscir di braccio l'uno all'altroin tutta notte, e tenendosi in braccio,si credieno esser tolti l'uno all'altro,

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o che non fosse ver che 'nsieme in braccio,sì com'elli eran, fosse l'uno all'altro,

ma sognar si credien d'essere in braccio;e l'uno all'altro domandava spesso:

- Hotti io in braccio, o sogno, o sei tu desso? -

Boccaccio simboleggia l'amore cosciente (amor intellectualis) o, come altri dicono, amoresotto la volontà , con la dea Venere. Nell'invocazione a lei dedicata, così si esprime:

III, 89

Io non ho grazie quai si converrienoa te da me, o bella luce etterna;

però prima tacer che non appienorenderle vommi; tu, chiara lucerna,

al disidero mio non venir meno,prolunga, cela, correggi e governail mio ardore e quel di questa a cui

son dato, e fa ch'io non sia mai d'altrui. -

Pandaro, l'intermediario o messaggero fra Troilo (=Sole) e Criseida (=Luna), è un simbolodell'Ermete. Del modus operandi di questa evoluzione iniziatica del Mercurio ha parlatoKremmerz (Scienza dei magi e Fascicoli della Miriam) ed Ea nel quaderno dedicato alla Portamagica di Roma.

Ma Troilo va poi soggetto ad una triste delusione, perchè Griseida l'abbandona per amore diDiomede. Questo è il secondo senso in cui l'amore vince e abbatte l'uomo: procurandoglisofferenza. Circa un uso iniziatico della sofferenza, attivamente assunta, si veda il capitolo cheEvola dedica alla sofferenza, in Fenomenologia dell'Individuo Assoluto.

La volubilità di Griseida conduce il poeta a porre un nuovo problema: qual è il tipo di donnapiù idoneo? In Oriente, già in testi assai noti come il Kama Sutra, si suole distinguere tra varietipologie di donne (e di uomini), ma, ponendosi da un punto di vista più iniziatico, vengonodistinti soprattutto due tipi, detti rispettivamente "Sigillo dell'Azione" (Karma Mudra) e "Sigillo delVoto" (Samaya Mudra). Quest'ultimo tipo di partner, avente la pienezza di tutte le qualificazioni,equivale a ciò che, in talune scuole dell'esoterismo occidentale, è detto "BinomioComplemento".

Boccaccio così descrive la donna perfetta:

VIII, 32

Perfetta donna ha più fermo disired'essere amata, e d'amar si diletta;discerne e vede ciò ch'è da fuggire,

lascia ed elegge provvida, ed aspettale promission; queste son da seguire,ma non si vuol però scegliere in fretta,chè non son tutte sagge perchè sienopiù attempate, e quelle vaglion meno.

Soprattutto i primi versi ricordano moltissimo un passo del testo tibetano "La vita el'insegnamento di Naropa":"Il tipo migliore ... è dotato dei segni rilevanti dei tre livelli di comportamento nei loro aspettimanifesto, nascosto e mistico...quando è inebriata del desiderio sessuale non conosce nè

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vergogne nè freni con il partner yogico".

12) Il FILOCOLO di BOCCACCIO

Introduzione

Frater Petrus: Il Filocolo è un romanzo in sette libri, che contiene la storia d'amore di Florio eBiancifiore (o Biancofiore) due giovani che, cresciuti insieme e reciprocamente innamorati,vengono separati dalla volontà contraria dei genitori di Florio. Questi intraprende una lungaperegrinazione per ritrovare l'amata. Filocolo, nel greco approssimativo del Boccaccio,dovrebbe significare «fatica d'amore», ed è il nome che Florio assume nell'accingersi alla ricerca faticosa di Biancifiore. L'etimologia è così presentata dall'autore (Libro III cap.75):

"Filocolo è da due greci nomi composto, da "philos" e da "colon"; e "philos" in greco tanto vienea dire in nostra lingua quanto "amore" e "colon" in greco similemente tanto in nostra linguarisulta quanto "fatica": onde congiunti insieme, si può dire, trasponendo le parti, fatica d'amore".

Ma, in greco, il miglior equivalente di "fatica" è "ponos". Perciò, nell'edizione veneziana del1527, il curatore rinascimentale Tizzone Gaetano di Posi ritenne utile correggere il titolo in "Filopono". Questo termine (già usato dagli studiosi quale appellativo di un commentatoreellenistico di Aristotele) significa però "Amante della Fatica" e non "Fatica d'Amore".Marco Guazzo, nel 1530, propose Filocopo, dal momento che "copos" in greco significa"sofferenza" e ipotizzando che Boccaccio l'avesse confuso con "cholos" = "rabbia". Vistal'incertezza, gli editori moderni preferiscono generalmente mantenere il titolo originario diBoccaccio.L'anacronismo, che pervade questo romanzo, deve subito mettere in guardia il lettore. Laleggenda di Florio e Biancifiore era diffusissima ai tempi del Boccaccio, sia in virtù dellatradizione orale, sia grazie ad alcune versioni popolari scritte. Da un punto di vista temporale,essa era collocabile, come le leggende in genere, in quel "tempo mitico o archetipico", i cuieventi possono riattualizzarsi in qualsiasi momento della storia. Ed è proprio Boccaccio ariattualizzare la leggenda dei due innamorati, fondendola con episodi, in parte veri, in parteimmaginari, della sua epoca.

I Libro

Frater Petrus: Nel prologo, in parte epico, in parte autobiografico, del I libro, Giunone,l'antica nemica dei Troiani, si reca dal papa per esortarlo ad abbattere la potenza degli Svevi,ultimi discendenti della stirpe romana, a sua volta discesa da Enea. Poi la dea scendenell'Averno, per chiedere aiuto alla furia Aletto contro Manfredi, novello Enea. Il papa si rivolge aCarlo d'Angiò, che scende in Italia, sconfigge Manfredi e fonda il regno di Napoli. Ai tempi di Roberto, discendente del suddetto Carlo I, "un giorno, la cui prima ora saturno aveasignoreggiata, essendo già Febo co' suoi cavalli al sedecimo grado del celestiale Montonepervenuto, e nel quale il glorioso partimento del figliuolo di Giove dagli spogliati regni di Plutonesi celebrava" (Pasqua), l'autore scorge, in un tempietto di Partenope (Napoli), una giovanedonna di mirabile bellezza, che diviene subito la signora del suo cuore. Qualche giorno dopo,l'autore rivede la sua donna in compagnia di altre, in un tempio denominato "dal principe dei

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celestiali uccelli" (identificato nella chiesa del monastero di Sant'Arcangelo a Baiano). Ellamanifesta il desiderio che la storia dell'amore di Florio e Biancifiore non sia "lasciata solamentene' fabulosi parlari degli ignoranti" e che venga composta su di essa un libretto in lingua volgare.Accogliendo la richiesta come un imperativo, l'autore si mette all'opera.Ha così inizio la storia vera e propria: Giulia Topazia ed il marito Quinto Lelio Africano, nobileromano discendente degli Scipioni, intraprendono un pellegrinaggio al santuario di San Jacopodi Compostella in Galizia, per chiedere la grazia di avere un figlio. Ottenutala, intraprendono unsecondo viaggio di ringraziamento, ma il diavolo, con l'inganno, scatena contro i pellegrini, chepartecipano al viaggio, Felice, re pagano di Spagna, che governa anche Marmorina, cioèVerona, così chiamata per le sue famose cave di marmo (1). All'agguato sopravvive solo GiuliaTopazia, che è accolta, per riparazione, alla corte di Felice. Tuttavia ella muore, dando alla luceuna bambina, Biancifiore. Nello stesso giorno, la regina partorisce Florio. Floro o Florio, variante maschile di Flora, significa "fiore". In alchimia, il "fiore" per eccellenza èquello di zolfo, ossia lo zolfo purissimo di prima emissione vulcanica. Biancifiore o Biancofiore èinvece simbolo di altrettanto puro mercurio.Essi hanno diversa nascita: il primo è di stirpe regale per indicare la sua origine celeste; laseconda, pur nobile, è però di una nobiltà inferiore, ad indicare la sua origine tutta naturale.Il nome Topazia indica, ovviamente, una "sostanza", che ha le proprietà della corrispondente"pietra". Perciò, è di per sè trasparente e incolore ma, a causa della presenza di impurità metalliche, può assumere, in natura, i più svariati colori. Il colore può poi modificarsi perriscaldamento o irradiazione. Il discendente di Scipione l'Africano è egli stesso un valorosocondottiero ed indica lo "hegemonikon" degli Stoici, il sovrano interiore, pur avente ancora tuttii suoi limiti umani. Il pellegrinaggio a Compostella è il simbolo della strada da seguire pergiungere all'illuminazione. Il pellegrinaggio è doppio, giacchè il primo serve a chiedere edottenere l'iniziazione, la "grazia" che genera il "feto immortale". Il secondo pellegrinaggio indical'opus vero e proprio, che inizia con la prima operazione alchimica, la morte o putrefazione,che permette al mercurio di "venire alla luce". Anche la scelta di Verona non è casuale, perchèera sede della Signoria Scaligera (= portatrice della scala). Essa è dunque paragonabile,simbolicamente, a quella località di Luz-Bethel, ove Giacobbe sognò la famosa scala, che glipermise di giungere in cielo.

Pietro Negri: L'utilizzo delle cave del veronese risale all'epoca romana (probabilmente al I sec.a.C) e proseguì sino al V sec. d.C. Si interruppe poi per gli elevati costi, dovuti alle difficoltà diestrazione del marmo dalle cave (o "preare") e di trasporto. Riprese con l'avvento della SignoriaScaligera (dal 1262 al 1387). Le numerose opere architettoniche in marmo, innalzate orestaurate, procurarono a Verona il nome di città marmorina o città marmorea. I marmi estrattinel veronese sono di vario genere: dal famoso "Rosso Verona" al "Nembro Rosato" e al "GialloReale". Per diversi secoli, molto famosi e richiesti anche all'estero furono gli scalpellini e ilapicidi di questa area geografica, autentici artisti e "Massoni Operativi", ora quasicompletamente scomparsi. Sipex: Figura simbolicamente assai significativa è sicuramente il "gran re Felice, reggitore de'regni di Speria, nipote di Atalante, sostenitore de' cieli, governava vicino a' colli d'Appennino unacittà chiamata Marmorina." (Lib. I, cap. X). Volutamente Boccaccio fa di lui una figurastoricamente impossibile e anacronistica, perchè il lettore ne intuisca il significato simbolico.Felice è nome di origine latina (felix), che significa "fertile, favorito dagli dei". Per i cristiani ènome augurale, che significa "colui che è spiritualmente beato". In India il corpo di beatitudine(ananda maya kosha) è il più elevato dei cinque involucri (kosha) che formano l'individuo. Hesperos significava, presso i Greci, "Occidente", per questo essi chiamavano Esperia tantol'Italia quanto la Spagna, entrambe poste ad occidente della Grecia . Volendo distinguere l'unadall'altra, chiamavano la Spagna col titolo di Esperia ultima. Essendo la vicenda ambientataprevalentemente in Italia, Boccaccio usa Speria, da un punto di vista letterale, soprattutto nelsenso di Spagna, ma, da un punto di vista simbolico, indica con tale termine la tradizioneoccidentale.Atalante o Atlante era un gigante mitologico, figlio del titano Giapeto e di Climene. Per averlottato contro gli dei dell'Olimpo, Zeus lo condannò a reggere eternamente il mondo sulle spalle.

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Boccaccio sottolinea che egli è in particolare "sostenitore dei cieli", identificandolo così, di fatto,con un attributo del Dio ebraico-cristiano, che non è solo creatore, ma anche sostenitore oconservatore di ciò che ha creato. In Neemia 9:6, si trova scritto:

Tu, tu solo sei il Signore, tu hai fatto i cieli, i cieli dei cieli e tutte le loro schiere, la terra e quantosta su di essa, i mari e quanto è in essi; tu conservi in vita tutte queste cose e l'esercito dei cieliti adora.

In India questa funzione sostenitrice-conservatrice della divinità è esercitata in particolare dallaseconda persona della Trimurti, Vishnu, a cui si debbono periodiche e dirette manifestazioni nelmondo creato (Avatara). Anche il cristianesimo ha assegnato questa funzione soprattutto allaseconda persona della Trinità , come è chiaramente indicato dall'Epistola agli Ebrei, 1:1-4 :

[1] Dio, che aveva gia parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzodei profeti, ultimamente, [2 ]in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che hacostituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo. [3] Questo Figlio,che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutte le cose con lapotenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si è assiso alla destradella maestà nell'alto dei cieli, [4] ed è diventato tanto superiore agli angeli quanto piùeccellente del loro è il nome che ha ereditato.

Ci sono dunque tutti gli elementi per identificare re Felice, nipote di Atalante, con quel CorpoSolare, che costituisce il più elevato dei corpi ermetici. La sua sposa o "potenza" èsemplicemente indicata (a differenza di tutti gli altri personaggi) non con un nome proprio, masemplicemente con l'appellativo di "reina", ad indicare che si tratta di una potenza ad uno statoancora indifferenziato.Come ha detto Frater Petrus, è significativo che la capitale dei regni di Felice sia proprio Veronao Marmorina. Al simbolismo della scala a cinque pioli dello stemma degli Scaligeri, siriconnette quanto ha detto Pietro Negri riguardo alla presenza della Massoneria Operativa nelveronese. Sempre a questo proposito, Ea, in un passato messaggio, ha indicato che i gradi verie propri ("interni al tempio") della Massoneria Operativa erano cinque. Il primo grado e il settimoessendo "fuori dal tempio".Afrodisia: Riguardo al duplice pellegrinaggio vorrei riportare i seguenti passi del Filocolo [Lib.I, cap. 5]:

Risuona per Roma, com'è detto, la gran fama nella quale un nobilissimo giovane dimorava, ilquale si chiamava Quinto Lelio Africano, disceso del nobile sangue del primo conquistatoredell'africana Cartagine. ... avea, secondo la nuova legge del Figliuol di Dio, una giovane romananobilissima, nata della gente giulia, e Giulia Topazia nominata, presa per sua legittima sposa, ...e ancora di lei niuno figliuolo avea potuto avere, ... essendo Lelio un giorno intorno a quel disiomolto pensoso, udì narrare di quello Iddio, che sopra gli sperii liti dimorava lontano,maravigliose cose per lui fatte; le quali poi ch'egli ebbe udite, se n'andò in uno santo tempio, là dove la reverenda imagine del glorioso santo era figurata, nel cospetto della quale disse così:«O grazioso Iddio, il quale sopra i liti occidentali lasciasti il tuo santo corpo, l'anima renduta alsommo Giove, ...Io sono giovane d'eccellentissima fama, e di famosi parenti disceso, e nella presente città copioso di ricchezze e di congiunti parenti, accompagnato di nobilissima e bella giovane, con laquale io sono stato tanto tempo ch' io veggio incominciare la sesta volta al sole l'usatocammino, e niuno figliuolo ancora di lei ho potuto avere, ... Ond'io divotamente ti priego che nelcospetto dello onnipotente Signore grazia impetri, ... , che Egli uno solamente concedere me nedeggia ...La qual cosa se Egli me la concede, io ti prometto e giuro per l'anima del mio padre eper la deità del sommo Giove che i tuoi lontani templi saranno da me visitati personalmente, e ituoi altari di divoti fuochi saranno alluminati».

Due cose mi sembrano particolarmente degne di rilievo:

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- Sembrerebbe che il primo dei due pellegrinaggi sia avvenuto in un S. Jacopo di Compostella"nostrano", una chiesa italiana, "sostitutiva" dell'originale spagnola, perchè vi si trovaval'immagine del santo. Ma quale? L'espressione "nella presente città " indica chiaramente che sitratta di una chiesa di Roma, nodo centrale dei pellegrinaggi dalla Terra Santa alla Galizia eviceversa. Una identificazione precisa è tuttavia impossibile, dal momento che il Catalogo diTorino delle Chiese di Roma, risalente al sec. XIV (Ms. Torino, Biblioteca dell'Università , cod.E. V. 17, cc. 1r-16v), riporta sette tra chiese e ospedali dedicati a S. Jacopo (o Jacobo).- E' poi interessante che Boccaccio dia al santo il titolo di "Iddio", testimonianza di quellaDeificatio Hominis (stadio superiore alla semplice Santificatio), perseguita anche dalleorganizzazioni contemplative cristiane, presenti a quell'epoca in Occidente. Frater Petrus: Trovo eccellente la tua interpretazione di questo passo del Filocolo, giacchè,oltre ad essere pienamente aderente "alla lettera" del testo, chiarifica anche il significatosimbolico. Stabilito infatti che il primo pellegrinaggio si riferisca simbolicamente all'iniziazione e ilsecondo al successivo opus realizzativo, la maggior brevità e fatica del primo rispetto alsecondo corrisponde bene alla diversa difficoltà esistente tra l'iniziazione e la pienarealizzazione.Nel medesimo brano, altrettanto evidente e significativo è l'identificazione di Giove con il Geovaebraico-cristiano, segno probabile di una integrazione, esistente in certi ambienti dell'epoca, traesoterismo politeista e cristiano.

II Libro

Frater Petrus: Uno dei capitoli fondamentali del II Libro del Filocolo, e dell'intera opera, è il IIIcap. In esso, Boccaccio aiuta sensibilmente il lettore a comprendere il significato anagogico delFilocolo. L' "abile mezzo" , come si direbbe in Oriente, da lui adoperato è quello di narrare unsogno profetico, donato da Venere a re Felice. Tale sogno, da un lato, costituisce unaallegoria dell'intera opera e, dall'altro, ne fornisce la chiave anagogica. Riporto, per la suaimportanza, integralmente il suddetto capitolo:

Sì tosto come Amore dalla sua madre fu partito, così ella nella lucida nuvoletta fendendo l'aerepervenne a' medesimi tetti, e, tacitamente preso il vecchio re, il portò in una camera sopra unricco letto, dove d'un soave sonno l'occupò. Nel qual sonno il re vide una mirabile visione: che alui pareva esser sopra un alto monte, e quivi avere presa una cerbia bianchissima e bella, laquale a lui molto parea avere cara; la quale tenendola nelle sue braccia, gli pareva che del suocorpo uscisse un leoncello presto e visto, il quale egli insieme con questa cerbia sanzaalcuna rissa nutricava per alcuno spazio. Ma, stando alquanto, vedeva discender giù dal cielouno spirito di graziosa luce risplendente, il quale apriva con le proprie mani il leoncello nelpetto; e quindi traeva una cosa ardente, la quale la cerbia disiderosamente mangiava. E poi glipareva che questo spirito facesse alla cerbia il simigliante; e fatto questo si partiva.Appresso questo, egli temendo non il leoncello volesse mangiar la cerbia, la lontanava da sè: edi ciò pareva che l'uno e l'altro si dolesse. Ma, poco stante, apparve sopra la montagna unlupo, il quale con ardente fame correva sopra la cerbia per distruggerla, e il re gliele paravadavanti; ma il leoncello correndo subitamente tornò alla difesa della cerbia, e co' propii unghioniquivi dilacerò sì fattamente il lupo, che egli il privò di vita, lasciando la paurosa cerbia a lui chedolente gliele pareva ripigliare, tornandosi all'usato luogo. Ma non dopo molto spazio gli pareavedere uscir de' vicini mari due girfalchi, i quali portavano a' piè sonagli lucentissimi sanzasuono, i quali egli allettava; e venuti ad esso, levava loro da' piedi i detti sonagli, e dava loro lacerbia cacciandogli da sè. E questi, presa la cerbia, la legavano con una catena d'oro, etiravansela dietro su per le salate onde infino in Oriente: e quivi ad un grandissimo veltro cosìlegata la lasciavano. Ma poi, sappiendo questo, il leoncello mugghiando la ricercava; e presialquanti animali, seguitando le pedate della cerbia, n'andavano là ove ella era; e quivi gli pareache il leoncello, occultamente dal cane, si congiungesse con la cerbia amorosamente. Mapoi avedendosi il veltro di questo, l'uno e l'altro parea che divorar volesse co' propii denti. Esubitamente cadutagli la rabbia, loro rimandava là onde partiti s'erano. Ma inanzi che al montetornassero, gli parea che essi si tuffassero in una chiara fontana, della quale il leoncello

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uscendone, pareva mutato in figura di nobilissimo e bel giovane, e la cerbiasimigliantemente d'una bella giovine: e poi a lui tornando, lietamente li ricevea; e era tanta laletizia la quale egli con loro facea, che il cuore, da troppa passione occupato, ruppe il soavesonno. E stupefatto delle vedute cose si levò, molto maravigliandosi, e lungamente pensò sopraesse; ma poi non curandosene, venne alla reale sala del suo palagio in quell'ora che Amores'era da' suoi nuovi suggetti partito.

Da un punto di vista semplicemente allegorico, le concordanze degli elementi del sogno di reFelice sono le seguenti:Montagna= Marmorina, la capitale che re Felice "governava vicino a' colli d'Appennino". (1)Cerbia bianca= Biancifiore, allevata alla corte di re Felice.Leoncello= Florio, figlio di re Felice.Spirito luminoso= Cupido, che fa innamorare reciprocamente Florio e Biancifiore.Lupo= Il siniscalco Massamutino, al quale re Felice assegna il compito di ordire una trama peraccusare ingiustamente e poter così giustiziare Biancifiore. Egli viene però ucciso, in un"giudizio di Dio", da Florio, agente in incognito, che dimostra così l'innocenza di Biancifiore.Girfalchi (2)= Mercanti orientali di Alessandria d'Egitto ai quali re Felice vende Biancifiore, vistiinutili gli altri tentativi di allontanarla da Florio.Veltro= L'Ammiraglio di Alessandria che tiene prigioniera Biancifiore in una torre. Florio,nascosto in una cesta di fiori, riesce a penetrare in essa e trascorre una notte d'amore conBiancifiore. Scoperti dall'Ammiraglio, che vorrebbe farli uccidere, si salvano grazie ad interventidivini e umani. L'Ammiraglio (che è fratello della madre di Florio) scopre che Florio è suo nipote,celebra egli stesso le nozze dei due giovani e facilita il loro ritorno in patria.Fontana= Fonte Battesimale di Roma, ove Florio, convertito da Ilario, personaggio "all'ordine de'cavalieri di Dio (3) scritto", viene battezzato assieme al suo seguito, dal sommo pontefice Vigilio.

(1) Appennino Veronese.(2) Il girfalco o gerfalco è un uccello di rapina, il più grande tra le varie specie di falchi.(3) Così erano soprannominati i Templari, ma l'Ordine del Tempio fu fondato nel 1118-1119 esoppresso nel 1312, non poteva perciò esistere all'epoca di Vigilio, che fu papa dal 537 al 555.Che si tratti proprio del Vigilio storico e non di personaggio di fantasia è confermato dairiferimenti a Giustiniano, che fu imperatore nel medesimo periodo, e ad Agapito I, uno degliimmediati predecessori di Vigilio. Il termine "cavalieri di dio", oltre che per i "monaci guerrieri"degli ordini cavallereschi, si trova però anche usato per i semplici monaci. Nel 18° cap dei"Fioretti di S.Francesco", il termine viene riferito agli oltre cinquemila frati ("lo esercito de'cavalieri di Dio") intervenuti ad un Capitolo generale, presso Santa Maria degli Angeli. Mal'ordine francescano fu fondato nel 1210, così ancora una volta le date non concordano. OBoccaccio fa riferimento ad uno degli ordini monastici esistenti già all'epoca di Vigilio, oppuresta usando, come anche in altri punti del Filocolo, un anacronismo, per sottolineare l'importanzasimbolica dei personaggi.

Significato Anagogico del Sogno di Re Felice

Gli Ambienti Naturali

Frater Petrus: Veniamo ora ad esaminare, brevemente, la chiave anagogica, fornita dal sognodi re Felice, con il che si renderà anche evidente tutta la differenza che passa tra il livelloallegorico dell'interpretazione (il secondo, stando al Convivio di Dante) e quello anagogico (ilquarto e più elevato).Iniziamo dai due ambienti naturali, che compaiono nel sogno: la montagna e il mare. Inutilemettersi a discettare su tutti i significati simbolici che questi due ambienti possono avere. Farsfoggio di erudizione non serve nell'esoterismo, dove invece occorre capire, deducendolo dalcontesto, ma anche dalla propria esperienza interiore, quale tra i possibili significati è corretto

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nel caso specifico, che si sta esaminando. Si potrà notare ad es. come, in questo sogno, lamontagna non ha affatto il significato, altrove frequente, di "luogo di ascesa". Ha invece ilsignificato di luogo originario, dove l'evento narrato ha l'inizio, ma anche la fine. Mentre ilmare è il luogo della peregrinazione intermedia. Paragonando questo sogno all'Odissea, inesso la Montagna ha la stessa funzione di Itaca.La montagna, per la sua relativa immutabilità , è uno dei simboli del Sè. Se il Sole è simbolodella chiara consapevolezza del Sè , la Montagna lo è del suo aspetto "immutabile", cioèimmortale. Al contrario il Mare, per le sue correnti, è un ovvio simbolo della Natura e del suoDivenire. L'ascesi spirituale non può che avere origine dal Sè, che però all'inizio non èconosciuto nella sua vera essenza, velato com'è dall'ego di tutti i giorni . D'altro canto l'ascesimedesima non può che dipanarsi temporalmente nel divenire (il mare). E' solo confrontandosicon il divenire che l'ascesi spirituale può giungere a vera stabilità . Chi sa meditare in unromitaggio, ma non è in grado di permanere nello "stato naturale della mente", quando si trovain mezzo alla folla, è ancora lontano dalla meta. E' solo quando la vera essenza del divenire ècompresa, che anche quella del Sè lo è (il ritorno alla montagna).Un famoso discorso del maestro Ch'ing yuan Wei-hsin (Seigen I shin, in giapponese), delladinastia T'ang, ci offre un ottimo paragone: "Trent'anni fa, prima di iniziare lo studio dello Zen,dissi: -Le montagne sono montagne, le acque sono acque-. Dopo aver avuto un'intuizione sullaverità dello Zen ..., dissi: -Le montagne non sono montagne, le acque non sono acque-. Maora, avendo raggiunto la dimora del riposo finale [cioè, l'illuminazione], dico: -Le montagne sonorealmente montagne, le acque sono realmente acque-".Per chi non ha ancora praticato, il Sè è semplicemente il proprio Ego, legato alla presenteesistenza e il Divenire coincide con la descrizione del mondo, dettata dal senso comunecollettivo (il "buon senso") della propria epoca e del proprio ambiente. Quando si inizia la propriaascesi, essa è inevitabilmente influenzata dalle provvisorie descrizioni del Sè e del Divenire, chei maestri forniscono alla sete di sapere dei discepoli, per far loro abbandonare la precedentedescrizione mondana. Se essi si fissano in tali nuove descrizioni, vuoi razionali, vuoi anchesimboliche (2), finiranno con avere una visione "manierata" ed artificiale della realtà . Ad es.,come spesso avvenne in India (3), l'immutabilità del Sè potrà essere erroneamente concepita,come effettivamente simile all'immobilità di una montagna, dimenticando quindi l'aspetto attivodi questa "immobilità" (4). Andando al di là della semplice speculazione ed immaginazione,coltivando l'esperienza diretta e non egoica della realtà (Intuitio Intellectualis), finalmente siavrà una visione effettiva di entrambi i poli della realtà . (1) Nel caso di Itaca, è la posizione relativamente immutabile dell'isola rispetto alle altre terre adavere analogo significato.(2) Avent mera funzione indicatrice, come quella del "dito che mostra la luna".(3) Suscitando, per reazione, l'opposta dottrina buddhista del "Non-Sè" (Anatta). (4) "Motore Immobile" lo definì Aristotele, "Agire senza Agire" i filosofi dell'Estremo Oriente.

Gli Animali simbolici

La Cerva

Frater Petrus: Nel sogno di re Felice, appaiono cinque specie animali: la cerva bianca, ilgiovane leone, il lupo, i due girfalchi e il veltro. Iniziamo con l'indagare il significato anagogicodella cerva bianca.

"Come la cerva anela ai rivi d'acqua, così l'anima mia a Te anela, o mio Dio".

Così inizia il salmo 42. La cerva che anela alle fonti di acqua pura è il simbolo di quell'aspettodell'anima umana che anela al Sè, al "Dio in noi". Ma di quale aspetto si tratta? Fin dall'epocadei cacciatori Paleolitici del grande Nord, il cervo fu venerato come il principale obiettivo dei ritidi caccia. Sul simbolismo del cervo, ha scritto Adriano Romualdi (1): "Al toro - simbolo dellacieca forza generatrice, connesso con l'ideologia della fecondità , rozzamente raffigurato

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insieme con la Dea Nuda nelle più antiche culture agricole europee - si contrappone il cervo,l'animale dei cacciatori del Nord, Seelentier des nordischen Menschen, e, secondo Weisweiler,'animale della civiltà artica'. Il cervo è significativamente associato col simbolismo del sole edella luce".Il cervo dunque non è, come il toro, simbolo della forza primigenia e scatenata del caos, bensìdella vita in un senso superiore, imperniato secondo Romualdi nella concezione metafisicadell'ordine, il "kosmos" greco, la "ratio" romano-italica, l' "orlog" germanico. Secondo autoricome il Weisweiler (2) si può ritenere che, in epoca remota, nel centro Europa, si sianosovrapposti due diversi flussi culturali, quello del toro mediterraneo e quello del cervo artico.Questo spiegherebbe le, sia pur parziali, sovrapposizioni simboliche dei due animali, attestateancora in epoca celtica e romana. Ciò è vero, in particolare, per il noto simbolo del cerchiosormontato dalla falce lunare, stilizzazione della testa del toro-cervo, ma anche parte superioredel simbolo alchimistico del Mercurio. In questo forum, parlando della Porta Ermetica di Roma,Ea ha indicato che la falce lunare (3) di tale simbolo equivale all'intelletto ricettivo (scr:buddhi), aspetto animico in cui prevale come qualità albedo (sattva) e che perciò ricevedirettamente la luce dell'Intelletto Attivo (Purusha). L'intelletto ricettivo, talvolta paragonato ad"un occhio nel buio", anela, come indica il salmo, alla luce del "Dio in Noi" .Nella preistoria greca, la religione pelasgica aveva una principale divinità detta la GrandeMadre o Dea Bianca o Triplice Dea, o semplicemente "l'Ineffabile". Suprema reggitrice di tuttele cose, si manifestava nella trina immagine di madre-ninfa-vergine. A livello cosmico, infatti,l'Intelletto ricettivo ha tre aspetti che, nella società patriarcale Indù, è costituito dallacorrispondente Trimurti. In Grecia, arrivarono poi gli Achei e sostituirono alla Grande Madre ilfiglio Zeus. Gli aspetti della Triplice Dea furono assunti dalla moglie Era, dalla bella Afrodite eda dee vergini come Artemide e Atena. Nella religione ellenica, la cerva (e spesso, perestensione, il cervo) era attributo costante di Artemide e, in quella romana, di Diana, divinità lunari ("dee bianche") e cacciatrici. La caccia ad essa era in rapporto con il tempo notturno econ la ricerca della saggezza. Lo dimostra anche il mito di Eracle. Tra le sue celeberrimefatiche, vi è infatti la cattura della cerva di Cerinea (monte tra l'Arcadia e l'Acaia), che aveva lecorna d'oro e gli zoccoli di bronzo ed era sacra ad Artemide. Per questo motivo doveva esserecatturata viva ed Eracle ci riuscì solo dopo averle dato la caccia per un anno, inseguendola finoalla terra degli Iperborei. Anteriormente al Filocolo del Boccaccio, è da segnalarsi "l'Erec et Enide", romanzo arturianoscritto nella seconda metà del XII secolo da Chrètien de Troyes. In esso l' "avventura dellacerva bianca" è apparentemente un gioco di corte a contenuto erotico, alludendo alla conquistadella donna; ma in realtà ha significato iniziatico. Dopo Boccaccio, analogo simbolismo è statoutilizzato nella "Cerva bianca", poemetto allegorico in ottave, diviso in sette canti, pubblicatoper la prima volta a Milano nel 1510, dove il Fregoso racconta la vicenda della ninfa Mirina,tramutata da Diana in cerva, e del cacciatore Fileremo, che la insegue con i cani Desio ePensiero, nel tentativo di restituirle figura umana, attraverso i regni di Diana, d'Antero ed'Amore.

(1) Di Adriano Romualdi (1940-1973), si veda: "Gli Indoeuropei. Origini e migrazioni", Edizioni di Ar, Padova 1978 ed anche"Sul problema d'una Tradizione Europea", edizioni di Vie della Tradizione, Palermo 1996.(2) Weisweiler Josef: storico e archeologo, autore, negli anni quaranta e cinquanta, di numerosisaggi in tedesco sulla preistoria indoeuropea e sui Celti.(3) Ea ha anche indicato che il cerchio solare, sottostante la falce lunare, è il comune ego (scr:ahamkara).

I Girfalchi

Frater Petrus: Anche nel caso di questo simbolo, è perfettamente inutile enumerare i disparatisignificati che il falco ha avuto fin dalla più remota antichità . Occorre invece indicare ilsignificato specifico che assume nel sogno di re Felice, tenendo conto che i falchi sono due eche non sono falchi qualunque, bensì girfalchi. Bisogna inoltre tener presente il rapporto che

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essi hanno con la cerva bianca: "Ma non dopo molto spazio gli parea vedere uscir de' vicini mari due girfalchi, i quali portavanoa' piè sonagli lucentissimi sanza suono, i quali egli allettava; e venuti ad esso, levava loro da'piedi i detti sonagli, e dava loro la cerbia cacciandogli da sè. E questi, presa la cerbia, lalegavano con una catena d'oro, e tiravansela dietro su per le salate onde infino in Oriente: equivi ad un grandissimo veltro così legata la lasciavano".Abbiamo già identificato, nelle onde del mare, il flusso del divenire e, nella Cerva, l'Intellettoricettivo (Buddhi), cioè la lunula che sormonta il simbolo del mercurio. Genericamente il falco èsimbolo degli dei solari. Qui però non si tratta del sole a sè stante (Intelletto Attivo, Purusha),ma del sole sottostante la lunula nel simbolo del mercurio, cioè dell'Ego o mente dualistica(Ahamkara), che valuta gli oggetti in relazione all'interesse del presunto soggetto. Il dualismo èsottolineato simbolicamente proprio dal fatto che i girfalchi sono due e dall'etimologia del loronome. In italiano può dirsi sia gir(i)falco, sia gerfalco. Le etimologie proposte sono più d'una esi lumeggiano a vicenda. La più generica fa derivare i prefissi "gir" e "ger" dal greco"hieros=sacro". Secondo questa etimologia, il girfalco (nome scientifico: falcus rusticolus)sarebbe perciò una variante nordica del "Falco Sacro" degli Egizi. In effetti il girfalco anchenella sua forma ricorda il Falco Sacro, ne è tuttavia più grande, con una lunghezza di circa60cm e un'apertura d'ali di m1,30-1,40, ed è quindi la specie di mole maggiore, fra quelleappartenenti al genere Falco. Questa etimologia, da un punto di vista simbolico, confermasemplicemente il fatto che questo falco costituisce un importante simbolo sacro. Una seconda etimologia tiene conto del fatto che l'uso di adoperare i falconi nella caccia èsoprattutto di provenienza germanica e che, in tale lingua, si trovano i termini corrispondenti:"girfalc" o "gèrfalko" (ant. ted.), "girvalke" (med. ted.), "geierfalk" (mod. ted.). Probabilmentederivano dal sostantivo che, nel medesimo linguaggio, significa "cupidigia, ingordigia": ant. ted."giri", med. ted. "gir" o "gàr", mod. ted. "gier". La supposta radice indoeuropea è"gar=inghiottire", da cui deriverebbe anche il sanscrito "gara=ingoiare", l'anglosassone"garfalca=avvoltoio" e il latino, ed anche italiano, "grassare=predare". Simbolicamente, questaetimologia sottolinea la cupidigia tipica della mente egoica. La terza etimologia fa derivare il nome dal tardo latino "gyrare", perchè questo uccello di rapinapersegue la preda con lunghi giri e facendo la ruota con la coda. Questa terza etimologiasottolinea il vagare della mente egoica attorno ai propri oggetti di desiderio, come anche la suavanità (far la ruota).In natura, i girfalchi rimangono spesso nelle vicinanze di stormi d'uccelli marini, che sono tra leloro prede preferite. Inoltre, fanno le uova in nidi posti sulle sporgenze delle scogliere. Nelsogno di re Felice, essi sorgono dal mare a sottolineare la connessione tra la comune visionedel divenire (il mare) e l'ego (i girfalchi), che è la principale causa di tale visione. L'ego trascinal'intelletto ricettivo (la cerva) nei flutti del divenire. Ciò è connesso con una visione erroneadel Sè (o Intelletto Attivo) e con l'abbandono della dimora della "sede mediana", ove il Sè simanifesta per mezzo di "luci" e dei cosiddetti "suoni inaudibili" (simboleggiati dai sonaglilucenti e silenziosi).Oltre che dall'Europa Settentrionale, i girfalchi giunsero in Italia dall'Oriente, portati dagli Arabi edai crociati. Nel Milione, Marco Polo ricorda i girfalchi delle isole dell'Asia Settentrionale, utilizzati dal GranKhan. Fu Federico II ad unificare le due scuole di falconeria nordica e orientale. Nel sogno di re Felice,i girfalchi trascinano la cerva in Oriente, simbolo del sole nascente e che, poichè nasce, èdestinato anche a tramontare e a scomparire. Non a caso il Dio dei Morti egizio, Sokar oSokaris, era rappresentato con la testa di falco. L'Oriente vale perciò, nel nostro casospecifico, come ulteriore simbolo dell'ego transeunte. Accenniamo al fatto che il veltro (1) a cuila cerva viene saldamente legata è il corpo fisico o saturnio, che ne limita la ricettività durantela vita terrena. La catena, con cui i girfalchi trascinano la cerva e la legano al veltro, è d'oro persimboleggiare l'aspetto attraente, che ha per l'ego, questo legame.

(1) Del veltro parleremo più diffusamente nel seguito.

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Il Lupo

Frater Petrus: Come molti altri simboli, il lupo ha perlomeno un duplice significato. Ciò è resoevidente già dalle favole di Esopo e di Fedro che presentano il lupo come un animale malvagio,feroce e ingannatore, ma a volte anche giusto e rispettoso della parola data. Si tratta di duepossibilità insite in chi ha natura guerriera e perciò il lupo è associato simbolicamente adAres-Marte. Non a caso, nel mito della fondazione di Roma, Romolo e Remo, figli di Marte eRea Silvia, furono allevati da una lupa.Per comprendere meglio il valore anagogico specifico che il Lupo ha nel sogno di Re Felice,occorre però esaminare altri due miti. Nella religione ellenica, il lupo non è associato solo adAres, ma anche ad Apollo. Questi fu partorito da Latona, che aveva assunto sembianze di lupa,e per questo ad Argo era chiamato Apollo Liceo [Lykaios (gr.) o Lyceius (lat.), cioè "Lupesco"].Sotto forma di lupo, animale connesso etimologicamente con la luce (Lykos, la parola greca perlupo, ha la stessa radice di Lyke, luce), ingoia il toro, simbolo del caos selvaggio e il suo gestoarchetipico è ripetuto poi, con le opportune varianti del caso, da molti eroi solari che uccidono ocatturano tori o esseri taurimorfi: Eracle, Teseo, Mitra. Se a questo punto ci ricordiamo quantogià è stato detto, riguardo alla sovrapposizione e sostituzione simbolica tra Cervo e Toro,verificatasi in un certo periodo della storia europea, ci ritroviamo immediatamente nella stessasituazione del sogno di Re Felice, dove un lupo "con ardente fame correva sopra la cerbia perdistruggerla". Sappiamo già che la cerva simboleggia l'Intelletto Ricettivo (Buddhi) e i dueGirfalchi il dualistico Ego (Ahamkara). Il Lupo simboleggia allora la mente nell'aspetto specificodi Sensorio Comune (Manas). Esso riunisce in unità le varie impressioni sensoriali e perciò,assieme alla luce dell'Intelletto Attivo (Purusha), è concausa di quei processi di astrazione chehanno sede nell'Intelletto Ricettivo. Contribuisce dunque a "gettar luce" sull'Intelletto Ricettivo(la cerva), ma nello stesso tempo lo "divora". Infatti, il Sensorio Comune è al servizio dell'Egoitàe perciò non compie un unione neutrale delle varie impressioni sensoriali, ma le smembra inuna parte importante per l'Ego (la "Figura") e in una parte, ben più vasta, ma egoicamentemeno importante (lo "Sfondo"). Poichè, nell'uomo comune, il Sensorio Comune taglia fuori lamassima parte delle impressioni materiali e sottili, annichila gran parte delle immense possibilitàpercettive dell'Intelletto Ricettivo.Nella mitologia nordica, Fenrir (o Fenris) era un lupo gigante, figlio di Loki. Quando Fenrir aprivale fauci, con una toccava la terra, con l'altra il cielo. Il Sensorio Comune è infatti "a contatto" dauna parte con i sensi materiali e sottili, dall'altra con l'insieme intellettuale dell'uomo. Il mitonarra che il dio Tyr, per incatenare definitivamente il malvagio animale, lo sfidò a rompere unlaccio sacro e indistruttibile. Fenrir fiutò l'inganno e disse di accettare, solo se qualcuno avesseposto la mano tra le sue fauci. Il lupo non riuscì a rompere il magico laccio, ma Tyr perse l'arto.L'incatenamento della, di per sé formidabile, energia del Sensorio Comune, per metterla alservizio dell'Ego, implica una menomazione delle nostre capacità generali. Fenrir è destinato adingoiare il Dio supremo Odino il giorno del Ragnarok. Quest'ultimo, essendo un tempo mitico,non coincide con un periodo di tempo particolare. Si verifica in qualsiasi momento, in qualsiasiuomo in cui la luce dell'Intelletto Attivo è divorata da un sensismo totalmente assorbente ematerialisticamente orientato.

Il Leone

Frater Petrus: Il Leone è anch'esso un simbolo polivalente, prova ne è che nella religioneEllenica era associato a disparate divinità come Artemide, Apollo, Efesto, Dioniso e Rea e, inquella romana, a Giunone e Fortuna. Così, ancora una volta, non esistendo un significatogenerico, si tratta di individuare il significato specifico che assume il leone nel sogno di ReFelice. Essendo gli animali simbolici, già visti, equivalenti ad aspetti dell'essere umano, c'è daaspettarsi che sia così anche per i rimanenti. Abbiamo già indicato che il leoncello equivalecome personaggio a Florio e che questi a sua volta ha relazione con i fiori di Zolfo. Ma di qualezolfo si tratta? Chimici e alchimisti ne conoscono perlomeno due varietà. Ad es. ne "I Secretidella Signora Isabella Cortese", opera alchimica del XVI sec. (1) si legge:

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" E però sappi che tutti i metalli sono composti di mercurio e zolfo, cioè di materia e forma. Ilmercurio è la materia et il zolfo è la forma, secondo la purità et l'impurità del mercurio e dellozolfo, mediante l'influenza che pigliano. E per questo l'oro è generato di argento purissimo ezolfo rosso è puro mediante il Sole, e però è il più perfetto metallo di tutti e l'argento è fatto dimercurio e di zolfo bianco, mediante l'influenza della Luna, e però è più perfetta degli altricinque, e non habbiam bisogno se non di zolfo con l'influenza del Sole, overo della Luna. Il qual zolfo è forma et anima dei metalli, et il resto è materia grossa dell'argento vivo".

Analogamente nell'anonimo Rosarium Philosophorum (2) si trova:"Poiché è stato detto che lo Zolfo dei Filosofi è rosso nel Sole per la più grande digestione, e loZolfo, bianco nella Luna, per minore digestione".

Il leone associato sia ad Apollo, sia ad Artemide si presta bene a rappresentare sia il solarezolfo rosso, sia il lunare zolfo bianco. Deve dunque trattarsi di un aspetto dell'essere umanoche si basa su una polarità sole-luna. Questo aspetto sappiamo essere il corpo "eterico" o vitale(forma corporis), agente proprio tramite la polarità insita nel "soffio" o "pneuma", che è quella tra il solare "prana" e il lunare "apana" (3). Si spiega così perchè, nel folclore medievale, sicredeva che i cuccioli del leone nascessero senza vita e che il genitore donasse loro la vitasoffiandoci sopra. Inoltre, sebbene fosse considerato re degli animali, si pensava avesse pauradegli scorpioni, del veleno dei serpenti e degli incendi, tutti simboli di ciò che distrugge la vita.

(1) Esistono dodici edizioni veneziane di questo testo, stampate tra il 1561 ed il 1677. Ne esisteanche una traduzione tedesca: Verborgene heimliche Kunste und Wunderwerke in derAlchymie, Medicin und Chyrurgia Hamburg 1592, 1596 e Frankfurt 1596.(2) Si tratta di un testo alchimico del XIII secolo, attribuito ad Arnaldo da Villanova (1235-1315).La prima pubblicazione a stampa del Rosarium è probabilmente la miscellanea pubblicata aFrancoforte sul Meno nel 1550, intitolata "Alchemia Opuscula complura veterumphilosophorum...", di cui esso costituiva la II parte.(3) Per maggiori dettagli si veda quanto detto da Ea nel quaderno dedicato alla Porta Ermeticadi Roma.

Il Veltro

Frater Petrus: E veniamo al simbolo del Veltro (o levriero) pregno di significato presso i Fedelid'Amore. Gli studiosi si sono concentrati per lo più sul significato politico che ha in Dante,identificandolo in un virtuoso principe, forse un imperatore, capace di ristabilire l'impero romanoe di riformare il mondo corrotto. Taluni lo identificano con Cangrande della Scala. Ed anche nelsogno di re Felice si parla di un "grandissimo veltro" (cioè di un Cane Grande). Ma noi ci stiamooccupando del livello anagogico del significato e perciò dobbiamo mettere da parte tutti i livelliinferiori di interpretazione. Nel III Dialogo de "Lo spaccio della bestia trionfante", GiordanoBruno fa dire a Sofia:

Lascia l'ombre ed abbraccia il vero.Non cangiare il presente col futuro.Tu sei il veltro che nel rio trabocca,

mentre l'ombra desia di quel c'ha in bocca.Aviso non fu mai di saggio o scaltro

perdere un bene per acquistarne un altro.A che cerchi si lungi diviso

se in te stesso trovi il paradiso?Anzi, chi perde l'un mentre è nel mondo,

non speri dopo morto l'altro bene.Perchè si sdegna il ciel dare il secondo

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a chi il primiero non caro non tenne;così, credendo alzarti, vai a fondo;ed ai piacer togliendoti, a le peneti condanni; e con inganno eterno,bramando il ciel, stai ne l'inferno.

Dunque il Veltro indica quel che nell'uomo lo rende completo, più completo di quanto non lo siada morto, perfino se in paradiso. Si tratta di un motivo comune a tutta la tradizione iniziatica, chefa affermare, ad es. a Pico della Mirandola (De Hominis Dignitate), la superiorità dell'uomorispetto agli stessi angeli, per la presenza in lui di aspetti oltre che "celesti", anche "terreni".Nella Tavola Smeraldina infine si legge:

"Il padre di ogni telesma, di tutto il mondo è qui. La sua forza è intera se essa è convertita interra".

Crediamo non sia necessario altro per identificare il veltro con il corpo fisico o saturnio, cherende completo l'uomo anche sul piano terreno. Nel sogno di Re Felice, il veltro è"grandissimo" sia nel senso fisico di "molto grosso" (= grossolano), sia per l'importanza che hanell'opus alchimico. A questo proposito, si può rivedere utilmente il capitolo de La TradizioneErmetica di Evola, intitolato "Saturno, Oro inverso".

Nella tecnica iniziatica indicata dal sogno, si fa uso del leone (= forza vitale, prana-apana) per"liberare" la cerva, riportare cioè l'intelletto ricettivo a tutta la sua potenza, facendone specchioperfetto (non più deformato dall'egoità) dell'intelletto attivo (purusha). Ma cosa simboleggial'intelletto attivo nel sogno? Ovviamente, come ha già indicato Sipex, colui che, purcorporeamente immobile, sottilmente agisce e, nella "sostanza" mentale (prakriti), provoca ilsogno ... Re Felice.

Sperando di aver chiarito, per quel che mi è possibile, la chiave anagogica del Filocolo, che lostesso Boccaccio ci fornisce, lascio al lettore il compito di servirsene nell'eventuale studiodell'opera completa.

12a) Appendice

Sogni Inventati e Sogni Reali

Luca Malagrida: a proposito di animali simbolici nei sogni vorrei che gentilmente qualcuno midesse una interpretazione di un sogno che recentemente mi ha molto colpito.Premessa: mi è piaciuto molto un film che si chiama "pulp fiction", ma ho sempre avutodifficoltà a ricordarne il titolo perchè prima mi veniva sempre in mente il nome"deep purple".Successivamente ho visto un altro film, "fight club", in cui il protagonista, durante una seduta dimeditazione collettiva veniva invitato a entrare con la mente nella propria caverna interiore perscoprire qual'era il suo animale guida (nella fattispecie un pinguino); mentre guardavo la scenami divertivo a pensare a quale potesse essere il mio (eventuale) animale guida e michiedevo come avrei fatto a scoprirlo. Il film mi piacque molto e vi trovai alcune analogie conl'altro che ho citato, tanto che lo definii un "pulp fiction" in chiave esoterico-psicanalitica (e per

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me, come ho detto, il nome "pulp fiction" è per qualche motivo strettamente associato a unaltro:"deep purple"). La mattina dopo all'alba, immerso in un dormiveglia che è durato vari minuti avevo in mente unnome che andava e veniva quasi pulsando: "deep turtle", non "deep purple"(più omeno:"porpora scura"), ma "deep turtle": "tartaruga profonda"; e insieme al nome mi sembravadi vedere la testa di una tartaruga dalle scaglie smeraldine e uno sguardo che veramente misembrava venire da antichità insondabili. Ho pensato che questa fosse la risposta alla miadomanda su quale potesse essere il mio animale guida. Mi farebbe molto piacere che qualcunomi dicesse qualcosa sulle modalità così "linguistiche" di questo sogno (e tra l'altro non ricordo diaver sognato in inglese prima d'ora) e sul fatto che abbia "visto" proprio una tartaruga.Ea: Si narra che un maestro Zen, per mettere alla prova un discepolo, una mattina gli disse:

"Sai, stanotte ho fatto un sogno..." "Ah sì?"- rispose il discepolo - "allora beviti una tazza di the!"

"Bravo!" - concluse il maestro - "se tu mi avessi risposto diversamente, ti avreicacciato!"

Luca Malagrida: però io non sono un maestro zen e non stavo mettendo alla prova nessuno.Pensavo che piuttosto che limitarsi solo all'esegesi di assolutamente tutto ciò che è stato dettoscritto e sottinteso da una congerie un po' eterogenea di maestri più o meno riconosciuti,sarebbe stato interessante capire come si "fa" su sè stessi (se volete "in corpore vili"dato che visto contraddicendo) questa ricerca; come si intraprende con le proprie gambe questo camminosulla "via"; e per farlo ovviamente serve una guida che, per l'appunto,"guidi" facendosi capire.Ricordo infine, naturalmente sorridendo, che in un racconto del libro di "mu mon" (ossia: la portache non è una porta") un maetro zen si becca 500 reincarnazioni sotto forma di volpe dellemontagne per aver dato una risposta troppo secca a un allievo.Frater Petrus: A scanso di ogni equivoco, vorrei precisare (ma pensavo fosse evidente) che ilSogno di Re Felice è ovviamente creazione fantastica di Boccaccio, nel quale gli animalirappresentano volutamente aspetti della struttura interiore dell'uomo, così come la culturamedievale (influenzata soprattutto dall'aristotelismo) la concepiva. Non tento affatto, perciò, nèuna interpretazione psicanalitica, che non avrebbe senso, trattandosi di sogno razionalmentecreato dall'autore e non nato dalle latebre dell'anima, nè interpretazioni sciamaniche onew-age, del tutto estranee all'Italica Schola, all'epoca di Boccaccio come oggi. Rammento chequesto è un forum dedicato al Gruppo di Ur e ne vuole idealmente proseguire gli studi. Quantoalla psicanalisi, allo sciamanesimo e al new-age esistono forum sicuramente più "attrezzati", intali specialità , ai quali rivolgersi (1). Aggiungo che, in magia, la pratica sul sogno ha sostanzialmente due fasi:a) Consapevolezza dei sogni: che nulla ha a che fare con una qualsivoglia "interpretazione"degli stessi. Si tratta solo di rendere il sogno "lucido".b) Trasformazione volontaria dei sogni (ormai resi lucidi) in stati di assorbimentomagico-meditativo.Il discepolo dello Zen (disciplina solare quanto la magia), a cui faceva riferimento la "storiella"narrata da Ea, era perfettamente consapevole di ciò ed è per questo che non risponde almaestro: "Cosa hai sognato?". Il contenuto essendo ininfluente rispetto alla lucidità da mantenersi. Il consiglio "Beviti unatazza di the" si deve al fatto che da un maestro ci si aspetta che sia pervenuto al II stadio dipratica (la trasformazione volontaria dei sogni) e perciò il ricadere nel I stadio, ancorainvolontario, indicato dalla frase "Sai stanotte mi è capitato di fare un sogno..." può essere fruttosolo di un turbamento momentaneo del maestro, superabile (nell'augurio del discepolo) con unacomune tazza di the. Niente di offensivo dunque da parte di nessuno dei due.

(1) [n.d.u. : E' perlomeno singolare che una persona che pratica una "via", certo non consigliatada noi, alla prima incertezza chieda consiglio proprio a noi. Non dovrebbe chiederlo a chi quellavia gli ha indicato? (In una lettera privata, Malagrida accenna ad una specie di iniziazione daparte di un musicofilo)].

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Deo_Ame: Fr. Petrus ha ben evidenziato che il lavoro sul sogno, proprio dell'alta magia, èbasato sulla lucidità e sulla susseguente possibilità di controllo. Ciò differenzia l'alta magia daqualsiasi scienza tradizionale o moderna, che propugni una tecnica basata sull'interpretazione,come l'oniromanzia o la psicoanalisi. Il mago apprezza il sogno così com'è, ritenendolo unaforma spontanea del "pensiero libero dai sensi", della quale occorra soltanto assumere ilcontrollo, per avere a disposizione un potente strumento operativo, non ostacolato dalleimpressioni sensoriali dello stato di veglia. Chi "interpreta" svaluta un po' il sogno così com'è,preferendo ritenerlo come una sorta di codice che debba esser tradotto. Questo crea unmucchio di problemi:1) Che si tratti veramente di un codice in cui si trasforma qualcos'altro è solo un'ipotesisuggestiva finchè si vuole, ma mai veramente provata. Si dirà che lo dimostrano glioniromanti oppure Freud. Ma l'unica dimostrazione possibile sarebbe quella di fornire un codicedi interpretazione effettivamente valido sempre. Purtroppo gli oniromanti spesso si sbagliano e ilcodice proposto da Freud non fu accettato neppure da discepoli diretti come Jung o Adler, chene proposero altri. E anche la psicoanalisi, proprio come l'oniromonzia, se a volte può averequalche effetto positivo sul paziente, altre volte non ce l'ha. I successi, in entrambi i casi, possono spiegarsi diversamente. Se un oniromante azzecca unaprevisione, ciò può essere dovuto semplicemente alla sua sensibilità o capacità intuitiva epertanto la previsione può benissimo non esser affatto contenuta nel sogno. Se uno psicanalistaha un effetto positivo sul suo paziente, ciò può esser semplicemente dovuto al suo influssosuggestivo o alla sua capacità di dialogo, senza che l'interpretazione del sogno c'entri un belniente. Del resto le libere associazioni di parole, fornite dal paziente a partire dagli elementi delsogno, condurranno inevitabilmente, prima o poi, a simboli interpretabili in base alla libido (sel'analista è freudiano) o alla volontà di potenza (se è adleriano) o alla necessità di armoniainteriore (se è junghiano) etc. Dunque il lavoro sul sogno può essere solo una scusa pergenerare la catena di libere associazioni (che si sarebbe generata comunque a partire anche daun altro sogno o da una semplice parola stimolo) e non contenere minimamente il significatoche gli si attribuisce.2) Chi ritiene di dover "interpretare" corre perciò il rischio di smarrirsi semplicemente neimeandri delle proprie ... "interpretazioni", assai più illusorie del sogno, che perlomeno, in sèstesso, costituisce una forma sottile di percezione diretta.Taluno dirà che i metodi basati sull'interpretazione siano di carattere maggiormentemistico-contemplativo, dal momento che vanno in cerca di un "messaggio" vuoi dell'inconscio,vuoi di qualcosa di superiore. Temo però che i veri mistici non sarebbero d'accordo. Ad es. S.Giovanni della Croce ritiene che se le immagini oniriche o di altra provenienzapossono venire da Dio, possono però avere anche altre provenienze e venire pure daldiavolo. Il suo metodo consiste nel non attaccarsi ad esse: così facendo si avrebbe un doppiovantaggio: se le immagini provengono dal demonio, non attaccandosi ad esse si elimina ilpossibile influsso malefico; se invece vengono da Dio esse influiranno positivamente,soprattutto se il mistico, non arrovellandosi inutilmente su di esse, mantiene quieto il suo animo.Anche nell'alta mistica quindi: nessuna interpretazione! (1)L'alta magia si distingue dall'alta mistica solo perchè alla semplice fase di lucidità (opera albianco) fa seguire una fase attiva di controllo (opera al rosso).

(1) S. Giovanni della Croce, Opere, Postulazione generale dei Carmelitani Scalzi, Roma, 1975.

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13) Fedeli d'Amore e Via del Sacro Amore

Venvs Genitrix: In Eros e Spagiria (1), Massimo Scaligero scrive: "Abbiamo altresì rilevatocome il Sacro Amore non sia identificabile con l'eros mistico, nè con la bhakti, nè con ladevozione della Philocalia, nè con l'emozionalismo sufico, nè con l'esperienza dei 'Fedelid'Amore', essendo l'Assolutamente Nuovo: la relazione pura dell'Io, possibile nell'epocadell'Anima Coscente, la radicale volontà ritrovata nella coscienza di sé, come coscienzadell'essere dell'altro: il fondamento del puro pensiero realizzato nell'incontro dell'Io dell'altro".Questa affermazione, che coinvolge anche i Fedeli d'Amore, aggiunge, al già difficile compitodegli studiosi di individuare dottrine e metodi di questa scuola iniziatica, anche quello diadeguarne eventualmente i metodi all'uomo attuale.

(1) Il saggio si trova in M.Scaligero "Yoga, Meditazione, Magia", Teseo Roma 1971.

Frater Petrus: E' mia impressione che Scaligero abbia tratto questa deduzione dal fattoche Dante e i Fedeli d'Amore, vivendo sul finire della cosiddetta IV epoca postatlantidea, siservissero di un metodo iniziatico, che non può ancora definirsi rosacrociano. Tuttavianon bisogna dimenticarsi che soprattutto i "tardi" Fedeli d'Amore, come Boccaccio, da un puntodi vista temporale e ideologico, sembrano "passare il testimone" proprio ai Rosacroce. Siamoperciò convinti che le loro tecniche iniziatiche si avvicinassero già molto a quelle adatte all'uomocontemporaneo. In questo forum abbiamo cercato di dare un piccolo contributo a dissuggellaretali tecniche e abbiamo anche indicato, in specifico, una di esse che, rivelata da Cavalcanti, èassai affine ad una meditazione di Scaligero. Siamo altresì consapevoli dell'importanza assoluta che, in relazione alla "via a due vasi", hannoi pur sintetici scritti di Introduzione alla Magia, firmati Abraxa. Tali saggi sono stati il puntodi partenza sia di Evola, sia di Scaligero, che però hanno proceduto in due direzioni diverse:Evola, in Metafisica del Sesso, si è servito degli scritti di Abraxa come chiave (2) per una visioneretrospettiva di tutti i passati aspetti magico-religiosi della sessualità. Scaligero invece è partitoda quei saggi, per additare una via del Sacro Amore all'uomo futuro. Non stupisca questaaffermazione: Scaligero soleva affermare che R.Steiner non si era mai espresso direttamentesulla via del Sacro Amore, ma che tuttavia nel suo insegnamento c'erano tutti gli strumentinecessari per delinearla. Scaligero è dunque partito dalla sintetica esposizione di Abraxa, persaggiarla in tutti i suoi dettagli, grazie agli strumenti forniti da Steiner. Non è l'unico campo in cuiha proceduto così: ad es., partendo dalle "Istruzione per la Conoscenza del Respiro" di Abraxa,è l'unico scrittore che abbia saputo aggiungere importanti dettagli a quell'opus, non ultimi quellirelativi all'esperienza dell' "Arcangelo dell'Aria". Forse è un particolare non a tutti noto cheScaligero fu membro della Miriam, prima di dedicarsi all'ascesi steineriana (3). In questo forumsono già stati presentati alcuni suoi scritti sull'argomento del Sacro Amore, stesi in un'epoca dicollaborazione con il cognato Paolo Virio. Altri scritti attendono di essere esaminati.

(1) M. Scaligero, "Forma Attuale della Conoscenza Metafisica", in La Via della Volontà Solare,Tilopa, Roma, 1986.(2) Nel cap. "La Miriam e la Piromagia" afferma infatti: "Le due monografie ora citate sono forsequelle in cui gli insegnamenti segreti di magia sessuale a finalità iniziatiche sono esposti con unminimo di veli".(3) In relazione al periodo immediatamente precedente a quello antroposofico così si esprime inDallo Yoga alla Rosacroce (Perseo, Roma, 1972): "Evola ... con cordiale correttezza mi indirizzòa Colazza e a Bonabitacola: quest'ultimo già lo conoscevo per la mia precedente appartenenzaalla Miriam. Da Colazza sarei andato più tardi. Riaccostai Giulio Parise, Arturo Reghini, talunivalorosi amici della Miriam come Ciccio Modugno e Salvatore Mergè ..."