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311 12. Gestione dei sistemi forestali di Loredana Barreca , Pasquale A. Marziliano * , Giuliano Menguzzato * , Luca Pelle * , Giancarlo Ruello ** , Angelo Scuderi * 1. Introduzione Lo studio prevede una “valutazione degli aspetti ecologici, economici e sociali che interagiscono con l’efficienza e la funzionalità del bosco e, di conseguenza, consente la scelta di un uso sostenibile della risorsa rinnovabile” (Ciancio, 1998) e di adottare una gestione che tenda verso soluzioni in grado di soddisfare la più ampia richiesta di beni e servigi, non solo sul piano ecologico e ambientale ma anche su quello storico e culturale. Esso contiene gli elementi indispensabili per quanto attiene la struttura dei sistemi forestali e consente di individuare una strategia di sviluppo sostenibile che sia in grado di mettere a disposizione delle popolazioni locali e dell’intera società, risorse materiali e opportunità. Esso rappresenta, pertanto, un esempio di pianificazione forestale di secondo ordine riferita a un comprensorio che manifesta caratteristiche comuni sia a livello forestale sia a livello economico e sociale. Rappresenta il punto di riferimento per l’elaborazione di piani aziendali basati su una gestione che non penalizzi gli interessi dei proprietari a, al contempo, salvaguardi gli interessi della collettività e la continuità della produzione e dei servigi che il bosco è in grado di fornire (Ciancio, 1998). Si tratta di un Piano Territoriale Forestale (sensu Bovio et al., 2004, IPLA, 2004, Cullotta e Maetzke, 2008a, Cullotta e Maetzke, 2008b) e costituisce un esempio di pianificazione intermedia tra quella regionale o provinciale e quella di tipo aziendale (Agnoloni et al, 2009). Sulla base di quanto affermato sopra questa scala sembra la più idonea a considerare la sostenibilità del rapporto tra l’uomo e il bosco e a garantire la tutela degli interessi della collettività nei confronti del bosco stesso (Sottovia, 2001; Cantiani e Bettelini, 2002; Cullotta e Maetzke, 2008b). Come afferma anche Bernetti (1989), la pianificazione forestale territoriale consiste, appunto, nella “raccolta di notizie e conseguente formulazione di decisioni relative all’uso di tutte le risorse e alla conservazione delle caratteristiche dell’ambiente”. Pertanto questo studio Dipartimento di Gestione dei Sistemi Agrari e Forestali (GESAF), Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria. ** Scienze e Tecnologie applicate all’Ambiente Sezione Tecnologie innovative per la Gestione del Territorio, Università degli Studi di Siena.

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12. Gestione dei sistemi forestali di Loredana Barreca∗, Pasquale A. Marziliano*, Giuliano Menguzzato*, Luca Pelle*, Giancarlo Ruello**, Angelo Scuderi* 1. Introduzione Lo studio prevede una “valutazione degli aspetti ecologici, economici e sociali che interagiscono con l’efficienza e la funzionalità del bosco e, di conseguenza, consente la scelta di un uso sostenibile della risorsa rinnovabile” (Ciancio, 1998) e di adottare una gestione che tenda verso soluzioni in grado di soddisfare la più ampia richiesta di beni e servigi, non solo sul piano ecologico e ambientale ma anche su quello storico e culturale. Esso contiene gli elementi indispensabili per quanto attiene la struttura dei sistemi forestali e consente di individuare una strategia di sviluppo sostenibile che sia in grado di mettere a disposizione delle popolazioni locali e dell’intera società, risorse materiali e opportunità. Esso rappresenta, pertanto, un esempio di pianificazione forestale di secondo ordine riferita a un comprensorio che manifesta caratteristiche comuni sia a livello forestale sia a livello economico e sociale. Rappresenta il punto di riferimento per l’elaborazione di piani aziendali basati su una gestione che non penalizzi gli interessi dei proprietari a, al contempo, salvaguardi gli interessi della collettività e la continuità della produzione e dei servigi che il bosco è in grado di fornire (Ciancio, 1998). Si tratta di un Piano Territoriale Forestale (sensu Bovio et al., 2004, IPLA, 2004, Cullotta e Maetzke, 2008a, Cullotta e Maetzke, 2008b) e costituisce un esempio di pianificazione intermedia tra quella regionale o provinciale e quella di tipo aziendale (Agnoloni et al, 2009). Sulla base di quanto affermato sopra questa scala sembra la più idonea a considerare la sostenibilità del rapporto tra l’uomo e il bosco e a garantire la tutela degli interessi della collettività nei confronti del bosco stesso (Sottovia, 2001; Cantiani e Bettelini, 2002; Cullotta e Maetzke, 2008b). Come afferma anche Bernetti (1989), la pianificazione forestale territoriale consiste, appunto, nella “raccolta di notizie e conseguente formulazione di decisioni relative all’uso di tutte le risorse e alla conservazione delle caratteristiche dell’ambiente”. Pertanto questo studio

∗ Dipartimento di Gestione dei Sistemi Agrari e Forestali (GESAF), Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria. ** Scienze e Tecnologie applicate all’Ambiente – Sezione Tecnologie innovative per la Gestione del Territorio, Università degli Studi di Siena.

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vuole essere un contributo alla formulazione di un Piano Forestale Territoriale di Indirizzo, ossia di uno strumento di pianificazione di una realtà territoriale omogenea da un punto di vista geografico e amministrativo, come ad esempio il territorio di una Comunità Montana o di un bacino. Le informazioni contenute in questo documento saranno, quindi, alla base della pianificazione a livello aziendale (comune, singoli proprietari o associazioni tra singoli e proprietà pubblica) in modo da avere una visione e una gestione congruente con ipotesi da tutti condivise e concorrenti al raggiungimento di obiettivi comuni. Solo così si potranno attivare le sinergie indispensabili per un’efficace e duratura politica del territorio. Una politica che, recependo le linee guida della programmazione forestale a livello nazionale, sarà capace di conservare e valorizzare le foreste e i prodotti forestali nell’ottica di una gestione sostenibile delle risorse rinnovabili e più in generale del territorio, tenendo conto delle componenti ecologiche, socio-culturali ed economiche nel rispetto degli impegni internazionali e comunitari sottoscritti dal nostro Paese (D. 16-6-2005, GU n° 255/2-11-2005). Sarà così possibile attuare (1) una corretta e puntuale tutela dell'ambiente, attraverso il mantenimento, la conservazione e l'appropriato sviluppo della biodiversità negli ecosistemi forestali e il miglioramento del loro contributo al ciclo globale del carbonio, il mantenimento della salute e vitalità dell'ecosistema forestale, il mantenimento, la conservazione e lo sviluppo delle funzioni protettive nella gestione forestale, con particolare riguardo all'assetto idrogeologico e alla tutela delle acque; (2) perseguire il rafforzamento della competitività della filiera foresta-legno attraverso il mantenimento e la promozione delle funzioni produttive delle foreste - sia dei prodotti legnosi che non – e attraverso interventi tesi a favorire il settore della trasformazione e utilizzazione della materia prima legno; (3) favorire il miglioramento delle condizioni socio-economiche locali ed in particolare degli addetti, attraverso l'attenta formazione delle maestranze forestali, la promozione di interventi per la tutela e la gestione ordinaria del territorio in grado di stimolare l'occupazione diretta e indotta, la formazione degli operatori ambientali, delle guide e degli addetti alla sorveglianza del territorio dipendenti dalle amministrazioni locali, l'incentivazione di iniziative che valorizzino la funzione socio-economica della foresta, assicurando un adeguato ritorno finanziario ai proprietari o gestori. 2. La gestione forestale Gli ultimi decenni del secolo appena trascorso sono stati caratterizzati da mutamenti talmente rapidi in tutti i settori della società, senza paragoni nella storia, che hanno comportato un radicale cambiamento nel modo di pensare,

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di comportarsi, di agire e i cui effetti hanno coinvolto l’uomo e il modo stesso di vivere e di rapportarsi con ciò che lo circonda. Dal punto di vista strettamente forestale, ciò ha determinato anche una profonda evoluzione nel modo di interagire dell’uomo con il bosco, di considerarlo e, di conseguenza, di gestirlo. Lo sviluppo del pensiero ecologico ha portato ad un mutamento scientifico-culturale che ha cambiato il modo di interpretare il concetto di gestione e conservazione delle risorse naturali. Ciononostante in questi ultimi lustri il modo di vivere ha accentuato il distacco dalla natura. L’uomo vive in modo molto discontinuo il rapporto con il bosco e con l’ambiente che lo circonda. Molto spesso è un rapporto limitato ai soli aspetti turistico-ricreativi. Manca quella quotidianità di rapporti che nel passato legava l’uomo alla natura, fonte diretta e indiretta di materie prime indispensabili per la stessa vita. I mutamenti nella società non hanno cambiato solamente il rapporto uomo-bosco, ma hanno inciso in modo evidente anche sulla qualità di beni e servizi che la società, nel suo complesso, chiede al bosco e che il bosco è chiamato ad erogare. Nella società postindustriale e postmoderna, del terziario avanzato e della comunicazione globale – il mondo appunto come villaggio globale dove tempo e spazio sembrano quasi annullati – l’importanza della produzione legnosa che negli ultimi due secoli ha condizionato la gestione del bosco, si è notevolmente ridotta. In sintesi, si è gradualmente sviluppata, anche nell’opinione comune, una coscienza ecologica. La presa di coscienza delle problematiche ambientali e la consapevolezza della necessità di adottare forme di comportamento riguardose nei confronti della natura che non implichino danni per l’ambiente, ha determinato l’elaborazione e l’applicazione di forme di gestione che non alterino i complessi equilibri che regolano i sistemi naturali oltre la capacità di resilienza dei sistemi stessi. È la gestione forestale sostenibile che implica un attento esame delle varie realtà senza aver la pretesa di gestirle in funzione di una predeterminata composizione specifica o di obiettivi da raggiungere, poiché questo comprometterebbe la loro dinamicità e diversità. I suddetti sistemi sono così complessi da essere praticamente impossibile conoscere e gestire tutte le loro componenti (Marcot, 1997). Il paesaggio forestale, e non solo, è spesso il risultato di un’azione antropica che da secoli modella l’ambiente, ma oggi assume anche un valore culturale. Clark (1989) sostiene che la natura del terzo millennio sarà il risultato dei valori della Società. L’uomo conserverà attivamente solo ciò cui attribuisce importanza e, pertanto, è fondamentale esplicitare i valori che sono alla base della gestione dei sistemi forestali.

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2.1. La gestione forestale sostenibile Per molto tempo il bosco è stato considerato una macchina per produrre legno, un’officina a cielo aperto, utilizzato non come una risorsa rinnovabile, ma una miniera dalla quale estrarre in breve tempo quanto più possibile (Ciancio, 1998). La coltivazione e la gestione avevano l’obiettivo di conseguire per un tempo illimitato il massimo beneficio fondiario e il massimo di beni e servigi. La perpetuità del bosco veniva assicurata attraverso l’applicazione di tecniche colturali atte a garantire la rinnovazione del popolamento arboreo (il trattamento) e la pianificazione delle operazioni selvicolturali, nel tempo e nello spazio, in modo da fornire un prodotto annuo, massimo e pressoché costante. Per garantire una produzione legnosa massima e costante, la selvicoltura e la gestione forestale classica hanno portato alla semplificazione del bosco (Ciancio et al., 1999; Nocentini, 2001). A partire dalla seconda metà del secolo scorso, il rapporto bosco-uomo è profondamente cambiato. La crisi della società industriale, la presa di coscienza, anche da parte della gente comune, delle gravi problematiche di natura ambientale e l’affermazione del pensiero ecologico, hanno evidenziato, in modo chiaro, la necessità di ripensare il modello di sviluppo fino allora dominante, quale presupposto per la stessa possibilità e qualità di vita dell’uomo sul pianeta. Soprattutto, l’elaborazione e la formulazione del pensiero ecologico ha dato luogo ad un importante dibattito sui temi ambientali e generato tutta una serie di movimenti culturali che, tra l’altro, hanno promosso la rivisitazione critica delle problematiche relative alla gestione forestale determinandone una evoluzione. Nel pensiero forestale si è registrato il passaggio da una concezione di tipo prevalentemente produttivistico, che valuta i sistemi, le tecniche colturali e i metodi di pianificazione in base alla misura della produzione legnosa, a quella attuale in cui al sostantivo gestione si associa l’aggettivo sostenibile, che tiene conto non solo del prodotto legnoso ma anche delle variabili ecologiche e sociali (Ciancio, 1998). Il bosco non è un semplice insieme di alberi di interesse economico. È un soggetto, un soggetto di diritti, un bene di interesse pubblico (Ciancio, 1988), una delle condizioni della vita sulla terra (Siegwald, 1993). Non è un bene totalmente disponibile che possa essere gestito secondo i principi dell’economia di mercato (Ciancio e Nocentini, 1996; 2001). Le nuove conoscenze nel campo dell’ecologia e della biologia, i mutamenti di natura socio-economica e culturale che hanno investito la Società nel suo complesso, spesso costringendola a grandi cambiamenti in tempi estremamente brevi, impongono un rapido mutamento anche della gestione forestale. La società richiede, con insistenza, una maggiore attenzione nei

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riguardi della foresta. E i forestali ne debbono tener conto (Ciancio e Nocentini, 1995). Da tutto ciò deriva che, per conseguire l’efficienza complessiva dei sistemi forestali e la conservazione della biodiversità, è necessario abbandonare la visione riduttiva che vede il bosco come un insieme di alberi di interesse economico o una lista di specie, per considerarlo e gestirlo invece come un sistema biologico complesso e adattativo che impara ed evolve. Il bosco reagisce a ogni evento naturale, a ogni azione umana, determinando nuove realtà, sintesi di interazioni e interconnessioni (Ciancio e Nocentini, 1996). La presa di coscienza che il bosco è un sistema biologico complesso, in grado di auto-organizzarsi, porta alla concezione della selvicoltura sistemica. Ciò significa che la conservazione della diversità biologica può essere efficacemente perseguita solo se si adotta un approccio sistemico basato, appunto, sulla selvicoltura sistemica (Ciancio e Nocentini, 1996; 1998; Ciancio et al., 2003). Sul piano della gestione, l’applicazione della selvicoltura sistemica comporta profondi cambiamenti rispetto alla quella classica. Essa presuppone un bosco astrutturato, disomogeneo, autopoietico. L’intervento colturale è mirato ad assecondare i meccanismi relazionali tra le parti che compongono il sistema, favorendo le interazioni tra queste e l’ambiente. Obiettivo dell’azione selvicolturale è il perseguimento dell’efficienza funzionale dell’ecosistema. Gli strumenti che consentono il raggiungimento di questi obiettivi sono basati sull’esecuzione di interventi cauti, continui e capillari, effettuati su piccole superfici mediante il prelievo di singole piante o di piccoli gruppi di alberi. Il fine di queste azioni colturali è quello di favorire lo sviluppo dei nuclei di rinnovazione naturale già esistenti, oppure l’ingresso della rinnovazione naturale. Le operazioni colturali non seguono specifici schemi. Si effettuano in relazione alle necessità del popolamento in modo da facilitare una rinnovazione naturale, continua e diffusa. I soprassuoli sono, il più possibile, diversificati per composizione, struttura e funzionalità. Si ottengono popolamenti la cui composizione specifica è in equilibrio dinamico con l’ambiente. Gli algoritmi colturali prevedono la verifica dei risultati conseguiti con gli interventi. Ciò consente l’eventuale correzione ed eliminazione degli errori. Il monitoraggio bioecologico degli effetti della reazione dei popolamenti ai vari interventi effettuati deve essere la guida per apportare eventuali correttivi. Si adotta l’approccio scientifico di prova ed errore. La scarsità di conoscenze in campo biologico e la stessa complessità degli ecosistemi, che determina comportamenti incerti ed imprevedibili, rendono un certo grado di incertezza e di rischio, elementi inevitabili della gestione (Ludwig et al., 1993).

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Il bosco è un sistema caratterizzato da una organizzazione e una struttura ad alto contenuto di informazione, costituito da un gran numero di elementi che interagiscono fra loro. Le relazioni interne si connettono con una rete esterna di relazioni più ampia. Il gioco delle interazioni è un processo sempre in atto e comporta il principio di incertezza, di indeterminatezza e di incompletezza, tipico di tutto ciò che è complesso. Pertanto, la gestione deve essere flessibile, adattativa, sperimentale a scale compatibili con le scale delle funzioni critiche degli ecosistemi (Holling, 1978; Walters, 1986). Essa, di conseguenza, deve trasformarsi in un processo di apprendimento e in un continuo esperimento dove la verifica delle azioni precedenti consentono una maggiore flessibilità e un migliore adattamento alle condizioni di incertezza in cui si lavora (Grumbine, 1994). La provvigione è basata sul criterio minimale. È maggiore o uguale a 200-250 m3 a ettaro se il bosco è costituito prevalentemente da specie a temperamento intermedio; a 300-350 m3 a ettaro se è edificato da specie che sopportano l’aduggiamento (Regione Calabria – P.M.P.F., 2008). Questi valori rappresentano i limiti insuperabili affinché, pur nelle diverse condizioni stazionali, compositive e strutturali e delle reali necessità dei singoli popolamenti, si possano conservare e aumentare la biodiversità e la complessità del sistema. La selvicoltura sistemica prefigura boschi misti che non presentano una struttura definita nello spazio e nel tempo. Vale a dire, che non si caratterizzano né per la struttura coetanea né per quella disetanea né, tantomeno, per quella che comunemente è definita irregolare (Ciancio, 2002). I boschi trattati secondo i criteri guida della selvicoltura sistemica costituiscono silvosistemi in equilibrio con l’ambiente. Anche su superfici limitate c’è la presenza di condizioni ecologiche varie, di vari stadi di sviluppo, di una pluralità di nicchie ecologiche e di spazi trofici diversificati. È garantita anche la presenza di una ricca e diversificata componente vegetale e animale. La gestione forestale sostenibile, quindi, va molto al di là della protezione di singole specie o di biotopi, interessa gli ecosistemi e il loro funzionamento e include i processi co-evolutivi tra le componenti che li costituiscono. Ecosistemi diversi danno luogo a forme di vita, culture e habitat diversi, la cui co-evoluzione determina la conservazione della biodiversità (Ciancio, 2007). La gestione di una risorsa rinnovabile, quale è appunto il bosco, non ne esclude a priori l’uso ma impone limiti dati dal ciclo naturale di rinnovazione della risorsa stessa. I forestali sono chiamati a essere i difensori, i promotori dell’interesse generale per ciò che riguarda la foresta (Siegwald, 1995). Hanno, quindi, responsabilità verso la società tutta, non solo quella di oggi, ma anche di ieri e, soprattutto, di domani. L’uomo per poter vivere deve

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coltivare la natura in modo responsabile, per non mettere in discussione la base stessa dell’esistenza dell’umanità. Quindi l’uomo ha il diritto-dovere di gestire il bosco in modo da soddisfare le proprie esigenze e di trasmetterlo alle generazioni future in condizioni almeno pari, se non addirittura migliori, rispetto a quelle in cui gli è stato consegnato (Ciancio et al., 1998). L’uomo chiamato a gestire i sistemi forestali deve trovare soluzioni ecologicamente sostenibili, economicamente proficue e socialmente accettabili (Gilmore, 1977). Si deve porre l’obiettivo di recuperare la composizione, la struttura e la funzionalità degli ecosistemi naturali o alterati, al fine di conseguire la sostenibilità nel lungo periodo (Meffee e Carroll, 1997). Da qui, la necessità di guardare con maggiore attenzione alle modalità e alle conseguenze della gestione forestale. “Il bosco è un sistema biologico complesso che reagisce a ogni evento naturale o a ogni azione umana determinando una nuova realtà, sintesi di interazioni e interconnessioni (Ciancio, 1998). Quando l’uso di una risorsa supera la capacità di resilienza del sistema stesso, si hanno forti diminuzioni del capitale naturale, cui si coniugano modificazioni degli habitat, il decremento della capacità di accumulo di carbonio, la perdita e il degrado dl suolo, l’inquinamento e la riduzione dell’acqua, la contrazione della microflora e della microfuana, il calo della presenza della macrofauna, con danni ambientali talvolta irreversibili. 3. La gestione forestale sostenibile nei sistemi forestali La complessità della realtà forestale presente nei boschi che ricadono nel territorio della Comunità Montana impone una differenziazione degli interventi in rapporto alle diverse tipologie e in funzione del diverso grado di protezione cui molte zone sono sottoposte. Qualsiasi intervento selvicolturale deve sottendere un comune filo conduttore, rappresentato dalla necessità di prevedere, sempre e comunque, interventi che mirino alla conservazione e al miglioramento dei popolamenti. Ciò significa operare in accordo con i processi naturali in atto e con la variabilità esistente, piuttosto che tentare di modificarli e controllarli. Uomo e esseri viventi devono sviluppare una comune cooperazione basata su mutui interessi (Grumbine, 1994). Solo così la capacità di resistenza e di resilienza del sistema, i processi auto-organizzativi e la struttura dell’ecosistema potranno essere mantenuti e servire il sistema stesso e la sua biodiversità e, insieme gli interessi dell’umanità nel lungo periodo (Holling e Meffee, 1996).

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Gli strumenti che possono consentire il raggiungimento di questo obiettivo sono quelli tipici della Gestione Forestale Sostenibile, ossia la selvicoltura sistemica e la rinaturalizzazione dei sistemi semplificati a seguito dell’applicazione della selvicoltura tradizionale classica. Una selvicoltura quest’ultima che, mirando a privilegiare quasi esclusivamente gli aspetti di ordine finanziario legati alla gestione del bosco, lo ha semplificato nella struttura riducendolo spesso a un semplice insieme di alberi. Ha imposto turni molto inferiori alla longevità delle varie specie considerandole mature quando le loro dimensioni sono ancora inferiori rispetto a quelle massime raggiungibili. L’esame delle varie tipologie boschive ha evidenziato come esistano cenosi che, pur edificate da specie forestali tipiche delle varie zone e in equilibrio con le caratteristiche ecologiche delle diverse aree, per le finalità e modalità di gestione cui sono sottoposte nel passato, si configurano più come attività tipiche dell’arboricoltura da legno piuttosto che come sistemi forestali complessi. Molte realtà caratterizzate dalla presenza delle latifoglie hanno sofferto, nel passato, l’impatto negativo dell’azione dell’uomo, per cui oggi richiedono un’attenta azione di recupero che sia in grado di ripristinare una maggiore funzionalità bioecologica. Ci sono anche ampie zone, in gran parte abbandonate dall’attività agricola, dove sono necessari interventi finalizzati al ripristino della copertura forestale, in modo da difenderle contro gli agenti atmosferici e creare i presupposti per un miglioramento che possa rappresentare il primo passo verso l’attivazione di efficaci dinamiche evolutive in grado di assicurare maggiori condizioni di stabilità e biodiversità, per corrispondere sempre meglio alle esigenze e alle aspettative della Società di oggi e, soprattutto, di domani. Ne consegue che la gestione forestale deve essere basata su due opzioni, la selvicoltura sistemica che consente di conoscere, mantenere e accrescere i dinamismi interni degli ecosistemi e la rinaturalizzazione. Quest’ultima non si basa tanto su modelli di naturalità individuati a priori o su uno stato ritenuto originario, quanto, piuttosto, sulla necessità di favorire il ripristino dei processi naturali, cioè dei meccanismi di auto-regolazione, di auto-perpetuazione, sull’aumento della resistenza e della resilienza del sistema (Nocentini, 2000). In altre parole, si tratta di lavorare in sintonia con i processi in atto nel sistema e non contro di essi. Si massimizza il contributo naturale di energia al funzionamento del sistema e si minimizzano gli input energetici artificiali (Allen e Hoekstra, 1992). In quest’ottica, gli interventi selvicolturali devono sostenere o innescare le dinamiche naturali lavorando in accordo con i processi naturali, entro i limiti di flessibilità del sistema e a sostegno del bosco.

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La presenza di aree sottoposte a diverse forme di protezione – Parco Nazionale dell’Aspromonte, Aree pSIC e ZPS, Aree IBA – impone l’adozione di forme di gestione differenziate in rapporto alle finalità che la legge prevede di perseguire sulle aree protette. Per quanto riguarda il Parco Nazionale dell’Aspromonte, nelle aree classificate come zona A – aree di riserva naturale integrale – presenti nel Comune di Molochio, si dovrà adottare una gestione basata sulla preservazione. In questo caso si esclude l’intervento dell’uomo e si lascia libero spazio alla natura e alla sua capacità di auto-organizzazione. La gestione si concretizza nell’attività di monitoraggio dei processi in atto. Nelle aree che ricadono nella zona B – aree di riserva naturale orientata – che contraddistinguono gran parte delle aree pianeggianti che si trovano tra (700) 800 e 1000 m di quota e, nelle zone più meridionali che si spingono fino alle quote più elevate, la gestione dei sistemi forestali dovrà mirare alla loro rinaturalizzazione attraverso la valorizzazione dei meccanismi intrinseci di autorganizzazione del sistema e l’azione a sostegno dei processi evolutivi naturali che si verificano nei vari popolamenti. La gestione delle aree pSIC è regolata dalle norme contenute nella Direttiva Habitat e recentemente precisate nel Commento all’articolo 6 della stessa Direttiva che, in modo specifico, tratta questo argomento. La gestione dei Siti di Interesse Comunitario proposti e le misure di conservazione necessarie devono essere tali da assicurare il mantenimento o il ripristino, in uno stato di conservazione soddisfacente, degli habitat naturali e delle specie di fauna e flora selvatiche tenendo conto anche dei bisogni economici, sociali e culturali, nonché delle particolarità regionali e locali. Le misure di conservazione devono essere conformi alle esigenze ecologiche degli habitat e delle specie presenti nei siti. Quindi, per garantire uno stato di conservazione soddisfacente, bisogna tener conto dei fattori abiotici e biotici necessari e di tutte le influenze sull’ambiente (aria, acqua, suolo, territorio), sugli habitat e sulle specie presenti sul sito. Questi bisogni sono frutto di conoscenze scientifiche e possono essere definite unicamente caso per caso in funzione dei tipi di habitat naturali e delle specie che li caratterizzano. Infatti, le esigenze ecologiche possono variare da una specie all’altra ma, per la stessa specie, anche da un sito all’altro. Per quanto riguarda la gestione dei boschi che non rientrano fra le aree protette, per le loro caratteristiche che non differiscono molto da quelle sottoposte a protezione e di cui rappresentano un naturale completamento, essa non potrà differire in modo significativo da quella prevista per le zone di riserva naturale orientata. Quindi si tratta anche in questo caso di adottare una gestione che si ponga l’obiettivo di una loro rinaturalizzazione.

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Anche la gestione dei rimboschimenti dovrà perseguire l’obiettivo della rinaturalizzazione. Gli interventi dovranno mirare a stimolare le dinamiche interne già in atto, in modo da trasformare, in tempi relativamente brevi, strutture estremamente semplificate, spesso realizzate mediante l’impiego di specie estranee all’ambiente di introduzione, in cenosi caratterizzate, prevalentemente, da specie indigene, con un elevato grado di complessità e, perfettamente inserite nell’ambiente. In tutti i casi, si dovranno adottare interventi che tengano conto delle singole realtà, senza voler forzare le dinamiche evolutive in atto sulla base di schemi precostituiti. Un caso a parte è rappresentato dai cedui di leccio e, soprattutto, di castagno, che hanno sempre avuto una grande importanza dal punto di vista finanziario, tanto da costituire nel passato un esempio di industria forestale strettamente legata al territorio. La gestione di questi boschi, oggi come nel passato, risponde a esigenze di carattere finanziario che non possono essere disconosciute. Oggi la forte richiesta di paleria in genere e di legna da ardere impone, però, l’adozione di una serie di accorgimenti di carattere selvicolturale e gestionale in grado di attenuare gli aspetti negativi legati a una non corretta applicazione di questa forma di governo e alle precipitazioni elevate che si verificano in tutta l’area caratterizzata da questi boschi. 3.1. Le forme di trattamento Sulla base di quanto prima esposto la gestione dei popolamenti forestali non potrà non prescindere dalle rigide norme previste dalla selvicoltura classica e adottare forme di trattamento che consentano di valorizzare al massimo le potenzialità della stazione e le dinamiche interne ai sistemi stessi. Si tratta di recuperare i metodi tradizionali di gestione, quelli che oggi sono definiti saperi locali, elaborati dalle popolazioni che per secoli hanno utilizzato questi boschi rispettandone le peculiarità e ottenuto vantaggi diretti e indiretti. Partendo da queste considerazioni Ciancio et al. (1981-1982) hanno proposto una nuova forma colturale, definita a tagli modulari, concepita appunto con l’obiettivo di imprimere una svolta a una programmazione in atto nel settore forestale che, direttamente o indirettamente, ha portato a ridurre la selvicoltura a essere la gestione di una semplice coltivazione di alberi e, quindi, a invertire la tendenza secondo la quale le esigenze di ordine finanziario debbano essere preminenti rispetto a quelle bioecologiche. Questa nuova forma colturale è caratterizzata da tagli che, in funzione delle reazioni del popolamento ai singoli eventi, variano sulla base del monitoraggio dei processi evolutivi nel tempo e nello spazio allo scopo di ottimizzare il fenomeno della rinnovazione naturale. La forma colturale a tagli modulari si fonda su un assioma: la

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provvigione minimale. Una provvigione al di sotto della quale non è possibile effettuare alcun taglio per non compromettere la funzionalità del sistema. L’applicazione del trattamento a tagli modulari prevede la lettura del sistema bosco e la scrittura degli interventi colturali. La provvigione e l’entità dei prelievi sono state definite attraverso i dati rilevati nelle aree di saggio e l’analisi delle tavole alsometriche relative alle varie tipologie forestali, tenendo conto sempre e comunque della provvigione minimale. Il monitoraggio, così come previsto dalla nuova forma colturale a tagli modulari, rappresenta un aspetto peculiare del piano. Sulla base delle prerogative su cui si fonda la gestione forestale sostenibile e delle attuali tendenze nella gestione dei sistemi forestali, improntate sulla selvicoltura sistemica e sui tagli modulari, è possibile fare riferimento a due forme di trattamento che si ritiene possano trovare ampia applicazione in una gestione come quella sopra delineata. 3.1.1. Taglio a scelta Il taglio a scelta (Ciancio et al., 2004) è una forma di trattamento che ha il duplice obiettivo di interrompere la continuità strutturale del bosco e di creare i presupposti per l’insediamento e l’affermazione della rinnovazione naturale. Esclude, in via teorica e pratica, la connotazione colturale del tradizionale taglio saltuario. Il trattamento si caratterizza: per il taglio di singole piante o gruppi di piante (generalmente 2-3), in grado di assicurare gli assortimenti richiesti dal mercato; per la creazione di piccolissime buche; per la formazione di strutture del soprassuolo disetanee per piccoli gruppi. Queste piccolissime aperture, di ampiezza compresa tra 50 e 80 (100) m2, sono distribuite a macchia di leopardo all’interno del bosco. Nei gaps si determinano favorevoli condizioni ecologiche che facilitano la decomposizione della lettiera per cui, in pochi anni, si insediano piccoli gruppi di rinnovazione, per lo più misti. Non si tratta quasi mai di nuclei fitti, per cui la concorrenza fra i singoli soggetti è limitata e le giovani piantine crescono in condizioni di ridotta concorrenza. Il loro numero è però sufficiente a stimolare l’accrescimento longitudinale dei fusti, a contenere l’ampliamento della chioma, per cui i rami sono sottili, seccano con una certa facilità e cadono rapidamente. In tal modo è possibile ottenere tronchi privi di nodi e, quindi, assortimenti di pregio. Per contenere la diffusione e l’affermazione di specie erbacee, arbustive e di suffrutici nei piccoli vuoti che si creano a seguito delle utilizzazioni è opportuno rilasciare sul terreno, sparsa, la ramaglia minuta (Ø < 3 cm). Questa, nelle prime fasi dopo le utilizzazioni, è in grado di contrastare efficacemente l’inserimento del sottobosco senza, però, ostacolare

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l’insediamento e l’affermazione del novellame. In seguito, si decompone con facilità e contribuisce a migliorare la struttura dei suoli, con effetti positivi sulla riserva idrica e in termini di restituzione al terreno degli elementi minerali sottratti dalle piante durante la loro crescita. Anche nelle successive fasi di crescita della giovane rinnovazione non sono necessari interventi di diradamento in quanto il gruppo è in grado di autodiradarsi secondo quelle che sono le esigenze ecologiche delle singole piante e le caratteristiche della stazione. Le piante morte (generalmente la mortalità avviene abbastanza precocemente) cadono a terra e contribuisco ad aumentare la sua biodiversità. La densità del gruppo corrisponde, pertanto, a quella che il gruppo stesso è in grado di sopportare. In tal modo si evita di prelevare piante di dimensioni ridotte, la cui utilizzazione spesso non conviene dal punto di vista finanziario; si riduce l’intensità di intervento all’interno del sistema; si attenua il pericolo di generare stress difficilmente assorbibili e si aumenta la capacità di resistenza e di resilienza del sistema stesso. In sintesi, il taglio a scelta fa assumere al bosco una struttura disetanea che, utilizzando la terminologia adottata da Patrone (1975), può definirsi di tipo atomistico. Esso rappresenta il punto di sintesi tra le necessità dell’uomo e le caratteristiche ed esigenze del sistema bosco. E, qualora vengano rispettati i diritti e i doveri di entrambi e i limiti imposti da una gestione forestale sostenibile, potranno servire il sistema stesso e la sua biodiversità e, insieme, gli interessi dell’uomo (Holling e Meffee, 1996). 3.1.2. Taglio colturale Il taglio colturale è una forma di trattamento che si pone l’obiettivo di sostenere la funzionalità del bosco, di aumentare la stabilità e la funzionalità del sistema, in modo da creare i presupposti per eliminare o quanto meno attenuare fortemente la semplificazione specifica e strutturale dovuta a una gestione che, per lungo tempo, è stata orientata alla produzione legnosa. Ha come scopo quello di favorire la graduale trasformazione di boschi coetanei in boschi misti, possibilmente a struttura disetanea, attraverso la creazione di condizioni favorevoli per la rinnovazione naturale. Prevede interventi differenti in relazione all’età, fertilità, densità, composizione, struttura e provvigione del bosco; alla diffusione e al grado di insediamento della cosiddetta pre-rinnovazione; alla distribuzione e consistenza della rinnovazione naturale. Caso per caso, situazione per situazione, si effettueranno tagli localizzati delle piante che ostacolano la creazione di condizioni favorevoli per la disomogeneizzazione della struttura e, di conseguenza, non consentono

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l’affermazione della rinnovazione. Questi interventi, seppure l’uno diverso dall’altro per tipologia e intensità, si pongono l’obiettivo di sostenere il fenomeno della rinnovazione naturale nelle sue varie espressioni e consistenza (Ciancio et al., 2006). Lo scopo di ogni intervento è quello di preparare il suolo e il soprassuolo alla rinnovazione naturale. In ogni caso, si tutelerà la pre-rinnovazione, liberandola dalla vegetazione arbustiva e arborea che ne ostacola la completa affermazione. L’obiettivo è quello di favorire quanto più possibile la rinnovazione naturale delle specie autoctone, qualunque esse siano. La capillarità di intervento è determinante al fine di orientare le operazioni colturali partendo dai nuclei di rinnovazione preesistenti: si procede a macchia di leopardo in modo da ottenere una struttura disomogenea per piccolissimi gruppi di varie dimensioni e di diversa età. Il taglio colturale, proprio perché tale, esclude il concetto di turno e di diametro di recidibilità e rappresenta il sostegno per realizzare, nel più breve tempo possibile, quello che, senza tale intervento, sarebbe avvenuto in tempi più lunghi. 3.1.3. Diradamenti I diradamenti sono operazioni colturali dai quali dipendono la struttura e la funzionalità del sistema bosco. Essi si fondano su un evidente e importante fenomeno naturale: la selezione naturale. Secondo la selvicoltura classica, essi sono indispensabili in tutti i rimboschimenti per favorire la produzione legnosa. Oggi, in un’ottica diversa, essi permettono di favorire l’evoluzione verso strutture sempre più complesse. Nella fattispecie, i tagli assumono la connotazione di diradamento di tipo basso e di grado debole o moderato. L’affermazione di rinnovazione sotto copertura delle specie che costituiscono il soprassuolo o di altre essenze presenti nelle vicinanze, indica l’inizio di questo processo. Gli interventi selvicolturali, partendo da questa pre-rinnovazione, dovranno gradualmente favorire lo sviluppo e l’ampliamento di questi nuclei. Saranno, quindi, differenziati, nel tempo e nello spazio, a seconda dell’intensità della dinamica evolutiva. Qualsiasi indicazione su come, dove e quando intervenire, quali modalità seguire, dipenderà esclusivamente dalle condizioni del sistema e dall’interpretazione delle sue esigenze. La definizione di diradamento di tipo basso debole o moderato, pur rispettando i classici canoni selvicolturali, è alquanto generica e lascia spazio a interpretazioni soggettive che si traducono in interventi colturali di diversa intensità. Il grado del diradamento, se non definito in modo puntuale, perlopiù dipende dalla sensibilità dei singoli operatori, con risultati efficaci in alcuni casi, mentre in altri si possono provocare stress pericolosi per l’equilibrio del

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bosco. In generale, con il diradamento basso moderato si elimina il 30% del numero di piante pari a circa il 25% dell’area basimetrica e a circa il 20% del volume. I valori prima riportati possono variare entro limiti non superiori o inferiori al 5%. Nel corso delle operazioni di diradamento, qualunque sia l’intensità di intervento, le specie a legno pregiato e quelle sporadiche – aceri, frassini, tigli, ciliegio, rovere, sorbi ecc. – devono sempre e comunque essere tutelate e favorite. 3.2. Provvigione minimale e intensità degli interventi Un elemento distintivo e differenziale della gestione forestale sostenibile e della selvicoltura sistemica è rappresentato dalla presenza, costante e continua, di una «provvigione minimale». Questa costituisce il limite al di sotto del quale potrebbero innescarsi meccanismi e processi evolutivi o involutivi non preconizzati. Un bosco con una provvigione inferiore a quella minimale non può considerarsi un sistema biologico complesso. In tale condizione i processi naturali potrebbero subire stress di varia natura in grado di compromettere la funzionalità del sistema. La provvigione minimale si configura come una proposizione, posta a base di un ragionamento, che non ha bisogno di dimostrazione perché evidente di per sé. Essa varia in funzione delle caratteristiche intrinseche delle diverse specie − temperamento, longevità e ampiezza del periodo di maturità biologica o di massima funzionalità delle varie specie − e dei fattori fisici ed ecologici che interagiscono con quelli biologici (Ciancio e Nocentini, 2004). Nel caso di soprassuoli costituiti da specie a temperamento intermedio la provvigione non dovrà scendere al di sotto di 200-250 m3 ha-1, valori che salgono a 300-350 m3 quando si tratta di specie che tollerano l’aduggiamento. La costante presenza di una provvigione minima in grado di assicurare un adeguato grado di copertura del terreno assicura benèfici effetti sulla conservazione e sul ripristino della funzionalità del sistema-bosco a livelli sempre più elevati, ne valorizza le precipue peculiarità; predispone il soprassuolo alla fruttificazione e alla disseminazione in modo da ottenere la rinnovazione naturale, uniformemente distribuita o per piccoli gruppi sul terreno in modo da garantire la perpetuità del bosco. Inoltre, consente di utilizzare quella parte della provvigione corrispondente al saggio di accrescimento naturale del bosco. Una parte della quale è in grado di fornire assortimenti di elevata qualità e alto valore. L’intensità degli interventi potrà variare anche in rapporto alla fertilità della stazione e alle caratteristiche del soprassuolo. Là dove la provvigione è inferiore o uguale a quella minimale non si effettua alcun prelievo e si lascia il

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sistema all’evoluzione naturale fino a quando non avrà raggiunto il livello minimale. Se, invece, al momento dell’intervento colturale la provvigione è superiore, l’intensità dell’utilizzazione sarà proporzionale alla differenza fra quella minimale e quella reale (tab. 1). Tabella 1 - Intensità degli interventi selvicolturali in funzione della differenza fra provvigione reale e provvigione minimale.

Provvigione Prelievo ≥ 100% di quella minimale 30% della massa ≥ 80% < 100% di quella minimale 25% della massa ≥ 60% < 80% di quella minimale 20% della massa ≥ 40% < 60% di quella minimale 15% della massa ≥ 20% < 40% di quella minimale 10% della massa

Questi dati di ordine generale, ovviamente, possono subire variazioni caso per caso, situazione per situazione, in funzione dell’effettiva capacità di reazione del popolamento e del processo di insediamento e affermazione della rinnovazione naturale. 3.3.Gestione dei cedui La forma di governo a ceduo ha connotato per secoli la gestione dei boschi di montagna, soprattutto, dell’Appennino dove dominavano le latifoglie caratterizzate da una grande facilità di rinnovazione per polloni e che potevano essere utilizzate a brevi intervalli di tempo per fornire ottima legna da ardere o carbone. Questi soprassuoli erano in grado di fornire una molteplicità di prodotti: frasca, frutti (ghiande, castagne, faggiole, ecc.) e cortecce che potevano trovare utile impiego nell’ambito di una società prevalentemente agricola. Nella seconda metà del secolo scorso, l’introduzione e la diffusione di altre fonti di energia a basso costo e il contemporaneo spopolamento della montagna e di gran parte dell’alta collina hanno determinato la crisi del ceduo (Ciancio e Nocentini, 2004). Una crisi che non ha ancora trovato una valida soluzione, tanto che Morandini (1999) ebbe ad affermare che le conoscenze sui modi di gestione sono ben lontane dall’essere soddisfacenti. In questi ultimi anni, di fronte alla presa di coscienza delle problematiche di natura ambientale da parte della Società civile e della necessità di un rapporto diverso con la natura e con il bosco, che non contempli solamente l’aspetto della produzione legnosa e del tornaconto esclusivo del proprietario è

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necessario un mutamento cambiamento che integri gli aspetti più tradizionali con le nuove problematiche di interesse più generale, in cui oggi si riconosce la Società civile. Per questo in alcuni casi è necessario ripensare la gestione basata sulla forma di governo a ceduo, come per esempio per i boschi di faggio che caratterizzano le aree più prettamente montane, dove il bosco assolve funzioni più direttamente legate all’ambiente e al paesaggio inteso anche come una identità culturale della gente che abita e vive un determinato luogo. È opportuno fare delle scelte che nel breve periodo certamente chiedono sacrifici ai proprietari, ma che nel medio e lungo periodo si riveleranno vincenti e per i proprietari e per l’intera società. In questi casi, la scelta più opportuna è ancora quella della rinaturalizzazione che porti, attraverso la cura degli attuali boschi, semplificati nella struttura, all’affermazione della rinnovazione naturale delle stesse specie che costituiscono il bosco e favoriscano la ridiffusione di quelle sporadiche. Si tratta di attuare una conversione basata sulla rinnovazione naturale valorizzando al massimo le specie già presenti e le dinamiche evolutive in atto nel sistema ceduo, seppure molto semplificato. Recentemente è stato proposto un metodo innovativo, quello del rilascio intensivo di allievi (Ciancio et al. 2002; Ciancio e Nocentini, 2004; Ciancio et al., 2006). Questo metodo prevede il rilascio delle piante da seme e di un numero variabile di polloni, in relazione alle caratteristiche intrinseche delle specie presenti nei popolamenti (longevità, temperamento, rapidità di accrescimento, capacità di affrancamento dei polloni, predisposizione ad emettere rami epicormici, facoltà di resistenza alle avversità meteoriche, ecc.), alle dimensioni dei singoli soggetti (diametro, altezza del fusto e della chioma, densità del popolamento), notevolmente superiore a quello generalmente raccomandato dai metodi previsti dalla selvicoltura classica. Il numero di tali piante è definito generalmente in modo empirico, in modo da conservare una buona copertura del terreno, di non creare collassi all’ecosistema e di non provocare turbative nei riguardi del paesaggio. In pratica, l’algoritmo colturale prevede una serie di interventi di debole intensità, ripetuti a brevi intervalli di tempo – in genere ogni 5-7 anni – in relazione alla specie a alla fertilità della stazione. La lettura del bosco consentirà di comprendere le necessità del sistema e di definire le caratteristiche dell’intervento. La scrittura dell’intervento non sarà, quindi, che la conseguenza di un processo logico di analisi (Ciancio e Nocentini, 2004). Ne consegue che non è possibile definire schemi di carattere generale che, in quanto tali, non sono in grado di interpretare la molteplice realtà dei sistemi forestali.

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Un discorso a parte meritano i cedui di castagno e in parte quelli di leccio. Si tratta di boschi che hanno una grandissima importanza dal punto di vista finanziario - si possono avvicinare a veri e propri interventi di arboricoltura da legno - ma non sempre svolgono un ruolo significativo dal punto di vista ambientale e paesaggistico. In altri casi, è proprio la loro conservazione che fa sì che rivestano una grande importanza dal punto di vista paesaggistico e culturale. Pertanto, si tratta di adottare tutti quegli accorgimenti che consentono un loro miglioramento funzionale (riduzione dell’ampiezza delle tagliate, allungamento dei turni, esecuzione di cure colturali, entità della matricinatura, ecc.). Ciò assume particolare importanza nei cedui di leccio dove non infrequentemente le pendenze sono molto elevate e il non rispetto delle più elementari norme di buona selvicoltura può compromettere la stabilità e funzionalità bioecologica del ceduo stesso. 4. Gestione delle cenosi forestali nella Comunità Montana Versante Tirrenico Meridionale Le caratteristiche dei boschi, indipendentemente dalle loro condizioni attuali, sono il risultato delle intense utilizzazioni attuate nel passato, che hanno portato alla costituzione di popolamenti semplificati nella struttura e relativamente omogenei su ampie superfici. Si tratta certamente di soprassuoli efficienti dal punto di vista della produzione legnosa. Nella società attuale questa finalità non è più l’unico metro con cui viene misurata la validità della gestione forestale. Ci sono altre prerogative cui la società attuale attribuisce grande valore, soprattutto in seguito ai grandi cambiamenti cui essa è soggetta e che rischiano di travolgere la sua stessa esistenza, almeno nella forma in cui oggi essa è conosciuta. Di fronte a queste emergenze, c’è la necessità di adottare forme di gestione che diano la possibilità di poter scegliere fra una molteplicità di soluzioni, di lasciare che sia il sistema bosco, sulla base delle proprie caratteristiche, a indicare all’uomo le sue esigenze. È una gestione che rispetta le caratteristiche del sistema e che, pertanto, non può fare riferimento a modelli che, in quanto tali, portano alla semplificazione delle strutture. La gestione dovrà, quindi, basarsi sull’adozione di interventi colturali diversificati in rapporto alle differenti condizioni dei soprassuoli e alle dinamiche evolutive in atto con l’obiettivo di accrescerne la biodiversità e diversificarne la struttura. In tal modo sarà possibile, fra l’altro, la ridiffusione, quale elemento qualificante delle cenosi forestali, di numerose specie arboree, presenti fino a non molti decenni fa, drasticamente ridotte in termini di frequenza a seguito dell’adozione della forma di governo a ceduo o con l’applicazione di sistemi

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di trattamento riconducibili ai tagli successivi con un forte taglio di sementazione, non completato dai tagli secondari e da quello di sgombero. È noto che queste forme di trattamento hanno determinato condizioni inidonee alla rinnovazione di specie tipicamente esigenti quali il tasso, lo stesso abete, l’acero montano, l’olmo, il tiglio oggi quasi scomparse da questi popolamenti. Alcuni esemplari si sono conservati in zone difficilmente agibili, vere e proprie aree rifugio, dalle quali solo recentemente e a seguito di un significativo cambiamento nella gestione dei sistemi forestali, si stanno ridiffondendo nelle zone circostanti. 4.1. Faggeta monoplana Si tratta di popolamenti, quasi esclusivamente puri, che oggi presentano una struttura coetanea di tipo monoplano, frutto dell’applicazione del trattamento a tagli successivi. Sono caratterizzati da una omogeneità piuttosto elevata e da una ridotta biodiversità. Localmente, dove, per cause diverse, sono morte o sono state asportate singole piante, si sono spesso affermati piccoli gruppi di novellame di faggio, talvolta anche con qualche piantina di abete. Nel medio e lungo periodo, gli interventi di gestione dovranno mirare alla disetaneizzazione di questi soprassuoli e a favorire l’inserimento di altre specie, in primo luogo dell’abete e dell’acero montano, entrambe relativamente frequenti, anche se non diffuse su ampie superfici, all’interno della faggeta. Laddove una attenta e puntuale analisi selvicolturale evidenzia i presupposti di ordine ecologico e biologico per l’insediamento e l’affermazione del novellame, nel breve periodo, gli interventi selvicolturali dovranno favorire una abbondante fruttificazione delle piante in modo da incoraggiare i processi di rinnovazione. A volte possono essere sufficienti interventi di diradamento, in altri casi si dovranno aprire dei piccoli vuoti (superficie non superiore a 60-80 (100) m2 mediante l’utilizzazione di singole piante o piccoli gruppi). Ed è proprio in tali vuoti che si registra, con una certa facilità e sicurezza, l’insediamento del novellame. Sarà così possibile ottenere, nel medio e lungo periodo, soprassuoli caratterizzati da gruppi di piante tendenzialmente coetanei al loro interno che conferiscono a tutto il complesso un carattere di spiccata disetaneità. Questa condizione rappresenterà lo strumento fondamentale per accentuare ulteriormente la complessità strutturale del sistema. In tutti i casi, per raggiungere gli obiettivi che derivano dall’accettazione dei principi connessi con la gestione forestale sostenibile è indispensabile rinunciare ai parametri della selvicoltura classica, legati al turno o al diametro di recidibilità, e prestare attenzione alle dinamiche che si innescano nei popolamenti a seguito degli interventi colturali. Questi sono riconducibili, a

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seconda dei casi, al taglio a scelta o al taglio colturale. Gli elementi distintivi degli interventi debbono essere legati ai principi di gradualità, continuità e cautela che caratterizzano qualsiasi azione selvicolturale. I valori minimali della provvigione proposti da Ciancio e Nocentini (2006) e quelli relativi alla ripresa rappresentano altrettanti limiti alle utilizzazioni affinché il sistema possa conservare le proprie caratteristiche e, soprattutto, sia in grado di ricomporre, facilmente e rapidamente, gli equilibri alterati con le azioni selvicolturali e conservi la propria capacità di resistenza e resilienza. Sulla base dei rilievi effettuati e delle indicazioni circa l’entità della ripresa, recentemente proposte da Ciancio e Nocentini (2004), si prevede di prelevare mediamente ogni 8-10 anni, 80-100 m3 a ettaro. 4.2. Faggeta bistratificata Anche in questo caso, come per la faggeta monoplana, si tratta, prevalentemente, di boschi demaniali nei quali è stato attuato un taglio piuttosto forte (eliminazione anche del 50% delle piante scelte fra quelle migliori), cui non hanno non fatto seguito altri interventi. Dopo il taglio, si è affermata una abbondante rinnovazione, prevalentemente di faggio, localizzata allo scoperto e al limite della proiezione della chioma delle piante adulte. Negli anni successivi sono mancati interventi di sfollamento e di diradamento. Di conseguenza, nella fase di novelleto e successivamente in quella di perticaia, si è innescata all’interno dei gruppi una forte concorrenza fra i singoli soggetti che ha portato ad una riduzione della densità e una differenziazione delle piante in termini dimensionali, localmente testimoniata dalla presenza di piante dominate o secche in piedi o a terra. Sporadicamente, soprattutto, nella zona di Monte Scorda e Monte Fistocchio è presente anche novellame di abete. Caratteristica di questi soprassuoli è la presenza di due strati, ben differenziati, di cui quello superiore edificato dalle piante del vecchio ciclo e quello inferiore dalla faggeta nella fase di stangaia o giovane fustaia. La gestione di questi soprassuoli deve tener conto della loro attuale condizione di sistema complesso derivante dalla non completa applicazione del trattamento a tagli successivi. Gli interventi colturali dovranno mirare ad una graduale accentuazione della complessità del sistema mediante l’applicazione di interventi cauti, continui e capillari, che tengano conto delle dinamiche evolutive in atto. Non si dovrà fare riferimento a schemi riferibili al bosco coetaneo o a quello disetaneo; gli interventi dovranno limitarsi a prelevare ciò che è strettamente necessario dal punto di vista colturale, tenendo presente i valori minimali della provvigione e rispettando quelli che sono i tassi di utilizzazione e la ripresa massima consentita.

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La gestione dovrà mirare ad un graduale aumento dell’età delle piante adulte in modo da accrescere la presenza di habitat con caratteristiche differenti legate anche a una maggiore differenziazione della struttura verticale del soprassuolo. Ciò potrà essere ottenuto ritardando l’utilizzazione delle piante del vecchio ciclo fino a quando non eserciteranno una concorrenza significativa nei confronti di quelle più giovani o sovrasteranno giovani gruppi di novellame. 4.3. Faggeta pluristratificata Si tratta di boschi prevalentemente di proprietà privata, in minor misura di demani comunali, trattati con il taglio a scelta, basato su interventi ripetuti a brevi intervalli di tempo - (6) 8÷10 anni, soprattutto nelle proprietà private - di intensità piuttosto limitata con i quali si preleva l’incremento del bosco maturato nell’intervallo fra due utilizzazioni. Il taglio interessa esclusivamente le piante giudicate mature e non vengono effettuati interventi nei gruppi di piante di minori dimensioni. A seguito di questi interventi si originano all’interno del bosco dei piccoli vuoti, di 40-50 m2 di superficie, dove si insedia con facilità il novellame. I gruppi non presentano mai densità elevate, le piantine appaiono quasi esili, ma presentano accrescimenti in altezza regolari e sufficientemente sostenuti. La chioma è molto leggera e poco sviluppata. I rami sono molto sottili e, fin dall’inizio, quelli più bassi seccano e cadono con facilità. La forma dei fusti è estremamente regolare e priva di evidenti difetti. Il bosco, nel suo complesso, è costituito da tanti piccoli gruppi di piante, fra loro giustapposti, che conferiscono al soprassuolo una grandissima eterogeneità legata, da un lato, al succedersi degli interventi di utilizzazione, dall’altro alle variazioni di fertilità delle singole stazioni. La gestione di questi popolamenti dovrà essere incentrata, come nel passato, sull’applicazione del taglio a scelta con alcuni correttivi in modo da aumentare progressivamente nel tempo l’età delle piante più grosse e, di conseguenza, anche i diametri. Il taglio interesserà esclusivamente le piante che, con un termine tradizionale, si ritiene abbiano raggiunto la maturità. In tal modo, si ridurranno i costi di utilizzazione e risulterà conveniente anche il prelievo di un numero limitato di piante. Gli interventi nei gruppi di piante più giovani, in genere, non sono necessari in quanto c’è stata una grande selezione per cui le piante rimaste sono quelle che potranno crescere in quella stazione. Questi interventi si dimostrano particolarmente adatti anche nel caso di boschi che ricadono nella zona B - riserva generale orientata - del Parco Nazionale dell’Aspromonte e nei numerosi Siti di Interesse Comunitario (pSIC).

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4.4. Cedui di faggio Si tratta, prevalentemente, di popolamenti governati a ceduo, testimoni delle intense utilizzazioni effettuate nel passato e destinate alla produzione di carbone. Questi soprassuoli hanno abbondantemente oltrepassato il turno consuetudinario e dimostrano di aver superato una fase di forte concorrenza fra i polloni, come testimoniano molti soggetti secchi, generalmente di piccole dimensioni, ancora presenti sulle ceppaie. Quelli vivi mostrano dimensioni abbastanza simili fra di loro, hanno la chioma ridotta, piuttosto asimmetrica, tanto da configurarsi come una singola pianta. La forma dei fusti non è delle migliori, anche perché molti di questi cedui si trovano in aree facilmente accessibili, soggette a pascolo, ed in cui sono frequenti i tagli furtivi. È verosimile che, in un prossimo futuro, riprenda sostenuta la concorrenza fra polloni e quindi si verifichino nuovi fenomeni di mortalità. Negli anni avvenire, considerando che questi soprassuoli si trovano in aree montane, dove il bosco rappresenta l’elemento peculiare e assume un grande significato dal punto di vista della difesa e conservazione del suolo, oltre che paesaggistico e ambientale, gli interventi selvicolturali dovranno essere finalizzati, prevalentemente, alla conversione a fustaia. Ciò diventa una necessità nei casi in cui tali popolamenti rientrino nel territorio del Parco Nazionale dell’Aspromonte. Il metodo da applicare è quello del rilascio intensivo di allievi (Ciancio et al. 2002; Ciancio e Nocentini, 2004), opportunamente adattato alle differenti condizioni vegetative e selvicolturali dei soprassuoli. In tutti i casi, l’obiettivo dovrà essere quello di attenuare i fenomeni di concorrenza e favorire l’accrescimento dei soggetti migliori attraverso l’attuazione di interventi colturali che non provochino fenomeni di stress difficilmente riassorbibili dal sistema e promuovano l’aumento dell’efficienza funzionale del sistema, creando i presupposti per l’insediamento di novellame di faggio e delle altre specie eventualmente presenti anche allo stato sporadico. Anche nell’esecuzione degli interventi di diradamento è necessario procedere con cautela, in modo da non interrompere significativamente la copertura, ripetendo gli interventi a brevi intervalli di tempo (6-8 anni) e modulandoli secondo quelle che sono le condizioni che si riscontrano. Quindi, è necessario tener conto esclusivamente delle condizioni del ceduo. Sulla base di osservazioni effettuate in cedui che si trovano in condizioni simili in Aspromonte e in Sila, è possibile prelevare, mediamente, 40-60 m3 di legname a ettaro. Si tratta, prevalentemente, di materiale che potrà essere collocato sul mercato come legna da ardere o biomassa per usi energetici (Ciancio et al., 2007).

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Per favorire l’aumento della biodiversità e quando le condizioni generali del sistema non evidenzino pericoli significativi per la diffusione di patogeni, è opportuno rilasciare sul terreno o in piedi alcuni polloni secchi, quelli di maggiori dimensioni, in modo da costituire habitat favorevoli per la presenza di specie animali e vegetali. Così come è opportuno rilasciare sul letto di caduta, quando ciò non costituisca grave pericolo dal punto di vista fitopatologico o per la propagazione di incendi (aree in prossimità di strade e sentieri o zone frequentate da gitanti o turisti), parte del materiale morto in modo da conservare la fertilità della stazione e migliorare la struttura dei suoli. Anche la ramaglia minuta (diametro dei rametti inferiore a 3 cm), che si ottiene dall’utilizzazione dei polloni, è opportuno che venga lasciata sul letto di caduta, in piccoli gruppi, o meglio, sparsa sulla superficie, in modo da attenuare eventuali danni da erosione superficiale. Sono da rilasciare, inoltre, le specie da frutto selvatiche presenti nei boschi, così come i suffrutici e le altre specie utili alla fauna selvatica, indipendentemente dai vantaggi di ordine finanziario che possono assicurare dal punto di vista della produzione legnosa. 4.5. Bosco misto faggio - abete Questa tipologia boschiva, al di là dell’attuale area di diffusione, rappresenta un aspetto di particolare interesse poiché costituisce un possibile punto di arrivo nella dinamica evolutiva di molti degli attuali popolamenti edificati principalmente dal faggio. Il bosco misto faggio-abete è il risultato dell’applicazione di una forma di trattamento basata sul taglio a scelta, un trattamento che si può definire tradizionale (Iovino e Menguzzato, 2004), da sempre applicato, soprattutto da parte dei proprietari privati, nella gestione dei boschi. Si tratta di una forma di intervento che, favorendo la contemporanea presenza del faggio e dell’abete, contribuisce al mantenimento della composizione mista dei popolamenti, cui è associata anche una grande diversità e complessità strutturale e un elevato grado di biodiversità. La gestione di queste realtà non può prescindere dall’esperienza maturata nel passato attraverso l’applicazione del taglio a scelta, ossia di un trattamento che, con opportune modifiche recentemente proposte da Ciancio et al. (2006), può essere adottato nella gestione di gran parte dei popolamenti forestali. La sua costante applicazione è certamente in grado di assicurare la perpetuità del bosco misto e di accrescerne la complessità strutturale, favorendo l’ingresso anche di altre specie attualmente presenti solamente allo stato sporadico. La costante presenza dell’uomo all’interno del sistema è il presupposto indispensabile per raggiungere gli obiettivi contenuti nella gestione forestale sostenibile.

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4.6. Bosco di querce eliofile Si tratta di formazioni che interessano superfici molto modeste, che rivestono grande importanza dal punto di vista botanico - vegetazionale e paesaggistico - ambientale. La loro gestione dovrà mirare soprattutto alla ricostituzione degli equilibri bio-ecologici in modo da assicurare una loro perpetuazione. L’abbandono culturale e le condizioni di grave degrado che spesso ne sono conseguite, ha favorito il ripetersi di incendi che hanno aggravato una situazione già precaria. Gli interventi di miglioramento dovranno in primo luogo portare ad adottare una serie di precauzioni per la difesa dagli incendi attraverso la ripulitura di zone frequentate e di quelle dove facilmente hanno inizio i focolai. Gli interventi più prettamente selvicolturali dovranno favorire i gruppi di novellame già presenti, liberandoli dalla concorrenza di altre specie. Bisognerà, inoltre, porre attenzione nei confronti delle piante migliori in grado di produrre seme, in modo che accrescano la loro capacità di fruttificazione, e intervenire nelle aree circostanti per creare condizioni idonee affinché il seme che giunge sul terreno possa germinare ed il novellame affermarsi. Nei casi in cui prevalgano piante intristite, ma che si ritiene possano riprendersi abbastanza facilmente se sottoposte a ceduazione, si potrà sicuramente procedere al taglio e successivamente allevare i polloni migliori. 4.7. Rimboschimenti Nella maggior parte dei casi si tratta di impianti di pino laricio, troppo densi in rapporto alla loro età, con piante filate ed un elevato grado di copertura che rallenta i processi di decomposizione della lettiera e ostacola l’insediamento del novellame. La gestione deve essere finalizzata alla loro rinaturalizzazione. Un processo che viene attivato attraverso l’esecuzione di interventi colturali capaci di ridurre progressivamente il grado di copertura al fine di determinare le condizioni ecologiche idonee ad accelerare i processi di decomposizione della lettiera e creare i presupposti affinché il seme che arriva sul terreno germini e le plantule possano affermarsi. In particolare, si dovrà mirare a determinare condizioni favorevoli per l’insediamento di specie differenti dal pino laricio. Tali interventi si dovranno concretizzare in diradamenti di differente grado di intensità, modulati in rapporto alle diverse condizioni e caratteristiche dei soprassuoli e della stazione, svincolati da qualsiasi schema e ripetuti a brevi intervalli di tempo, in media 10 anni. Situazioni che possono costituire punti di inizio di queste azioni sono rappresentate da piccoli nuclei di novellame già insediatosi in piccoli vuoti creatisi nel passato per le ragioni più varie (schianti

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e tagli furtivi che hanno provocato interruzioni nella copertura, morte di singole piante o riunite a piccoli gruppi per eventi meteorici o per attacchi di patogeni in genere, precedenti interventi di diradamento, ecc.) o, più raramente, diffusi in modo più o meno regolare sulla superficie. In questo caso, si tratterà di liberare gradualmente questo novellame e di creare i presupposti affinché questi gruppi si allarghino a macchia d’olio. Nel tempo, mediante l’esecuzione di interventi selvicolturali puntuali e tempestivi, la gestione dovrà assecondare tale processo. Sulla base delle attuali condizioni dei soprassuoli si potrà prelevare, a ogni intervento, (100) 150÷200 m3 a ettaro di massa. Dal momento che, nella maggior parte dei casi, si tratta del primo intervento, le piante che cadranno al taglio saranno rappresentate, prevalentemente, da soggetti di piccole dimensioni, destinati alla produzione di biomasse per usi energetici. Con l’intervento successivo si potranno ricavare anche tronchi da sega. 4.8. Ceduo di castagno La diffusione del castagno su superfici così ampie ha rappresentato un fatto unico in tutta la Calabria e nel Meridione d’Italia e ha determinato la sostituzione, su ampie superfici, delle specie indigene (boschi di sughera e, in minor misura, di leccio o querce eliofile), a seguito della grande richiesta degli assortimenti tipici dei cedui verificatasi nel XIX secolo da parte di molte nazioni del Mediterraneo. Il modulo colturale, basato su turni molto brevi (4÷5 anni), unico nel suo genere, oggi è del tutto abbandonato e gli assortimenti di piccole dimensioni, si ottengono dagli sfollamenti. Gli assortimenti più richiesti sono costituiti dalla paleria minuta, che trova sempre grande impiego nelle attività agricole, dalle travi, soprattutto quelle di maggiori dimensioni, utilizzate negli interventi di ristrutturazione, mentre i tronchi vengono usati nell’industria del mobile. La valorizzazione di questi soprassuoli presuppone l’adozione di una serie di interventi in grado di attenuare alcuni aspetti negativi, strettamente legati alla forma di governo. In particolare, risultano importanti gli sfolli da attuare al 3÷4 anno dopo la ceduazione, quando la differenziazione dei polloni è già ben evidente, seguita da 1 o 2 diradamenti a distanza di 5÷6 anni quando si vogliano ottenere assortimenti di dimensioni piuttosto elevate. Per limitare i pericoli di erosione è opportuno graduare l’ampiezza delle tagliate rilasciando sul letto di caduta, uniformemente distribuiti sulla superficie, i residui di utilizzazione in modo da rallentare la velocità di scorrimento superficiale delle piogge. È anche conveniente evitare la ceduazione durante la stagione autunno-invernale, quando le piogge sono particolarmente abbondanti, e concentrarla nel periodo primaverile-estivo in

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modo da favorire una pronta emissione dei polloni, con funzione anche di difesa del suolo. È indispensabile, soprattutto lungo le strade, e dove, tradizionalmente, si sviluppano incendi, prevedere una serie di difese quali la realizzazione di fasce parafuoco e l’allontanamento della vegetazione erbacea e arbustiva che può costituire occasione di innesco e diffusione del fuoco. 4.9. Ceduo di leccio Come il ceduo di castagno anche quello di leccio è caratterizzato da una struttura semplificata, per cui l’azione dell’uomo è fondamentale per sostenerne la produzione. Esso rappresenta una realtà molto importante dal punto di vista economico-finanziario e, pertanto, è opportuno perseguire la gestione tradizionale. Per mantenere l’efficienza di questo sistema semplificato è necessario adottare una serie di accorgimenti in modo da valorizzare la forma di governo, soprattutto dove le favorevoli condizioni morfologiche consentono il mantenimento del ceduo. La lunghezza del turno dovrà essere valutata sulla base della capacità di rinnovazione agamica delle ceppaie, delle possibilità di fruttificazione dei polloni, delle condizioni della stazione e non solamente in funzione della sola produzione legnosa. L’esecuzione delle cure colturali è indispensabile per assicurare una buona rinnovazione agamica e la crescita dei polloni più vigorosi. Infatti, se il ceduo è sottoposto a una razionale coltivazione, allora la produzione è elevata (Ciancio e Nocentini, 2004). L’ampiezza delle tagliate dovrà tener conto del pericolo di erosione. Nelle situazioni più difficili è ipotizzabile l’esecuzione di interventi finalizzati all’evoluzione verso strutture più complesse che, nel medio e lungo periodo, portino all’affermazione di una fustaia. 5. Conclusioni Il territorio della Comunità Montana Versante Tirrenico Meridionale è caratterizzato dalla presenza di due elementi ben distinti, frutto del forte contrasto fra le aree pianeggiati della fertile pianura di Gioia Tauro e le montagne dell’Aspromonte, che conferiscono a tutta l’area una connotazione del tutto particolare. Nelle zone pianeggianti prevalgono le colture agrarie dominate, oggi come nel passato, dall’olivo che, nelle aree meglio esposte, si spinge fino quasi a 800 metri di quota. Si tratta di quelle zone nelle quali, da più di due secoli, il bosco ha ceduto il passo alle colture agrarie. Rimangono solo poche tracce delle estese sugherete che dominavano, assieme al leccio, le aree attualmente caratterizzate dai boschi di olivo, così come testimoniano numerosi toponimi e sporadici esemplari. Nelle zone prossime agli ambienti

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umidi tuttora i pioppi e gli ontani accompagnano i torrenti nel loro corso verso il Mare Tirreno. Nel settore meridionale dell’area oggetto di studio, su aree ampie, è stata impiegata un’altra specie, il castagno, alternativo e concorrenziale alla coltivazione dello stesso olivo, diventato, sotto l’aspetto forestale, quasi un emblema nel comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte e di quelli limitrofi di Bagnara Calabra e Scilla, e che ha determinato lo sviluppo di una ricca economia forestale (Placanica, 1985). Ancor oggi tali popolamenti rappresentano la peculiarità di quest’area che va salvaguardata e migliorata attraverso la valorizzazione della forma di governo a ceduo. Anche i cedui di leccio diffusi sui primi contrafforti dell’Aspromonte, in aree difficilmente agibili, particolarmente nel settore centro-meridionale, costituiscono una realtà estremamente importante dal punto di vista economico-finanziario che non può essere disconosciuta. Rispetto ai cedui di castagno, per la morfologia particolarmente accidentata e le pendenze estremamente elevate che contraddistinguono le aree dove sono presenti, è opportuno adottare una serie di accorgimenti che limitino i pericoli di erosione e di degradazione delle stazioni connessi con la stessa forma di governo a ceduo. Negli altri casi i boschi, indipendentemente dalla loro struttura e dalla loro origine, assumono oggi un significato che va ben oltre la semplice produzione legnosa. Lo stesso legislatore ne ha riconosciuto la valenza nel momento in cui li ha inclusi nell’ambito di aree soggette a protezione: Parco Nazionale dell’Aspromonte, Aree pSIC e Aree ZPS. Si tratta di soprassuoli che portano ancora impressi i segni di una gestione spesso sconsiderata, che ha portato ad una semplificazione strutturale e innescato gravi fenomeni di degrado, soprattutto dove all’azione diretta dell’uomo si è sommata quella indiretta dovuta al pascolo e agli incendi. Ciò è ben evidente, soprattutto, nell’area delle querce eliofile e, in minor misura, della sughera. In queste situazioni, è necessario pensare ad una serie di interventi molto diversificati in modo da ripristinare, a livelli accettabili, prima di tutto la funzionalità bioecologica del sistema. Si tratta di azioni colturali che, partendo da un’attenta decodificazione delle esigenze dei popolamenti, debbono tradursi in interventi a sostegno delle dinamiche evolutive intrinseche al sistema stesso. Il processo di rinaturalizzazione in questo caso sarà piuttosto lungo e il percorso da seguire per il suo miglioramento non potrà che essere dettato dalla reazione del bosco stesso. Nel caso della faggeta, per molti aspetti, la situazione è certamente più facile. Le condizioni ecologiche sono decisamente favorevoli; l’uomo ne ha semplificato la struttura, ma sono ancora ben vivi e vitali i germi per un pronto recupero di queste cenosi. Cenosi che, fino a non molti decenni fa,

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dovevano possedere caratteri di grandiosità e maestosità talmente grandi da suscitare l’ammirazione e lo stupore dei viaggiatori che hanno percorso questi boschi e che oggi costituiscono il patrimonio dei Comuni che rientrano nell’area della Comunità Montana. Condizioni che si possono intravedere ancor oggi nei pochi esemplari superstiti sparsi qua e là sulle montagne e in zone difficilmente accessibili. Il cambiamento della gestione dei boschi, verificatosi negli ultimi lustri a seguito anche dell’affermarsi del pensiero ecologico, e lo studio di forme di trattamento inusuali per la selvicoltura classica, elaborate e maturate attraverso l’esperienza secolare dei proprietari privati, possono indicare la via da seguire in questo processo di ricostituzione boschiva. La continua presenza dell’uomo all’interno del bosco è il segno più evidente della profonda unione che li lega in un continuo processo di osmosi che arricchisce entrambi, in quanto sussiste tra loro un interscambio di reciproche esperienze positive e negative e ciascuno si avvale dei risultati favorevoli conseguiti dall’altro. Quando vengono rispettate le caratteristiche del sistema e si adattano le necessità dell’uomo a quelle del bosco, le risposte agli interventi selvicolturali sono immediate e, spesso, molto più copiose e ricche di frutti di quello che si potrebbe immaginare. E non è neppure vero che questo tipo di interventi non vengono attuati perché poco remunerativi dal punto di vista finanziario. Chi ama il bosco non pensa solo all’interesse immediato; spinge il suo sguardo più lontano e rinuncia a qualcosa oggi perché è sicuro che potrà avere molto, ma molto di più, domani. Questo cambiamento nel modo di pensare e gestire il bosco non può essere frutto di improvvisazione. È necessaria una attenta e continua frequentazione che si traduce anche in una attività di programmazione nel breve, medio e lungo periodo e che verifichi le condizioni, proponga e realizzi gli interventi e ne registri le risposte. Ciò è possibile appunto attraverso un processo di pianificazione che fissi obiettivi e metta a disposizione strumenti necessari per il loro conseguimento. In quest’ottica è stato condotto questo studio e sono stati ipotizzati gli interventi di gestione. A questo punto, affinché il processo possa realmente attivarsi, è necessaria la volontà politica che identifichi obiettivi e metta a disposizione risorse non solo per l’immediato ma, soprattutto, per il medio e lungo periodo in modo da dare continuità agli interventi e avere risposte che sicuramente non potranno essere che positive, per l’uomo, la società e il sistema bosco. - Riferimenti bibliografici Agnoloni S., Bianchi M., Bianchetto E., Cantiani P., De Meo I., Dibari C.,

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