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LA NEUROBIOLOGIA DEL PENSIERO SEZIONE I

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LA NEUROBIOLOGIA DEL PENSIERO

SEZIONE I

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LA NEUROBIOLOGIA DEL PENSIERO

C hiunque sia in grado di leggere queste parole, tu compreso, fa un’esperienza di consapevolezza

cosciente. Come si spiega tutto questo? L’esperienza cosciente delle altre persone coincide con la mia? La nostra esperienza cosciente è qualitativamente differente da quella vissuta dalle altre specie animali?

Domande come queste hanno affascinato alcuni tra i pensatori più celebrati dell’umanità, fin da quando gli esseri umani hanno iniziato a lasciare tracce tangibili del loro pensiero. Sono tra le domande più profonde che un essere umano possa concepire. Non sorprende, dunque, che domande che si riferiscono direttamente o indirettamente al fenomeno della coscienza e al costrutto a esso correlato della cognizione (ovvero del pensiero) siano state affrontate da molte e differenti discipline erudite, come la filosofia, la biologia evolutiva, l’antropologia, gli studi economici e linguistici, l’informatica e la psicologia.

Ciò che contraddistingue le neuroscienze cognitive, il focus di questo libro, da queste e altre discipline è il fatto che affondano le proprie radici nei metodi e nelle tradizioni delle neuroscienze e la supremazia che assegnano alla comprensione delle basi biologiche dei fenomeni mentali. È opportuno notare che le neuro-scienze cognitive non si concentrano solo sulla coscienza e la consapevolezza cosciente. Di fatto, si può affermare che la grande maggioranza degli articoli pubblicati, per esempio, sul Journal of Cognitive Neuroscience (una delle tante riviste scientifiche che pubblicano articoli peer-reviewed in questo ambito scientifico) non si rivolge esplicitamente al concetto di coscienza e, ancor meno, menzionano questo termine.

Tuttavia, è anche vero che può risultare difficile soste-nere argomentazioni dettagliate sul comportamento

umano e sui principi che lo governano senza confron-tarsi con idee come quelle esposte al principio di que-sto paragrafo. Questa chiara relazione con questioni profonde di natura filosofica è una delle qualità che contraddistinguono le neuroscienze cognitive rispetto ad altre scienze fisiche e biologiche e rispetto ad altre branche delle neuroscienze.

Al pari di altri scienziati della fisica e della biologia, chi si occupa di neuroscienze cognitive disegna e conduce esperimenti rigorosamente controllati che producono dati oggettivi e misurabili e cerca di porre in relazione questi dati con modelli meccanicistici sul funzionamento di un sistema naturale. E, come sopra suggerito, il sistema studiato dai neuroscienziati cognitivisti è di diretto inte-resse per gli studiosi che lo indagano da una prospettiva assai differente (per esempio filosofica, antropologica e psicologico-cognitiva). Questa sovrapposizione è per un verso una benedizione e una maledizione. È una benedizione nel senso che il neuroscienziato cognitivista può basarsi su idee e osservazioni che provengono da una vasta gamma di tradizioni intellettualmente ricche. E, considerando che ci occupiamo di questioni fonda-mentali per la condizione umana, qualunque individuo pensante che un neuroscienziato cognitivista incontri sarà probabilmente interessato al suo lavoro. (Più semplice-mente, secondo la modesta opinione dell’autore, essere un neuroscienziato cognitivista assolve a una funzione sociale al pari di un economista, di un biologo cellulare o di un fisico della particelle…).

La maledizione sta nell’altra faccia della stessa medaglia. Poiché studiosi di differenti ambiti sono spesso interessati al medesimo oggetto di studio (che sia la percezione visiva, l’estetica o il comportamento antisociale) la ricerca

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nell’ambito delle neuroscienze cognitive è spesso caratte-rizzata da persone che operano in altri settori che pongono domande erronee o che le pongono in modo sbagliato, o che generano scoperte sostanzialmente irrilevanti per la comprensione del fenomeno in esame. Essere coscienti di questo contesto sociologico che circonda le neuroscienze cognitive è un elemento di conoscenza che può aiutare a valutare le implicazioni e l’importanza di ciascun insieme di fatti e idee che verranno esposti in questo libro.

NEUROSCIENZE COGNITIVE? O “NEUROSCIENZE UMANE”? O “NEUROSCIENZE CON DIRETTE IMPLICAZIONI PER LA COMPRENSIONE DEL COMPORTAMENTO UMANO”?

Come sono stati selezionati gli argomenti trattati in questo libro? O più significativamente, nell’insegnare le neuroscienze cognitive, dove va tracciata la linea che delimita i confini di questa disciplina? È una domanda difficile che non ha una risposta definitiva. È proprio un incidente della storia che la confluenza dei metodi delle neuroscienze e gli studi sul comportamento umano siano confluiti prima, o per lo meno con maggiore impatto, negli ambiti del comportamento e della funzione che sono studiati dalla psicologia cognitiva (per esempio la percezione visiva, il linguaggio, la memoria), rispetto per esempio al comportamento sociale, alla personalità, all’emozione o alla psicopatologia. Il risultato è che l’e-tichetta di “neuroscienze cognitive” appare prima nella letteratura rispetto, per esempio, alle neuroscienze affet-tive (affective neuroscience) o alle neuroscienze cognitive sociali (social cognitive neuroscience). In conseguenza di ciò, il termine “neuroscienze cognitive” viene utilizzato nei contesti più svariati e non sempre con il medesimo significato. In alcuni casi, “neuroscienze cognitive” può riferirsi agli strumenti e ai metodi utilizzati per studiare le basi neurali del comportamento umano (per esempio, le scannerizzazioni cerebrali, le registrazioni elettriche, la stimolazione cerebrale). Tuttavia, questa può apparire come una denominazione impropria se il comportamento in esame non è in stretta relazione con la cognizione (per esempio, il sonno o la depressione). L’etichetta di “neuroscienze cognitive” può sembrare inadeguata anche per la ricerca che riguarda altri ambiti di studio tradi-zionali del cervello e del comportamento. Per fare un esempio pratico, consideriamo uno studio che indaga

il ruolo di alcuni sistemi neurali (visualizzati mediante scansioni cerebrali) sulla performance in un compito di decision-making di natura economica da parte di carcerati con livelli elevati o ridotti di ansia di tratto (tutti clas-sificati come “psicopatici”) e il confronto di questi dati con quelli ottenuti da pazienti neurologici con danno alla corteccia prefrontale ventromediale. Questo tipo di ricerca appartiene all’ambito delle neuroscienze cognitive? Per un certo verso, vorrei che la risposta fosse “sì”, già che prenderemo in esame proprio questo tipo di ricerca nel Capitolo 16! Tuttavia, ciò facendo si rischia di non dare il giusto credito a contributi altrettanto importanti a questo tipo di ricerca che vengono dalla psicologia clinica, dall’affective neuroscience, dalla neuroeconomia e dalla neuropsicologia.

In virtù di queste considerazioni e per rappresentare il respiro multidisciplinare della gran parte dei temi trattati in questo libro non sarebbe stato forse più opportuno intitolarlo “Principi di neuroscienze dell’uomo”? In que-sto caso la risposta è inequivocabilmente “no”, perché significherebbe escludere l’evidenza che la comprensione delle basi neurali di quasi tutti gli aspetti del compor-tamento umano richiede una conoscenza approfondita delle funzioni neurali analoghe di altre specie animali. Infatti, come vedremo in quasi tutti i capitoli di questo libro, le limitazioni tecniche ed etiche di ciò che possiamo misurare nell’uomo impongono di basarsi largamente sui risultati di studi condotti sui modelli animali. Da qui la convinzione, implicita nel titolo di questa sezione, che il titolo più adeguato per questo libro sarebbe “Principi di neuroscienze con implicazioni dirette per la com-prensione del comportamento umano”. Ora, io non sono un esperto di editoria accademica, ma non faccio fatica a immaginare che se avessi proposto questo titolo il mio editore l’avrebbe rifiutato. O per lo meno non ci sono probabilmente molte università dove ci sia un corso d’esame denominato “Introduzione alle neuro-scienze con implicazioni dirette per la comprensione del comportamento umano”. Ciononostante, rappresenta probabilmente un buon sunto – concentrato in poche parole – di ciò che questo testo si propone di trattare.

E così, tenendo in conto queste considerazioni, ci atterremo all’etichetta “neuroscienze cognitive”. Non è perfetta, ma se consideriamo abbastanza comoda una definizione ragionevolmente ampia di cognizione intesa come pensiero, comportamento e tutti quei fattori dai quali essi dipendono, allora questo termine ci sarà di ragionevole aiuto.

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INTRODUZIONE E STORIATEMI CHIAVE

●● Malgrado il fenomeno coscienza e il costrutto cogni-zione (ovvero, il pensiero) siano il focus di molte disci-pline erudite, ciò che caratterizza le neuroscienze cognitive è il suo radicamento nei metodi e nelle tradizioni delle neuroscienze e il primato che asse-gna alla comprensione delle basi neurobiologiche dei fenomeni mentali.

●● Il termine “neuroscienze cognitive” viene utilizzato a due diversi livelli: in senso più ampio, si riferisce allo studio neuroscientifico delle maggior parte degli ambiti del comportamento umano; in senso più restrittivo, si riferisce allo studio delle basi neurali del pensiero – che cosa lo influenza, in che cosa consiste e come viene controllato.

●● Le origini delle neuroscienze cognitive possono essere fatte risalire al dibattito che ha caratterizzato il secolo XIX tra due modi di pensare alla funzione cerebrale, entrambi influenti ancor oggi: localizzazione della fun-zione vs azione di massa.

●● La ricerca condotta nella seconda metà del secolo XIX ha stabilito la validità del concetto di localizzazione per tre funzioni specifiche: il controllo motorio (loca-lizzato nei lobi frontali); la visione (localizzata nei lobi

occipitali), la produzione del linguaggio (localizzata nel giro frontale postero-inferiore sinistro).

●● La ricerca sul controllo motorio ha introdotto il prin-cipio della rappresentazione topografica, per il quale parti adiacenti del corpo sono rappresentate da parti adiacenti della corteccia cerebrale.

●● Studiare un aspetto della cognizione implica una rifles-sione attenta sulla validità della funzione studiata; e non tutti gli aspetti del comportamento umano sono altrettanto accessibili alla ricerca nel campo delle neu-roscienze cognitive.

●● La disciplina delle neuroscienze cognitive non potrebbe esistere senza le scoperte provenienti dalla ricerca su animali non umani.

●● Al tramonto del XX secolo, gli scienziati studiavano il cervello e il comportamento da tre prospettive differenti (seppure correlate), le quali hanno in seguito dato origine alle neuroscienze cognitive per come oggi lo conosciamo: le neuroscienze dei sistemi (systems neuroscience), la neurologia/neuropsicologia; la psi-cologia sperimentale.

CAPITOLO 1

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CONTENUTI

TEMI CHIAVESTORIA BREVE (E SELETTIVA)

Localizzazione della funzione vs azione di massaLa prima dimostrazione scientificamente rigorosa

della localizzazione della funzioneLa localizzazione delle funzioni motorieLa localizzazione della percezione visivaLa localizzazione del linguaggio

CHE COS’È E CHE COSA FA IL CERVELLO?GUARDANDO IN PROSPETTIVA ALLO

SVILUPPO DELLE NEUROSCIENZE COGNITIVE

DOMANDE DI FINE CAPITOLOBIBLIOGRAFIAALTRE FONTILETTURE CONSIGLIATE

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CRONOLOGIA: ORIGINI DELLE NEUROSCIENZE COGNITIVE NEI SECOLI XIX E XX

Evento DateSviluppi contemporanei nello studio psicologico della cognizione*

Capitolo 1Gall propone il suo trattato di frenologia

1790–1820 decenni

La filosofia domina la cultura in psicologia

Capitolo 1Flourens conduce esperimenti confutando la localizzazione basata sulla frenologia

1820–1850 decenni

Jackson propone l’organizzazione somatotopica della corteccia motoria

1860-1870 La sperimentazione pionieristica sulla percezione da parte di Weber e Helmholtz dà origine alla psicofisica

Capitolo 1Broca, rifacendosi ai lavori su Tan e altri pazienti, localizza il linguaggio nel giro frontale postero-inferiore sinistro

1863

Capitolo 1Fritsch e Hitzig determinano, mediante stimolazione elettrica, la localizzazione delle funzioni motorie nella corteccia frontale posteriore

1870

Capitolo 18Wernicke descrive l’afasia recettiva, localizzando la comprensione del linguaggio

1874

Capitolo 1Gli studi di Munk e Schaefer definiscono in via definitiva la localizzazione della percezione visiva nel lobo occipitale

1880 decennio

Wundt fonda l’Istituto di Psicologia Sperimentale

Capitolo 3Brodmann pubblica la mappa citoarchitettonica dell’organizzazione anatomica del cervello umano

1909 L’alba del comportamentalismo (behaviorism)

Capitolo 3Berger registra il ritmo alfa nell’uomo mediante elettroencefalografia (EEG) extracranica

1929

La psicologia è dominata dal behaviorism

Capitolo 4Gli studi di stimolazione elettrica di Perfield definiscono la mappa somatosensoriale nel giro postcentrale (homunculus)

1930 decennio

*Nota: questi eventi sono qui riportati, nonostante non siano trattati nel testo, a puro scopo di ricostruzione storica.

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Capitolo 13Studi pionieristici sulle funzioni cognitive della corteccia prefrontale di Jacobsen

1935 La psicologia è dominata dal behaviorism

Capitolo 10Hebb postula il principio delle basi cellulari dell’apprendimento e della memoria

1949

Capitolo 10Scoville e Milner descrivono i deficit mnesici profondi del paziente H.M. a seguito di lobectomia bilaterale temporale mediale

1957

Primi fermenti della rivoluzione cognitivista

Capitolo 3

Hubel e Wiesel scoprono le proprietà di rilevatori delle caratteristiche (feature detectors) dei neuroni della corteccia visiva primaria

1963

Capitolo 18

Lo studio di Geschwind su pazienti neurologici con afasie rafforza le teorie sulla lateralizzazione della funzione e sull’importanza delle connessioni anatomiche tra regioni per le funzioni linguistiche

1960decennio

Capitolo 13

Fuster e Alexander e Kubota e Niki scoprono l’attività sostenuta a periodo ritardato (sustained delay-period activity) nella corteccia prefrontale delle scimmie che eseguono compiti di working memory (memoria di lavoro)

1971

La psicologia cognitiva diventa dominante nello studio psicologico della cognizione

Capitolo 12Bliss e Lomo scoprono la long-term potentiation (potenziamento a lungo termine), una prova fisiologica del postulato di Hebb del 1949

1971

Capitolo 9

Rumelhart, McClelland e il Gruppo di Ricerca PDP pubblicano i volumi Parallel Distributed Processing, descrivendo questo approccio ai modelli computazionali ispirati al funzionamento del sistema nervoso

1986

Capitolo 6Prime immagini di tomografia a emissione di positroni (PET) di soggetti umani che eseguono un compito

1988

Capitolo 6Prime immagini di attività cerebrale evocata da uno stimolo mediante risonanza magnetica funzionale (fMRI)

1992

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STORIA BREVE (E SELETTIVA)

Malgrado il termine “neuroscienze cognitive” come definizione di una disciplina scientifica esista solo da pochi decenni, questo ambito di ricerca affonda le sue radici indietro nel tempo di millenni.

Gli antichi Egizi, Greci e Romani avevano le loro opinioni circa le basi organiche dei pensieri e delle emozioni dell’uomo, malgrado molte di queste non chiamassero specificamente in causa il cervello.

Gli antichi Egizi, per esempio, nel preparare alla vita dell’aldilà i corpi dei nobili deceduti, rimuovevano ed eliminavano il cervello come primo passo nel processo di mummificazione.

Gli organi interni ritenuti degni di conservazione venivano preservati in urne che venivano inumate assieme al corpo del defunto. In molte tra le antiche civiltà delle quali si ha traccia, Romani inclusi, si riteneva che il cuore fosse la sede del pensiero. Nell’era illuministica, tuttavia, il ruolo centrale del “neuro” nella cognizione era ampiamente accettato. Un esempio altamente influente (seppur recentemente ridicolizzato) fu quello degli ana-tomisti tedeschi Franz Josef Gall (1758-1828) e Johann Caspar Spurzheim (1776-1832), che realizzarono uno schema molto dettagliato, noto come frenologia, su come la forma di differenti parti del cranio sarebbe in relazione con la personalità e le facoltà mentali di un individuo. La premessa era che le dimensioni relative delle varie parti del cervello producessero convessità e concavità a livello del cranio sovrastante. Un abile fre-nologo, dunque, avrebbe potuto capire qualcosa di un individuo attraverso la palpazione del suo cranio. Una protuberanza in corrispondenza dell’osso zigomatico al di sotto dell’occhio indicherebbe una predisposizione per il linguaggio, mentre una rientranza in corrispon-denza dell’orecchio sinistro corrisponderebbe a una relativa mancanza del tratto “distruttività” (Figura 1.1). È possibile immaginare quale evidente utilità potesse avere un simile schema, supposto che avesse una qualche validità scientifica, nella diagnosi di patologie cerebrali, così come nella valutazione della personalità e delle attitudini. (Di fatto, per un certo periodo del secolo XIX, è stato (mal)utilizzato in questo senso in maniera estensiva, soprattutto in Inghilterra e negli Stati Uniti.)

Negli ultimi 100 anni, le comunità degli psicologi e dei neuroscienziati hanno giudicato come scientificamente

Curiosità 1.1Le neuroscienze cognitive si fondano sull’assunzione fondamentale che tutte le funzioni cognitive originano dalle proprietà fisiche, chimiche e fisiologiche del cer-vello e del sistema nervoso centrale. Dunque, le differenze tra individui dipendono da fattori fisici. In soggetti umani a sviluppo normale, tuttavia, queste differenze saranno microscopiche (per esempio, con-nessioni tra neuroni [Capitoli 2 e 10]; livelli differenti di di concentrazione dei messaggeri chimici; Capitolo 2) e dovute a differenze genetiche e/o esperienziali.

inconsistenti tutti i postulati della frenologia. Oggi appare chiaro che piccole peculiari variazioni di forma tra un cervello e un altro hanno ben poco, se non nulla, a che vedere con la personalità (tuttavia, consulta in merito Curiosità 1.1).

Constatiamo anche che le assegnazioni delle funzioni che Gall diede alle varie parti del cervello non erano scientificamente rigorose e si sono rivelate complessi-vamente errate. Un terzo punto che merita ulteriori commenti (Scheda di approfondimento 1.1) riguarda il fatto che la selezione e definizione delle funzioni mappate dai frenologi mancavano di sistematicità e rigore. Vi era, tuttavia, al fondo del concetto dei frenologi, un’idea che ha continuato ad animare i dibattiti sulle funzioni del cervello fino ai giorni nostri – l’idea della localizzazione della funzione.

Localizzazione della funzione vs azione di massa

Il principio della localizzazione della funzione si riferisce all’idea che differenti aspetti della funzione cerebrale, come la percezione visiva o il controllo delle emozioni o il talento musicale, sono governati da, e quindi loca-lizzabili in, differenti “centri” nel cervello. Un’analogia potrebbe essere rappresentata dal principio che differenti funzioni corporee – estrazione di ossigeno dal sangue o pompaggio del sangue o filtraggio del sangue – sono realizzate da organi differenti (polmoni, cuore, reni) che sono localizzati in distretti differenti del corpo. Questo concetto può essere messo a confronto con un’idea

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alternativa, l’azione di massa, secondo la quale una determinata funzione non è necessariamente localizzata in un’area specifica del cervello e, viceversa, ciascuna area del cervello non può essere ritenuta il “centro” specializzato per una determinata funzione. Per restare all’analogia di regioni familiari del nostro corpo al di sotto del collo, è possibile illustrare il principio dell’azione di massa focalizzandoci sul rene. La funzione renale – il filtraggio del sangue – è realizzata allo stesso modo nelle porzioni superiore, media e inferiore. Per comprendere come il rene svolge questo lavoro, ci si potrebbe limitare a studiare in dettaglio il funzionamento interno della

sola parte superiore, media o inferiore di questo organo, ottenendo da ciascuna i medesimi risultati. Di fatto, le differenti zone del rene sono “intercambiabili” in termini di comprensione del loro funzionamento.

Ora, proviamo a fare un salto indietro nel tempo di alcuni secoli, ovvero a un’epoca nella quale ciò che ho appena riferito non era ancora stato dimostrato. È un’era nella quale le tecniche della ricerca biomedica sono limitate e il migliore strumento a disposizione per studiare la funzione di un organo è di danneggiarne una parte e osservare l’impatto del danno sulla funzione. Danneggiando regioni di dimensioni simili nella parte

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FIGURA 1.1 Mappa frenologica dell’organizzazione anatomica delle facoltà mentali. Esse sono organizzate in due categorie prin-cipali (grassetto), ciascuna con sottocategorie (sottolineato). La prima categoria è quella delle facoltà emozionali: Propensioni:* – Propensione ad alimentarsi; 1 – Distruttività; 2 – Propensione ad amare; 3 – Tendenza a riprodursi; 4 – Tendenza all’attacca-mento; 5 - Appartenenza; 6 - Combattività; 7 – Segretezza; 8 – Avidità; 9 – Costruttività; Sentimenti: 10 – Cautela; 11 – Tendenza ad approvare; 12 – Autostima; 13 – Benevolenza; 14 – Reverenza; 15 – Fermezza; 16 – Coscienziosità; 17 – Ottimismo; 18 – Meraviglia; 19 – Idealità; 20 – Gaiezza; 21 – Imitazione. La seconda categoria è quella delle facoltà intellettuali: Percettive: 22 – Individualità; 23 - Configurazione; 24 – Dimensione; 25 – Peso e resistenza; 26 – Colorazione; 27 – Localizzazione; 28 – Ordine; 29 – Calcolo; 30 – Eventualità; 31 – Tempo; 32 – Sintonia; 33 – Linguaggio; Riflessive: 34 – Confronto; 35 – Causalità. Fonte: Spurzheim, 1834.

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superiore, media o inferiore del rene si ottiene il mede-simo effetto: una riduzione complessiva nell’efficacia della filtrazione renale. In questo modo, si sarebbe sco-perto che un principio di azione di massa si applica al rene: una lesione di maggiori dimensioni provoca una diminuzione più consistente del grado di filtrazione

renale; lesioni di minori dimensioni inducono un calo meno sensibile della filtrazione renale e, cosa ancor più importante, la localizzazione del danno non conta.

Ritorniamo ora alle funzioni cerebrali. Nei decenni successivi all’introduzione della frenologia – e per certi versi in reazione a essa – gli scienziati e i medici hanno

1.1 Che cos’è una funzione? (E quali caratteristiche rendono le basi neurali di una funzione accessibili allo studio sperimentale?)

Una rapida ispezione di un fiasco rappresentativo della frenologia, come quello illustrato in Figura 1.1, fa davvero sorridere: Avidità? Coscienziosità? Propensione ad amare? Su quali basi si può asserire che queste etichette corrispondano davvero a “funzioni” unitarie e discrete?

Verso la fine di questo capitolo noteremo che le funzioni del controllo motorio e della visione sono relativamente semplici da osservare e da misurare. Il fatto che si sia constatato che sono localizzabili con una certa specificità anatomica rinforza l’idea che ciascuna possa essere considerata una funzione discreta del cervello. Si può dire lo stesso, per esempio, della coscienziosità? È vero, naturalmente, che un organismo senza cervello non può esibire coscienziosità e che dunque il fenomeno non può esistere in assenza di cervello. Tuttavia, non potrebbe piuttosto essere che la “coscienziosità” sia solo un’etichetta che noi, membri di società altamente organizzate, abbiamo assegnato a una collezione di attributi che non corrispondono di fatto a nessuna specifica facoltà men-tale? Per esempio, se una studentessa mi invia un bigliettino di ringraziamento per averle scritto una lettera di raccomandazione, penserò che ha dimostrato coscienziosità. Non potrebbe però anche darsi il caso che sia stata condizionata durante il periodo della sua educazione giovanile dalla ricerca di rinforzo da parte dei genitori (Ma che brava questa ragazza che scrive i bigliettini di ringraziamento!) e che il suo bigliettino per me sia semplicemente il prodotto di un’associazione che lei ha realizzato tra lo scrivere un bigliettino di ringraziamento e questo rinforzo? Se fosse questo il caso, non sarebbe possibile localizzare la coscienziosità e qualunque tentativo di farlo sarebbe destinato a conclusioni erronee.

Questo esercizio illustra un difetto fondamentale della frenologia: molte, se non tutte, le “funzioni” che aveva inteso mappare nel cervello erano sostanzialmente non valide, in quanto derivate semplicemente dall’intuizione di Gall stesso. Più in generale, illustra due principi fondamentali delle neuroscienze cognitive attuali. Il primo è che la validità di un modello di rappresentazione neurale di una funzione cognitiva dipende strettamente dalla validità della funzione che si cerca di spiegare. La questione della construct validity sarà ripresa in ogni dominio comporta-mentale che affronteremo in questo libro. Per molti, i modelli formali del costrutto in esame verranno da una delle “differenti discipline di studio” citate nell’Introduzione alla Sezione I. Il secondo principio è che non tutti gli aspetti della cognizione e del comportamento sono ugualmente accessibili, con le attuali teorie e gli attuali modelli dispo-nibili, a una spiegazione fondata sulle basi neurali. Per capirci meglio ritorniamo alla coscienziosità. Si dà il caso che nel campo della psicologia della personalità la coscienziosità sia un costrutto valido, una delle dimensioni dei “big five” lungo la quale può variare la personalità individuale (insieme con la piacevolezza, l’estroversione, l’apertura e il nevroticismo). Ciascuna di queste è formalizzata come un fattore statistico al quale molti tratti contribuiscono. (Per la coscienziosità, questi includono la misura in cui un individuo “segue un programma”, “dimentica di rimettere le cose in ordine” ecc.) Tuttavia, nulla di tutto questo scalfisce il ragionamento fatto nel precedente paragrafo, ovvero che non tutti i tratti descrivibili sono facilmente riducibili a un livello di analisi di tipo neurale.

SCHEDA DI APPROFONDIMENTO

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iniziato a perseguire l’idea della localizzazione della fun-zione nel cervello utilizzando procedure che riflettevano la maturazione del metodo scientifico che si stava realiz-zando in molte branche della scienza, dalla biologia alla chimica alla fisica. A livello generale, questo comportava l’articolazione a priori di ipotesi verificabili (ovvero, stabilire l’ipotesi prima di eseguire l’esperimento) e il disegno di esperimenti controllati che potessero essere replicati in altri laboratori. Un avanzamento impor-tante per gli studi sul cervello, in particolare, fu l’analisi accurata delle conseguenze comportamentali del danno a una specifica regione cerebrale. Questo metodo ha preso il nome di neuropsicologia (Curiosità 1.2). Con questo approccio, alcune affermazioni di natura loca-lizzazionista tipiche dei frenologi sono state smentite. Forse più influenti sono risultati gli studi dello scienziato francese Pierre Flourens (1794-1867). Instancabile cri-tico dei frenologi, Flourens condusse gran parte del suo lavoro sperimentale su piccioni e cani. La sua ricerca fu influente sotto due punti di vista. Primo, alcuni esperi-menti di Flourens hanno smentito affermazioni tipiche della frenologia, come la sua dimostrazione del fatto che danni al cervelletto alteravano la coordinazione della locomozione, ma non avevano effetti sulla propen-sione all’amore (ovvero l’arousal sessuale), al contrario di quanto avrebbe previsto il modello di Gall (Figura 1.2 e Curiosità 1.3). Secondo – e più in generale – gli studi di Flourens sulla corteccia cerebrale non hanno for-nito alcuna evidenza sulla localizzazione della funzione. Dunque, sebbene il danno alla corteccia producesse invariabilmente alterazioni marcate di comportamenti associati alla valutazione, alla memoria, alla percezione, questi deficit si verificavano a prescindere da quale area cerebrale fosse coinvolta. Per inferenza, questi risultati indicavano che tutte le regioni della corteccia contribu-iscono equamente a questi comportamenti. (Da notare che lo stesso non si verificava negli studi di Flourens sul

tronco dell’encefalo, al quale appartiene – per esempio – il cervelletto [vedi Figura 1.2 e Web Link 1.1].) Un altro concetto importante emerso dal lavoro di Flourens derivava dal fatto che, con il passare del tempo, animali con danno sperimentalmente indotto a una zona della corteccia spesso recuperavano la funzionalità a livelli prechirurgici. Poiché questo si verificava senza evidente riparazione del tessuto danneggiato, si è concluso che aree intatte del cervello vicariassero la funzione. Questo ha dato origine al concetto di equipotenzialità, ovvero l’idea che qualunque parte del tessuto corticale abbia la capacità di adempiere a qualunque funzione cerebrale.

Circa 50 anni prima di questo libro e 130 anni dopo l’apice dell’avventura frenologica, i neuroscienziati Charles Gross e Lawrence Weiskrantz scrissero: “L’epoca eroica del nostro settore di ricerca prese avvio con Gall (1835)…[che] stimolò l’individuazione dei centri cere-brali e diede la prima spinta al pendolo della disputa tra i concetti di azione di massa e di localizzazione” (Gross e Weiskrantz, 1964). Implicita in questa citazione era la convinzione che la dicotomia localizzazione-azione di massa avrebbe fornito informazioni utili alla com-prensione di questioni fondamentali delle neuroscienze contemporanee. La Scheda di approfondimento 1.2 con-tiene ulteriori riflessioni su questo tema, che conserva tutt’oggi la sua rilevanza e che si rivelerà utile per la comprensione di molti concetti e controversie che sono oggi dominanti nelle neuroscienze cognitive.

Curiosità 1.2Alcuni scienziati limitano l’uso del termine neuropsico-logia a studi su soggetti umani con danno cerebrale permanente e si riferiscono ad analoghi esperimenti sull’animale con il termine studi di lesione.

Curiosità 1.3Gli studi di Gall sulla localizzazione della funzione non solo furono controversi all’interno dei circoli scientifici, ma ebbero anche implicazioni politiche. Lo storico della scienza Stanley Finger scrive: “Le autorità della chiesa cattolica austriaca interpretarono il suo lavoro come vessillo del materialismo, dell’ateismo e del fatalismo che rasenta l’eresia”. L’imperatore d’Austria (che governava Vienna, dove Gall aveva iniziato la sua carriera) inviò a quest’ultimo una lettera di minacce che recitava: “Questa dottrina sulla testa…potrà forse costare a qualcuno la propria” (Finger 2000, pp. 124-125). Dopo pochi anni, Gall (e la sua testa) lasciarono definitivamente Vienna per stabilirsi a Parigi.

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La prima dimostrazione scientificamente rigorosa della localizzazione della funzione

Malgrado i concetti sostenuti da Gall da un lato e da Flourens dall’altro siano ancor oggi nell’aria, di certo lo stesso non si può dire circa la maggior parte delle evidenze che i loro studi hanno prodotto. Piuttosto, nella metà/fine Ottocento, ovvero durante quello che può essere considerato il primo ritorno del pendolo, nella sua oscillazione, verso il punto di vista della localizzazione,

si assiste all’emergere di principi sulla funzione cerebrale che, almeno approssimativamente, si sono mantenuti fino a oggi. Questi principi riguardano le funzione relative al controllo motorio, alla visione e al linguaggio.

La localizzazione delle funzioni motorieA partire dal 1860, il neurologo britannico John Hughlings Jackson (1835-1911) descrisse la traiettoria sistematica di certe convulsioni focali che prendono avvio dalle dita e si diffondono lungo il braccio fino al tronco,

A

Lobofrontale

Solcocentrale

Loboparietale

Lobooccipitale

Cervelletto

Solcolaterale

Lobotemporale

Corpocalloso

Lobofrontale

Lobo limbico

B

Nucleocaudato

Fornice Lobotemporale Tronco

encefalicoCervelletto

Lobooccipitale

Talamo

Lobo limbico

Loboparietale

Solcocentrale

FIGURA 1.2 Il cervello umano (vedi Capitolo 2 e Web Link 1.1, Cervello umano in 3-D rotabile e “sezionabile”, per le definizioni e la terminologia). A. Aspetto laterale. B. Aspetto mediale. Fonte: Colin Cumbley/Science Photo Library. Riprodotta con permesso.

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INTRODUZIONE E STORIA 13

talvolta concludendosi con una perdita di coscienza. A partire da questo pattern caratteristico, che da allora è noto come la marcia di Jackson (è come se la convulsione marciasse lungo il corpo), Jackson propose che l’attività cerebrale anomala che si presumeva fosse alla base delle convulsioni avesse origine in una zona della corteccia

che controlla le dita e che si muovesse lungo la super-ficie della corteccia, interessando progressivamente le aree cerebrali che controllano il palmo della mano, il polso, il braccio ecc.

Ci furono due importanti implicazioni della teo-ria di Jackson. La prima fu l’ipotesi che la capacità di

1.2 Localizzazione vs azione di massa nel corso degli anni

La domanda chiave nell’ambito delle neuroscienze cognitive è In che modo il funzionamento del cervello produce la cognizione e il comportamento? Un modo per affrontare la questione su come funziona un determinato sistema è quello di dividere il suo comportamento complessivo in funzioni ragionevolmente discrete e di determinare se parti fisicamente distinte del sistema possano supportare in modo diverso le differenti funzioni. Per determinare come funziona un’automobile, per esempio, si dovrebbe iniziare “scomponendo” in maniera logica il suo comportamento complessivo in funzioni plausibilmente separabili, ovvero quelle che accelerano e alimentano il movimento da quelle che lo rallentano e lo interrompono. Questo approccio conduce inevitabilmente a un modo di vedere il sistema come se fosse fatto di componenti discrete, ciascuna delle quali sottende a una funzione specifica. Tuttavia, non tutti i sistemi sono fatti di componenti discrete ciascuna con la propria funzione alla maniera di un’automobile. Prendiamo per esempio un banco di pesci. Esso ha delle proprietà (forma complessiva, regolarità dei margini esterni, variazioni di velocità e direzione) che non possono essere attribuite ai singoli componenti. Ciascuna di queste proprietà può essere definita una proprietà emergente, nel senso che non si ritrova in alcuno degli elementi costitutivi (nell’esempio, in alcuno dei singoli pesci), ma “emerge” a livello di banco. (Vedremo che molte funzioni cognitive, compresa la coscienza, sono da molti considerate come emergenti.) Se prendiamo in esame il banco di pesci, tutte le sue parti eseguono la medesima funzione e sono intercambiabili (ovvero posseggono equipoten-zialità) e la rimozione del 20% dei pesci da una parte del banco piuttosto che da un’altra avrà i medesimi effetti sul banco stesso (ovvero si applica il principio dell’azione di massa). Il principio della localizzazione della funzione non è applicabile a un banco di pesci. (Si noti, tuttavia, che la localizzazione della funzione è applicabile all’interno del singolo pesce ‒ per esempio, per il movimento della coda o l’estrazione dell’ossigeno dall’acqua ‒ così che risulta molto importante specificare il livello di dettaglio al quale si decide di studiare un sistema.)

Poiché le automobili sono opera dell’uomo, non vi è necessità di effettuare esperimenti per determinarne il funzio-namento. Ed è proprio perché sappiamo come sono disegnate e realizzate che comprendiamo che una prospettiva basata sulla localizzazione della funzione è il modo corretto di ragionare su come le differenti funzioni dell’automobile sono realizzate. Poiché un banco di pesci è completamente osservabile (ovvero, sappiamo tutto ciò che c’è da sapere circa la sua composizione) sappiamo che vi si applicano le proprietà dell’emergenza, dell’equipotenzialità e dell’azione di massa. Tuttavia, il cervello è differente da questi due esempi, poiché non sappiamo tutto quello che c’è da sapere sulla sua composizione. Per studiarlo, di conseguenza, i neuroscienziati della cognizione elaborano dei modelli e testano questi modelli con esperimenti. Malgrado non venga sempre apertamente specificato, questi modelli e/o le tecniche utilizzate per testarli partono spesso dal presupposto che la porzione cerebrale in esame funzioni con principi di localizzazione o di distribuzione. Nell’avviarci allo studio di questioni aperte delle neuro-scienze cognitive, è opportuno tenere in conto che la scelta di un modello e/o di un metodo può condizionare le interpretazioni dei dati in direzione localizzazionista o più in linea con i concetti di azione di massa ed emergenza.

SCHEDA DI APPROFONDIMENTO

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movimento del corpo (ovvero, il controllo motorio) fosse una funzione localizzata nel cervello. La seconda fu un principio che divenne un assunto fondamentale dell’organizzazione funzionale in diverse aree cerebrali, ovvero che l’organizzazione del cervello rispecchia l’or-ganizzazione del corpo (o, come vedremo, una specifica regione del corpo). In questo caso specifico, si propose che l’area del cervello che controlla i muscoli delle dita fosse adiacente all’area che controlla i muscoli del palmo della mano, che a sua volta è adiacente all’area cerebrale che controlla i muscoli del polso e così via. Dunque, le funzioni di ciò che verrà identificato come la corteccia motoria sono rappresentate sulla superficie del cervello in una sorta di mappa del corpo (ovvero, in somatotopia). In questo modo, l’idea di un’organizzazione topografica della funzione fu introdotta nello spazio lasciato vuoto dallo schema arbitrario (e ormai discreditato) dei fre-nologi (i principi e le caratteristiche della somatotopia verranno presentati in dettaglio nei Capitoli 4 e 7).

Malgrado le idee proposte da Jackson fossero basate su accurate osservazioni dei pazienti, una teoria come quella dell’organizzazione somatotopica della corteccia motoria non poteva essere definitivamente valutata senza l’osservazione diretta o la manipolazione del cervello stesso. La capacità di realizzare studi empirici definitivi in questo senso divenne possibile grazie ai progressi dell’Illuminismo nel modo di pensare la scienza e il metodo scientifico, oltre ai concomitanti progressi tecno-logici che consentivano di sviluppare metodi scientifici innovativi. Di particolare rilevanza fu la messa a punto di metodi che consentissero interventi chirurgici in condizioni di asepsi (sterilità). Questi consentirono agli sperimentatori di mantenere in vita gli animali per set-timane o più a lungo ancora a seguito della craniotomia, necessaria per produrre lesioni o manipolare le funzioni cerebrali. In precedenza, le infezioni spesso limitavano la sopravvivenza postchirurgica a poche ore o pochi giorni. Questo progresso tecnologico aveva molte implicazioni importanti, tra le quali quella di aprire la strada per la stimolazione diretta del – e in seguito la registrazione dal – cervello di un animale intatto (tecniche che rien-trano nella categoria della neurofisiologia, vedi Scheda metodologica 1.1).

Fu così che il medico tedesco Gustav Fritsch (1838-1927) e Eduard Hitzig (1838-1907) dimostrarono che la stimolazione elettrica di porzioni anteriori della corteccia

cerebrale del cane, situate nel lobo frontale, producevano movimenti sul lato opposto del corpo (Fritsch e Hitzig, 1870). Due questioni erano degne di nota. Primo, una simile stimolazione di una regione più posteriore del cervello, il lobo parietale, non produceva movimenti del corpo (Figura 1.3). Sulla base di questa dimostrazione della specificità anatomica degli effetti (Scheda metodo-logica 1.1), Fritsch e Hitzig sfidarono apertamente l’idea di equipotenzialità sostenuta da Flourens. Secondo, la regione del corpo coinvolta dalla stimolazione elettrica (es. collo, arto anteriore, arto posteriore) variava sistema-ticamente al variare della posizione dell’elettrodo stimo-lante. Tutto questo supportava oggettivamente l’idea di Jackson sull’organizzazione somatotopica delle funzioni motorie del cervello.

La localizzazione della percezione visivaUna seconda funzione che fu al centro di intensa ricerca scientifica in quel periodo fu la percezione visiva. Anche qui gli studi di Flourens risultarono influenti. Malgrado avesse dimostrato il principio della lateralizzazione incro-ciata della funzione – ovvero che le lesioni dell’emisfero sinistro producevano disfunzioni visive nel campo visivo di destra e viceversa – egli non aveva trovato alcuna evi-denza del fatto che questo meccanismo generale variasse in funzione di dove nell’emisfero si effettuava la lesione. Ovvero, Flourens non era riuscito a trovare l’evidenza della localizzazione della funzione visiva all’interno dell’emisfero cerebrale.

FIGURA 1.3 Illustrazione dell’aspetto superiore del cervello di un cane. I simboli indicano, in senso rostro-caudale, le aree la cui stimolazione produce contrazioni muscolari sul lato destro del corpo, rispettivamente a livello del collo, dell’arto anteriore e dell’arto posteriore. Fonte: Fritsch e Hitzig, 1870.

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INTRODUZIONE E STORIA 15

1.1 Neuropsicologia e l’importanza della specificità anatomica

La neuropsicologia si fonda sull’idea che un modo di comprendere il funzionamento di un sistema è quello di rimuovere (o inattivare) sistematicamente parti di esso e osservare come la rimozione di ciascuna parte condizioni il funzionamento del sistema. Uno studio neuropsicologico può rispondere alla domanda La regione A contribui- sce in maniera significativa al comportamento X?, ma non è in grado di spiegare direttamente come la regione A riesca a farlo. In altre parole, non può rispondere a domande relative ai meccanismi. Gli studi neuropsicologici, piuttosto, possono studiare il modo con cui la funzione della regione A dà origine al comportamento X. Un esempio concreto: questo capitolo descrive come la sperimentazione neuropsicologica venne utilizzata per determinare in via definitiva che la percezione visiva è localizzata nella corteccia occipitale. Tuttavia, non prima del Capitolo 3 (e, cronologicamente, solo circa 80 anni dopo) vedremo che gli esperimenti elettrofisiologici dimostreranno come i neuroni nel lobo occipitale processano l’informazione visiva. Ciononostante, un esperimento neuropsicologico condotto accuratamente può consentire di inferire con maggiore sicurezza circa il contributo di una regione al comportamento di quanto spesso non permettano esperimenti che misurano variabili neurofisiologiche, poiché il primo ci può dire in maniera definitiva se il contributo di una regione a un certo tipo di comportamento è neces-sario. Gli studi che utilizzano misure neurofisiologiche, al contrario, si limitano a rivelare correlazioni tra un’attività cerebrale e il comportamento oggetto di indagine. Gli studi che utilizzano stimolazioni neurofisiologiche ‒ del tipo di quelli condotti da Fritsch e Hitzig e trattati nella sezione La localizzazione delle funzioni motorie di questo capitolo ‒ rappresentano una sorta di via di mezzo.

In entrambi i tipi di esperimenti, l’affidabilità delle conclusioni dipende dalla specificità anatomica. Per esempio, ciò che rese l’esperimento di Fritsch e Hitzig (1870) tanto efficace fu la specificità con la quale dimostrò che la stimolazione di una certa porzione del lobo frontale nell’emisfero sinistro produceva movimenti dell’arto anteriore destro e non dell’arto posteriore destro o dell’arto anteriore sinistro. Inoltre, la stimolazione di un’area limitrofa produceva selettivamente movimenti di un’altra regione del corpo, l’arto posteriore destro. Se gli autori avessero limitato il loro resoconto alla prima dimostrazione, sarebbero rimaste senza risposta due importanti questioni. La prima: è possibile che la stimolazione di altre regioni produca il movimento dell’arto anteriore destro? Trovare una risposta a questo significava comprendere quanto sia localizzato il controllo dell’arto anteriore destro. La seconda: la stimolazione di questa regione del cervello produce movimenti anche di altre parti del corpo? La risposta a questo avrebbe dato un’indicazione su quanto specifica sia la funzione dell’area cerebrale sotto indagine. Queste conside-razioni possono essere particolarmente importanti negli studi neuropsicologici sull’uomo, come quelli descritti nel paragrafo La localizzazione del linguaggio di questo capitolo, già che questi studi spesso si fondano su “incidenti della natura”, come l’ictus, la malattia neurodegenerativa, il trauma cranico. In quel contesto, gli scienziati non hanno controllo (se non quello di come selezionano i pazienti) sull’estensione del danno, né in termini di quante strutture sono coinvolte né di volume complessivo del tessuto danneggiato. Quando le lesioni sono estese, c’è un’intrinseca difficoltà nel determinare quale delle strutture danneggiate sia responsabile del deficit comportamen-tale riscontrato. Un modo sensato per affrontare questo problema, la “doppia dissociazione della funzione”, verrà introdotto nel Capitolo 5 (Riflettori sulla ricerca 5.1 e Scheda metodologica 5.1).

SCHEDA METODOLOGICA

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Come per altri suoi risultati sperimentali negativi, tuttavia, anche questo fu superato dall’avvento di nuovi e migliori metodi empirici. Nel caso della ricerca sulla visione, l’affinamento dei metodi di lesione sperimen-talmente indotta rappresentò lo sviluppo decisivo per una scoperta importante. In particolare, lo sviluppo di tecniche chirurgiche asettiche risultò in una sopravvi-venza postchirurgica più lunga e di migliore qualità degli animali sperimentali, rispetto a quanto fosse possibile ottenere in precedenza. Tutto questo, per parte sua, con-sentì valutazioni del comportamento assai più sofisticate e conclusive. Addirittura, per un certo tempo, non fu raro vedere a un convegno scientifico un ricercatore che portava con sé un animale con una lesione per mostrarne le alterazioni comportamentali. Per ragioni forse simili, questo stesso periodo vide il fiorire della ricerca sulle scimmie, che hanno cervello e comportamenti più simili a quelli dell’uomo rispetto agli uccelli o ai carnivori; ma, naturalmente, è assai più costoso procurarsi e alle-vare scimmie piuttosto che uccelli, roditori e carnivori. Così, la ricerca sulle scimmie non fu considerata per-corribile fino al XIX secolo, quando si realizzarono progressi notevoli nelle tecniche chirurgiche. (Vedi la Scheda di approfondimento 1.3 per alcune considerazioni sul ruolo dei modelli animali non umani nella ricerca neuroscientifica.)

Alla scoperta di una regione specializzata nel controllo motorio seguì immediatamente un’intensa ricerca sulle basi neurali della percezione visiva. Utilizzando tecniche di stimolazione elettrica e di lesione chirurgica, la ricerca iniziale su cani e scimmie suggerì il ruolo privilegiato nella percezione visiva delle regioni posteriori del cer-vello. Ovvero, così come era stato provato in maniera conclusiva che il controllo motorio non dipende dalle regioni posteriori, il contrario risultò essere per la visone.

Gli ultimi decenni del XIX secolo furono caratteriz-zate da un dibattito vivace sul fatto che i “centri della visione”, una definizione dovuta al fisiologo britannico David Ferrier (1843-1928), fossero localizzati in una regione della corteccia parietale o in una regione della corteccia occipitale (Figura 1.4). Questa ricerca, con-dotta soprattutto sulle scimmie e da parte di Ferrier, del fisiologo Hermann Munk a Berlino (1839-1912) e del fisiologo Edward Schaefer a Londra (1850-1935), ha gradualmente portato alla conclusione che la regione la cui distruzione produceva una cecità evidente e per-sistente – e non a deficit visivi solo sfumati e transitori – era la corteccia occipitale. Questa conclusione, rin-forzata da osservazioni raccolte da pazienti umani con lesioni cerebrali, portò alla localizzazione universalmente accettata della corteccia visiva primaria a livello del lobo occipitale.

A

X

B

FIGURA 1.4 Due lesioni sperimentali realizzate da Ferrier in esperimenti disegnati per localizzare il locus corticale dell’elaborazione dell’informazione visiva. A. Lesione del lobo parietale che Ferrier nel 1876 interpretò come responsabile di cecità permanente e, dieci anni dopo, di cecità temporanea. B. Lesione del lobo occipitale che egli interpretò come non responsabile di alcun deficit visivo. Il neuroscienziato Charles Gross (1998) ha marcato con una X la regione che oggi sappiamo rappresentare la visione centrale (foveale), un argomento che esploreremo in dettaglio nel Capitolo 3. Queste lesioni e la loro interpretazione illustrano le difficoltà che incontravano nel XIX secolo i neuroscienziati nel localizzare le funzioni cognitive nel cervello.

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La localizzazione del linguaggioL’ultima funzione cerebrale che prenderemo in consi-derazione in questo capitolo introduttivo è il linguag-gio: più specificamente, l’abilità di parlare. La facoltà del linguaggio era stata localizzata dai frenologi in una regione del lobo frontale immediatamente posteriore agli occhi. (Si racconta che quest’idea fosse derivata

dall’osservazione da parte di Gall di un compagno di classe che possedeva una prodigiosa memoria verbale e occhi sporgenti, il che spinse Gall a dedurre che fosse il lobo frontale ipersviluppato a spingere gli occhi in avanti.) Come accadde per il controllo motorio, lo studio post-frenologico del linguaggio ebbe inizio con osserva-zioni cliniche. Nei decenni che precedettero il 1860, studi

1.3 Il ruolo dei modelli animali nella ricerca neuroscientifica

Da questo escursus storico appare evidente che le neuroscienze cognitive moderne non si sarebbero potute svilup-pare senza la ricerca sui modelli animali. È altrettanto vero che la ricerca sui modelli animali svolge ancora oggi un ruolo cruciale e necessario in tutte le branche delle moderne neuroscienze cognitive. La ragione di questo, come si constaterà in ciascuno dei prossimi capitoli, è che molte domande sull’anatomia e la fisiologia non possono trovare risposta scientifica se non attraverso la realizzazione di esperimenti invasivi. La lettura di questo libro chiarirà anche che, nonostante si sia acquisita una grande mole di informazioni su come il funzionamento del cervello determini la cognizione, un’enorme quantità di questioni rimane ancora senza risposta. Anche a fronte di recenti e continui progressi nei metodi non invasivi per lo studio del cervello (per esempio, il neuroimaging e il computer modeling) ci saranno ancora domande alle quali si potrà dare risposta solo attraverso protocolli sperimentali invasivi.

Per queste ragioni, un altro fattore sociologico con il quale i neuroscienziati cognitivisti dovranno fare i conti (in aggiunta a quelli già anticipati nel secondo paragrafo) è l’etica della sperimentazione animale. Questo vale anche per quei ricercatori (come l’autore di questo libro) che conducono ricerca esclusivamente su soggetti umani.

Questo perché molte delle idee che motivano i nostri esperimenti provengono dalla ricerca condotta sugli animali e la nostra abilità nell’interpretare i nostri dati dipende spesso da quanto si è appreso attraverso la ricerca sull’animale. A riprova informale di questo, basti considerare i contenuti degli incontri periodici di aggiornamento bibliografico dei membri del mio laboratorio. Durante il semestre accademico che ha preceduto la stesura di questa scheda di approfondimento, il mio gruppo di ricerca si è incontrato 14 volte, in ciascuna delle quali si è discusso un articolo ricavato da una rivista scientifica e rilevante per la nostra ricerca. Ebbene, in quattro di questi incontri si è trattato di ricerche condotte su modelli animali. Da qui, una nota semantica: in tutto il presente libro, quando parlerò genericamente di “primati”, mi riferirò a tutte le specie appartenenti a quest’ordine tassonomico (uomo incluso). Tipicamente, questo avverrà nel contesto di strutture/funzioni/comportamenti che accomunano i primati, ma che non sono generalizzabili agli altri mammiferi.

L’etica sulla ricerca animale è complessa e il tema può sollevare forti emozioni. I dibattiti sono spesso caratterizzati da questioni teoriche per le quali non ci sono riposte oggettivamente “corrette” o “sbagliate”. Per esempio, una domanda che si è sentita circolare è se – in presenza di un edificio in fiamme e di tempo disponibile per salvare un solo essere vivente – si salverebbe l’uomo oppure il topo (o il cane, o la scimmia ecc.). Ebbene, è assodato che vi sono occasioni nelle quali due persone potrebbero dedicare un intero pomeriggio a dibattere anche solo sul fatto che questa analogia sia corretta o meno per affrontare la questione della sperimentazione animale. Anche se considerazioni più dettagliate su questo tema esulano dallo scopo di questo libro, si consiglia la lettura del neuro-scienziato Dario Ringach (2011) (vedi Letture consigliate) che riassume egregiamente molti degli spunti in favore e contro la ricerca sull’animale e fornisce riferimenti bibliografici a supporto di entrambi i punti di vista.

SCHEDA DI APPROFONDIMENTO

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isolati riportavano – in alcuni casi – che era la lesione del lato sinistro del cervello a essere associata a disfun-zioni del linguaggio – in altri – che questi effetti erano dovuti a lesioni delle porzioni anteriori. All’accumularsi di queste osservazioni, si fece largo l’idea che le porzioni anteriori dell’emisfero sinistro fossero importanti per il linguaggio. Durante il decennio del 1860, il chirurgo francese Paul Broca (1824-1880) pubblicò una serie di case studies che confermavano questa convinzione. Fu famoso il caso del paziente colpito da ictus, “Tan”, così soprannominato perché questo era l’unico suono che riusciva a produrre con la bocca. È importante ricordare che il difetto di Tan era specifico della produzione del linguaggio (ovvero, della verbalizzazione), poiché egli era in grado di comprendere e seguire le istruzioni verbali che riceveva. Inoltre, non vi era alcuna paralisi evidente nell’apparato di fonazione, nel senso che – malgrado una certa alterazione motoria della parte destra del corpo – egli era in grado di mangiare, bere ed emet-tere la sua celebre espressione verbale. Alla morte di Tan, Broca esaminò il cervello del paziente e concluse, sulla base dell’evidente lesione riscontrata (Figura 1.5), che la capacità di parlare è localizzata nel “terzo posteriore

della terza convoluzione” (una porzione del giro frontale inferiore di sinistra nota oggi come area di Broca). Vale ora la pena di soffermarsi un istante sul perché Broca, e non i suoi predecessori e contemporanei che pure avevano fatto osservazioni simili sui pazienti, ebbe il riconoscimento ufficiale della sua scoperta. Un fattore importante è che i resoconti di Broca confermavano un’idea già precedentemente avanzata – una sequenza di eventi in pieno accordo con un’epoca nella quale si enfatizzava l’importanza della verifica delle ipotesi come elemento fondante del metodo scientifico.

CHE COS’È E CHE COSA FA IL CERVELLO?

Nel concludere questo escursus sulla nascita delle moderne neuroscienze è interessante chiedersi perché il controllo motorio, la visione e il linguaggio siano state le prime tre funzioni del cervello a far sorgere un nuovo modo di pensare e di fare scienza. Con particolare rife-rimento alle prime due funzioni, poniamoci le domande generali Che cos’è il cervello? Che cosa fa? Per esempio, che proprietà accomunano gli animali dotati di cervello e che gli organismi sprovvisti di cervello (per esempio, gli alberi) non hanno? Una risposta è che i cervelli conferiscono l’abilità di percepire variazioni dell’am-biente – per esempio, una pietra che cade – e adottare una risposta appropriata: scansarsi. L’albero, invece, non ha strumenti per acquisire l’informazione che qualcosa di potenzialmente pericoloso sta per verificarsi, né l’a-bilità di fare qualcosa per evitarlo. E così viene travolto. Dunque, l’abilità di vedere (ovvero, la visione) e l’abilità di muoversi (ovvero, il controllo motorio) sono fun-zioni relativamente semplici da osservare e misurare. Lo stesso non si può dire per esempi più sfumati di eventi cervello-mediati che si verificano in natura. Facciamo l’esempio di scrivere il libro che ora stai leggendo. Di certo, la visione e il controllo motorio sono stati coin-volti. (Per esempio, quando ho ricevuto la richiesta via posta elettronica da parte dell’editore di scrivere questo testo, ho usato la visione per leggere i caratteri neri su sfondo bianco nello schermo del computer.) C’erano, tuttavia, molti ulteriori passi da compiere. Tra questi, la valutazione e la decisione da prendere (Vale la pena assumersi tutto questo lavoro aggiuntivo? I termini del contratto

FIGURA 1.5 Superficie esterna di sinistra del cervello di Tan, il paziente di Broca. Si noti il danno esteso nel giro frontale postero-inferiore, una regione che divenne famosa con il nome di area di Broca. Fonte: Riprodotta con il permesso del Museo Dupuytren, Università Pierre et Marie Curie, Parigi. Riprodotta in N.F. Dronkers, O. Plaisant, M.T. Iba-Zizen e E.A. Cabanis. Paul Broca’s historic cases: high resolution MR imaging of the brains of Lebrogne and Lelong, Brain (2007) 130(5): 1432-1441. Figura 3A. Fotografia di Bruno Delamain.

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con l’editore sono accettabili?), il recupero di memorie a lungo termine (C’è quella bella citazione del capitolo di Gross nel libro di Warren e Akert che dovrei utilizzare qui), formare (e utilizzare) nuove memorie a lungo termine (Dove ho lasciato la mia copia dell’Enciclopedia del MIT sulle Scienze Cognitive l’ultima volta che ho lavorato a questo capitolo?) e molto, molto ancora. Queste ultime opera-zioni sono “interne” o “mentali”, nel senso che si sono verificate nella mia mente, senza possibilità di vederle o misurarle direttamente. Dunque, malgrado molti aspetti della cognizione cosiddetta di alto livello – compresa l’assunzione di decisioni (decision making) e vari aspetti della memoria – siano il focus di intensa ricerca delle neuroscienze cognitive contemporanee, vedremo che la capacità di definire che cosa costituisce una determinata funzione (analogamente alla visione o al controllo moto-rio), così come la capacità di localizzare la(e) regione(i) del cervello dalle quali questa funzione dipende, diventano propositi assai più complicati. I principi che spiegano come si attuano tali funzioni saranno meno accessibili all’osservazione diretta e alla misurazione di altri rela-tivi alle funzioni che sono più strettamente connesse o all’ “input” dell’informazione al cervello (per esempio, la visione) o all’“output” del cervello che si esprime attraverso movimenti del corpo (per esempio, le azioni compiute dagli organismi). (Tuttavia, come vedremo, ci sono punti di vista influenti sul funzionamento del cervello in toto che lo rappresentano come una serie di circuiti sensorimotori organizzati gerarchicamente, con quelli più astratti – per esempio i processi coinvolti nello scrivere un libro – che si sono sovrapposti nel corso dell’evoluzione a quelli più basilari – per esempio, l’evitamento riflesso di una minaccia.) Ok, dunque le basi neurali della visione e del controllo motorio sono stati i primi a essere studiati “scientificamente” in quanto semplici da osservare. Tuttavia, lo stesso non si può dire per il linguaggio. Malgrado la sua produzione abbia chiare componenti motorie, abbiamo già ricordato che la disorganizzazione del linguaggio di Tan e di altri pazienti era sostanzialmente differente dalla paralisi.

Di fatto, in un certo senso, il linguaggio può essere collocato all’estremo del continuum concreto-astratto delle facoltà umane, il quale si estende dalle funzioni “concrete” per eccellenza (ovvero, relativamente facili da osservare e misurare), come la visione e il controllo motorio, agli aspetti più astratti del pensiero cosciente.

Malgrado il linguaggio sia immediatamente osservabile, esso possiede anche un aspetto per il quale simboleggia la cognizione astratta di alto livello. Una ragione risiede nel fatto che il linguaggio presuppone l’utilizzo di codici astratti e arbitrari (per esempio, una lingua naturale) per rappresentare un significato. Intuitivamente, poiché molti di noi hanno la sensazione che “pensiamo a parole”, il linguaggio può essere visto come “roba del pensiero” e dunque simboleggia una funzione “interna”, cognitiva. E così sono reticente a concludere che il linguaggio è stato una delle prime facoltà umane a essere studiata con le moderne tecniche delle neuroscienze in quanto facile da osservare. Piuttosto, quello che suggerisco è che sono la sua intuitiva particolarità e il fatto che apparentemente sia prerogativa esclusiva dell’uomo ad averlo reso un focus di interesse per millenni. L’Illuminismo, dunque, potrebbe essere semplicemente l’epoca della storia umana dove i progressi del metodo scientifico si sono combinati con un focus della curiosità umana di vecchia data.

GUARDANDO IN PROSPETTIVA ALLO SVILUPPO DELLE NEUROSCIENZE COGNITIVE

A conclusione di questo capitolo introduttivo, osserviamo che, all’alba del XX secolo, i neuroscienziati iniziavano a studiare il cervello da entrambi gli estremi del continuum che ne comprende le funzioni in relazione al mondo esterno. In questo senso, possiamo pensare alle neuro-scienze moderne come se si sviluppassero lungo due strade. La prima, seguita dai fisiologi e dagli anatomisti che studiano la funzione e la struttura del cervello nei modelli animali, focalizzata sui sistemi neurali che sot-tendono alle varie funzioni (per esempio, percezione visiva e controllo motorio) e nota come neuroscienze dei sistemi (systems neuroscience). La seconda ha tratto origine da un comportamento umano, il linguaggio, ed era preceduta dall’idea che lo studio meticoloso delle alterazioni di questo comportamento dovute a traumi cerebrali potesse informare sia su come il comporta-mento è organizzato sia su come il funzionamento del cervello produce tale organizzazione. Quest’ultimo approccio ha dato origine alle discipline affini della neurologia del comportamento (quando esercitata dai medici) e della neuropsicologia (quando esercitata da

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20 SEZIONE I: LA NEUROBIOLOGIA DEL PENSIERO

scienziati non medici). Ora, naturalmente, la nozione di due categorie che si sviluppano in parallelo all’alba delle moderne neuroscienze è una dicotomizzazione semplicistica avanzata dall’autore di questo libro e vi sono molti aspetti che non rientrano compiutamente all’interno di questa tassonomia (Curiosità 1.4). Tuttavia, procedendo in questo testo, troveremo utile questa distin-zione. Sono queste le due tradizioni scientifiche (bre-vemente descritte in questo capitolo) che, insieme con una terza – la psicologia sperimentale (che pure ebbe inizio nella seconda metà del secolo XIX, ma che non tratteremo qui nel dettaglio – vedi Letture consigliate) che hanno fornito le basi dalle quali si sono sviluppate le moderne neuroscienze cognitive. Prima di tuffarci nelle neuroscienze cognitive vere e proprie, tuttavia, è necessario che riassumiamo alcune questioni relative al cervello, ovvero com’è fatto (anatomia) e come funziona

(fisiologia cellulare e dinamiche delle reti). Questi temi saranno il focus del Capitolo 2.

DOMANDE DI FINE CAPITOLO

1. In che cosa differiscono le neuroscienze cognitive dalle discipline affini della psicologia cognitiva e della systems neuroscience?

2. Malgrado la maggior parte delle affermazioni della frenologia siano risultate sostanzialmente scorrette, in che senso rappresentano uno sviluppo importante nel nostro modo di guardare al cervello?

3. Una delle falle più significative della frenologia è rappresentata dalle funzioni che essa cercava di mettere in relazione al cervello: in molti casi, erano costrutti non validi; in altri, non erano accessibili alla spiegazione neuroscientifica al livello che Gall si proponeva. Dallo schema frenologico riportato in Figura 1.1, seleziona almeno una funzione per la quale valgono le considerazioni appena fatte ed elabora le tue considerazioni.

4. Nel XIX secolo, che tipo di evidenza scientifica fu utilizzata a supporto dei modelli di azione di massa a livello cerebrale? E quale a supporto dei modelli localizzazionisti?

5. È possibile che alcune affermazioni relative tanto ai modelli di azione di massa quanto a quelli di loca-lizzazione della funzione siano ugualmente vere? Se sì, come pensi sia possibile?

6. Che relazione c’è tra il concetto di specificità ana-tomica e le ipotesi per testare l’azione di massa e la localizzazione della funzione?

7. Le basi neurali di quali ambiti del comportamento furono le prime a essere esplorate in maniera sistema-tica nella seconda metà del XIX secolo? Per ciascuna di esse, qual è la spiegazione più credibile?

8. Qual è il principio che soggiace alla rappresentazione topografica del cervello? Seppure questo capitolo abbia enfatizzato l’organizzazione topografica del sistema motorio, in base a quali principi/dimen-sioni potrebbe essere organizzata la topografia delle diverse modalità sensoriali (per esempio, la visione, la sensibilità somatica, l’udito)?

9. A parte uno studio che ha utilizzato la stimolazione elettrica, questo capitolo ha descritto esperimenti nei quali si inferiva sulle basi neurali di una funzione a partire da l’osservazione/la misurazione delle con-seguenze di lesioni in differenti aree del cervello. Tuttavia, vi sono due modi sostanzialmente diffe-renti di perseguire questo tipo di ricerca. Descrivili e definisci le discipline scientifiche/mediche a essi associate. Quale dei due richiede l’utilizzo di animali sperimentali?

Curiosità 1.4Un esempio di come le due maggiori categorie di neuroscienze influenzino il lavoro di un ricercatore è rappresentato dal neurologo e neuropsichiatra Eduard Hitzig (1838-1907). I suoi esperimenti di sti-molazione elettrica condotti insieme a Gustav Fritsch sono riconosciuti come fondamentali per la nascita delle neuroscienze. Un’esperienza formativa che può aver ispirato questi esperimenti risale ai tempi in cui Hitzig prestava servizio come medico nell’esercito prussiano, dove incontrò molti soldati che presen-tavano deficit comportamentali di vario genere come risultato delle ferite alla testa riportate in battaglia.

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INTRODUZIONE E STORIA 21

BIBLIOGRAFIA

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Fritsch, Gustav, and Eduard Hitzig. 1870. “Über die elek-trische Erregbarkeit des Grosshirns.” Archiv für Anatomie, Physiologie und wissenschaftliche Medicin 37: 300–332. [Available in English translation as: Fritsch, Gustav, and Eduard Hitzig. 2009. “Electric excitability of the cere-brum (Über die elektrische Erregbarkeit des Grosshirns).” Epilepsy and Behavior 15 (2): 123–130. doi: 10.1016/j.yebeh.2009.03.001.]

Gross, Charles G. 1998. Brain, Vision, Memory, Cambridge, MA: MIT Press.

Gross, Charles G., and Lawrence Weiskrantz, L. 1964. “Some Changes in Behavior Produced by Lateral Frontal Lesions in the Macaque.” In The Frontal Granular Cortex and Behavior, edited by John M. Warren and Konrad Akert, 74–98. New York: McGraw‐Hill.

Spurzheim, Johann C. 1834. Phrenology or the Doctrine of the Mental Phenomenon, 3rd ed. Boston: Marsh, Capen, and Lyon.

ALTRE FONTI

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Finger, Stanley. 1994. Origins of Neuroscience. Oxford: Oxford University Press.

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Holyoak, Keith J. 1999. “Psychology.” In The MIT Encyclopedia of the Cognitive Sciences, edited by Robert A.

Wilson and Frank C. Keil, xxxix–xlix. Cambridge, MA: MIT Press.

Kolb, Bryan, and Ian Q. Whishaw. 2003. Fundamentals of Human Neuropsychology, 5th ed. New York: Worth Publishers.

Whitaker, Harry, A. 1999. “Broca, Paul.” In The MIT Encyclopedia of the Cognitive Sciences, edited by Robert A. Wilson and Frank C. Keil, 97–98. Cambridge, MA: MIT Press.

LETTURE CONSIGLIATE

Boring, Edwin G. 1929. “The Psychology of Controversy.” Psychological Review 36 (2): 97–121. Una panoramica classica sugli sviluppi fondamentali della psicologia e della psicofisica del XIX secolo, adattata dalla conferenza di Boring,

tenuta in veste di Presidente dall’American Psychological Association il 28 Dicembre 1928. Boring fu professore alla Harvard University.

Finger, Stanley. 2000. Minds Behind the Brain. Oxford: Oxford University Press. Storia, dall’Egitto antico al Nord America e all’Europa del XX secolo, degli scienziati che hanno fornito un contributo fondamentale alla

comprensione della struttura e delle funzioni del cervello. È un testo più esteso e copre uno spettro più ampio di argomenti rispetto a quello di Gross (1998). Finger ha scritto molti libri autorevoli sulla storia delle neuroscienze ed è Direttore della rivista Journal of the History of the Neurosciences.

Gross, Charles G. 1998. Brain, Vision, Memory. Cambridge, MA: MIT Press. Una raccolta molto coinvolgente di “Racconti dalla storia delle neuroscienze”. Si estende in un ambito temporale della storia umana simile

a quello di Finger (2000), ma con meno capitoli e un focus ristretto alle funzioni indicate nel titolo. L’autore è egli stesso un neuroscien-ziato della visione molto considerato, oggi Professore Emerito all’Università di Princeton.

Ringach, Dario L. 2011. “The Use of Nonhuman Animals in Biomedical Research.” American Journal of Medical Science 342 (4): 305–313.

Ringach è un neuroscienziato con base a UCLA. La sua persona, la sua famiglia e la sua casa sono state oggetto di minacce e intimida-zioni da parte di attivisti per i diritti degli animali. Questo fatto, tuttavia, non interferisce con la trattazione equilibrata qui sviluppata sul tema. Tra le altre cose, egli incoraggia “un discorso civile […] senza minacce e intimidazioni” e conclude che “il pubblico merita un dibattito aperto e franco su questo tema delicato”. L’articolo contiene abbondanti citazioni di scritti originali da parte di vari soggetti, che offrono prospettive differenti e utili al dibattito.

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