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1 LA RESPONSABILITA DEL MEDIATORE LINGUISTICO E CULTURALE IN GENERALE E DELL'INTERPRETE O TRADUTTORE IN PARTICOLARE

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LA RESPONSABILITA

DEL MEDIATORE

LINGUISTICO E CULTURALE

IN GENERALE

E DELL'INTERPRETE O TRADUTTORE

IN PARTICOLARE

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RINGRAZIAMENTI

Ringrazio prima di tutti con molto affetto mia madre che aspetta questo giorno da

dieci anni perché mi ha convinta a tornare a studiare in un momento particolare in

cui mi trovavo ad un bivio con di fronte un precipizio, e perché mi ha sostenuta

economicamente e non solo, occupandosi di mio figlio ogni volta che le era

possibile. E ringrazio anche mio figlio Bartosz che pur così piccolo si è spesso

dovuto mostrare saggio e comprensivo anche quando si sentiva trascurato.

Poi un ringraziamento va alla SSML Gregorio Settimo per gli insegnamenti e le

opportunità che mi ha concesso, particolarmente alla Prof.ssa Bisirri per il suo

sostegno e per la sua ispirazione, alla Prof.ssa Moni per la sua pazienza e

disponibilità, insieme a tutti gli altri professori che mi hanno saputo trasmettere il

loro sapere e la passione per l'interpretariato e la traduzione, ma anche la Prof.ssa

Pierantonelli che mi ha coinvolta in diverse sfide molto stimolanti.

Infine devo ringraziare tutti gli amici e le amiche che hanno fatto il possibile per

venirmi incontro e facilitarmi l'impresa di prendere una laurea e vivere esperienze

appaganti nonostante tutto.

PREMESSA

In questa tesi ricorre di tanto in tanto l'uso della prima persona, e me ne voglio

scusare se a qualcuno risulta sgradevole. Ci tengo a spiegare che non deriva da

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una mia presunzione ma dal fatto che per una serie di motivi sia personali che

professionali ho attraversato questo percorso universitario dedicando, non senza

sacrificio, mio ma anche di chi mi ha voluta sostenere, molte energie alle attività

pratiche e purtroppo penalizzando quelle teoriche. Essa è dunque il sunto di tutto

ciò che ho avuto modo di scoprire, imparare ed elaborare grazie agli insegnamenti

dei professori, ai tirocini che mi sono stati offerti, e alle esperienze lavorative che

ne sono nate, tutte occasioni in cui ho potuto affermare con soddisfazione le

capacità acquisite, ma anche commettere errori dai quali trarre ulteriore

insegnamento in merito a tematiche a me particolarmente care:

la mediazione in quanto più volte emigrata, dalla Polonia al Belgio avanti

e indietro per anni, poi all'America e da lì all'Italia, ma anche in quanto

cresciuta nel conflitto familiare;

la traduzione, un'attività che mi accompagna fin dalla nascita perché

essendo di madrelingua sia polacca che francese tradurre era l'unico modo

per far comunicare le mie radici fra loro e tenerle in vita;

l'etica e la responsabilità che sono spesso l'unica guida su cui poter contare

quando si cambia così spesso scenario.

Da tutto ciò risulta che le tesi sostenute in questa relazione sono idee e conclusioni

più spesso tratte da esperienze vissute in prima persona piuttosto che da una

ricerca teorica.

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INDICE

Ringraziamenti..…...................................................................................................2

Premessa...................................................................................................................2

Introduzione............................................................................................................5

Capitolo Primo – Mediare.…................................................................................8

1. Mediazione civile e commerciale...........................................................11

2. Mediazione familiare..............................................................................15

3. Mediazione interculturale e linguistica..................................................21

4. Mediazione delle ONG...........................................................................25

Capitolo Secondo – Parole e non solo.................................................................31

1. Lingue e linguaggi..................................................................................33

2. Il potere delle parole...............................................................................45

Capitolo Terzo – La Responsabilità....................................................................53

1. Deontologie a confronto.........................................................................55

2. Etica universale......................................................................................58

Conclusione..................................................................,........................................66

The Responsibility of Linguistic and Cultural Mediators in general and of

Translators and Interpreters in Particular...............................................................70

La Responsabilité du Médiateur Linguistique et Culturel en général et du

Traducteur et Interpréte en particulier..................................................................109

Bibliografia..........................................................................................................132

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INTRODUZIONE

Il concetto di mediazione è sicuramente molto ampio e si applica ad

innumerevoli campi, dall'ambiente scolastico ai più complessi rapporti

internazionali, passando per trattative commerciali, cause legali, traduzioni

letterarie, interpretariato di conferenza, e perfino per la comunicazione mediatica,

che essa sia informativa o promozionale. Per quanto si voglia sviscerare il termine

di mediazione e interrogarsi sulle molteplici possibili funzioni del mediatore,

rimane inevitabile concludere che la mediazione sia un concetto imprescindibile

da quello della comunicazione. Che si tratti di mediazione legale, aziendale,

familiare, culturale, linguistica, o interculturale, sempre si tratta della

trasposizione di idee esposte in un linguaggio comprensibile ad un soggetto o

gruppo di soggetti, che può variare per dimensioni a seconda delle circostanze, ad

un altro linguaggio comprensibile ad un altro soggetto o gruppo di soggetti

altrettanto variabile. Per cui lo scopo finale del mediatore, soggetto interposto o

intermedio tra due parti in dialogo o in conflitto, è quello di rendere possibile la

comunicazione o perfino di conciliare.

Non penso sia necessario soffermarsi sull'importanza della sana

comunicazione per sottolineare la gran mole di responsabilità che tale scopo può

comportare. Basti pensare alla comunicazione tra due capi di Stato, o tra un

pensatore capace di segnare il destino dell'umanità e coloro che trascrivono i suoi

pensieri, o più banalmente tra il pilota di un aereo e chi opera la torre di controllo.

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Tutti esempi che giustificano il fatto che lingue e linguaggi, principali strumenti

della comunicazione come vedremo più avanti, siano in continua evoluzione,

sempre più elaborati, ricchi di sfumature e complessi, al fine di offrire sempre più

precisione nell'espressione dei concetti, questo nel tentativo di ridurre più

possibile quel pericoloso margine di interpretazione passibile di componenti

soggettive che possono dar luogo a incomprensioni ed errori. Ma per essere in

grado di assumersi una qualsiasi responsabilità, e quindi avvalersi di tutti gli

strumenti necessari per portarla avanti, bisogna senza dubbio essere consapevoli e

capaci di inquadrare con precisione la sua estensione e ciò che comporta.

In questa tesi cercherò quindi di individuare gli elementi sottintesi di tale

consapevolezza e la portata di tale responsabilità, nonché delle eventuali

conseguenze qualora essa mancasse, nell'attività del mediatore in generale, dando

diversi esempi di applicazione dell'arte della mediazione, ed in particolare in

quella dell'interprete o traduttore.

Mi asterrò dal distinguere in questa tesi tra interprete e traduttore per il

semplice motivo che in molte lingue vengano indicati con lo stesso termine. Ad

esempio mentre in francese, in italiano e in inglese sono considerati due

professioni a se stanti, invece in polacco si usa il termine “Tłumacz” per indicarle

entrambe, e per traduzione o interpretariato si usa il termine “Tłumaczenie”, ed è

inoltre interessante notare come sia la stessa parola che si usa per indicare il

concetto di spiegazione, il che evidenzia lo stretto legame tra l'attività di

traduzione e la comprensione del testo, sia alla base dell'attività stessa da parte del

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traduttore, sia come scopo finale per il destinatario della traduzione/spiegazione.

Perfino la stessa AIIC nonostante i suoi sforzi, nella sezione “Interpreting

Explained” del suo sito, per tracciare una netta distinzione tra le figure

professionali di traduttore e di interprete, infine nella sezione “Services” propone

servizi di “spoken translation” ossia “traduzione parlata” riferendosi

all'interpretariato.

Prima di entrare nel merito del tema della responsabilità e nello specifico

dell'attività di traduzione (scritta o parlata che sia) o della mediazione linguistico-

culturale può essere forse utile approfondire il concetto di mediazione, dalle sue

origini ai suoi sviluppi, per individuare come si manifesti quel suo stretto legame

con il concetto di comunicazione e ciò che implica. Poi essendo la comunicazione

fatta di codici e linguaggi ne vedremo la ricchezza e le insidie che tale ricchezza

pone.

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Capitolo Primo – Mediare

Se “mediare”, termine derivante dal latino, significa essere interposti, essere

in mezzo, essere l'intermedio tra due parti comunicanti (o in conflitto), allo scopo

di rendere possibile, agevolare, o garantire il buon andamento della

comunicazione tra loro, metaforicamente mediare può essere descritto come

costruire ponti. Mediare significa quindi creare ponti di comunicazione tra culture,

o persone, o gruppi di persone, comunità, anche della stessa cultura ma con

interessi o convinzioni opposti, o più semplicemente parlanti lingue diverse.

Una definizione più completa ed analitica di mediazione ci è data da Stefano

Castelli secondo il quale «la mediazione è un processo attraverso il quale due o

più parti si rivolgono liberamente a un terzo neutrale, il mediatore, per ridurre gli

effetti indesiderabili di un grave conflitto. La mediazione mira a ristabilire il

dialogo tra le parti per poter raggiungere un obiettivo concreto: la realizzazione di

un progetto di riorganizzazione delle relazioni che risulti il più possibile

soddisfacente per tutti. L’obiettivo finale della mediazione si realizza una volta

che le parti si siano creativamente riappropriate, nell’interesse proprio e di tutti i

soggetti coinvolti, della propria attiva e responsabile capacità decisionale»1. I

termini che più colpiscono di tale definizione sono “terzo neutrale” che ristabilisca

il “dialogo” per una “riorganizzazione delle relazioni” “soddisfacente per tutti”

quando “le parti abbiano raggiunto una responsabile capacità decisionale” per

“l'interesse proprio e di tutti i soggetti coinvolti”. Il concetto di dialogo utilizzato

1 Castelli, (1996), citato in Fiorucci, (2003), 91-92

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dall’autore nella definizione è quindi la base della mediazione, che sia intesa come

risoluzione alternativa dei conflitti rispetto al tribunale, come assistenza sociale,

come pedagogia interculturale, come assistenza linguistica o traduzione, o come

rappresentanza internazionale.

Il dialogo implica che il rapporto tra gli interlocutori sia un rapporto alla pari

e simmetrico. E' facile immaginare come per esempio in situazioni di mediazione

tra immigrati e autorità locali ci possa essere alla radice un forte sbilanciamento a

sfavore della parte rappresentata dagli immigrati. Infatti quest’ultimo si trova

spesso in una situazione di svantaggio e perfino di inferiorità rispetto alla

controparte, questo non solo perché non ha sufficiente padronanza della lingua

locale per esporre le sue ragioni ed esigenze, ma anche perché non è a conoscenza

di usanze, leggi e procedure del paese che lo “ospita” (è il termine più diffuso ma

forse non il più adatto se si paragona il concetto di ospitalità con il modo in cui

vivono molti immigrati, con riferimento allo sfruttamento della manodopera solo

per fare un esempio), e sopratutto perché spesso risente della pressione

psicologica di trovarsi appunto “ospite” di chi non sente particolare esigenza, per

non dire che spesso non vuole affatto, comprenderlo o dialogarci e con chi esso

invece è costretto a dialogare, e ad adeguarsi, per ovvi motivi, che possono essere

legati a scelte professionali, di studio, o perfino di sopravvivenza.

Appurato quindi che il dialogo sia lo strumento necessario per raggiungere la

comprensione reciproca ed evitare che una parte prevalga sull'altra nella relazione

possiamo notare come un altro termine di rilevanza nella definizione di Stefano

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Castelli sia proprio “relazione”. L’educatore si avvale di esempi e testimonianze

per svelare e autentificare la dimensione relazionale tra due soggetti. Ciò è

possibile dal momento che è l’educatore stesso a porsi in relazione e a facilitare,

così, la comprensione fra gli educandi, «in questo modo si può dire che la

relazione reciproca intenzionalmente perseguita diviene mediazione»2. Margalit

Cohen Emerique, psicologa francese, individua tre significati del termine

“mediazione”, in particolare nell’ambito dell’integrazione delle popolazioni

immigrate:

• Mediazione in casi di comunicazione difficile. Lo scopo è quello di

facilitare la comprensione e chiarire i malintesi che si verificano soprattutto per

una diversità culturale nei codici di comunicazione.

• Mediazione per risolvere i conflitti di valore tra famiglie immigrate e

società di accoglienza

• Mediazione come processo di creazione di nuove norme che possano essere

condivise da entrambe le parti in causa.

Infine di rilievo nella definizione di Castelli è anche il concetto di

“responsabile capacità decisionale”, indicativo di come il mediatore sia un ombra

dotata di coscienza che guida l'utente senza influenzarlo verso una libertà di

opinione e scelta all'interno del rapporto di comunicazione ma piuttosto abilitando

tale libertà.

2 Tarozzi (1998), citato in Fiorucci (2003), 94

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1) Mediazione civile e commerciale

Se la comunicazione e lo scambio sono alla base di ogni formazione sociale e

risalgono alle origini dell'umanità, lo è inevitabilmente anche il conflitto. La

mediazione basandosi sulle esigenze delle parti in modo paritario mira a

raggiungere un accordo vero in modo del tutto volontario permettendo di

preservare più facilmente una relazione amichevole. L'incapacità soggettiva nelle

relazioni di accettare la frustrazione del limite imposto dall'altro e dell'impotenza

che ne deriva produce violenza e scorciatoie mentali, le quali impediscono ai

legami di fluire in modo costruttivo. La possibilità di promuovere nuovi patti

sociali si trova, al contrario, nella capacità di stare nei conflitti, di viverli come

forme altamente evolute in grado di generare stimoli e accrescere competenze

personali. Cambia l'ottica: non si tratta di convivere senza conflitti, ma piuttosto di

convivere proprio grazie ai conflitti.

Per poter mediare, dunque, occorre un cambio di mentalità, un forte

ridimensionamento soprattutto del pensiero “professionale” educato alla lotta

piuttosto che alla cooperazione, alla vittoria di una parte e alla sconfitta di un'altra.

Sarà fondamentale passare da una mentalità avversariale ad una mentalità

cooperativa con una nuova cultura del conflitto che superi la tradizionale

evocazione dell'idea come scontro o guerra che conduce a ritenerlo un elemento

patologico da curare solo con decisioni autoritative.

Nell'ambito legale la mediazione, finalizzata ovviamente alla conciliazione, è

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una procedura nella quale un soggetto terzo e imparziale agevola la discussione

facendo emergere gli interessi delle parti lasciando loro la determinazione

dell’accordo, o suggerendo una possibile soluzione alla controversia. L’origine

storica della mediazione finalizzata alla conciliazione di controversie è

antichissima, sono infatti innumerevoli le testimonianze che riportano ed indicano

la metodologia della mediazione come mezzo utilizzato per dirimere i conflitti ed

i contrasti tra gli individui, dall'antica Cina ad oggi.

Nella cultura orientale infatti, l'influenza della dottrina confuciana sin dal VI°

secolo A.C., ha reso il comportamento di sfida fra le parti lontano dal modo di

concepire la soluzione all'interno di una controversia giudiziaria, così l'elemento

chiave del sistema cinese è l'intervento dello Zhong Jian Ren – terzo indipendente

e neutrale - che incoraggia o tenta direttamente la conciliazione.

Nelle antiche società patriarcali erano i membri più anziani dei clan familiari

a venire interpellati per comporre controversie insorte tra componenti del gruppo

stesso.

Gli antichi romani cercavano di risolvere una controversia, attraverso una

soluzione amichevole della lite prima di recarsi davanti al pretore, il quale avrebbe

confermato con la successiva sentenza le volontà delle parti, qualora si fossero

riappacificate.

Perfino la Chiesa ha avuto un ruolo rilevante per l’espansione della

mediazione/conciliazione in occidente. Era infatti spesso il parroco che cercava di

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mediare le controversie tra i suoi parrocchiani. Per non parlare delle vere e proprie

conciliazioni pontificie mediante le quali i Papi o i loro incaricati svolgevano la

propria attività al fine di definire controversie addirittura tra Stati.

In Italia il termine “mediazione” si ritrova indicato nel Codice Civile in

vigore dal 1942, all’art. 1754 e seguenti. L'articolo 1754 riporta: “è mediatore

colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza

essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione, di dipendenza o di

rappresentanza”. Tale concetto nella legislazione moderna sembra avere origine

negli Stati Uniti d'America già nel 1887, quando il Governo Federale con la legge

sul commercio tra Stati, istituì un procedimento per dirimere volontariamente le

controversie sindacali tra le compagnie ferroviarie e i loro dipendenti. L’anno che

sembra essere indicato quale la vera origine della mediazione è il 1906, in un

convegno della American Bar Association, in cui fu tenuta una relazione intitolata

“The Causes of Popular Dissatisfaction with the Administration of Justice” (Le

cause dell'insoddisfazione Popolare riguardo all'Amministrazione della

Giustizia). Negli ultimi decenni il ricorso alle metodologie A.D.R. ha vissuto un

forte incremento rispetto al ricorso alla giustizia ordinaria, le stesse metodologie

infatti vengono ritenute più vantaggiose in quanto, rapide, riservate,

economicamente convenienti oltre che efficaci nella risoluzione dei conflitti,

portando così nel 1998 alla modifica del Titolo 28° della Carta dei Diritti

riguardante la risoluzione dei conflitti, con cui venne stabilito che gli strumenti e

le procedure ADR, dall'acronimo inglese di “Alternative Dispute Resolution”

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(risoluzione alternativa delle controversie) dovevano prevalere su qualsiasi

procedura tra contenziosi. Tali procedure consistono nella negoziazione, nella

mediazione e nell'arbitrato.

E' alla fine degli anni ’70 che anche in Italia si iniziano ad applicare i metodi

alternativi ADR, inizialmente solo in riferimento alle controversie di lavoro,

infatti con la riforma del processo del lavoro del 1973, l’ordinamento italiano ha

previsto due forme di conciliazione stragiudiziale e preventive rispetto

all’instaurazione del giudizio.

Il Decreto Legislativo del 17 gennaio 2003, n. 515, agli articoli 38, 39 e 40

tratta le ipotesi di conciliazione stragiudiziale, in cui il tentativo di conciliazione

precede un eventuale giudizio ed è gestito da un ente terzo (rispetto alle parti in

lite), pubblico o privato iscritto in apposito registro tenuto presso il Ministero

della giustizia. Nel 2010 viene pubblicato il Decreto legislativo n° 28, con il quale

viene approvata la mediazione legale come istituzione alternativa ed

extragiudiziale, finalizzata alla conciliazione delle controversie in ambito civile e

commerciale, seguita dal D.M. n°180 con il quale viene regolamentata l’iscrizione

degli Organismi pubblici e privati nel relativo registro tenuto dal Ministero di

Giustizia e le Indennità di Mediazione da applicare da parte degli Organismi. Il

D.Lgs. 28/2010 pone inoltre la condizione di procedibilità, fondamentale perché

ponendo la mediazione come obbligatoria e premessa per poter accedere al

processo, le si conferisce dignità di procedimento vero, incentivando gli

interessati, i mediatori professionali per primi, a percorrere quest'alternativa con la

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giusta credibilità e serietà. Infine in data 2011 è stato pubblicato il D.I. n° 145 con

il quale vengono modificate alcune disposizioni relative alle indennità e alla

formazione dei mediatori.

2) Mediazione familiare

Le stesse istituzioni di mediazione civile, pubbliche o private che siano,

offrono anche servizi di mediazione familiare. Tuttavia mentre la mediazione

civile è un istituto giuridico previsto dall'Unione Europea che ne ha richiesto

l'adozione agli Stati membri, ai fini del recepimento della direttiva dell'Unione

Europea 2008/52/CE relativamente alla materia civile e commerciale, la

mediazione familiare invece è in fase ancora sperimentale e sprovveduta di

legislazione che le conferisca il titolo di professione ufficialmente regolamentata.

Per cui benché esistano strutture di formazione riconosciute che rilasciano il titolo

di “Mediatore Familiare Esperto”, e alcune Regioni italiane, attraverso lo

strumento della Legge regionale, hanno istituito al proprio interno alcuni elenchi

di professionisti in possesso di particolari caratteristiche (ad esempio, la Regione

Lazio che ha istituito l'elenco dei Mediatori Familiari attraverso la L.R. n° 26 del

24 dicembre 2008, pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione Lazio n° 48

del 27 dicembre 2008), tuttavia tali elenchi sono stati dichiarati illegittimi dalla

Corte costituzionale, con la sentenza 131/2010, in quanto "in contrasto con il

principio fondamentale in materia di regolamento delle professioni, in base al

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quale spetta esclusivamente allo Stato l’individuazione delle figure professionali

con i e relativi profili e titoli abilitanti”, tali elenchi sono quindi da non

confondere con Albi o Ordini professionali, che presentano criteri diversi e più

rigorosi per l'accesso, in quanto la Mediazione Familiare rimane, appunto, una

professione non regolamentata. In Italia quindi la mediazione familiare

solitamente viene praticata da altre figure professionali già stabilite, come

avvocati, psicologi, e sopratutto quando sia richiesta da autorità giudiziarie, dagli

assistenti sociali.

La mediazione familiare è un intervento professionale rivolto alle coppie e

finalizzato a riorganizzare le relazioni familiari in presenza di una volontà di

separazione e/o di divorzio. Obiettivo centrale della mediazione familiare è il

raggiungimento della co-genitorialità (o bigenitorialità) ovvero la salvaguardia

della responsabilità genitoriale individuale nei confronti dei figli, in special modo

se minori.

La mediazione familiare è infatti finalizzata al raggiungimento degli obiettivi

definiti dalla coppia al di fuori del sistema giudiziario. Si ricorre a quest'ultimo

(separazione e/o divorzio consensuale) solo per le omologhe di Legge degli

accordi raggiunti. Tale tipologia di mediazione - che affianca gli aspetti emotivi a

quelli più strettamente legali - è spesso definita anche mediazione globale.

Si tratta di una disciplina trasversale che utilizza conoscenze proprie alla

sociologia, alla psicologia e alla giurisprudenza finalizzate all'utilizzo di tecniche

specifiche quali quelle di mediazione e di negoziazione del conflitto in quanto

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separazione e divorzio non sono semplici eventi familiari ma transizioni, processi

di crisi e trasformazioni spesso traumatiche che coinvolgono almeno tre

generazioni: la coppia, i figli e le famiglie di origine. Il loro considerevole

aumento negli ultimi dieci anni ci porta a compiere una seria riflessione sul

destino dei legami familiari, sempre più fragili, frammentati, conflittuali.

La mediazione familiare può essere una risorsa per salvaguardare i legami

familiari, un percorso che la coppia intraprende per passare al di là del trauma

della separazione e giungere a nuove modalità di funzionamento familiare, nuove

soluzioni, dopo aver negoziato tutti gli aspetti che riguardano la relazione affettiva

ed educativa con i figli e le questioni economiche e/o patrimoniali.

Tale percorso può essere indetto dal Tribunale dei Minori nel caso di coppie

di fatto o dal Tribunale Ordinario nel caso di quelle sposate, ma può essere scelto

liberamente dalla coppia che senta necessità di un aiuto imparziale, nel trovare

accordi sulla gestione pratica, educativa ed economica del minore, o qualora non

volessero affrontare una battaglia legale che specialmente a Roma rischia di

rivelarsi lunga ed ulteriormente spiacevole. Può inoltre avvenire su richiesta di

uno dei genitori che abbia difficoltà a comunicare pacificamente con l'ex

compagno riguardo alle questioni del figlio o dei figli.

Secondo la definizione del termine “mediatore” e la descrizione del servizio

offerto sia da associazioni private e studi legali specializzati in materia familiare,

sia dai servizi pubblici di assistenza sociale, tale aiuto dovrebbe essere

ovviamente neutrale ed imparziale e mirare esclusivamente agli interessi del

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minore. Come già detto il mediatore ha il ruolo di facilitare la comunicazione, in

questo caso, secondo la tesi di Elisabetta Pizzo, “aiutando la coppia a indirizzare

le loro energie, emozioni e attenzioni dal conflitto coniugale vissuto come

pericoloso e distruttivo con la conseguente delegittimazione dell’altro nel suo

ruolo genitoriale (e in altri numerosi casi ad allontanare o escludere un genitore

dalla vita dei figli) ad un conflitto come esperienza relazionale da cui uscire non

indeboliti ma rafforzati”. Tuttavia una serie di colloqui con l'Avv. Pellegrino del

Centro Studi Giuridici sulla Persona, e con la Dott.ssa Paolantoni dei Servizi

Sociali del Comune di Roma, hanno permesso di ricostruire il come e perché

spesso tale imparzialità venga meno.

Innanzitutto, spiega l'Avv. Pellegrino la legge 08.02.2006 n° 54 in materia di

affidamento condiviso dei figli in caso di separazione dei genitori, seguita da

molte altre, capovolge il sistema in materia di affidamento in base al quale i figli

sono affidati all'uno o all'altro dei genitori. In caso di separazione dei genitori

quindi i figli saranno affidati come regola ad entrambi i genitori e, soltanto come

eccezione, ad uno di essi quando in tal senso spinga l'interesse del minore, nel

caso l'affidamento condiviso determini una situazione di pregiudizio per il minore

stesso. Le nuove norme attuano quindi il principio della bigenitorialità; principio

affermatosi da tempo negli ordinamenti europei e presente altresì nella

Convenzione sui diritti del fanciullo sottoscritta a New York il 20 novembre 1989,

e resa esecutiva in Italia con la legge n. 176 del 1991, e sono il risultato inoltre

delle sempre più forti pressioni di numerose associazioni insorte in Europa e negli

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Stati Uniti dagli anni 80 in poi per i diritti dei padri separati.

Questi provvedimenti legali e l'attività di advocacy a favore dei padri separati

da parte delle associazioni a loro dedicate hanno fatto sufficiente eco da alterare in

parte la mentalità degli italiani in materia di maternità, paternità e affido, attirando

l'attenzione dell'opinione pubblica trattandosi di un tema dal forte carico emotivo,

e permeando la formazione ricevuta dai professionisti che operano nel campo.

Questo da una parte è un traguardo per la società in quanto si avvicina

all'uguaglianza tra uomini e donne, non dovendo più essere esclusivamente le

donne ad occuparsi dei figli, ma dall'altra forse dà voce ad una minoranza di padri

che effettivamente si sono visti negare i rapporti con i figli e che tendono a far

apparire agli occhi dell'opinione pubblica tutta la categoria dei padri come vittime

e quella delle madri come “malevoli” per usare uno dei tanti termini usati nelle

interviste con le associazioni che li rappresentano.

Viene da chiedersi che cosa porta un mediatore a perdere di vista il suo

principio di imparzialità oltre alle pressioni mediatiche da parte delle associazioni

e la formazione ricevuta dal mediatore in base alle nuove normative?

Forse la risposta può trovarsi, almeno in parte, nella risposta ad un'altra

domanda posta alla Dott.ssa Paolantoni, ossia:

Perché si diventa mediatori?

Sicuramente in parte per dedizione ai propri valori e alle proprie capacità. Ma

forse anche per la soddisfazione di aiutare il prossimo in quelle difficoltà che si è

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già affrontati personalmente. Probabilmente il mediatore che abbia imparato a

gestire le difficoltà legate alla migrazione sarà più motivato a lavorare nello stesso

campo sentendo di poter aiutare altri suoi simili, ed allo stesso modo il mediatore

familiare che abbia sofferto le difficoltà del conflitto familiare vorrà dedicarsi a

quel ramo piuttosto che un altro.

Non è difficile quindi immaginare come un mediatore familiare abbia potuto

scegliere tale ruolo a tutela del minore in contesto di separazione dei genitori

proprio perché magari ha vissuto una situazione analoga egli stesso, nei panni del

minore figlio di separati. I traumi familiari sono quelli che ci segnano alla radice e

sono senza dubbio i più profondi e difficili da estirpare. E' altrettanto facile quindi

immaginare come possa essere complesso per un mediatore discernere la sua

personale esperienza da quella che è tenuto a gestire invece con distacco e

neutralità. Se tutti siamo condizionati dal nostro vissuto, forse il mediatore più di

chiunque altro deve chiedersi quanto lo influenzi il suo..

Ma se le leggi e convenzioni a favore della bigenitorialità, e gli studi sul

conflitto familiare accusano le madri di troppo spesso perdere di vista l'immagine

d'insieme e il dolore del minore perché accecate dal proprio, il mediatore invece

non dovrebbe mai perdere di vista nulla.

Inoltre se per lavorare nel campo della mediazione familiare indetta dal

giudice ordinario o minorile bisogna essere assistenti sociali, e per essere

assistenti sociali in Italia bisogna essere italiani, immaginiamo quanto la

situazione possa inasprirsi quando uno dei genitori sia straniero.

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3) Mediazione interculturale e linguistica

Fin qui abbiamo visto come la mediazione sia sempre stata necessaria fin

dall'inizio della civiltà umana nella risoluzione di liti e conflitti, tra individui,

famiglie, clan, gruppi etnici, religiosi o Stati. Ma millenni di civiltà, specie in

territori come appunto quello della penisola italica dove sono confluite tante etnie

e culture, ci hanno anche insegnato ad applicare la mediazione, creando ponti di

comunicazione, per prevenire possibili liti e conflitti.

In particolar modo di fronte agli attuali flussi migratori sempre più ampi e

numerosi, che fanno incontrare culture sempre più lontane l'una dall'altra, grazie

alla facilità con cui oggi si può prendere un aereo e decidere di partire per esempio

dalla Cina per l'Europa, viaggio che un tempo richiedeva settimane. Uso qui il

temine ”facilità” senza nessuna intenzione di sminuire gli enormi, dolorosi e

rischiosi sacrifici che fanno le famiglie che si trovano a migrare, specie quelle che

fuggono da guerre o disagi politici e sociali nella propria patria, dico “facilità” per

contrasto alle difficoltà di una simile scelta quando i viaggi oltreoceano si

facevano per mare, o anche solo riferendomi a tempi ancora recenti quando non si

poteva accedere a informazioni o tanto meno a biglietti di viaggio tramite

internet. Si pone con forza il problema della comunicazione tra autoctoni e

immigrati. Attualmente gli studi sulla comunicazione interculturale, cioè fra due o

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più culture diverse, riguardano un ambito molto vasto e non corrisponde ad

un’area disciplinare precisa. Non è semplice quindi analizzare il concetto di

mediazione interculturale e tracciare un elenco dettagliato delle funzioni che esso

è chiamato a svolgere e le competenze di cui deve essere munito. Si tratta di

funzioni molto diversificate, che richiedono un’ampia preparazione capace di

spaziare dalle ineludibili conoscenze linguistiche, alla pedagogia, alla conoscenza

delle tecniche di mediazione linguistica e culturale, ai temi della migrazione,

all'informazione su vicende politico sociali riguardanti i paesi di origine dei

migranti, alla capacità di mantenere un'apertura mentale e un distacco costruttivo,

alla familiarità con il funzionamento dei servizi pubblici e privati, italiani e

stranieri, alla gestione dei conflitti di ordine interculturale.

Data la crescente affluenza nelle scuole italiane di bambini stranieri

nuovamente arrivati in Italia la mediazione linguistico-culturale, o interculturale, è

sempre più utile in ambito scolastico. Le funzioni di un mediatore all’interno della

scuola consistono principalmente nel dare sostegno linguistico, sia al bambino

immigrato che abbia difficoltà ad esprimersi o apprendere in italiano, sia agli

insegnanti e al resto della classe. A questo riguardo è stato elaborato dalla

Commissione Nazionale sull'Educazione Interculturale un documento che

presenta i tratti fondamentali richiesti dall’educazione interculturale. Viene posto

l'accento sull'importanza che i bambini vengano educati all’interculturalità tramite

specifici percorsi didattici che gli permettano di sviluppare «appropriate

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conoscenze, atteggiamenti, valori e coerenti abilità»3. L’educazione interculturale

per essere portata avanti, necessita di progettazione e sperimentazione, inoltre,

poiché inter significa scambio, l’educazione interculturale si realizza pienamente

se non solo chi educa si apre verso il proprio destinatario ma avviene anche

l’opposto, cioè il soggetto destinatario viene stimolato ad aprirsi a sua volta verso

chi gli trasmette il sapere. L’educazione interculturale è destinata a diventare uno

degli aspetti più importanti del processo di formazione scolastica. Uno degli

strumenti più utili per favorire la comunicazione fra culture diverse, utilizzato

anche in ambito educativo per favorire l’educazione all’intercultura, è la

mediazione linguistico-culturale. Secondo Piero Bertolini la funzione di

mediazione che compete all’educatore riguarda sia l’ambito sociale sia quello

cognitivo. L’educatore fa da tramite fra l’alunno straniero e la società nella quale

egli vive, fa in modo che egli possa stabilire nuove relazioni e acquisti la capacità

di affrontare i conflitti. La mediazione è una delle dimensioni più importanti della

pedagogia interculturale, perché è sempre fondata su un passaggio di informazioni

rielaborate dalla mentalità, dai mezzi e dai comportamenti degli educatori.

Secondo Duccio Demetrio ogni insegnante è mediatore, perché mediare «è una

funzione che pervade tutta la professionalità pedagogica di chi opera nella scuola,

indipendentemente dai bambini che ha di fronte e dalle cose che deve

insegnare»4 .

Patrick Johnson ed Elisabetta de Nigris hanno reso noti tre livelli di

3 Commissione Nazionale sull’Educazione Interculturale (2002)4 Duccio Demetrio citato in Fiorucci (2003), 96

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mediazione culturale:

• Il primo di essi è quello PRATICO-ORIENTATIVO. Consiste nel tradurre

informazioni e rendere il servizio più accessibile. Riguarda sia il gruppo di

appartenenza del mediatore, sia gli operatori del servizio per i quali egli lavora.

• Il secondo livello è di tipo LINGUISTICO-COMUNICATIVO. Il mediatore

svolge un ruolo di gestore dei fraintendimenti, malintesi e blocchi comunicativi,

mediante la traduzione e l'interpretariato. Si rivela importante chiarire non

soltanto le espressioni verbali ma anche quelle non verbali, il non detto,

l’implicito.

• Il livello PSICO-SOCIALE, terzo ed ultimo piano della mediazione,

riguarda la possibilità per il mediatore di partecipare al cambiamento sociale

tramite la riorganizzazione del servizio. In questo modo, si instaura una

propensione al riconoscimento delle minoranze, alla visibilità delle differenze e

degli apporti culturali diversi.

Inoltre bisogna esplicare la mediazione seguendo due metodologie distinte,

quella dell'Advocacy (traducibile con “rappresentanza”) da una parte e quella

dell'Empowerment (traducibile con “emancipazione”). Nel contesto della

mediazione interculturale per gli immigrati l'attività di “advocacy” si configura in

qualità di difesa dei diritti di un utente straniero che subisce un disagio

istituzionale e ha difficoltà nel far riconoscere agli altri i propri bisogni. Il

mediatore in questo caso prende le parti dell’utente e quindi lo rappresenta, seppur

sempre con la dovuta neutralità dato che si tratta di aprire un ponte di

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comunicazione tra istituzioni e immigrati, non dichiarargli battaglia a nome di

questi ultimi. La mediazione come “empowerment”, invece, si esplica in una

funzione di aiuto all’utente straniero che non sa ancora sfruttare al meglio le

informazioni e le strategie per risolvere i propri problemi, quindi consiste in una

formazione che gli permetta di raggiungere l’autonomia che gli è necessaria a

sentirsi inserito e parte funzionante della società.

4) Mediazione delle ONG

I concetti di Advocacy e di Empowerment sono particolarmente rilevanti se

vogliamo considerare la mediazione che operano le Organizzazioni Non

Governamentali in rappresentanza di specifiche comunità o categorie nel contesto

sia nazionale che internazionale.

Le ONG (e OING) costituiscono la parte più strutturata dei movimenti

collettivi (nazionali - ONG - o transnazionali - OING). Iniziano ad assumere un

ruolo molto importante in progetti di sviluppo mainstream o alternativi a partire

dagli anni Ottanta.

Esse inoltrano, interpretano, e convogliano le instante politiche ed

economiche dei movimenti sociali locali.

Fare advocacy per le ONG consiste sostanzialmente nell’azione di

rappresentare un gruppo e tutelare i suoi diritti nei confronti dei poteri costituiti,

ma anche informare il resto del mondo riguardo all'esistenza di tale gruppo con

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tali specifiche problematiche, per suscitare solidarietà, raccogliere fondi e

procurare soluzioni. Mentre fare empowerment significa innanzitutto educare tale

gruppo riguardo alla propria condizione e derivanti esigenze, quindi ai diritti che

gli spettano, dandogli così gli strumenti per gestire al meglio la propria vita e

condizione. Inoltre raccogliendo sotto la propria organizzazione soggetti

appartenenti ad una minoranza in qualche modo disagiata in numero più alto

possibile e mettendoli in contatto tra loro, radunandoli in eventi, gli ricordano

innanzitutto di non essere soli con la propria condizione, facendoli sentire più forti

per contrasto al senso di smarrimento e impotenza che molti si trovano ad

affrontare individualmente.

Queste organizzazioni rappresentano specifiche comunità a livello mondiale,

passando per associazioni nazionali che gli si rivolgono. Attraverso questo tipo di

mediazione si mira al miglioramento della legislazione internazionale,

all’adeguamento di quella nazionale, all’inserimento nell’agenda politica dei temi

legati allo sviluppo dei paesi più sofferenti della suddetta condizione, alla raccolta

di fondi per trovare soluzioni immediate, nonché per finanziare la ricerca

scientifica necessaria per trovare soluzioni a lungo termine.

La strategia delle ONG si basa sul fatto che quando una questione diventa di

rilevanza mondiale e ha quindi l'attenzione dell'opinione pubblica mondiale i

poteri politici e i decisionisti sono maggiormente interessati ad offrire la loro

partecipazione quantomeno al dibattito. Diventa inevitabile quindi far riferimento

ad almeno qualcuna delle tante ONG fondate dalla Chiesa Cattolica, egemonia più

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ricca, diffusa e duratura della storia dell'umanità con alle spalle duemila anni di

potere.

S. Marelli, Segretario Generale della FOCSIV (Federazione Organismi

Cristiani Servizio Internazionale Volontario - Volontari nel Mondo) dichiara: «La

maggior parte delle ingiustizie sono frutto di un sistema economico-politico che

non funziona; senza cambiare la nostra mentalità, il nostro modello di sviluppo e

quindi le politiche dei nostri governi – dichiara – la nostra azione resterebbe

incompleta ed inefficace».

Per riuscire ad influenzare i decisori politici, le ONG hanno dovuto

“imparare” a fare pressione sulle istituzioni, a fare lobbying, o, come si preferisce

nominarla nel settore per allontanarsi dalle sfumature negative del termine,

“advocacy”, termine che vuole sottolineare la trasparenza, l’aspetto educativo e

formativo dell'attività svolta dalle ONG.

Si può dedurre quindi che gli strumenti principali per fare Advocacy ed

Empowerment ossia per mediare tra comunità disagiate e autorità, tra deboli e

potenti, rappresentando e rafforzando i primi attraverso l'informazione e

l'educazione per far valere i loro diritti e avvalendosi della solidarietà del resto del

mondo per fare pressione sui decisionisti sono:

• i media, quali giornali, riviste, cartelloni stradali, televisione, grande

schermo;

• i cosiddetti PSA (Public Service Announcement), spot informativi il cui

scopo è di avere sufficiente impatto da attirare l'attenzione anche di chi

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non ha nulla a che vedere con la causa in questione;

• social media quali Facebook, Twitter, Youtube e altri che permettono di

diffondere informazioni e campagne gratuitamente e coinvolgere un

pubblico in modo più interattivo;

• blogger che scrivono in rete dando visibilità all' organizzazione ed alla

causa;

• campagne di solidarietà basate su attività motivazionali che mirano a

coinvolgere più persone possibili;

• materiale promozionale da distribuire;

• slogan e logo ben studiati;

«Per avere successo dobbiamo lavorare in rete», dichiara Sarmila Shrestha,

segretaria esecutiva di Watch (Women acting together for change), organismo

partner dell’ONG Aifo in Nepal. La sua esperienza risulta emblematica per

cogliere la complessità dell’attività di lobbying: Watch lavora principalmente a

Kathmandu.

La rete in particolare quindi permette a queste organizzazioni di promuovere

i propri progetti e diffondere le proprie campagne in modo economico e

maggiormente interattivo sui social media dove ognuno può contribuire con la

propria opinione o esperienza. Tuttavia per raggiungere un pubblico maggiore e

con un maggior impatto è spesso necessario ricorrere a spot pubblicitari da

diffondere tramite i media tradizionali. Ma per assicurare una comunicazione

mediatica efficace è fondamentale la scelta delle immagini e ancor di più delle

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parole più suscettibili di far sentire tutti inclusi e nessuno offeso, attirando

l'attenzione ed invogliando il pubblico a saperne di più e prendere le parti della

causa, magari dando un contributo, anche se la questione non gli riguarda

direttamente.

La vicenda della campagna mediatica svolta dall'IDF (International Diabetes

Federation – presso la quale ho svolto un tirocinio di circa 500 ore nell'estate del

2013) con un video animato di 58 secondi, volto a sensibilizzare il pubblico

generale per arrivare ai decisionisti che con il diabete non hanno nulla a che

vedere, è emblematica di come non sia facile colpire gli indifferenti, senza

offendere gli afflitti. Il dipartimento per le comunicazioni della IDF è stato

costretto dal proprio consiglio di amministrazione a cambiare l'unica frase del

video da “diabetes kills but it doesn't have to” a “diabetes kills, learn to stay

healthy”. In questo modo non era chiaro che il messaggio fosse rivolto al pubblico

generale e non alla comunità dei malati di diabete, la quale specialmente negli

Stati Uniti e nei paesi latinoamericani si arrabbiò molto sentendosi offesa. La

campagna è risultata in perdita non solo di fondi ma sopratutto di consensi. Un

mese dopo la sua diffusione virale tramite Youtube e altre piattaforme preposte

alla condivisione di video, IDF ha ritirato lo spot dal suo sito internet e da tutti i

network scusandosi con la comunità dei diabetici nel mondo. Questo tipo di

disavventura è capitata a molte altre ONG in quanto specialmente se si

rappresenta una comunità internazionale così variegata la mediazione tra le

diverse mentalità ed esigenze diventa molto delicata.

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Ogni ONG ha nella sua sede centrale un dipartimento apposito che si dedica

esclusivamente all'attività di comunicazione e advocacy, mediando tra comunità

rappresentata e autorità politiche, oltre che tra comunità rappresentata e pubblico

generale, nonché con i partner, potenti aziende multinazionali non sempre in linea

con l'etica auspicabile dall'ONG stessa ma che sponsorizzano l'organizzazione in

cambio di visibilità positiva, donde la necessità di mediare anche tra ideali e

interessi, i mezzi ed i fini che giustificano i mezzi.

Avendo elaborato fin qui come la mediazione sia strettamente legata alla

comunicazione approfondiamo ora i modi in cui essa si manifesta.

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Capitolo Secondo – Parole e non solo

Se non esiste mediazione senza comunicazione, in quanto essa è allo stesso

tempo lo scopo ed il mezzo della mediazione, appare inevitabile chiedersi cosa sia

esattamente la comunicazione, come avvenga e cosa implichi.

Comunicare, dal latino cum – con, e munire – legare, costruire e dal latino

communico – mettere in comune, far partecipe, nella sua prima definizione è

l'insieme dei fenomeni che comportano la distribuzione di informazioni. La

comunicazione prevede il fatto stesso del "condividere", azione che prevede

l'esistenza di alcuni elementi fondamentali: il sistema che trasmette, ossia

l'emittente; un canale comunicativo necessario per trasferire l'informazione; il

contenuto della comunicazione ossia l'informazione; un codice formale mediante

il quale viene data una forma linguistica all'informazione. Infine perché il

processo possa perfezionarsi è necessario un quinto elemento: il ricevente, cioè il

sistema che assume l'informazione.

Emettere informazioni è un'attività propria di tutti gli essere viventi,

dall'uomo ai microbi passando per le piante. Ma se la parola è una caratteristica

tipicamente umana mentre la comunicazione è un fenomeno di tutte le specie

viventi, abbiamo già sufficienti motivi di concludere che esistono altre forme di

comunicazione.

La comunicazione avviene come abbiamo detto attraverso un canale, in

questo caso il nostro corpo fisico. Esso è composto di forma, materia, movimento,

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odore, colore, suoni e se vogliamo anche sapori; ed è per mezzo di tutte queste

cose insieme che noi comunichiamo e facciamo conoscere il nostro essere.

L'indiscutibile predominanza del sistema verbale nella comunicazione umana ha

permeato gli interessi di ricerca fino a pochi anni fa ed ha portato molti autori a

trascurare la possibilità di altri sistemi comunicativi. Se, invece osserviamo

attentamente le persone mentre parlano, possiamo renderci immediatamente conto

che oltre allo svolgersi del discorso verbale vi è tutto un altro universo

comunicativo che avviene in molti casi nell’inconsapevolezza degli interlocutori,

ma che per molti versi addirittura dirige l’espressione verbale dei contenuti. La

cosiddetta comunicazione non verbale. Infatti secondo alcune ricerche si stima che

il comportamento non verbale convogli addirittura il 65% del significato sociale di

una interazione (Harrison, 1972 cit. in Zamuner, 1998). Il comportamento non

verbale spesso tende ad avere un peso maggiore quale indice degli atteggiamenti

del nostro interlocutore, o delle sue intenzioni e pensieri. Le sensazioni di fiducia

o rispetto o attrazione, solo per fare qualche esempio della gamma di sensazioni

che si possono provare nei confronti di una persona, sono fortemente determinati

dal comportamento non verbale dell'individuo e “in caso di dubbi circa la qualità

dell’interazione, tendiamo quindi a dare più peso al sorriso o alla sua assenza, alla

postura e ad altri ‘messaggi’ non verbali piuttosto che alla parola

dell’interlocutore, o perlomeno a tenere conto di ambedue questi sistemi di

comunicazione” (Zamuner, 1998, p.178).

Lo studio scientifico della comunicazione non verbale risale al periodo

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immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale; la prima metà del

secolo è stata infatti caratterizzata da isolati studi sulla voce, l’abbigliamento e il

volto. Con gli anni ’50 si è invece avuto un significativo incremento del numero di

ricerche sulla comunicazione non verbale, ma è a partire dagli anni ’60 che si è

manifestata una vera e propria esplosione dell’attenzione da parte dei ricercatori

psicosociali.

Negli ultimi decenni, dunque, in seguito a svariati studi, è maturata la

convinzione che la comunicazione umana risulti dalla interdipendenza di diversi

sistemi comunicativi, ossia dall'interazione da una parte di codici formali

attraverso i quali possiamo dare una forma linguistica al messaggio, attraverso

l'uso di lingue verbali o segniche, e dall'altra codici non linguistici, tutti facenti

parte di ciò che chiamiamo linguaggio, ossia la facoltà complessiva di

comunicare. Nel contesto della mediazione, trattandosi di condurre e tradurre un

messaggio dall'emittente al ricevente occorre essere ben consapevoli dei concetti

impliciti del linguaggio e delle lingue.

1) Lingue e linguaggi.

Secondo un'associazione texana di Houston che si occupa di formare

missionari cristiani da mandare in ogni angolo del mondo, Ethnologue, sono 6,959

le lingue parlate al mondo di cui 830, ossia più del 10%, all'interno di un solo

paese se nominiamo l'esempio della Nuova Guinea, ci sono poi gli esempi

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dell'Indonesia con 719 lingue, il Sudafrica con 514, l'India con 438. Solo in Italia

secondo Ethnologue se ne parlano 36 tenendo conto di tutti i flussi migratori che

giungono in Italia. Ma il dato più interessante, come riporta Annamaria Testa

(Internazionale – dicembre 2013), è quello della tabella sul multilinguismo

pubblicata dall’Economist, il Greenberg diversity index, che misura, paese per

paese, la probabilità che due abitanti condividano una stessa lingua su una scala

da 0 (nessuna diversità, tutti parlano la stessa lingua) a 1 (massima diversità).

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Nel grafico le righe più lunghe indicano la differenza maggiore tra le varie

lingue e quindi la probabilità minore che gli abitanti condividano lo stesso

linguaggio. Ma forse occorre una definizione precisa di cosa sia una lingua e cosa

sia un linguaggio.

Il linguaggio è la capacità dell'Uomo di comunicare per mezzo di un codice

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complesso, cioè una lingua. Una lingua a sua volta, detta anche idioma (dal latino

idioma, dal greco ιδίωμα, "carattere", "proprietà", "particolarità"), è un sistema di

comunicazione vocale o segnico proprio di una comunità umana. Indica quindi il

modo concreto e storicamente determinato in cui si manifesta la capacità del

linguaggio umano dal quale si distingue in senso proprio. Spesso con “linguaggio”

ci si riferisce in generale a un sistema di comunicazione, per esempio con

espressioni come appunto “linguaggio verbale” e “linguaggio non verbale”,

“linguaggio animale”, “linguaggio del corpo”, “linguaggio dei computer”,

“linguaggio dei fiori”5. .

Noam Chomsky afferma che le analogie strutturali che si riscontrano nelle

varie lingue, suggeriscono che ci sia una grammatica universale innata fatta di

regole che permettono di collegare il numero limitato di fonemi che gli organi

vocali della specie umana sono in grado di produrre. La scuola linguistica

strutturalista mette in evidenza le strutture grammaticali sintattiche che sono gli

elementi del linguaggio che presentano maggiore stabilità nel tempo e uniformità

nello spazio. La loro teoria prevede che tali elementi siano “universali” al

contrario degli elementi lessicali e semantici che sono invece frutto

dell’arbitrarietà delle comunità e delle persone.

Nell'ambito della mediazione, il concetto di abilità comunicativa che ha

origine dal concetto chomskyano di abilità linguistica, ovvero un «sistema

implicito di regole grammaticali e sintattiche mediante il quale il parlante-

ascoltatore procede all’attività di codifica e decodifica delle frasi formulate

5 Graffi e Scalise (Il Mulino 2002), Le Lingue e il Linguaggio

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all’interno di una precisa lingua»6 si inserisce in un discorso più ampio. Si ritiene

che la comunicazione presupponga «capacità e conoscenze non solo di ordine

tecnico-linguistico bensì anche sociali»7.

Infatti ogni barriera sociale è una barriera linguistica in quanto esistono tante

variazioni di linguaggio anche all'interno di una lingua stessa. Vi sono differenze

significative nei modi di esprimersi non solo degli appartenenti alle diverse

culture ma anche alle diverse classi sociali.

La sola pronuncia può imprimere alla lingua una marcatura di classe, ma

anche il lessico usato è un indicatore altrettanto evidente. Non solo certe parole

ricorrono con più frequenza in una classe che in un'altra, ma la ricchezza

semantica aumenta molto nettamente salendo la scala sociale. Un'altra variante

della diversità linguistica risiede nel genere, infatti uomini e donne posseggono

spesso un lessico differente. Ancora, un'altra differenziazione storica è quella del

linguaggio urbano e quello rurale. Molto sviluppato in epoca moderna è il

linguaggio specialistico. I linguaggi tecnici sono il prodotto della crescente

specializzazione del sapere e delle conoscenze. L’acquisizione di un sapere

specialistico comporta inevitabilmente l’acquisizione di un linguaggio

specialistico che richiede un periodo di addestramento e che serve alla

comunicazione all’interno della cerchia ristretta degli esperti. Infine, un altro

linguaggio che poi è anche fonte di variazione della lingua stessa è il linguaggio

ideologico, quello che intenzionalmente modifica il senso delle parole rendendolo

6 Infantino (1996) citato in Fiorucci (2003), 867 Infantino (1996) citato in Fiorucci (2003), 87

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eventualmente più accettabile e nasconde quello spiacevole.

Tenendo conto di queste variazioni linguistiche legate a caratteristiche

sociali, l’interesse si sposta dall’aspetto sintattico e grammaticale a quello

semantico del linguaggio e al rapporto tra linguaggio e società, così, la

competenza linguistica non è più il centro della competenza comunicativa ma solo

uno dei suoi aspetti.

Comunicare, infatti, implica varie competenze che oltre a quelle strettamente

linguistiche sono:

«paralinguistiche (variazioni prosodiche dell’espressione: tono di voce,

enfasi, ecc.);

cinesiche (mimica, gestualità, movimenti del corpo, ecc.);

prossemiche (distanza tra le persone, contatti, ecc.);

performative (compiere azioni mediante la comunicazione);

pragmatiche (comportamenti adeguati alle situazioni, coerenti e congruenti

le finalità);

socio-culturali (capacità di individuare le diverse situazioni sociali e i

diversi significati che le permeano, per interagire in modo pertinente)»8.

«Comunicare positivamente significa essere in grado di stabilire relazioni

sullo sfondo di un contesto socio-culturale, collocandosi nell’ambito della cornice

valoriale, strutturale, spazio-temporale che esso offre»9. Sulla base di tali

8 Infantino, (1996) citato in Fiorucci, (2003) 879 Infantino, (1996) citato in Fiorucci, (2003) 88

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premesse, si può parlare di comunicazione interculturale come di uno scambio

comunicativo nel quale autoctono e straniero utilizzano le proprie competenze

comunicative per interagire l’uno con l’altro e mettere in relazione differenti

sfondi culturali.

Sirna Terranova spiega che per comunicare interculturalmente è necessario

utilizzare tutti i linguaggi di cui si è a conoscenza in modo da essere certi di farsi

capire e afferma: «Soltanto l’umiltà di chi non si sente al centro, di chi - come

dice la Steiner Khamsi - “attraversa le frontiere”, fisicamente o anche solo

metaforicamente, mette il soggetto in grado di comunicare e di comprendere la

cultura diversa. Per comprendere, infatti, occorre essere consapevoli della

relatività della propria cultura e sapersi mettere in ascolto dell’altro, senza

pregiudizi e senza presunzione, avvertiti della complessità e degli equivoci cui

espone la diversità culturale e dell’opacità inevitabile della comunicazione»10.

Durante lo scambio comunicativo, autoctono e straniero si avvalgono di

competenze comunicative diverse fra loro a volte efficaci solo nei contesti di

appartenenza.

La cultura infatti è in stretto rapporto con il concetto di identità e

appartenenza. Quest’ultima «è la cultura analizzata tenendo conto del soggetto o

dei soggetti rispetto ai quali si interagisce; ogni individuo vive

contemporaneamente più identità culturali: quanto più tali identità sono ritenute

compatibili a livello della propria cultura di riferimento, tanto meno si innescano

10 Sirna Terranova, (1997) citato in Fiorucci, (2003) 89

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processi di crisi»11 (Commissione Nazionale sull’Educazione Interculturale,

2002). Il fatto che il concetto di identità tenga conto dei diversi soggetti con i

quali si interagisce implica il prendere in considerazione l’altro e quindi uno

stretto rapporto con esso. Ognuno di noi è contemporaneamente io a se stesso e

altro ad un altro, c’è quindi una stretta connessione tra identità e alterità.

Di tale identità e alterità culturale si deve tenere conto altrettanto nelle

traduzioni letterarie dove le difficoltà della mediazione linguistico-culturale hanno

forse la loro massima manifestazione. Dove il testo è l'espressione di quello che la

scuola romantica sviluppatasi in Germania a metà dell'Ottocento definiva lo

spirito (Volkgeist) di un popolo a cui appartiene l'autore, e di cui l’elemento

fondante della comunità è racchiuso proprio nel linguaggio.

Per approfondire il discorso della difficoltà nella trasposizione linguistica

sarebbe utile ricostruire tutta l'evoluzione delle diverse famiglie di lingue ma ciò

non è possibile in questa tesi. Il grafico di K. Tyshchenko (Metatheory of

Linguistics, 1999) offre una panoramica di quelle che sono tutte le lingue

utilizzate in Europa raggruppandole per similitudine.

11 Commissione Nazionale sull’Educazione Interculturale (Roma 2002)

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Quale delle identità soggettive e culturali tenere maggiormente in conto

quando si traduce un opera letteraria dalla lingua in cui è stata scritta a un'altra,

specie se per di più si tratta di lingue di famiglie diverse. Dalla regola

geolinguistica per cui più aumenta la distanza chilometrica più cala la similarità

linguistica, si deduce che più si allontana la nostra provenienza geografica

dall'area di provenienza del testo più tendenzialmente aumenta la nostra difficoltà

di realmente comprendere e quindi tradurre il testo stesso. Per ovvi motivi i vissuti

storico-politico-sociali, religiosi e culturali dei popoli sono più intrecciati con

quelli dei paesi confinanti che non con quelli più distanti. Infatti il grafico su

riportato fa vedere come anche le lingue siano più simili le une alle altre quando

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appartenenti a paesi confinanti. Perché se “studiare una lingua vuol dire anche

comprendere un pezzo di umanità, aprire un altro sipario”12, per aprire tale sipario

e comprendere un pezzo di umanità, comprenderne lo spirito, di certo non basta

studiarne la lingua. Se il linguaggio è il sistema di comunicazione degli uomini tra

loro, la lingua non può che racchiudere buona parte del loro bagaglio storico-

culturale. Come capire cosa racchiude la lingua di un popolo quindi senza

studiarne la storia, e senza aver condiviso un pezzettino di quest'ultima.

Tuttavia in tempi di globalizzazione in cui la migrazione, l'accesso

all'informazione e lo scambio commerciale e culturale, avvengono su scala

sempre più ampia, vale più che mai il modello teorico di Krefeld attento alla

pluridimensionalità in cui “la spazialità della lingua si intreccia con quella del

parlante, vale a dire con i tratti collegati alla sua provenienza e al suo grado di

mobilità, e con la spazialità del parlare, ovvero con i condizionamenti derivanti

dalla posizione reciproca dei locutori.”13 Si sta affievolendo quindi la nitidezza del

collegamento tra lingua e identità culturale di cui prima. Siamo tutti sempre più

cosmopoliti e vicini gli uni agli altri per quotidianità culturali, nel bene e nel male.

Tra i tanti compiti del mediatore c'è da chiedersi quindi se ci sia quello di

tradurre nel modo più comprensibile possibile al destinatario, rischiando di

smarrire parte di quello spirito caratteristico contenuto nell'originale al fine di

facilitare lo scambio di culture e idee in modo tale che esse possano un giorno

12 Paolo Maria Noseda (Mondadori 2013) La Voce degli Altri, 8

13 Enciclopedia dell'Italiano (Treccani 2010) Geografia Linguistica.

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capirsi così bene da integrarsi le une con le altre e formare un unica entità

culturale umana, o piuttosto tradurre il più fedelmente possibile all'originale,

casomai avvalendosi di parentesi e note a piè di pagina esplicative, al fine di

permettere a tali culture di mantenere ciascuna la propria identità e le proprie

caratteristiche e sopratutto preservare il proprio ruolo di mediatore. La risposta dal

punto di vista di un mediatore sarebbe abbastanza a portata di mano: se tutti

diventiamo cosmopoliti e omogenei non ci saranno più culture da difendere né

bisogno di mediare.

Idealmente tuttavia sono state ipotizzate realtà in cui un'unica lingua che

racchiude in sé le caratteristiche di tante altre può bastare all'umanità. Ad esempio

l'interlingua creata appositamente dalla International Auxiliary Language

Association (IALA) attorno al 1951, ha un lessico dall'aspetto particolarmente

naturale, in quanto ottenuto dal confronto dei vocabolari di cinque diffuse lingue

viventi: le quattro principali lingue romanze (italiano, spagnolo, portoghese e

francese) e l'inglese. A queste lingue si aggiunge l'apporto del tedesco e del russo,

i cui lessici sono considerati nei casi in cui quelli delle cinque lingue principali

siano discordanti fra loro. Si ritiene che l'interlingua si possa apprendere

facilmente nel giro di quattro mesi. La sua particolarità è quella di essere

l'esempio più riuscito di lingua artificiale a posteriori, ovvero strutturata su un

lessico già internazionale e una grammatica comune ad altre lingue naturali,

risultando comprensibile a tutti coloro che parlano una lingua romanza o, in larga

misura, l'inglese. È una delle lingue ausiliarie artificiali più parlate al mondo,

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dopo l'esperanto.

L'esperanto invece è una lingua pianificata sviluppata tra il 1872 e il 1887

dall'oftalmologo polacco di origini ebraiche Ludwik Lejzer Zamenhof, ed è di

gran lunga la più conosciuta e utilizzata tra le lingue ausiliarie internazionali

(LAI). Scopo di questa lingua è quello di far dialogare i diversi popoli cercando di

creare tra di essi comprensione e pace con una seconda lingua semplice ma

espressiva, appartenente all'umanità e non a un popolo. Un effetto di ciò sarebbe

in teoria quello di proteggere gli idiomi "minori", altrimenti condannati

all'estinzione dalla forza delle lingue delle nazioni più forti. Per questo motivo,

l'esperanto è stato ed è spesso protagonista di dibattiti riguardanti la cosiddetta

democrazia linguistica.

Le regole della grammatica dell'esperanto sono state scelte da quelle di varie

lingue studiate da Zamenhof, affinché fossero semplici da imparare ma nel

contempo potessero dare a questa lingua la stessa espressività di una lingua etnica.

Anche i vocaboli derivano da idiomi preesistenti, alcuni (specie quelli introdotti di

recente) da lingue non indoeuropee come il giapponese, ma in gran parte da latino,

lingue romanze (in particolare italiano e francese), lingue germaniche (tedesco e

inglese) e lingue slave (russo e polacco).

A partire dagli anni novanta nella CEE e attualmente nell'Unione Europea si

discute per l'uso dell'esperanto negli organi europei, per risparmiare ingenti

patrimoni in traduzione. Il problema dal punto di vista prettamente economico

verte sul fatto che con l'attuale sistema si spende il 40% di bilancio in traduzioni

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per 23 lingue ufficiali, infatti un documento può essere redatto in una lingua

qualsiasi e poi deve essere tradotto in tutte; una lingua di lavoro consentirebbe a

ogni Paese di avere solo traduttori specializzati in quella lingua. D'altra parte,

l'Unione Europea «non ritiene necessaria l'introduzione di un'unica lingua franca

o un numero ridotto di lingue scelte arbitrariamente e incomprensibili alla

maggioranza dei cittadini dell'Unione» considerando giusto che ogni Paese

membro possa prendere conoscenza degli atti legislativi nella propria lingua

direttamente tradotti dagli organi europei, piuttosto che ottenerli nell'unica o nelle

poche lingue di lavoro e tradurli nella propria.

2) Il Potere delle Parole

La parola, facoltà tipicamente e unicamente umana, ha sempre avuto un ruolo

di rilievo nelle più svariate culture, non solo in quanto forma di comunicazione

primaria e più immediata, ma soprattutto come possesso per l’eternità,

determinante nel presente e preziosa nel futuro. Fin dalla sua nascita la parola è

stata lo strumento più efficace per persuadere, imporre, ricordare, trasmettere, e

educare.

“Per poter essere forte, diventa un artista della parola; perché la forza

dell’uomo è nella lingua, e la parola è più potente di ogni arma”. Questo è uno dei

fondamentali insegnamenti che il visir egizio Ptahhopte (intorno al 2300 a.C.)

concede nelle sue Massime, componimenti di genere sapienziale, destinati al

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figlio.

La parola si è manifestata prima sotto forma parlata e poi scritta, ed entrambe

le forme si sono notevolmente evolute mutando nel tempo. Infatti molte fiabe e

racconti esistiti per secoli solo in forma orale sono lo stesso pervenute alle nostre

generazioni sotto forma scritta. Le raccolte scritte di fiabe e leggende di cui

disponiamo ora sono il risultato di secoli di evoluzione e sono un patrimonio

irrinunciabile di ogni popolo in quanto permettono così di conoscere la tradizione

narrativa orale qual'era in epoche lontane dalla nostra, quando ancora il folclore

non era stato scoperto come forma culturalmente autonoma.

C’è stato dunque un momento nella storia in cui l’interesse verso i racconti

tramandati oralmente ha generato due percorsi paralleli nella raccolta di

narrazioni, uno con un fine puramente letterario, l’altro con un fine antropologico.

In entrambi i casi scrittori hanno destinato parte del loro interesse nella raccolta e

nella stesura di quelle fiabe e quei racconti che fino a quel momento erano stati

patrimonio orale del popolo, dando vita alle prime raccolte, che in breve tempo

iniziarono a riscuotere un interesse sempre crescente in quanto ci offrono uno

scorcio di quello che poteva essere il modo di pensare e sentire dei nostri avi, i

loro timori ed i loro valori.

Ma trascrivere un testo orale non è semplice come può sembrare, il lavoro

che si presenta è piuttosto complesso e insidioso, la riduzione dell’evento

comunicativo a testo, porta con sé una perdita ed una distorsione di sensi e

significati irrecuperabile. Per non parlare della perdita o distorsione che comporta

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la trasmissione orale di una storia da una persona all'altra con ciascuna la propria

soggettiva interpretazione e abilità comunicativa. Se applichiamo questa

considerazione ad un altro tipo di testo, di peso storico e di rilevanza culturale ben

più marcata di qualsiasi altra raccolta di racconti, ossia la Bibbia, ci rendiamo

conto di come essa possa aver generato così tante dispute. La Bibbia ha esercitato

un influsso incalcolabile sulla mentalità, sulla cultura e sull’arte di ogni tempo. Da

secoli ha prodotto una serie incalcolabile di testimonianze attestanti che milioni di

persone in tutto il mondo vi attingono come ragione e regola di vita. È stata

oggetto di storiche discussioni sul giusto modo di interpretarla durante le quali

sono state prese decisioni determinanti per la struttura della società. Ed è in

assoluto il libro più tradotto, più stampato e più venduto.

Giustino martire14, attorno all’anno 150, riferisce che a Roma si leggevano le

Memorie degli apostoli. Infatti nel II secolo circolavano vari testi, nei quali erano

raccontati i fatti della vita di Gesù e le sue parole, insieme con altri scritti

apocalittici attribuiti agli stessi apostoli. Il rapporto di tali scritti con le effettive

parole di Gesù comunque già allora ha la distanza della trascrizione, della

narrazione in chiave propria di ciascun apostolo, di un secolo e mezzo, e della

traduzione dall'ebraico e dal greco al latino. Tale distanza porta ad interpretazioni

sempre più discostanti l'una dall'altra, e molto probabilmente anche dal messaggio

di Gesù stesso.

I famosi concili di Costantino nel IV secolo si sono occupate di stabilire quali

14 Andrea Tornielli (Gribaudi 2005), Processo al Codice da Vinci, Capitolo IV citato in Opus Dei (16 aprile 2005) Quel birichino di Costantino , www.opusdei.it

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delle tante dottrine sviluppatesi nei primi secoli sulla base degli scritti che

circolavano e delle interpretazioni che ne venivano date, fossero eretiche e quale

invece quella da diffondere. Si pensa infatti che fu in questa sede che furono

selezionati i testi da includere nel sacro libro, ossia i quattro vangeli, le lettere di

Paolo, gli atti degli apostoli e l'Apocalisse. Furono dunque deliberatamente esclusi

un gran numero di scritti, considerati “non ispirati da Dio”.

Tali concili ecumenici si sono ripetuti innumerevoli volte nella storia della

Chiesa per trattare di tutto ciò che secondo la loro interpretazione dei testi sacri

poteva essere eretico, dal riso se si pensa al “Nome della Rosa” di Umberto Eco,

al sesso, infatti nel IX secolo era punibile con la reclusione in carcere chi

praticava la masturbazione, alla divinità di Gesù, alle caratteristiche maschili e

femminili, alla condanna di ogni teoria e dottrina che si scostava da quella

stabilita.

È interessante ricordare che fino al II secolo in molte comunità cristiane,

quindi in epoca direttamente successiva alla vita di Gesù, specialmente nelle classi

inferiori le donne svolgevano le stesse attività degli uomini, e vi erano dottrine

gnostiche che decretavano la parità dei sessi anche nelle attività religiose. A

questo riguardo infatti si indignava Tertulliano, uno dei più celebri scrittori romani

cristiani dei suoi tempi: «Queste donne eretiche, come sono audaci! Non hanno

modestia, sono così sfrontate da insegnare, impegnarsi nella disputa, decretare

esorcismi, assumersi oneri e, forse, anche battezzare!»15. È solo nel terzo secolo

che l'esclusione delle donne dalle attività definite “maschili” è compiuta.

15 Tertulliano (II° secolo), De praescritione haereticorum.

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Nei vangeli canonici selezionati Maria Maddalena è una prostituta che Gesù

salva dal linciaggio, mentre nei vangeli apocrifi è la consorte di Gesù, oltre che la

sua discepola preferita e invidiata dagli altri apostoli.

É impossibile approfondire tutte le evoluzioni della dottrina della Chiesa, e

tanto meno tutte le dottrine che essa ha condannato nello spazio di questa tesi ma

basti pensare all'Inquisizione che dal XIII secolo autorizzava l'uso della tortura e

l'esecuzione per combattere l'eresia e la “stregoneria”. O alle interpretazioni

antigiudaiche dei testi sacri secondo le quali gli ebrei sarebbero direttamente

responsabili della morte di Gesù e pertanto malvagi, e che hanno portato a misure

antigiudaiche fin dal VI secolo: ad esempio il concilio del 381 che riconosceva il

cristianesimo come unica religione ammessa e proibiva ogni altra fede, e quindi

anche quella ebraica; successivamente altre leggi prendevano misure esplicite

contro i giudei, come la legge di Teodosio II nel 438, o le cosiddette “bolle

infami” redatte dai Papi nel XVI secolo che imponevano misure molto rigide

contro gli ebrei di Roma, misure rimaste in vigore fino al Ottocento. O ai scismi

dovuti a diverse interpretazioni dell'Antico e del Nuovo Testamento, in particolare

la traduzione in tedesco, o riscrittura in tedesco, della Bibbia da parte di Lutero

evidenziò una serie di contraddizioni tra l'operato della Chiesa e la dottrina

cristiana originaria, proponendo un nuovo modo di vivere la religione e

rapportarsi a Dio, che portò a guerre civili sanguinarie particolarmente in

Germania e Francia dove segnarono anche un forte declino politico. Ma in tempi

anche molto recenti basta ripensare alle polemiche sulla legittimità da parte dei

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cattolici di ricorrere all'uso del preservativo per proteggersi da malattie

sessualmente trasmissibili o all'uso di metodi contraccettivi, sui PACS che in Italia

non riescono ad entrare nel sistema legale per via delle intromissioni della Chiesa

contraria, mentre in molti paesi europei le cui popolazioni sono in maggioranza

cattolica tali contratti sono stati legalizzati, o ancora sull'aborto e sull'eutanasia.

Secondo dati del 2009 forniti dall'Alleanza Biblica Universale il testo sacro è

stato tradotto per intero o parzialmente in 2.508 lingue. Sempre nel 2009

l'Alleanza Biblica Universale ha coordinato la traduzione in circa 500 lingue.

Tuttora numerosi scrittori cercano di tradurre la Bibbia partendo dalle origini,

alla ricerca della lingua sacra e della traduzione ed interpretazione più fedele. Erri

de Luca a proposito dice «chi traduce storie sacre attizza teologia, aggiunge

combustibile al roveto ardente, rinnovando in propria fedeltà voci e verbi del

creatore»16

Le parole di un uomo vissuto duemila anni fa hanno quindi avuto il potere di

influenzare la storia dell'umanità, caratterizzando tutta la nostra era, determinando

modi di pensare, di creare, di organizzare delle comunità, ruoli sociali, correnti di

pensiero, poteri e ricchezze religiosi e politici, guerre e conflitti. “Come dice Erri

De Luca, le traduzioni della Bibbia hanno condotto all'introduzione di usi e

costumi che forse avrebbero potuto essere diversi e segnare in modo differente la

nostra storia se solo si fosse prestata maggiore cura nello scegliere verbi,

allocuzioni, e diverse descrizioni.”17

16 De Luca (Feltrinelli, Milano1995) Giona/Ionà, p. 7. 17 Paolo Maria Noseda (Mondadori 2013) La voce degli Altri, 8

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Come già detto la parola ha il potere di ammaliare e sedurre, influenzare,

intrattenere, ferire, lenire, perfino curare se si pensa alla psicoanalisi. La parola in

quanto strumento di comunicazione ha il potere sopratutto di trasmettere. Sa agire

perfino a livello inconscio suscitando emozioni e desideri, se si pensa all'uso della

parola nell'arte pubblicitaria; suscita sentimenti di appartenenza e perfino di paura

se si pensa all'uso che ne viene fatto in politica. È stata l’arma più temibile

dell’ideologia totalitaria. Al giorno d’oggi nel discorso politico si manifestano le

caratteristiche e le potenzialità del linguaggio utilizzato da chi ambisce a

conquistare, gestire o conservare il potere. È attraverso il logos, l'accurata scelta

delle parole insieme al tono con cui le pronunciano che da sempre oratori al potere

riscuotono consensi anche nell'esporre tesi facilmente contrastabili.

Anche la pratica forense ottiene il massimo rendimento attraverso le abili

capacità dei singoli in grado di suggestionare ed influenzare i magistrati. In questi

casi l'abile uso della parola ha quindi il potere di alterare lo stato di libertà di una

persona.

“Un aggettivo cambia e agisce su una frase come un truccatore riesce a

cambiare la fisionomia di una persona, alterandone l'aspetto, e l'effetto che

produce.”18

A questo proposito un servizio sul canale youtube Passaparole di Beppe

Grillo intervista Erri de Luca che si pronuncia riguardo alla Perdita delle Parole:

“...più che perdita di senso della parola credo che nei nostri tempi ci sia una

perdita di responsabilità della parola e cioè la parola è diventata prevalentemente

18 Paolo Maria Noseda (Mondadori 2013), La Voce degli Altri, 7

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pubblicitaria, cioè deve servire in quel momento esaltare il proprio argomento e il

proprio prodotto, ma poi non porta a nessuna responsabilità, se afferma il falso e

può essere smentita in ogni momento, anche successivamente, la parola pubblica

senza che chi la abbia pronunciata falsa ne subisca le conseguenze, cioè uno può

dire una qualunque affermazione senza bisogno di verificarla, di controllarla, anzi

sapendo anche che è imprecisa, usando e spacciando un vocabolario falso, senza

che se ne porti discredito alla sua carriera e autorità. C'è una perdita di

responsabilità della parola.”19

19 Passaparola (17 settembre 2012), Erri De Luca, La perdita delle parole, www.youtube.com

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Capitolo Terzo – La Responsabilità

Il sostantivo responsabilità ha in termini generali un duplice significato: da

un lato, quello “negativo” di attitudine ad essere chiamati a rispondere all’autorità

per una condotta riprovevole, dall’altro lato, quello “positivo” di impegno per

mantenere un comportamento congruo e corretto.

In tema di responsabilità nell’esercizio professionale, è stato osservato che il

termine professione, stando all’etimologia, ha un significato sostanzialmente

simile a quello di responsabilità. Infatti “professione” deriva dal latino professio

che a su a volta origina dal verbo profiteor che significa confessare ad alta voce o

pubblicamente, proclamare, promettere; “responsabilità” è riconducibile al verbo

rispondere proveniente dal latino spondeo, che ha come primo significato

l’assumere un impegno solenne a carattere religioso. Professione e responsabilità

sono dunque componenti strutturali dell’identità dell’operatore e sono da

interpretare come ineludibile dichiarazione di assunzione di impegno nei confronti

della persona.

Considerato il peculiare significato che, in relazione all’esercizio della

professione, assume il termine responsabilità inteso in senso positivo, è da

indicare quali siano i principi ai quali riferirsi per raggiungere l’obiettivo

dell’essere responsabili nella condotta professionale. In genere, la condotta

professionalmente responsabile discende dal rispetto di quanto indicato nei quattro

punti seguenti:

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presupposti scientifici delle attività e delle funzioni proprie della

professione;

norme di legge che disciplinano la professione;

regole della codificazione deontologica;

valori etici condivisi ed indicazioni che derivano dalla coscienza

personale.

In strema sintesi quindi si può dire che la responsabilità professionale

corrisponde ai quattro concetti di tecnica, normativa, deontologia ed infine etica.

Come già accennato l'attività di mediazione in generale nei suoi diversi

ambiti di applicazione si caratterizza sempre con lo stesso scopo di fondo, ossia

quello della comunicazione, e con le stesse prerogative di imparzialità, ottima

padronanza del linguaggio e ampia cultura generale, tuttavia le tecniche e quindi

la formazione che si recepisce per ogni ambito è molto diversa, infatti abbiamo

visto come i mediatori civili e commerciali devono avere una preparazione in

giurisprudenza e a volte in psicologia, mentre quelli interculturali devono avere

una particolare dimestichezza con tutte le istituzioni pubbliche e private sia del

paese di origine che del paese di arrivo, oltre che essere aggiornati sulle rispettive

questioni politiche e sociali; gli impiegati delle ONG devono avere una profonda

conoscenza delle istituzioni e relazioni internazionali e delle dinamiche legate

all'opinione pubblica, dei canali di informazione oltre che una formazione creativa

nell'ambito della scrittura e grafica in quanto gli viene chiesto di produrre

materiale per le diverse audience a cui si rivolgono.

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In particolare i mediatori linguistici, gli interpreti e traduttori, invece devono

avere una conoscenza quanto meno superficiale di tutte le cose suddette (ed altre

in quanto la traduzione in particolare può toccare qualsiasi disciplina della vita

umana) ed essere pronti ad approfondire tale conoscenza in modo dettagliato di

volta in volta che ricevono un incarico in un'area piuttosto che in un altra. Hanno

inoltre una formazione tecnica molto specifica, che va al di là della competenza

linguistica, e senza la quale non potrebbero esercitare tale professione.

1. Deontologie a confronto

I diversi ambiti della mediazione sono inquadrati separatamente da normative

principalmente europee, come la norma di qualità UNI-EN15038:2006 per i

servizi di traduzione, o la Direttiva 52/2008/CE sulla mediazione per la

risoluzione alternativa delle controversie, la Decisione N. 1983/2006/CE del

Parlamento Europeo e del Consiglio in materia di mediazione interculturale,

benché stiano emergendo normative nazionali negli ultimi anni in Italia come

negli altri paesi europei, e da codici deontologici e statuti delle istituzioni che

svolgono tali servizi, come il Codice Deontologico dell'AIIC20, quello dell'AITI21,

quello di UNITALIA22.

È interessante il modo in cui un articolo del Sole 24 Ore23, riferendo del

20 AIIC, www.aiic.net, Code d'éthique professionnelle21 AITI, www.aiti.org, Codice Deontologico22 UNITALIA, www.unitaly.eu, Codice Deontologico23 Lex24 (2013 Diritto24, Sole 24 Ore), Deontologia e Professionalità del Mediatore Civile e Commerciale

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Codice Deontologico del Mediatore Civile e Commerciale presentato il 23

febbraio 2012 alla Corte d’Appello di Roma durante il convegno “Trasparenza e

deontologia professionale dell’avvocato e del consulente tecnico in mediazione”,

coglie l'occasione per paragonare tale codice con quelli di altre professioni. Esso

riferisce infatti che “...ad oggi l’attività del mediatore è, nella maggior parte dei

casi, un’occupazione aggiuntiva – spesso residuale – rispetto a quella abituale: le

statistiche del Ministero di Giustizia ci dicono che il 60% dei mediatori svolge la

professione di avvocato, il 9% di commercialista e il rimanente 31% svolge altre

professioni. Da qui emergono alcuni spunti interessanti: il primo è relativo

all’opportunità di combinare nel codice etico del mediatore l’esperienza di diverse

professioni da cui provengono oggi i mediatori. A questo si aggiunge il fatto che

la competenza specifica, che consente di unire il come mediare con il cosa

mediare, si accompagna alla capacità del mediatore di stabilire un rapporto di

fiducia con le parti in lite che risulta così l’elemento chiave del suo successo. A

questo proposito si può ricordare il codice deontologico dei medici dove si citano i

diritti fondamentali ed il rispetto della persona e in cui si introduce il concetto di

formazione permanente. Nel codice deontologico degli psicologi si trova il

riferimento all’autodeterminazione, che è un concetto caro alla mediazione, e al

rispetto delle differenti culture. Nel codice deontologico forense è interessante il

riferimento alla fiducia che, come evidenziato poc'anzi è alla base del rapporto tra

il mediatore e le parti. Molto incisivo e indiscutibilmente valido per i mediatori è

il riferimento alla condotta personale oltreché professionale presente nel codice

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deontologico dei dottori commercialisti ed esperti contabili. Ancora, risulta

interessante la disposizione dei concetti di “scienza”, “coscienza” e “diligenza”

all’interno del codice deontologico dei geometri. [...] Da ultimo, in relazione

all’imparzialità, che rappresenta senza dubbio un aspetto peculiare della

professione del mediatore che deve essere, come definito dallo stesso D. Lgs.

28/2010 che ha recentemente regolamentato l’attività di mediazione, “un terzo

imparziale” risulta molto incisivo il riferimento contenuto nel codice deontologico

dei magistrati “Nell'esercizio delle funzioni opera per rendere effettivo il valore

dell'imparzialità…” proseguendo poi “Assicura inoltre che nell'esercizio delle

funzioni la sua immagine di imparzialità sia sempre pienamente garantita.” A

questo proposito vale la pena rilevare una sostanziale differenza nell’approccio

professionale tra magistrati e mediatori rappresentato dalla posizione di

equidistanza del magistrato e “equivicinanza” del mediatore.” Queste

considerazioni sono facilmente estendibili a tutti gli ambiti della mediazione.

Infatti anche confrontando i diversi codici deontologici delle suddette

associazioni per interpreti e traduttori, emerge che tutte danno un certo spazio ai

principi su elencati: il rapporto di fiducia è una costante di tutti i codici

deontologici, come il dovere di formazione permanente o di aggiornamento

professionale, i doveri di competenza e di diligenza, il dovere di riservatezza e

segretezza. Il dovere di probità e decoro che sul codice dell'AIIC viene definito

“codice d'onore”, mentre su quello di UNITALIA specifica che tale dovere

comporta il divieto “di esprimere opinioni politiche o personali e di rilasciare

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dichiarazioni pubbliche circa la propria ideologia politica”24, il dovere di

colleganza che vieta ai membri delle associazioni di ledere la reputazione dei

colleghi e gli impone un atteggiamento di lealtà e cordialità che renda serena e

corretta l'attività professionale, in particolare l'articolo 21 del codice dell'AITI

impone che “nell'ambito di un lavoro di gruppo o in équipe, il traduttore e

l'interprete rispettano scrupolosamente gli interessi dei colleghi e si impegnano a

preservare i rapporti che questi ultimi intrattengono col committente”25. Sono

molto dettagliatamente definiti anche i doveri legati alle condizioni di lavoro che

l'interprete o il traduttore devono far valere al fine di garantire la qualità della

prestazione, dato che è fatto divieto di “ledere la dignità della professione”26.

L'AIIC essendo un'associazione per interpreti di conferenza dà particolari dettagli

sulle condizioni di lavoro da esigere in tale ambito, dedicandogli l'intero terzo

titolo in 9 punti del suo Codice, i quali impongono all'interprete di lavorare in

condizioni comode che gli permettano di vedere l'oratore e la sala, di non lavorare

mai solo, di non accettare di fare simultanea senza cabina salvo in alcune

situazioni eccezionali, di ottenere in anticipo tutti i discorsi e in alcuni casi perfino

una riunione preventiva, e di non svolgere alcun'altra funzione durante la

conferenza se non quella di interprete. Per quanto riguarda la competenza

linguistica, mentre si ha l'abitudine di vedere scritto che si può tradurre solo verso

la propria lingua-madre l'articolo 10 del Codice dell'AITI stabilisce che “il

24 UNITALIA, Codice Deontologico, Titolo I, articolo 5, Dovere di probità, dignità e decoro25 AITI, Codice deontologico, Titolo III, articolo 21, Divieto di accaparramento di clienti 26 AIIC, Codice Deontologico, Titolo II, articolo 4, “Les membres de l'Association s'interdisent d'accepter un emploi ou une situation qui pourrait porter atteinte à la dignité de la profession. Ils s'abstiennent de tout agissement de nature à déconsidérer la profession”

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traduttore lavora soltanto verso la lingua madre, la lingua di cultura o quella in cui

ha una competenza equivalente comprovata”.

L'articolo su Sole24Ore27 prosegue “Completata questa analisi generale in

relazione ai vari settori e sotto il profilo internazionale, si è passati ad indicare con

precisione criteri basilari per la condotta etica del mediatore, ispirandosi alla

massima “In morale son cose di capitale importanza anche le sfumature” (Arturo

Graf, 1908. Ecce Homo). Nel codice etico del mediatore è stato ribadito che questi

ha una vera e propria missione di diffusione della cultura della mediazione

attraverso il proprio impegno personale e professionale, dimostrando un vero e

proprio commitment sul tema della mediazione. Il mediatore, consapevole del

servizio che offre alla collettività, deve prestare lo stesso impegno qualunque sia

la tipologia e l’importo della mediazione. Da ultimo ma non ultimo si è voluto

sottolineare con forza l’imprescindibilità dell’elevata qualità del servizio offerto

dal mediatore, attraverso l’obbligo di formazione continua, sia teorica che pratica,

anche attraverso lo scambio ed il confronto con professionisti del settore sia in

Italia che all’estero. Da questo excursus emerge come il mediatore debba essere

una figura professionale con una grande preparazione, di elevata qualità, con un

alto rigore morale, regolato dall’etica e dalla deontologia professionale.”

Ora non resta che da chiedersi cosa si intenda esattamente per rigore morale.

2) L'etica universale

27 Lex24 (2012, Sole24Ore), Deontologia e Professionalità del Mediatore Civile e Commerciale

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Una breve analisi di quello che si intende per morale o etica, al di là dell'etica

professionale imposta dai codici deontologici, è indispensabile dato che come

suddetto “oltre alla condotta professionale è di incisiva rilevanza anche quella

personale”.

La parola “etica” derivante dal greco antico èthos in cui significava

"carattere", "comportamento", "costume", "consuetudine", ed è un ramo della

filosofia che studia i fondamenti oggettivi e razionali che permettono di assegnare

ai comportamenti umani uno status deontologico ovvero distinguerli in buoni,

giusti, moralmente leciti, rispetto ai comportamenti ritenuti cattivi o moralmente

inappropriati.

Con questa definizione si dovrebbe giungere alla conclusione che l'etica è a

priori una dimensione universalmente valida e uguale per tutta l'umanità. Eppure

non è così, confrontandosi con persone di diverse parti del mondo ci si accorge

che il concetto di etica cambia notevolmente da una persona all'altra. Per esempio

chi fa l'università in Polonia potrebbe essere portato a pensare che “etica” sia

sinonimo di religione, e non di religiosità in generale, bensì di religione cattolica,

dato che al primo semestre del primo anno di università è obbligatorio per tutti

passare l'esame di Etica appunto, quest'ultima in tutte le università libere o

cattoliche che siano, sempre insegnata da preti cattolici. È facile immaginare come

questo possa rendere difficile una visone più universalista di ciò che è giusto o

sbagliato, o di come questo possa portare chi in quel paese cattolico non è (ad

esempio ebrei, ortodossi, o atei) a percepire la società di cui fa parte come

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estranea. Un altro esempio può essere quello di chi cresce negli Stati Uniti

d'America dove nelle scuole pubbliche statali viene imposto il giuramento alla

bandiera tutti i giorni, il quale dopo l'ultimo cambiamento apportato nel 1954

recita il giuramento alla bandiera degli Stati Uniti d'America e alla repubblica che

rappresenta, Nazione unita dinanzi a Dio, con libertà e giustizia per tutti28. Al di là

del fatto che tale giuramento esclude gli atei (che secondo molti non vengono

proprio riconosciuti come tali, ma considerati semplicemente “arrabbiati con Dio”

o ancora, in preda a una “nuova tendenza che passerà”) se pensiamo alle persone

che sono state erroneamente condannate a morte e soppresse, o alla recente

esecuzione di un uomo in Ohio mediante iniezione di farmaci sperimentali

rivelatisi poco efficaci portando l'uomo a dare chiare dimostrazioni di sofferenza

per circa venti minuti mentre moriva. È semplice identificare l'incompatibilità con

la mentalità europea dove invocare Dio significa riconoscere valore assoluto alla

vita umana, specialmente in Italia dove la Chiesa ha particolare influenza e si

batte perfino contro eutanasia e aborto. E appunto pensando all'Italia, Stato

ufficialmente laico che riconosce la religione cattolica come quella del popolo

italiano, il quale però è sempre più misto, etnicamente parlando, ormai da decenni

e da sempre ha una forte presenza ebraica nel suo tessuto sociale, ma dove

l'ipotesi di togliere i crocefissi dalle pareti degli uffici pubblici per rispetto delle

diverse fedi presenti solleva tuttora, a settant'anni dalla fine del fascismo che

riconciliò Stato italiano e Chiesa, discussioni e aspre polemiche. A tale proposito

28“I pledge allegiance to the Flag of the United States of America, and to the Republic for whichit stands, one Nation under God, indivisible, with liberty and justice for all.”

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si può nominare la Francia che da tempo vanta una laicità totale dello Stato, il cui

motto nazionale è Libertà, Uguaglianza e Fraternità, e che nonostante il principio

di libertà nel 2004 vietava agli individui di indossare in luoghi pubblici qualsiasi

simbolo religioso sul proprio corpo o abbigliamento, mettendo in difficoltà quelle

persone che proprio per religione devono indossare specifici simboli.

Tenendo conto quindi dei conflitti, o quantomeno incompatibilità, a cui

possono portare comportamenti etici bastati unicamente sulla legge o sulla

religione, e riguardo a queste ultime ricordando anche la facilità con cui vengono

da sempre strumentalizzate dai poteri politici per manipolare popolazioni intere e

giustificare prese di posizioni (l'esempio dell'estremismo islamico ne è solo

l'esempio più lampante e recente ma tale strumentalizzazione permea la storia

umana fin dai tempi più antichi), si fa sempre più viva l'esigenza di identificare

dei valori che siano universalmente e profondamente giusti e ai quali poter

ispirare il proprio codice etico.

In realtà tale tentativo si evolve di pari passo con l'umanità in quanto già

nell'antica città di Ur, nel terzo millennio a.C. fu redatto un documento che

stabiliva i diritti naturali associati alla sola qualità di essere umani, dando loro

un'applicazione universale e una forza superiore ad ogni altra norma. Non potendo

qui elencarne tutta l'evoluzione degli ultimi cinque mila anni, bisognerà

accontentarsi di solo qualche esempio recente come la Carta dei Diritti

Fondamentali adottata dall'Onu e dall'Unione Europea dopo gli orrori della

Seconda Guerra Mondiale. Si vuole che tali diritti costituiscano una base

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inderogabile e insuperabile sulla quale costruire ogni altro codice legale o morale

che sia, indipendentemente da principi religiosi. Questo tuttavia al momento

riguarda la parte occidentale del mondo ed è al centro di un sentito dibattito nel

quale si oppongono opinioni in merito a se sia giusto o meno cercare di imporre

tali valori al resto del mondo.

In particolar modo per il mediatore linguistico e culturale, che deve

mantenere il suo dovere assoluto di neutralità pur mantenendo un alto rigore

morale, spaziando tra diverse etnie, lingue, legislazioni, culture e religioni, specie

se si pensa alla rilevanza di queste ultime in alcune culture, trovare un'etica

universale, sempre valida e mai in contrasto con le specifiche usanze di nessuno

degli interlocutori, sembra l'unica ancora di salvezza.

Tale etica quindi non può essere quella universalista che tenderebbe ad

andare di pari passo con la globalizzazione dei mercati e l'occidentalizzazione del

mondo, la quale tenderebbe ad omogeneizzare i diversi sistemi per assoggettarli al

concetto occidentale della democrazia assoggettata ai meccanismi economici del

capitalismo con una conseguente omologazione omologazione culturale che tende

ad uniformare modi di pensare e stili di vita per la necessità economica del

mercato unitario. È particolarmente incisivo su questo tema Serge Latouche, uno

dei critici più acuti dell'ideologia universalista e secondo il quale: «La riduzione

dell'Occidente alla pura ideologia dell'universalismo umanitario è troppo

mistificatrice senza peraltro evitare le insidie del solipsismo culturale che porta

direttamente all'etnocidio. È difficile dissociare il versante emancipatore, quello

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dei Diritti dell'uomo, dal versante spogliatore, quello della lotta per il profitto.»29

Ma a coloro che nel mondo contemporaneo mettono in discussione la

prospettiva universalista, definendola come una pretesa della civiltà occidentale di

imporre a tutto il mondo una serie di valori considerati validi per tutto il genere

umano, si obietta d'altra parte che criticando l’universalismo, si può finire nel

relativismo e nel particolarismo, i quali a loro volta rischiano di portare

all'esaltazione delle culture particolari che portano appunto ad etnocentrismo,

nazionalismo, e difesa della propria identità sotto forma di xenofobia. Latouche

risponde tuttavia che è proprio l'universalismo a comportare tale pericolo in

quanto non è altro che una creazione ideologica occidentale, di un occidente che

in nome appunto della propria identità, pretende d'imporre un imperialismo

culturale al resto del mondo, e rivendica invece la necessità di «valorizzare

l’aspirazione a un dialogo fra le culture, a una coesistenza delle culture. Per questo

alla prospettiva dell’universalismo opporrei piuttosto un "universalismo plurale,"

che consiste nel riconoscimento e nella coesistenza di una diversità, e nel dialogo

fra queste diversità.»30

Il mediatore quindi, sempre nel rispetto delle leggi internazionali e nella

consapevolezza di quelle locali, deve piuttosto fare appello ai valori universali

della conoscenza e del rispetto, basati sulla perpetua acquisizione di una profonda

cognizione del mondo, dell'umanità, e delle discipline e dinamiche ad essi legate,

su uno studio continuo ed appassionato per raggiungere la comprensione di sé e

29 Serge Latouche, (Torino, 1992) L'occidentalizzazione del mondo, 168. (orig. L'Occidentalisation du monde, 1989)30 Serge Letouche, 2004, intervista di Antonio Caronia per www.socialpress.it.

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dell'altro, sia in senso individuale che sociale, senza mai perdere di vista lo scopo

finale del dialogo tra le tante possibili diversità.

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CONCLUSIONE

Dopo aver individuato le diverse manifestazioni della mediazione nella

struttura sociale, gli elementi che la compongono, e le sue finalità possiamo

riassumere il fondamento della sua responsabilità con il sillogismo di Aristotele,

dove il termine medio è quello contenuto nella premessa maggiore e in quella

minore consentendo così la conclusione logica nella quale si annulla il termine

medio. Così nell'esempio:

(premessa maggiore) Ogni animale è mortale

(premessa minore) Ogni uomo è animale

(conclusione) Ogni uomo è mortale

Il termine medio (animale) è l'elemento grazie al quale avviene la

mediazione fra gli altri due; questo perché il termine medio da una parte è incluso

nel termine maggiore (mortale) e dall'altra include in sé il termine minore (uomo).

Questo sillogismo, in cui il termine medio contenuto da entrambe le

premesse si annulla, raccoglie l'essenza del mediatore, ossia la sua capacità da una

parte ad identificarsi e legare un rapporto (in questo caso di fiducia) con entrambe

le parti, a dall'altra la capacità di mettere da parte il suo “io”, nel processo

comunicativo tra le due parti.

Come si è visto, particolarmente nella parte sulla mediazione familiare, può

essere proprio una delle principali difficoltà per il mediatore, quella di rimanere

neutrale rispetto a utente e operatore. Infatti, può facilmente accadere che egli si

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identifichi con uno dei due e si faccia influenzare emotivamente dalla sua

situazione critica, a tal punto da escludere l’operatore dal processo di

comunicazione. Anche il contrario è possibile, ovvero che il mediatore si

preoccupi eccessivamente di tradurre in maniera precisa quello che dice

l’operatore, imponendo così in maniera rigida l’organizzazione del servizio, e

finisca col trascurare le necessità dell’utente. Il mediatore, deve perciò, riuscire a

mantenersi in equilibrio fra le due parti coinvolte nella comunicazione, lasciando

ad esse il ruolo di protagoniste e non lasciando trasparire la propria opinione in

merito alle diverse questioni. Inoltre è tenuto al segreto professionale, e se per

qualche ragione ritiene di non poter garantire l’assoluta imparzialità, deve saper

rinunciare all’incarico piuttosto che incrinare il rapporto di fiducia tra utente e

servizio.

Tale fiducia si basa anche sulla certezza che il mediatore riferirà fedelmente

il messaggio di entrambe le parti l'una all'altra, non solo per quanto riguarda il

contenuto degli enunciati ma anche per quanto concerne la loro forma, precisa o

imprecisa che sia, e le modalità comunicative proposte dal parlante. Quindi se il

discorso pronunciato è vago o incoerente, il mediatore non avrebbe la libertà di

migliorarlo, dovrebbe riportarlo mantenendone le stesse caratteristiche.

Ma se come dice il preambolo del Codice Deontologico dell'AITI il

“Compito del traduttore e dell'interprete è assicurare la comunicazione scritta e

orale tra parlanti di lingue diverse. La sua attività si svolge nell'interesse della

pace, della sicurezza, della giustizia, della salute, del benessere e dello sviluppo

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economico, scientifico e culturale dei popoli”, il compito del mediatore non si

limita al semplice trasferimento di un messaggio, e deve adoperare tutti gli

strumenti di cui è in possesso a tal fine e se opportuno, intervenire sull'ambiguità

di un discorso che potrebbe venire frainteso ed essere causa di esiti negativi, in

modo tale da evitare incidenti diplomatici e conflitti che nessuno degli

interlocutori intende causare.

Questo è tanto più possibile quanto più il mediatore riunisce competenze

tecniche e generali, abilità generali di relazione, di comunicazione, di ascolto, di

innovazione ed abilità specifiche per la mediazione, buona cultura generale, alto

rigore morale regolato dall’etica e dalla deontologia professionale. A queste

caratteristiche si dovrebbero affiancare poi conoscenze in materia di psicologia, di

comunicazione, di diritto e di economia, non trascurando etica e sociologia.

I codici deontologici inoltre danno molta rilevanza alle condizioni di lavoro

da esigere quando si espleta le proprie funzioni per garantire una resa all'altezza

delle aspettative proprie e degli utenti. Tra le responsabilità del mediatore

linguistico e culturale, e sopratutto dell'interprete è quindi di assoluta importanza

far valere le proprie esigenze sul lavoro. L'altissimo sforzo cerebrale che si fa

durante una traduzione simultanea o consecutiva necessita il rispetto di tutti i

requisiti possibili per agevolare tale attività. La traduzione richiede sempre ma in

particolar modo nell'interpretariato, una mente lucida e riposata, in quanto si tratta

di fare associazioni cognitive e intuitive immediate, e nella simultanea si tratta

inoltre di dividere la propria attenzione in modo da seguire due cose in

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contemporaneo, ossia la voce dell'oratore in una lingua e la propria voce in

un'altra lingua. È necessario quindi essere consapevoli dei propri limiti nonché

avere l'autorevolezza di esigerne il rispetto.

In ultimo si può dire quindi che oltre alle profonde conoscenze culturali e

linguistiche mirate alla comprensione dell'altro, vale sempre il principio di Socrate

“conosci te stesso” che si acquisisce certamente con l'esperienza. In attesa di avere

tale esperienza è saggio affidarsi umilmente alle indicazioni di chi ne ha più di

noi.

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THE RESPONSIBILITY

OF LINGUISTIC AND CULTURAL MEDIATORS

in general and of

TRANSLATORS AND INTERPRETERS

in particular

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SUMMARY

Introduction............................................................................................................72

Chapter One – Mediating....................................................................................75

1. Civil and commercial mediation............................................................77

2. Family mediation....................................................................................80

3. Inter-cultural mediation..........................................................................83

4. Mediation in NGOs................................................................................86

Chapter Two – More than Words.......................................................................90

1. Languages...............................................................................................91

2. The Power of Words...............................................................................96

Chapter Three – Responsibility...........................................................................99

1. Deontologies compared........................................................................100

2. Universal Ethics...................................................................................103

Conclusion...........................................................................................................106

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INTRODUCTION

Mediation is a very broad concept and applies to many fields, from school

education to the most complex international relations, passing by trade

negotiations, lawsuits, literary translation, conference interpreting, and even the

media communication, both informative and promotional. As much as we can

dissect the term mediation and wonder about the many possible functions of a

mediator, we will always reach the conclusion that mediation is inevitably linked

to communication. Whether mediation is carried out in a social, legal, corporate,

cultural, linguistic, inter-cultural or international context, it is always a

transposition of ideas in a language understandable to the person or group of

persons, which can vary in largeness depending on the circumstances, to another

language understandable to another person or group of persons, equally variable.

So the ultimate goal of the mediator, as an intermediate entity interposed between

two parties in dialogue or in conflict, is to allow communication or even

reconciliation.

It is probably unnecessary to dwell on the importance of healthy

communication to emphasize the large amount of responsibility it can involve. It's

enough to name a few examples, such as the communication between two heads

of state, or between a philosopher capable of marking the fate of mankind and

those who want to transcribe his or her thoughts, or more simply between the pilot

of a plane and who operates the control tower. All examples that justify the fact

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that languages, as they are the main tools of communication, are constantly

evolving, becoming increasingly elaborate, nuanced and complex, in order to offer

more precision in the expression of concepts in the attempt to reduce as much as

possible the chance for subjective interpretation which can lead to

misunderstandings and errors. But for us to be able to assume our responsibility,

and therefore be able to apply all the necessary tools to carry it out, we must be

aware of its dimension and what it involves.

In this thesis I will try to identify the elements implied in such awareness and

the extent of such responsibility, as well as the possible consequences of its lack,

generally in the activity of mediators, giving several examples of how the art of

mediation applies, and particularly in the activity of interpreters or translators.

There won't be a clear distinction between interpreter and translator in this

thesis when speaking of linguistic mediation for the simple reason that in many

languages they are denoted by the same term. In fact while in French, Italian and

English they are considered to be two distinct professions, instead in Polish for

instance we use the term Tłumacz to indicate both figures, and the term

tłumaczenie for translation or interpreting. It is also interesting to notice that

tłumaczenie is the same word that is used to indicate the concept of explaining,

which highlights the close link between translation and understanding of a text,

which is the basis of both the translator's work as of the final goal for the user of

the translation/explanation. Even the International Association for Conference

Interpreters, despite its best efforts in the "Interpreting Explained" section of its

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website, to draw a clear distinction between the professional translator and the

professional interpreter, eventually offers "spoken translation" services referring

to interpreting in its “Services” section.

Before considering the issue of responsibility and the specific activity of

translation (regardless of whether it is written or spoken) or, more generally, of

linguistic and cultural mediation, perhaps it can be useful to offer a more in-depth

grasp of what mediation is, from its origins to its developments, in order to show

its close link with the concept of communication and what it implies. Then,

communication being made of codes and languages we will see how rich these

are, and the difficulties such wealth arises.

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Chapter One – Mediating

If "mediating", coming Latin, means being interposed, being in the middle,

being an intermediate between two parties in dialogue (or conflict) in order to

allow, facilitate, or guarantee a good flow of communication between them,

mediating can also be metaphorically described as building bridges. Mediating

means therefore creating bridges of communication between cultures, or people,

or groups of people, of communities, even of the same culture but with opposite

interests or beliefs, or simply speaking different languages.

According to Stefano Castelli, “mediation is a process by which two or more

parties turn freely to a neutral third party, the mediator, to reduce the undesirable

effects of a serious conflict. Mediation aims to re-establish dialogue between the

parties in order to reach a specific goal: the reorganization of relationships so that

they can be most satisfying to everyone. The ultimate goal of mediation is reached

once the parties have creatively taken control, in their own interest as of everyone

else involved, each of their own active and responsible decision-making ability.”

The concept of dialogue in the definition used by the author is therefore the

basis of mediation, whether it is understood as alternative dispute resolution in a

lawsuit context, or as social work such as inter-cultural education, family

mediation, as translation, or as international advocacy.

Dialogue implies that the relationship between the parties is equal and

symmetrical. It's easy to imagine how, for example, when mediating between

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immigrants and local authorities there may be at the root a strong imbalance

undermining the party represented by the immigrants. In fact, the latter is often

disadvantaged and we could say even “inferior” to the other party, this not only

because they don't have a sufficient knowledge of the local language to explain

their needs and reasons and motivations, but also because they are not accustomed

with the uses, laws and procedures of the "hosting " country (this term is the most

common but perhaps not the most suitable if comparing the concept of hospitality

with the way many immigrants live, with reference to exploitation just to give one

example) and especially because they often cope with the psychological pressure

of being perceived as an unwanted "guest" by whom they instead need to engage

in dialogue, and to whom they need to adapt, for obvious reasons that may be

related to professional or study choices, or even simply survival.

Once established that dialogue is the basic tool for mediation we notice how

another striking word of Castelli's definition is relation. In fact an educator for

instance uses examples and testimonies to establish and authenticate the relational

dimension between the parties. Since the educator himself is relating, thus

facilitating the understanding among the pupils, "we can say that the reciprocal

relationship intentionally pursued becomes mediation" according to Tarozzi.

Finally also important in Castelli's definition is the concept of "responsible

decision-making capacity," indicative of how the mediator is a shadow with a

consciousness that guides the user within the communicating relationship without

interfering with their freedom of opinion and choice-making, but rather

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empowering it.

1. Civil and Commercial Mediation

If communication and exchange are the basis of every social formation and

go back to the origins of humanity, so is inevitably conflict. Mediation based on

equally satisfying the true needs of the parties aims at reaching an agreement in a

completely voluntary way allowing thus to maintain a relationship. The subjective

inability to accept the frustration resulting from the imposition of the other

engenders violence and mental short-cuts, which prevent bonds from growing in a

constructive way. The possibility of promoting new social pacts lies, on the

contrary, in the ability to stay in conflicts, to experience them as highly evolved

forms that can stimulate and enhance personal skills. The perspective changes: it

is not to live together without conflict, but rather to live better thanks to conflicts.

Mediating requires a change of mentality, especially on professional

behaviour, we are trained to fight rather than cooperate, to seek the victory of one

side and the defeat of another. It would be crucial to move on from an adversarial

mentality to a cooperative mindset with a new culture of conflict that goes beyond

the traditional imaging of fight, combat or war, that can be solved only with

authoritative decisions. In order to achieve so it is necessary to develop practical

skills on how to deal constructively with conflict engendering personal growth,

that is, giving value to the differences in the respect of each person's dignity, with

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the consequent improvement of the cultural and social life's quality.

In civil and commercial controversies, mediation, obviously aimed at

reconciliation, is a procedure in which an impartial third party, facilitates the

discussion by bringing out the interests of both parties and leaving up to them the

final decision to determine their agreement, or suggesting a possible solution to

the dispute. The historical origin of mediation aimed at reconciliation goes a long

way back in time. There are in fact countless testimonies that report and indicate

the methodology of mediation as a means used to resolve conflicts and contrasts

between individuals, already since ancient China.

In fact in the Chinese culture, the influence of Confucian doctrine since the

sixth century BC, brought the way of conceiving resolving disputes away from the

challenging behaviour between the parties, so the key to the Chinese system is the

intervention of Zhong Jian Ren – independent and neutral third party – that

directly encourage or attempt conciliation.

Also in ancient patriarchal societies the older members of the family clans

were called to compose disputes between members of the same group.

The ancient Romans would try to resolve a dispute through an amicable

settlement before going in front of the magistrate.

Later on even the Catholic Church played an important role in the expansion

of mediation. It was often the priest in fact who would mediate disputes among his

parishioners. Not to mention the actual papal conciliations by which the Popes or

their agents carried on business in order to settle disputes even between States.

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In Italy the term "mediation" can be found in the current Civil Code in force

since 1942, in article 1754 which says that a mediator is someone that connects

two or more parties to conclude a deal, without being tied to any of them by

relations of cooperation, employment or representation. Such concept in modern

legislation seems to be originated in the United States of America in 1887, when

the Federal Government instituted a procedure with the law on trade among States

to voluntarily settle labour disputes between railway companies and their

employees.

In the last decades, the use of ADR (Alternative Dispute Resolution) methods

has experienced a significant increase compared to ordinary justice, as they seem

to be the most viable, rapid, discrete, cost-effective as well as efficient in

resolving conflicts. These procedures consist in the negotiation, mediation and in

arbitration.

In Italy the ADR methods are being applied since the 1970's but it is only

with the legislative decree of 2003, n. 515, that the hypothesis of non-court

settlement is regulated, and according to which the attempt at conciliation before a

possible judgement is managed by a third party, which can be public or private, as

long as it is registered by the Ministry of Justice. In 2010 was issued the

legislative decree N. 28, with which legal mediation is approved as an alternative

and extra-judicial institution, aimed at settling disputes in civil and commercial

matters, followed by ministerial decree N. 180 which regulated the registration of

public and private organizations on the register kept by the Ministry of Justice, as

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well as mediation prices to be applied by organizations. Finally, in 2011 the

decree-law N. 145 regulated the benefits and the training of mediators.

2. Family Mediation

The institutions of civil and commercial mediation, both public or private,

also offer family mediation services. However, while the first is regulated by the

European Union Directive 2008/52/EC, family mediation on the other hand is still

at an experimental stage and deprived of legislation that would give it the title of

an official profession.

So although some recognized schooling institutions release the title of Expert

Family Mediator, and some Italian Regions have set specific registers in their

offices with lists of such professionals, these lists have been declared

unconstitutional. Therefore the activity of family mediation is usually carried out

by different professional figures such as lawyers, psychologists and, especially

when ordered by the court, by social workers.

Family mediation is a service offered to couples with the purpose of

reorganizing the family relationships whenever there is a desire of separation or

divorce. The main goal of family mediation is to reach a situation of “co-

parenting” meant as the safeguard of individual parental responsibility towards

their children, especially if they are minors. Family mediation is in fact aimed at

achieving the objectives defined by the couple outside the judicial system.

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It is a cross-discipline that uses knowledge of sociology, psychology and law

aimed at the use of specific techniques such as mediation and negotiation of the

conflict, as separation and divorce are not simple family events but transitions,

crisis processes and often traumatic changes involving at least three generations:

the couple, their children and their families of origin. Family mediation can be an

asset to preserve family ties, a journey that takes the couple to move beyond the

trauma of separation (Cigoli, 1997) and arrive at new modes of family

functioning, new solutions, after negotiating all aspects that relate to the emotional

relationship with their children as well as educational and economic issues.

According to the definition of the term "mediator" and the description of the

services offered on the websites of private associations and law firms specializing

in family matters, and of those of the public services of social workers, such

assistance should be neutral and impartial and aim of course exclusively to the

interests of the children. A series of discussions with Attorney Pellegrino from the

Centre for Legal Studies on the Person, and with Dr. Paolantoni from Social

Services of the City of Rome, have allowed me to understand how and why such

impartiality is often jeopardized.

Attorney Pellegrino explains that the Law N.54 of 2006 on shared custody of

children in case of separation or divorce of the parents, followed by many other

regulations, turns over the traditional system of custody in which the children

were entrusted either to one or to the other parent according to the discretion of

the presiding judge, or in accordance with the agreements reached by the spouses.

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Now the children will always be entrusted to both parents as a rule, and only in

exceptional cases to only one of them, when the interests of the child would result

injured in a shared custody situation. The new rules implement the principle of co-

parenting which emerged in most legal systems in Europe and in the Convention

on the Rights of the Child signed in New York in November 1989. The

implementation of these principles are also the result of the increasingly strong

pressures from several associations that have arisen in Europe and the United

States from the 80s onwards, advocating for the rights of separated fathers.

These new legal measures and advocacy activities on behalf of separated

fathers seem to have done enough echo to alter the mentality of Italians on the

matters of motherhood, fatherhood and children's custody, and also to become part

of the training of all professionals working in the family area. On one hand this is

a great achievement for society with an increase of equality between men and

women, but on the other it tends to create the idea that fathers are the victims of

vindictive women who keep them from seeing their own children. Which is

without a doubt an existing reality, but the most reprehensible reality isn't

necessarily the most outspread one.

Beyond the awareness raising campaigns and new training received by all

professionals operating in the family field, what else brings a mediator to loose

their impartiality?

Perhaps the answer may lie at least partly in the response to another question

that was asked Dr. Paolantoni: Why does one choose to become a mediator?

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Maybe for the desire to help others with the difficulties we have addressed

ourselves. Probably the mediator who has experienced and overcome the

difficulties associated with migration will be more motivated to work in the same

field feeling able to help other immigrants, and likewise the mediator who has

suffered in childhood because of his parents' separation and who has experienced

the lack of their father's presence given the old system of single parenting, will

prefer to become a family mediator.

We are all conditioned by our experiences but mediators perhaps more than

anyone else have to wonder how it affects them.

So even if laws, conventions and associations in favour of co-parenting point

their finger against mothers accusing them of “loosing sight of the overall picture

and of their child's pain because they are blinded by their own” according to

Elisabetta Pizzo in her thesis on Family Mediation, the mediator instead should

never lose sight of anything, and should certainly not point fingers before having a

very deep knowledge of the situation form all points of view. Also, if the family

mediator when convened by the Juvenile Court must be a social worker, and a

social worker in Italy must be Italian, it is easy to imagine how such difficulty to

remain impartial might escalate when one of the parents is a foreigner with a

different educational mentality and so on.

3. Inter-cultural and linguistic mediation

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Facing the current increasing migration flows that bring together cultures

ever more distant from one another, due to the ease with which one can nowadays

decide take a plane, for example, from China to Europe, a journey that once

required weeks and now about twelve hours or so. I use the term "ease" with no

intention of belittling the huge, painful and risky sacrifices made by the families

who migrate, especially those who flee from war or political and social hardships

in their homeland, I use the word "ease" only compared to when travelling

overseas was done by sea, or even just referring to more recent times when there

wasn't such easy access to information or to travel tickets via the Internet.

Migration forcefully brings up the problem of communication between

natives and immigrants. Currently, studies on inter-cultural communication cover

a very wide range and do not correspond to a single specific disciplinary area. It is

not easy therefore to analyse the concept of inter-cultural mediators and draw a

detailed list of the functions they have to perform and the skills they must fit. It

implies very diverse functions, which require extensive preparation capable of

ranging from the inevitable linguistic knowledge to pedagogy, from the linguistic

and cultural mediation techniques skills to the issues of migration, from gathering

information on social and political events in the migrants' countries of origin to

the ability to keep an open mind and a constructive detachment at the same time,

from the familiarity with the procedures of public and private services, both

Italian and abroad, to the management of conflicts of inter-cultural order.

Given the increasing influx of foreign children in Italian schools the

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linguistic-cultural, or inter-cultural, mediation is increasingly useful in that

environment. The functions of a mediator within a school are principally to

provide linguistic support, both to the immigrant children who has difficulty in

expressing themselves and to the teachers and the rest of the class. Inter-cultural

education is destined to become one of the most important aspects of the process

of education.

According to Piero Bertolini the mediating function of the educator covers

both the social and the cognitive spheres. Teachers act as an intermediary between

the foreign student and the society in which he lives, they make sure that the child

establishes new relationships and acquires the ability to deal with conflicts.

Mediation is one of the most important dimensions of inter-cultural pedagogy,

because it is always based on a passage of information elaborated through the

mentality, the means and the attitudes of the educators. According to Duccio

Demetrio every teacher is a mediator, because mediation "is a feature that

pervades the entire pedagogical professionalism of all those who work in schools,

regardless of the children they face and the things they have to teach".

Patrick Johnson and Elizabeth de Nigris have pointed out three levels of

cultural mediation:

• The first – PRACTICAL GUIDANCE to translate information and make

services more accessible.

• The second is LANGUAGE-COMMUNICATIVE in which the mediator

manages communication impairments through translation and interpreting. It is

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important for them to clarify not only the verbal but also non-verbal, the unspoken

and the implicit.

• The PSYCHO-SOCIAL, third and last level of mediation allows the

mediator to participate in social change by reorganizing the functioning of

services, therefore encouraging the recognition of minorities, the visibility of

differences and different cultural contributions.

Finally another way to see mediation on different levels is following two

distinct methods, advocacy on one hand and empowerment on the other. In the

context of inter-cultural mediation for immigrants the activity of "advocacy" is

configured as a defence of the rights of foreign individuals who suffer an

institutional discomfort and difficulty in getting others to recognize their needs.

The mediator in this case takes the side of the individuals and represents them,

though always with due neutrality as the purpose is to open a communication

bridge between institutions and immigrants, not to declare a battle on behalf of the

latter. Mediation as "empowerment", instead, is a function of aid to the individual

who does not know yet how to take advantage of the services to solve their own

problems, and consists in a training teaching information and strategies that

allows the individual to reach autonomy, as it is needed to feel like a connected

and functioning part of society.

4. Mediation in NGOs

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The concepts of Advocacy and Empowerment are particularly relevant if we

consider mediation as carried out by Non Governmental Organizations

representing specific communities or groups in both national and international

context. NGOs (and INGOs) are the most structured of all collective movements

and have played a very important role in mainstream or alternative development

projects since the early eighties. They are increasingly visible and present in

"parallel summits" in conjunction with high-impact international meetings such as

the G8, the World Bank, the World Trade Organization, the World Conference on

Women and so on. They submit, interpret, and convey the instant political and

economic needs of local social movements.

Doing advocacy for NGOs basically consists in the action of representing a

group in order to establish and protect its rights against the set powers, but also to

inform the rest of the world about the existence of such a group with such specific

issues, to arouse solidarity, raise funds for to provide research and solutions.

While doing empowerment consists in educating the represented group about their

condition and deriving needs and rights, providing tools to better and more

independently manage their own lives, also by gathering in an as high as possible

number people belonging to a disadvantaged minority under one organization and

putting them in touch with each other, gathering them in mass events, therefore

reminding them not to be alone with their condition, and making them feel

stronger in contrast to the sense of helplessness that many face individually.

These organizations represent specific communities worldwide, through national

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or regional associations that turn to them. Through this type of mediation they aim

at improving international law, at the adjustment of the national political agenda.

Their strategy is based on the fact that when an issue becomes of global

concern, and therefore has the world's attention focused, the political powers are

always interested in maintaining and increasing their hegemony becoming

therefore more collaborative as even only participating to a debate on a global

issue allows the power to maintain a role at the centre of the world's decision-

making process.

The main tools for advocacy and empowerment and for mediating between

disadvantaged communities and authorities, between the weak and the powerful,

by getting worldwide attention are of course:

public service announcements (PSAs): audio or video

media campaigns: photography, video, slogans, interviews, testimonials

mass events

to be spread through traditional media: theatres, television, radio,

billboards, magazines, newspapers...

through social networks: facebook, twitter, youtube, blogs...

symbolic give-away objects to be distributed to as many people as possible

Internet is particularly effective as it allows these organizations to promote

their projects and spread their campaigns in an economical and more interactive

way, for example on social media where everyone can contribute with their views

or experiences. However, to reach a greater audience with a greater impact it is

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often necessary to resort to commercials to be disseminated through traditional

media, which is expensive and requires expertise in choosing the right words and

images to convey the message in the most impressive way possible.

The case of the media campaign carried out by IDF (International Diabetes

Federation – with whom I served an intern-ship of about 500 hours last summer

2013) with an animated video PSA of 58 seconds, which aimed at raising

awareness among decision-makers that have nothing to do with diabetes, is

emblematic of how it is not easy to involve the indifferent, without offending the

afflicted. The IDF communications department had to change their ideas to please

the board which does not have any training in communication or mediation, and

had probably not studied thoroughly all points of view and possible implications

of the campaign on which it had also invested significant resources. This resulted

in the loss not only of funds but above all of consensus. A month after its viral

spread on Youtube and other video sharing network IDF withdrew the PSA from

its website and all other platforms apologizing to the world's community of people

with diabetes. The same happened to many other NGOs as words can be very

powerful and when addressing to such varied communities involving people from

so many different cultures is a very sensitive task.

In fact as we have repeated so far how mediation is closely linked to

communication, it is time to deepen the topic of communication itself and see how

it occurs and what is implied.

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Chapter Two – More than Words

If there is no mediation without communication, since the latter is both the

aim and the means of mediation itself, we cannot avoid asking ourselves what

exactly is communication, how it happens and what it implies.

To communicate, from the Latin cum – with or together, and munire – to

bond, to build and the Latin communico – to put together, to involve, in its first

definition it's the set of phenomena that involve the distribution of information. It

inevitably foresees the fact of "sharing", an action that requires the existence of

some fundamental elements: a system that transmits, a sender, a message

containing the information which is the content of communication, a channel to

transfer the information, a formal code by which information is given a linguistic

form. Finally, for the process to be complete there has to be a fifth element: the

receiver, that is, the system that assimilates the information. To send information

is an activity that characterizes all living beings, from mankind to microbes

including plants. So although verbal language is a typically human phenomenon,

communication is a phenomenon of all living species, therefore it is obvious that

that there are other forms of communication beyond the verbal one.

Communication is conveyed through a channel as we said, which is first of

all our physical body, made of shape, material, movement, smell, colour, sound,

and even flavour, and it is by means of all these things together that we

communicate, and discover our being. If we observe people while they speak, we

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can see immediately that in addition to the verbal discourse, there is a whole other

universe of communication that takes place in many cases unconsciously but can

in many ways even condition the content of verbal expression but above all it

conditions the way the content of verbal expression is perceived. The so-called

non-verbal communication.

In recent decades therefore it has been asserted that human communication

arises from the interdependence of different communication systems, on one hand

the formal codes through which we give a linguistic form to the message with the

use of verbal or sign language, and on the other hand the non-linguistic codes, all

part of what we call language, intended as the overall ability to communicate.

In the context of mediation, as we become an additional channel conveying

and translating a message it is crucial to be aware of all the different meanings

implied in what language is.

1. Languages

According to Ethnologue, there are 6,959 languages spoken in the world 830

of which, within a single country if we make the example of New Guinea. But the

most interesting data, as reported by Annamaria Testa (International-December

2013), is that of the graph on multilingualism published by The Economist, the

Greenberg's diversity index, which measures country by country, the probability

of two people sharing the same language on a scale from 0 (no diversity, all speak

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the same language) to 1 (maximum diversity).

But perhaps we need a more precise definition of what a language is.

Language can be intended as the ability of mankind to communicate by means of

more or less complex codes, also called languages, among which the languages

intended as idioms (from the Latin idioma, meaning character, property,

particularity), which are verbal or sign communication systems proper to a

specific human community. It thus contains the practical way in which given

historically determined community expresses themselves verbally.

Noam Chomsky argues that the structural similarities that exist in different

languages, suggest that there is an innate universal grammar made up of rules that

allow you to connect to the limited number of phonemes that the vocal organs of

the human species are capable of producing. The structuralist linguistics school

highlights that syntactic grammar structures are the language elements with

strongest long-term stability and uniformity in space. Their theory understates that

such features are "universal" as opposed to lexical and semantic elements which

are the result of the arbitrariness of specific peoples.

In the mediation area the concept of communicative competence that

originates from Chomsky's concept of linguistic competence as an implicit system

of grammatical and syntactical rules by which the speaker-hearer proceeds to an

activity of encoding and decoding sentences formulated inside a specific tongue,

is part of a broader vision, according to which communication requires not only

technical linguistic knowledge and skills but also social ones.

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In fact, every social barrier is a language barrier because there are so many

language variations even within the same idiom. There are significant differences

in the modes of expression not only of those belonging to different cultures but

also to the different social classes. The pronunciation can vary from one social

class to another, as the richness of vocabulary and the way it is used which can

vary from rural to urban environments or even with gender, the use of technical

words specific to a field of expertise changes according to the latter, and the

ideological use of language also changes the words' meaning making them

allusive and instrumental. Taking into account these linguistic variations related to

social characteristics, the focus shifts looking at the semantic and syntactic

grammar of the language and the relationship between language and society, thus,

the linguistic competence is no longer the centre of communicative competence

but only one of its many aspects. Communicating, in fact, involves various skills

which are:

Paralinguistic (prosodic variations of the expression: tone of voice,

emphasis, etc.).

Kinetic (facial expressions, gestures, body movements, etc.).

Proxemic (distance between people, contacts, etc.);

Performing (perform actions through the communication);

Pragmatic (appropriate behaviours to situations, coherent and consistent

with the objectives);

Socio-cultural (ability to individuate different social situations and the

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different meanings that permeate them, to interact in a meaningful way)

Therefore communicating positively means being able to establish

relationships in a socio-cultural background. Based on these assumptions, we can

speak of inter-cultural communication as of an exchange in which native and

foreigner use their communication skills to interact with one another and to relate

different cultural backgrounds. And in order to understand each other, they need to

be aware of the relativity of their own culture and to be able to listen to others

without prejudice and without presumption, keeping in mind the complexities and

ambiguities to which cultural diversity exposes them.

If culture is so closely related to the concept of identity and belonging, then

such awareness is especially needed when dealing with literary translation, where

the text is the expression of what the Romantic school that developed in Germany

in the mid-nineteenth century defined the spirit (Volkgeist) of a population, to

which the author belongs, and which is enclosed in the people's own language.

Which of the subjective and cultural identity to better take into account when

translating a literary work from the language in which it was written to another,

especially when it comes to languages of different language families. According

to the geo-linguistic rule that the greater the distance mileage the lesser the

linguistic similarity, it follows that the further away our geographical origin from

the origin of the text, the more difficult it will be for us to deeply understand and

then translate the given text. For obvious reasons, the historical, political, social,

religious and cultural past is more intertwined with that of neighbouring countries

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than with one more distant. If language is the communication system of mankind

among each other, it can only represent their entire cultural and historical

baggage. How could we understand what the language of a people represents

without studying its history, and without sharing a little piece of it.

However, in times of globalization we must ask ourselves if the real task of

mediators is to translate into the most general or understandable way possible for

the recipient, keeping in consideration their cultural identity at the risk of losing

part of that spirit characterizing the original content, in order to facilitate the

exchange of cultures and ideas so they can one day understand each other so well

that they integrate with each other and form a single cultural human entity. Or

rather translate as closely as possible to the original, possibly using brackets and

explanatory notes whenever necessary, in order to transmit precisely the

characteristics or spirit of the original, allowing cultures to maintain their separate

identities, and especially to preserve their own role as mediators.

The idea of a single international language has been hypothesized and even

created with examples such as Interlingua and Esperanto. The latter is the most

successful and used, it is often at the centre of debates on language democracy. It

was even considered by the EU as a possible working language for all member

States in order to reduce the costs of translation which seem to amount for 40% of

the overall budget. However the EU has dismissed such possibility so far as it said

that the member States have the right to read all legislations in their own

language.

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2. The Power of Words

Speaking and articulating words is a typically human faculty, it has always

had an important role in all different cultures, not only as a primary and

immediate form of communication, but also as a possession for eternity, crucial

for the present and valuable for the future. Since its origin words have been the

most effective tool to persuade, compel, remember, and educate.

For example although many tales and stories existed only in the oral form for

centuries our generations still received some of them in a written form. The

written collections of tales and legends that we have now are the result of

centuries of evolution and are a heritage of every people. There was therefore a

moment in history when the interest in the stories passed down orally generated

two parallel paths in the collection of narratives, one with a purely literary interest

and the other with an anthropological perspective. This led writers to creating the

first collections, which soon began to raise a growing interest because they offer a

glimpse of what might have been the way of thinking and feeling of our ancestors,

their fears and their values and therefore of our own evolution.

But transcribing an oral text is not as simple as it may seem, the reduction of

the communicative event into a text implies an unrecoverable loss and distortion

of senses and meanings. Not to mention the loss and distortion due to subjective

interpretation and communicating capabilities implied already in the oral passing

on of a story from one person to another. If we apply this consideration to another

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type of text, with much greater historical impact, namely the Bible, we realize

how it could have caused so many disputes. The Bible has exerted an incalculable

influence on the mentality, culture and art of our era. And it is the most translated,

the most printed and the most sold book ever. It's interpretation has been at the

centre of debates for the past 2000 years now as it has been decisive for society's

structure. Around the year 150, it appears that what was in circulation in Rome

were the memoirs of the apostles. In fact, in the second century there were

various texts in circulation which referred the facts of Jesus' life and his words,

along with other apocalyptic writings, attributed to the apostles themselves. The

relation between these writings with the actual words of Jesus, however, already

then was distanced by the transcription of the narration in each apostle's personal

way, then by a century and a half, and the Latin translation from Hebrew and

Greek. Such distance leads to more and more interpretations that differ from one

another, and probably from Jesus'original message as well.

Later, in the fourth century, the famous Councils of Constantine determined

which of those many doctrines developed in the first centuries based of those

writings that circulated and interpretations that were given, were to be considered

heretical and which to be spread. Many believe it was then that the texts were

carefully selected for the sacred book, including the four Gospels, Paul's letters,

the Acts of the Apostles and the Apocalypse and therefore deliberately excluding a

large number of writings considered "not inspired by God." Such ecumenical

councils were repeated many times throughout the centuries determining aspects

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of society such as women's role, the Hebrew people's rights, the Church's political

hierarchy, economy, trade, sexuality, often leading to strong repressive and

coercive actions, and even to bleeding wars.

The words of a man who lived two thousand years ago therefore have had the

power to influence the history of humanity. As Erri De Luca says, translations of

the Bible led to the introduction of habits and customs that perhaps could have

been different and mark our history in a different way if only more attention had

been paid when choosing verbs, phrases, and descriptions.

As already said words have the power to charm and seduce, influence,

entertain, hurt, soothe, even heal if we think of psychoanalysis. Words as a means

of communication have the power above all to transfer, even on a subconscious

level, provoking emotions and desires, for example in advertising; raising feelings

of belonging or even fear for example in politics. Which is why words come with

a great deal of responsibility.

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Chapter Three – Responsibility

The noun responsibility has in general terms a double meaning: on the one

hand, the "negative" cognition of being held accountable for misconduct by an

authority, on the other hand, the "positive" one of the commitment to maintain a

reasonable and correct behaviour.

When it comes to professional responsibility, it was observed that the term

profession, according to etymology, has a meaning substantially similar to that of

responsibility. In fact, "profession" is derived from the Latin professio that

originates from the verb profiteor that means to confess aloud or publicly

proclaim, promise, whereas "responsibility" seems linked to the verb “to respond”

which comes from the Latin verb spondeo, which has as its primary meaning in

“taking a solemn commitment of a religious nature”.

Profession and responsibilities are therefore structural components of the

identity of the operator and are to be interpreted as an inescapable statement of

commitment towards the hiring person. Typically, the professionally responsible

conduct has its roots in the following four points:

scientific assumptions of the profession's activities and functions;

legislation that rule the profession;

codification of the rules of professional conduct;

shared ethical values that arise from personal conscience.

As already mentioned, the activity of mediation in general in its various

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fields of application is always characterized by the same underlying purpose,

namely that of communication, and with the same prerogatives of impartiality,

excellent command of language and broad general culture. However, the

techniques and thus the education and training vary significantly. We've seen how

the civil and commercial mediators must have grasp of law of psychology, while

inter-cultural mediators must have a particular familiarity with all public and

private institutions; advocacy employees of NGOs must have a thorough

knowledge of the international institutions and relations, the channels of

information and training in the field of creative writing and graphics. Linguistic

mediators, interpreters and translators must have at least a superficial knowledge

of all these things (and others as translation in particular can deal with any field in

any human discipline) and be ready to study more in-depth each area for each

assignment. They also have a very specific technical training that goes beyond the

linguistic competency without which they could not really pursue such profession.

1. Deontologies compared

The different areas of mediation are regulated separately mainly by European

regulations, such as the quality standard UNI-EN15038:2006 for translation

services, or the 52/2008/CE Directive on mediation for Alternative Dispute

Resolution, the Decision No. 1983/2006/EC of the European Parliament and

Council on the subject of inter-cultural mediation, although national standards are

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emerging in recent years in Italy as in other European countries, and by ethical

codes and statutes of the institutions engaged in these services.

An article on an Italian newspaper called Sole24Ore makes an interesting

comparison between the new Ethical Code for Civil and Commercial Mediators

and that of other professions. It reports that the new ethics code integrates the

experience of many other professions: physicians, whose code refers to the

fundamental rights and the respect of the person and introduces the concept of

lifelong learning; psychologists, with reference to self-determination, a relevant

concept for mediation and for the respect of different cultures; the forensic code of

ethics refers to trust, which is the basis of the relationship between mediators and

parties; accountants, whose code has unquestionably valid reference to personal

conduct besides professional conduct; surveyors' code has an interesting

arrangement of the concepts of "science", "consciousness" and "diligence";

Finally, in relation to impartiality, which is without any doubt a crucial aspect of

mediators' profession, there is a very incisive comparison with the code of ethics

for judges who must ensure that when carrying out their functions the image of

impartiality is always fully guaranteed. These comparisons are easily extensible to

all areas of mediation.

In fact further comparing the codes of ethics of associations for translators

and interpreters such as AIIC, AITI and UNITALY just to make a few examples,

what shows is that all contain the principles listed above, along with the duty of

confidentiality and secrecy, which in the Unitaly Code of Ethics explicitly

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discourages even testifying in court, the duty of probity and demeanour that in the

AIIC code is called "code of honour", while on Unitaly's code it specifies that this

duty entails the prohibition "to express political or personal opinions or any public

statements about one's own political ideology”, the duty of fellowship that

prohibits members of the associations to damage the reputation of colleagues and

requires an attitude of loyalty and friendliness that makes professional

environment and activity peaceful, and in particular Article 21 of the Code of

AITI imposes that "when working as part of a team or group, the translator and

interpreter follow scrupulously the interests of colleagues, who are committed to

preserving the relationships that they entertain with the client". The duties related

to working conditions that the interpreter or translator must demand in order to

ensure the quality of the service are also defined in great detail, since it is

forbidden to "undermine the dignity of the profession". AIIC, an association for

conference interpreters, dedicates the entire third chapter of its code to specific

details on working conditions to be demanded in that context. So last but not least

what is strongly emphasized is the need for high quality of the service provided by

mediators. From this excursus what comes forth is how a mediator should be a

professional figure with a great deal of high quality preparation, general culture,

and whose attitude is ruled by professional deontology and strong personal moral

rigour. Now we just need to identify what exactly is meant by personal moral

rigour.

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2. Universal Ethics

A brief analysis of what is meant by moral or ethical, beyond professional

ethics imposed by the codes of ethics of different professions is necessary since as

given above beyond the professional conduct of a professional figure the personal

conduct is of decisive importance as well.

The word "ethics" derived from the ancient Greek ethos which meant

"character", "behaviour", "costume", "custom", and is a branch of philosophy that

studies the fundamentals of objective and rational human behaviour to allow a

distinction between good, righteous, morally licit behaviour and behaviours

considered morally bad or inappropriate.

Taking into account the possible conflict, or incompatibility, to which can

lead ethics based solely on law or religion, and about the latter recalling how

easily they have always been manipulated by political powers, the need to identify

values that are universally and deeply righteous becomes very strong.

Such attempts have been done all throughout human history and consisted in

the identification of natural rights recognizable to everyone based on the sole

quality of being human, and giving them a universal application and a superior

strength to any other norm. This was happening already in the third millennium

b.C. but sticking to most recent times we can mention the Human Rights Charter

adopted by the UN and by EU after the horrors of WW2. These, however, are

ideas rooted in the Western part of the world and are at the centre of a debate on

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whether it is right or not to try to spread the same values imposing them to the rest

of the world.

Especially for linguistic and cultural mediators, who must maintain their

absolute duty of neutrality while maintaining a high moral rigour, as they range

across different ethnicities, languages, laws, cultures and religions, finding a

universal ethical code, always valid and applicable and never in conflict with the

specific customs of any of the interlocutors, seems to be particularly vital.

Such ethics therefore can not be the ones deriving form the current

universalist line of thought, which tends to go hand in hand with the globalization

of markets and the Westernisation of the world, tending to homogenize the various

systems into the Western concept of democracy subject to the economic

mechanisms of capitalism, resulting in cultural assimilation that gradually

standardizes ways of thinking and lifestyles for the economic needs of the united

market, as Serge Latouche believes, one of the most incisive critics of the

universalist ideology.

But in response to those who question the universalist perspective, defining it

a claim of Western civilization to impose a set of values considered to be valid for

the whole human race all over the world, on the other hand univeralism sustainers

argue that without it, there's the risk of ending up in relativism and particularism,

which lead to the exalting of particular cultures and therefore to ethnocentrism,

nationalism, and a defensive attitude of one's identity as in xenophobia.

According to Latouche however, it is precisely universalism that involves

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such danger as it is merely a Western ideological creation precisely in the name of

its own identity. He claims instead the need to enhance the desire for a dialogue

between cultures which consists in the recognition and coexistence of a diversity

and dialogue between their differences.

Mediators then, while observing first of all international regulations and

keeping aware of local legal frameworks wherever they go, then the local uses and

customs, must always appeal to the universal values of knowledge and respect,

based on the perpetual acquiring of a deep cognition of humanity aiming at an

understanding of the self and the other, both from an individual and social point of

view, in order to be able to identify both the universal characteristics that make us

all part of mankind and the differences that make us interesting to one another,

without ever losing sight of the ultimate goal which is dialogue.

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CONCLUSION

After identifying the different ways in which mediation applies in society, the

elements that it is made of and its purposes, we can review the cornerstone of its

responsibility with Aristotle’s syllogism, where the middle term is contained both

in the major premise and in the minor one, allowing the logical conclusion in

which the medium term is null.

This syllogism, where the middle term contained by both premises is

annulled, points out the essence of mediators, their ability on the one hand to

identify and create a relationship (based on trust) with both sides, on the other

hand their ability to put aside their own self in the communication process

between the two parties, regardless whether parties are intended as individuals or

cultures.

As we have seen it may just be one of the main difficulties for the mediator

to remain neutral towards user and operator but whenever for some reason they

feel they can not guarantee absolute neutrality, they must be able to resign from

the assignment rather than damaging the relationship of trust between the user and

the service.

Such trust is also based on the idea that the mediator will faithfully refer the

message of both parties to one another, not only with regard to the content of the

sentences but also with regard to their form, accurate or inaccurate it may be, and

the communication mode proposed by the speaker. So if the speech is vague or

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inconsistent, the mediator should not improve it.

However the Preliminary in the code of Ethics of the Italian AITI association

for interpreters and translators says “It is the task of translators and interpreters to

ensure written and oral communication between speakers of different languages.

They shall work in the interests of peace, security, justice, health, well-being and

the economic, scientific and cultural development of peoples.” therefore the task

of mediators is not merely to transfer a message and they must apply all their

competencies in order to honour their task as described above and attend the

speakers even by intervening on the speech or text when the latter could result

incomprehensible or conflictual to the other party, as mediators must prevent from

an undesired diplomatic incident.

This is all the more possible when the mediator brings together technical

expertise and general skills, relational skills of communication and listening, skills

specific to mediation and innovation skills, good general knowledge, high moral

rigour governed by personal ethics and by professional ethics. These

characteristics should be complemented by knowledge of psychology, sociology,

communication, law and economics.

The codes of ethics also give much importance to the working conditions that

must be required by mediators when carrying out their duties in order to ensure a

yield up to expectations. Among the responsibilities of linguistic and cultural

mediators, and especially of interpreters, is therefore of utmost importance to be

able to demand the required conditions at work. The high brain strain that they

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undergo during a simultaneous or consecutive translation requires compliance

with all the requirements for facilitating such activities. Translation always

requires a clear and rested mind, especially during simultaneous interpreting as it

consists of making immediate cognitive and intuitive associations, as in dividing

their attention in order to follow two things in contemporary, namely the speaker's

voice in one language and their own voice in another language. They must

therefore be aware of their limitations and have the authority to enforce

compliance with them.

We can finally conclude with the ever true principle of Socrates, “know

thyself”, which can only be reached gradually through everyday life experience,

by observing and listening. While awaiting to have such experience it is wise to

humbly rely on the instructions of those who have more of it than us.

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La Responsabilité du

MÉDIATEUR LINGUISTIQUE ET CULTUREL

en général et du

TRADUCTEUR ET INTERPRÉTE

en particulier

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SOMMAIRE

Introduction.........................................................................................................111

Premier Chapitre – La Médiation....................................................................114

1. Médiation civile et commerciale..........................................................115

2. Médiation familiale..............................................................................117

3. Médiation inter-culturelle.....................................................................119

4. Médiation dans les ONG......................................................................120

Deuxième Chapitre – Les Mots et Autres.........................................................122

1. Langues et Langages............................................................................123

2. Le pouvoir des mots.............................................................................124

Troisième Chapitre – La Responsabilité..........................................................126

1. Déontologies comparées.......................................................................126

2. L’Éthique universelle............................................................................127

Conclusion............................................................................................................130

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INTRODUCTION

La médiation est un concept très large et s'applique à de nombreux domaines,

de l'éducation scolaire jusqu'aux relations internationales les plus complexes, en

passant par les négociations commerciales, les procès, la traduction littéraire,

l'interprétariat de conférence, et même la communication des médias, à la fois

informative et promotionnelle. Autant que l'on puisse disséquer le terme de

médiation et s'interroger sur les nombreuses fonctions possibles d'un médiateur,

nous arriverons toujours à la conclusion que la médiation est inévitablement liée à

la communication. Que la médiation se réalise dans un contexte juridique,

d'entreprise, culturel, linguistique ou interculturel, il s'agit toujours d'une

transposition d'idées dans une langue compréhensible pour une personne ou un

groupe de personnes, qui peut varier en largeur en fonction des circonstances, en

une autre langue compréhensible à une autre personne ou groupe de personnes

tout aussi variable. Donc, le but ultime du médiateur, en tant qu'intermédiaire

interposé entre deux parties en dialogue ou en conflit, est de permettre la

communication ou même la réconciliation.

Il est sans doute inutile de s'attarder sur l' importance d'une communication

saine à souligner la grande part de responsabilité que celle-ci peut impliquer. Il

suffit de citer quelques exemples, tels que la communication entre deux chefs

d’états, ou entre un philosophe capable de marquer le destin de l'humanité et ceux

qui veulent transcrire ses pensées, ou plus simplement entre le pilote d'un avion et

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l'opérateur de la tour de contrôle. Tous exemples qui justifient le fait que les

langues, étant les principaux outils de communication, sont en constante

évolution, de plus en plus complexes et nuancées, afin d'offrir toujours plus de

précision dans l'expression de concepts toujours plus nombreux. Ceci dans le but

de réduire au maximum le risque des interprétations subjectives qui peuvent

conduire aux malentendus et aux erreurs.

Mais pour que nous soyons en mesure de nous prendre une responsabilité et

donc être en mesure d'appliquer tous les outils nécessaires pour la respecter, nous

devons d'abord être conscients de sa dimension et de ce qu'elle implique.

Dans cette thèse, l'on essayera d'identifier les éléments impliqués dans telle prise

de conscience et son étendue, ainsi que les conséquences possibles en cas de son

absence. Ceci en général dans l'activité des médiateurs, en donnant plusieurs

exemples de la façon dont l'art de la médiation s'applique, et en particulier dans

l'activité d'interprètes ou de traducteurs.

Il n'y aura pas une distinction claire entre interprète et traducteur dans cette

thèse dans le cadre de la médiation linguistique tout simplement parce que dans de

nombreuses langues ils sont désignés par le même terme. Bien que en français, en

italien et en anglais, ces deux professions sont considérées comme distinctes,

cependant en polonais, par exemple, nous utilisons le terme Tłumacz pour les

indiquer tous les deux, et tłumaczenie pour indiquer la traduction ou

l'interprétariat. Il est également intéressant de noter que tłumaczenie est le même

mot qui est utilisé pour désigner le concept d'expliquer, ce qui met en évidence le

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lien étroit entre la traduction et la compréhension d'un texte, qui est en même

temps à la base du travail du médiateur et l'objectif final pour l'utilisateur de la

traduction/explication. D'ailleurs même l'Association Internationale des

Interprètes de Conférence (AIIC), malgré tous ses efforts dans la section de son

site web "interprétation expliqué", d'établir une nette distinction entre le traducteur

professionnel et l'interprète professionnel, offre finalement des services de

«traduction orale» se référant à l'interprétariat.

Avant d'examiner la question de la responsabilité et de l'activité spécifique de

la traduction (indépendamment du fait qu'il est écrit ou parlé) ou, plus

généralement, de la médiation linguistique et culturelle, peut-être, il peut être utile

d'offrir une compréhension plus approfondie de ce qu'est la médiation, de ses

origines à ses développements, afin de montrer son lien étroit avec le concept de

communication et donc ensuite avec les langages et les mots pour ensuite

procéder à démontrer la richesses de ceux-ci et les difficultés que telle richesse

pose.

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Premier Chapitre – La Médiation

Si "médiation", venant du latin, indique être au milieu des moyens étant

interposé, étant dans le milieu, d'être un intermédiaire entre deux parties en

dialogue (ou en conflit) afin de faciliter une bonne circulation de la

communication entre elles, la médiation peut également être métaphoriquement

décrite comme la construction de ponts. Il s'agit de créer des ponts de

communication entre les cultures, les personnes, les communautés, parfois même

de la même culture, mais avec des intérêts ou des convictions opposées, ou tout

simplement parlant des langues différentes.

Selon Stefano Castelli, la médiation est un processus par lequel deux ou

plusieurs parties se tournent volontairement à un tiers neutre, le médiateur, afin de

réduire les effets indésirables d'un grave conflit. La médiation vise à rétablir le

dialogue entre les parties en vue d'atteindre un objectif précis: la réorganisation

des relations afin qu'elles puissent être plus satisfaisantes pour tout le monde. Le

but ultime de la médiation est atteint lorsque les parties ont pris le contrôle, dans

leur propre intérêt comme de tous les autres participants, chacun de leur propre

capacité de prise de décision active et responsable". Le concept de dialogue dans

la définition utilisée par l'auteur est donc la base de la médiation.

Le dialogue implique que la relation entre les parties soit égale et symétrique.

Il est facile d'imaginer comment, par exemple, lors de la médiation entre les

autorités locales et les immigrants, il peut y être à l'origine un fort déséquilibre,

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ces derniers étant souvent désavantagés par rapport à l'autre partie.

Ensuite l'on peut remarquer un autre mot déterminant de la définition de

Castelli: relation. Afin d'établir et authentifier la dimension relationnelle entre les

parties un éducateur dois souvent recourir à des exemples et des témoignages, de

cette façon lui-même se met en relation, facilitant ainsi la compréhension entre les

élèves. Selon Tarozzi c'est la relation réciproque intentionnellement poursuivie qui

devient médiation".

Enfin également important dans la définition de Castelli est le concept de

"capacité de décision responsable", indicative de la façon dont le médiateur n'est

qu'une ombre dotée de conscience qui guide les parties à l'intérieur de la relation

de communication sans interférer avec sa liberté d'opinion et de choix, mais plutôt

en l'habilitant.

1. Médiation Civile et Commerciale

Si la communication et l'échange sont à a base de chaque formation sociale

de même en vaut-il pour le conflit. Ainsi la médiation basée sur la satisfaction des

besoins des parties vise à parvenir à un accord d'une manière tout à fait volontaire

permettant ainsi de maintenir une relation amicale. L'incapacité subjective

d'accepter la frustration résultant de l'imposition de l'autre engendre la violence et

les raccourcis mentaux qui empêchent les rapports d’évoluer de façon

constructive. La possibilité de promouvoir de nouveaux pactes sociaux se trouve,

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au contraire, dans la capacité à vivre avec les conflits qui peuvent stimuler et

améliorer les compétences personnelles. La perspective donc change: il ne s'agit

pas de vivre ensemble sans conflit, mais plutôt de vivre mieux grâce aux conflits.

Ceci nécessiterait un changement de mentalité, en particulier au niveau du

comportement professionnel, où nous sommes formés pour combattre plutôt que

pour coopérer, à chercher la victoire d'un côté et la défaite de l'autre. Il serait

essentiel de passer d'une mentalité de confrontation à un état d'esprit de

coopération avec une nouvelle culture de conflit qui va au-delà de l'imagerie

traditionnelle de la guerre. Afin d'y parvenir il est donc nécessaire de développer

des compétences pratiques sur la façon de traiter de manière constructive les

conflits engendrant la croissance personnelle.

Dans les disputes civiles et commerciales, la médiation est une procédure

dans laquelle un tiers impartial, facilite la discussion en mettant en évidence les

intérêts des deux parties et en laissant à celles-ci la décision finale pour déterminer

leur accord, ou suggérant une solution possible au différend.

L'origine historique de la médiation visant à la réconciliation remonte à

l'ancienne Chine où la doctrine confucéenne dès le sixième siècle avant JC,

introduit une manière de concevoir les règlement de différends grâce à

l'intervention du Zhong Jian Ren - tierce indépendant et neutre – pour encourager

ou de tenter la conciliation directement.

En occident les Romains et ensuite l’Église ont amplement contribué à la

diffusion de telle pratique.

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En temps modernes elle s'est affirmée tout d'abord aux Etats-Unis, tandis

qu'en Italie ce n'est que dans les années 1970 que les méthodes ADR (acronyme

de l'anglais Alternative Dispute Resolution) prennent pied. À partir de l'an 2003 il

y eut une série de législations qui régularisent les institutions aussi bien privées

que publiques qui offrent ce genre de services.

2. Médiation Familiale

Ces mêmes institutions qui s'occupent de médiation civile et commerciale

offrent également des services de médiation familiale. Celle-ci toutefois ne

bénéficie pas de la même régularisation légale et du titre de profession reconnue

par l'état, raison pour laquelle elle est d'habitude pratiquée par des s

professionnelles spécialisées en d'autres domaines, notamment des avocats, des

psychologues et lorsque sous ordre des autorités judiciaires, par des assistants

sociaux.

Ceux-ci se doivent bien entendu, comme le veut la définition même du

médiateur, d’être neutres et impartiales afin d'agir dans le seul but de l’intérêt du

mineur. Toutefois une série de conversations avec Maître Pellegrino du Centre

d'études juridiques sur la personne, et avec Mme Paolantoni des services sociaux

de la ville de Rome, ont permis de comprendre comment et pourquoi cette

impartialité est si souvent compromise.

Maître Pellegrino explique que la loi n°54 du 2006 inverse complètement la

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discipline regardant la garde des enfants en cas de divorce ou séparation. Tandis

qu'auparavant ils étaient confié à un seul parent, d'habitude la mère, avec cette loi

on veut encourager la garde partagée en vue du principe de la coparentalité, sauf

dans certaines situations exceptionnelles où la coparentalité pourrait représenter

un danger ou désavantage pour le mineur. Ce principe est émergé déjà lors de la

Convention sur les droits de l'enfant à New York en 1989, mais sa mise en œuvre

est due aussi à une forte activité de plaidoirie de la part de plusieurs associations

pour les pères séparés qui ont fait suffisamment parler de soi pour influencer

l'opinion publique et la mentalité de la société sur les thèmes de maternité et

paternité, ainsi que pour devenir partie intégrante de la formation de tous les

professionnels qui travaillent dans le secteur de la famille, d'une part représentant

une évolution de la société vers une majeure égalité des hommes et des femmes, et

d'autre part créant une tendance générale à voir ces pères comme des victimes

auxquelles on empêche de voir ses propres enfants, et les mères comme des

bourreaux. Sans aucun doute il s'agit d'une réalité, mais la réalité la plus

inquiétante n'est peut-être pas nécessairement la plus diffusée.

Mais à part les campagnes de propagande et la nouvelle formation quoi

d'autre peut porter les médiateurs à perdre de vue leur neutralité. La réponse à

cette question pourrait se trouver dans celle à une autre question, posée à Mme

Paolantoni des services sociaux de Rome: Pourquoi devient-on médiateur? Peut-

être pour la volonté de pouvoir aider les autres à s'en sortir avec les difficultés

qu'on a déjà affronté soi-même. Il est facile de faire l'hypothèse selon laquelle un

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médiateur familial aie vécu soi-même les conflits familiaux que comportent une

séparation et la douleur de l'absence du père que comportait le vieux système de la

parentalité singulière dans ces cas.

Nous sommes tous conditionnés par notre passé mais les médiateurs peut-

être plus d'autres doivent s'interroger sur la portée de cette influence.

En outre si la médiation entre deux parents séparés, lorsqu'elle est ordonnée

par un juge, doit se faire par les assistants sociaux, et pour être assistants sociaux

en il faut avoir la nationalité du pays, on peut facilement imaginer les difficultés

de la neutralité dans le cas où la nationalité d'un des parents soit étrangère et celui-

ci présente un modèle d'éducation et culture différent de celui de l'assistant social.

3. Médiation inter-culturelle

Considérant les flux migratoires en hausse et les cultures toujours plus

lointaines qu'ils rapprochent, on doit forcément se poser le problème de la

communication entre autochtones et étrangers. Actuellement, il n'est pas facile

d'analyser le concept de médiateurs interculturels et dresser une liste détaillée des

fonctions et les compétences auxquelles ils doivent s'adapter. Elle implique des

fonctions très diverses, qui nécessitent une préparation approfondie qui vont de la

connaissance linguistique, de la pédagogie, des techniques de médiation

linguistique et culturelle, connaissances des questions de migration, à la capacité

de recueillir des informations sur les événements sociaux et politiques dans les

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pays d'origine des migrants, à la capacité de garder un esprit ouvert et un

détachement constructif en même temps, à la familiarité avec les procédures de

services publics et privés, à la fois locaux et à l'étranger, à la gestion des conflits

d'ordre inter-culturel.

Le phénomène se présente de même dans les écoles où de plus en plus

d'enfants étrangers ont besoin de médiateurs linguistiques et culturels qui les

aident à s'insérer et à comprendre le système auquel ils doivent s'adapter, ainsi que

à valoriser et partager leur culture avec les autochtones.

Une façon de diviser les différentes méthodes de médiation est celle entre la

plaidoirie qui dans le contexte inter-culturel se manifeste quand le médiateur se

trouve en position de devoir faire valoir les droits de l'immigré, et la

autonomisation, quand le médiateur fournit à l'immigré toutes les informations

nécessaires pour lui permettre de se rendre indépendant.

4. Médiation dans les ONG

Les concepts de la plaidoirie et autonomisation sont particulièrement

pertinents si l'on considère la médiation comme effectuée par les organisations

non gouvernementales représentant les communautés ou groupes spécifiques dans

le contexte à la fois national et international. Celles-ci soutiennent, interprètent et

transmettent les besoins politiques et économiques instantanés des mouvements

sociaux locaux dans le but d'améliorer le droit international, d'ajuster l'agenda

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politique national ainsi que de procurer les fonds nécessaires pour offrir assistance

dans les situations d'urgence et financier la recherche scientifique.

Afin d'engager ces campagnes de solidarité et de médiation entre les autorités

et les communautés désavantagées, les ONG se servent principalement des outils

médiatiques traditionnels tels que les affiches, les spots télévisés ou

radiophoniques, les chaînes d'information, ainsi que des outils médiatiques plus

interactifs comme les réseaux sociaux les plus fameux, notamment Facebook,

Twitter, et autres plates-formes qui servent à partager les infos, images, vidéos

etc., comme Youtube, Flickr et d'autres.

Le cas du spot réalisé par la FID (Fédération Internationale du Diabète) l'an

dernier est emblématique de la difficulté d'attirer l'attention des indifférents sans

vexer la communauté directement concernée, donc dans la médiation entre cette

communauté et le public général, ainsi que sans contrarier les sponsors qui

investissent sur les campagnes des ONG en échange d'une bonne image publique,

mais surtout de l'importance des images mais encore plus des mots que l'on choisi

lorsqu'on transmet un message d'impact. Une seule phrase faite de trois mots a

coûté à la FID la perte de nombreux consensus outre que de ressources investies

sur la campagne.

Ayant introduit l'importance des mots et de la façon de communiquer il est

temps d’approfondir ce thème afin de voir ce qu'il implique.

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Deuxième Chapitre – Les mots et Autres

Le mot communiquer dérive du latin cum et munire, c'est-à-dire avec et

construire, donc constuire avec, et du latin communico, c'est-à-dire mettre

ensemble ou rendre participe. Sa définition plus immédiate renvoie donc à l'idée

de distribuer des information et partager. La communication est un phénomène qui

nécessite de plusieurs éléments: un système qui transmet qu'on appelle émetteur,

un message, un canal de transmission, un code formel qui donne une forme

linguistique au message, et enfin un système qui reçoit qu'on appelle destinataire.

Envoyer des informations est une activité constante de toutes formes

vivantes, conscientes ou non, et donc bien que le langage verbal soit un

phénomène humain, la communication ne l'est pas, et il est donc inévitable

conclure que le langage, en tant que système de communication, se manifeste

aussi sous d'autres formes.

1. Langues et langages

Tandis que le langage est un système de communication qui peut donc être

verbal ou non, par exemple le langage du corps, celui des signes, etc, la langue est

un système de codification du langage verbal déterminé par la communauté qui la

parle, sa location géographique et son histoire.

La langue donc change considérablement en fonction des facteurs qui

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influencent ceux qui la parlent, comme la prononciation qui change en fonction de

la position sociale ou géographique, ainsi que le lexique en fonction du domaine

de spécialisation de l'interlocuteur, ou même simplement du sexe, l'utilisation

idéologique qu'il fait des concepts et d'autres encore.

Compte tenu de la relation entre la langue, le langage et la société la

compétence linguistique n'est plus le centre de la compétence communicative

mais n'en est qu'un des aspects. Effectivement les facultés de la communication

sont faites de bien d'autres éléments tels que les variations para-linguistiques,

celles kinésiques, proxémiques, pragmatiques, et socio-culturelles. Ceci fait que la

communication positive est basée sur la capacité de créer des rapports sur un fond

socio-culturel qui, dans le cas de la communication inter-culturel consiste en faire

interagir des fonds socio-culturel différents les uns par rapport aux autres.

L’École Romantique se référait déjà au rapport étroit entre langage et identité

culturelle à moitié du 19ème siècle avec le nom de «esprit» du peuple.

C'est peut-être justement dans la traduction de textes littéraires que ce rapport

étroit pose le plus de doutes: si traduisant tâcher de maintenir le plus intacte

possible le langage utilisé par l'auteur étant donné qu'il est représentatif de sa

culture et son histoire, ou plutôt se détacher du texte pour en traduire les concepts

contenus dans le langage le plus naturel pour les destinataires. Prétendre que ceux-

ci fassent l'effort de découvrir aussi ce qu'il y a derrière le texte ou leur rendre le

plus simple possible la compréhension de son contenu.

Dans le sens de faciliter la communication entre les peuples furent inventées

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les langues artificielles comme l'interlingua et l’espéranto. Ce dernier est même si

diffus qu'ils se trouvent depuis une vingtaine d'années au centre de débats car

certains le voient comme une possibilité pour réduire les dépenses de l'Union

Européenne en traductions. L'U.E. toutefois jusqu'ici a retenu que chaque pays aie

le droit de lire les législations dans sa propre langue.

2. Le pouvoir des mots

La parole est une faculté typiquement humaine qui a toujours eu une

importance fondamentale dans toutes les cultures, non seulement comme forme

immédiate de communication mais aussi comme possession pour l'éternité gràce à

l'écriture. Dès leur origine les mots sont devenu l'instrument le plus efficace pour

rappeler, éduquer et persuader.

De nombreuses histoires sont parvenues à nos générations bien qu'elles

n'aient existé que sous forme orale pendant des siècles, grâce à la récolte et

transcription de certains écrivains dotés de curiosité anthropologiques, et

représentent aujourd'hui un patrimoine de grande valeur qui nous permet

d'apercevoir ne serait-ce qu'un morceau de ce qu'était la culture de nos ancêtres et

donc de notre évolution.

Mais la transcription est un processus qui comporte de nombreuses pertes et

distorsion de l’événement communicatif oral, sans parler des inévitables

mutations que comporte le passage oral d'une personne à l'autre, chacune avec sa

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façon d'interpréter et mettre en scène l'histoire. Si nous appliquons ces

considérations à un autre texte bien plus important des histoires, la Bible, le livre

le plus traduit, publié et vendu de tous les temps, le plus influent pour notre

histoire et notre culture, nous pouvons nous rendre compte de la gravité de ces

pertes et distorsions. Erri De Luca à ce propos dit que la Bible a introduit des

façons de penser et de vivre qui auraient pu être tout à fait différents si seulement

l'on avait prêté plus d'attention à la façon de traduire certains verbes, adjectifs ou

allocutions.

Il est donc inévitable conclure que les mots tous seuls impliquent une énorme

responsabilité de la part de qui les utilise.

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Troisième Chapitre – La Responsabilité

Le mot responsabilité peut avoir deux connotation différentes, celle négative

qui laisse entendre la faute, et celle positive représentée par l'engagement à

maintenir une conduite cohérente et correcte.

Lorsqu'il s'agit de responsabilité professionnelle il est amusant de remarquer

que les mots profession et responsable sont reconductible à la même étymologie

latine de profiteor qui veut dire promettre publiquement et spondeo qui veut dire

«assumer solennellement un devoir de nature religieuse» et sont donc parties

intégrantes de l'identité de l'opérateur, en tant que déclaration d'engagement

envers la personne qui l'emploie.

La responsabilité professionnelle dérive typiquement de quatre éléments:

l'assertion scientifique des fonctions et activités prévues par la profession

réglementation législative de la profession

codification de la déontologie professionnelles

valeurs morales et étiques partagées dérivantes de la conscience

personnelle.

1. Déontologies comparées

Un article du journal italien Sole24ore compare le code étique des médiateurs

civiles et commerciaux avec ceux d'autres professions, comme par exemple celui

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des médecins qui introduit le concept de l'apprentissage continu, celui des

psychologue qui introduit l’auto-détermination, celui des avocats qui parle de

confiance, celui des comptables qui donne importance à la conduite personnelle

au-delà de celle professionnelle, et enfin celui des juges qui impose la garantie

totale de l’impartialité et de l'équidistance. Cette comparaison peut être appliquée

a toutes les branches de la médiation.

D'ailleurs si on compare cette liste avec les codes étiques des associations

pour traducteurs et interprètes, par exemple l'AIIC, l'AITI, ou encore l'UNITALY,

on y trouve que tous les éléments ci-dessus mentionnés en font partie, outre le

secret professionnel, la fraternité entre collègues, et le code d'honneur qui interdit

au médiateur d'exprimer publiquement ses opinions politiques ou idéologiques.

Les codes de ces associations toutefois donnent aussi une particulière importance

aux conditions de travail à exiger, vu l'effort mental considérable que comporte

l'activité d'interprète, afin de garantir toujours un service à la hauteur, étant donné

que les codes interdisent de nuire de quelconque façon à l'image de la profession.

Analysant attentivement ces codes on en arrive à conclure que les médiateurs

doivent avoir une impeccable préparation et une culture générale extrêmement

vaste grâce à l'apprentissage continu, un comportement déontologique bien

articulé ainsi que une grande rigueur morale accompagnée d'un caractère résistant

au stress et à la pression.

2. L’Étique universelle

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Une brève analyse de ce que l'on entend par rigueur morale ou étique au-delà

des règlements déontologiques est nécessaire vu que comme plusieurs fois

mentionné auparavant, la conduite personnelle a autant d'importance que celle

professionnelle.

L’étique est une discipline de la philosophie qui cherche à distinguer les

comportements humains entre dignes ou justes, et incorrectes ou inadéquats. La

recherche d'une étique universelle, qui vaut au-dessus de tout, remonte à la nuit

des temps et déjà dans l'ancienne citée de Ur fut rédigé un document sur les droits

naturels, c'est-à-dire ceux qui valent sur la base de la seule qualité d’être humain,

et auxquels on donne une force supérieurs à tous les autres.

En temps plus récents on peut identifier ces tentatives dans la Carte des

Droits de l'Homme adoptée par les Nations Unies et par l'Union Européenne.

Celle-ci toutefois sont nées à partir de conceptions occidentales et s'il est juste de

les considérer universelles est encore en débat.

Pour les médiateurs linguistiques et culturels qui doivent savoir s'insérer

discrètement dans les différentes cultures et dont le but est précisément d'établir

une communication pacifique, il semble particulièrement important de trouver

une étique toujours valable dans chaque pays du monde afin de ne pas courir le

risque de vexer un interlocuteur.

Telle étique donc ne peut être celle universaliste qui selon Serge Latouche

tend à être en parallèle avec le développement de la globalisation des marchés et

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homogénéisation du monde en fonction de la vision occidentale d'une démocratie

qui doit satisfaire les exigences économiques du capitalisme. Selon Latouche au

contraire il faut encourager le désir d'un dialogue entre les différences.

Les médiateurs donc devront s'abstenir à observer les lois internationales et

locales, ainsi que les coutumes des peuples, et faire appel à la seule valeur

universelle du respect qui se base sur la connaissance profonde de l'humanité et

donc l'acquisition continue d'informations et d'études afin d'achever la

compréhension de soi et de l'autre, tu point de vue individuel et social, pour savoir

de cette façon reconnaître les qualités universelles qui nous rendent tous partie

due genre humain et à la fois découvrir les différences qui nous rendent

intéressants les uns aux autres, sans jamais perdre de vue que le but final est celui

du dialogue.

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CONCLUSION

Ayant identifié les différentes manifestations de la médiation et les éléments

qu'elle comporte nous pouvons résumer le fondement de la responsabilité avec le

syllogisme d’Aristote, où le terme moyen est présent aussi bien dans la prémisse

majeure que dans celle mineure annulant donc le terme moyen même.

Ce syllogisme souligne parfaitement l'essence du rôle du médiateur qui doit

savoir d'une part s'identifier et créer un rapport (basé sur la confiance) avec

plusieurs parties à la fois, et d'autre part doit savoir annuler soi-même dans le

processus de communication. Ceci représente une des difficultés majeures de la

médiation, et dans le cas où le médiateur n'est pas sûr de pouvoir garantir la

neutralité il doit savoir renoncer à la tâche plutôt que de risquer de gâcher le

rapport de confiance entre utilisateur et service.

Tel confiance se base entre autre sur la certitude que le médiateur référera

fidèlement le message des interlocuteurs les uns aux autres. Telle fidélité ne

regarde pas seulement le contenu verbal des phrase mais aussi leur forme, qu'elles

soient précises ou non, et les modalités de communication utilisées par le locuteur.

Selon ce concept de fidélité si le discours n'est pas clair le médiateur n'a pas

la liberté de l'altérer pour le rendre plus compréhensible. Toutefois si, comme dit

le préambule du code d'éthique des traducteurs et interprètes, leur tâche est celle

de garantir la communication écrite et orale entre les personnes parlant des

langues différentes et ils doivent travailler dans l’intérêt de la paix, de la sécurité,

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de la santé, du bien-être et pour le développement économique et culturel des

peuples, alors on peut dire que la tâche du médiateur n'est pas seulement de

transmettre fidèlement un message bien si d'appliquer tous les outils dont il

dispose pour faire en sorte que la communication soit réussie. Il s'agit donc d'une

responsabilité linguistique et herméneutique, où la traduction se fait explication

comme la désigne le terme polonais de tłumaczenie.

Il y a de plus la responsabilité de faire valoir les conditions de travail et ses

propres exigences nécessaires pour garantir le bon résultat de la prestation,

responsabilité qui nécessite de l'application du principe de Socrate de se connaître

soi-même qui s’acquiert graduellement avec l'expérience.

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