1 LA RESPONSABILITA DEL MEDIATORE LINGUISTICO E … · insegnamento in merito a tematiche a me...
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LA RESPONSABILITA
DEL MEDIATORE
LINGUISTICO E CULTURALE
IN GENERALE
E DELL'INTERPRETE O TRADUTTORE
IN PARTICOLARE
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RINGRAZIAMENTI
Ringrazio prima di tutti con molto affetto mia madre che aspetta questo giorno da
dieci anni perché mi ha convinta a tornare a studiare in un momento particolare in
cui mi trovavo ad un bivio con di fronte un precipizio, e perché mi ha sostenuta
economicamente e non solo, occupandosi di mio figlio ogni volta che le era
possibile. E ringrazio anche mio figlio Bartosz che pur così piccolo si è spesso
dovuto mostrare saggio e comprensivo anche quando si sentiva trascurato.
Poi un ringraziamento va alla SSML Gregorio Settimo per gli insegnamenti e le
opportunità che mi ha concesso, particolarmente alla Prof.ssa Bisirri per il suo
sostegno e per la sua ispirazione, alla Prof.ssa Moni per la sua pazienza e
disponibilità, insieme a tutti gli altri professori che mi hanno saputo trasmettere il
loro sapere e la passione per l'interpretariato e la traduzione, ma anche la Prof.ssa
Pierantonelli che mi ha coinvolta in diverse sfide molto stimolanti.
Infine devo ringraziare tutti gli amici e le amiche che hanno fatto il possibile per
venirmi incontro e facilitarmi l'impresa di prendere una laurea e vivere esperienze
appaganti nonostante tutto.
PREMESSA
In questa tesi ricorre di tanto in tanto l'uso della prima persona, e me ne voglio
scusare se a qualcuno risulta sgradevole. Ci tengo a spiegare che non deriva da
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una mia presunzione ma dal fatto che per una serie di motivi sia personali che
professionali ho attraversato questo percorso universitario dedicando, non senza
sacrificio, mio ma anche di chi mi ha voluta sostenere, molte energie alle attività
pratiche e purtroppo penalizzando quelle teoriche. Essa è dunque il sunto di tutto
ciò che ho avuto modo di scoprire, imparare ed elaborare grazie agli insegnamenti
dei professori, ai tirocini che mi sono stati offerti, e alle esperienze lavorative che
ne sono nate, tutte occasioni in cui ho potuto affermare con soddisfazione le
capacità acquisite, ma anche commettere errori dai quali trarre ulteriore
insegnamento in merito a tematiche a me particolarmente care:
la mediazione in quanto più volte emigrata, dalla Polonia al Belgio avanti
e indietro per anni, poi all'America e da lì all'Italia, ma anche in quanto
cresciuta nel conflitto familiare;
la traduzione, un'attività che mi accompagna fin dalla nascita perché
essendo di madrelingua sia polacca che francese tradurre era l'unico modo
per far comunicare le mie radici fra loro e tenerle in vita;
l'etica e la responsabilità che sono spesso l'unica guida su cui poter contare
quando si cambia così spesso scenario.
Da tutto ciò risulta che le tesi sostenute in questa relazione sono idee e conclusioni
più spesso tratte da esperienze vissute in prima persona piuttosto che da una
ricerca teorica.
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INDICE
Ringraziamenti..…...................................................................................................2
Premessa...................................................................................................................2
Introduzione............................................................................................................5
Capitolo Primo – Mediare.…................................................................................8
1. Mediazione civile e commerciale...........................................................11
2. Mediazione familiare..............................................................................15
3. Mediazione interculturale e linguistica..................................................21
4. Mediazione delle ONG...........................................................................25
Capitolo Secondo – Parole e non solo.................................................................31
1. Lingue e linguaggi..................................................................................33
2. Il potere delle parole...............................................................................45
Capitolo Terzo – La Responsabilità....................................................................53
1. Deontologie a confronto.........................................................................55
2. Etica universale......................................................................................58
Conclusione..................................................................,........................................66
The Responsibility of Linguistic and Cultural Mediators in general and of
Translators and Interpreters in Particular...............................................................70
La Responsabilité du Médiateur Linguistique et Culturel en général et du
Traducteur et Interpréte en particulier..................................................................109
Bibliografia..........................................................................................................132
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INTRODUZIONE
Il concetto di mediazione è sicuramente molto ampio e si applica ad
innumerevoli campi, dall'ambiente scolastico ai più complessi rapporti
internazionali, passando per trattative commerciali, cause legali, traduzioni
letterarie, interpretariato di conferenza, e perfino per la comunicazione mediatica,
che essa sia informativa o promozionale. Per quanto si voglia sviscerare il termine
di mediazione e interrogarsi sulle molteplici possibili funzioni del mediatore,
rimane inevitabile concludere che la mediazione sia un concetto imprescindibile
da quello della comunicazione. Che si tratti di mediazione legale, aziendale,
familiare, culturale, linguistica, o interculturale, sempre si tratta della
trasposizione di idee esposte in un linguaggio comprensibile ad un soggetto o
gruppo di soggetti, che può variare per dimensioni a seconda delle circostanze, ad
un altro linguaggio comprensibile ad un altro soggetto o gruppo di soggetti
altrettanto variabile. Per cui lo scopo finale del mediatore, soggetto interposto o
intermedio tra due parti in dialogo o in conflitto, è quello di rendere possibile la
comunicazione o perfino di conciliare.
Non penso sia necessario soffermarsi sull'importanza della sana
comunicazione per sottolineare la gran mole di responsabilità che tale scopo può
comportare. Basti pensare alla comunicazione tra due capi di Stato, o tra un
pensatore capace di segnare il destino dell'umanità e coloro che trascrivono i suoi
pensieri, o più banalmente tra il pilota di un aereo e chi opera la torre di controllo.
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Tutti esempi che giustificano il fatto che lingue e linguaggi, principali strumenti
della comunicazione come vedremo più avanti, siano in continua evoluzione,
sempre più elaborati, ricchi di sfumature e complessi, al fine di offrire sempre più
precisione nell'espressione dei concetti, questo nel tentativo di ridurre più
possibile quel pericoloso margine di interpretazione passibile di componenti
soggettive che possono dar luogo a incomprensioni ed errori. Ma per essere in
grado di assumersi una qualsiasi responsabilità, e quindi avvalersi di tutti gli
strumenti necessari per portarla avanti, bisogna senza dubbio essere consapevoli e
capaci di inquadrare con precisione la sua estensione e ciò che comporta.
In questa tesi cercherò quindi di individuare gli elementi sottintesi di tale
consapevolezza e la portata di tale responsabilità, nonché delle eventuali
conseguenze qualora essa mancasse, nell'attività del mediatore in generale, dando
diversi esempi di applicazione dell'arte della mediazione, ed in particolare in
quella dell'interprete o traduttore.
Mi asterrò dal distinguere in questa tesi tra interprete e traduttore per il
semplice motivo che in molte lingue vengano indicati con lo stesso termine. Ad
esempio mentre in francese, in italiano e in inglese sono considerati due
professioni a se stanti, invece in polacco si usa il termine “Tłumacz” per indicarle
entrambe, e per traduzione o interpretariato si usa il termine “Tłumaczenie”, ed è
inoltre interessante notare come sia la stessa parola che si usa per indicare il
concetto di spiegazione, il che evidenzia lo stretto legame tra l'attività di
traduzione e la comprensione del testo, sia alla base dell'attività stessa da parte del
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traduttore, sia come scopo finale per il destinatario della traduzione/spiegazione.
Perfino la stessa AIIC nonostante i suoi sforzi, nella sezione “Interpreting
Explained” del suo sito, per tracciare una netta distinzione tra le figure
professionali di traduttore e di interprete, infine nella sezione “Services” propone
servizi di “spoken translation” ossia “traduzione parlata” riferendosi
all'interpretariato.
Prima di entrare nel merito del tema della responsabilità e nello specifico
dell'attività di traduzione (scritta o parlata che sia) o della mediazione linguistico-
culturale può essere forse utile approfondire il concetto di mediazione, dalle sue
origini ai suoi sviluppi, per individuare come si manifesti quel suo stretto legame
con il concetto di comunicazione e ciò che implica. Poi essendo la comunicazione
fatta di codici e linguaggi ne vedremo la ricchezza e le insidie che tale ricchezza
pone.
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Capitolo Primo – Mediare
Se “mediare”, termine derivante dal latino, significa essere interposti, essere
in mezzo, essere l'intermedio tra due parti comunicanti (o in conflitto), allo scopo
di rendere possibile, agevolare, o garantire il buon andamento della
comunicazione tra loro, metaforicamente mediare può essere descritto come
costruire ponti. Mediare significa quindi creare ponti di comunicazione tra culture,
o persone, o gruppi di persone, comunità, anche della stessa cultura ma con
interessi o convinzioni opposti, o più semplicemente parlanti lingue diverse.
Una definizione più completa ed analitica di mediazione ci è data da Stefano
Castelli secondo il quale «la mediazione è un processo attraverso il quale due o
più parti si rivolgono liberamente a un terzo neutrale, il mediatore, per ridurre gli
effetti indesiderabili di un grave conflitto. La mediazione mira a ristabilire il
dialogo tra le parti per poter raggiungere un obiettivo concreto: la realizzazione di
un progetto di riorganizzazione delle relazioni che risulti il più possibile
soddisfacente per tutti. L’obiettivo finale della mediazione si realizza una volta
che le parti si siano creativamente riappropriate, nell’interesse proprio e di tutti i
soggetti coinvolti, della propria attiva e responsabile capacità decisionale»1. I
termini che più colpiscono di tale definizione sono “terzo neutrale” che ristabilisca
il “dialogo” per una “riorganizzazione delle relazioni” “soddisfacente per tutti”
quando “le parti abbiano raggiunto una responsabile capacità decisionale” per
“l'interesse proprio e di tutti i soggetti coinvolti”. Il concetto di dialogo utilizzato
1 Castelli, (1996), citato in Fiorucci, (2003), 91-92
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dall’autore nella definizione è quindi la base della mediazione, che sia intesa come
risoluzione alternativa dei conflitti rispetto al tribunale, come assistenza sociale,
come pedagogia interculturale, come assistenza linguistica o traduzione, o come
rappresentanza internazionale.
Il dialogo implica che il rapporto tra gli interlocutori sia un rapporto alla pari
e simmetrico. E' facile immaginare come per esempio in situazioni di mediazione
tra immigrati e autorità locali ci possa essere alla radice un forte sbilanciamento a
sfavore della parte rappresentata dagli immigrati. Infatti quest’ultimo si trova
spesso in una situazione di svantaggio e perfino di inferiorità rispetto alla
controparte, questo non solo perché non ha sufficiente padronanza della lingua
locale per esporre le sue ragioni ed esigenze, ma anche perché non è a conoscenza
di usanze, leggi e procedure del paese che lo “ospita” (è il termine più diffuso ma
forse non il più adatto se si paragona il concetto di ospitalità con il modo in cui
vivono molti immigrati, con riferimento allo sfruttamento della manodopera solo
per fare un esempio), e sopratutto perché spesso risente della pressione
psicologica di trovarsi appunto “ospite” di chi non sente particolare esigenza, per
non dire che spesso non vuole affatto, comprenderlo o dialogarci e con chi esso
invece è costretto a dialogare, e ad adeguarsi, per ovvi motivi, che possono essere
legati a scelte professionali, di studio, o perfino di sopravvivenza.
Appurato quindi che il dialogo sia lo strumento necessario per raggiungere la
comprensione reciproca ed evitare che una parte prevalga sull'altra nella relazione
possiamo notare come un altro termine di rilevanza nella definizione di Stefano
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Castelli sia proprio “relazione”. L’educatore si avvale di esempi e testimonianze
per svelare e autentificare la dimensione relazionale tra due soggetti. Ciò è
possibile dal momento che è l’educatore stesso a porsi in relazione e a facilitare,
così, la comprensione fra gli educandi, «in questo modo si può dire che la
relazione reciproca intenzionalmente perseguita diviene mediazione»2. Margalit
Cohen Emerique, psicologa francese, individua tre significati del termine
“mediazione”, in particolare nell’ambito dell’integrazione delle popolazioni
immigrate:
• Mediazione in casi di comunicazione difficile. Lo scopo è quello di
facilitare la comprensione e chiarire i malintesi che si verificano soprattutto per
una diversità culturale nei codici di comunicazione.
• Mediazione per risolvere i conflitti di valore tra famiglie immigrate e
società di accoglienza
• Mediazione come processo di creazione di nuove norme che possano essere
condivise da entrambe le parti in causa.
Infine di rilievo nella definizione di Castelli è anche il concetto di
“responsabile capacità decisionale”, indicativo di come il mediatore sia un ombra
dotata di coscienza che guida l'utente senza influenzarlo verso una libertà di
opinione e scelta all'interno del rapporto di comunicazione ma piuttosto abilitando
tale libertà.
2 Tarozzi (1998), citato in Fiorucci (2003), 94
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1) Mediazione civile e commerciale
Se la comunicazione e lo scambio sono alla base di ogni formazione sociale e
risalgono alle origini dell'umanità, lo è inevitabilmente anche il conflitto. La
mediazione basandosi sulle esigenze delle parti in modo paritario mira a
raggiungere un accordo vero in modo del tutto volontario permettendo di
preservare più facilmente una relazione amichevole. L'incapacità soggettiva nelle
relazioni di accettare la frustrazione del limite imposto dall'altro e dell'impotenza
che ne deriva produce violenza e scorciatoie mentali, le quali impediscono ai
legami di fluire in modo costruttivo. La possibilità di promuovere nuovi patti
sociali si trova, al contrario, nella capacità di stare nei conflitti, di viverli come
forme altamente evolute in grado di generare stimoli e accrescere competenze
personali. Cambia l'ottica: non si tratta di convivere senza conflitti, ma piuttosto di
convivere proprio grazie ai conflitti.
Per poter mediare, dunque, occorre un cambio di mentalità, un forte
ridimensionamento soprattutto del pensiero “professionale” educato alla lotta
piuttosto che alla cooperazione, alla vittoria di una parte e alla sconfitta di un'altra.
Sarà fondamentale passare da una mentalità avversariale ad una mentalità
cooperativa con una nuova cultura del conflitto che superi la tradizionale
evocazione dell'idea come scontro o guerra che conduce a ritenerlo un elemento
patologico da curare solo con decisioni autoritative.
Nell'ambito legale la mediazione, finalizzata ovviamente alla conciliazione, è
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una procedura nella quale un soggetto terzo e imparziale agevola la discussione
facendo emergere gli interessi delle parti lasciando loro la determinazione
dell’accordo, o suggerendo una possibile soluzione alla controversia. L’origine
storica della mediazione finalizzata alla conciliazione di controversie è
antichissima, sono infatti innumerevoli le testimonianze che riportano ed indicano
la metodologia della mediazione come mezzo utilizzato per dirimere i conflitti ed
i contrasti tra gli individui, dall'antica Cina ad oggi.
Nella cultura orientale infatti, l'influenza della dottrina confuciana sin dal VI°
secolo A.C., ha reso il comportamento di sfida fra le parti lontano dal modo di
concepire la soluzione all'interno di una controversia giudiziaria, così l'elemento
chiave del sistema cinese è l'intervento dello Zhong Jian Ren – terzo indipendente
e neutrale - che incoraggia o tenta direttamente la conciliazione.
Nelle antiche società patriarcali erano i membri più anziani dei clan familiari
a venire interpellati per comporre controversie insorte tra componenti del gruppo
stesso.
Gli antichi romani cercavano di risolvere una controversia, attraverso una
soluzione amichevole della lite prima di recarsi davanti al pretore, il quale avrebbe
confermato con la successiva sentenza le volontà delle parti, qualora si fossero
riappacificate.
Perfino la Chiesa ha avuto un ruolo rilevante per l’espansione della
mediazione/conciliazione in occidente. Era infatti spesso il parroco che cercava di
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mediare le controversie tra i suoi parrocchiani. Per non parlare delle vere e proprie
conciliazioni pontificie mediante le quali i Papi o i loro incaricati svolgevano la
propria attività al fine di definire controversie addirittura tra Stati.
In Italia il termine “mediazione” si ritrova indicato nel Codice Civile in
vigore dal 1942, all’art. 1754 e seguenti. L'articolo 1754 riporta: “è mediatore
colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza
essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione, di dipendenza o di
rappresentanza”. Tale concetto nella legislazione moderna sembra avere origine
negli Stati Uniti d'America già nel 1887, quando il Governo Federale con la legge
sul commercio tra Stati, istituì un procedimento per dirimere volontariamente le
controversie sindacali tra le compagnie ferroviarie e i loro dipendenti. L’anno che
sembra essere indicato quale la vera origine della mediazione è il 1906, in un
convegno della American Bar Association, in cui fu tenuta una relazione intitolata
“The Causes of Popular Dissatisfaction with the Administration of Justice” (Le
cause dell'insoddisfazione Popolare riguardo all'Amministrazione della
Giustizia). Negli ultimi decenni il ricorso alle metodologie A.D.R. ha vissuto un
forte incremento rispetto al ricorso alla giustizia ordinaria, le stesse metodologie
infatti vengono ritenute più vantaggiose in quanto, rapide, riservate,
economicamente convenienti oltre che efficaci nella risoluzione dei conflitti,
portando così nel 1998 alla modifica del Titolo 28° della Carta dei Diritti
riguardante la risoluzione dei conflitti, con cui venne stabilito che gli strumenti e
le procedure ADR, dall'acronimo inglese di “Alternative Dispute Resolution”
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(risoluzione alternativa delle controversie) dovevano prevalere su qualsiasi
procedura tra contenziosi. Tali procedure consistono nella negoziazione, nella
mediazione e nell'arbitrato.
E' alla fine degli anni ’70 che anche in Italia si iniziano ad applicare i metodi
alternativi ADR, inizialmente solo in riferimento alle controversie di lavoro,
infatti con la riforma del processo del lavoro del 1973, l’ordinamento italiano ha
previsto due forme di conciliazione stragiudiziale e preventive rispetto
all’instaurazione del giudizio.
Il Decreto Legislativo del 17 gennaio 2003, n. 515, agli articoli 38, 39 e 40
tratta le ipotesi di conciliazione stragiudiziale, in cui il tentativo di conciliazione
precede un eventuale giudizio ed è gestito da un ente terzo (rispetto alle parti in
lite), pubblico o privato iscritto in apposito registro tenuto presso il Ministero
della giustizia. Nel 2010 viene pubblicato il Decreto legislativo n° 28, con il quale
viene approvata la mediazione legale come istituzione alternativa ed
extragiudiziale, finalizzata alla conciliazione delle controversie in ambito civile e
commerciale, seguita dal D.M. n°180 con il quale viene regolamentata l’iscrizione
degli Organismi pubblici e privati nel relativo registro tenuto dal Ministero di
Giustizia e le Indennità di Mediazione da applicare da parte degli Organismi. Il
D.Lgs. 28/2010 pone inoltre la condizione di procedibilità, fondamentale perché
ponendo la mediazione come obbligatoria e premessa per poter accedere al
processo, le si conferisce dignità di procedimento vero, incentivando gli
interessati, i mediatori professionali per primi, a percorrere quest'alternativa con la
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giusta credibilità e serietà. Infine in data 2011 è stato pubblicato il D.I. n° 145 con
il quale vengono modificate alcune disposizioni relative alle indennità e alla
formazione dei mediatori.
2) Mediazione familiare
Le stesse istituzioni di mediazione civile, pubbliche o private che siano,
offrono anche servizi di mediazione familiare. Tuttavia mentre la mediazione
civile è un istituto giuridico previsto dall'Unione Europea che ne ha richiesto
l'adozione agli Stati membri, ai fini del recepimento della direttiva dell'Unione
Europea 2008/52/CE relativamente alla materia civile e commerciale, la
mediazione familiare invece è in fase ancora sperimentale e sprovveduta di
legislazione che le conferisca il titolo di professione ufficialmente regolamentata.
Per cui benché esistano strutture di formazione riconosciute che rilasciano il titolo
di “Mediatore Familiare Esperto”, e alcune Regioni italiane, attraverso lo
strumento della Legge regionale, hanno istituito al proprio interno alcuni elenchi
di professionisti in possesso di particolari caratteristiche (ad esempio, la Regione
Lazio che ha istituito l'elenco dei Mediatori Familiari attraverso la L.R. n° 26 del
24 dicembre 2008, pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione Lazio n° 48
del 27 dicembre 2008), tuttavia tali elenchi sono stati dichiarati illegittimi dalla
Corte costituzionale, con la sentenza 131/2010, in quanto "in contrasto con il
principio fondamentale in materia di regolamento delle professioni, in base al
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quale spetta esclusivamente allo Stato l’individuazione delle figure professionali
con i e relativi profili e titoli abilitanti”, tali elenchi sono quindi da non
confondere con Albi o Ordini professionali, che presentano criteri diversi e più
rigorosi per l'accesso, in quanto la Mediazione Familiare rimane, appunto, una
professione non regolamentata. In Italia quindi la mediazione familiare
solitamente viene praticata da altre figure professionali già stabilite, come
avvocati, psicologi, e sopratutto quando sia richiesta da autorità giudiziarie, dagli
assistenti sociali.
La mediazione familiare è un intervento professionale rivolto alle coppie e
finalizzato a riorganizzare le relazioni familiari in presenza di una volontà di
separazione e/o di divorzio. Obiettivo centrale della mediazione familiare è il
raggiungimento della co-genitorialità (o bigenitorialità) ovvero la salvaguardia
della responsabilità genitoriale individuale nei confronti dei figli, in special modo
se minori.
La mediazione familiare è infatti finalizzata al raggiungimento degli obiettivi
definiti dalla coppia al di fuori del sistema giudiziario. Si ricorre a quest'ultimo
(separazione e/o divorzio consensuale) solo per le omologhe di Legge degli
accordi raggiunti. Tale tipologia di mediazione - che affianca gli aspetti emotivi a
quelli più strettamente legali - è spesso definita anche mediazione globale.
Si tratta di una disciplina trasversale che utilizza conoscenze proprie alla
sociologia, alla psicologia e alla giurisprudenza finalizzate all'utilizzo di tecniche
specifiche quali quelle di mediazione e di negoziazione del conflitto in quanto
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separazione e divorzio non sono semplici eventi familiari ma transizioni, processi
di crisi e trasformazioni spesso traumatiche che coinvolgono almeno tre
generazioni: la coppia, i figli e le famiglie di origine. Il loro considerevole
aumento negli ultimi dieci anni ci porta a compiere una seria riflessione sul
destino dei legami familiari, sempre più fragili, frammentati, conflittuali.
La mediazione familiare può essere una risorsa per salvaguardare i legami
familiari, un percorso che la coppia intraprende per passare al di là del trauma
della separazione e giungere a nuove modalità di funzionamento familiare, nuove
soluzioni, dopo aver negoziato tutti gli aspetti che riguardano la relazione affettiva
ed educativa con i figli e le questioni economiche e/o patrimoniali.
Tale percorso può essere indetto dal Tribunale dei Minori nel caso di coppie
di fatto o dal Tribunale Ordinario nel caso di quelle sposate, ma può essere scelto
liberamente dalla coppia che senta necessità di un aiuto imparziale, nel trovare
accordi sulla gestione pratica, educativa ed economica del minore, o qualora non
volessero affrontare una battaglia legale che specialmente a Roma rischia di
rivelarsi lunga ed ulteriormente spiacevole. Può inoltre avvenire su richiesta di
uno dei genitori che abbia difficoltà a comunicare pacificamente con l'ex
compagno riguardo alle questioni del figlio o dei figli.
Secondo la definizione del termine “mediatore” e la descrizione del servizio
offerto sia da associazioni private e studi legali specializzati in materia familiare,
sia dai servizi pubblici di assistenza sociale, tale aiuto dovrebbe essere
ovviamente neutrale ed imparziale e mirare esclusivamente agli interessi del
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minore. Come già detto il mediatore ha il ruolo di facilitare la comunicazione, in
questo caso, secondo la tesi di Elisabetta Pizzo, “aiutando la coppia a indirizzare
le loro energie, emozioni e attenzioni dal conflitto coniugale vissuto come
pericoloso e distruttivo con la conseguente delegittimazione dell’altro nel suo
ruolo genitoriale (e in altri numerosi casi ad allontanare o escludere un genitore
dalla vita dei figli) ad un conflitto come esperienza relazionale da cui uscire non
indeboliti ma rafforzati”. Tuttavia una serie di colloqui con l'Avv. Pellegrino del
Centro Studi Giuridici sulla Persona, e con la Dott.ssa Paolantoni dei Servizi
Sociali del Comune di Roma, hanno permesso di ricostruire il come e perché
spesso tale imparzialità venga meno.
Innanzitutto, spiega l'Avv. Pellegrino la legge 08.02.2006 n° 54 in materia di
affidamento condiviso dei figli in caso di separazione dei genitori, seguita da
molte altre, capovolge il sistema in materia di affidamento in base al quale i figli
sono affidati all'uno o all'altro dei genitori. In caso di separazione dei genitori
quindi i figli saranno affidati come regola ad entrambi i genitori e, soltanto come
eccezione, ad uno di essi quando in tal senso spinga l'interesse del minore, nel
caso l'affidamento condiviso determini una situazione di pregiudizio per il minore
stesso. Le nuove norme attuano quindi il principio della bigenitorialità; principio
affermatosi da tempo negli ordinamenti europei e presente altresì nella
Convenzione sui diritti del fanciullo sottoscritta a New York il 20 novembre 1989,
e resa esecutiva in Italia con la legge n. 176 del 1991, e sono il risultato inoltre
delle sempre più forti pressioni di numerose associazioni insorte in Europa e negli
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Stati Uniti dagli anni 80 in poi per i diritti dei padri separati.
Questi provvedimenti legali e l'attività di advocacy a favore dei padri separati
da parte delle associazioni a loro dedicate hanno fatto sufficiente eco da alterare in
parte la mentalità degli italiani in materia di maternità, paternità e affido, attirando
l'attenzione dell'opinione pubblica trattandosi di un tema dal forte carico emotivo,
e permeando la formazione ricevuta dai professionisti che operano nel campo.
Questo da una parte è un traguardo per la società in quanto si avvicina
all'uguaglianza tra uomini e donne, non dovendo più essere esclusivamente le
donne ad occuparsi dei figli, ma dall'altra forse dà voce ad una minoranza di padri
che effettivamente si sono visti negare i rapporti con i figli e che tendono a far
apparire agli occhi dell'opinione pubblica tutta la categoria dei padri come vittime
e quella delle madri come “malevoli” per usare uno dei tanti termini usati nelle
interviste con le associazioni che li rappresentano.
Viene da chiedersi che cosa porta un mediatore a perdere di vista il suo
principio di imparzialità oltre alle pressioni mediatiche da parte delle associazioni
e la formazione ricevuta dal mediatore in base alle nuove normative?
Forse la risposta può trovarsi, almeno in parte, nella risposta ad un'altra
domanda posta alla Dott.ssa Paolantoni, ossia:
Perché si diventa mediatori?
Sicuramente in parte per dedizione ai propri valori e alle proprie capacità. Ma
forse anche per la soddisfazione di aiutare il prossimo in quelle difficoltà che si è
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già affrontati personalmente. Probabilmente il mediatore che abbia imparato a
gestire le difficoltà legate alla migrazione sarà più motivato a lavorare nello stesso
campo sentendo di poter aiutare altri suoi simili, ed allo stesso modo il mediatore
familiare che abbia sofferto le difficoltà del conflitto familiare vorrà dedicarsi a
quel ramo piuttosto che un altro.
Non è difficile quindi immaginare come un mediatore familiare abbia potuto
scegliere tale ruolo a tutela del minore in contesto di separazione dei genitori
proprio perché magari ha vissuto una situazione analoga egli stesso, nei panni del
minore figlio di separati. I traumi familiari sono quelli che ci segnano alla radice e
sono senza dubbio i più profondi e difficili da estirpare. E' altrettanto facile quindi
immaginare come possa essere complesso per un mediatore discernere la sua
personale esperienza da quella che è tenuto a gestire invece con distacco e
neutralità. Se tutti siamo condizionati dal nostro vissuto, forse il mediatore più di
chiunque altro deve chiedersi quanto lo influenzi il suo..
Ma se le leggi e convenzioni a favore della bigenitorialità, e gli studi sul
conflitto familiare accusano le madri di troppo spesso perdere di vista l'immagine
d'insieme e il dolore del minore perché accecate dal proprio, il mediatore invece
non dovrebbe mai perdere di vista nulla.
Inoltre se per lavorare nel campo della mediazione familiare indetta dal
giudice ordinario o minorile bisogna essere assistenti sociali, e per essere
assistenti sociali in Italia bisogna essere italiani, immaginiamo quanto la
situazione possa inasprirsi quando uno dei genitori sia straniero.
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3) Mediazione interculturale e linguistica
Fin qui abbiamo visto come la mediazione sia sempre stata necessaria fin
dall'inizio della civiltà umana nella risoluzione di liti e conflitti, tra individui,
famiglie, clan, gruppi etnici, religiosi o Stati. Ma millenni di civiltà, specie in
territori come appunto quello della penisola italica dove sono confluite tante etnie
e culture, ci hanno anche insegnato ad applicare la mediazione, creando ponti di
comunicazione, per prevenire possibili liti e conflitti.
In particolar modo di fronte agli attuali flussi migratori sempre più ampi e
numerosi, che fanno incontrare culture sempre più lontane l'una dall'altra, grazie
alla facilità con cui oggi si può prendere un aereo e decidere di partire per esempio
dalla Cina per l'Europa, viaggio che un tempo richiedeva settimane. Uso qui il
temine ”facilità” senza nessuna intenzione di sminuire gli enormi, dolorosi e
rischiosi sacrifici che fanno le famiglie che si trovano a migrare, specie quelle che
fuggono da guerre o disagi politici e sociali nella propria patria, dico “facilità” per
contrasto alle difficoltà di una simile scelta quando i viaggi oltreoceano si
facevano per mare, o anche solo riferendomi a tempi ancora recenti quando non si
poteva accedere a informazioni o tanto meno a biglietti di viaggio tramite
internet. Si pone con forza il problema della comunicazione tra autoctoni e
immigrati. Attualmente gli studi sulla comunicazione interculturale, cioè fra due o
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più culture diverse, riguardano un ambito molto vasto e non corrisponde ad
un’area disciplinare precisa. Non è semplice quindi analizzare il concetto di
mediazione interculturale e tracciare un elenco dettagliato delle funzioni che esso
è chiamato a svolgere e le competenze di cui deve essere munito. Si tratta di
funzioni molto diversificate, che richiedono un’ampia preparazione capace di
spaziare dalle ineludibili conoscenze linguistiche, alla pedagogia, alla conoscenza
delle tecniche di mediazione linguistica e culturale, ai temi della migrazione,
all'informazione su vicende politico sociali riguardanti i paesi di origine dei
migranti, alla capacità di mantenere un'apertura mentale e un distacco costruttivo,
alla familiarità con il funzionamento dei servizi pubblici e privati, italiani e
stranieri, alla gestione dei conflitti di ordine interculturale.
Data la crescente affluenza nelle scuole italiane di bambini stranieri
nuovamente arrivati in Italia la mediazione linguistico-culturale, o interculturale, è
sempre più utile in ambito scolastico. Le funzioni di un mediatore all’interno della
scuola consistono principalmente nel dare sostegno linguistico, sia al bambino
immigrato che abbia difficoltà ad esprimersi o apprendere in italiano, sia agli
insegnanti e al resto della classe. A questo riguardo è stato elaborato dalla
Commissione Nazionale sull'Educazione Interculturale un documento che
presenta i tratti fondamentali richiesti dall’educazione interculturale. Viene posto
l'accento sull'importanza che i bambini vengano educati all’interculturalità tramite
specifici percorsi didattici che gli permettano di sviluppare «appropriate
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conoscenze, atteggiamenti, valori e coerenti abilità»3. L’educazione interculturale
per essere portata avanti, necessita di progettazione e sperimentazione, inoltre,
poiché inter significa scambio, l’educazione interculturale si realizza pienamente
se non solo chi educa si apre verso il proprio destinatario ma avviene anche
l’opposto, cioè il soggetto destinatario viene stimolato ad aprirsi a sua volta verso
chi gli trasmette il sapere. L’educazione interculturale è destinata a diventare uno
degli aspetti più importanti del processo di formazione scolastica. Uno degli
strumenti più utili per favorire la comunicazione fra culture diverse, utilizzato
anche in ambito educativo per favorire l’educazione all’intercultura, è la
mediazione linguistico-culturale. Secondo Piero Bertolini la funzione di
mediazione che compete all’educatore riguarda sia l’ambito sociale sia quello
cognitivo. L’educatore fa da tramite fra l’alunno straniero e la società nella quale
egli vive, fa in modo che egli possa stabilire nuove relazioni e acquisti la capacità
di affrontare i conflitti. La mediazione è una delle dimensioni più importanti della
pedagogia interculturale, perché è sempre fondata su un passaggio di informazioni
rielaborate dalla mentalità, dai mezzi e dai comportamenti degli educatori.
Secondo Duccio Demetrio ogni insegnante è mediatore, perché mediare «è una
funzione che pervade tutta la professionalità pedagogica di chi opera nella scuola,
indipendentemente dai bambini che ha di fronte e dalle cose che deve
insegnare»4 .
Patrick Johnson ed Elisabetta de Nigris hanno reso noti tre livelli di
3 Commissione Nazionale sull’Educazione Interculturale (2002)4 Duccio Demetrio citato in Fiorucci (2003), 96
24
mediazione culturale:
• Il primo di essi è quello PRATICO-ORIENTATIVO. Consiste nel tradurre
informazioni e rendere il servizio più accessibile. Riguarda sia il gruppo di
appartenenza del mediatore, sia gli operatori del servizio per i quali egli lavora.
• Il secondo livello è di tipo LINGUISTICO-COMUNICATIVO. Il mediatore
svolge un ruolo di gestore dei fraintendimenti, malintesi e blocchi comunicativi,
mediante la traduzione e l'interpretariato. Si rivela importante chiarire non
soltanto le espressioni verbali ma anche quelle non verbali, il non detto,
l’implicito.
• Il livello PSICO-SOCIALE, terzo ed ultimo piano della mediazione,
riguarda la possibilità per il mediatore di partecipare al cambiamento sociale
tramite la riorganizzazione del servizio. In questo modo, si instaura una
propensione al riconoscimento delle minoranze, alla visibilità delle differenze e
degli apporti culturali diversi.
Inoltre bisogna esplicare la mediazione seguendo due metodologie distinte,
quella dell'Advocacy (traducibile con “rappresentanza”) da una parte e quella
dell'Empowerment (traducibile con “emancipazione”). Nel contesto della
mediazione interculturale per gli immigrati l'attività di “advocacy” si configura in
qualità di difesa dei diritti di un utente straniero che subisce un disagio
istituzionale e ha difficoltà nel far riconoscere agli altri i propri bisogni. Il
mediatore in questo caso prende le parti dell’utente e quindi lo rappresenta, seppur
sempre con la dovuta neutralità dato che si tratta di aprire un ponte di
25
comunicazione tra istituzioni e immigrati, non dichiarargli battaglia a nome di
questi ultimi. La mediazione come “empowerment”, invece, si esplica in una
funzione di aiuto all’utente straniero che non sa ancora sfruttare al meglio le
informazioni e le strategie per risolvere i propri problemi, quindi consiste in una
formazione che gli permetta di raggiungere l’autonomia che gli è necessaria a
sentirsi inserito e parte funzionante della società.
4) Mediazione delle ONG
I concetti di Advocacy e di Empowerment sono particolarmente rilevanti se
vogliamo considerare la mediazione che operano le Organizzazioni Non
Governamentali in rappresentanza di specifiche comunità o categorie nel contesto
sia nazionale che internazionale.
Le ONG (e OING) costituiscono la parte più strutturata dei movimenti
collettivi (nazionali - ONG - o transnazionali - OING). Iniziano ad assumere un
ruolo molto importante in progetti di sviluppo mainstream o alternativi a partire
dagli anni Ottanta.
Esse inoltrano, interpretano, e convogliano le instante politiche ed
economiche dei movimenti sociali locali.
Fare advocacy per le ONG consiste sostanzialmente nell’azione di
rappresentare un gruppo e tutelare i suoi diritti nei confronti dei poteri costituiti,
ma anche informare il resto del mondo riguardo all'esistenza di tale gruppo con
26
tali specifiche problematiche, per suscitare solidarietà, raccogliere fondi e
procurare soluzioni. Mentre fare empowerment significa innanzitutto educare tale
gruppo riguardo alla propria condizione e derivanti esigenze, quindi ai diritti che
gli spettano, dandogli così gli strumenti per gestire al meglio la propria vita e
condizione. Inoltre raccogliendo sotto la propria organizzazione soggetti
appartenenti ad una minoranza in qualche modo disagiata in numero più alto
possibile e mettendoli in contatto tra loro, radunandoli in eventi, gli ricordano
innanzitutto di non essere soli con la propria condizione, facendoli sentire più forti
per contrasto al senso di smarrimento e impotenza che molti si trovano ad
affrontare individualmente.
Queste organizzazioni rappresentano specifiche comunità a livello mondiale,
passando per associazioni nazionali che gli si rivolgono. Attraverso questo tipo di
mediazione si mira al miglioramento della legislazione internazionale,
all’adeguamento di quella nazionale, all’inserimento nell’agenda politica dei temi
legati allo sviluppo dei paesi più sofferenti della suddetta condizione, alla raccolta
di fondi per trovare soluzioni immediate, nonché per finanziare la ricerca
scientifica necessaria per trovare soluzioni a lungo termine.
La strategia delle ONG si basa sul fatto che quando una questione diventa di
rilevanza mondiale e ha quindi l'attenzione dell'opinione pubblica mondiale i
poteri politici e i decisionisti sono maggiormente interessati ad offrire la loro
partecipazione quantomeno al dibattito. Diventa inevitabile quindi far riferimento
ad almeno qualcuna delle tante ONG fondate dalla Chiesa Cattolica, egemonia più
27
ricca, diffusa e duratura della storia dell'umanità con alle spalle duemila anni di
potere.
S. Marelli, Segretario Generale della FOCSIV (Federazione Organismi
Cristiani Servizio Internazionale Volontario - Volontari nel Mondo) dichiara: «La
maggior parte delle ingiustizie sono frutto di un sistema economico-politico che
non funziona; senza cambiare la nostra mentalità, il nostro modello di sviluppo e
quindi le politiche dei nostri governi – dichiara – la nostra azione resterebbe
incompleta ed inefficace».
Per riuscire ad influenzare i decisori politici, le ONG hanno dovuto
“imparare” a fare pressione sulle istituzioni, a fare lobbying, o, come si preferisce
nominarla nel settore per allontanarsi dalle sfumature negative del termine,
“advocacy”, termine che vuole sottolineare la trasparenza, l’aspetto educativo e
formativo dell'attività svolta dalle ONG.
Si può dedurre quindi che gli strumenti principali per fare Advocacy ed
Empowerment ossia per mediare tra comunità disagiate e autorità, tra deboli e
potenti, rappresentando e rafforzando i primi attraverso l'informazione e
l'educazione per far valere i loro diritti e avvalendosi della solidarietà del resto del
mondo per fare pressione sui decisionisti sono:
• i media, quali giornali, riviste, cartelloni stradali, televisione, grande
schermo;
• i cosiddetti PSA (Public Service Announcement), spot informativi il cui
scopo è di avere sufficiente impatto da attirare l'attenzione anche di chi
28
non ha nulla a che vedere con la causa in questione;
• social media quali Facebook, Twitter, Youtube e altri che permettono di
diffondere informazioni e campagne gratuitamente e coinvolgere un
pubblico in modo più interattivo;
• blogger che scrivono in rete dando visibilità all' organizzazione ed alla
causa;
• campagne di solidarietà basate su attività motivazionali che mirano a
coinvolgere più persone possibili;
• materiale promozionale da distribuire;
• slogan e logo ben studiati;
«Per avere successo dobbiamo lavorare in rete», dichiara Sarmila Shrestha,
segretaria esecutiva di Watch (Women acting together for change), organismo
partner dell’ONG Aifo in Nepal. La sua esperienza risulta emblematica per
cogliere la complessità dell’attività di lobbying: Watch lavora principalmente a
Kathmandu.
La rete in particolare quindi permette a queste organizzazioni di promuovere
i propri progetti e diffondere le proprie campagne in modo economico e
maggiormente interattivo sui social media dove ognuno può contribuire con la
propria opinione o esperienza. Tuttavia per raggiungere un pubblico maggiore e
con un maggior impatto è spesso necessario ricorrere a spot pubblicitari da
diffondere tramite i media tradizionali. Ma per assicurare una comunicazione
mediatica efficace è fondamentale la scelta delle immagini e ancor di più delle
29
parole più suscettibili di far sentire tutti inclusi e nessuno offeso, attirando
l'attenzione ed invogliando il pubblico a saperne di più e prendere le parti della
causa, magari dando un contributo, anche se la questione non gli riguarda
direttamente.
La vicenda della campagna mediatica svolta dall'IDF (International Diabetes
Federation – presso la quale ho svolto un tirocinio di circa 500 ore nell'estate del
2013) con un video animato di 58 secondi, volto a sensibilizzare il pubblico
generale per arrivare ai decisionisti che con il diabete non hanno nulla a che
vedere, è emblematica di come non sia facile colpire gli indifferenti, senza
offendere gli afflitti. Il dipartimento per le comunicazioni della IDF è stato
costretto dal proprio consiglio di amministrazione a cambiare l'unica frase del
video da “diabetes kills but it doesn't have to” a “diabetes kills, learn to stay
healthy”. In questo modo non era chiaro che il messaggio fosse rivolto al pubblico
generale e non alla comunità dei malati di diabete, la quale specialmente negli
Stati Uniti e nei paesi latinoamericani si arrabbiò molto sentendosi offesa. La
campagna è risultata in perdita non solo di fondi ma sopratutto di consensi. Un
mese dopo la sua diffusione virale tramite Youtube e altre piattaforme preposte
alla condivisione di video, IDF ha ritirato lo spot dal suo sito internet e da tutti i
network scusandosi con la comunità dei diabetici nel mondo. Questo tipo di
disavventura è capitata a molte altre ONG in quanto specialmente se si
rappresenta una comunità internazionale così variegata la mediazione tra le
diverse mentalità ed esigenze diventa molto delicata.
30
Ogni ONG ha nella sua sede centrale un dipartimento apposito che si dedica
esclusivamente all'attività di comunicazione e advocacy, mediando tra comunità
rappresentata e autorità politiche, oltre che tra comunità rappresentata e pubblico
generale, nonché con i partner, potenti aziende multinazionali non sempre in linea
con l'etica auspicabile dall'ONG stessa ma che sponsorizzano l'organizzazione in
cambio di visibilità positiva, donde la necessità di mediare anche tra ideali e
interessi, i mezzi ed i fini che giustificano i mezzi.
Avendo elaborato fin qui come la mediazione sia strettamente legata alla
comunicazione approfondiamo ora i modi in cui essa si manifesta.
31
Capitolo Secondo – Parole e non solo
Se non esiste mediazione senza comunicazione, in quanto essa è allo stesso
tempo lo scopo ed il mezzo della mediazione, appare inevitabile chiedersi cosa sia
esattamente la comunicazione, come avvenga e cosa implichi.
Comunicare, dal latino cum – con, e munire – legare, costruire e dal latino
communico – mettere in comune, far partecipe, nella sua prima definizione è
l'insieme dei fenomeni che comportano la distribuzione di informazioni. La
comunicazione prevede il fatto stesso del "condividere", azione che prevede
l'esistenza di alcuni elementi fondamentali: il sistema che trasmette, ossia
l'emittente; un canale comunicativo necessario per trasferire l'informazione; il
contenuto della comunicazione ossia l'informazione; un codice formale mediante
il quale viene data una forma linguistica all'informazione. Infine perché il
processo possa perfezionarsi è necessario un quinto elemento: il ricevente, cioè il
sistema che assume l'informazione.
Emettere informazioni è un'attività propria di tutti gli essere viventi,
dall'uomo ai microbi passando per le piante. Ma se la parola è una caratteristica
tipicamente umana mentre la comunicazione è un fenomeno di tutte le specie
viventi, abbiamo già sufficienti motivi di concludere che esistono altre forme di
comunicazione.
La comunicazione avviene come abbiamo detto attraverso un canale, in
questo caso il nostro corpo fisico. Esso è composto di forma, materia, movimento,
32
odore, colore, suoni e se vogliamo anche sapori; ed è per mezzo di tutte queste
cose insieme che noi comunichiamo e facciamo conoscere il nostro essere.
L'indiscutibile predominanza del sistema verbale nella comunicazione umana ha
permeato gli interessi di ricerca fino a pochi anni fa ed ha portato molti autori a
trascurare la possibilità di altri sistemi comunicativi. Se, invece osserviamo
attentamente le persone mentre parlano, possiamo renderci immediatamente conto
che oltre allo svolgersi del discorso verbale vi è tutto un altro universo
comunicativo che avviene in molti casi nell’inconsapevolezza degli interlocutori,
ma che per molti versi addirittura dirige l’espressione verbale dei contenuti. La
cosiddetta comunicazione non verbale. Infatti secondo alcune ricerche si stima che
il comportamento non verbale convogli addirittura il 65% del significato sociale di
una interazione (Harrison, 1972 cit. in Zamuner, 1998). Il comportamento non
verbale spesso tende ad avere un peso maggiore quale indice degli atteggiamenti
del nostro interlocutore, o delle sue intenzioni e pensieri. Le sensazioni di fiducia
o rispetto o attrazione, solo per fare qualche esempio della gamma di sensazioni
che si possono provare nei confronti di una persona, sono fortemente determinati
dal comportamento non verbale dell'individuo e “in caso di dubbi circa la qualità
dell’interazione, tendiamo quindi a dare più peso al sorriso o alla sua assenza, alla
postura e ad altri ‘messaggi’ non verbali piuttosto che alla parola
dell’interlocutore, o perlomeno a tenere conto di ambedue questi sistemi di
comunicazione” (Zamuner, 1998, p.178).
Lo studio scientifico della comunicazione non verbale risale al periodo
33
immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale; la prima metà del
secolo è stata infatti caratterizzata da isolati studi sulla voce, l’abbigliamento e il
volto. Con gli anni ’50 si è invece avuto un significativo incremento del numero di
ricerche sulla comunicazione non verbale, ma è a partire dagli anni ’60 che si è
manifestata una vera e propria esplosione dell’attenzione da parte dei ricercatori
psicosociali.
Negli ultimi decenni, dunque, in seguito a svariati studi, è maturata la
convinzione che la comunicazione umana risulti dalla interdipendenza di diversi
sistemi comunicativi, ossia dall'interazione da una parte di codici formali
attraverso i quali possiamo dare una forma linguistica al messaggio, attraverso
l'uso di lingue verbali o segniche, e dall'altra codici non linguistici, tutti facenti
parte di ciò che chiamiamo linguaggio, ossia la facoltà complessiva di
comunicare. Nel contesto della mediazione, trattandosi di condurre e tradurre un
messaggio dall'emittente al ricevente occorre essere ben consapevoli dei concetti
impliciti del linguaggio e delle lingue.
1) Lingue e linguaggi.
Secondo un'associazione texana di Houston che si occupa di formare
missionari cristiani da mandare in ogni angolo del mondo, Ethnologue, sono 6,959
le lingue parlate al mondo di cui 830, ossia più del 10%, all'interno di un solo
paese se nominiamo l'esempio della Nuova Guinea, ci sono poi gli esempi
34
dell'Indonesia con 719 lingue, il Sudafrica con 514, l'India con 438. Solo in Italia
secondo Ethnologue se ne parlano 36 tenendo conto di tutti i flussi migratori che
giungono in Italia. Ma il dato più interessante, come riporta Annamaria Testa
(Internazionale – dicembre 2013), è quello della tabella sul multilinguismo
pubblicata dall’Economist, il Greenberg diversity index, che misura, paese per
paese, la probabilità che due abitanti condividano una stessa lingua su una scala
da 0 (nessuna diversità, tutti parlano la stessa lingua) a 1 (massima diversità).
35
Nel grafico le righe più lunghe indicano la differenza maggiore tra le varie
lingue e quindi la probabilità minore che gli abitanti condividano lo stesso
linguaggio. Ma forse occorre una definizione precisa di cosa sia una lingua e cosa
sia un linguaggio.
Il linguaggio è la capacità dell'Uomo di comunicare per mezzo di un codice
36
complesso, cioè una lingua. Una lingua a sua volta, detta anche idioma (dal latino
idioma, dal greco ιδίωμα, "carattere", "proprietà", "particolarità"), è un sistema di
comunicazione vocale o segnico proprio di una comunità umana. Indica quindi il
modo concreto e storicamente determinato in cui si manifesta la capacità del
linguaggio umano dal quale si distingue in senso proprio. Spesso con “linguaggio”
ci si riferisce in generale a un sistema di comunicazione, per esempio con
espressioni come appunto “linguaggio verbale” e “linguaggio non verbale”,
“linguaggio animale”, “linguaggio del corpo”, “linguaggio dei computer”,
“linguaggio dei fiori”5. .
Noam Chomsky afferma che le analogie strutturali che si riscontrano nelle
varie lingue, suggeriscono che ci sia una grammatica universale innata fatta di
regole che permettono di collegare il numero limitato di fonemi che gli organi
vocali della specie umana sono in grado di produrre. La scuola linguistica
strutturalista mette in evidenza le strutture grammaticali sintattiche che sono gli
elementi del linguaggio che presentano maggiore stabilità nel tempo e uniformità
nello spazio. La loro teoria prevede che tali elementi siano “universali” al
contrario degli elementi lessicali e semantici che sono invece frutto
dell’arbitrarietà delle comunità e delle persone.
Nell'ambito della mediazione, il concetto di abilità comunicativa che ha
origine dal concetto chomskyano di abilità linguistica, ovvero un «sistema
implicito di regole grammaticali e sintattiche mediante il quale il parlante-
ascoltatore procede all’attività di codifica e decodifica delle frasi formulate
5 Graffi e Scalise (Il Mulino 2002), Le Lingue e il Linguaggio
37
all’interno di una precisa lingua»6 si inserisce in un discorso più ampio. Si ritiene
che la comunicazione presupponga «capacità e conoscenze non solo di ordine
tecnico-linguistico bensì anche sociali»7.
Infatti ogni barriera sociale è una barriera linguistica in quanto esistono tante
variazioni di linguaggio anche all'interno di una lingua stessa. Vi sono differenze
significative nei modi di esprimersi non solo degli appartenenti alle diverse
culture ma anche alle diverse classi sociali.
La sola pronuncia può imprimere alla lingua una marcatura di classe, ma
anche il lessico usato è un indicatore altrettanto evidente. Non solo certe parole
ricorrono con più frequenza in una classe che in un'altra, ma la ricchezza
semantica aumenta molto nettamente salendo la scala sociale. Un'altra variante
della diversità linguistica risiede nel genere, infatti uomini e donne posseggono
spesso un lessico differente. Ancora, un'altra differenziazione storica è quella del
linguaggio urbano e quello rurale. Molto sviluppato in epoca moderna è il
linguaggio specialistico. I linguaggi tecnici sono il prodotto della crescente
specializzazione del sapere e delle conoscenze. L’acquisizione di un sapere
specialistico comporta inevitabilmente l’acquisizione di un linguaggio
specialistico che richiede un periodo di addestramento e che serve alla
comunicazione all’interno della cerchia ristretta degli esperti. Infine, un altro
linguaggio che poi è anche fonte di variazione della lingua stessa è il linguaggio
ideologico, quello che intenzionalmente modifica il senso delle parole rendendolo
6 Infantino (1996) citato in Fiorucci (2003), 867 Infantino (1996) citato in Fiorucci (2003), 87
38
eventualmente più accettabile e nasconde quello spiacevole.
Tenendo conto di queste variazioni linguistiche legate a caratteristiche
sociali, l’interesse si sposta dall’aspetto sintattico e grammaticale a quello
semantico del linguaggio e al rapporto tra linguaggio e società, così, la
competenza linguistica non è più il centro della competenza comunicativa ma solo
uno dei suoi aspetti.
Comunicare, infatti, implica varie competenze che oltre a quelle strettamente
linguistiche sono:
«paralinguistiche (variazioni prosodiche dell’espressione: tono di voce,
enfasi, ecc.);
cinesiche (mimica, gestualità, movimenti del corpo, ecc.);
prossemiche (distanza tra le persone, contatti, ecc.);
performative (compiere azioni mediante la comunicazione);
pragmatiche (comportamenti adeguati alle situazioni, coerenti e congruenti
le finalità);
socio-culturali (capacità di individuare le diverse situazioni sociali e i
diversi significati che le permeano, per interagire in modo pertinente)»8.
«Comunicare positivamente significa essere in grado di stabilire relazioni
sullo sfondo di un contesto socio-culturale, collocandosi nell’ambito della cornice
valoriale, strutturale, spazio-temporale che esso offre»9. Sulla base di tali
8 Infantino, (1996) citato in Fiorucci, (2003) 879 Infantino, (1996) citato in Fiorucci, (2003) 88
39
premesse, si può parlare di comunicazione interculturale come di uno scambio
comunicativo nel quale autoctono e straniero utilizzano le proprie competenze
comunicative per interagire l’uno con l’altro e mettere in relazione differenti
sfondi culturali.
Sirna Terranova spiega che per comunicare interculturalmente è necessario
utilizzare tutti i linguaggi di cui si è a conoscenza in modo da essere certi di farsi
capire e afferma: «Soltanto l’umiltà di chi non si sente al centro, di chi - come
dice la Steiner Khamsi - “attraversa le frontiere”, fisicamente o anche solo
metaforicamente, mette il soggetto in grado di comunicare e di comprendere la
cultura diversa. Per comprendere, infatti, occorre essere consapevoli della
relatività della propria cultura e sapersi mettere in ascolto dell’altro, senza
pregiudizi e senza presunzione, avvertiti della complessità e degli equivoci cui
espone la diversità culturale e dell’opacità inevitabile della comunicazione»10.
Durante lo scambio comunicativo, autoctono e straniero si avvalgono di
competenze comunicative diverse fra loro a volte efficaci solo nei contesti di
appartenenza.
La cultura infatti è in stretto rapporto con il concetto di identità e
appartenenza. Quest’ultima «è la cultura analizzata tenendo conto del soggetto o
dei soggetti rispetto ai quali si interagisce; ogni individuo vive
contemporaneamente più identità culturali: quanto più tali identità sono ritenute
compatibili a livello della propria cultura di riferimento, tanto meno si innescano
10 Sirna Terranova, (1997) citato in Fiorucci, (2003) 89
40
processi di crisi»11 (Commissione Nazionale sull’Educazione Interculturale,
2002). Il fatto che il concetto di identità tenga conto dei diversi soggetti con i
quali si interagisce implica il prendere in considerazione l’altro e quindi uno
stretto rapporto con esso. Ognuno di noi è contemporaneamente io a se stesso e
altro ad un altro, c’è quindi una stretta connessione tra identità e alterità.
Di tale identità e alterità culturale si deve tenere conto altrettanto nelle
traduzioni letterarie dove le difficoltà della mediazione linguistico-culturale hanno
forse la loro massima manifestazione. Dove il testo è l'espressione di quello che la
scuola romantica sviluppatasi in Germania a metà dell'Ottocento definiva lo
spirito (Volkgeist) di un popolo a cui appartiene l'autore, e di cui l’elemento
fondante della comunità è racchiuso proprio nel linguaggio.
Per approfondire il discorso della difficoltà nella trasposizione linguistica
sarebbe utile ricostruire tutta l'evoluzione delle diverse famiglie di lingue ma ciò
non è possibile in questa tesi. Il grafico di K. Tyshchenko (Metatheory of
Linguistics, 1999) offre una panoramica di quelle che sono tutte le lingue
utilizzate in Europa raggruppandole per similitudine.
11 Commissione Nazionale sull’Educazione Interculturale (Roma 2002)
41
Quale delle identità soggettive e culturali tenere maggiormente in conto
quando si traduce un opera letteraria dalla lingua in cui è stata scritta a un'altra,
specie se per di più si tratta di lingue di famiglie diverse. Dalla regola
geolinguistica per cui più aumenta la distanza chilometrica più cala la similarità
linguistica, si deduce che più si allontana la nostra provenienza geografica
dall'area di provenienza del testo più tendenzialmente aumenta la nostra difficoltà
di realmente comprendere e quindi tradurre il testo stesso. Per ovvi motivi i vissuti
storico-politico-sociali, religiosi e culturali dei popoli sono più intrecciati con
quelli dei paesi confinanti che non con quelli più distanti. Infatti il grafico su
riportato fa vedere come anche le lingue siano più simili le une alle altre quando
42
appartenenti a paesi confinanti. Perché se “studiare una lingua vuol dire anche
comprendere un pezzo di umanità, aprire un altro sipario”12, per aprire tale sipario
e comprendere un pezzo di umanità, comprenderne lo spirito, di certo non basta
studiarne la lingua. Se il linguaggio è il sistema di comunicazione degli uomini tra
loro, la lingua non può che racchiudere buona parte del loro bagaglio storico-
culturale. Come capire cosa racchiude la lingua di un popolo quindi senza
studiarne la storia, e senza aver condiviso un pezzettino di quest'ultima.
Tuttavia in tempi di globalizzazione in cui la migrazione, l'accesso
all'informazione e lo scambio commerciale e culturale, avvengono su scala
sempre più ampia, vale più che mai il modello teorico di Krefeld attento alla
pluridimensionalità in cui “la spazialità della lingua si intreccia con quella del
parlante, vale a dire con i tratti collegati alla sua provenienza e al suo grado di
mobilità, e con la spazialità del parlare, ovvero con i condizionamenti derivanti
dalla posizione reciproca dei locutori.”13 Si sta affievolendo quindi la nitidezza del
collegamento tra lingua e identità culturale di cui prima. Siamo tutti sempre più
cosmopoliti e vicini gli uni agli altri per quotidianità culturali, nel bene e nel male.
Tra i tanti compiti del mediatore c'è da chiedersi quindi se ci sia quello di
tradurre nel modo più comprensibile possibile al destinatario, rischiando di
smarrire parte di quello spirito caratteristico contenuto nell'originale al fine di
facilitare lo scambio di culture e idee in modo tale che esse possano un giorno
12 Paolo Maria Noseda (Mondadori 2013) La Voce degli Altri, 8
13 Enciclopedia dell'Italiano (Treccani 2010) Geografia Linguistica.
43
capirsi così bene da integrarsi le une con le altre e formare un unica entità
culturale umana, o piuttosto tradurre il più fedelmente possibile all'originale,
casomai avvalendosi di parentesi e note a piè di pagina esplicative, al fine di
permettere a tali culture di mantenere ciascuna la propria identità e le proprie
caratteristiche e sopratutto preservare il proprio ruolo di mediatore. La risposta dal
punto di vista di un mediatore sarebbe abbastanza a portata di mano: se tutti
diventiamo cosmopoliti e omogenei non ci saranno più culture da difendere né
bisogno di mediare.
Idealmente tuttavia sono state ipotizzate realtà in cui un'unica lingua che
racchiude in sé le caratteristiche di tante altre può bastare all'umanità. Ad esempio
l'interlingua creata appositamente dalla International Auxiliary Language
Association (IALA) attorno al 1951, ha un lessico dall'aspetto particolarmente
naturale, in quanto ottenuto dal confronto dei vocabolari di cinque diffuse lingue
viventi: le quattro principali lingue romanze (italiano, spagnolo, portoghese e
francese) e l'inglese. A queste lingue si aggiunge l'apporto del tedesco e del russo,
i cui lessici sono considerati nei casi in cui quelli delle cinque lingue principali
siano discordanti fra loro. Si ritiene che l'interlingua si possa apprendere
facilmente nel giro di quattro mesi. La sua particolarità è quella di essere
l'esempio più riuscito di lingua artificiale a posteriori, ovvero strutturata su un
lessico già internazionale e una grammatica comune ad altre lingue naturali,
risultando comprensibile a tutti coloro che parlano una lingua romanza o, in larga
misura, l'inglese. È una delle lingue ausiliarie artificiali più parlate al mondo,
44
dopo l'esperanto.
L'esperanto invece è una lingua pianificata sviluppata tra il 1872 e il 1887
dall'oftalmologo polacco di origini ebraiche Ludwik Lejzer Zamenhof, ed è di
gran lunga la più conosciuta e utilizzata tra le lingue ausiliarie internazionali
(LAI). Scopo di questa lingua è quello di far dialogare i diversi popoli cercando di
creare tra di essi comprensione e pace con una seconda lingua semplice ma
espressiva, appartenente all'umanità e non a un popolo. Un effetto di ciò sarebbe
in teoria quello di proteggere gli idiomi "minori", altrimenti condannati
all'estinzione dalla forza delle lingue delle nazioni più forti. Per questo motivo,
l'esperanto è stato ed è spesso protagonista di dibattiti riguardanti la cosiddetta
democrazia linguistica.
Le regole della grammatica dell'esperanto sono state scelte da quelle di varie
lingue studiate da Zamenhof, affinché fossero semplici da imparare ma nel
contempo potessero dare a questa lingua la stessa espressività di una lingua etnica.
Anche i vocaboli derivano da idiomi preesistenti, alcuni (specie quelli introdotti di
recente) da lingue non indoeuropee come il giapponese, ma in gran parte da latino,
lingue romanze (in particolare italiano e francese), lingue germaniche (tedesco e
inglese) e lingue slave (russo e polacco).
A partire dagli anni novanta nella CEE e attualmente nell'Unione Europea si
discute per l'uso dell'esperanto negli organi europei, per risparmiare ingenti
patrimoni in traduzione. Il problema dal punto di vista prettamente economico
verte sul fatto che con l'attuale sistema si spende il 40% di bilancio in traduzioni
45
per 23 lingue ufficiali, infatti un documento può essere redatto in una lingua
qualsiasi e poi deve essere tradotto in tutte; una lingua di lavoro consentirebbe a
ogni Paese di avere solo traduttori specializzati in quella lingua. D'altra parte,
l'Unione Europea «non ritiene necessaria l'introduzione di un'unica lingua franca
o un numero ridotto di lingue scelte arbitrariamente e incomprensibili alla
maggioranza dei cittadini dell'Unione» considerando giusto che ogni Paese
membro possa prendere conoscenza degli atti legislativi nella propria lingua
direttamente tradotti dagli organi europei, piuttosto che ottenerli nell'unica o nelle
poche lingue di lavoro e tradurli nella propria.
2) Il Potere delle Parole
La parola, facoltà tipicamente e unicamente umana, ha sempre avuto un ruolo
di rilievo nelle più svariate culture, non solo in quanto forma di comunicazione
primaria e più immediata, ma soprattutto come possesso per l’eternità,
determinante nel presente e preziosa nel futuro. Fin dalla sua nascita la parola è
stata lo strumento più efficace per persuadere, imporre, ricordare, trasmettere, e
educare.
“Per poter essere forte, diventa un artista della parola; perché la forza
dell’uomo è nella lingua, e la parola è più potente di ogni arma”. Questo è uno dei
fondamentali insegnamenti che il visir egizio Ptahhopte (intorno al 2300 a.C.)
concede nelle sue Massime, componimenti di genere sapienziale, destinati al
46
figlio.
La parola si è manifestata prima sotto forma parlata e poi scritta, ed entrambe
le forme si sono notevolmente evolute mutando nel tempo. Infatti molte fiabe e
racconti esistiti per secoli solo in forma orale sono lo stesso pervenute alle nostre
generazioni sotto forma scritta. Le raccolte scritte di fiabe e leggende di cui
disponiamo ora sono il risultato di secoli di evoluzione e sono un patrimonio
irrinunciabile di ogni popolo in quanto permettono così di conoscere la tradizione
narrativa orale qual'era in epoche lontane dalla nostra, quando ancora il folclore
non era stato scoperto come forma culturalmente autonoma.
C’è stato dunque un momento nella storia in cui l’interesse verso i racconti
tramandati oralmente ha generato due percorsi paralleli nella raccolta di
narrazioni, uno con un fine puramente letterario, l’altro con un fine antropologico.
In entrambi i casi scrittori hanno destinato parte del loro interesse nella raccolta e
nella stesura di quelle fiabe e quei racconti che fino a quel momento erano stati
patrimonio orale del popolo, dando vita alle prime raccolte, che in breve tempo
iniziarono a riscuotere un interesse sempre crescente in quanto ci offrono uno
scorcio di quello che poteva essere il modo di pensare e sentire dei nostri avi, i
loro timori ed i loro valori.
Ma trascrivere un testo orale non è semplice come può sembrare, il lavoro
che si presenta è piuttosto complesso e insidioso, la riduzione dell’evento
comunicativo a testo, porta con sé una perdita ed una distorsione di sensi e
significati irrecuperabile. Per non parlare della perdita o distorsione che comporta
47
la trasmissione orale di una storia da una persona all'altra con ciascuna la propria
soggettiva interpretazione e abilità comunicativa. Se applichiamo questa
considerazione ad un altro tipo di testo, di peso storico e di rilevanza culturale ben
più marcata di qualsiasi altra raccolta di racconti, ossia la Bibbia, ci rendiamo
conto di come essa possa aver generato così tante dispute. La Bibbia ha esercitato
un influsso incalcolabile sulla mentalità, sulla cultura e sull’arte di ogni tempo. Da
secoli ha prodotto una serie incalcolabile di testimonianze attestanti che milioni di
persone in tutto il mondo vi attingono come ragione e regola di vita. È stata
oggetto di storiche discussioni sul giusto modo di interpretarla durante le quali
sono state prese decisioni determinanti per la struttura della società. Ed è in
assoluto il libro più tradotto, più stampato e più venduto.
Giustino martire14, attorno all’anno 150, riferisce che a Roma si leggevano le
Memorie degli apostoli. Infatti nel II secolo circolavano vari testi, nei quali erano
raccontati i fatti della vita di Gesù e le sue parole, insieme con altri scritti
apocalittici attribuiti agli stessi apostoli. Il rapporto di tali scritti con le effettive
parole di Gesù comunque già allora ha la distanza della trascrizione, della
narrazione in chiave propria di ciascun apostolo, di un secolo e mezzo, e della
traduzione dall'ebraico e dal greco al latino. Tale distanza porta ad interpretazioni
sempre più discostanti l'una dall'altra, e molto probabilmente anche dal messaggio
di Gesù stesso.
I famosi concili di Costantino nel IV secolo si sono occupate di stabilire quali
14 Andrea Tornielli (Gribaudi 2005), Processo al Codice da Vinci, Capitolo IV citato in Opus Dei (16 aprile 2005) Quel birichino di Costantino , www.opusdei.it
48
delle tante dottrine sviluppatesi nei primi secoli sulla base degli scritti che
circolavano e delle interpretazioni che ne venivano date, fossero eretiche e quale
invece quella da diffondere. Si pensa infatti che fu in questa sede che furono
selezionati i testi da includere nel sacro libro, ossia i quattro vangeli, le lettere di
Paolo, gli atti degli apostoli e l'Apocalisse. Furono dunque deliberatamente esclusi
un gran numero di scritti, considerati “non ispirati da Dio”.
Tali concili ecumenici si sono ripetuti innumerevoli volte nella storia della
Chiesa per trattare di tutto ciò che secondo la loro interpretazione dei testi sacri
poteva essere eretico, dal riso se si pensa al “Nome della Rosa” di Umberto Eco,
al sesso, infatti nel IX secolo era punibile con la reclusione in carcere chi
praticava la masturbazione, alla divinità di Gesù, alle caratteristiche maschili e
femminili, alla condanna di ogni teoria e dottrina che si scostava da quella
stabilita.
È interessante ricordare che fino al II secolo in molte comunità cristiane,
quindi in epoca direttamente successiva alla vita di Gesù, specialmente nelle classi
inferiori le donne svolgevano le stesse attività degli uomini, e vi erano dottrine
gnostiche che decretavano la parità dei sessi anche nelle attività religiose. A
questo riguardo infatti si indignava Tertulliano, uno dei più celebri scrittori romani
cristiani dei suoi tempi: «Queste donne eretiche, come sono audaci! Non hanno
modestia, sono così sfrontate da insegnare, impegnarsi nella disputa, decretare
esorcismi, assumersi oneri e, forse, anche battezzare!»15. È solo nel terzo secolo
che l'esclusione delle donne dalle attività definite “maschili” è compiuta.
15 Tertulliano (II° secolo), De praescritione haereticorum.
49
Nei vangeli canonici selezionati Maria Maddalena è una prostituta che Gesù
salva dal linciaggio, mentre nei vangeli apocrifi è la consorte di Gesù, oltre che la
sua discepola preferita e invidiata dagli altri apostoli.
É impossibile approfondire tutte le evoluzioni della dottrina della Chiesa, e
tanto meno tutte le dottrine che essa ha condannato nello spazio di questa tesi ma
basti pensare all'Inquisizione che dal XIII secolo autorizzava l'uso della tortura e
l'esecuzione per combattere l'eresia e la “stregoneria”. O alle interpretazioni
antigiudaiche dei testi sacri secondo le quali gli ebrei sarebbero direttamente
responsabili della morte di Gesù e pertanto malvagi, e che hanno portato a misure
antigiudaiche fin dal VI secolo: ad esempio il concilio del 381 che riconosceva il
cristianesimo come unica religione ammessa e proibiva ogni altra fede, e quindi
anche quella ebraica; successivamente altre leggi prendevano misure esplicite
contro i giudei, come la legge di Teodosio II nel 438, o le cosiddette “bolle
infami” redatte dai Papi nel XVI secolo che imponevano misure molto rigide
contro gli ebrei di Roma, misure rimaste in vigore fino al Ottocento. O ai scismi
dovuti a diverse interpretazioni dell'Antico e del Nuovo Testamento, in particolare
la traduzione in tedesco, o riscrittura in tedesco, della Bibbia da parte di Lutero
evidenziò una serie di contraddizioni tra l'operato della Chiesa e la dottrina
cristiana originaria, proponendo un nuovo modo di vivere la religione e
rapportarsi a Dio, che portò a guerre civili sanguinarie particolarmente in
Germania e Francia dove segnarono anche un forte declino politico. Ma in tempi
anche molto recenti basta ripensare alle polemiche sulla legittimità da parte dei
50
cattolici di ricorrere all'uso del preservativo per proteggersi da malattie
sessualmente trasmissibili o all'uso di metodi contraccettivi, sui PACS che in Italia
non riescono ad entrare nel sistema legale per via delle intromissioni della Chiesa
contraria, mentre in molti paesi europei le cui popolazioni sono in maggioranza
cattolica tali contratti sono stati legalizzati, o ancora sull'aborto e sull'eutanasia.
Secondo dati del 2009 forniti dall'Alleanza Biblica Universale il testo sacro è
stato tradotto per intero o parzialmente in 2.508 lingue. Sempre nel 2009
l'Alleanza Biblica Universale ha coordinato la traduzione in circa 500 lingue.
Tuttora numerosi scrittori cercano di tradurre la Bibbia partendo dalle origini,
alla ricerca della lingua sacra e della traduzione ed interpretazione più fedele. Erri
de Luca a proposito dice «chi traduce storie sacre attizza teologia, aggiunge
combustibile al roveto ardente, rinnovando in propria fedeltà voci e verbi del
creatore»16
Le parole di un uomo vissuto duemila anni fa hanno quindi avuto il potere di
influenzare la storia dell'umanità, caratterizzando tutta la nostra era, determinando
modi di pensare, di creare, di organizzare delle comunità, ruoli sociali, correnti di
pensiero, poteri e ricchezze religiosi e politici, guerre e conflitti. “Come dice Erri
De Luca, le traduzioni della Bibbia hanno condotto all'introduzione di usi e
costumi che forse avrebbero potuto essere diversi e segnare in modo differente la
nostra storia se solo si fosse prestata maggiore cura nello scegliere verbi,
allocuzioni, e diverse descrizioni.”17
16 De Luca (Feltrinelli, Milano1995) Giona/Ionà, p. 7. 17 Paolo Maria Noseda (Mondadori 2013) La voce degli Altri, 8
51
Come già detto la parola ha il potere di ammaliare e sedurre, influenzare,
intrattenere, ferire, lenire, perfino curare se si pensa alla psicoanalisi. La parola in
quanto strumento di comunicazione ha il potere sopratutto di trasmettere. Sa agire
perfino a livello inconscio suscitando emozioni e desideri, se si pensa all'uso della
parola nell'arte pubblicitaria; suscita sentimenti di appartenenza e perfino di paura
se si pensa all'uso che ne viene fatto in politica. È stata l’arma più temibile
dell’ideologia totalitaria. Al giorno d’oggi nel discorso politico si manifestano le
caratteristiche e le potenzialità del linguaggio utilizzato da chi ambisce a
conquistare, gestire o conservare il potere. È attraverso il logos, l'accurata scelta
delle parole insieme al tono con cui le pronunciano che da sempre oratori al potere
riscuotono consensi anche nell'esporre tesi facilmente contrastabili.
Anche la pratica forense ottiene il massimo rendimento attraverso le abili
capacità dei singoli in grado di suggestionare ed influenzare i magistrati. In questi
casi l'abile uso della parola ha quindi il potere di alterare lo stato di libertà di una
persona.
“Un aggettivo cambia e agisce su una frase come un truccatore riesce a
cambiare la fisionomia di una persona, alterandone l'aspetto, e l'effetto che
produce.”18
A questo proposito un servizio sul canale youtube Passaparole di Beppe
Grillo intervista Erri de Luca che si pronuncia riguardo alla Perdita delle Parole:
“...più che perdita di senso della parola credo che nei nostri tempi ci sia una
perdita di responsabilità della parola e cioè la parola è diventata prevalentemente
18 Paolo Maria Noseda (Mondadori 2013), La Voce degli Altri, 7
52
pubblicitaria, cioè deve servire in quel momento esaltare il proprio argomento e il
proprio prodotto, ma poi non porta a nessuna responsabilità, se afferma il falso e
può essere smentita in ogni momento, anche successivamente, la parola pubblica
senza che chi la abbia pronunciata falsa ne subisca le conseguenze, cioè uno può
dire una qualunque affermazione senza bisogno di verificarla, di controllarla, anzi
sapendo anche che è imprecisa, usando e spacciando un vocabolario falso, senza
che se ne porti discredito alla sua carriera e autorità. C'è una perdita di
responsabilità della parola.”19
19 Passaparola (17 settembre 2012), Erri De Luca, La perdita delle parole, www.youtube.com
53
Capitolo Terzo – La Responsabilità
Il sostantivo responsabilità ha in termini generali un duplice significato: da
un lato, quello “negativo” di attitudine ad essere chiamati a rispondere all’autorità
per una condotta riprovevole, dall’altro lato, quello “positivo” di impegno per
mantenere un comportamento congruo e corretto.
In tema di responsabilità nell’esercizio professionale, è stato osservato che il
termine professione, stando all’etimologia, ha un significato sostanzialmente
simile a quello di responsabilità. Infatti “professione” deriva dal latino professio
che a su a volta origina dal verbo profiteor che significa confessare ad alta voce o
pubblicamente, proclamare, promettere; “responsabilità” è riconducibile al verbo
rispondere proveniente dal latino spondeo, che ha come primo significato
l’assumere un impegno solenne a carattere religioso. Professione e responsabilità
sono dunque componenti strutturali dell’identità dell’operatore e sono da
interpretare come ineludibile dichiarazione di assunzione di impegno nei confronti
della persona.
Considerato il peculiare significato che, in relazione all’esercizio della
professione, assume il termine responsabilità inteso in senso positivo, è da
indicare quali siano i principi ai quali riferirsi per raggiungere l’obiettivo
dell’essere responsabili nella condotta professionale. In genere, la condotta
professionalmente responsabile discende dal rispetto di quanto indicato nei quattro
punti seguenti:
54
presupposti scientifici delle attività e delle funzioni proprie della
professione;
norme di legge che disciplinano la professione;
regole della codificazione deontologica;
valori etici condivisi ed indicazioni che derivano dalla coscienza
personale.
In strema sintesi quindi si può dire che la responsabilità professionale
corrisponde ai quattro concetti di tecnica, normativa, deontologia ed infine etica.
Come già accennato l'attività di mediazione in generale nei suoi diversi
ambiti di applicazione si caratterizza sempre con lo stesso scopo di fondo, ossia
quello della comunicazione, e con le stesse prerogative di imparzialità, ottima
padronanza del linguaggio e ampia cultura generale, tuttavia le tecniche e quindi
la formazione che si recepisce per ogni ambito è molto diversa, infatti abbiamo
visto come i mediatori civili e commerciali devono avere una preparazione in
giurisprudenza e a volte in psicologia, mentre quelli interculturali devono avere
una particolare dimestichezza con tutte le istituzioni pubbliche e private sia del
paese di origine che del paese di arrivo, oltre che essere aggiornati sulle rispettive
questioni politiche e sociali; gli impiegati delle ONG devono avere una profonda
conoscenza delle istituzioni e relazioni internazionali e delle dinamiche legate
all'opinione pubblica, dei canali di informazione oltre che una formazione creativa
nell'ambito della scrittura e grafica in quanto gli viene chiesto di produrre
materiale per le diverse audience a cui si rivolgono.
55
In particolare i mediatori linguistici, gli interpreti e traduttori, invece devono
avere una conoscenza quanto meno superficiale di tutte le cose suddette (ed altre
in quanto la traduzione in particolare può toccare qualsiasi disciplina della vita
umana) ed essere pronti ad approfondire tale conoscenza in modo dettagliato di
volta in volta che ricevono un incarico in un'area piuttosto che in un altra. Hanno
inoltre una formazione tecnica molto specifica, che va al di là della competenza
linguistica, e senza la quale non potrebbero esercitare tale professione.
1. Deontologie a confronto
I diversi ambiti della mediazione sono inquadrati separatamente da normative
principalmente europee, come la norma di qualità UNI-EN15038:2006 per i
servizi di traduzione, o la Direttiva 52/2008/CE sulla mediazione per la
risoluzione alternativa delle controversie, la Decisione N. 1983/2006/CE del
Parlamento Europeo e del Consiglio in materia di mediazione interculturale,
benché stiano emergendo normative nazionali negli ultimi anni in Italia come
negli altri paesi europei, e da codici deontologici e statuti delle istituzioni che
svolgono tali servizi, come il Codice Deontologico dell'AIIC20, quello dell'AITI21,
quello di UNITALIA22.
È interessante il modo in cui un articolo del Sole 24 Ore23, riferendo del
20 AIIC, www.aiic.net, Code d'éthique professionnelle21 AITI, www.aiti.org, Codice Deontologico22 UNITALIA, www.unitaly.eu, Codice Deontologico23 Lex24 (2013 Diritto24, Sole 24 Ore), Deontologia e Professionalità del Mediatore Civile e Commerciale
56
Codice Deontologico del Mediatore Civile e Commerciale presentato il 23
febbraio 2012 alla Corte d’Appello di Roma durante il convegno “Trasparenza e
deontologia professionale dell’avvocato e del consulente tecnico in mediazione”,
coglie l'occasione per paragonare tale codice con quelli di altre professioni. Esso
riferisce infatti che “...ad oggi l’attività del mediatore è, nella maggior parte dei
casi, un’occupazione aggiuntiva – spesso residuale – rispetto a quella abituale: le
statistiche del Ministero di Giustizia ci dicono che il 60% dei mediatori svolge la
professione di avvocato, il 9% di commercialista e il rimanente 31% svolge altre
professioni. Da qui emergono alcuni spunti interessanti: il primo è relativo
all’opportunità di combinare nel codice etico del mediatore l’esperienza di diverse
professioni da cui provengono oggi i mediatori. A questo si aggiunge il fatto che
la competenza specifica, che consente di unire il come mediare con il cosa
mediare, si accompagna alla capacità del mediatore di stabilire un rapporto di
fiducia con le parti in lite che risulta così l’elemento chiave del suo successo. A
questo proposito si può ricordare il codice deontologico dei medici dove si citano i
diritti fondamentali ed il rispetto della persona e in cui si introduce il concetto di
formazione permanente. Nel codice deontologico degli psicologi si trova il
riferimento all’autodeterminazione, che è un concetto caro alla mediazione, e al
rispetto delle differenti culture. Nel codice deontologico forense è interessante il
riferimento alla fiducia che, come evidenziato poc'anzi è alla base del rapporto tra
il mediatore e le parti. Molto incisivo e indiscutibilmente valido per i mediatori è
il riferimento alla condotta personale oltreché professionale presente nel codice
57
deontologico dei dottori commercialisti ed esperti contabili. Ancora, risulta
interessante la disposizione dei concetti di “scienza”, “coscienza” e “diligenza”
all’interno del codice deontologico dei geometri. [...] Da ultimo, in relazione
all’imparzialità, che rappresenta senza dubbio un aspetto peculiare della
professione del mediatore che deve essere, come definito dallo stesso D. Lgs.
28/2010 che ha recentemente regolamentato l’attività di mediazione, “un terzo
imparziale” risulta molto incisivo il riferimento contenuto nel codice deontologico
dei magistrati “Nell'esercizio delle funzioni opera per rendere effettivo il valore
dell'imparzialità…” proseguendo poi “Assicura inoltre che nell'esercizio delle
funzioni la sua immagine di imparzialità sia sempre pienamente garantita.” A
questo proposito vale la pena rilevare una sostanziale differenza nell’approccio
professionale tra magistrati e mediatori rappresentato dalla posizione di
equidistanza del magistrato e “equivicinanza” del mediatore.” Queste
considerazioni sono facilmente estendibili a tutti gli ambiti della mediazione.
Infatti anche confrontando i diversi codici deontologici delle suddette
associazioni per interpreti e traduttori, emerge che tutte danno un certo spazio ai
principi su elencati: il rapporto di fiducia è una costante di tutti i codici
deontologici, come il dovere di formazione permanente o di aggiornamento
professionale, i doveri di competenza e di diligenza, il dovere di riservatezza e
segretezza. Il dovere di probità e decoro che sul codice dell'AIIC viene definito
“codice d'onore”, mentre su quello di UNITALIA specifica che tale dovere
comporta il divieto “di esprimere opinioni politiche o personali e di rilasciare
58
dichiarazioni pubbliche circa la propria ideologia politica”24, il dovere di
colleganza che vieta ai membri delle associazioni di ledere la reputazione dei
colleghi e gli impone un atteggiamento di lealtà e cordialità che renda serena e
corretta l'attività professionale, in particolare l'articolo 21 del codice dell'AITI
impone che “nell'ambito di un lavoro di gruppo o in équipe, il traduttore e
l'interprete rispettano scrupolosamente gli interessi dei colleghi e si impegnano a
preservare i rapporti che questi ultimi intrattengono col committente”25. Sono
molto dettagliatamente definiti anche i doveri legati alle condizioni di lavoro che
l'interprete o il traduttore devono far valere al fine di garantire la qualità della
prestazione, dato che è fatto divieto di “ledere la dignità della professione”26.
L'AIIC essendo un'associazione per interpreti di conferenza dà particolari dettagli
sulle condizioni di lavoro da esigere in tale ambito, dedicandogli l'intero terzo
titolo in 9 punti del suo Codice, i quali impongono all'interprete di lavorare in
condizioni comode che gli permettano di vedere l'oratore e la sala, di non lavorare
mai solo, di non accettare di fare simultanea senza cabina salvo in alcune
situazioni eccezionali, di ottenere in anticipo tutti i discorsi e in alcuni casi perfino
una riunione preventiva, e di non svolgere alcun'altra funzione durante la
conferenza se non quella di interprete. Per quanto riguarda la competenza
linguistica, mentre si ha l'abitudine di vedere scritto che si può tradurre solo verso
la propria lingua-madre l'articolo 10 del Codice dell'AITI stabilisce che “il
24 UNITALIA, Codice Deontologico, Titolo I, articolo 5, Dovere di probità, dignità e decoro25 AITI, Codice deontologico, Titolo III, articolo 21, Divieto di accaparramento di clienti 26 AIIC, Codice Deontologico, Titolo II, articolo 4, “Les membres de l'Association s'interdisent d'accepter un emploi ou une situation qui pourrait porter atteinte à la dignité de la profession. Ils s'abstiennent de tout agissement de nature à déconsidérer la profession”
59
traduttore lavora soltanto verso la lingua madre, la lingua di cultura o quella in cui
ha una competenza equivalente comprovata”.
L'articolo su Sole24Ore27 prosegue “Completata questa analisi generale in
relazione ai vari settori e sotto il profilo internazionale, si è passati ad indicare con
precisione criteri basilari per la condotta etica del mediatore, ispirandosi alla
massima “In morale son cose di capitale importanza anche le sfumature” (Arturo
Graf, 1908. Ecce Homo). Nel codice etico del mediatore è stato ribadito che questi
ha una vera e propria missione di diffusione della cultura della mediazione
attraverso il proprio impegno personale e professionale, dimostrando un vero e
proprio commitment sul tema della mediazione. Il mediatore, consapevole del
servizio che offre alla collettività, deve prestare lo stesso impegno qualunque sia
la tipologia e l’importo della mediazione. Da ultimo ma non ultimo si è voluto
sottolineare con forza l’imprescindibilità dell’elevata qualità del servizio offerto
dal mediatore, attraverso l’obbligo di formazione continua, sia teorica che pratica,
anche attraverso lo scambio ed il confronto con professionisti del settore sia in
Italia che all’estero. Da questo excursus emerge come il mediatore debba essere
una figura professionale con una grande preparazione, di elevata qualità, con un
alto rigore morale, regolato dall’etica e dalla deontologia professionale.”
Ora non resta che da chiedersi cosa si intenda esattamente per rigore morale.
2) L'etica universale
27 Lex24 (2012, Sole24Ore), Deontologia e Professionalità del Mediatore Civile e Commerciale
60
Una breve analisi di quello che si intende per morale o etica, al di là dell'etica
professionale imposta dai codici deontologici, è indispensabile dato che come
suddetto “oltre alla condotta professionale è di incisiva rilevanza anche quella
personale”.
La parola “etica” derivante dal greco antico èthos in cui significava
"carattere", "comportamento", "costume", "consuetudine", ed è un ramo della
filosofia che studia i fondamenti oggettivi e razionali che permettono di assegnare
ai comportamenti umani uno status deontologico ovvero distinguerli in buoni,
giusti, moralmente leciti, rispetto ai comportamenti ritenuti cattivi o moralmente
inappropriati.
Con questa definizione si dovrebbe giungere alla conclusione che l'etica è a
priori una dimensione universalmente valida e uguale per tutta l'umanità. Eppure
non è così, confrontandosi con persone di diverse parti del mondo ci si accorge
che il concetto di etica cambia notevolmente da una persona all'altra. Per esempio
chi fa l'università in Polonia potrebbe essere portato a pensare che “etica” sia
sinonimo di religione, e non di religiosità in generale, bensì di religione cattolica,
dato che al primo semestre del primo anno di università è obbligatorio per tutti
passare l'esame di Etica appunto, quest'ultima in tutte le università libere o
cattoliche che siano, sempre insegnata da preti cattolici. È facile immaginare come
questo possa rendere difficile una visone più universalista di ciò che è giusto o
sbagliato, o di come questo possa portare chi in quel paese cattolico non è (ad
esempio ebrei, ortodossi, o atei) a percepire la società di cui fa parte come
61
estranea. Un altro esempio può essere quello di chi cresce negli Stati Uniti
d'America dove nelle scuole pubbliche statali viene imposto il giuramento alla
bandiera tutti i giorni, il quale dopo l'ultimo cambiamento apportato nel 1954
recita il giuramento alla bandiera degli Stati Uniti d'America e alla repubblica che
rappresenta, Nazione unita dinanzi a Dio, con libertà e giustizia per tutti28. Al di là
del fatto che tale giuramento esclude gli atei (che secondo molti non vengono
proprio riconosciuti come tali, ma considerati semplicemente “arrabbiati con Dio”
o ancora, in preda a una “nuova tendenza che passerà”) se pensiamo alle persone
che sono state erroneamente condannate a morte e soppresse, o alla recente
esecuzione di un uomo in Ohio mediante iniezione di farmaci sperimentali
rivelatisi poco efficaci portando l'uomo a dare chiare dimostrazioni di sofferenza
per circa venti minuti mentre moriva. È semplice identificare l'incompatibilità con
la mentalità europea dove invocare Dio significa riconoscere valore assoluto alla
vita umana, specialmente in Italia dove la Chiesa ha particolare influenza e si
batte perfino contro eutanasia e aborto. E appunto pensando all'Italia, Stato
ufficialmente laico che riconosce la religione cattolica come quella del popolo
italiano, il quale però è sempre più misto, etnicamente parlando, ormai da decenni
e da sempre ha una forte presenza ebraica nel suo tessuto sociale, ma dove
l'ipotesi di togliere i crocefissi dalle pareti degli uffici pubblici per rispetto delle
diverse fedi presenti solleva tuttora, a settant'anni dalla fine del fascismo che
riconciliò Stato italiano e Chiesa, discussioni e aspre polemiche. A tale proposito
28“I pledge allegiance to the Flag of the United States of America, and to the Republic for whichit stands, one Nation under God, indivisible, with liberty and justice for all.”
62
si può nominare la Francia che da tempo vanta una laicità totale dello Stato, il cui
motto nazionale è Libertà, Uguaglianza e Fraternità, e che nonostante il principio
di libertà nel 2004 vietava agli individui di indossare in luoghi pubblici qualsiasi
simbolo religioso sul proprio corpo o abbigliamento, mettendo in difficoltà quelle
persone che proprio per religione devono indossare specifici simboli.
Tenendo conto quindi dei conflitti, o quantomeno incompatibilità, a cui
possono portare comportamenti etici bastati unicamente sulla legge o sulla
religione, e riguardo a queste ultime ricordando anche la facilità con cui vengono
da sempre strumentalizzate dai poteri politici per manipolare popolazioni intere e
giustificare prese di posizioni (l'esempio dell'estremismo islamico ne è solo
l'esempio più lampante e recente ma tale strumentalizzazione permea la storia
umana fin dai tempi più antichi), si fa sempre più viva l'esigenza di identificare
dei valori che siano universalmente e profondamente giusti e ai quali poter
ispirare il proprio codice etico.
In realtà tale tentativo si evolve di pari passo con l'umanità in quanto già
nell'antica città di Ur, nel terzo millennio a.C. fu redatto un documento che
stabiliva i diritti naturali associati alla sola qualità di essere umani, dando loro
un'applicazione universale e una forza superiore ad ogni altra norma. Non potendo
qui elencarne tutta l'evoluzione degli ultimi cinque mila anni, bisognerà
accontentarsi di solo qualche esempio recente come la Carta dei Diritti
Fondamentali adottata dall'Onu e dall'Unione Europea dopo gli orrori della
Seconda Guerra Mondiale. Si vuole che tali diritti costituiscano una base
63
inderogabile e insuperabile sulla quale costruire ogni altro codice legale o morale
che sia, indipendentemente da principi religiosi. Questo tuttavia al momento
riguarda la parte occidentale del mondo ed è al centro di un sentito dibattito nel
quale si oppongono opinioni in merito a se sia giusto o meno cercare di imporre
tali valori al resto del mondo.
In particolar modo per il mediatore linguistico e culturale, che deve
mantenere il suo dovere assoluto di neutralità pur mantenendo un alto rigore
morale, spaziando tra diverse etnie, lingue, legislazioni, culture e religioni, specie
se si pensa alla rilevanza di queste ultime in alcune culture, trovare un'etica
universale, sempre valida e mai in contrasto con le specifiche usanze di nessuno
degli interlocutori, sembra l'unica ancora di salvezza.
Tale etica quindi non può essere quella universalista che tenderebbe ad
andare di pari passo con la globalizzazione dei mercati e l'occidentalizzazione del
mondo, la quale tenderebbe ad omogeneizzare i diversi sistemi per assoggettarli al
concetto occidentale della democrazia assoggettata ai meccanismi economici del
capitalismo con una conseguente omologazione omologazione culturale che tende
ad uniformare modi di pensare e stili di vita per la necessità economica del
mercato unitario. È particolarmente incisivo su questo tema Serge Latouche, uno
dei critici più acuti dell'ideologia universalista e secondo il quale: «La riduzione
dell'Occidente alla pura ideologia dell'universalismo umanitario è troppo
mistificatrice senza peraltro evitare le insidie del solipsismo culturale che porta
direttamente all'etnocidio. È difficile dissociare il versante emancipatore, quello
64
dei Diritti dell'uomo, dal versante spogliatore, quello della lotta per il profitto.»29
Ma a coloro che nel mondo contemporaneo mettono in discussione la
prospettiva universalista, definendola come una pretesa della civiltà occidentale di
imporre a tutto il mondo una serie di valori considerati validi per tutto il genere
umano, si obietta d'altra parte che criticando l’universalismo, si può finire nel
relativismo e nel particolarismo, i quali a loro volta rischiano di portare
all'esaltazione delle culture particolari che portano appunto ad etnocentrismo,
nazionalismo, e difesa della propria identità sotto forma di xenofobia. Latouche
risponde tuttavia che è proprio l'universalismo a comportare tale pericolo in
quanto non è altro che una creazione ideologica occidentale, di un occidente che
in nome appunto della propria identità, pretende d'imporre un imperialismo
culturale al resto del mondo, e rivendica invece la necessità di «valorizzare
l’aspirazione a un dialogo fra le culture, a una coesistenza delle culture. Per questo
alla prospettiva dell’universalismo opporrei piuttosto un "universalismo plurale,"
che consiste nel riconoscimento e nella coesistenza di una diversità, e nel dialogo
fra queste diversità.»30
Il mediatore quindi, sempre nel rispetto delle leggi internazionali e nella
consapevolezza di quelle locali, deve piuttosto fare appello ai valori universali
della conoscenza e del rispetto, basati sulla perpetua acquisizione di una profonda
cognizione del mondo, dell'umanità, e delle discipline e dinamiche ad essi legate,
su uno studio continuo ed appassionato per raggiungere la comprensione di sé e
29 Serge Latouche, (Torino, 1992) L'occidentalizzazione del mondo, 168. (orig. L'Occidentalisation du monde, 1989)30 Serge Letouche, 2004, intervista di Antonio Caronia per www.socialpress.it.
65
dell'altro, sia in senso individuale che sociale, senza mai perdere di vista lo scopo
finale del dialogo tra le tante possibili diversità.
66
CONCLUSIONE
Dopo aver individuato le diverse manifestazioni della mediazione nella
struttura sociale, gli elementi che la compongono, e le sue finalità possiamo
riassumere il fondamento della sua responsabilità con il sillogismo di Aristotele,
dove il termine medio è quello contenuto nella premessa maggiore e in quella
minore consentendo così la conclusione logica nella quale si annulla il termine
medio. Così nell'esempio:
(premessa maggiore) Ogni animale è mortale
(premessa minore) Ogni uomo è animale
(conclusione) Ogni uomo è mortale
Il termine medio (animale) è l'elemento grazie al quale avviene la
mediazione fra gli altri due; questo perché il termine medio da una parte è incluso
nel termine maggiore (mortale) e dall'altra include in sé il termine minore (uomo).
Questo sillogismo, in cui il termine medio contenuto da entrambe le
premesse si annulla, raccoglie l'essenza del mediatore, ossia la sua capacità da una
parte ad identificarsi e legare un rapporto (in questo caso di fiducia) con entrambe
le parti, a dall'altra la capacità di mettere da parte il suo “io”, nel processo
comunicativo tra le due parti.
Come si è visto, particolarmente nella parte sulla mediazione familiare, può
essere proprio una delle principali difficoltà per il mediatore, quella di rimanere
neutrale rispetto a utente e operatore. Infatti, può facilmente accadere che egli si
67
identifichi con uno dei due e si faccia influenzare emotivamente dalla sua
situazione critica, a tal punto da escludere l’operatore dal processo di
comunicazione. Anche il contrario è possibile, ovvero che il mediatore si
preoccupi eccessivamente di tradurre in maniera precisa quello che dice
l’operatore, imponendo così in maniera rigida l’organizzazione del servizio, e
finisca col trascurare le necessità dell’utente. Il mediatore, deve perciò, riuscire a
mantenersi in equilibrio fra le due parti coinvolte nella comunicazione, lasciando
ad esse il ruolo di protagoniste e non lasciando trasparire la propria opinione in
merito alle diverse questioni. Inoltre è tenuto al segreto professionale, e se per
qualche ragione ritiene di non poter garantire l’assoluta imparzialità, deve saper
rinunciare all’incarico piuttosto che incrinare il rapporto di fiducia tra utente e
servizio.
Tale fiducia si basa anche sulla certezza che il mediatore riferirà fedelmente
il messaggio di entrambe le parti l'una all'altra, non solo per quanto riguarda il
contenuto degli enunciati ma anche per quanto concerne la loro forma, precisa o
imprecisa che sia, e le modalità comunicative proposte dal parlante. Quindi se il
discorso pronunciato è vago o incoerente, il mediatore non avrebbe la libertà di
migliorarlo, dovrebbe riportarlo mantenendone le stesse caratteristiche.
Ma se come dice il preambolo del Codice Deontologico dell'AITI il
“Compito del traduttore e dell'interprete è assicurare la comunicazione scritta e
orale tra parlanti di lingue diverse. La sua attività si svolge nell'interesse della
pace, della sicurezza, della giustizia, della salute, del benessere e dello sviluppo
68
economico, scientifico e culturale dei popoli”, il compito del mediatore non si
limita al semplice trasferimento di un messaggio, e deve adoperare tutti gli
strumenti di cui è in possesso a tal fine e se opportuno, intervenire sull'ambiguità
di un discorso che potrebbe venire frainteso ed essere causa di esiti negativi, in
modo tale da evitare incidenti diplomatici e conflitti che nessuno degli
interlocutori intende causare.
Questo è tanto più possibile quanto più il mediatore riunisce competenze
tecniche e generali, abilità generali di relazione, di comunicazione, di ascolto, di
innovazione ed abilità specifiche per la mediazione, buona cultura generale, alto
rigore morale regolato dall’etica e dalla deontologia professionale. A queste
caratteristiche si dovrebbero affiancare poi conoscenze in materia di psicologia, di
comunicazione, di diritto e di economia, non trascurando etica e sociologia.
I codici deontologici inoltre danno molta rilevanza alle condizioni di lavoro
da esigere quando si espleta le proprie funzioni per garantire una resa all'altezza
delle aspettative proprie e degli utenti. Tra le responsabilità del mediatore
linguistico e culturale, e sopratutto dell'interprete è quindi di assoluta importanza
far valere le proprie esigenze sul lavoro. L'altissimo sforzo cerebrale che si fa
durante una traduzione simultanea o consecutiva necessita il rispetto di tutti i
requisiti possibili per agevolare tale attività. La traduzione richiede sempre ma in
particolar modo nell'interpretariato, una mente lucida e riposata, in quanto si tratta
di fare associazioni cognitive e intuitive immediate, e nella simultanea si tratta
inoltre di dividere la propria attenzione in modo da seguire due cose in
69
contemporaneo, ossia la voce dell'oratore in una lingua e la propria voce in
un'altra lingua. È necessario quindi essere consapevoli dei propri limiti nonché
avere l'autorevolezza di esigerne il rispetto.
In ultimo si può dire quindi che oltre alle profonde conoscenze culturali e
linguistiche mirate alla comprensione dell'altro, vale sempre il principio di Socrate
“conosci te stesso” che si acquisisce certamente con l'esperienza. In attesa di avere
tale esperienza è saggio affidarsi umilmente alle indicazioni di chi ne ha più di
noi.
70
THE RESPONSIBILITY
OF LINGUISTIC AND CULTURAL MEDIATORS
in general and of
TRANSLATORS AND INTERPRETERS
in particular
71
SUMMARY
Introduction............................................................................................................72
Chapter One – Mediating....................................................................................75
1. Civil and commercial mediation............................................................77
2. Family mediation....................................................................................80
3. Inter-cultural mediation..........................................................................83
4. Mediation in NGOs................................................................................86
Chapter Two – More than Words.......................................................................90
1. Languages...............................................................................................91
2. The Power of Words...............................................................................96
Chapter Three – Responsibility...........................................................................99
1. Deontologies compared........................................................................100
2. Universal Ethics...................................................................................103
Conclusion...........................................................................................................106
72
INTRODUCTION
Mediation is a very broad concept and applies to many fields, from school
education to the most complex international relations, passing by trade
negotiations, lawsuits, literary translation, conference interpreting, and even the
media communication, both informative and promotional. As much as we can
dissect the term mediation and wonder about the many possible functions of a
mediator, we will always reach the conclusion that mediation is inevitably linked
to communication. Whether mediation is carried out in a social, legal, corporate,
cultural, linguistic, inter-cultural or international context, it is always a
transposition of ideas in a language understandable to the person or group of
persons, which can vary in largeness depending on the circumstances, to another
language understandable to another person or group of persons, equally variable.
So the ultimate goal of the mediator, as an intermediate entity interposed between
two parties in dialogue or in conflict, is to allow communication or even
reconciliation.
It is probably unnecessary to dwell on the importance of healthy
communication to emphasize the large amount of responsibility it can involve. It's
enough to name a few examples, such as the communication between two heads
of state, or between a philosopher capable of marking the fate of mankind and
those who want to transcribe his or her thoughts, or more simply between the pilot
of a plane and who operates the control tower. All examples that justify the fact
73
that languages, as they are the main tools of communication, are constantly
evolving, becoming increasingly elaborate, nuanced and complex, in order to offer
more precision in the expression of concepts in the attempt to reduce as much as
possible the chance for subjective interpretation which can lead to
misunderstandings and errors. But for us to be able to assume our responsibility,
and therefore be able to apply all the necessary tools to carry it out, we must be
aware of its dimension and what it involves.
In this thesis I will try to identify the elements implied in such awareness and
the extent of such responsibility, as well as the possible consequences of its lack,
generally in the activity of mediators, giving several examples of how the art of
mediation applies, and particularly in the activity of interpreters or translators.
There won't be a clear distinction between interpreter and translator in this
thesis when speaking of linguistic mediation for the simple reason that in many
languages they are denoted by the same term. In fact while in French, Italian and
English they are considered to be two distinct professions, instead in Polish for
instance we use the term Tłumacz to indicate both figures, and the term
tłumaczenie for translation or interpreting. It is also interesting to notice that
tłumaczenie is the same word that is used to indicate the concept of explaining,
which highlights the close link between translation and understanding of a text,
which is the basis of both the translator's work as of the final goal for the user of
the translation/explanation. Even the International Association for Conference
Interpreters, despite its best efforts in the "Interpreting Explained" section of its
74
website, to draw a clear distinction between the professional translator and the
professional interpreter, eventually offers "spoken translation" services referring
to interpreting in its “Services” section.
Before considering the issue of responsibility and the specific activity of
translation (regardless of whether it is written or spoken) or, more generally, of
linguistic and cultural mediation, perhaps it can be useful to offer a more in-depth
grasp of what mediation is, from its origins to its developments, in order to show
its close link with the concept of communication and what it implies. Then,
communication being made of codes and languages we will see how rich these
are, and the difficulties such wealth arises.
75
Chapter One – Mediating
If "mediating", coming Latin, means being interposed, being in the middle,
being an intermediate between two parties in dialogue (or conflict) in order to
allow, facilitate, or guarantee a good flow of communication between them,
mediating can also be metaphorically described as building bridges. Mediating
means therefore creating bridges of communication between cultures, or people,
or groups of people, of communities, even of the same culture but with opposite
interests or beliefs, or simply speaking different languages.
According to Stefano Castelli, “mediation is a process by which two or more
parties turn freely to a neutral third party, the mediator, to reduce the undesirable
effects of a serious conflict. Mediation aims to re-establish dialogue between the
parties in order to reach a specific goal: the reorganization of relationships so that
they can be most satisfying to everyone. The ultimate goal of mediation is reached
once the parties have creatively taken control, in their own interest as of everyone
else involved, each of their own active and responsible decision-making ability.”
The concept of dialogue in the definition used by the author is therefore the
basis of mediation, whether it is understood as alternative dispute resolution in a
lawsuit context, or as social work such as inter-cultural education, family
mediation, as translation, or as international advocacy.
Dialogue implies that the relationship between the parties is equal and
symmetrical. It's easy to imagine how, for example, when mediating between
76
immigrants and local authorities there may be at the root a strong imbalance
undermining the party represented by the immigrants. In fact, the latter is often
disadvantaged and we could say even “inferior” to the other party, this not only
because they don't have a sufficient knowledge of the local language to explain
their needs and reasons and motivations, but also because they are not accustomed
with the uses, laws and procedures of the "hosting " country (this term is the most
common but perhaps not the most suitable if comparing the concept of hospitality
with the way many immigrants live, with reference to exploitation just to give one
example) and especially because they often cope with the psychological pressure
of being perceived as an unwanted "guest" by whom they instead need to engage
in dialogue, and to whom they need to adapt, for obvious reasons that may be
related to professional or study choices, or even simply survival.
Once established that dialogue is the basic tool for mediation we notice how
another striking word of Castelli's definition is relation. In fact an educator for
instance uses examples and testimonies to establish and authenticate the relational
dimension between the parties. Since the educator himself is relating, thus
facilitating the understanding among the pupils, "we can say that the reciprocal
relationship intentionally pursued becomes mediation" according to Tarozzi.
Finally also important in Castelli's definition is the concept of "responsible
decision-making capacity," indicative of how the mediator is a shadow with a
consciousness that guides the user within the communicating relationship without
interfering with their freedom of opinion and choice-making, but rather
77
empowering it.
1. Civil and Commercial Mediation
If communication and exchange are the basis of every social formation and
go back to the origins of humanity, so is inevitably conflict. Mediation based on
equally satisfying the true needs of the parties aims at reaching an agreement in a
completely voluntary way allowing thus to maintain a relationship. The subjective
inability to accept the frustration resulting from the imposition of the other
engenders violence and mental short-cuts, which prevent bonds from growing in a
constructive way. The possibility of promoting new social pacts lies, on the
contrary, in the ability to stay in conflicts, to experience them as highly evolved
forms that can stimulate and enhance personal skills. The perspective changes: it
is not to live together without conflict, but rather to live better thanks to conflicts.
Mediating requires a change of mentality, especially on professional
behaviour, we are trained to fight rather than cooperate, to seek the victory of one
side and the defeat of another. It would be crucial to move on from an adversarial
mentality to a cooperative mindset with a new culture of conflict that goes beyond
the traditional imaging of fight, combat or war, that can be solved only with
authoritative decisions. In order to achieve so it is necessary to develop practical
skills on how to deal constructively with conflict engendering personal growth,
that is, giving value to the differences in the respect of each person's dignity, with
78
the consequent improvement of the cultural and social life's quality.
In civil and commercial controversies, mediation, obviously aimed at
reconciliation, is a procedure in which an impartial third party, facilitates the
discussion by bringing out the interests of both parties and leaving up to them the
final decision to determine their agreement, or suggesting a possible solution to
the dispute. The historical origin of mediation aimed at reconciliation goes a long
way back in time. There are in fact countless testimonies that report and indicate
the methodology of mediation as a means used to resolve conflicts and contrasts
between individuals, already since ancient China.
In fact in the Chinese culture, the influence of Confucian doctrine since the
sixth century BC, brought the way of conceiving resolving disputes away from the
challenging behaviour between the parties, so the key to the Chinese system is the
intervention of Zhong Jian Ren – independent and neutral third party – that
directly encourage or attempt conciliation.
Also in ancient patriarchal societies the older members of the family clans
were called to compose disputes between members of the same group.
The ancient Romans would try to resolve a dispute through an amicable
settlement before going in front of the magistrate.
Later on even the Catholic Church played an important role in the expansion
of mediation. It was often the priest in fact who would mediate disputes among his
parishioners. Not to mention the actual papal conciliations by which the Popes or
their agents carried on business in order to settle disputes even between States.
79
In Italy the term "mediation" can be found in the current Civil Code in force
since 1942, in article 1754 which says that a mediator is someone that connects
two or more parties to conclude a deal, without being tied to any of them by
relations of cooperation, employment or representation. Such concept in modern
legislation seems to be originated in the United States of America in 1887, when
the Federal Government instituted a procedure with the law on trade among States
to voluntarily settle labour disputes between railway companies and their
employees.
In the last decades, the use of ADR (Alternative Dispute Resolution) methods
has experienced a significant increase compared to ordinary justice, as they seem
to be the most viable, rapid, discrete, cost-effective as well as efficient in
resolving conflicts. These procedures consist in the negotiation, mediation and in
arbitration.
In Italy the ADR methods are being applied since the 1970's but it is only
with the legislative decree of 2003, n. 515, that the hypothesis of non-court
settlement is regulated, and according to which the attempt at conciliation before a
possible judgement is managed by a third party, which can be public or private, as
long as it is registered by the Ministry of Justice. In 2010 was issued the
legislative decree N. 28, with which legal mediation is approved as an alternative
and extra-judicial institution, aimed at settling disputes in civil and commercial
matters, followed by ministerial decree N. 180 which regulated the registration of
public and private organizations on the register kept by the Ministry of Justice, as
80
well as mediation prices to be applied by organizations. Finally, in 2011 the
decree-law N. 145 regulated the benefits and the training of mediators.
2. Family Mediation
The institutions of civil and commercial mediation, both public or private,
also offer family mediation services. However, while the first is regulated by the
European Union Directive 2008/52/EC, family mediation on the other hand is still
at an experimental stage and deprived of legislation that would give it the title of
an official profession.
So although some recognized schooling institutions release the title of Expert
Family Mediator, and some Italian Regions have set specific registers in their
offices with lists of such professionals, these lists have been declared
unconstitutional. Therefore the activity of family mediation is usually carried out
by different professional figures such as lawyers, psychologists and, especially
when ordered by the court, by social workers.
Family mediation is a service offered to couples with the purpose of
reorganizing the family relationships whenever there is a desire of separation or
divorce. The main goal of family mediation is to reach a situation of “co-
parenting” meant as the safeguard of individual parental responsibility towards
their children, especially if they are minors. Family mediation is in fact aimed at
achieving the objectives defined by the couple outside the judicial system.
81
It is a cross-discipline that uses knowledge of sociology, psychology and law
aimed at the use of specific techniques such as mediation and negotiation of the
conflict, as separation and divorce are not simple family events but transitions,
crisis processes and often traumatic changes involving at least three generations:
the couple, their children and their families of origin. Family mediation can be an
asset to preserve family ties, a journey that takes the couple to move beyond the
trauma of separation (Cigoli, 1997) and arrive at new modes of family
functioning, new solutions, after negotiating all aspects that relate to the emotional
relationship with their children as well as educational and economic issues.
According to the definition of the term "mediator" and the description of the
services offered on the websites of private associations and law firms specializing
in family matters, and of those of the public services of social workers, such
assistance should be neutral and impartial and aim of course exclusively to the
interests of the children. A series of discussions with Attorney Pellegrino from the
Centre for Legal Studies on the Person, and with Dr. Paolantoni from Social
Services of the City of Rome, have allowed me to understand how and why such
impartiality is often jeopardized.
Attorney Pellegrino explains that the Law N.54 of 2006 on shared custody of
children in case of separation or divorce of the parents, followed by many other
regulations, turns over the traditional system of custody in which the children
were entrusted either to one or to the other parent according to the discretion of
the presiding judge, or in accordance with the agreements reached by the spouses.
82
Now the children will always be entrusted to both parents as a rule, and only in
exceptional cases to only one of them, when the interests of the child would result
injured in a shared custody situation. The new rules implement the principle of co-
parenting which emerged in most legal systems in Europe and in the Convention
on the Rights of the Child signed in New York in November 1989. The
implementation of these principles are also the result of the increasingly strong
pressures from several associations that have arisen in Europe and the United
States from the 80s onwards, advocating for the rights of separated fathers.
These new legal measures and advocacy activities on behalf of separated
fathers seem to have done enough echo to alter the mentality of Italians on the
matters of motherhood, fatherhood and children's custody, and also to become part
of the training of all professionals working in the family area. On one hand this is
a great achievement for society with an increase of equality between men and
women, but on the other it tends to create the idea that fathers are the victims of
vindictive women who keep them from seeing their own children. Which is
without a doubt an existing reality, but the most reprehensible reality isn't
necessarily the most outspread one.
Beyond the awareness raising campaigns and new training received by all
professionals operating in the family field, what else brings a mediator to loose
their impartiality?
Perhaps the answer may lie at least partly in the response to another question
that was asked Dr. Paolantoni: Why does one choose to become a mediator?
83
Maybe for the desire to help others with the difficulties we have addressed
ourselves. Probably the mediator who has experienced and overcome the
difficulties associated with migration will be more motivated to work in the same
field feeling able to help other immigrants, and likewise the mediator who has
suffered in childhood because of his parents' separation and who has experienced
the lack of their father's presence given the old system of single parenting, will
prefer to become a family mediator.
We are all conditioned by our experiences but mediators perhaps more than
anyone else have to wonder how it affects them.
So even if laws, conventions and associations in favour of co-parenting point
their finger against mothers accusing them of “loosing sight of the overall picture
and of their child's pain because they are blinded by their own” according to
Elisabetta Pizzo in her thesis on Family Mediation, the mediator instead should
never lose sight of anything, and should certainly not point fingers before having a
very deep knowledge of the situation form all points of view. Also, if the family
mediator when convened by the Juvenile Court must be a social worker, and a
social worker in Italy must be Italian, it is easy to imagine how such difficulty to
remain impartial might escalate when one of the parents is a foreigner with a
different educational mentality and so on.
3. Inter-cultural and linguistic mediation
84
Facing the current increasing migration flows that bring together cultures
ever more distant from one another, due to the ease with which one can nowadays
decide take a plane, for example, from China to Europe, a journey that once
required weeks and now about twelve hours or so. I use the term "ease" with no
intention of belittling the huge, painful and risky sacrifices made by the families
who migrate, especially those who flee from war or political and social hardships
in their homeland, I use the word "ease" only compared to when travelling
overseas was done by sea, or even just referring to more recent times when there
wasn't such easy access to information or to travel tickets via the Internet.
Migration forcefully brings up the problem of communication between
natives and immigrants. Currently, studies on inter-cultural communication cover
a very wide range and do not correspond to a single specific disciplinary area. It is
not easy therefore to analyse the concept of inter-cultural mediators and draw a
detailed list of the functions they have to perform and the skills they must fit. It
implies very diverse functions, which require extensive preparation capable of
ranging from the inevitable linguistic knowledge to pedagogy, from the linguistic
and cultural mediation techniques skills to the issues of migration, from gathering
information on social and political events in the migrants' countries of origin to
the ability to keep an open mind and a constructive detachment at the same time,
from the familiarity with the procedures of public and private services, both
Italian and abroad, to the management of conflicts of inter-cultural order.
Given the increasing influx of foreign children in Italian schools the
85
linguistic-cultural, or inter-cultural, mediation is increasingly useful in that
environment. The functions of a mediator within a school are principally to
provide linguistic support, both to the immigrant children who has difficulty in
expressing themselves and to the teachers and the rest of the class. Inter-cultural
education is destined to become one of the most important aspects of the process
of education.
According to Piero Bertolini the mediating function of the educator covers
both the social and the cognitive spheres. Teachers act as an intermediary between
the foreign student and the society in which he lives, they make sure that the child
establishes new relationships and acquires the ability to deal with conflicts.
Mediation is one of the most important dimensions of inter-cultural pedagogy,
because it is always based on a passage of information elaborated through the
mentality, the means and the attitudes of the educators. According to Duccio
Demetrio every teacher is a mediator, because mediation "is a feature that
pervades the entire pedagogical professionalism of all those who work in schools,
regardless of the children they face and the things they have to teach".
Patrick Johnson and Elizabeth de Nigris have pointed out three levels of
cultural mediation:
• The first – PRACTICAL GUIDANCE to translate information and make
services more accessible.
• The second is LANGUAGE-COMMUNICATIVE in which the mediator
manages communication impairments through translation and interpreting. It is
86
important for them to clarify not only the verbal but also non-verbal, the unspoken
and the implicit.
• The PSYCHO-SOCIAL, third and last level of mediation allows the
mediator to participate in social change by reorganizing the functioning of
services, therefore encouraging the recognition of minorities, the visibility of
differences and different cultural contributions.
Finally another way to see mediation on different levels is following two
distinct methods, advocacy on one hand and empowerment on the other. In the
context of inter-cultural mediation for immigrants the activity of "advocacy" is
configured as a defence of the rights of foreign individuals who suffer an
institutional discomfort and difficulty in getting others to recognize their needs.
The mediator in this case takes the side of the individuals and represents them,
though always with due neutrality as the purpose is to open a communication
bridge between institutions and immigrants, not to declare a battle on behalf of the
latter. Mediation as "empowerment", instead, is a function of aid to the individual
who does not know yet how to take advantage of the services to solve their own
problems, and consists in a training teaching information and strategies that
allows the individual to reach autonomy, as it is needed to feel like a connected
and functioning part of society.
4. Mediation in NGOs
87
The concepts of Advocacy and Empowerment are particularly relevant if we
consider mediation as carried out by Non Governmental Organizations
representing specific communities or groups in both national and international
context. NGOs (and INGOs) are the most structured of all collective movements
and have played a very important role in mainstream or alternative development
projects since the early eighties. They are increasingly visible and present in
"parallel summits" in conjunction with high-impact international meetings such as
the G8, the World Bank, the World Trade Organization, the World Conference on
Women and so on. They submit, interpret, and convey the instant political and
economic needs of local social movements.
Doing advocacy for NGOs basically consists in the action of representing a
group in order to establish and protect its rights against the set powers, but also to
inform the rest of the world about the existence of such a group with such specific
issues, to arouse solidarity, raise funds for to provide research and solutions.
While doing empowerment consists in educating the represented group about their
condition and deriving needs and rights, providing tools to better and more
independently manage their own lives, also by gathering in an as high as possible
number people belonging to a disadvantaged minority under one organization and
putting them in touch with each other, gathering them in mass events, therefore
reminding them not to be alone with their condition, and making them feel
stronger in contrast to the sense of helplessness that many face individually.
These organizations represent specific communities worldwide, through national
88
or regional associations that turn to them. Through this type of mediation they aim
at improving international law, at the adjustment of the national political agenda.
Their strategy is based on the fact that when an issue becomes of global
concern, and therefore has the world's attention focused, the political powers are
always interested in maintaining and increasing their hegemony becoming
therefore more collaborative as even only participating to a debate on a global
issue allows the power to maintain a role at the centre of the world's decision-
making process.
The main tools for advocacy and empowerment and for mediating between
disadvantaged communities and authorities, between the weak and the powerful,
by getting worldwide attention are of course:
public service announcements (PSAs): audio or video
media campaigns: photography, video, slogans, interviews, testimonials
mass events
to be spread through traditional media: theatres, television, radio,
billboards, magazines, newspapers...
through social networks: facebook, twitter, youtube, blogs...
symbolic give-away objects to be distributed to as many people as possible
Internet is particularly effective as it allows these organizations to promote
their projects and spread their campaigns in an economical and more interactive
way, for example on social media where everyone can contribute with their views
or experiences. However, to reach a greater audience with a greater impact it is
89
often necessary to resort to commercials to be disseminated through traditional
media, which is expensive and requires expertise in choosing the right words and
images to convey the message in the most impressive way possible.
The case of the media campaign carried out by IDF (International Diabetes
Federation – with whom I served an intern-ship of about 500 hours last summer
2013) with an animated video PSA of 58 seconds, which aimed at raising
awareness among decision-makers that have nothing to do with diabetes, is
emblematic of how it is not easy to involve the indifferent, without offending the
afflicted. The IDF communications department had to change their ideas to please
the board which does not have any training in communication or mediation, and
had probably not studied thoroughly all points of view and possible implications
of the campaign on which it had also invested significant resources. This resulted
in the loss not only of funds but above all of consensus. A month after its viral
spread on Youtube and other video sharing network IDF withdrew the PSA from
its website and all other platforms apologizing to the world's community of people
with diabetes. The same happened to many other NGOs as words can be very
powerful and when addressing to such varied communities involving people from
so many different cultures is a very sensitive task.
In fact as we have repeated so far how mediation is closely linked to
communication, it is time to deepen the topic of communication itself and see how
it occurs and what is implied.
90
Chapter Two – More than Words
If there is no mediation without communication, since the latter is both the
aim and the means of mediation itself, we cannot avoid asking ourselves what
exactly is communication, how it happens and what it implies.
To communicate, from the Latin cum – with or together, and munire – to
bond, to build and the Latin communico – to put together, to involve, in its first
definition it's the set of phenomena that involve the distribution of information. It
inevitably foresees the fact of "sharing", an action that requires the existence of
some fundamental elements: a system that transmits, a sender, a message
containing the information which is the content of communication, a channel to
transfer the information, a formal code by which information is given a linguistic
form. Finally, for the process to be complete there has to be a fifth element: the
receiver, that is, the system that assimilates the information. To send information
is an activity that characterizes all living beings, from mankind to microbes
including plants. So although verbal language is a typically human phenomenon,
communication is a phenomenon of all living species, therefore it is obvious that
that there are other forms of communication beyond the verbal one.
Communication is conveyed through a channel as we said, which is first of
all our physical body, made of shape, material, movement, smell, colour, sound,
and even flavour, and it is by means of all these things together that we
communicate, and discover our being. If we observe people while they speak, we
91
can see immediately that in addition to the verbal discourse, there is a whole other
universe of communication that takes place in many cases unconsciously but can
in many ways even condition the content of verbal expression but above all it
conditions the way the content of verbal expression is perceived. The so-called
non-verbal communication.
In recent decades therefore it has been asserted that human communication
arises from the interdependence of different communication systems, on one hand
the formal codes through which we give a linguistic form to the message with the
use of verbal or sign language, and on the other hand the non-linguistic codes, all
part of what we call language, intended as the overall ability to communicate.
In the context of mediation, as we become an additional channel conveying
and translating a message it is crucial to be aware of all the different meanings
implied in what language is.
1. Languages
According to Ethnologue, there are 6,959 languages spoken in the world 830
of which, within a single country if we make the example of New Guinea. But the
most interesting data, as reported by Annamaria Testa (International-December
2013), is that of the graph on multilingualism published by The Economist, the
Greenberg's diversity index, which measures country by country, the probability
of two people sharing the same language on a scale from 0 (no diversity, all speak
92
the same language) to 1 (maximum diversity).
But perhaps we need a more precise definition of what a language is.
Language can be intended as the ability of mankind to communicate by means of
more or less complex codes, also called languages, among which the languages
intended as idioms (from the Latin idioma, meaning character, property,
particularity), which are verbal or sign communication systems proper to a
specific human community. It thus contains the practical way in which given
historically determined community expresses themselves verbally.
Noam Chomsky argues that the structural similarities that exist in different
languages, suggest that there is an innate universal grammar made up of rules that
allow you to connect to the limited number of phonemes that the vocal organs of
the human species are capable of producing. The structuralist linguistics school
highlights that syntactic grammar structures are the language elements with
strongest long-term stability and uniformity in space. Their theory understates that
such features are "universal" as opposed to lexical and semantic elements which
are the result of the arbitrariness of specific peoples.
In the mediation area the concept of communicative competence that
originates from Chomsky's concept of linguistic competence as an implicit system
of grammatical and syntactical rules by which the speaker-hearer proceeds to an
activity of encoding and decoding sentences formulated inside a specific tongue,
is part of a broader vision, according to which communication requires not only
technical linguistic knowledge and skills but also social ones.
93
In fact, every social barrier is a language barrier because there are so many
language variations even within the same idiom. There are significant differences
in the modes of expression not only of those belonging to different cultures but
also to the different social classes. The pronunciation can vary from one social
class to another, as the richness of vocabulary and the way it is used which can
vary from rural to urban environments or even with gender, the use of technical
words specific to a field of expertise changes according to the latter, and the
ideological use of language also changes the words' meaning making them
allusive and instrumental. Taking into account these linguistic variations related to
social characteristics, the focus shifts looking at the semantic and syntactic
grammar of the language and the relationship between language and society, thus,
the linguistic competence is no longer the centre of communicative competence
but only one of its many aspects. Communicating, in fact, involves various skills
which are:
Paralinguistic (prosodic variations of the expression: tone of voice,
emphasis, etc.).
Kinetic (facial expressions, gestures, body movements, etc.).
Proxemic (distance between people, contacts, etc.);
Performing (perform actions through the communication);
Pragmatic (appropriate behaviours to situations, coherent and consistent
with the objectives);
Socio-cultural (ability to individuate different social situations and the
94
different meanings that permeate them, to interact in a meaningful way)
Therefore communicating positively means being able to establish
relationships in a socio-cultural background. Based on these assumptions, we can
speak of inter-cultural communication as of an exchange in which native and
foreigner use their communication skills to interact with one another and to relate
different cultural backgrounds. And in order to understand each other, they need to
be aware of the relativity of their own culture and to be able to listen to others
without prejudice and without presumption, keeping in mind the complexities and
ambiguities to which cultural diversity exposes them.
If culture is so closely related to the concept of identity and belonging, then
such awareness is especially needed when dealing with literary translation, where
the text is the expression of what the Romantic school that developed in Germany
in the mid-nineteenth century defined the spirit (Volkgeist) of a population, to
which the author belongs, and which is enclosed in the people's own language.
Which of the subjective and cultural identity to better take into account when
translating a literary work from the language in which it was written to another,
especially when it comes to languages of different language families. According
to the geo-linguistic rule that the greater the distance mileage the lesser the
linguistic similarity, it follows that the further away our geographical origin from
the origin of the text, the more difficult it will be for us to deeply understand and
then translate the given text. For obvious reasons, the historical, political, social,
religious and cultural past is more intertwined with that of neighbouring countries
95
than with one more distant. If language is the communication system of mankind
among each other, it can only represent their entire cultural and historical
baggage. How could we understand what the language of a people represents
without studying its history, and without sharing a little piece of it.
However, in times of globalization we must ask ourselves if the real task of
mediators is to translate into the most general or understandable way possible for
the recipient, keeping in consideration their cultural identity at the risk of losing
part of that spirit characterizing the original content, in order to facilitate the
exchange of cultures and ideas so they can one day understand each other so well
that they integrate with each other and form a single cultural human entity. Or
rather translate as closely as possible to the original, possibly using brackets and
explanatory notes whenever necessary, in order to transmit precisely the
characteristics or spirit of the original, allowing cultures to maintain their separate
identities, and especially to preserve their own role as mediators.
The idea of a single international language has been hypothesized and even
created with examples such as Interlingua and Esperanto. The latter is the most
successful and used, it is often at the centre of debates on language democracy. It
was even considered by the EU as a possible working language for all member
States in order to reduce the costs of translation which seem to amount for 40% of
the overall budget. However the EU has dismissed such possibility so far as it said
that the member States have the right to read all legislations in their own
language.
96
2. The Power of Words
Speaking and articulating words is a typically human faculty, it has always
had an important role in all different cultures, not only as a primary and
immediate form of communication, but also as a possession for eternity, crucial
for the present and valuable for the future. Since its origin words have been the
most effective tool to persuade, compel, remember, and educate.
For example although many tales and stories existed only in the oral form for
centuries our generations still received some of them in a written form. The
written collections of tales and legends that we have now are the result of
centuries of evolution and are a heritage of every people. There was therefore a
moment in history when the interest in the stories passed down orally generated
two parallel paths in the collection of narratives, one with a purely literary interest
and the other with an anthropological perspective. This led writers to creating the
first collections, which soon began to raise a growing interest because they offer a
glimpse of what might have been the way of thinking and feeling of our ancestors,
their fears and their values and therefore of our own evolution.
But transcribing an oral text is not as simple as it may seem, the reduction of
the communicative event into a text implies an unrecoverable loss and distortion
of senses and meanings. Not to mention the loss and distortion due to subjective
interpretation and communicating capabilities implied already in the oral passing
on of a story from one person to another. If we apply this consideration to another
97
type of text, with much greater historical impact, namely the Bible, we realize
how it could have caused so many disputes. The Bible has exerted an incalculable
influence on the mentality, culture and art of our era. And it is the most translated,
the most printed and the most sold book ever. It's interpretation has been at the
centre of debates for the past 2000 years now as it has been decisive for society's
structure. Around the year 150, it appears that what was in circulation in Rome
were the memoirs of the apostles. In fact, in the second century there were
various texts in circulation which referred the facts of Jesus' life and his words,
along with other apocalyptic writings, attributed to the apostles themselves. The
relation between these writings with the actual words of Jesus, however, already
then was distanced by the transcription of the narration in each apostle's personal
way, then by a century and a half, and the Latin translation from Hebrew and
Greek. Such distance leads to more and more interpretations that differ from one
another, and probably from Jesus'original message as well.
Later, in the fourth century, the famous Councils of Constantine determined
which of those many doctrines developed in the first centuries based of those
writings that circulated and interpretations that were given, were to be considered
heretical and which to be spread. Many believe it was then that the texts were
carefully selected for the sacred book, including the four Gospels, Paul's letters,
the Acts of the Apostles and the Apocalypse and therefore deliberately excluding a
large number of writings considered "not inspired by God." Such ecumenical
councils were repeated many times throughout the centuries determining aspects
98
of society such as women's role, the Hebrew people's rights, the Church's political
hierarchy, economy, trade, sexuality, often leading to strong repressive and
coercive actions, and even to bleeding wars.
The words of a man who lived two thousand years ago therefore have had the
power to influence the history of humanity. As Erri De Luca says, translations of
the Bible led to the introduction of habits and customs that perhaps could have
been different and mark our history in a different way if only more attention had
been paid when choosing verbs, phrases, and descriptions.
As already said words have the power to charm and seduce, influence,
entertain, hurt, soothe, even heal if we think of psychoanalysis. Words as a means
of communication have the power above all to transfer, even on a subconscious
level, provoking emotions and desires, for example in advertising; raising feelings
of belonging or even fear for example in politics. Which is why words come with
a great deal of responsibility.
99
Chapter Three – Responsibility
The noun responsibility has in general terms a double meaning: on the one
hand, the "negative" cognition of being held accountable for misconduct by an
authority, on the other hand, the "positive" one of the commitment to maintain a
reasonable and correct behaviour.
When it comes to professional responsibility, it was observed that the term
profession, according to etymology, has a meaning substantially similar to that of
responsibility. In fact, "profession" is derived from the Latin professio that
originates from the verb profiteor that means to confess aloud or publicly
proclaim, promise, whereas "responsibility" seems linked to the verb “to respond”
which comes from the Latin verb spondeo, which has as its primary meaning in
“taking a solemn commitment of a religious nature”.
Profession and responsibilities are therefore structural components of the
identity of the operator and are to be interpreted as an inescapable statement of
commitment towards the hiring person. Typically, the professionally responsible
conduct has its roots in the following four points:
scientific assumptions of the profession's activities and functions;
legislation that rule the profession;
codification of the rules of professional conduct;
shared ethical values that arise from personal conscience.
As already mentioned, the activity of mediation in general in its various
100
fields of application is always characterized by the same underlying purpose,
namely that of communication, and with the same prerogatives of impartiality,
excellent command of language and broad general culture. However, the
techniques and thus the education and training vary significantly. We've seen how
the civil and commercial mediators must have grasp of law of psychology, while
inter-cultural mediators must have a particular familiarity with all public and
private institutions; advocacy employees of NGOs must have a thorough
knowledge of the international institutions and relations, the channels of
information and training in the field of creative writing and graphics. Linguistic
mediators, interpreters and translators must have at least a superficial knowledge
of all these things (and others as translation in particular can deal with any field in
any human discipline) and be ready to study more in-depth each area for each
assignment. They also have a very specific technical training that goes beyond the
linguistic competency without which they could not really pursue such profession.
1. Deontologies compared
The different areas of mediation are regulated separately mainly by European
regulations, such as the quality standard UNI-EN15038:2006 for translation
services, or the 52/2008/CE Directive on mediation for Alternative Dispute
Resolution, the Decision No. 1983/2006/EC of the European Parliament and
Council on the subject of inter-cultural mediation, although national standards are
101
emerging in recent years in Italy as in other European countries, and by ethical
codes and statutes of the institutions engaged in these services.
An article on an Italian newspaper called Sole24Ore makes an interesting
comparison between the new Ethical Code for Civil and Commercial Mediators
and that of other professions. It reports that the new ethics code integrates the
experience of many other professions: physicians, whose code refers to the
fundamental rights and the respect of the person and introduces the concept of
lifelong learning; psychologists, with reference to self-determination, a relevant
concept for mediation and for the respect of different cultures; the forensic code of
ethics refers to trust, which is the basis of the relationship between mediators and
parties; accountants, whose code has unquestionably valid reference to personal
conduct besides professional conduct; surveyors' code has an interesting
arrangement of the concepts of "science", "consciousness" and "diligence";
Finally, in relation to impartiality, which is without any doubt a crucial aspect of
mediators' profession, there is a very incisive comparison with the code of ethics
for judges who must ensure that when carrying out their functions the image of
impartiality is always fully guaranteed. These comparisons are easily extensible to
all areas of mediation.
In fact further comparing the codes of ethics of associations for translators
and interpreters such as AIIC, AITI and UNITALY just to make a few examples,
what shows is that all contain the principles listed above, along with the duty of
confidentiality and secrecy, which in the Unitaly Code of Ethics explicitly
102
discourages even testifying in court, the duty of probity and demeanour that in the
AIIC code is called "code of honour", while on Unitaly's code it specifies that this
duty entails the prohibition "to express political or personal opinions or any public
statements about one's own political ideology”, the duty of fellowship that
prohibits members of the associations to damage the reputation of colleagues and
requires an attitude of loyalty and friendliness that makes professional
environment and activity peaceful, and in particular Article 21 of the Code of
AITI imposes that "when working as part of a team or group, the translator and
interpreter follow scrupulously the interests of colleagues, who are committed to
preserving the relationships that they entertain with the client". The duties related
to working conditions that the interpreter or translator must demand in order to
ensure the quality of the service are also defined in great detail, since it is
forbidden to "undermine the dignity of the profession". AIIC, an association for
conference interpreters, dedicates the entire third chapter of its code to specific
details on working conditions to be demanded in that context. So last but not least
what is strongly emphasized is the need for high quality of the service provided by
mediators. From this excursus what comes forth is how a mediator should be a
professional figure with a great deal of high quality preparation, general culture,
and whose attitude is ruled by professional deontology and strong personal moral
rigour. Now we just need to identify what exactly is meant by personal moral
rigour.
103
2. Universal Ethics
A brief analysis of what is meant by moral or ethical, beyond professional
ethics imposed by the codes of ethics of different professions is necessary since as
given above beyond the professional conduct of a professional figure the personal
conduct is of decisive importance as well.
The word "ethics" derived from the ancient Greek ethos which meant
"character", "behaviour", "costume", "custom", and is a branch of philosophy that
studies the fundamentals of objective and rational human behaviour to allow a
distinction between good, righteous, morally licit behaviour and behaviours
considered morally bad or inappropriate.
Taking into account the possible conflict, or incompatibility, to which can
lead ethics based solely on law or religion, and about the latter recalling how
easily they have always been manipulated by political powers, the need to identify
values that are universally and deeply righteous becomes very strong.
Such attempts have been done all throughout human history and consisted in
the identification of natural rights recognizable to everyone based on the sole
quality of being human, and giving them a universal application and a superior
strength to any other norm. This was happening already in the third millennium
b.C. but sticking to most recent times we can mention the Human Rights Charter
adopted by the UN and by EU after the horrors of WW2. These, however, are
ideas rooted in the Western part of the world and are at the centre of a debate on
104
whether it is right or not to try to spread the same values imposing them to the rest
of the world.
Especially for linguistic and cultural mediators, who must maintain their
absolute duty of neutrality while maintaining a high moral rigour, as they range
across different ethnicities, languages, laws, cultures and religions, finding a
universal ethical code, always valid and applicable and never in conflict with the
specific customs of any of the interlocutors, seems to be particularly vital.
Such ethics therefore can not be the ones deriving form the current
universalist line of thought, which tends to go hand in hand with the globalization
of markets and the Westernisation of the world, tending to homogenize the various
systems into the Western concept of democracy subject to the economic
mechanisms of capitalism, resulting in cultural assimilation that gradually
standardizes ways of thinking and lifestyles for the economic needs of the united
market, as Serge Latouche believes, one of the most incisive critics of the
universalist ideology.
But in response to those who question the universalist perspective, defining it
a claim of Western civilization to impose a set of values considered to be valid for
the whole human race all over the world, on the other hand univeralism sustainers
argue that without it, there's the risk of ending up in relativism and particularism,
which lead to the exalting of particular cultures and therefore to ethnocentrism,
nationalism, and a defensive attitude of one's identity as in xenophobia.
According to Latouche however, it is precisely universalism that involves
105
such danger as it is merely a Western ideological creation precisely in the name of
its own identity. He claims instead the need to enhance the desire for a dialogue
between cultures which consists in the recognition and coexistence of a diversity
and dialogue between their differences.
Mediators then, while observing first of all international regulations and
keeping aware of local legal frameworks wherever they go, then the local uses and
customs, must always appeal to the universal values of knowledge and respect,
based on the perpetual acquiring of a deep cognition of humanity aiming at an
understanding of the self and the other, both from an individual and social point of
view, in order to be able to identify both the universal characteristics that make us
all part of mankind and the differences that make us interesting to one another,
without ever losing sight of the ultimate goal which is dialogue.
106
CONCLUSION
After identifying the different ways in which mediation applies in society, the
elements that it is made of and its purposes, we can review the cornerstone of its
responsibility with Aristotle’s syllogism, where the middle term is contained both
in the major premise and in the minor one, allowing the logical conclusion in
which the medium term is null.
This syllogism, where the middle term contained by both premises is
annulled, points out the essence of mediators, their ability on the one hand to
identify and create a relationship (based on trust) with both sides, on the other
hand their ability to put aside their own self in the communication process
between the two parties, regardless whether parties are intended as individuals or
cultures.
As we have seen it may just be one of the main difficulties for the mediator
to remain neutral towards user and operator but whenever for some reason they
feel they can not guarantee absolute neutrality, they must be able to resign from
the assignment rather than damaging the relationship of trust between the user and
the service.
Such trust is also based on the idea that the mediator will faithfully refer the
message of both parties to one another, not only with regard to the content of the
sentences but also with regard to their form, accurate or inaccurate it may be, and
the communication mode proposed by the speaker. So if the speech is vague or
107
inconsistent, the mediator should not improve it.
However the Preliminary in the code of Ethics of the Italian AITI association
for interpreters and translators says “It is the task of translators and interpreters to
ensure written and oral communication between speakers of different languages.
They shall work in the interests of peace, security, justice, health, well-being and
the economic, scientific and cultural development of peoples.” therefore the task
of mediators is not merely to transfer a message and they must apply all their
competencies in order to honour their task as described above and attend the
speakers even by intervening on the speech or text when the latter could result
incomprehensible or conflictual to the other party, as mediators must prevent from
an undesired diplomatic incident.
This is all the more possible when the mediator brings together technical
expertise and general skills, relational skills of communication and listening, skills
specific to mediation and innovation skills, good general knowledge, high moral
rigour governed by personal ethics and by professional ethics. These
characteristics should be complemented by knowledge of psychology, sociology,
communication, law and economics.
The codes of ethics also give much importance to the working conditions that
must be required by mediators when carrying out their duties in order to ensure a
yield up to expectations. Among the responsibilities of linguistic and cultural
mediators, and especially of interpreters, is therefore of utmost importance to be
able to demand the required conditions at work. The high brain strain that they
108
undergo during a simultaneous or consecutive translation requires compliance
with all the requirements for facilitating such activities. Translation always
requires a clear and rested mind, especially during simultaneous interpreting as it
consists of making immediate cognitive and intuitive associations, as in dividing
their attention in order to follow two things in contemporary, namely the speaker's
voice in one language and their own voice in another language. They must
therefore be aware of their limitations and have the authority to enforce
compliance with them.
We can finally conclude with the ever true principle of Socrates, “know
thyself”, which can only be reached gradually through everyday life experience,
by observing and listening. While awaiting to have such experience it is wise to
humbly rely on the instructions of those who have more of it than us.
109
La Responsabilité du
MÉDIATEUR LINGUISTIQUE ET CULTUREL
en général et du
TRADUCTEUR ET INTERPRÉTE
en particulier
110
SOMMAIRE
Introduction.........................................................................................................111
Premier Chapitre – La Médiation....................................................................114
1. Médiation civile et commerciale..........................................................115
2. Médiation familiale..............................................................................117
3. Médiation inter-culturelle.....................................................................119
4. Médiation dans les ONG......................................................................120
Deuxième Chapitre – Les Mots et Autres.........................................................122
1. Langues et Langages............................................................................123
2. Le pouvoir des mots.............................................................................124
Troisième Chapitre – La Responsabilité..........................................................126
1. Déontologies comparées.......................................................................126
2. L’Éthique universelle............................................................................127
Conclusion............................................................................................................130
111
INTRODUCTION
La médiation est un concept très large et s'applique à de nombreux domaines,
de l'éducation scolaire jusqu'aux relations internationales les plus complexes, en
passant par les négociations commerciales, les procès, la traduction littéraire,
l'interprétariat de conférence, et même la communication des médias, à la fois
informative et promotionnelle. Autant que l'on puisse disséquer le terme de
médiation et s'interroger sur les nombreuses fonctions possibles d'un médiateur,
nous arriverons toujours à la conclusion que la médiation est inévitablement liée à
la communication. Que la médiation se réalise dans un contexte juridique,
d'entreprise, culturel, linguistique ou interculturel, il s'agit toujours d'une
transposition d'idées dans une langue compréhensible pour une personne ou un
groupe de personnes, qui peut varier en largeur en fonction des circonstances, en
une autre langue compréhensible à une autre personne ou groupe de personnes
tout aussi variable. Donc, le but ultime du médiateur, en tant qu'intermédiaire
interposé entre deux parties en dialogue ou en conflit, est de permettre la
communication ou même la réconciliation.
Il est sans doute inutile de s'attarder sur l' importance d'une communication
saine à souligner la grande part de responsabilité que celle-ci peut impliquer. Il
suffit de citer quelques exemples, tels que la communication entre deux chefs
d’états, ou entre un philosophe capable de marquer le destin de l'humanité et ceux
qui veulent transcrire ses pensées, ou plus simplement entre le pilote d'un avion et
112
l'opérateur de la tour de contrôle. Tous exemples qui justifient le fait que les
langues, étant les principaux outils de communication, sont en constante
évolution, de plus en plus complexes et nuancées, afin d'offrir toujours plus de
précision dans l'expression de concepts toujours plus nombreux. Ceci dans le but
de réduire au maximum le risque des interprétations subjectives qui peuvent
conduire aux malentendus et aux erreurs.
Mais pour que nous soyons en mesure de nous prendre une responsabilité et
donc être en mesure d'appliquer tous les outils nécessaires pour la respecter, nous
devons d'abord être conscients de sa dimension et de ce qu'elle implique.
Dans cette thèse, l'on essayera d'identifier les éléments impliqués dans telle prise
de conscience et son étendue, ainsi que les conséquences possibles en cas de son
absence. Ceci en général dans l'activité des médiateurs, en donnant plusieurs
exemples de la façon dont l'art de la médiation s'applique, et en particulier dans
l'activité d'interprètes ou de traducteurs.
Il n'y aura pas une distinction claire entre interprète et traducteur dans cette
thèse dans le cadre de la médiation linguistique tout simplement parce que dans de
nombreuses langues ils sont désignés par le même terme. Bien que en français, en
italien et en anglais, ces deux professions sont considérées comme distinctes,
cependant en polonais, par exemple, nous utilisons le terme Tłumacz pour les
indiquer tous les deux, et tłumaczenie pour indiquer la traduction ou
l'interprétariat. Il est également intéressant de noter que tłumaczenie est le même
mot qui est utilisé pour désigner le concept d'expliquer, ce qui met en évidence le
113
lien étroit entre la traduction et la compréhension d'un texte, qui est en même
temps à la base du travail du médiateur et l'objectif final pour l'utilisateur de la
traduction/explication. D'ailleurs même l'Association Internationale des
Interprètes de Conférence (AIIC), malgré tous ses efforts dans la section de son
site web "interprétation expliqué", d'établir une nette distinction entre le traducteur
professionnel et l'interprète professionnel, offre finalement des services de
«traduction orale» se référant à l'interprétariat.
Avant d'examiner la question de la responsabilité et de l'activité spécifique de
la traduction (indépendamment du fait qu'il est écrit ou parlé) ou, plus
généralement, de la médiation linguistique et culturelle, peut-être, il peut être utile
d'offrir une compréhension plus approfondie de ce qu'est la médiation, de ses
origines à ses développements, afin de montrer son lien étroit avec le concept de
communication et donc ensuite avec les langages et les mots pour ensuite
procéder à démontrer la richesses de ceux-ci et les difficultés que telle richesse
pose.
114
Premier Chapitre – La Médiation
Si "médiation", venant du latin, indique être au milieu des moyens étant
interposé, étant dans le milieu, d'être un intermédiaire entre deux parties en
dialogue (ou en conflit) afin de faciliter une bonne circulation de la
communication entre elles, la médiation peut également être métaphoriquement
décrite comme la construction de ponts. Il s'agit de créer des ponts de
communication entre les cultures, les personnes, les communautés, parfois même
de la même culture, mais avec des intérêts ou des convictions opposées, ou tout
simplement parlant des langues différentes.
Selon Stefano Castelli, la médiation est un processus par lequel deux ou
plusieurs parties se tournent volontairement à un tiers neutre, le médiateur, afin de
réduire les effets indésirables d'un grave conflit. La médiation vise à rétablir le
dialogue entre les parties en vue d'atteindre un objectif précis: la réorganisation
des relations afin qu'elles puissent être plus satisfaisantes pour tout le monde. Le
but ultime de la médiation est atteint lorsque les parties ont pris le contrôle, dans
leur propre intérêt comme de tous les autres participants, chacun de leur propre
capacité de prise de décision active et responsable". Le concept de dialogue dans
la définition utilisée par l'auteur est donc la base de la médiation.
Le dialogue implique que la relation entre les parties soit égale et symétrique.
Il est facile d'imaginer comment, par exemple, lors de la médiation entre les
autorités locales et les immigrants, il peut y être à l'origine un fort déséquilibre,
115
ces derniers étant souvent désavantagés par rapport à l'autre partie.
Ensuite l'on peut remarquer un autre mot déterminant de la définition de
Castelli: relation. Afin d'établir et authentifier la dimension relationnelle entre les
parties un éducateur dois souvent recourir à des exemples et des témoignages, de
cette façon lui-même se met en relation, facilitant ainsi la compréhension entre les
élèves. Selon Tarozzi c'est la relation réciproque intentionnellement poursuivie qui
devient médiation".
Enfin également important dans la définition de Castelli est le concept de
"capacité de décision responsable", indicative de la façon dont le médiateur n'est
qu'une ombre dotée de conscience qui guide les parties à l'intérieur de la relation
de communication sans interférer avec sa liberté d'opinion et de choix, mais plutôt
en l'habilitant.
1. Médiation Civile et Commerciale
Si la communication et l'échange sont à a base de chaque formation sociale
de même en vaut-il pour le conflit. Ainsi la médiation basée sur la satisfaction des
besoins des parties vise à parvenir à un accord d'une manière tout à fait volontaire
permettant ainsi de maintenir une relation amicale. L'incapacité subjective
d'accepter la frustration résultant de l'imposition de l'autre engendre la violence et
les raccourcis mentaux qui empêchent les rapports d’évoluer de façon
constructive. La possibilité de promouvoir de nouveaux pactes sociaux se trouve,
116
au contraire, dans la capacité à vivre avec les conflits qui peuvent stimuler et
améliorer les compétences personnelles. La perspective donc change: il ne s'agit
pas de vivre ensemble sans conflit, mais plutôt de vivre mieux grâce aux conflits.
Ceci nécessiterait un changement de mentalité, en particulier au niveau du
comportement professionnel, où nous sommes formés pour combattre plutôt que
pour coopérer, à chercher la victoire d'un côté et la défaite de l'autre. Il serait
essentiel de passer d'une mentalité de confrontation à un état d'esprit de
coopération avec une nouvelle culture de conflit qui va au-delà de l'imagerie
traditionnelle de la guerre. Afin d'y parvenir il est donc nécessaire de développer
des compétences pratiques sur la façon de traiter de manière constructive les
conflits engendrant la croissance personnelle.
Dans les disputes civiles et commerciales, la médiation est une procédure
dans laquelle un tiers impartial, facilite la discussion en mettant en évidence les
intérêts des deux parties et en laissant à celles-ci la décision finale pour déterminer
leur accord, ou suggérant une solution possible au différend.
L'origine historique de la médiation visant à la réconciliation remonte à
l'ancienne Chine où la doctrine confucéenne dès le sixième siècle avant JC,
introduit une manière de concevoir les règlement de différends grâce à
l'intervention du Zhong Jian Ren - tierce indépendant et neutre – pour encourager
ou de tenter la conciliation directement.
En occident les Romains et ensuite l’Église ont amplement contribué à la
diffusion de telle pratique.
117
En temps modernes elle s'est affirmée tout d'abord aux Etats-Unis, tandis
qu'en Italie ce n'est que dans les années 1970 que les méthodes ADR (acronyme
de l'anglais Alternative Dispute Resolution) prennent pied. À partir de l'an 2003 il
y eut une série de législations qui régularisent les institutions aussi bien privées
que publiques qui offrent ce genre de services.
2. Médiation Familiale
Ces mêmes institutions qui s'occupent de médiation civile et commerciale
offrent également des services de médiation familiale. Celle-ci toutefois ne
bénéficie pas de la même régularisation légale et du titre de profession reconnue
par l'état, raison pour laquelle elle est d'habitude pratiquée par des s
professionnelles spécialisées en d'autres domaines, notamment des avocats, des
psychologues et lorsque sous ordre des autorités judiciaires, par des assistants
sociaux.
Ceux-ci se doivent bien entendu, comme le veut la définition même du
médiateur, d’être neutres et impartiales afin d'agir dans le seul but de l’intérêt du
mineur. Toutefois une série de conversations avec Maître Pellegrino du Centre
d'études juridiques sur la personne, et avec Mme Paolantoni des services sociaux
de la ville de Rome, ont permis de comprendre comment et pourquoi cette
impartialité est si souvent compromise.
Maître Pellegrino explique que la loi n°54 du 2006 inverse complètement la
118
discipline regardant la garde des enfants en cas de divorce ou séparation. Tandis
qu'auparavant ils étaient confié à un seul parent, d'habitude la mère, avec cette loi
on veut encourager la garde partagée en vue du principe de la coparentalité, sauf
dans certaines situations exceptionnelles où la coparentalité pourrait représenter
un danger ou désavantage pour le mineur. Ce principe est émergé déjà lors de la
Convention sur les droits de l'enfant à New York en 1989, mais sa mise en œuvre
est due aussi à une forte activité de plaidoirie de la part de plusieurs associations
pour les pères séparés qui ont fait suffisamment parler de soi pour influencer
l'opinion publique et la mentalité de la société sur les thèmes de maternité et
paternité, ainsi que pour devenir partie intégrante de la formation de tous les
professionnels qui travaillent dans le secteur de la famille, d'une part représentant
une évolution de la société vers une majeure égalité des hommes et des femmes, et
d'autre part créant une tendance générale à voir ces pères comme des victimes
auxquelles on empêche de voir ses propres enfants, et les mères comme des
bourreaux. Sans aucun doute il s'agit d'une réalité, mais la réalité la plus
inquiétante n'est peut-être pas nécessairement la plus diffusée.
Mais à part les campagnes de propagande et la nouvelle formation quoi
d'autre peut porter les médiateurs à perdre de vue leur neutralité. La réponse à
cette question pourrait se trouver dans celle à une autre question, posée à Mme
Paolantoni des services sociaux de Rome: Pourquoi devient-on médiateur? Peut-
être pour la volonté de pouvoir aider les autres à s'en sortir avec les difficultés
qu'on a déjà affronté soi-même. Il est facile de faire l'hypothèse selon laquelle un
119
médiateur familial aie vécu soi-même les conflits familiaux que comportent une
séparation et la douleur de l'absence du père que comportait le vieux système de la
parentalité singulière dans ces cas.
Nous sommes tous conditionnés par notre passé mais les médiateurs peut-
être plus d'autres doivent s'interroger sur la portée de cette influence.
En outre si la médiation entre deux parents séparés, lorsqu'elle est ordonnée
par un juge, doit se faire par les assistants sociaux, et pour être assistants sociaux
en il faut avoir la nationalité du pays, on peut facilement imaginer les difficultés
de la neutralité dans le cas où la nationalité d'un des parents soit étrangère et celui-
ci présente un modèle d'éducation et culture différent de celui de l'assistant social.
3. Médiation inter-culturelle
Considérant les flux migratoires en hausse et les cultures toujours plus
lointaines qu'ils rapprochent, on doit forcément se poser le problème de la
communication entre autochtones et étrangers. Actuellement, il n'est pas facile
d'analyser le concept de médiateurs interculturels et dresser une liste détaillée des
fonctions et les compétences auxquelles ils doivent s'adapter. Elle implique des
fonctions très diverses, qui nécessitent une préparation approfondie qui vont de la
connaissance linguistique, de la pédagogie, des techniques de médiation
linguistique et culturelle, connaissances des questions de migration, à la capacité
de recueillir des informations sur les événements sociaux et politiques dans les
120
pays d'origine des migrants, à la capacité de garder un esprit ouvert et un
détachement constructif en même temps, à la familiarité avec les procédures de
services publics et privés, à la fois locaux et à l'étranger, à la gestion des conflits
d'ordre inter-culturel.
Le phénomène se présente de même dans les écoles où de plus en plus
d'enfants étrangers ont besoin de médiateurs linguistiques et culturels qui les
aident à s'insérer et à comprendre le système auquel ils doivent s'adapter, ainsi que
à valoriser et partager leur culture avec les autochtones.
Une façon de diviser les différentes méthodes de médiation est celle entre la
plaidoirie qui dans le contexte inter-culturel se manifeste quand le médiateur se
trouve en position de devoir faire valoir les droits de l'immigré, et la
autonomisation, quand le médiateur fournit à l'immigré toutes les informations
nécessaires pour lui permettre de se rendre indépendant.
4. Médiation dans les ONG
Les concepts de la plaidoirie et autonomisation sont particulièrement
pertinents si l'on considère la médiation comme effectuée par les organisations
non gouvernementales représentant les communautés ou groupes spécifiques dans
le contexte à la fois national et international. Celles-ci soutiennent, interprètent et
transmettent les besoins politiques et économiques instantanés des mouvements
sociaux locaux dans le but d'améliorer le droit international, d'ajuster l'agenda
121
politique national ainsi que de procurer les fonds nécessaires pour offrir assistance
dans les situations d'urgence et financier la recherche scientifique.
Afin d'engager ces campagnes de solidarité et de médiation entre les autorités
et les communautés désavantagées, les ONG se servent principalement des outils
médiatiques traditionnels tels que les affiches, les spots télévisés ou
radiophoniques, les chaînes d'information, ainsi que des outils médiatiques plus
interactifs comme les réseaux sociaux les plus fameux, notamment Facebook,
Twitter, et autres plates-formes qui servent à partager les infos, images, vidéos
etc., comme Youtube, Flickr et d'autres.
Le cas du spot réalisé par la FID (Fédération Internationale du Diabète) l'an
dernier est emblématique de la difficulté d'attirer l'attention des indifférents sans
vexer la communauté directement concernée, donc dans la médiation entre cette
communauté et le public général, ainsi que sans contrarier les sponsors qui
investissent sur les campagnes des ONG en échange d'une bonne image publique,
mais surtout de l'importance des images mais encore plus des mots que l'on choisi
lorsqu'on transmet un message d'impact. Une seule phrase faite de trois mots a
coûté à la FID la perte de nombreux consensus outre que de ressources investies
sur la campagne.
Ayant introduit l'importance des mots et de la façon de communiquer il est
temps d’approfondir ce thème afin de voir ce qu'il implique.
122
Deuxième Chapitre – Les mots et Autres
Le mot communiquer dérive du latin cum et munire, c'est-à-dire avec et
construire, donc constuire avec, et du latin communico, c'est-à-dire mettre
ensemble ou rendre participe. Sa définition plus immédiate renvoie donc à l'idée
de distribuer des information et partager. La communication est un phénomène qui
nécessite de plusieurs éléments: un système qui transmet qu'on appelle émetteur,
un message, un canal de transmission, un code formel qui donne une forme
linguistique au message, et enfin un système qui reçoit qu'on appelle destinataire.
Envoyer des informations est une activité constante de toutes formes
vivantes, conscientes ou non, et donc bien que le langage verbal soit un
phénomène humain, la communication ne l'est pas, et il est donc inévitable
conclure que le langage, en tant que système de communication, se manifeste
aussi sous d'autres formes.
1. Langues et langages
Tandis que le langage est un système de communication qui peut donc être
verbal ou non, par exemple le langage du corps, celui des signes, etc, la langue est
un système de codification du langage verbal déterminé par la communauté qui la
parle, sa location géographique et son histoire.
La langue donc change considérablement en fonction des facteurs qui
123
influencent ceux qui la parlent, comme la prononciation qui change en fonction de
la position sociale ou géographique, ainsi que le lexique en fonction du domaine
de spécialisation de l'interlocuteur, ou même simplement du sexe, l'utilisation
idéologique qu'il fait des concepts et d'autres encore.
Compte tenu de la relation entre la langue, le langage et la société la
compétence linguistique n'est plus le centre de la compétence communicative
mais n'en est qu'un des aspects. Effectivement les facultés de la communication
sont faites de bien d'autres éléments tels que les variations para-linguistiques,
celles kinésiques, proxémiques, pragmatiques, et socio-culturelles. Ceci fait que la
communication positive est basée sur la capacité de créer des rapports sur un fond
socio-culturel qui, dans le cas de la communication inter-culturel consiste en faire
interagir des fonds socio-culturel différents les uns par rapport aux autres.
L’École Romantique se référait déjà au rapport étroit entre langage et identité
culturelle à moitié du 19ème siècle avec le nom de «esprit» du peuple.
C'est peut-être justement dans la traduction de textes littéraires que ce rapport
étroit pose le plus de doutes: si traduisant tâcher de maintenir le plus intacte
possible le langage utilisé par l'auteur étant donné qu'il est représentatif de sa
culture et son histoire, ou plutôt se détacher du texte pour en traduire les concepts
contenus dans le langage le plus naturel pour les destinataires. Prétendre que ceux-
ci fassent l'effort de découvrir aussi ce qu'il y a derrière le texte ou leur rendre le
plus simple possible la compréhension de son contenu.
Dans le sens de faciliter la communication entre les peuples furent inventées
124
les langues artificielles comme l'interlingua et l’espéranto. Ce dernier est même si
diffus qu'ils se trouvent depuis une vingtaine d'années au centre de débats car
certains le voient comme une possibilité pour réduire les dépenses de l'Union
Européenne en traductions. L'U.E. toutefois jusqu'ici a retenu que chaque pays aie
le droit de lire les législations dans sa propre langue.
2. Le pouvoir des mots
La parole est une faculté typiquement humaine qui a toujours eu une
importance fondamentale dans toutes les cultures, non seulement comme forme
immédiate de communication mais aussi comme possession pour l'éternité gràce à
l'écriture. Dès leur origine les mots sont devenu l'instrument le plus efficace pour
rappeler, éduquer et persuader.
De nombreuses histoires sont parvenues à nos générations bien qu'elles
n'aient existé que sous forme orale pendant des siècles, grâce à la récolte et
transcription de certains écrivains dotés de curiosité anthropologiques, et
représentent aujourd'hui un patrimoine de grande valeur qui nous permet
d'apercevoir ne serait-ce qu'un morceau de ce qu'était la culture de nos ancêtres et
donc de notre évolution.
Mais la transcription est un processus qui comporte de nombreuses pertes et
distorsion de l’événement communicatif oral, sans parler des inévitables
mutations que comporte le passage oral d'une personne à l'autre, chacune avec sa
125
façon d'interpréter et mettre en scène l'histoire. Si nous appliquons ces
considérations à un autre texte bien plus important des histoires, la Bible, le livre
le plus traduit, publié et vendu de tous les temps, le plus influent pour notre
histoire et notre culture, nous pouvons nous rendre compte de la gravité de ces
pertes et distorsions. Erri De Luca à ce propos dit que la Bible a introduit des
façons de penser et de vivre qui auraient pu être tout à fait différents si seulement
l'on avait prêté plus d'attention à la façon de traduire certains verbes, adjectifs ou
allocutions.
Il est donc inévitable conclure que les mots tous seuls impliquent une énorme
responsabilité de la part de qui les utilise.
126
Troisième Chapitre – La Responsabilité
Le mot responsabilité peut avoir deux connotation différentes, celle négative
qui laisse entendre la faute, et celle positive représentée par l'engagement à
maintenir une conduite cohérente et correcte.
Lorsqu'il s'agit de responsabilité professionnelle il est amusant de remarquer
que les mots profession et responsable sont reconductible à la même étymologie
latine de profiteor qui veut dire promettre publiquement et spondeo qui veut dire
«assumer solennellement un devoir de nature religieuse» et sont donc parties
intégrantes de l'identité de l'opérateur, en tant que déclaration d'engagement
envers la personne qui l'emploie.
La responsabilité professionnelle dérive typiquement de quatre éléments:
l'assertion scientifique des fonctions et activités prévues par la profession
réglementation législative de la profession
codification de la déontologie professionnelles
valeurs morales et étiques partagées dérivantes de la conscience
personnelle.
1. Déontologies comparées
Un article du journal italien Sole24ore compare le code étique des médiateurs
civiles et commerciaux avec ceux d'autres professions, comme par exemple celui
127
des médecins qui introduit le concept de l'apprentissage continu, celui des
psychologue qui introduit l’auto-détermination, celui des avocats qui parle de
confiance, celui des comptables qui donne importance à la conduite personnelle
au-delà de celle professionnelle, et enfin celui des juges qui impose la garantie
totale de l’impartialité et de l'équidistance. Cette comparaison peut être appliquée
a toutes les branches de la médiation.
D'ailleurs si on compare cette liste avec les codes étiques des associations
pour traducteurs et interprètes, par exemple l'AIIC, l'AITI, ou encore l'UNITALY,
on y trouve que tous les éléments ci-dessus mentionnés en font partie, outre le
secret professionnel, la fraternité entre collègues, et le code d'honneur qui interdit
au médiateur d'exprimer publiquement ses opinions politiques ou idéologiques.
Les codes de ces associations toutefois donnent aussi une particulière importance
aux conditions de travail à exiger, vu l'effort mental considérable que comporte
l'activité d'interprète, afin de garantir toujours un service à la hauteur, étant donné
que les codes interdisent de nuire de quelconque façon à l'image de la profession.
Analysant attentivement ces codes on en arrive à conclure que les médiateurs
doivent avoir une impeccable préparation et une culture générale extrêmement
vaste grâce à l'apprentissage continu, un comportement déontologique bien
articulé ainsi que une grande rigueur morale accompagnée d'un caractère résistant
au stress et à la pression.
2. L’Étique universelle
128
Une brève analyse de ce que l'on entend par rigueur morale ou étique au-delà
des règlements déontologiques est nécessaire vu que comme plusieurs fois
mentionné auparavant, la conduite personnelle a autant d'importance que celle
professionnelle.
L’étique est une discipline de la philosophie qui cherche à distinguer les
comportements humains entre dignes ou justes, et incorrectes ou inadéquats. La
recherche d'une étique universelle, qui vaut au-dessus de tout, remonte à la nuit
des temps et déjà dans l'ancienne citée de Ur fut rédigé un document sur les droits
naturels, c'est-à-dire ceux qui valent sur la base de la seule qualité d’être humain,
et auxquels on donne une force supérieurs à tous les autres.
En temps plus récents on peut identifier ces tentatives dans la Carte des
Droits de l'Homme adoptée par les Nations Unies et par l'Union Européenne.
Celle-ci toutefois sont nées à partir de conceptions occidentales et s'il est juste de
les considérer universelles est encore en débat.
Pour les médiateurs linguistiques et culturels qui doivent savoir s'insérer
discrètement dans les différentes cultures et dont le but est précisément d'établir
une communication pacifique, il semble particulièrement important de trouver
une étique toujours valable dans chaque pays du monde afin de ne pas courir le
risque de vexer un interlocuteur.
Telle étique donc ne peut être celle universaliste qui selon Serge Latouche
tend à être en parallèle avec le développement de la globalisation des marchés et
129
homogénéisation du monde en fonction de la vision occidentale d'une démocratie
qui doit satisfaire les exigences économiques du capitalisme. Selon Latouche au
contraire il faut encourager le désir d'un dialogue entre les différences.
Les médiateurs donc devront s'abstenir à observer les lois internationales et
locales, ainsi que les coutumes des peuples, et faire appel à la seule valeur
universelle du respect qui se base sur la connaissance profonde de l'humanité et
donc l'acquisition continue d'informations et d'études afin d'achever la
compréhension de soi et de l'autre, tu point de vue individuel et social, pour savoir
de cette façon reconnaître les qualités universelles qui nous rendent tous partie
due genre humain et à la fois découvrir les différences qui nous rendent
intéressants les uns aux autres, sans jamais perdre de vue que le but final est celui
du dialogue.
130
CONCLUSION
Ayant identifié les différentes manifestations de la médiation et les éléments
qu'elle comporte nous pouvons résumer le fondement de la responsabilité avec le
syllogisme d’Aristote, où le terme moyen est présent aussi bien dans la prémisse
majeure que dans celle mineure annulant donc le terme moyen même.
Ce syllogisme souligne parfaitement l'essence du rôle du médiateur qui doit
savoir d'une part s'identifier et créer un rapport (basé sur la confiance) avec
plusieurs parties à la fois, et d'autre part doit savoir annuler soi-même dans le
processus de communication. Ceci représente une des difficultés majeures de la
médiation, et dans le cas où le médiateur n'est pas sûr de pouvoir garantir la
neutralité il doit savoir renoncer à la tâche plutôt que de risquer de gâcher le
rapport de confiance entre utilisateur et service.
Tel confiance se base entre autre sur la certitude que le médiateur référera
fidèlement le message des interlocuteurs les uns aux autres. Telle fidélité ne
regarde pas seulement le contenu verbal des phrase mais aussi leur forme, qu'elles
soient précises ou non, et les modalités de communication utilisées par le locuteur.
Selon ce concept de fidélité si le discours n'est pas clair le médiateur n'a pas
la liberté de l'altérer pour le rendre plus compréhensible. Toutefois si, comme dit
le préambule du code d'éthique des traducteurs et interprètes, leur tâche est celle
de garantir la communication écrite et orale entre les personnes parlant des
langues différentes et ils doivent travailler dans l’intérêt de la paix, de la sécurité,
131
de la santé, du bien-être et pour le développement économique et culturel des
peuples, alors on peut dire que la tâche du médiateur n'est pas seulement de
transmettre fidèlement un message bien si d'appliquer tous les outils dont il
dispose pour faire en sorte que la communication soit réussie. Il s'agit donc d'une
responsabilité linguistique et herméneutique, où la traduction se fait explication
comme la désigne le terme polonais de tłumaczenie.
Il y a de plus la responsabilité de faire valoir les conditions de travail et ses
propres exigences nécessaires pour garantir le bon résultat de la prestation,
responsabilité qui nécessite de l'application du principe de Socrate de se connaître
soi-même qui s’acquiert graduellement avec l'expérience.
132
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