1. Il rapporto con le altre discipline che hanno per oggetto di … · 4 G. Sartori, La politica,...

52
1. Il rapporto con le altre discipline che hanno per oggetto di studio “i partiti”. Non c’è dubbio che nella trattazione del tema “partiti” vi è stata nel nostro paese una prevalenza degli scienziati della politica, dei sociologi del diritto, degli studiosi dei sistemi costituzionali e di statistica elettorale. I loro contributi sono stati in qualche caso molto originali e risultano molto utili per il loro carattere interdisciplinare e comparatistico, ma non possono sostituirsi all’indagine storica. Nessuno nega l’utilità della comparazione e non si possono non condividere le affermazioni di Sartori e di Morlino quando sostengono che: «non esiste una logica della comparazione propria della scienza politica, e una diversa, propria della sociologia, o ancora dell'economia e delle altre scienze sociali. [...] Quando si compara, i problemi della spiegazione e dell'analisi del tempo non sono esclusivi della scienza politica, e ininfluenti per altre discipline » 1 . Gli scienziati della politica si sono spesso interrogati sull’importanza di un’analisi storica. Sempre Sartori, qualche anno fa, affermava che «prima di portare avanti questo discorso [una classificazione dei partiti] è necessario chiarire i tempi dello sviluppo e della trasformazione storica dei partiti. L’esame della sequenza storica è preliminare ad ogni altro. Anche perché la stessa terminologia di cui disponiamo per caratterizzare i partiti deriva in massima parte da qualche tipo storico di partito» 2 . Anche Pasquino, nella prefazione al libro di Charlesworth su Teorie e metodi in Scienza Politica tradotto da Il Mulino nel 1971 affronta il problema del rapporto tra scienza politica e metodo storico, non nascondendo che spesso tra i politologi prevale un rifiuto del metodo storico. Il problema, secondo Pasquino, può essere risolto attraverso l’adozione del metodo comparato: «Della storia si può fare anche un altro uso servendosi degli avvenimenti storici come di scenari e costruendo sulla loro falsariga altri scenari in base a mutate condizioni e a obiettivi alternativi. Certo, lo sappiamo tutti, non si può fare la storia con i se e con i ma: è, però, soltanto cercando di capire quali sono stati i punti cruciali, le scelte condizionanti e le svolte decisive che la storia può veramente diventare magistra vitae» 3 . 1 G. Sartori, L. Morlino, La comparazione nelle scienze sociali, Il Mulino, Bologna 1991. 2 G. Sartori, Partiti e sistemi di partito, Ed. Universitaria, Firenze 1964-65. 3 G. Pasquino in J. C. Charlesworth, Teorie e metodi in Scienza politica, Il Mulino, Bologna 1971, p. 15n.

Transcript of 1. Il rapporto con le altre discipline che hanno per oggetto di … · 4 G. Sartori, La politica,...

1. Il rapporto con le altre discipline che hanno per oggetto di studio “i partiti”.

Non c’è dubbio che nella trattazione del tema “partiti” vi è stata nel nostro paese una

prevalenza degli scienziati della politica, dei sociologi del diritto, degli studiosi dei sistemi

costituzionali e di statistica elettorale. I loro contributi sono stati in qualche caso molto

originali e risultano molto utili per il loro carattere interdisciplinare e comparatistico, ma non

possono sostituirsi all’indagine storica. Nessuno nega l’utilità della comparazione e non si

possono non condividere le affermazioni di Sartori e di Morlino quando sostengono che:

«non esiste una logica della comparazione propria della scienza politica, e una diversa,

propria della sociologia, o ancora dell'economia e delle altre scienze sociali.[...]

Quando si compara, i problemi della spiegazione e dell'analisi del tempo non sono

esclusivi della scienza politica, e ininfluenti per altre discipline»1. Gli scienziati della

politica si sono spesso interrogati sull’importanza di un’analisi storica. Sempre Sartori,

qualche anno fa, affermava che «prima di portare avanti questo discorso [una

classificazione dei partiti] è necessario chiarire i tempi dello sviluppo e della trasformazione

storica dei partiti. L’esame della sequenza storica è preliminare ad ogni altro. Anche perché

la stessa terminologia di cui disponiamo per caratterizzare i partiti deriva in massima parte

da qualche tipo storico di partito»2. Anche Pasquino, nella prefazione al libro di

Charlesworth su Teorie e metodi in Scienza Politica tradotto da Il Mulino nel 1971 affronta il

problema del rapporto tra scienza politica e metodo storico, non nascondendo che spesso

tra i politologi prevale un rifiuto del metodo storico. Il problema, secondo Pasquino, può

essere risolto attraverso l’adozione del metodo comparato:

«Della storia si può fare anche un altro uso servendosi degli avvenimenti storici come di

scenari e costruendo sulla loro falsariga altri scenari in base a mutate condizioni e a

obiettivi alternativi. Certo, lo sappiamo tutti, non si può fare la storia con i se e con i ma: è,

però, soltanto cercando di capire quali sono stati i punti cruciali, le scelte condizionanti e le

svolte decisive che la storia può veramente diventare magistra vitae»3.

1 G. Sartori, L. Morlino, La comparazione nelle scienze sociali, Il Mulino, Bologna 1991.

2 G. Sartori, Partiti e sistemi di partito, Ed. Universitaria, Firenze 1964-65.

3 G. Pasquino in J. C. Charlesworth, Teorie e metodi in Scienza politica, Il Mulino, Bologna 1971, p. 15n.

Giuliano Urbani, per esempio, ha ritenuto che il metodo storico sia inutilizzabile per la

Scienza politica, per la natura stessa dell’indagine storiografica che è «individualizzante».

L’inutilizzabilità deriverebbe secondo Urbani dal fatto che «la spiegazione storica è diversa

da quella della Scienza politica solo a causa del carattere individuante dei propri strumenti

d’indagine»4.

Sartori ritorna sull’argomento qualche anno dopo, spiegando che:

«Dopotutto la storia è un immenso deposito di esperienze, esperienze (non esperimenti)

dalle quali ricaviamo, o possiamo ricavare, conferme o smentite. In linea di principio,

dunque, negare la storia è assurdo, è autolesionismo. Il problema non è se la storia sia una

preziosa fonte di dati alla quale attingere: lo è. Le perplessità sorgono sul come, e cioè su

come utilizzare il materiale storico ai nostri fini, che sono – ricordiamolo – fini di controllo»5

Ma Sartori arriva alla conclusione che il controllo storico è, per la Scienza politica, più

debole di quello comparato soprattutto per la reperibilità dei dati perché «ogni epoca

registra se stessa per come si vede, con le sensibilità e gli interessi conoscitivi che ha. A

questo effetto, dunque, il controllo storico si imbatte in un ostacolo che risulta insuperabile,

e che certo ne limita grandemente l’applicabilità»6.

Tra gli interventi più recenti riguardanti i possibili reciproci contributi tra le due discipline si

sottolinea in particolare quello di A. Panebianco, Per una storia del partito politico: il

contributo della politologia, in cui viene messa in luce la sovrapposizione di confini tra

Scienza politica e storiografia. Secondo Panebianco, «la scienza politica e la sociologia

hanno messo capo a un corpo piuttosto ragguardevole di modelli, teorie, o anche soltanto

semplici generalizzazioni empiriche a carattere induttivo […], di cui gli storici più accorti

fanno uso nel loro lavoro» (pag. 776). Ma anche la storiografia è utile alla scienza politica:

«Osservato dal punto di vista della scienza politica il rapporto con la storiografia si presta a

due considerazioni: la prima, più ovvia, riguarda, da un lato l’elaborazione di

generalizzazioni e, dall’altro, il controllo empirico delle teorie. Per entrambi i compiti il lavoro

storiografico, e quindi le conoscenze storiche accumulate, sono l’inevitabile punto di

3 G. Urbani in AA. VV. , Antologia di Scienza politica, a cura di G. Sartori, Il Mulino, Bologna 1970, p. 42.

4 G. Sartori, La politica, Sugarco, Milano, 1979, p. 248.

6 Ibidem, p. 250

riferimento del politologo; la seconda, forse meno ovvia […] riguarda il carattere

storicamente condizionato dei modelli e delle teorie che la scienza politica di volta in volta

elabora»7.

Molto significativa a tal proposito è la citazione di Weber da parte di Panebianco:

«Restando al problema del contributo che la scienza politica può offrire alla storiografia,

credo che si debba partire dalla celebre tesi di Weber secondo il quale le scienze sociali

dette sistematiche (sociologia, scienza politica, ecc.) hanno come loro compito specifico

quello di soddisfare una particolare esigenza: svolgere quel modesto lavoro preparatorio

(che in realtà, richiede un addestramento specifico) di fornire a chiunque voglia farne uso, e

in primo luogo agli storici, non teorie generali (che per lo più non esistono) ma

generalizzazioni empiriche e modelli – tipi ideali nell’accezione weberiana – che

rappresentano indispensabili artifici metodologici mediante i quali soltanto è possibile la

ricerca storico-empirica»8.

E partendo dalla considerazione che la Scienza politica può indubbiamente risultare utile

alla storiografia politica, anche Pombeni ricorre a Weber nella elaborazione di una

categoria idealtipica (la forma-partito, di cui parleremo), nella convinzione cioè che sia

impossibile operare nella storia politica senza la costruzione di «elementi di misura»9. Dello

stesso parere è anche G. Are, secondo il quale la Scienza politica è utilissima alle indagini

storiografiche riguardanti gli argomenti politici, quindi anche la storia dei partiti, scrive infatti:

«Per quanto mi riguarda non credo che si possa più fare la storia politica del presente

senza ricorrere ampiamente a categorie o inventate o ampiamente collaudate in sede di

scienza politica. Tali ad esempio: gli andamenti e i comportamenti elettorali; gli indici di

insediamento dei partiti e dei sindacati; la qualificazione sociologica dei militanti e dei

votanti per i diversi partiti; gli indicatori di polarizzazione; l’analisi delle strutture di comando,

e dei modi di formazione e di selezione del personale dirigente; l’analisi degli inputs e degli

outputs dei processi decisionali; quella del rapporto fra personale politico e gruppi

d’interesse; e via esemplificando. […] Riconosco, dunque, alla Scienza politica un’utilità

7 in G. QUAGLIARELLO, Il partito politico nella belle époque, Giuffrè, Milano 1990, p. 776.

8 Ibidem, pp. 777-778

9 Cfr. P. Pombeni, La storia come scienza della politica. A proposito della forma partito, in G. Quagliarello, cit.

, pp. 61-84 e Introduzione alla storia dei partiti politici, Il Mulino, Bologna 1990.

incostituibile per una storiografia del presente d’impostazione moderna»10.

Tuttavia l’autore critica la Scienza politica di questi anni soprattutto per la sua difficoltà

nell’applicazione di classificazioni troppo rigide e di tipi ideali. La Scienza politica, cioè, di

fronte a tutto ciò che ha l’impronta del «nuovo, della svolta, della scelta drammatica, del

mutamento qualitativo», ossia davanti a tutto ciò che «costituisce l’essenza stessa del

divenire storico», perderebbe addirittura ogni carattere di scienza, cioè ogni capacità

previsionale, e sarebbe persino «sprovvista di qualunque strumento che la caratterizzi e le

dia attitudini conoscitive in qualche modo più penetranti di quelle che ha un comune dotato

osservatore politico bene attrezzato di cultura storica, e fornito di esperienza del mondo in

generale e dei fenomeni osservati in particolare»11. La conclusione di Are è molto

significativa e meriterebbe forse maggiore attenzione:

«Insomma se lo storico ha tutto da guadagnare dall’assimilare nella sua opera risultanze e

materiali della ricerca politologica, lo scienziato politico ha ancora più da guadagnare dal

percepire con modestia i limiti dei propri strumenti; e soprattutto dal comprendere che

nessuno di questi lo dispensa dal formulare in ultima istanza le proprie conoscenze nei

modi del discorso storico e dal punto di vista dello svolgimento storico. Se dovessi tradurre

ciò in termini prescrittivo-istituzionali direi che la formazione dello scienziato politico

dovrebbe avere una base più storicistica che comportamentistica. E dovrebbe esser

depurata dall’illusione di poter mai usare strumenti capaci di definire relazioni univoche fra il

presente e il futuro; e ancor meno di predeterminare questo»12.

In soccorso al valore del metodo storico e alla positività di una interdisciplinarità rimane la

posizione di Giorgio Sola, la cui produzione scientifica, peraltro, attesta una particolare

vicinanza alla metodologia della storia del pensiero politico. L’occasione gli è data dalla

curatela di una serie di scritti sul problema del partito in Gramsci, che secondo Sola aveva

tentato di «rivitalizzare una scienza politica storicizzata che identifica la politica con la

storia», nel tentativo cioè di «conciliare materialismo storico e scienza politica». Gramsci

costituirebbe quindi un modello in cui l’analisi dei partiti si dispiega attraverso due percorsi

complementari:

10

G. Are, Scienza politica e storiografia: commento, in “Rivista italiana di Scienza politica”, 1, IL Mulino, Bologna 1991, pp. 138-139. 11

Ibidem, p. 140. 12

Ibidem, p. 142.

«Un percorso configura la necessità di ricostruire la storia dei partiti politici; un secondo

percorso delinea invece l’opportunità di edificare una teoria che, differenziandosi da una

dottrina meramente prescrittiva, si alimenti di concetti, tipologie e generalizzazioni

empiriche. […] La raccolta di materiale grezzo e di osservazioni empiriche viene

considerata di grande rilievo e meritevole di costituire la base di partenza per uno studio

scientifico dei partiti»13.

Gramsci avvalorerebbe quindi un approccio secondo il quale «solo un’analisi accurata dei

fatti storici può mettere in rilievo gli aspetti costanti e gli aspetti variabili dei fenomeni

politici, come pure può evidenziare l’apparire di fattori nuovi e mettere in luce la caducità,

l’estinzione o la sostituibilità di equilibri ritenuti, in una data epoca e in una data società,

inevitabili e immodificabili»14, ciò a cui in parte sembra alludere Are nella sua critica alla

Scienza politica attuale.

Rapporti tra indagine storica e Scienza politica sono stati messi recentemente in evidenza

ancora da G. Pasquino, quando sottolinea come la Scienza politica abbia privilegiato il

ruolo della storia come fonte di materiale sul quale fondare generalizzazioni e teorie15 e da

M. Cotta, il quale sostiene che «funzioni e modi di operare dei partiti hanno mostrato di

mutare nel tempo. Molte analisi storico-comparate si sono quindi concentrate

sull’evoluzione dei partiti individuando – pur all’interno di una notevole varietà a seconda

della ideologia, base sociale, condizioni istituzionali specifiche per specifici partiti – una

tendenziale successione dei vari tipi nel tempo”16.

Considerando queste premesse, che attestano una posizione che non è univoca nei

confronti della validità del metodo storico e della positività della interdisciplinarità, non si

può negare che gli studi di carattere politologico hanno qualche volta il difetto di non aver

utilizzato appieno la potenzialità del metodo storico.

Bisogna dire che il discrimine tra la storia dei partiti e la scienza della politica sta nel fatto

che quest’ultima cerca di comprendere (verstehen) i fenomeni politici (Weber) o individuare

13

G. Sola, Scienza politica e analisi del partito in Gramsci, in Gramsci: il partito politico nei Quaderni, a cura di S. Mastellone e G. Sola, CET, Firenze, 2001, p. 36-37. Nel passo citato è stato omesso il riferimento di Gramsci al metodo di Michels, nei confronti del quale il giudizio di Gramsci è ambivalente: da una parte «la consueta critica all’impostazione sociologica», dall’altra «le numerose annotazioni che, tratte proprio da questo lavoro, serviranno a Gramsci per affrontare lo studio dei partiti in chiave empirica e non ideologica». La raccolta di materiale grezzo, infatti, si riferisce al metodo di Michels. 14

Ibidem, pp. 30-31. 15

In Corso di scienza politica, Il Mulino, Bologna 2000. 16

In Scienza politica, Il Mulino, Bologna 2001, p. 229

un “sistema di leggi” (Kaplan) e, più specificamente per quanto riguarda la formulazione

della teoria del partito, la scienza della politica tende a costruire un tipo ideale di partito o di

modelli di partito astratti, cercando di dimostrare deduttivamente l’aderenza di singole

fattispecie a tali modelli. Se si privilegia lo studio dei sistemi e si procede per grandi

classificazioni si rischia di confezionare - seppure come ipotesi di lavoro - delle forme-

partito idealizzate, aventi cioè dei caratteri tanto generali da divenire “ombre della realtà”. In

definitiva, bisogna che i modelli interpretativi seguano e non precedano la ricostruzione

storica dei fenomeni. Sarebbe poco coerente al carattere scientifico della teoria della

politica se i politologi volessero prevedere il futuro come se i partiti ed i movimenti fossero

degli organismi viventi, determinati cioè nella loro evoluzione da leggi biologiche. Per parte

sua, lo storico sa che la storia non è una scienza esatta, in quanto i fenomeni storici non

sono regolati da leggi di sviluppo. Egli, quindi, può solo segnalare analogie e rapporti di

casualità relativamente, però, ad avvenimenti che si sono prodotti nel passato. La

politologia dà, invece, preferibilmente risultati scientifici nell’osservazione dei fenomeni

attuali, anche se un’osservazione dei fenomeni sul lungo periodo e l’adozione di un

approccio storico non può che essere d’aiuto. Giova comunque concludere con una

citazione di Gaetano Mosca, dal quale si fa “iniziare” la Scienza politica, che dà luce al

valore del metodo storico e agli effetti positivi che l’interdisciplinarità può avere sui risultati

scientifici:

«Si rifletta che fra gli ostacoli al suo svolgimento che noi abbiamo enumerato, quello che è

senza dubbio il più importante, la scarsità e l’imperfezione dei materiali storici, senza

riparare al quale niente di serio si potrebbe intraprendere, oggi si può dire che più non

esista. Ora che non solo conosciamo la storia della Grecia, di Roma, quella del Medio Evo

e la moderna immensamente meglio di come la conoscevano i nostri avi di un secolo fa,

ma possiamo anche giovarci della storia degli Imperi dell’antico Oriente, di quella della

China, del Giappone e delle Indie, intorno alla quale non si avevano che idee

imperfettissime; oggi che siamo al caso di essere, come siamo, perfettamente informati

della struttura e dell’organizzazione sociale non solo dei popoli nostri vicini, ma anche di

quella dei più lontani e di civiltà e di cultura più differente dalla nostra; oggi infine quando le

materie sussidiarie alla storia nel raccogliere e valutare i fatti sociali, la statistica,

l’archeologia, la preistoria, l’etnografia, la filologia comparata, vengono a dirci tante cose

nuove sull’uomo e le società umane, non possiamo veramente ancora asserire che siano le

cognizioni ed i fatti che ci manchino per poter osservare e concludere: i fatti ci sono, le

cognizioni le abbiamo, è il caso di dire a noi stessi: chi ha occhi per vedere veda»17

Riguardo ai confini tra la sociologia e la storia, ed in particolare quella dei partiti, non si può

non segnalare l’importanza di R. Michels e della sua “Sociologia del partito politico” (

ripubblicata da Il Mulino, Bologna, nel 1966). In apertura, Michels scriveva appunto che

«lo studio e l’analisi del partito politico costituiscono un nuovo ambito della ricerca

scientifica, una scienza di confine che sta tra le discipline economico-sociali, quelle

filosofico-psicologiche e quelle storiche e che in quanto tale sarebbe destituita di valore se

non potesse diventare oggetto di analisi approfondita. Ormai cresciuti e invecchiati i partiti

moderni, il settore più primitivo di questa scienza, quello storiografico, ha raggiunto un

significativo sviluppo quanto alla qualità e quantità della produzione. Quasi ogni partito

europeo possiede perciò una sua storia più o meno ben scritta. Non si è invece altrettanto

avanti nel secondo, più recente settore di ricerca, cioè nella indagine analitica sul partito

politico»18.

In tempi più recenti, L. Cavalli, sociologo che da tempo studia il problema delle élite

politiche e da ultimo della leadership, ha messo in evidenza come tra le diverse discipline

che studiano la società non esistano dei confini netti:

«Non esistono confini invalicabili e domini esclusivi nel vasto campo delle scienze sociali

contemporanee. Il sociologo e lo storico, l’economista, l’antropologo e lo psicologo sociale,

possono affrontare gli stessi fenomeni e trattare la stessa materia: non di rado lo fanno.

Anche in sede teorica e metodologica la distinzione non è netta. Accade sempre più spesso

che sociologi, storici e altri studiosi della società abbiano una discreta conoscenza degli

strumenti concettuali e metodologici degli altri, e ne facciano almeno marginalmente uso.

La differenza rilevante è, alla fine, solo di prospettiva, di taglio, e anche soltanto di accenti.

Forse di dovrebbe dire che è, in ultima analisi, una differenza di mentalità; in quanto

ciascuno porta con sé l’habitus mentale che si è fatto frequentando certi autori, vivendo in

17

G. Mosca, Teorica dei governi e governo parlamentare, ora in Scritti Politici, a cura di G. Sola, vol. I. , Utet, Torino 1982, pp. 201-202. 18

Nel testo citato, pp. 6-7.

un certo ambiente scientifico, riflettendo soprattutto su certi problemi e lavorando

abitualmente con certi strumenti»19.

Sul problema della conflittualità/complementarità tra sociologia e storia si sono interrogati

molti sociologi, in generale tutti concordi nell’affermare che, nonostante le differenze di

approccio, riconducibili in primo luogo ad una tendenza individualizzante della storia contro

quella più generalizzante della sociologia, ci può essere una positiva collaborazione tra le

due discipline soprattutto per quanto riguarda la scelta dei problemi e dei fenomeni sociali

da analizzare20

G. Sivini, nella “Sociologia dei partiti politici” (Il Mulino, Bologna 1979), presentando i saggi

di Ostrogorsky, Michels, Weber e Duverger, suggerisce proprio una lettura in chiave

storica, «per evitare di ricorrere abusivamente a quelle concettualizzazioni trattando della

situazione attuale dei partiti», una lettura storica che sarebbe indispensabile «per

comprendere […] la collocazione specifica dei partiti nei diversi stadi di sviluppo dello stato

borghese, in rapporto alle diverse forme di legittimizzazione che assume».

La sociologia politica si è costituita in modo specifico proprio nell’analisi delle formazioni

politico-sociali «sorte come aspetto politico della società industriale e come conseguenza,

prima dell’allargamento del suffragio, poi del suffragio universale. Essa, pertanto, si colloca,

storicamente e analiticamente, come presa di coscienza del passaggio della società

contemporanea da sistema politico fondato sulla partecipazione e il controllo di una élite a

sistema politico fondato sulla rilevanza crescente della maggioranza della popolazione, sia

in senso “democratico-parlamentare” (democrazia di massa), sia in senso dittatoriale»21. È

vero, comunque, che si può parlare di una “sociologia storica”, la quale, secondo la

definizione di Abrams, non si limita a riconoscere che un processo storico fa da sfondo al

presente, ma considera i fenomeni come «frutto di un continuo processo di costruzione nel

tempo, che diventa il fulcro dell’analisi sociale»: secondo Abrams, «le innumerevoli crisi di

governo in Italia non sono spiegate dall’incompetenza o dall’opportunismo degli uomini

19

L. Cavalli, Sociologia della storia italiana 1871-1974, Il Mulino, Bologna 1974, p. 9. L. Cavalli ha recentemente pubblicato Il leader e il dittatore. Uomini e istituzioni di governo nel “realismo radicale”, Ideazione, Roma 2003. 20

Per un orientamento bibliografico di base: F. Ferrarotti, La sociologia. Storia, concetti, metodi, ERI, Torino 1962; V. Titone, Storia e Sociologia, La nuova Italia, Firenze 1964; G. Gurvitch, Trattato di sociologia, Il Saggiatore, Milano 1967; B. S. Phillips, Metodologia della ricerca sociale, Il Mulino, Bologna 1972, in particolare il paragrafo intitolato Lo storico e il sociologo; W. Rohrich, Sociologia politica, Il Mulino, Bologna 1980; P. Burke, Sociologia e storia, Il Mulino, Bologna 1982; N. Smelser, Manuale di sociologia, Il Mulino, Bologna 1987; M. Rush, Politica e società, Il Mulino, Bologna 1998. 21

P. Farneti, Sociologia politica, in Dizionario di politica, diretto da N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Torino, UTET, 1990

politici contemporanei, ma da problemi che dipendono dalle difficoltà che per cento anni

hanno incontrato tutti i tentativi di formare uno stato unitario da una società profondamente

divisa e frammentata. Quando respingiamo spiegazioni del presente che tengono conto

soltanto del presente, quando ci rivolgiamo alla storia per avere spiegazioni più

soddisfacenti, cerchiamo una comprensione più profonda e realistica dei fenomeni. E al

tempo stesso andiamo verso la sociologia»22. La sociologia dei partiti, a differenza della

scienza politica, che affronta lo studio del sistema politico nel suo insieme, dovrebbe

occuparsi principalmente del partito come soggetto largamente autonomo del sistema

politico e cioè studiare la tipologia dei partiti come struttura organizzativa dal punto di vista

genetico e funzionale e ha, quindi, molti punti di contatto con la storia dei partiti23.

Lo studio dei partiti può essere poi affrontato nel quadro della filosofia della politica, intesa

come analisi delle forme di governo, del fondamento dello stato, della natura della politica

ed infine del linguaggio e della metodologia24.

Sulla reciproca utilità di filosofia politica e storia scrive Bobbio:

«La teoria politica senza storia è vuota, la storia senza teoria è cieca. Sono fuori strada

tanto i teorici senza storia, quanto gli storici senza teoria, mentre i teorici che ascoltano la

lezione della storia e gli storici che sono ben consapevoli dei problemi di teoria che la loro

ricerca presuppone, traggano vantaggio dall’aiutarsi reciprocamente»25.

È indubbio poi che importa conoscere quella che è stata l’evoluzione del concetto di partito,

la valutazione politica ed etica di quest’ultimo in rapporto con le diverse teorie dello stato,

anche se ciò che interessa di più è l’incidenza di queste teorie sulla concreta prassi in

termini di organizzazione della società politica in generale e di compatibilità delle 22

P. Abrams, Sociologia storica, Bologna, Il Mulino, 1983, p. 18 23

Cfr. G. Sivini, Sociologia dei partiti, Bologna, Il Mulino, 1971, pp. 9 -12. Si veda a tal proposito L. GALLINO, I partiti politici: tipi e funzioni, in Manuale di sociologia, UTET, Torino 1994 dove i partiti di notabili, di massa, pigliatutto vengono classificati in base ad un’analisi storico-sociologica. 24

N. Bobbio, Considerazioni sulla Filosofia Politica, in Rivista italiana di Scienza politica, a. 1, 1971, pp. 367-379. Riguardo alla metodologia della filosofia politica ed al suo rapporto con la storia si segnala E. Weil, Filosofia politica, Guida, Napoli 1973, in cui l’autore scrive: «Le scienze sociali teoriche non potrebbero dunque costituirsi senza far ricorso alla storia. Ma non s’interessano alla storia intesa come una successione unica e fornita di senso di eventi unici. Concepite allo scopo di render prevedibile il risultato di un’operazione, sono dirette a far sì che l’uomo che agisce sulla società non debba agire alla cieca. Si sottopongono, pertanto, alla verifica delle loro tesi secondo il criterio del successo pratico delle esperienze fatte in coerenza col loro insegnamento. Non mirano alla comprensione degli atti passati, benchè possano aiutare lo storico nel suo tentativo di comprendere il passato storico nella sua unicità» (p. 92). 25

In Ragioni della filosofia politica, in S. Rota, F. Barca, Studi politici in onore di Luigi Firpo, Franco Angeli, Milano 1990, p. 183. Sull’importanza della filosofia politica per la storia dei partiti si veda anche A. Passerin D’Entreves, Filosofia della politica, in Dizionario di politica diretto da N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Utet, Torino 1990, pag. 392-399.

associazioni politiche con i fini dello stato. Una grande rilevanza a tal proposito può avere lo

studio delle dottrine politiche, se tale studio è condotto sul piano storico, ma vi è il rischio di

incorrere in una sopravvalutazione degli aspetti ideologici e dottrinari del dibattito politico

cui pure danno vita i partiti, senza curarsi troppo di verificare se vi sia stata coerenza tra

ideologia e prassi, tra programma ed azione concreta e, soprattutto, rischiando di

trascurare gli aspetti organizzativi e “funzionali” della vita dei partiti. È certo comunque che

la storia delle dottrine politiche, soprattutto quando in essa prevale l’approccio filologico

della ricerca – il più trascurato, segnalava Luigi Firpo qualche anno fa – può dare dei

contributi di grande rilievo per una completa analisi delle forme dell’associazionismo

politico. Basti citare, a titolo esemplificativo, gli studi di Salvo Mastellone su Mazzini e la

Giovine Italia o quelli di Sergio Amato sul problema del partito negli scrittori politici

tedeschi26.

I partiti possono essere, inoltre, studiati dal punto di vista del diritto costituzionale, ma il

carattere dommatico di questa disciplina, fondata esclusivamente sull’interpretazione

giuridica degli istituti costituzionali di diritto positivo, esclude ogni ricorso ad un approccio

storico che prenda in considerazione la genesi degli stessi istituti. Anche la storia del diritto

può prendere in considerazione il fenomeno partitico, ma la dimensione normativa non

riesce a cogliere il partito nella sua complessa realtà interna e nei suoi rapporti con il

sistema politico27.

Possiamo concludere dicendo che la disciplina in questione è dunque una disciplina

storica, ma deve essere distinta dalle altre discipline storiche. Non può essere confusa con

la storia sociale perché i partiti nella loro realtà non possono essere mere espressioni di

classi o di gruppi economici, in quanto la coscienza politica non è mai il prodotto meccanico

della struttura sociale, né la sua funzione può rispondere ad interessi di un solo aggregato,

anche se, naturalmente, conoscere l’insediamento sociale di un partito può essere un

elemento - non l’unico - per comprenderne il comportamento politico.

La storia dei partiti può essere considerata parte della storia politica e più propriamente

della storia istituzionale. Più precisamente, riprendendo ancora quanto affermava Michels,

si può dire che la storia dei partiti è una sorta di Grenzenwissenshaft, un’area di confine tra

la storia politico-istituzionale e la storia sociale, cioè «un ramo di scienza che confina da un

26

S. Mastellone, Il progetto politico di Mazzini, Olschski, Firenze 1994; La democrazia etica di Mazzini, Roma 2000; S. Amato, Il problema partito negli scrittori politici tedeschi. 1851-1914, CET, Firenze 1996. Per una visione d’insieme e riguardo al metodo filologico si rimanda a L. Firpo, Storia delle dottrine politiche, in La storiografia italiana degli ultimi vent’anni, Marzorati, Milano 1970. 27

Per un’approddio giuridico costituzionale al tema dei partiti politici si veda G. Rescigno, Corso di Diritto Pubblico, (4^ ed.), Zanichelli, Bologna 1999/2000, pp. 316-344.

lato con le discipline sociali ed economiche, da un altro con quelle psicologiche, e da un

terzo lato con quelle storiche e che trovasi quindi in margine con parecchie scienze»28.

Sin qui abbiamo cercato di indagare sui rapporti tra storia dei partiti e le altre discipline,

ma si puó affermare che esista un'autonomia della storia dei partiti senza che questa

affermazione appaia come una petizione di principio? Si può cioè sostenere che vi sia

una sfera scientifica cui appartenga in modo prevalente e specifico lo studio dei partiti ?

Pombeni, nella sua opera “Partiti e sistemi politici nella storia contemporanea”, si domanda

se la storia dei partiti sia «un ramo del sapere oppure una semplice specificazione

dell’oggetto della scienza storica» e risponde affermando che la specificità disciplinare della

storia dei partiti non stia nell’oggetto ma nella metodologia. Ancora Pombeni precisa, infatti,

che « la storia dei partiti come ambito disciplinare specifico si occupa di un idealtipo: il

partito politico. Anzi per favorire la comprensione della differenza concettuale tra

idealtipo e astrazione categoriale, diremo che essa non si occupa dell’individuazione del

“partito ideale” [...] ma intende individuare la forma-partito, ovvero la modalità di

articolarsi e di prodursi della sfera politica mediante la presenza di strutture

organizzative che riuniscono soggetti sociali trasformandosi in istituzioni». Ad ulteriore

chiarimento del concetto di idealtipo, Pombeni scrive:

«il tipo ideale non vuole dunque descrivere un fatto storico esistente, nè estrapolare

omogeneità rispetto a fenomeni diversi. Esso è semplicemente uno strumento di

misura, un mezzo per dare significato a dei fenomeni e mettere in chiaro relazioni e nessi

causali tra loro» 29.

È bastato osservare, cioè, che la tipicità di questo insegnamento non sta tanto nello studio

dell’oggetto-partito, ma nel metodo specifico con cui si affronta lo studio dei partiti, un

metodo che si può definire “storico-funzionale”, caratterizzato dall’impiego di un approccio

storico attraverso il quale analizzare non modelli astratti, né categorie interpretative, ma

forme concrete e realizzate di aggregazione politica. Abbiamo anche visto come i partiti

politici possono essere studiati da molti punti di vista e l’interdisciplinarietà degli approcci

può essere molto proficua. Lo studio della storia dei partiti deve essere, però, affrontato con

un metodo specifico, cioè con il metodo storico-funzionale e quindi deve essere condotto in

28

R. Michels, Il partito politico nella democrazia moderna, Torino 1924, p. XI 29

In particolare sulla “forma-partito” si veda P. Pombeni, Introduzione al sistema politico europeo ed alla forma-partito contemporanea in Partiti e sistemi politici nella storia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 19-34

modo tale da cogliere anche gli aspetti funzionali della vita del partito, della sua

organizzazione interna e dei suoi rapporti con il sistema politico, l’ordinamento

costituzionale e con la società nel cui ambito esso opera.

2. Oggetto della disciplina: le forme dell’aggregazione politica; partiti e movimenti;

l’associazionismo politico; partiti e associazioni come istituzioni politiche private.

Dovremo ora cercare di individuare quale sia l’oggetto di questa disciplina. Se ci

rimettiamo alla definizione offerta dagli statuti universitari, notiamo una qualche incertezza:

esistono, infatti, insegnamenti di storia dei partiti e dei movimenti politici. Riesce difficile

comprendere, in effetti, come si possa far valere questa distinzione, separando il partito dal

movimento, intendendo per partito la dimensione politico -organizzativa ed il movimento

come la dimensione economico-sociale o culturale. Risulta davvero problematico

considerare, per esempio, i partiti socialisti, o anche il partito comunista, isolati dai

movimenti operai di ispirazione socialista o comunista e considerarli quindi avulsi dalle loro

aree culturali e dal movimento di idee, nonché dal reticolo associazionistico che vi ruota

attorno e attraverso il quale essi vengono in contatto con la società civile30. E ciò a

prescindere dai rapporti di dipendenza o di autonomia da cui possono essere caratterizzate

le relazioni partito-sindacato-associazionismo economico e culturale. Allo stesso modo è

impensabile pretendere di studiare i partiti cattolici senza tener conto dei loro rapporti con il

movimento e con il mondo cattolico in genere. Mentre per movimento cattolico si deve

intendere l’associazionismo laicale e le organizzazioni ecclesiali, cioè quel complesso di

soggetti tra di loro interrelati e aventi un rapporto organizzativo con la chiesa cattolica, il

mondo cattolico è quella più vasta comunità di persone e di gruppi che si ispirano ai valori

del cattolicesimo, senza necessariamente avere un legame organico con la chiesa31.

30

Riguardo ai rapporti tra movimento e partito socialista, ha scritto Sabbatucci che «i partiti socialisti svolgono nella storia del movimento operaio una funzione di orientamento e di guida» e S. Colarizi che «la storia del Partito Socialista si articola, dunque, sui due momenti, movimento e istituzione, in un rapporto sempre dialettico e in alcune fasi particolarmente tormentato». Per un orientamento bibliografico: AA. VV. (Bosio, Francovich, Marini, Manacorda e Valiani), Il movimento operaio e socialista. Bilancio storiografico e problemi storici, Milano 1961; G. Manacorda, Il movimento operaio italiano attraverso i suoi congressi (1850-1892), Roma 1975; E. Ragionieri, Il movimento socialista in Italia. 1850-1922, Milano 1976; A. Romano, Storia del movimento socialista in Italia, Bari 1966-67; E. Santarelli, Movimento operaio e movimento socialista, Urbino 1976; G. Sabbatucci (a cura di), Storia del socialismo italiano, Roma 1980-81; S. Merli, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano 1880-1900, Firenze 1972. Per un riscontro di tale rapporto attraverso le biografie dei protagonisti: F. Andreucci-T. Detti (a cura di), Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico, 5 voll. , Roma 1975-78. 31

Per un inquadramento storiografico del problema: F. Fonzi, I cattolici e la società italiana dopo l’Unità, Roma 1953; G. Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Roma 1953; G. De Rosa, Storia del movimento

Anche se si accetta la classificazione di partito in una dimensione esclusivamente politica,

come ipotesi di lavoro o come una fatalità accademica, non si può dimenticare, soprattutto

se si considerano i partiti “moderni”, che esiste un collegamento permanente tra questi

ultimi, la società civile ed il mondo economico e del lavoro, rapporto che, peraltro, si è

profondamente modificato in coincidenza con le trasformazioni della società, tanto che è

oggi difficile considerare come un dato permanente l’insediamento sociale e un patrimonio

ideologico-culturale.

Se si considera che l’oggetto della disciplina siano soltanto i partiti ed i movimenti politici,

bisogna sgomberare il campo da un possibile equivoco, causato da alcune teorie

evoluzionistiche, che sostengono che nel suo sviluppo il partito avrebbe seguito un

itinerario, che partiva da un’organizzazione di tipo embrionale per arrivare sino a quelle

forme ritenute perfette che sono i partiti di massa. In questo tipo di analisi rientra la tesi di

Duverger, il quale, differenziando tra una origine “interna”, elettorale-parlamentare, ed una

successiva origine “esterna” dei partiti, cioè quella scaturita dall’impulso di forme

organizzative preesistenti (sindacati, società di pensiero, chiese e sette religiose,

raggruppamenti industriali o commerciali, associazioni di ex combattenti, ecc.), descrive un

processo evolutivo che avrebbe la sua origine nel partito di comitati e il suo punto di arrivo

nel “moderno” partito di massa, secondo uno schema progressivo i cui presupposti della

trasformazione sarebbero stati dettati dal passaggio da una democrazia ristretta,

caratterizzata dalle varie forme di suffragio censitario, ad una democrazia fondata sul

suffragio universale. A sostegno della sua tesi, nel 1951 - anno della pubblicazione

francese di un testo che è considerato un classico della storia dei partiti, in rapporto

soprattutto alla trattazione in modo organico del partito come fenomeno organizzativo a tutti

i suoi livelli - il politologo francese affermava che: «un regime senza partiti garantisce la

perennità delle élites dirigenti espresse dalla nascita, dal denaro o dalla funzione: per

penetrare nell’oligarchia governante, un uomo del popolo deve compiere uno sforzo

considerevole per uscire dalla sua primitiva condizione; deve inoltre seguire le trafile

dell’educazione borghese e perdere il contatto con la sua classe di origine. Un regime

senza partiti è necessariamente un regime conservatore. Esso corrisponde al suffragio

censitario, oppure traduce uno sforzo per paralizzare il suffragio universale, imponendo al

popolo dei dirigenti che non emanino da esso: esso è ancora più lontano dalla democrazia

cattolico in Italia. Dalla restaurazione all’età giolittiana, Bari 1966; G. Verucci, Il movimento cattolico italiano. Dalla restaurazione alprimo dopoguerra, Firenze 1977; M. Isnenghi-S. Lanaro (a cura di ), Movimento cattolico e sviluppo capitalistico, Padova 1974;

del regime dei partiti. Storicamente, i partiti sono sorti quando le masse popolari hanno

cominciato a entrare realmente nella vita politica: essi hanno formato il quadro necessario

che permetteva loro di reclutare in se stesse le proprie élites [...]Le classiche proteste

contro la loro influenza nella vita politica, contro il predominio dei militanti sui deputati, dei

congressi e dei comitati sulle Assemblee, ignorano la capitale evoluzione compiutasi in

questi cinquant’anni e che ha accentuato il carattere formale dei ministri e dei parlamenti.

Un tempo strumenti esclusivi degli interessi privati, finanziari ed economici, gli uni e gli altri

sono divenuti strumenti dei partiti: fra questi, i partiti popolari occupano un posto sempre

maggiore. Questa trasformazione costituisce un’evoluzione della democrazia e non un

regresso»32.

Lo schema “evoluzionistico” riguardante il partito politico vale sia per lo storicismo di

stampo idealista, che ha concepito la storia come storia della libertà o dello spirito, sia per

lo storicismo marxista. Il primo considera la civiltà liberale come punto di arrivo e di

conseguenza tende a limitare la funzione del partito quando essa contraddice con la teoria

della rappresentanza, fondata essenzialmente su di una concezione individualistica dei

diritti politici e della sovranità popolare. Il movimento politico, per la scuola liberale classica,

diviene partito con la formazione della democrazia rappresentativa e si trasforma da partito

di comitati con funzione quasi esclusivamente parlamentare in partito “moderno”, e cioè in

uno strumento dotato di una poderosa macchina organizzativa, capace di organizzare il

consenso in una società di massa e di gestire il potere (modello “americano”). Non

diversamente accade nell’interpretazione marxista, secondo la quale la storia sarebbe

determinata da un processo che avrebbe dovuto portare - o in virtù dello scoppio delle

contraddizioni della società capitalistica o per intervento di un soggetto politico

rivoluzionario - ad una transizione al socialismo. Il modello di partito è stato, sino al crollo

del “socialismo reale”, quello leninista. Secondo l’interpretazione marxista, dalle prime

associazioni operaie ed internazionaliste si sarebbe passati ai partiti di tipo

socialdemocratico e, dopo il “fallimento” della II Internazionale, a quelli terzo-

internazionalisti, che, grazie al successo della rivoluzione sovietica, erano divenuti partiti-

stato. Per quanto in Occidente si siano cercate “terze vie” tra il vecchio modello

socialdemocratico ed il partito di stampo marxista-leninista, e impossibili conciliazioni tra

eurocomunismi e democrazie liberali, questa ricerca non ha prodotto risultati. La stessa

32

M. Duverger, I partiti politici, Milano, Ed. di Comunità, 1961, pp. 516-517. Per la tesi sull’origine dei partiti, cfr. pp. 15-31. Essa è trattata anche in, Id. , Introduction à la politique, Gallimard, 1964, pp. 167-182.

idea di partito è in crisi un pò dovunque, mentre si considera vincente la democrazia

liberale.

Queste concezioni storicistiche, la marxistica e la liberale (la socialdemocrazia è divenuta

ormai una variabile del sistema liberale), pur proponendo visioni diametralmente opposte

per quanto riguarda l’idea della democrazia e la teoria del partito, hanno, però, un punto in

comune e cioè quello di considerare il movimento un prius rispetto al partito, che

costituirebbe la forma più matura di aggregazione politica. I movimenti non possono,

tuttavia, considerarsi delle semplici correnti di idee, degli antecedenti rispetto ai partiti,

insomma dei pre-partiti. Impropriamente, si è parlato di movimenti protosocialisti o di

socialismo utopico, intendendo ciò che precede la fondazione dei partiti; sono stati

catalogati come movimenti cattolici quelle associazioni politiche ed unioni elettorali esistite

prima della creazione di un vero e proprio partito. In realtà, si può dire che i movimenti

esistano anche dopo la costituzione dei partiti e spesso con il termine movimento si vuole

indicare un’area più vasta di quella rappresentata da un partito. Ma con ciò non si può dire

che un movimento, per avere una sua espressione politica, debba necessariamente

trasformarsi in partito. Il caso più emblematico è rappresentato dal movimento liberale in

Italia dall’Unità al fascismo: un vero e proprio partito liberale venne fondato solo nel 1922.

Prima di allora, nel movimento liberale coesistevano gruppi parlamentari (ed anche un

movimento) in competizione tra loro, ma che avevano valori, regole ed obiettivi comuni.

Dopo la caduta del muro di Berlino, ci si può legittimamente interrogare non solo sul futuro

del comunismo “realizzato”, ma anche del socialismo democratico, che è stato il grande

rivale del comunismo, ma, per qualche verso, anche il grande alleato nella critica del

capitalismo. In via subordinata, c’è poi da domandarsi non tanto se questa crisi riguardi i

valori del socialismo, quanto le forme-partito socialdemocratiche e laburiste, o anche le

neo-socialiste. In realtà, la domanda che ci si può porre è se tutte le forme storiche di

partito abbiano fatto il loro tempo, compreso il partito americano, che, dopo una

temporanea reviviscenza, ha rivelato tutta la sua inadeguatezza con le elezioni che hanno

portanto Bush e poi Obama alla presidenza. Lo stesso new-labour di Blair non è stato

l’ultimo stadio del laburismo inglesesembra in crisi ed anche il bipartitismo inglese sembra

essere un sistema con delle vischiosità.

Indubbiamente, si può dire che i partiti, se hanno la forza di rinnovarsi dovranno competere

non solo tra loro, ma anche con un associazionismo politico che sembra essere la novità

dei nostri tempi. Quella dei movimenti non può, dunque, considerarsi un’area “residuale”,

lasciata fuori da un processo di specializzazione che porterebbe alla creazione di un partito.

Spesso, un movimento si pone in modo autonomo nei riguardi del partito e ne può costituire

un serbatoio ai fini del ricambio del personale politico e una riserva da cui trarre idee ed

elaborazioni critiche, utili al rinnovamento dei suoi programmi. Il movimento può anche

mantenere un rapporto di comunicazione più aperto ed attivo con la società ed essere per

certi versi più credibile di un partito, legato alla gestione del potere. Partiti e movimenti

possono convivere dialetticamente, anche se esistono dei movimenti che non aspirano a

divenire partiti o che si pongono in modo alternativo ai partiti, anzi desiderano sostituirsi ad

essi, considerando la forma-partito inadeguata o superata.

Gli sviluppi più recenti hanno dimostrato la vitalità dei movimenti. A titolo esemplificativo e

guardando alla realtà internazionale possono essere chiamati in causa i movimenti di

liberazione del terzo mondo; i movimenti ecologisti; i forum e le associazioni politiche del

dissenso, prima della caduta del comunismo; i movimenti creatisi in Italia dopo i referendum

del ’93 e la riforma elettorale, il movimento no-global. Nel primo caso si tratta di

organizzazioni che per il loro scopo devono dar luogo alla federazione di più partiti e

movimenti; nel secondo caso, ci troviamo di fronte ad una fenomenologia molto

differenziata. Possiamo trovare dei movimenti con scopi limitati (quello che gli inglesi

chiamano a single issue movement), come le leghe ambientali o movimenti che si

prefiggono scopi più generali. Tra questi ultimi, alcuni si pongono in modo conflittuale nei

confronti del sistema dei partiti ed intendono operare per via extra-parlamentare, altri, in

concorrenza con i partiti, operano a livello parlamentare. Il movimento no-global, ad

esempio, era dichiaratamente a-partitico ma se si analizza attentamente la sua

organizzazione non si può dire che le organizzazioni partitiche ne siano poi effettivamente

escluse. Il divieto alla partecipazione dei partiti esplicitato nello statuto del Global Social

Forum ad esempio viene più spesso eluso dalla partecipazione delle singole personalità

politiche o da sindacati che hanno poi rapporti organici con i partiti. Non si può dire poi che

tale movimento manchi di organizzazione, essendo provvisto di organi permanenti: un

Comitato organizzatore, un Consiglio internazionale, una Segreteria, delle Commissioni,

degli organi periferici come i Forum regionali o tematici. È vero che il movimento si propone

scopi sociali e si muove prevalentemente su questo terreno, anche se cerca di operare una

forte pressione a livello di opinione pubblica al fine di condizionare le scelte politiche. Non si

può dire quindi che sia alieno dalla sfera della politica33.

33

Sul movimento no-global si rimanda ad uno dei titoli più recenti di una ricchissima bibliografia: D. Della Porta, New Global, Il Mulino, Bologna 2003.

Si possono perciò avere dei movimenti che assumono la forma delle leghe, quella del

“partito trasversale”, del “movimento-partito” o di un “superpartito”. La recente storia politica

italiana insegna che un sistema politico può essere caratterizzato dalla compresenza di

partiti “tradizionali” e movimenti tra di loro concorrenti, basti pensare al fenomeno delle

leghe (Lega Lombarda; Veneta; ecc.), delle associazioni referendarie, del Partito Radicale

e della Rete di Orlando, dei 5 Stelle. Una situazione che, peraltro, non è nuova per l’Italia:

nel primo dopoguerra, infatti, accanto ai partiti esistettero dei movimenti di questo tipo. Non

si può dire, perciò, che soltanto i partiti si pongono degli obiettivi generali, abbiano

programmi e filosofie complessive, lottino per la conquista del potere, perché molti

movimenti hanno gli stessi scopi. Comunemente si è creduto che i movimenti fossero delle

entità diverse e distinte rispetto ai partiti dal punto di vista organizzativo: mentre questi

ultimi sarebbero delle associazioni politiche con strutture centralizzate ed apparati

permanenti in grado di imporre la disciplina ai propri aderenti, i movimenti sarebbero

aggregazioni meno vincolanti, che non disporrebbero di grandi macchine organizzative. In

realtà, si è visto che vi sono partiti la cui organizzazione è molto più debole di quella posta

in essere da alcuni movimenti. La classificazione delle associazioni politiche in partiti e

movimenti ha dunque un valore puramente indicativo. Sarebbe forse meglio dire che

oggetto della storia dei partiti è lo studio delle istituzioni politiche “private”, distinguendole

dalle istituzioni pubbliche. Ma anche questa classificazione ha un valore relativo in quanto

vi sono alcune di queste organizzazioni politiche che hanno una rilevanza costituzionale. In

alcuni casi, vi sono dei partiti che hanno la configurazione di enti di natura pubblica o

addirittura possono essere degli organi dello stato (come è stato il caso dei partiti unici nei

regimi totalitari). La natura giuridica di queste organizzazioni politiche può, dunque, variare

a seconda delle posizioni che esse hanno nell’ambito dei diversi sistemi costituzionali. Ma

al di là di questi nominalismi, la disciplina deve occuparsi di tutte le forme di partecipazione

politica storicamente realizzate. Rispetto alla nozione di partito, si devono poi considerare

gli ambiti spaziali e temporali. Il termine partito è stato adoperato con significati diversi nel

Medioevo, nell’età moderna ed anche nell’antichità: non è qui il caso di far ricorso alla

semantica politica per ricordare come partito abbia significato: “fazione”, “consorteria”,

“clan”. È, quindi, lecito occuparsi anche di queste aggregazioni politiche, esistenti prima

della nascita dei partiti in senso moderno. Si deve tuttavia tenere presente che la nascita

dei partiti moderni si colloca nella transizione tra lo stato costituzionale e lo stato

rappresentativo. Si può dire, cioè, che il partito abbia assunto la sua configurazione

moderna con la formazione delle democrazie parlamentari. La costituzione dei partiti in

senso moderno è, dunque, un fenomeno “contemporaneo” e ha, almeno in un primo

momento, riguardato essenzialmente il mondo occidentale. Ciò non toglie che ci si possa

occupare anche di quelle forme di aggregazione politica che si sono manifestate in periodi

più antichi o al di fuori dell’area occidentale o che sono da mettere in rapporto con

organizzazioni sociali “tradizionali” o che rappresentano forme “residuali” di

un’organizzazione sociale primitiva. Ciò è possibile purchè tale studio sia condotto con

metodo storico e la singola forma politica sia messa in relazione con il sistema che la ha

prodotta.

In conclusione, la storia dei partiti è lo studio delle forme dell’aggregazione politica in

rapporto con i sistemi politici e le società civili nell’ambito dei quali hanno storicamente

operato. Partiti e sistemi politici interagiscono fra di loro e si influenzano reciprocamente. I

partiti e le altre associazioni politiche sono in realtà “funzioni” dei sistemi politici.

3. Gli elementi costitutivi del partito. Gli elementi ideologico-culturali: l’ideologia del

partito, la cultura, il programma, la propaganda, la ritualità, il mito e il rapporto tra

partito e leader; gli elementi organizzativi: il modello, lo statuto, l’organizzazione e il

finanziamento; elementi sociologici e funzione sociale del partito.

Se il metodo storico-funzionale è quello che sembra il più adatto per studiare il partito,

l’oggetto di tale studio deve riguardare l’organizzazione interna del partito stesso ed i

rapporti di quest’ultimo con il “sistema dei partiti” e con il sistema politico ed, in modo

più generale, con la società civile nel suo complesso.

Occorre, perciò, definire in primo luogo quali siano gli elementi costitutivi del partito politico.

Per comodità di esposizione questi fattori possono essere divisi in tre diverse categorie:

quelli di ordine ideologico-culturale; di ordine organizzativo e di ordine sociologico.

Per quanto riguarda il primo ordine di fattori, occorre considerare i seguenti aspetti:

a) l’ideologia del partito;

a1) la cultura;

a2) il programma;

a3) la propaganda;

a4) la ritualità;

a5) il mito;

a6) il culto del leader.

Per quanto riguarda il fattore organizzativo vanno tenuti presenti questi aspetti:

b) modello del partito;

b1) statuto del partito;

b2) organizzazione;

b3) finanziamento.

Per quanto riguarda i fattori di ordine sociale va tenuta presente :

c) la condizione economica; dei dirigenti,

c1) l’origine sociale della famiglia; dei parlamentari,

c2) la formazione culturale; dei quadri intermedi,

c3) la funzione professionale. degli iscritti,

dei simpatizzanti,

degli elettori.

Elementi ideologico-culturali.

Per quanto riguarda il primo ordine di fattori occorre domandarsi non solo se un partito

abbia un’ideologia, ma se l’accettazione di essa sia condizione per l’appartenenza al

partito, da un punto di vista formale, e se tale ideologia sia di fatto professata dal corpo

del partito. Se la professione di un’ideologia è una condizione formale per l’iscrizione al

partito questa condizione è espressamente prevista nello statuto del partito. Il primo statuto

del Partito Comunista d’Italia, ad esempio, si apre con un prologo articolato in 10 punti in

cui è espressa l’ideologia ispiratrice del partito ed il suo programma. L’art. 2 stabiliva poi

che il partito era organizzato sulla base delle adesioni individuali tramite iscrizione nella

sezione e, all’ art. 3 dello statuto, che la sezione aderiva «ai principi esposti nel programma

ed accetta[va] lo Statuto del Partito Comunista d’Italia». L’art. 8 esplicitava che «la

iscrizione è fatta mediante un modello uniforme distribuito alle Sezioni dal Comitato

Centrale; essa implica l’adesione incondizionata al programma, nonché la osservanza del

presente Statuto e la più rigorosa disciplina verso i deliberati del Partito e della

Internazionale Comunista». Lo statuto del 1948 all’art. 1 recitava che «il partito comunista

italiano è l’organizzazione politica dei lavoratori italiani i quali lottano in modo conseguente

per la distruzione di ogni residuo del fascismo, per l’indipendenza e la libertà del paese, per

la edificazione di un regime democratico e progressivo, per la pace tra i popoli, per il

rinnovamento socialista della società». Il partito era concepito come una «organizzazione

unitaria combattiva, retta da una disciplina volontaria che impegna tutti i suoi membri».

«Ogni membro del Partito è tenuto ad accettare il programma politico e lo statuto del

Partito, a lavorare in una delle sue organizzazioni e a pagare regolarmente la tessera e le

quote» (art. 2). Tra i doveri degli iscritti al partito stabiliti dall’art. 9 al punto b) si stabiliva

che ogni iscritto era tenuto a «migliorare di continuo la propria conoscenza della linea

politica del partito e la propria capacità di lavorare per la sua applicazione ed approfondire

la conoscenza del marxismo-leninismo», con un chiaro rimando quindi all’ideologia del

partito34. Lo statuto del PNF del 192635 si apriva con un ampio prologo di natura ideologica

che non a caso portava il titolo “Fede”. Il secondo capoverso della norma 27 di quello

statuto stabiliva che i nuovi iscritti dovevano prestare giuramento davanti al Segretario con

la formula «giuro di seguire senza discutere gli ordini del duce e di servire con tutte le mie

forze e se è necessario, col mio sangue la causa della Rivoluzione fascista». La norma 29

stabiliva poi che qualora un fascista fosse venuto meno al suo dovere per indisciplina o per

deficienza delle qualità che costituivano lo spirito fascista, e cioè: «Fede (fascista),

Coraggio, Laboriosità e Onestà», sarebbe stato sottoposto ad inchiesta da parte del

Direttorio. Da quest’ultima disposizione statutaria si desume che tra i requisiti necessari per

l’iscrizione al partito c’era la totale accettazione, senza possibilità di discussione o di critica,

dell’ideologia cui si ispirava il partito.

Un passo di uno scritto di Benedetto Croce spiega bene in quale modo si configura il

rapporto tra ideologia e partito:

«[…] ogni partito sviluppa una ideologia o teoria, o piuttosto pseudoteoria, che gli serve non

ad altro fine che a suscitare la parvenza di avere a sé alleate la Verità, la Ragione, la

Filosofia, la Scienza e la Storia, deità che avrebbero disertato il campo avversario […] Le

pseudoteorie, con le quali i partiti ragionano i loro programmi, possono essere, prese per

sé, corrette e vere, com’è, per esempio, la teoria dello svolgimento storico per antinomie,

34

Partito Comunista Italiano. Statuto. Appprovato dal IV Congresso Nazionale del PCI (Milano – gennaio 1948) 35

Approvato dal Gran Consiglio del fascismo nella seduta dell’8 ottobre 1926 ed entrato in vigore il 15 novembre del 1926.

alla quale si richiama il liberalismo col suo graduato progressismo; ma non hanno nessun

legame col partito in quanto volontà politica, e volontà storicamente determinata e

individuata, la cui unica ragione è in sé stessa; e, messe in quella forzata relazione,

s’imbevono di falso. Ma altre volte sono false anche prese per sé, come, per esempio,

quelle marxistiche del plusvalore e del materialismo storico e del salto dal regno della

necessità in quello della libertà, e tutto al più esprimono in forma di apparenza logica ma

intrinsecamente fantastica i sentimenti e le tendenze pratiche del partito; e nondimeno

anche in questi casi adempiono al loro ufficio. Fuori di tale ufficio, che è oratorio e

avvocatesco a vantaggio del partito, e che talvolta si esercita sugli uomini stessi e perfino

sui capi del partito, prigionieri dei loro sofismi, le ideologie non ne hanno altro»36.

In genere, quando si parla di ideologia di partito con riferimento a partiti democratici si

intende l’ideologia nel suo significato “debole” e cioè come quel sistema di idee e di valori

che orientano l’azione politica del movimento. L’ideologia può essere anche intesa in senso

“forte” e consiste nella “cattiva coscienza” di un gruppo dirigente che fornisce una

giustificazione della sua egemonia e/o dominio nei riguardi del partito e della società. In

questo contesto l’ideologia si manifesta come falsa motivazione e falsa rappresentazione,

nel senso che in base ad essa la leadership costruisce la sua legittimazione e in forza della

seconda viene fabbricata una verità valida per i militanti a cui essi devono credere perché

affermata dalla leadership. Nei partiti unici nei sistemi totalitari l’ideologia aveva questa

funzione. Non tutti i partiti fanno necessariamente riferimento ad un’ideologia: alcuni la

rifiutano e si proclamano pragmatici, a-ideologici, anti-ideologici o post-ideologici37. Il

rapporto con l’ideologia è molto forte nei partiti unici, nei partiti marxisti e socialdemocratici,

mentre è meno forte nei partiti democratici e liberali dove semmai gioca di più il legame con

la tradizione e la cultura di partito. Procediamo ad alcuni esempi: nello statuto del Partito

Comunista d’Italia del 1921 che abbiamo citato viene esplicitata la teoria marxista dello

sviluppo di «un sempre crescente contrasto fra le forze produttive ed i rapporti di

produzione», che stava alla base della «antitesi di interessi ed alla lotta di classe tra il

proletariato e la borghesia dominante». Allo stesso modo, la democrazia rappresentativa

veniva intesa ideologicamente come espressione del «potere dello Stato borghese» e

come «organo per la difesa degli interessi della classe capitalistica» e non, cioè, come un

terreno in cui poter mediare attraverso una tattica riformista anche gli interessi degli strati

36

B. Croce, Elementi di Politica, Laterza, Bari 1925, pp. 42-43. 37

Per una definizione di “ideologia” vedi Il Dizionario di Politica, a cura di N. Bobbio, ad vocem.

inferiori della società. In tale contesto ideologico, prendeva corpo anche il principio che

«indispensabile» organo della lotta rivoluzionaria fosse il Partito comunista – non un partito

tra gli altri partiti, ma il solo capace di interpretare gli interessi del proletariato in senso

rivoluzionario, l’unica modalità di lotta politica possibile. Partito che «riunendo in sé la parte

più avanzata e cosciente del proletariato, unifica[va] gli sforzi delle masse lavoratrici» ed

aveva il compito di «diffondere nelle masse la coscienza rivoluzionaria, di organizzare i

mezzi materiali di azione e di dirigere nello svolgimento della lotta il proletariato». Da qui,

l’altro principio ideologico della necessità della rivoluzione, secondo il quale il sistema dei

rapporti capitalistici di produzione da cui derivava lo sfruttamento del proletariato non

poteva essere infranto né modificato «senza l’abbattimento violento del potere borghese»

e, ancora, che «la lotta di classe non [poteva] che risolversi in conflitto armato fra le masse

lavoratrici ed il potere degli Stati borghesi»38. Sempre nello stesso prologo, non mancava

un richiamo al sistema da edificare dopo l’abbattimento del potere borghese, che

consisteva nella «instaurazione della propria dittatura [del proletariato]», «ossia basando le

rappresentanze elettive dello Stato sulla sola classe produttiva ed escludendo da ogni

diritto politico la classe borghese». La forma di rappresentanza politica dello Stato

proletario era quindi il sistema dei consigli dei lavoratori (operai e contadini), «già in atto

nella rivoluzione russa, inizio della rivoluzione proletaria mondiale e prima stabile

realizzazione della dittatura proletaria»39. Altro tipico esempio di ideologia in senso forte è

quella a cui si ispirava l’organizzazione di partito del PNF, di cui è possibile trovare traccia

nello statuto del 1926 già citato. In esso si legge che le origini del fascismo «si confondono

con la rinascita della coscienza italica e con la volontà della Vittoria», da cui traspare

un’operazione ideologica di accreditare il partito come unico interprete della storia

nazionale, storia nazionale che coincide con quella del partito. Si legge poi che «il

Fascismo non [era] soltanto un raggruppamento di italiani intorno ad un determinato

programma realizzato e da realizzare, ma [era] soprattutto una fede», una fede che «aveva

avuto i suoi confessori» e che aveva i suoi ordinamenti, in cui operavano «come militanti,

gli Italiani nuovi, espressi dallo sforzo della guerra vittoriosa e dalla successiva lotta fra la

Nazione e l’antinazione», da cui emerge l’idea di partito come strumento operativo di una

ideologia che non concepisce forme di espressione ad essa opposta o da essa diversa e,

pertanto, “antinazionali”. L’idea che il partito fosse l’unica possibile voce di una nazione

rinnovata, che viveva «in funzione dell’avvenire», in cui «ordinamenti e gerarchie»

38

Ai punti 3 e 5 dell’art. 1 dello statuto del 1921 del PCd’I. 39

Ai punti 6 e 7 dell’art. citato sopra.

ricevevano «luce e norma dall’alto», cioè dal duce, e che solo questi avesse «una visione

completa degli attributi e dei compiti, delle funzioni e dei meriti» è l’idea di un partito

totalitario in un sistema che non ammette altre forme di espressione politica40.

Avvicinandoci ai nostri giorni si può poi fare un esempio in cui in luogo di una ideologia in

senso forte si può parlare di un richiamo ad una ben precisa tradizione politico-culturale.

Quando, nel 1990, il PCI mutò il proprio nome in Partito Democratico della Sinistra si dotò

di uno statuto dall’ampio prologo, in cui si tentava di risolvere a livello formale il nodo del

rapporto con il proprio passato, travolto dagli avvenimenti del 1989. In quel testo si parla di

un partito «di uomini e di donne che professano comuni valori fondamentali: i valori della

libertà, dell’uguaglianza, della solidarietà, della pace, della difesa della natura. Che si

riconoscono in un progetto e in un programma politico: il progetto della democrazia, via del

socialismo; un programma politico di riforme per la profonda trasformazione della società

umana». Più avanti si provvede a saldare la “nuova” esperienza con il proprio retroterra

politico-culturale, quando si afferma appunto che il partito affondava «le sue radici nel

patrimonio storico del movimento operaio e socialista, nell’originale tradizione culturale e

politica dei comunisti italiani», ma accettando anche «l’eredità delle rivoluzioni liberali e

democratiche», sebbene «portandole oltre i loro storici limiti di classe». Nel testo, in cui

traspare evidente una certa difficoltà di conciliare due tradizioni, quella liberal-democratica

e quella comunista, che sono tra loro opposte, si riconosce «il fallimento dei regimi dispotici

costituitisi in nome del comunismo» e si opta per una azione da «condurre nell’ambito del

socialismo europeo e in rapporto con tutte le forze democratiche avanzate», nella necessità

di «superare un’esperienza storica, [di] raccogliere ed oltrepassare le tradizioni, per

contribuire […] alla costruzione di una sinistra (italiana, europea, mondiale) profondamente

rinnovata». Nel capoverso successivo si precisa: «In essa [cioè nella sinistra italiana] il PCI

porta un’inestimabile esperienza di cultura, di idee, di lotte, di impegno politico e civile, di

passioni e sacrifici personali e collettivi», una citazione che ai fini del nostro discorso vale

come un richiamo diretto ad un ben preciso contesto politico e culturale di riferimento41.

Giovanni Sartori in un testo della metà degli anni Sessanta ha operato una interessante

correlazione tra sistemi di partito e grado di ideologizzazione dei partiti. Sartori configura

innanzitutto una «scala di intensità ideologica» riducendola in quattro voci: 1) ideologia

rigida e intensa; 2) ideologia intensa ma flessibile; 3) ideologizzazione debole; 4)

pragmatismo. Secondo l’ipotesi di Sartori, il punto minore di intensità ideologica si

40

I passi citati sono tratti della statuto del PNF del 1926 nella parte introduttiva intitolata “Fede”. 41

I passi citati sono tratti da Partito Democratico della Sinistra. Statuto, a cura del PDS, Roma 1991.

raggiunge nell’area dei sistemi bipartitici e il massimo di pragmatismo sarebbe riscontrabile

nella stessa area. L’intensità ideologica crescerebbe man mano che si procede in direzione

del pluripartitismo estremo. I casi quindi sarebbero i seguenti:

a) i sistemi politici a partito unico sono necessariamente ideologici, ma con sensibili

variazioni di intensità e di rigidità:;

b) con ogni probabilità un sistema a partito predominante esibirà un grado modesto di

ideologizzazione debole (altrimenti avremmo un partito egemonico)

c) un sistema bipartitico non può essere ideologico

d) è probabile che un sistema pluripartitico sia riconducibile a una configurazione

prevalentemente pragmatica quando i partiti sono tre-quattro, e a una configurazione

prevalentemente ideologica quando i partiti sono cinque o più42.

Altro elemento fondamentale è quello di conoscere quale sia la cultura ufficiale di un partito.

C’è da domandarsi in primo luogo quale sia il rapporto tra la cultura di partito e la cultura

politica del paese. In genere, quest’ultima viene definita come cultura ufficiale, “grande

cultura”, “cultura delle élites”, mentre quella dei partiti viene considerata una sub-cultura

(sub-cultura socialista, cattolica, comunista) rispetto alla cultura nazionale. Si può, tuttavia,

parlare di sub-cultura solo quando quest’ultima vuole porsi in modo autonomo o separato

nei riguardi alla cultura nazionale. Se, invece, vi è un rapporto dialettico tra le due culture,

rapporto reso vivo dal contributo di intellettuali che partecipano sia della vita di partito che di

quella accademica, delle redazioni dei giornali e dei centri di produzione della cultura non

si può segnare una linea di demarcazione tra la “cultura di partito” e la “cultura nazionale”.

Quanto più il partito vive in un circuito chiuso tanto più questa “cultura di partito” rischia di

essere una sub-cultura. In una società “aperta” e in presenza di partiti democratici che

competono tra loro vi è massima comunicazione tra le due culture. Nelle società repressive,

dove i partiti devono operare in un regime di piena o parziale clandestinità, questa

comunicazione manca. Nei regimi totalitari la “cultura di partito” ha tentato di esercitare una

sua egemonia nei confronti della cultura nazionale, ma il risultato non è stato molto felice e

spesso ci si è limitati a produrre istituzioni. Degno di interesse è il problema della

circolazione della cultura tra il vertice e la base del partito. Può infatti accadere che mentre

gli scritti, gli articoli dei dirigenti del partito siano da considerarsi un contributo alla cultura

non solo del movimento ma alla “grande cultura” del paese ed abbiano un’influenza nel

42

G. Sartori, Partiti e sistemi di partito. Corso di Scienza politica, Ed. Universitaria, Firenze, 1964-65, pp. 58-60.

dibattito politico e scientifico non abbiano poi un eguale impatto nella cultura materiale

dell’organizzazione. Si tratta di vedere quali siano le modalità di divulgazione e di

trasmissione del messaggio culturale e quanto esso venga recepito dai quadri intermedi e

dai militanti. Nell’ambito della sinistra italiana, per esempio, il problema del rapporto tra

patrimonio culturale del partito e la base è stato oggetto di ripetute attenzioni.

Molto chiaro in proposito sarà Franco Fortini che sull’ «Avanti!» distingueva tra cultura per il

proletariato, «che è qualcosa di estrinseco e di impartito, non di spontaneo e creativo» e la

cultura del proletariato, cioè «quelle particolari forme di espressioni, consuetudini mentali,

costumi morali, etc. , che sono […] le resultanze delle particolari condizioni di vita del

proletariato stesso […] Dov’è questa spontaneità e creatività del nostro proletariato operaio

e contadino? È evidente che dovremo cercarla innanzitutto nell’azione politica del

proletariato stesso, nelle sue organizzazioni sindacali e di partito, nella storia dei suoi

scioperi, delle sue lotte, delle sue sconfitte e vittorie»43

Per quanto riguarda il programma del partito esso viene di solito approvato dai congressi,

sia che si tratti di programmi “massimi”, cioè che consistono nella traduzione nella pratica

dell’ideologia e che definiscono gli obiettivi massimi e a lungo termine del partito, o

“minimi”, che tendono a quegli obiettivi più realistici che possono essere realizzati

nell’immediato. Se si guarda allo statuto del Partito dei Lavoratori Italiani del 1892 si può

notare che il programma ha come «scopo finale» la «socializzazione dei mezzi di

produzione e la gestione sociale della produzione», strumenti attraverso i quali i lavoratori

possono conseguire la loro emancipazione. Tale scopo finale poteva raggiungersi

«mediante l’azione del proletariato organizzato in partito di classe», che si esplicava però

sotto il «doppio aspetto» 1) di una «lotta di mestieri per i miglioramenti immediati della vita

operaia (orari, salari, regolamenti di fabbrica, ecc) lotta devoluta alle camere del lavoro ed

alle altre Associazioni di arti e mestieri»; 2) «di una lotta più ampia e intesa a conquistare i

poteri pubblici (Stato, Comuni, Amministrazioni pubbliche, ecc) per trasformarli, da

strumento che oggi sono di oppressione e di sfruttamento, in uno strumento per

l’espropriazione economica e politica della classe dominante»44. Ricorriamo ad un passo di

un discorso pronunciato di Turati al V congresso del PSI di Bologna del 1897 per

comprendere meglio la differenza tra programma “massimo” e “minimo” nell’interpretazione

43

Franco Fortini, Per la fine di un equivoco. La cultura proletaria, in «Avanti!», 26 giugno 1947, citato da V. Strainati, Politica e cultura nel Partito Socialista Italiano. 1945-1978, Liguori Ed. , Napoli 1980, pp. 63-64. 44

Il Programma e lo statuto del Partito dei Lavoratori Italiani. Testo definitivo, agosto 1892.

ufficiale della linea del partito:

«Il programma minimo dei socialisti non è il loro programma di governo. Il socialismo non

potrà incominciare ad essere attuato se non dopo la conquista dei pubblici poteri; nel che è

da intendere, non già la conquista di qualche seggio o di qualche minor corpo deliberante,

ma la presa di possesso da parte del proletariato socialista dei congegni fondamentali del

potere politico […] Il programma minimo dei socialisti non è che l’indice sempre mutabile e

progressivo di quelle riforme di maggior portata, le quali, mentre appaiono compatibili col

fondamentale ordinamento economico di un dato momento, ne agevoleranno la graduale

evoluzione a forme superiori, sia elevando il tenore di vita dei lavoratori, sia consentendo

un più normale e cosciente svolgimento delle lotte di classe, sia ringagliardendo le forze del

partito socialista. Il programma minimo dei socialisti è essenzialmente un programma

d’agitazione. Esso si distingue da richieste analoghe di altri partiti per le sue finalità; ravvisa

come mezzo ciò che per altri è fine. Le riforme indicate nel programma minimo dovranno

essere sempre presentate non come soluzioni definitive, ma come facilitazioni al

conseguimento del solo rimedio radicale ai mali sociali, la socializzazione dei mezzi di

produzione»45.

Il passo citato costituisce un esempio di interpretazione di disposizioni statutarie in tema di

programma. Nel caso specifico, il problema dell’adozione di un programma minimo si

inseriva anche nel dibattito sulla opportunità o meno delle alleanze elettorali con i partiti

“affini” (repubblicani e radicali), problema sul quale il partito era diviso tra favorevoli e

“intransigenti”, così come risulta evidente dalla preoccupazione di Turati di precisare che il

programma minimo socialista si distinguesse da «richieste analoghe di altri partiti», che lo

consideravano un fine, quando per i socialisti il fine ultimo rimaneva la socializzazione dei

mezzi di produzione ed il programma minimo un semplice «mezzo» per il suo

conseguimento. Bisogna tener presente, tuttavia, che si trattava, appunto, di una

interpretazione, adottata poi come linea ufficiale del partito, ma rispetto alla quale, e ciò fa

capire l’importanza del momento del dibattito nella vita interno di un partito democratico,

esistevano anche posizioni critiche o divergenti. Vale la pena citare al proposito le posizioni

di Gaetano Salvemini, contrario alla distinzione fatta da Turati tra programma di governo

(socialista) e programma minimo di riforme «compatibili col fondamentale ordinamento

45

In atti del V congresso di Bologna, in F. Pedone, Novant’anni di pensiero e azione socialista attraverso i congressi del PSI. 1892-1914, Palermo 1983.

economico di un dato momento» e favorevole invece ad un solo programma, «socialista»,

da adottare sia che il partito si trovasse al governo, sia che questo fosse all’opposizione.

Salvemini preferiva parlare di «riforme socialiste» e di «programma pratico» ed al proposito

scriveva:

«Ciò posto, è chiaro che noi non abbiamo due programmi: uno massimo, uno minimo; uno

di governo, uno d’opposizione. Noi non abbiamo che un metodo ricostruttivo, il quale

suggerisce, a seconda delle circostanze, riforme immediate, le quali variano

continuamente, e, ottenute le prime, il nostro metodo ce ne suggerisce delle altre. Il nostro

programma non esiste, diviene»

Ciò che può apparire come una sterile disputa nominalistica o teorica aveva invece

l’importante obiettivo di dare un significato non riduttivo o fuorviante al concetto di

programma minimo, e di riempirlo di contenuti maggiormente incisivi. Da qui l’esigenza di

sottolineare «il nesso indissolubile fra le riforme più immediate e legali e le riforme più

lontane e più rivoluzionarie» e di fare in modo che «specialmente le riforme immediate e

compatibili colla presente costituzione politica ed economica [avrebbero dovuto] essere

presentate non come soluzioni definitive, ma come facilitazioni al conseguimento del solo

rimedio radicale ai mali sociali, la socializzazione dei mezzi di produzione»46.

Tornando al nostro discorso sul programma come elemento costitutivo di un partito politico,

bisogna distinguere tra “programma elettorale”, cioè quei punti che entrano a far parte delle

piattaforme elettorali e “programmi di governo”, che vengono fissati al momento della

formazione del governo. Quando il governo è costituito da un solo partito, il programma di

governo tende a ricalcare quello elettorale, anche se le “piattaforme elettorali” contengono

maggiori elementi di utopia rispetto ai policy statement dei governi. Se questi ultimi sono di

coalizione i programmi di maggioranza e di governo sono frutto di trattative tra i partiti e

rappresentano spesso un compromesso tra le diverse posizioni.

Bisognerà, inoltre, vedere quanto dell’ideologia, della cultura e dello stesso programma di

partito viene fatto conoscere all’esterno e quali siano gli strumenti della propaganda 46

Cfr. Contributo alla riforma del programma minimo, in “Critica Sociale”, 16 aprile-1 maggio 1898, ora in G. Salvemini, Opere, II, vol. III, Movimento socialista e questione meridionale, Feltrinelli, Milano 1969. Su G. Salvemini si veda AA. VV, Gaetano Salvemini, Laterza, Bari 1959; M. L. Salvadori, Gaetano Salvemini, Einaudi, Torino 1963; G. Cingari, Gaetano Salvemini tra politica e storia, Laterza, Roma-Bari, 1986; AA. VV. , G. Salvemini metodologo delle scienze sociali, Rubbettino, Soveria Mannelli 1996; F. Grassi Orsini, La “Lega Democratica per il rinnovamento della politica nazionale”: dalla rivista di cultura al superpartito della democrazia, in Il partito politico dalla Grande Guerra al fascismo, a cura di F. Grassi Orsini, G. Quagliariello, Il Mulino, Bologna 1996.

politico-culturale ed elettorale. Per propaganda si intende la diffusione deliberata e

sistematica di messaggi indirizzati ad un determinato uditorio e miranti a creare una

immagine positiva o negativa di determinati fenomeni. Si tratta cioè di uno sforzo

consapevole che mira ad influenzare le opinioni e le azioni di un certo pubblico. Anche nelle

sue moderne definizioni politologiche, il termine viene fatto risalire all’utilizzazione che ne

fece la Chiesa per indicare attività di proselitismo. Nella ideologia e nella prassi comunista

di solito viene fatta una distinzione tra agitazione e propaganda, con il primo termine si

intende la diffusione e la presentazione di una sola idea o poche idee ad un gran numero di

persone, mentre nel secondo caso si intende la diffusione di molte idee ad un uditorio

ristretto. Pasquino afferma che la propaganda ha acquistato nel tempo un’accezione

negativa: essa, infatti, si differenzierebbe dalle altre forme di persuasione perché dà

maggiormente risalto ad elementi puramente emotivi, ricorre a stereotipi, mette in rilievo

soltanto certi aspetti della questione, ha un carattere partigiano47. Ai fini di una

classificazione dei partiti politici attraverso gli elementi che lo costituiscono ha un rilievo

analizzare infatti se nel diffondere l’ideologia, la cultura e le stesse parole d’ordine del

partito si faccia uso di argomenti e di tecniche che si rivolgono alla razionalità o tendono,

invece, a fare appello all’emozionalità, ai sentimenti, all’inconscio delle masse, cioè se si

ricorra alla diffusione di un credo dogmatico, di una mistica, in breve, alla fabbricazione di

un mito e a tale fine se vengano praticate forme di ritualità funzionali allo scopo

dell’integrazione di aderenti e simpatizzanti nel corpo del partito.

Rispetto alle tecniche di propaganda bisogna ricordare che negli ultimi anni si è registrata

un’attenzione crescente nei confronti della comunicazione politica, con degli studi dai

diversi approcci (sociologici, storici, linguistici) sulle tecniche, gli strumenti, il linguaggio

della comunicazione. Bisogna sottolineare che le attenzioni nei confronti di quest’aspetto

della politica, che investe indistintamente le organizzazioni di partito, si sono moltiplicate in

Italia in coincidenza con le trasformazioni subite dal sistema dei partiti agli inizi degli anni

Novanta e con il conseguente apparire di forme di organizzazione politica sotto certi aspetti

“nuove”, ed in particolare per gli aspetti che riguardano appunto il modo in cui il partito si

apre verso l’esterno. Il primo impatto è stato dominato da una diffidenza e da una ricezione

negativa non scevra di implicazioni ideologiche, che ha portato a giudizi demonizzanti su

TV e gigantografie elettorali, inni musicali, gagliardetti di partito e comizi in teleconferenza o

sprezzanti circa la presunta esistenza addirittura di una nuova ed inferiore categoria

47

Vedi voce Propaganda, in Dizionario di Politica, diretto da N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Utet, Torino 1990

antropologica, quella dell’homo videns, alludendo ad un elettorato che subisce

passivamente ed a-criticamente il messaggio televisivo, simbolo dell’era del «post-

pensiero»48. Si tratta tuttavia di un atteggiamento fuorviante e non del tutto disinteressato di

interpretare il fenomeno, se solo si prova ad adottare anche in questo caso un criterio

storico. Il problema del linguaggio della politica, della ricerca e dell’uso degli strumenti più

idonei alla comunicazione è, infatti, vecchio quanto la politica stessa ed è ovvio che tali

tecniche siano adoperate con maggior profitto sfruttando al massimo i vantaggi offerti

dall’innovazione tecnologica.

Da un punto di vista storico le tecniche di propaganda politica hanno subito dei profondi

mutamenti determinati da fattori come il crescente rilievo assunto dal messaggio ideologico

dalla Rivoluzione Francese in poi; la rivoluzione industriale e l’allargamento della sfera della

politica; l’aumento della popolazione mondiale ed il suo inurbamento avvenuti tra Otto e

Novecento; la diffusione della stampa, che da mezzo ristretto ad un’élite diventa un mezzo

di comunicazione di massa; l’accelerazione decisiva impressa dal primo conflitto mondiale

sui tempi e sui modi della circolazione degli uomini e delle idee. Quando la politica comincia

ad assumere una dimensione di massa, il modello di comunicazione da seguire è preso a

prestito dalla tradizione del cristianesimo, sull’efficacia del quale, storicamente, non

possono esserci dubbi: al tempo delle prime rivendicazioni cartiste in Gran Bretagna, nei

primi anni Trenta dell’Ottocento, alcune associazioni radicali, come la Working Men’s

Association di William Lovett, per la diffusione del loro messaggio di emancipazione sociale

e politica tra i lavoratori utilizzavano un modello organizzativo ricalcato su quello della

chiesa metodista inglese, grazie al quale i membri dell’associazione potevano esercitare

una forma di “catechismo” in seno a gruppi di venti-trenta lavoratori con appuntamenti

settimanali. Nella tradizione politica italiana, fu Mazzini ad operare un’efficace sintesi tra le

forme della propaganda sansimoniana – che dava grande importanza al momento del

messaggio, al valore della corrispondenza scritta come forma di diffusione delle idee, alla

necessità di creare una nuova chiesa e di “convertire” al verbo sansimonista -, il

“catechismo” cartista e la tradizione rivoluzionaria repubblicana francese, che faceva uso

regolare di fogli di propaganda, manifesti e giornali. Non a caso, l’organo di stampa della

seconda Giovine Italia che si chiamava indicativamente “Apostolato Popolare”, ad uso degli

operai, visti ormai come elemento indispensabile per la rivoluzione nazionale, nasce nel

1840 a Londra, in pieno dibattito sulla miglior forma della democrazia in Europa. La

48

Cfr. G. Sartori, Homo videns: televisione e post-pensiero, Laterza, Roma-Bari 1997. Il libro ha conosciuto due successive edizioni (1998 e 1999).

tradizione mazziniana viene ripresa in Italia dal movimento socialista. Sul rapporto tra

religione e propaganda politica nella tradizione della sinistra italiana basti citare quanto

scrive Ettore Ciccotti in Psicologia del movimento socialista, scritto nel 1903:

Dire socialismo significa dire propaganda, anche più che per ogni altra fede o religione o

indirizzo d’opinione; perché alla propaganda spinge l’indole della fede, la natura di chi vi è

stato tratto, la necessità di un’azione fattiva onde non isfumi in un’astrazione e non approdi

a una contraddizione. Questo desiderio e bisogno, al tempo stesso di proselitismo, cerca

naturalmente tutte le vie, escogita i mezzi più efficaci, si innesta su tutti gli addentellati,

mette a partito tutte le occasioni49.

Ed ancora a proposito della festa del Primo maggio:

«Negli stessi impulsi, negli stessi motivi, negli stessi fini, da cui hanno origine queste

dimostrazioni, trova la sua ragion d’essere la solennità del Primo maggio. È una

dimostrazione? È una festa? È una rivista? È un monito? È tutto questo, insieme, e qualche

altra cosa ancora. È il più geniale trovato, che dal punto di vista psicologico, estetico,

politico, si potesse escogitare. È una rinnovellata Pasqua cristiana, una festa di ricordi, di

speranze, di rimpianti, triste del presente che si deplora, gioconda dell’avvenire che

s’invoca e si matura, balda della forza che si espande, adombrata di tutte le incertezze e le

pene del futuro. Il fatto di riconcentrare, per mezzo di essa, su di un dato ordine di idee e su

di un indirizzo pratico, a ricorrenza fissa, tutto il proletariato mondiale, dà la guarentigia di

una efficacia pratica mirabile; e si ha la magia e la filosofia di tutte le festività, da quelle

pagane a quelle cristiane, ma estesa sino ad avere per confine il mondo, sino a

raggiungere, con l’universalità, proporzioni altamente epiche»50.

Il libro di Ciccotti, al quale si rimanda per una ricostruzione dettagliata delle forme e dei

mezzi della propaganda socialista, è indicativo di un approccio attento a leggere il

fenomeno mettendolo in relazione con una serie di fattori che ne condizionano la natura: il

sistema politico di riferimento; il contesto sociale - «Già, innanzitutto, da noi abbondano gli

49

E. Ciccotti, Psicologia del movimento socialista, Laterza, Bari 1903, pp. 94-95. 50

Ibidem, p. 120. Sull’importanza del Primo maggio per il movimento socialista si veda Storie e immagini del 1° maggio. Problemi della storiografia italiana e internazionale, a cura di G. C. Donno, Lacaita, Manduria 1990

analfabeti per cui non è possibile altra propaganda che quella parlata», scriveva Ciccotti51 -;

l’ambiente in cui si comunica (un’aula del Parlamento o una piazza per un comizio

elettorale, una festa popolare o una commemorazione funebre, ecc.); il target di riferimento

(un pubblico di notabili o di contadini, di operai o di studenti universitari, di donne o di

uomini, ecc.). Riguardo al contesto socio-politico di riferimento, ha scritto Michele Salvati in

una articolo di recensione ad un libro di Colin Crouch dal titolo Postdemocrazia che oggi

«gli stessi grandi partiti usano sempre di più messaggi ultra-semplificati e semi-populistici,

volti a catturare lampi di momentanea emozione in elettori disinteressati alla politica, non a

coinvolgerli in un ragionamento pacato: ovunque le tecniche della pubblicità commerciale

sommergono il vecchio mondo dei programmi e delle piattaforme elettorali ragionate»52.

Tornando al nostro discorso iniziale sulla propaganda e chiarito il fatto che utilizzare al

meglio uno strumento di propaganda in un sistema democratico non equivale

automaticamente ad avere pretese da Grande Fratello orwelliano e che non si tratta di

un’attitudine appartenente soltanto ad una tradizione reazionaria o totalitaria, ma anche a

movimenti politici e partiti che sono stati bandiere di democrazia, di progressismo e di

avanzamento sociale, bisogna dire che oggi lo stato degli studi su linguaggio e strumenti

della comunicazione politica consente di leggere il fenomeno in maniera più equilibrata53.

D’altronde, i continui progressi nel campo dell’innovazione tecnologica costringono gli

addetti ai lavori, in primo luogo gli attori della politica, a mantenersi costantemente

aggiornati, così come dimostra l’uso massiccio del web da parte ormai di quasi tutti i partiti

politici, senza distinzione di campo, i quali più che come mezzo di estensione della

partecipazione politica, utilizzano i loro siti come “vetrine” attraverso le quali esporre la

propria immagine, in funzione, appunto, propagandistica54.

51

Ibidem, p. 99. 52

M. Salvati, Il populismo nei Paesi ricchi e i rischi della post-democrazia, in “Il Corriere della Sera” del 3 novembre 2003. Il libro di Colin Crouch è edito da Laterza. 53

Citiamo alcuni testi di riferimento: C. Dato Giurickovic, Polimatica? L’impatto delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione sulla vita politica, ESI, Napoli, 1990; G. Mannoni, Di Pietro e Berlusconi: la rivincita del senso comune nell’era tecnologica, Firenze 1994; Linguaggio e politica, a cura di C. Ciseri Montemagno, Le Monnier, Firenze 1995; La comunicazione politica tra Prima e Seconda Repubblica, a cura di M. Livolsi e U. Volli, Angeli, Milano 1995; A. Forconi, Parola da cavaliere. Il linguaggio di Berlusconi dai tempi del potere al tempo dell’opposizione, Ed. Riuniti, Roma 1997; La costruzione linguistica della comunicazione politica, a cura di D. R. Miller e N. Vasta, Cedam, Padova 1997; G. Mazzoleni, La comunicazione politica, Il Mulino, Bologna 1998; Il cambiamento imperfetto: i cittadini, la comunicazione politica, i leader degli anni Novanta, a cura di F. P. Colucci, Unicopli, Milano 1998; S. Bentivegna, Comunicare in politica, Carocci, Roma 2001. 54

Sull’uso di Internet da parte dei partiti politici si veda F. Grassi, G. Nicolosi, Luci ed ombre della cyberpolitica: i governi on-line, il partito telematico, in “Storia e Futuro. Rivista Informatica di Storia Contemporanea”, n° 1, aprile 2002 (www.storiaefuturo.com). 54

Moisei Ostrogorski, nel suo studio della leadership nel partito inglese di fine Ottocento, aveva per primo individuato la “venerazione” per il leader liberale William Gladstone, dotato di qualità magnetiche e di

Infine, un altro aspetto da indagare è di accertare quale sia il rapporto tra il leader (o i

dirigenti del partito) e gli iscritti e i militanti. Se cioè il rispetto e la fiducia verso il capo

dipende da un rapporto di natura politica: se si ritiene che egli meglio serva gli interessi di

partito, ne interpreti con maggior successo la linea, dimostri di possedere maggiori qualità

politiche o se il suo carisma deriva solo dal fatto di rivestire quell’ufficio, come riflesso della

indiscussa autorità ed infallibilità del partito, e nei suoi confronti si venga a creare un culto

della personalità. Il problema della leadership non si è posto soltanto in relazione ai leader

“carismatici” nel contesto dei regimi totalitari o delle cosiddette “democrazie plebiscitarie”.

E’ vero che la questione del rapporto diretto leader-masse si pose nei riguardi del

“cesarismo bonapartista” che costituì un tentativo di superare il modello del

costituzionalismo censitario. Diverso fu invece il problema dei leader carismatici nei regimi

totalitari. Questi due esempi, che non riguardano i regimi democratici, semmai la loro crisi,

appartengono ad epoche tanto diverse che è anche difficile vedere molti lati comuni ai

“sistemi plebiscitari”. Il problema della leadership si pone in modo assai diverso nei sistemi

democratici, in presenza di partiti moderni. Questo problema fu individuato dagli scienziati

politici di fine Ottocento che studiarono la nascita dei partiti moderni (Ostrogorski; Michels,

Weber)55. Se noi prendiamo in esame le democrazie moderne, che si fondano su sistemi di

partito, dove, aldilà del carisma del leader, non è possibile un rapporto diretto con le masse

di tipo plebiscitario, il problema della leadership si pone in due diversi modelli: quello delle

“democrazie con leader” (sistemi presidenziali o semi-presidenziali) e quello delle

“democrazie acefale” o meglio a leadership-collettiva (L. Cavalli). Nelle “democrazie con

leader” non vi sono rischi plebiscitari. È opportuno a questo proposito ricordare quanto

scrive Cavalli:

«[…] le dittature totalitarie fra le due guerre si sono imposte nella crisi di democrazie deboli,

“senza leader”, e non in quelle caratterizzate, come il Regno Unito, da una forte leadership

[…] Ma, soprattutto, non si dovrebbe mai dimenticare che la leadership monocratica nelle

democrazie occidentali si può ormai manifestare soltanto entro i solidi limiti posti dalle leggi

e da una coscienza pubblica largamente autonoma, e con il controllo delle verifiche

elettorali. Come è accaduto in Francia […] Sicché quelle preoccupazioni, alla luce della

capacità oratorie. Max Weber aveva descritto l’elemento carismatico nella leadership quale fattore di produzione della “democrazia plebiscitaria”, individuando un rapporto diretto capo-masse. Michels si riferiva al “cesarismo plebiscitario” e analizzava in particolare i leaders carismatici della Socialdemocrazia tedesca. Secondo Michels tale tendenza era il risultato della sopravvivenza di un elemento religioso primitivo: c’era dunque una continuità del misticismo e della ritualità cristiana nella leadership moderna.

fredda ragione, non hanno oggi ragion d’essere; e restano forti in campo gli argomenti a

favore della democrazia con leader»56.

Il rapporto tra ideologia, cultura, propaganda, mito e leadership è tale da definire alcuni

caratteri distintivi del partito.

Ad esempio, in un partito d’opinione l’ideologia è un elemento “debole”, se non assente o

addirittura contestato, la cultura e la tradizione del partito vengono evocati come semplici

riferimenti ideali ai fini della indicazione di un’identità storica, ma l’elemento fondamentale

su cui si unifica il partito e si articola la propaganda è il programma e la piattaforma

elettorale. Nella propaganda si fa piuttosto riferimento ad elementi razionali e ci si serve di

tecniche prese a prestito dalla pubblicità; la ritualità è molto bassa e semmai risponde alla

esigenze di una società dello spettacolo. La leadership è un elemento importante, ma non

si ricorre al culto della personalità.

In un partito democratico-elettorale di massa, invece, l’ideologia in quanto tale è una

reminiscenza del passato, che continua ad avere un certo fascino, la cultura e la tradizione

hanno molta importanza e spesso finiscono per prevalere sul programma, che ha valore in

quanto è coerente con il passato e ne rappresenta un aggiornamento. Nella propaganda

non si tende a far ricorso ad elementi di carattere irrazionale, ma in ogni caso si deve tener

maggiore conto della psicologia delle masse. La ritualità può essere presente in qualche

misura anche nel partito non ideologico, ed anche una leadership forte ed autorevole è un

elemento necessario. Tale leadership è spesso collettiva, sotto forma di un gruppo

dirigente.

Diversa è ancora la situazione in cui si sono venuti a trovare i partiti unici nei regimi

totalitari. Per essi l’ideologia doveva prevalere sulla cultura, e nella propaganda la

propensione verso la diffusione del mito era irresistibile; molto forte era la ritualità ed

immancabile era il ricorso al culto della personalità.

56

L. Cavalli, Il leader e il dittatore. Uomini e istituzioni di governo nel “realismo radicale”, Ideazione, Roma 2003, p. 98.

Tabella 1 Partiti ed elementi idologico-culturali

Partiti Ideologia Cultura Programma Propaganda Ritualità Leader

Partito

d’opinione

Debole/Assente Tradizione/Identità

storica

Forte Razionale Assente Media/Forte

Partito

elettorale

democratico

di massa

Debole/Media Importante

Prevale sul

programma

Media Diretta alle

masse –

meno

razionale

Media/

Forte

Forte

Partito

Totalitario

Forte/Prevale

sulla cultura

Cultura =

Ideologia

Debole Non

razionale –

ricorso al

mito

Forte Forte/ Culto

della

personalità

Elementi organizzativi.

Per quanto riguarda gli elementi più propriamente organizzativi si deve far riferimento al

modello, allo statuto, al programma e alle strutture organizzative del partito.

Il modello di partito è una cosa diversa da quella categoria idealtipica cui abbiamo fatto

inizialmente riferimento (la forma-partito). Esso può essere inteso in modi diversi e ha dato

luogo nei differenti contesti disciplinari a molteplici classificazioni di partito. I partiti possono

essere classificati a secondo della loro formazione, secondo cioè un “criterio genetico” (per

creazione interna o esterna, per diffusione o penetrazione territoriale), a secondo delle

modalità di istituzionalizzazione oppure a secondo del ruolo esercitato nella competizione

tra i partiti e nel sistema politico. Essi possono poi essere classificati dal punto di vista

morfologico e delle caratteristiche organizzative, oppure della loro storia. Se usiamo il

termine modello nel significato di forma storica, allora parleremo di “modello liberal-

democratico”, di “modello socialdemocratico”, di “modello comunista”. Forse più

propriamente si potrebbe utilizzare il termine modello nel significato organizzativo-

istituzionale (partito d’opinione, partito democratico-elettorale di massa, partito

organizzativo di massa, partito unico in un regime totalitario).

Lo statuto è la “costituzione” del partito. Come abbiamo avuto modo di vedere, gli statuti in

apertura contengono di norma una parte introduttiva dedicata all’ideologia, ai principi/valori

o alla cultura o tradizione cui si ispira il partito o il movimento, anche se ciò non costituisce

una regola.

Tuttavia, se si tiene conto di questi elementi organizzativi, si può vedere come in un partito

d’opinione abbia poca importanza il riferimento ad un modello, mentre lo statuto sia un

elemento centrale nella vita sociale. In genere, in questi partiti si riscontra una scarsa

centralizzazione delle decisioni, una maggiore autonomia delle organizzazioni periferiche,

la minore consistenza degli apparati permanenti, la scarsa presenza o l’assenza di

“professionisti della politica”, una maggiore democrazia interna, il riconoscimento della

libertà di coscienza e l’assenza di un rigore disciplinare, salvo in caso di gravi infrazioni. In

un partito d’opinione, la cui espressione maggiore è quella della partecipazione alle

elezioni, prevalgono le contribuzioni esterne, di solito versate localmente.

Nel partito democratico di massa, l’importanza del modello è più grande, ma il rispetto

dello statuto non è inferiore a quello che dimostra un partito d’opinione. L’organizzazione di

un partito democratico elettorale di massa può contare su di una forte e capillare

organizzazione locale, che utilizza sia funzionari pagati che agenti volontari. Ha un ufficio

centrale che ha funzioni di coordinamento; può servirsi di un quadro di funzionari, il che non

contraddice la democrazia interna, anche se la minoranza è tenuta a rispettare le decisioni

della maggioranza e la disciplina esterna. Il partito democratico di massa ricorre in parte

all’autofinanziamento, in parte a finanziamenti privati.

I partiti organizzativi di massa hanno una struttura fortemente centralizzata e un forte

apparato burocratico.

Nei partiti unici dei regimi totalitari, il modello prevale nei riguardi dello statuto, la cui

osservanza è solo formale. Manca una democrazia interna, in quanto i suoi componenti

non solo devono rispettare la disciplina all’esterno, ma devono allinearsi alla linea del

gruppo dirigente se non vogliono passare per frazionisti. La formula impiegata dai

comunisti per giustificare questa regola, come abbiamo visto, era il cosiddetto “centralismo

democratico”, ma altrettanto avveniva nei partiti fascisti o nazisti. Nei partiti totalitari, il culto

della personalità o il “Fuehrer Prinzip” era una regola . Per quanto riguarda il finanziamento

dei partiti unici, esso era prevalentemente pubblico, anche se non mancavano le

quotizzazioni degli iscritti.

Tabella 2 Partiti ed elementi organizzativi

Partiti Modello Statuto Organizzazione Democrazia

Interna

Disciplina Finanziamento

Partito

d’opinione

Debole Forte Leggera Maggiore Debole/Media Esterno

Partito

elettorale di

massa

Forte Meno

Forte

Media/Forte Media Media/Forte Autofinanziamento/

Contribuzioni

private

Partito

Totalitario

Forte Debole Forte Assente Forte Pubblico

Elementi sociologici

Grande importanza nella caratterizzazione di un partito ha la sua composizione sociologica.

Uno studio dei parlamentari e dei dirigenti per quanto riguarda la situazione economica,

l’estrazione sociale, la provenienza geografica, la formazione culturale e la situazione

professionale è assai significativa per comprendere non tanto quelli che possono essere i

comportamenti politici, quanto a stabilire quale rapporto il gruppo dirigente ha con le classi

dominanti del paese da una parte, e, dall'altra, con gli iscritti che rappresentano. Molto

spesso accade che i dirigenti dei partiti “operai” provengano dalla piccola e media

borghesia, in qualche caso anche dall’alta borghesia. Ciò non contraddice necessariamente

il carattere di classe del partito, in quanto alla base dell’adesione del singolo dirigente al

partito può esserci stata una scelta di campo ed una rottura con la classe di origine. Più

significativa dell’origine sociale, è il comportamento politico di questi dirigenti di estrazione

borghese. D’altra parte, in origine questi ultimi hanno svolto un ruolo di supplenza nei

confronti di una nuova classe politica. Naturalmente più produttiva, è un’analisi statistica dei

quadri intermedi e del corpo del partito ed infine dell’elettorato che gravita attorno al partito.

Il dato sociologico rischia di essere spesso in contraddizione con la politica di un partito ed

anche con la funzione di classe che essi dichiarano di svolgere.

Conclusioni

In conclusione, l’analisi dei caratteri del partito cui abbiamo fatto cenno deve riguardare la

cultura e rivelare se si tratti di un partito ideologico che privilegi i valori rispetto agli

interessi e sia portatore di una diversa visione del mondo, conservando la speranza di poter

produrre un cambiamento radicale della società. Al contrario, si tratterebbe di un partito

pragmatico, che mette in primo piano la tutela degli interessi e si pone come obiettivo la

gestione del potere. Da questo punto di vista, si può trattare di un partito che non intende

cambiare le regole del gioco, anzi sia del tutto soddisfatto del sistema e lo intenda

conservare nei suoi aspetti migliori o che, pur rispettando le regole, voglia operare in modo

gradualistico, per cambiare in senso innovativo gli equilibri politici e sociali o un partito che

intenda promuovere un cambiamento radicale del sistema e che ha una concezione

integralistica e totalitaria della politica. I partiti possono su questa base essere classificati

come conservatori, riformisti o rivoluzionari o, se volete, totalitari.

Se, invece, si prendono in esame i modelli storici cui si ispirano, essi possono partiti

liberaldemocratici, socialdemocratici, comunisti, ecc. Se si tiene conto del loro statuto e

si vede come si risolve il rapporto tra maggioranza e minoranze, individuando se vi sia il

riconoscimento della liceità dell’organizzazione delle correnti, allora si potrà dedurre se ci

troviamo dinanzi ad un partito che garantisce o meno la democrazia interna. Se si parte

da un’indagine sull’organizzazione interna si potrà concludere se il partito abbia

un’organizzazione forte o debole. Se, invece, ci si sofferma a considerare il modo con cui

è risolto il rapporto tra centro e periferia, si potrà concludere se ci troviamo di fronte ad

un’organizzazione più o meno accentrata, se le unità territoriali periferiche siano dotate

di grande autonomia potremo parlare di un partito di tipo federalista e ciò vale soprattutto

quando il partito risulti dalla federazione di sezioni, circoli culturali ed associazioni di

categoria tra di loro indipendenti, ma collegate con il partito. Se si guarda al numero degli

iscritti e alle dimensioni del partito potremo parlare o meno di partito di massa.

Inoltre, lo studio di un partito non può limitarsi alla sua storia “interna”, perché si deve aver

riguardo anche dei suoi rapporti con il movimento. In realtà, bisogna analizzare quale

rapporto ci sia tra il partito e la sua area militante, con i simpatizzanti e con gli elettori. Un

partito può essere scarsamente interessato ad aumentare gli iscritti, mentre invece si

sforza di aggregare consensi attorno alle sue campagne politiche, tenendo cioè ad

avere pochi iscritti e molti simpatizzanti. In questo caso, si tratterà di un partito

d’opinione. Se, al contrario, tenderà a far divenire militanti i suoi simpatizzanti si avrà

un partito d’integrazione. Se, invece, il partito non intende aumentare il numero dei suoi

simpatizzanti o dei suoi sostenitori esterni, ma si contenterà di formare i suoi dirigenti si

tratterà di un partito di quadri. Se, infine, si preoccuperà soltanto di incrementare le sue

fortune elettorali ed agirà solo nel contesto parlamentare si dirà che si tratta di un partito

elettorale di rappresentanza individuale. Da un simile studio, possono emergere alcuni

elementi importanti riguardo alla capacità di mobilitazione, all’efficienza elettorale e politica

di un determinato partito ed al suo coefficiente di sociabilità. L’individuazione di questo

rapporto può servire quindi a rilevare quale funzione svolge il partito rispetto agli iscritti o

all’area militante o agli elettori, così come risulta dalla sintesi della tabella che segue:

Tabella 3 Partiti e scritti/area militante/elettori

Partiti Rapporto Livello di

interesse

Funzione

Partito d’opinione a) dirigenti - iscritti

b) dirigenti - area

militante

c) dirigenti - elettori

a) scarso

b) moderato

c) massimo

Partito di

rappresentanza

individuale;

Partito parlamentare

Partito democratico di

massa

a) dirigenti - iscritti

b) dirigenti - area

militante

c) dirigenti - elettori

a) moderato

b) massimo

c) massimo

Partito d’integrazione

Partito totalitario a) dirigenti - iscritti

b) dirigenti - area

militante

c) dirigenti - elettori

a) scarso

b) massimo

c) scarso

Partito di quadri

Il rapporto tra partito e “movimento”, inteso come area di insediamento sociale, come

spazio politico-elettorale e come area culturale non va visto soltanto in un quadro

atomistico, dove cioè compaiono, da una parte, l’organizzazione politica, dall’altra, degli

individui che siano iscritti, militanti, sostenitori, simpatizzanti od elettori, titolari di diritti,

aspettative e doveri via via più attenuati a seconda dell’impegno che queste categorie di

cittadini si assumono nei riguardi del partito. C’è da considerare il tipo di collegamento che

si stabilisce tra quest’ultimo e le organizzazioni sindacali, associazioni culturali o di

categoria, movimenti femminili, giovanili, ambientalisti. Questi rapporti possono essere di

completa autonomia reciproca; oppure vi può essere un collateralismo tra associazioni

fiancheggiatrici e partito, che si serve di questi strumenti come sue “cinghie di

trasmissione”; vi può essere, al contrario, una preminenza di queste associazioni

sull’organizzazione politica.

A titolo esemplificativo, possiamo ricordare che nell’Italia repubblicana lo statuto del Partito

Radicale del 1967 prevedeva proprio un modello di partito federativo articolato in partiti

regionali e associazioni radicali, che potevano costituirsi per perseguire finalità «politiche,

culturali, sindacali o altre autonomamente determinate». In quel modello, era prevista

anche l’adesione di associazioni non radicali, che potevano anche non iscriversi al partito e

per un periodo limitato nel tempo e prefissato. Durante il dibattito statutario emerse il

concetto che fossero le associazioni a fungere da organi periferici del partito, ma con una

differenza sostanziale rispetto alle sezioni, ai circoli o alle federazioni dei partiti tradizionali:

riguardo ad esse, infatti, lo statuto del partito garantiva l’autonomia di azione e

l’autoregolamentazione e, elemento essenziale, esse non avevano una delimitata

competenza territoriale, tant’è vero che nello stesso ambito potevano coesistere più

associazioni con obiettivi diversi ed in linea di principio sia le associazioni che i partiti

regionali avrebbero dovuto intraprendere iniziative politiche non locali, cioè di carattere

nazionale o internazionale. L’idea era insomma quella di creare «non delle associazioni di

partito, ma un partito di associazioni», nell’esigenza di aprire il partito verso l’esterno e

sfruttare più canali attraverso i quali convogliare la domanda politica. Giocava a favore di

quel tipo di organizzazione l’esperienza positiva della LID, la Lega Italiana per il Divorzio,

che era stato appunto un modello di organizzazione di massa sulla quale si era registrata la

convergenza di elementi di diversa affiliazione partitica ed alternativa rispetto alle strutture

tradizionali. Una struttura federale che prevede la presenza di organi di partito ‘locali’

(Divisional Labour Parties) ed associazioni di natura politica (come la Fabian Society),

cooperative o sindacali è quella del Partito Laburista inglese, a cui infatti sembra che

abbiano guardato i Radicali di Pannella al tempo dell’elaborazione del loro primo statuto57.

57

Per lo statuto del secondo Partito Radicale si veda M. Teodori, P. Ignazi, A. Panebianco, I nuovi radicali. Storia e sociologia di un movimento politico, Mondadori, Milano, 1977. Sul dibattito statutario: G. Nicolosi, Il secondo Partito Radicale. Idea di partito e organizzazione, relazione al convegno “I Partiti politici nell’Italia repubblicana”, Siena 5-6 dicembre 2002, atti in corso di pubblicazione. La relazione è al momento disponibile nella sezione “attualità politica” del sito www.radioradicale.it.

Il partito nell'ordinamento costituzionale

Si è già ampiamente messo in rilievo come il partito sia “funzione” del sistema politico. La

società politica è formata dallo Stato, dalla Amministrazione Pubblica, dai poteri locali e dal

sistema dei partiti.

Occorre, in primo luogo, approfondire quale sia la valutazione dell’ordinamento

costituzionale nei confronti dei partiti. A questo riguardo, l'ordinamento può avere un

atteggiamento di ostilità (Bekampfung), indifferenza (Ignorierung), riconoscimento giuridico

(Anerkennung und Legalisierung) e inserimento nell'organizzazione statale (Inkorporation)

(Triepel). Di conseguenza, i partiti possono essere vietati, tollerati, non avere una loro

personalità giuridica ed essere considerati delle società di fatto senza il bisogno di essere

riconosciuti; avere una loro personalità giuridica ed essere degli enti di natura privatistica

(per la cui esistenza si richieda un'autorizzazione) o avere carattere pubblicistico e, nel

qual caso, i partiti possono essere considerati degli enti ausiliari o addirittura organi dello

stato. Il trattamento giuridico del partito dipende dal tipo di ordinamento e/o dal tipo di

sistema politico, dalla visione più o meno liberale che il legislatore costituzionale dimostra

di avere in materia di libertà d’associazione, può , inoltre, dipendere da quella che è la

teoria della rappresentanza e, infine, da quelle che sono le tradizioni politiche di un

determinato paese. La fase dell'ostilità nei confronti dei partiti politici fu comune all'inizio a

molti ordinamenti. In verità, la concezione individualistica dei diritti politici, prevalsa con la

rivoluzione francese, e la stessa idea del sistema rappresentativo allora prevalente, si

scontrava con la formazione di associazioni politiche, che erano considerate come “società

speciali”, che si interponevano tra il cittadino e lo stato, mettendone in pericolo l’unità e la

sovranità. Seguì una fase di “tolleranza” in cui si riconobbe che il sistema parlamentare

era fondato sulla libera competizione di organizzazioni politiche ed elettorali, ma si

riteneva che esse facessero parte della sfera privata e per questo non dovessero essere

soggette a controllo pubblico se non contravvenivano alla legge. Successivamente, si prese

atto che i partiti politici, pure rimanendo nella sfera privata, esercitavano una funzione nella

formazione di organi pubblici come le assemblee rappresentative, vista la loro opera nella

designazione dei candidati e la loro partecipazione alle campagne elettorali. Questa

funzione di “creatori di organi” che i partiti assolsero nel sistema parlamentare pose il

problema della acquisizione della personalità giuridica e del controllo pubblico sulle

associazioni politiche. Infine, date le funzioni svolte dai partiti, si giunse in qualche caso

anche alla loro incorporazione nell’ordinamento costituzionale, attribuendo loro uno statuto

pubblico.

L’evoluzione della disciplina delle associazioni politiche nell’ambito del più generale diritto

di associazione, che fu, a sua volta, filiazione di quello di riunione, ebbe fasi diverse nei

differenti ordinamenti occidentali ed arrivò anche a sbocchi tra di loro differenziati.

In Francia, nel periodo rivoluzionario, dopo un’iniziale incertezza, le associazioni vennero

proibite. Nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 26 agosto 1789 non si menzionava

esplicitamente il diritto di associazione. La legge del 13 e 19 novembre 1790, oltre al diritto

di riunione, riconosceva la libertà di formare “società libere purché osservassero le leggi

che reggevano tutti i cittadini”. Il che portò alla straordinaria fioritura dei clubs. Già con la

legge 18-22 maggio 1791 venne vietata la costituzione di associazioni. Con la Costituzione

del 1791 venne sancita la libertà di riunione, ma venne contemporaneamente formalizzato il

divieto di votare petizioni, costituire delegazioni sostituendosi alle istituzioni

rappresentative. Con il decreto 16 ottobre 1794, pur con molte limitazioni, venne ammessa

la liceità delle associazioni, che tuttavia vennero proibite successivamente dalla

costituzione del 1795. Anche durante il periodo napoleonico si faceva una distinzione tra

diritto di riunione e quello di associazione. L’ostilità, quindi, perdurò e venne aggravata con

la Restaurazione. Nel Secondo Impero, la costituzione non assicurava il diritto di

associazione, ma prevedeva soltanto quello di riunione, sottoponendolo all'autorizzazione

preventiva di polizia. Sino alla soglia degli anni ’80, le associazioni politiche erano vietate.

I progetti di legge presentati alla Camera nello scorcio di secolo non portarono ad una

definizione del problema. Con la progressiva attenuazione delle leggi repressive dei clubs

il fenomeno trovò nella legge del 1901 una soluzione contrattualistica, in quanto le

associazioni politiche vennero omologate a quelle di diritto comune. É soltanto verso la fine

della III^ Repubblica che i partiti acquisirono una loro legittimazione, in particolare, con la

Résolution del 1 luglio 1910 sul riconoscimento dei gruppi parlamentari e con la successiva

legge del 12 luglio 1919, che introduceva lo scrutinio di lista (Kheitmi).

Anche in Gran Bretagna, il diritto di associazione non fu conquistato senza grandi lotte. Tra

il 1794 ed il 1831, le associazioni vennero proibite ed in alcuni casi l' “habeas corpus”

venne sospeso nei riguardi, prima, dei dirigenti delle associazioni democratiche e, poi,

dell'Associazione cattolica d'Irlanda. Il principio su cui si basava l’ostilità dell’ordinamento

era la convinzione che quelle associazioni tendevano a sostituire il parlamento come

corpo rappresentativo e a usurpare i poteri di un organo depositario della sovranità

nazionale. Tale posizione fu riaffermata anche nei confronti della Unione di Birmingham,

che mirava a «formare un’associazione tra le classi inferiori e le classi medie»,

adottando una organizzazione nazionale fondata sul sistema dei caucus. La Camera dei

Lords sostenne che «le associazioni, composte di corpi separati, con diverse divisioni e

suddivisioni, con capi gerarchicamente organizzati e distinti, soggette al controllo e alla

direzione di un consiglio superiore, erano illegali ed incostituzionali». A partire dagli anni ‘70

dell’800, a seguito delle lotte sostenute per il diritto di associazione, in Gran Bretagna si era

stabilita una fitta rete di società politiche e per la legge inglese i cittadini conquistarono il

diritto di formare liberamente associazioni. Nel 1877, in risposta a due interrogazioni degli

onn. Bowyer e Chamberlain, rispettivamente per i liberali ed i conservatori, l’Attorney

General58 rispose che, «non cadendo le associazioni politiche sotto l’applicazione della

legge, egli non intendeva perseguirle, né consultare i giureconsulti della corona» e che le

leggi repressive ed in particolare l'Atto del 1799 erano giustificate dalla situazione politica

del tempo ed erano dirette ad impedire e sciogliere delle società segrete.

L’associazionismo è da quel momento divenuto la base dell’educazione politica ed il

fondamento della società civile inglese.

La Germania è stato il paese europeo che dimostrò la maggior larghezza di vedute in

materia di diritto di associazione, anche se sottopose le associazioni politiche al controllo

dello stato. Sino al 1830 non vi furono restrizioni alla libertà di riunione. Con il decreto

federale del 1832, vennero proibite le “associazioni politiche”. Nella costituzione tedesca

del 1848, nel terzo paragrafo dell'art.7, si disponeva che «i tedeschi hanno diritto di formare

associazioni. Questo diritto non deve essere limitato da alcuna disposizione preventiva». Il

fallimento della rivoluzione del 1848 portò ad una restrizione del diritto di associazione, ma

nel 1858, la legge sassone prevedeva che «non ci fosse bisogno di autorizzazione per

costituire associazioni. Queste non acquistavano la personalità giuridica che in virtù di una

concessione espressa dello stato». Le altre legislazioni statali finirono per uniformarsi a

questo principio e l’ordinamento tedesco recepì la regolamentazione statale. A parte

alcune leggi eccezionali contro i socialisti ed i cristiano-sociali, la libertà di associazione fu

quindi garantita, anche se l'esistenza delle associazioni fu subordinata al riconoscimento

statale.

Negli Stati Uniti, la libertà di associazione nel campo politico fu sempre illimitata e

l'esistenza di un vasto reticolo di associazioni è da considerarsi una delle caratteristiche

58

Il Procuratore Generale

fondamentali della democrazia americana. Tocqueville riconosceva che negli Stati Uniti «la

libertà di associazione è diventata una garenzia necessaria contro la tirannide della

maggioranza».

In Italia, prima del 1848, gli ordinamenti degli Stati preunitari furono marcati dall'ostilità

verso le associazioni politiche. Lo Statuto albertino, all'art. 32, riconosceva il diritto di

riunione: «É riconosciuto il diritto di adunarsi pacificamente senz'armi, uniformandosi alle

leggi che possono regolarne l'esercizio nell'interesse della cosa pubblica. Questa

disposizione non è applicabile alle adunanze in luoghi pubblici o aperti al pubblico, i quali

rimangono soggetti alle leggi di polizia».

Nello Statuto, divenuto con l'Unità la costituzione del Regno d'Italia, non vi era nessuna

disposizione che facesse espresso riferimento al diritto di associazione. Con la

promulgazione dello statuto venivano, però, aboliti anche quegli articoli del codice penale

sardo, ispirato alla legislazione francese, che vietavano le associazioni politiche.

L’abrogazione di tali articoli avvenne sulla base del riconoscimento da parte del legislatore

della contraddizione tra queste disposizioni ed il “nuovo ordine politico” (Decreto Reale del

26 settembre 1848). La dottrina dominante riteneva che il diritto di associazione fosse

implicitamente riconosciuto, anche se la sua disciplina doveva poi essere affidata ad una

legge ordinaria (Brunialti). Si osservava, inoltre, che la libertà di riunione si doveva

considerare come una delle più preziose guarentigie costituzionali, anche perché «il nostro

diritto pubblico non si può far consistere tutto nella lettera o nello spirito di un articolo del

medesimo o di leggi speciali, bensì emana dal complesso sviluppo della vita pubblica,

traverso al quale appunto dobbiamo ricercare in qual modo sia intesa presso di noi

codesta grande libertà» (Ferracciu). Alla Camera italiana venne a più riprese discusso il

problema di regolamentare le associazioni, non mai per vietarle dato che, da parte del

Parlamento, venne sempre riconosciuta questa libertà costituzionale, né per introdurre un

controllo preventivo, ma semmai per prevedere dei limiti a queste organizzazioni e facilitare

la repressione di quelle società che propagandavano “principi contrari allo statuto e

all'ordine pubblico”. Il governo Rattazzi, affermando il suo diritto a sciogliere le associazioni

“pericolose” mise fuori legge, nell'agosto 1862, le “Società emancipatrici” che sostenevano

l'iniziativa di Garibaldi. I successivi governi della Destra, con l'approvazione o senza

l'approvazione del Parlamento, sciolsero le associazioni che ritenevano “pericolose”. I

gabinetti di Sinistra non seguirono una linea diversa, basti pensare allo scioglimento delle

organizzazioni anarchiche da parte del Ministro Nicotera nel 1877. Nel 1878-1879, si ebbe

alla Camera un dibattito sulla opportunità dello scioglimento preventivo di associazioni, per

evitare la perpetrazione di reati e di atti tendenti a comportare turbamenti dell'ordine

pubblico, il che avrebbe inevitabilmente reso necessaria la introduzione di

un'autorizzazione preventiva dell'autorità di polizia per la costituzione di un'associazione.

Tale impostazione, portata avanti da alcuni esponenti della Destra (Minghetti e Bonghi) fu

confutata sia da Cairoli che da Zanardelli, i quali sostenevano che lo statuto non dava al

potere esecutivo la facoltà di vietare preventivamente le riunioni, né di sciogliere le

associazioni pericolose, ma soltanto quella di deferirle all'autorità giudiziaria quando si

aveva sentore di reato e che spettava a quest'ultima il potere di reprimerle. Cairoli e

Zanardelli dovettero lasciare il potere perché la Camera respinse un o.d.g. sul quale il

governo chiedeva la fiducia. Il 3 aprile 1879, Depretis, prendendo lo spunto dalla attività

propagandistica delle organizzazioni repubblicane, dichiarava la posizione del governo in

ordine alle associazioni politiche: «Nessun provvedimento finché queste associazioni

rimangono nel campo speculativo [...] Se escono dal campo speculativo ed entrano in

quello dell'azione [...], il governo deve alla sua volta riservare la sua libertà d’azione per

reprimerle. Il dovere che il governo si impone “è quello di esercitare” un’immediata

repressione all’apparire di qualsiasi fatto che a termini delle leggi vigenti costituisca reato o

l’evidente preparazione a commettere un reato». La Camera, prendendo atto delle

dichiarazioni del Presidente del consiglio approvò un ordine del giorno che “riaffermava

l'inviolabilità del diritto d’associazione”. Spaventa, nel suo celebre discorso sulla “Giustizia

nell’Amministrazione”, qualificò l’interpretazione dell'art. 32 da parte di Depretis un «arbitrio

mostruoso» quello di sottoporre alla repressione preventiva della polizia gli atti preparatori

non qualificati come reati dalla legge penale. Spaventa non contestava il diritto di sciogliere

associazioni pericolose. Nella prassi amministrativa si conoscono in quel periodo lo

scioglimento di alcune associazioni irredentiste tra il 1889-1890. Nel 1891, venne

esaminata la opportunità di vietare le organizzazioni anarchiche. Tale legge non fu

necessaria, perché la magistratura le qualificò, a termine dell'art. 248 del codice penale,

«associazioni di malfattori». A seguito dei Fasci siciliani, vennero votate dal Parlamento tre

contestatissime leggi eccezionali: una diretta a reprimere le attività degli anarchici; l'altra

contro l'apologia dei reati commessi a mezzo stampa; la terza che vietava “le associazioni

che avevano per oggetto di sovvertire per vie di fatto gli ordinamenti sociali”. Quest'ultima

legge mirava a colpire i socialisti. Queste leggi avevano carattere provvisorio perché

venivano a termine il 31 dicembre del 1895 ed i tentativi di inserirle nell'ordinamento trovò

una opposizione vincente, non solo da parte della opposizione di sinistra, ma anche da

parte delle correnti più liberali della Camera. La svolta liberale del 1901 consolidò il diritto di

associazione e mise al riparo le associazioni politiche dalla repressione. Nel corso dell'età

liberale non vi fu una regolamentazione legislativa dei partiti, né furono approvate norme

per il loro riconoscimento. I partiti venivano considerati come delle associazioni di fatto. Nel

primo dopoguerra, si giunse quasi alla soglia del riconoscimento, che non fu mai varcata,

ma, come osservò qualche giurista, l'introduzione del suffragio universale e del sistema

elettorale proporzionale ed il riconoscimento dei gruppi parlamentari da parte dei

regolamenti della Camera, nel 1920, avrebbero potuto aprire la strada per un cambiamento

nell'atteggiamento dell'ordinamento costituzionale verso i partiti. Alcuni giuristi, sulla base

delle trasformazioni indotte dalle riforme elettorali e dalle stesse modificazioni della forma-

partito, ed, in una parola, in considerazione della nascita di una democrazia dei partiti,

avevano preconizzato un mutamento anche del quadro legislativo relativo alla disciplina

delle associazioni politiche. Gabriele Ambrosini riteneva che la nuova legge elettorale

avesse introdotto un nuovo tipo di “rappresentanza proporzionale”, che costituiva il

superamento della rappresentanza politica fondata su di una concezione individualistica 59.

Questo nuovo tipo di rappresentanza postulava il riconoscimento di nuovi soggetti collettivi:

i partiti politici. Dal riconoscimento dei diritti politici individuali si doveva passare al

riconoscimento del diritto di associazione. Del resto, sul terreno economico questo diritto di

associazione era stato riconosciuto nei confronti dei sindacati. La concezione atomistica

della rappresentanza cozzava con l'esperienza politica moderna, segnata dall'emergere

dei grandi partiti. Se la vecchia teoria della rappresentanza aveva consentito che i deputati

da “espressione della volontà popolare” diventassero “commissionari degli interessi privati

dei loro elettori”, il passaggio alla proporzionale aveva fatto sì che i parlamentari non

fossero più i rappresentanti di singoli elettori, ma di “gruppi omogenei di elettori costituiti

dall'insieme delle persone che erano concordi nelle stesse idee e che si associavano

volontariamente per propagandarle ed attuarle, dando vita ai partiti politici”. La riforma

elettorale del 15 agosto 1919 apportava, perciò, nell'ordinamento costituzionale - secondo

Ambrosini - «una innovazione profonda». In base a questa riforma, «i partiti politici

diventavano o dovevano diventare in luogo degli individui il fulcro della vita politica e

costituzionale». Sempre per Ambrosini, l'azione dei partiti non doveva esaurirsi nella lotta 59

Cfr. G. Ambrosini, Partiti politici e gruppi parlamentari dopo la proporzionale, Firenze, La Voce, 1921, pp. 15 sg. Secondo Ambrosini, il principio individualistico atomistico, non era divenuto soltanto anacronistico, ma «portava anche al dissolvimento della vita politica e alla degenerazione del regime parlamentare. Da ciò, l’assenza di veri programmi nelle lotte politiche ridotte spesso a pure competizioni personali o di campanile, la mancanza di ordine e di senso di responsabilità nel funzionamento della Camera, l’abbassamento della sincerità e del carattere degli elettori e degli eletti, ed il trionfo dell’incompetenza, del personalismo e dell’affarismo del regime parlamentare in genere»

elettorale:

«I partiti hanno bisogno di conquistare il potere per realizzare, almeno in parte il

programma [...]I partiti senza porsi il problema della conquista del potere sono destinati a

sfasciarsi. I partiti per loro stessa natura e ragion d'essere non possono limitarsi alla

propaganda delle idee, ma debbano contemporaneamente lottare per realizzarle lottare per

la conquista del potere».

La legislazione eccezionale del 1925, con la quale vennero sciolti i partiti democratici,

comportò una restrizione del diritto di associazione così come si era sviluppato nella

consuetudine dell’età liberale. Santi Romano, esemplificando la tipologia delle associazioni,

ne distingue tre categorie: quelle vietate (le associazioni sovversive ed antinazionali, quelle

che cospirano contro la personalità dello stato, le associazioni segrete); quelle permesse

(le società civili e commerciali, regolate dalla legge, le fondazioni ecc.) ed infine quelle né

ammesse né vietate (come le associazioni politiche non rientranti nella prima categoria).

Le leggi fascistissime limitavano di fatto la libertà di associazione alle associazioni

permesse e, conseguentemente, tale diritto veniva negato ad ogni tipo di associazione

politica. Con lo scioglimento degli altri partiti, sulla base della legge di pubblica sicurezza

perché contrarie all’ “ordine nazionale dello stato”, e la instaurazione dello stato totalitario,

il PNF divenne il partito unico. Santi Romano, poteva affermare nel suo “Corso di Diritto

costituzionale” che «conseguenza di siffatta posizione assunta dal Partito è stata la sua

progressiva trasformazione ormai completa, da semplice associazione privata, qual'era

quando sorse, in una istituzione pubblica, non solo in senso politico, ma anche in senso

giuridico, il che vuol dire che esso è stato, come suol dirsi inserito o inquadrato nello

Stato». Si tratta di un caso di “Inkorporation”. Il PNF venne considerato un ente di diritto

pubblico, organo ausiliario dello stato, al quale fu attribuita personalità giuridica.

Nell’ordinamento provvisorio, instaurato all’indomani della caduta del fascismo venne

riconosciuta una certa “soggettività” ai partiti (Crisafulli) e la partecipazione dei partiti a

“funzioni di governo” nel quadro dei CLN venne interpretato da alcuni giuristi come

l’esercizio di “un ruolo costitutivo del nuovo ordinamento costituzionale” (Ferrara).

Nella costituzione repubblicana, il diritto di associazione è riconosciuto all'art. 18, che

recita: «I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che

non sono vietati ai singoli dalla legge penale. Sono proibite le associazioni segrete e quelle

che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere

militare».

Il problema del riconoscimento dei partiti venne discusso all'Assemblea Costituente senza

che si giungesse ad una soluzione legislativa. Nell'art. 49 si riconosce, tuttavia, la funzione

politica dei partiti a fare da tramite tra gli elettori ed il parlamento, di costituire un canale di

raccolta del consenso e di concorrere così a «determinare la politica nazionale»60. L’unico

limite che si poneva all'esistenza dei partiti era che nel loro statuto si riconoscesse che

nelle competizioni politiche i partiti stessi si impegnavano a rispettare il metodo

democratico. All'art. XII delle disposizioni transitorie si vietava la «riorganizzazione,

sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». Il che consentì lo scioglimento di alcune

organizzazioni neofasciste (Legge Scelba), unico esempio di intervento repressivo del

governo della Repubblica. I partiti, dal punto di vista giuridico sono da considerarsi delle

“associazioni di fatto” e non godono di personalità giuridica. Tale basso profilo giuridico-

formale contrasta con il ruolo assunto dal partito sia nei regolamenti parlamentari, che nella

stessa vita politico-costituzionale del paese. Questa contraddizione si è drammaticamente

rivelata quando si è voluto concedere un finanziamento pubblico dei partiti e,

contemporaneamente, si è cercato di disciplinare il finanziamento privato. Ciò avvenne con

la legge 2 maggio 1974 n. 195 sul contributo dello Stato al finanziamento dei partiti politici,

a cui seguì una serie di leggi di modifica. Non aver risolto il problema del riconoscimento

costituzionale dei partiti ed aver voluto conservare il loro carattere privatistico, la stessa

mancanza di personalità giuridica61 delle associazioni politiche hanno creato problemi di

funzionalità interna delle organizzazioni politiche (impossibilità di garantire la correttezza

del processo di nomina dei dirigenti e la trasparenza e l’autenticità dei bilanci e di poter

individuare responsabilità civile e patrimoniale dei dirigenti). Ancora maggiori problemi sono

stati creati per l'intero sistema politico ed anche condizionamenti gravissimi per l'economia

nazionale. La crisi che ha investito il sistema dei partiti in Italia nei primi anni ‘90,

determinata, da una parte, dalla loro eccessiva invadenza nella gestione del potere e,

dall'altra, dalla mancanza di responsabilità democratica, postulerebbe una

costituzionalizzazione dei partiti. Una legge costituzionale di disciplina dei partiti potrebbe

portare, con il riconoscimento pubblico, ad un ridimensionamento delle loro attività

extraistituzionali ed, insieme, ad un controllo sul funzionamento dei meccanismi democratici

al loro interno.

Aldilà delle prescrizioni della costituzione formale, la funzione dei partiti può avere una

rilevanza maggiore di quella prevista dalla norma scritta e ciò può dipendere dalla prassi

60

«Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (Art. 49 Cost.) 61

Si ricorda che una delle caratteristiche proprie delle persone giuridiche è “l’autonomia patrimoniale”, cioè il fatto che il patrimonio della persona giuridica rimane nettamente distinto dal patrimonio dei suoi componenti.

costituzionale, dalle consuetudini e regolamenti parlamentari o dal diritto amministrativo.

Aldilà di quella che può essere la valutazione dell'ordinamento nei riguardi dei partiti sul

piano giuridico-formale, molto dipende anche dall'atteggiamento dei partiti verso

l'ordinamento costituzionale. Vi sono, infatti, partiti che hanno contribuito a fondare un

sistema politico-costituzionale o lo sostengono e sono disposti ad operare nel suo quadro;

partiti che rifiutano il riconoscimento perché temono l'ingerenza dello stato nella vita interna

del partito; partiti che si pongono al di fuori o contro l'ordinamento costituzionale. Vi sono

perciò partiti “costituzionali”, in quanto professano la loro fedeltà all'ordinamento; partiti

“anticostituzionali” o “sovversivi”, che si oppongono al sistema. Essi possono operare

apertamente quando, pur contestando il sistema, non mettono in opera nessun atto illecito

per sovvertire l'ordine costituito. L’ordinamento può riconoscere ai partiti una libertà così

ampia da permettere anche il diritto di contestare le istituzioni nel quadro di una concezione

molto tollerante della libertà di opinione. In altri ordinamenti, invece, sono contenute norme

di “autodifesa”, per le quali vanno perseguiti quei partiti che non dichiarano la loro fedeltà

al sistema. In questo caso, questi partiti sono dichiarati illegali e se vogliono esistere

devono lavorare nella clandestinità. In definitiva, però, quale che sia l'atteggiamento del

partito verso l’ordinamento costituzionale, la posizione giuridica delle associazioni politiche,

può oscillare tra l’ “indifferenza” e l’ “incorporazione”. Si deve tener presente anche in

quest’ultimo caso che il partito dà luogo ad un ordinamento speciale ed è comunque

sottoposto, quale che sia la sua autonomia interna, all’ordinamento statuale.

Partiti, gruppi di pressione (lobbies), gruppi di pubblico interesse

I partiti moderni tendono a dismettere, per quelli che ne avevano una, la loro connotazione

e funzione di classe come il loro rigido credo ideologico e a dimostrarsi sempre più

pragmatici. I partiti tendono ad essere sempre meno “partiti verità” e sempre più “partiti di

interessi”. I partiti tendono a difendere sempre meno interessi di classi e si caratterizzano

in base a chiari programmi economici. Vi sono partiti che riconoscono la necessità

dell’intervento dello stato nell’economia, altri che lo avversano o, infine, altri che lo

accettano, ma a determinate condizioni. Vi sono, infatti, partiti che hanno visioni

economiche di tipo dirigistico o di tipo liberistico; vi sono partiti che si battono per la

nazionalizzazione dei mezzi di produzione e sono partigiani di una politica di piano più o

meno rigida con qualche concessione all’autogestione delle imprese; partiti che, al

contrario, ritengono che l’economia debba essere governata dalla “mano invisibile” del

mercato. Vi sono, poi, partiti che pur riconoscendo l’esigenza di preservare il meccanismo

di mercato accettano l’idea di una programmazione economica. Questi ultimi sono perciò a

favore di un’economia mista in cui il settore privato sia in concorrenza con un settore di

proprietà o a gestione pubblica. Una forma intermedia è quella delle public companies,

società a gestione pubblica ma con un diffuso azionariato privato. Vi sono partiti che

ritengono che i settori economici debbano essere tre: quello privato, quello pubblico e

quello cooperativo.

Tra i partiti che si battono per la libertà di mercato e avversano l’idea di uno “stato

imprenditore” ve ne sono alcuni che ritengono che si debbano usare altre leve come la

tassazione, il credito, le tariffe doganali per aiutare le imprese. Altri ritengono che lo stato

debba intervenire per garantire la libera concorrenza e per impedire il predominio dei

monopoli, il quale annullerebbe i diritti dei consumatori (mercato sociale); altri, pur

lasciando integro il meccanismo del mercato, preferiscono che lo stato intervenga,

attraverso il prelievo fiscale, a coprire i rischi della disoccupazione, della malattia e della

vecchiaia (stato sociale). In alcuni casi, un partito può ritenere che sia necessario

proteggere la produzione nazionale dalla concorrenza estera e si batte per delle misure

protezioniste o, invece, ritiene che si debba sostenere un programma libero-scambista. In

altri casi, un partito può essere favorevole a proteggere un settore specifico dell’economia:

ad esempio l’industria, qualificandosi “industrialista” o l’agricoltura, assumendo la difesa

degli interessi agrari. Tutte queste posizioni tra di loro alternative possono essere assunte

da uno o dall’altro partito in concorrenza tra di loro e fatto oggetto di un programma di

governo e di opposizione.

E’ naturale che i partiti possano essere sostenuti per i programmi che enunciano; grave

sarebbe se i programmi fossero assunti in funzione degli appoggi che possono ottenere.

Ancora più grave se i partiti, dichiarando di voler fare una politica ne fanno, poi, un’altra per

favorire dei “gruppi di potere”, facendo degli accordi obliqui con essi. Più discutibili ancora

sono le transazioni che possono avvenire nei corridoi parlamentari tra i rappresentanti di

gruppi economici (lobbisti) e parlamentari di diversi partiti per l’adozione di provvedimenti

legislativi di interesse per quei gruppi. Si vengono così a creare dei veri e propri “partiti

traversali”. Accade che gruppi di industriali o di agricoltori oppure rappresentanze di

categoria o infine sindacati o cooperative influiscano sul partito a loro più affine perché

prevalgano principi a loro favorevoli. E se ciò rientra nella logica parlamentare, resta da

vedere se debba affermarsi la legge del più forte. Se è difficile per un parlamentare sottrarsi

alle pressioni dei gruppi a lui più vicini, sarebbe auspicabile che il parlamento, nel fare una

sintesi degli interessi in campo, deliberasse tenendo conto di quelli più generali. La

peggiore di tutte le decisioni è quella che risulta dal compromesso tra interessi non legittimi

di gruppi forti, ad esempio tra industriali e sindacati a danno di settori deboli del mondo del

lavoro o di un settore dell’agricoltura e di un settore dell’industria a danno dei consumatori.

Il problema della democrazia moderna è quello di stabilire e far rispettare delle regole

chiare in materia di rapporti tra partiti e gruppi di potere. Si tratta di far sì che questi rapporti

siano improntati alla massima pubblicità e trasparenza. Ciò richiede che nella legislazione

relativa ai finanziamenti di partiti siano previste norme sulla pubblicità dei bilanci, la

limitazione dei budget pubblicitari delle campagne elettorali, un regime di incompatibilità tra

cariche elettive ed incarichi dirigenziali che riguardano una serie di enti economici sotto

forma di incapacità elettorale passiva o possibilità di optare per una carica politica

rinunciando ad una posizione direttiva nel campo economico; controlli fiscali sulla posizione

finanziaria dei dirigenti politici, divieto alle industrie pubbliche di finanziare partiti politici.

Qualsiasi legislazione per quanto perfetta può essere elusa ed i modi di eluderla sono

infiniti. Ciò che conta è non vietare l’esistenza di rapporti tra partiti e gruppi di potere,

quanto sottoporli ad un controllo pubblico per evitare che l’influenza delle lobbies snaturi il

carattere dei partiti, attraverso infiltrazioni innaturali, accordi trasversali tra partiti diversi di

carattere economico. L’illecita ingerenza dei gruppi di potere nella vita politica può essere di

doppia natura: causare un inganno degli elettori; limitare l’indipendenza del parlamento, del

governo, e, ancora peggio, quella dell’amministrazione.

I rapporti tra gruppi d’interesse e sistema dei partiti prescinde dalla tipologia dei partiti. Si è

sostenuto che i partiti ad organizzazione debole - i partiti d’opinione - siano più vulnerabili e

più suscettibili di essere dominati dai gruppi di potere e si è portato come esempio il

sistema liberale pre-fascista, dove le maggioranze trasversali erano frequenti su numerose

leggi (nazionalizzazione delle ferrovie, leggi di sostegno all’industria, leggi tariffarie), ma

anche un sistema di partiti di massa non è esente da difetti. Si è affermato che in

un’economia di mercato i partiti sono più esposti allo strapotere dei gruppi di interesse di

quanto lo siano in un’economia statalizzata. Non si può dire che nei paesi dove è stato

realizzato uno “stato sociale” la forza di persuasione delle lobbies sia minore e che più

forte, viceversa, sia l’influenza di sindacati e partiti operai. Non sono infrequenti, invece, gli

accordi tra i maggiori gruppi industriali ed i sindacati, spesso a danno di sezioni più deboli

della società (contadini, agricoltori, lavoratori non organizzati, disoccupati, pensionati). In

conclusione è assai negativa una situazione in cui i gruppi di potere prevalgano sul sistema

dei partiti, ma non è più raccomandabile ai fini dell’efficienza del sistema una situazione in

cui siano i partiti a comprimere l’autonomia della vita economica. Lo studio della storia dei

partiti, aldilà dei giudizi di valore e dei modelli astratti, deve indagare sullo stato reale dei

rapporti tra questi ultimi ed i gruppi di potere e sulle tecniche cui essi ricorrono. Le lobbies

possono esercitare un’influenza diretta sul parlamentare o indiretta, finanziando campagne

sulla stampa e attraverso la televisione o intervenendo nelle elezioni o avviando cause

presso i tribunali. Possono infiltrarsi nelle organizzazioni di partito e ricorrere alla

corruzione. Alcuni di questi gruppi di pressione danno luogo ad organizzazioni permanenti

che raccolgono fondi e possono contare su apparati burocratici permanenti (Political Action

Committees). Nella sociologia americana si tende a distinguere i “gruppi di pressione”

(lobbies) e i “gruppi di interesse economico”, dai “gruppi di interesse pubblico” (public

interest groups) i quali non operano a vantaggio di interessi economici privati, ma per una

“causa” (Sartori). Questi gruppi sono stati anche definiti “propaganda” o “promotional

group”. Si è notato come da una parte i cittadini si mobilitino più facilmente attorno a cause

di rilevanza sociale (common cause) piuttosto che su piattaforme politiche. Attraverso

questa azione sociale i cittadini tendono a reagire all’incapacità della classe parlamentare

di risolvere i problemi collettivi e di resistere all’influenza dei gruppi economici più forti e a

stabilire un nuovo equilibrio (Theory of civic balance, Mc Farland). Altri sociologi,

teorizzando i rapporti tra gruppi di pressione, gruppi di interesse pubblico e partiti, hanno

parlato di “pluralismo critico” (Pizzorno). Alcuni studiosi hanno assunto un atteggiamento

critico nei confronti di questa “group theory of politics” secondo la quale la socializzazione

del conflitto che è alla base del sistema politico e che dovrebbe essere fondato sulla regola

della maggioranza viene arbitrato attraverso il negoziato non tra attori politici, come sono i

partiti, ma tra i partiti, i gruppi di pressione e i gruppi di interesse pubblico che hanno una

posizione intermedia, costituendo dei sottosistemi rispetto al sistema dei partiti. Il difetto di

questa concezione è quello di indebolire il sistema politico dando forza ad interessi che

non riescono a trovare spazio nella maggioranza (Schattschneider). L’esistenza di questi

“gruppi di interesse pubblico” tende a delegittimare il partito il quale viene sempre meno ad

essere portatore di valori e di ideologie sino al momento in cui non sarebbe possibile

distinguere sotto l’aspetto funzionale i partiti dai gruppi. Né, d’altra parte, alla luce di questi

sviluppi vi sono sostanziali differenze tra il rapporto rappresentativo che intercorre tra

elettori e rappresentanti (indipendenza) e quello tra cittadini e leader dei gruppi di

interesse (mandato). I partiti difendono interessi, danno vita a una classe politica che

persegue il proprio interesse: sarebbero cioè divenuti dei “Superpac”; e così anche i gruppi

danno luogo ad organizzazioni stabili con diramazioni territoriali e tendono a coordinarsi

con associazioni affini, generano burocrazie che agiscono sempre in modo indipendente ed

autonomo rispetto ai titolari di interessi che dovrebbero rappresentare. La presenza di

questi gruppi non garantisce un pluralismo politico di tipo democratico se l’azione dei

gruppi di pressione non sia controbilanciata da un lato, dal ruolo attivo dei partiti, e,

dall’altro, dall’impegno civico dei gruppi di interesse pubblico. Ma la chiave di volta di un

sistema pluralistico, nel cui contesto l’esistenza di gruppi abbia sua legittimità, sta tutto nel

garantire un controllo pubblico su questo fenomeno, attraverso una disciplina legislativa

relativa alla attività dei gruppi. In America il problema venne regolamentato dal “Federal

Regulation of Lobbying Act” del 1946, il cui funzionamento non è privo di critiche. In paesi

come l’Italia l’attività dei gruppi di pressione costituisce un fenomeno sommerso.