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1. I METODI DELLA PSICOLOGIA 1.1. Metodologia ed epistemologia *La psicologia è davvero una scienza? Ciò che gli psicologi affermano è davvero giustificato?» Queste domande, che tuttora pone frequentemente chi si accosta per la prima volta alla psico- logia, come studente o anche come persona qualunque, in un certo periodo della storia della psicologia se le sono poste anche gli stessi psicologi. Oggi, almeno nel Nord-America, è meno di moda, non si sa se perché sia stata data una chiara risposta o se perche ci si sia persuasi che non è tanto facile fornirla; negli anni '50, quando si è assistito negli Stati Uniti al boom deli'epistemo- logia della psicologia, si sono udite molte voci. a favore o contro, ma alla fine ognuno è rimasto del proprio parere. Viene inevita- bilmente alla mente, come paradigmatica per tutte le discussioni, quella relativa alla psicoanalisi presentata nel noto volume di S. Hook (1959). In Italia, invece, ci si è occupati più di recente in maniera sistematica del problema, ed anzi si è svolta una serie di incontri fra psicologi ed epistemologi che è sfociata in due Simposi, uno (nel 1974) sui problemi epistemologici della psicologia (Siri, 1976) ed uno (nel 1976) sui condizionamenti ideologici della stessa. Era stato programmato lo svolgimento di un terzo Simposio, ma finora esso non ha potuto avere luogo. Per quanto tali incontri siano stati fecondi di idee, il loro con- tributo, più che a fornire soluzioni agli specifici problemi incon- trati nei diversi settori deila psicologia, è servito a rinforzare la consapevolezza del fatto che in realtà non esiste una psicologia ma ne esistono tante (sperimentale, psicoanalitica, sociale, evolutiva, ecc.). che parlano ciascuna un linguaggio diverso. La stessa

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1. I METODI DELLA PSICOLOGIA

1.1. Metodologia ed epistemologia

*La psicologia è davvero una scienza? Ciò che gli psicologi affermano è davvero giustificato?» Queste domande, che tuttora pone frequentemente chi si accosta per la prima volta alla psico- logia, come studente o anche come persona qualunque, in un certo periodo della storia della psicologia se le sono poste anche gli stessi psicologi. Oggi, almeno nel Nord-America, è meno di moda, non si sa se perché sia stata data una chiara risposta o se perche ci si sia persuasi che non è tanto facile fornirla; negli anni '50, quando si è assistito negli Stati Uniti al boom deli'epistemo- logia della psicologia, si sono udite molte voci. a favore o contro, ma alla fine ognuno è rimasto del proprio parere. Viene inevita- bilmente alla mente, come paradigmatica per tutte le discussioni, quella relativa alla psicoanalisi presentata nel noto volume di S. Hook (1959).

In Italia, invece, ci si è occupati più di recente in maniera sistematica del problema, ed anzi si è svolta una serie di incontri fra psicologi ed epistemologi che è sfociata in due Simposi, uno (nel 1974) sui problemi epistemologici della psicologia (Siri, 1976) ed uno (nel 1976) sui condizionamenti ideologici della stessa. Era stato programmato lo svolgimento di un terzo Simposio, ma finora esso non ha potuto avere luogo.

Per quanto tali incontri siano stati fecondi di idee, il loro con- tributo, più che a fornire soluzioni agli specifici problemi incon- trati nei diversi settori deila psicologia, è servito a rinforzare la consapevolezza del fatto che in realtà non esiste una psicologia ma ne esistono tante (sperimentale, psicoanalitica, sociale, evolutiva, ecc.). che parlano ciascuna un linguaggio diverso. La stessa

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Società italiana di psicologia ha dovuto riconoscere che non è realistico assumere l'esistenza dello psicologo come figura indiffe- renziata e ha favorito la nascita di numerose Divisioni, che di fatto operano al suo interno come piccole, autonome «Società di psicologia» specializzate in diversi settori.

Non si vuol dire che ciò costituisca un fatto negativo: è proba- bile, anzi. che sfatare l'illusione di unitarietà l a un bene. In effetti, la nascita di nuove discipline specialistiche, come la scien- za cognitiva, dimostra che è in atto una separazionk di competenze all'interno della psicologia (nel caso specifico. tale da richiedere l'apporto di altre discipline specialistiche su un oggetto comune) e che quindi la psicologia è una scienza forse troppo ampia ormai per l'attuale grado di specializzazione. Si pensi soltanto al disagio provato da chi è impegnato in ricerche sui processi cognitivi quan- do da un profano, essendo ritenuto uno «psicologo». si sente richiedere interpretazioni psicodinamiche sulla personalità.

Le risposte alle domande sulla «scientificità» della psicologia rientrano nella sfera di competenza dell'epistemologia, la branca della filosofia che si occupa dei problemi delle scienze conside- randone le basi o fondamenti, le differenze rispetto ad altre forme di conoscenza, l'oggetto di studio e le metodologie di indagine. A proposito delle metodologie, gli scienziati sono facilmente indotti a ritenere che queste, essendo sostanzialmente di propria com- petenza, costituiscano un corpus di ricette. una sorta di guida pratica al lavoro quotidiano indipendente da considerazioni più ampie. Viceversa gli epistemologi sottolineano quanto i metodi siano legati agli scopi e alle strategie più generali di una disciplina scientifica.

In realtà la discussione delle metodologie di indagine non è possibile senza che si tenga conto di aspetti epistemologici com- plessivi. Nel corso della storia della psicologia sono stati escogi- tati numerosi metodi, ma non sempre essi sono stati funzionali al raggiungimento dei medesimi obiettivi. essendo invece dipendenti dali'approccio più ampio (epistemologico) secondo il quale si disponevano le varie scuole che li hanno adottati. Ad esempio se si afferma, come facevano gli strutturalisti, che l'oggetto dell'in- dagine psicologica è il «contenuto di coscienza immediato», l'in- trospezione assume valore di metodo che consente di arrivare a contenuti di coscienza affidabili e omogenei; d'altro canto, I'in- trospezione può essere (ed è) usata anche oggi, ma in uno spirito del tutto diverso. per ottenere qualcosa di completamente diverso

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come ad esempio una traccia dell'elaborazione di informazioni nel corso del problem solving.

Fra i metodi a disposizione degli psicologi oggi esiste anche la simulazione su calcolatore. I1 presente volume è dedicato alla descrizione di tale metodo. alla discussione dei suoi dettagli tec- nici (come l'uso di programmi e di concetti originariamente svi- luppati nell'ambito della disciplina denominata «intelligenza arti- ficiale,)) e infine alla valutazione della sua bontà. del suo interesse, delle sue difficoltà di attuazione.

Se si accetta l'idea che la metodologia non è una semplice col- lezione di strumenti ma che è al servizio delle più generali strate- gie stabilite (o anche implicitamente accettate) in sede epistemo- logica, appare evidente l'opportunità che. prima di addentrarci in dettaglio nella descrizione delle strategie che caratterizzano i'ap- proccio simulativo, venga compiuta un'analisi relativa ad alcuni problemi emergenti dal costituirsi delle metodologie e dall'uso di altri metodi. L'intento non è ovviamente di proporre un'introdu- zione generale alle metodologie psicologiche né una loro discus- sione critica (esistono altre opere che assolvono egregiamente a questi propositi) ma semplicemente di enucleare dei punti su cui operare un confronto con quelli emergenti a proposito della simulazione. Nei prossimi paragrafi, dunque, toccheremo alcuni temi che ci sembrano di particolare interesse per la valutazione di una metodologia di ricerca in psicologia e che riprenderemo bre- vemente alla fine del volume (nel 5 11.3.) dopo l'esposizione e la discussione delle tecniche di simulazione.

1.2. Metodi e modelli in psicologia

1.2.1. Funzioni delle metodologie in psicologia

Abbiamo osservato in apertura che la psicologia non è una disciplina che possieda un unico corpus di oggetti e di metodi, e quindi che ogni approccio o indirizzo psicologico può essere con- siderato, dal punto di vista epistemologico, una vera e propria scienza diversa. Ci si potrebbe chiedere, allora, come si possa proporre per la psicologia una metodologia. più o meno nuova come la simulazione, se ci sono tante «psicologie», e magari attendersi un chiarimento se essa sia utilizzabile in tutti quei diversi contesti a cui si è fatto riferimento o solo in alcuni.

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Strettamente connessa a questa esigenza di chiarimento è una adeguata caratterizzazione della differenza fra la metodologia simulativa e gli altri metodi abitualmente usati nelle discipline psicologiche. I due aspetti sono legati in quanto la differenza fra i vari punti di vista psico!ogici deriva in gran parte proprio dal- l'uso di metodi diversi. E infatti vero che l'esistenza di questa pluralità di approcci è espressione dell'esistenza di oggetti psicolo- gici diversi: così. per i comportamentisti gli oggetti di indagine sono i comportamenti osservabili. gli psicoanalisti potranno includervi anche esperienze soggettive come sentimenti o sogni e così via. Ma queste differenze di oggetto nascono in realtà da dif- ferenze di metodo in quanto si può sostenere che è quest'ultimo a creare l'oggetto (v. Agazzi. 1976). Ciò significa che nell'ambito della realtà psicologica del senso comune vengono resi oggetto di indagine scientifica o «ritagliati» esattamente quegli aspetti per i quali siano stati resi espliciti i criteri che definiscono le opera- zioni di costruzione dell'oggetto. detti anche «criteri di protocol- laritàn. Questi criteri, in altri termini, stabiliscono quali tipi di «protocolli» (le fedeli trascrizioni delle risultanze empiriche) e qua- li operazioni siano accettabili in una certa disciplina, determinan- done così l'oggetto.

Se si accetta questo quadro epistemologico. allora non si può evidentemente dire a priori a quale approccio psicologico un metodo si attagli. ma viceversa si dovrà osservare che ogni metodo è <<a disposizione» dei vari punti di vista e dipende da coloro che in questi ultimi si riconoscono se verrà scelto o meno e in quali termini utilizzato. L'esempio dell'introspezione, che abbiamo fatto ne! precedeilte paragrafo. è ancora una volta illu- minante: alcune correnti psicologiche attuali hanno proposto un recupero di tale antico metodo, ma modificandolo e adattandolo ad un nuovo contesto teorico.

Adottando un criterio storico nell'analisi dello sviluppo del metodo simulativo, emerge che, per ragioni che-saranno chiare più avanti, esso è stato di fatto utilizzato quasi esclusivamente entro quell'orientamento teorico che si può definire genericamen- te «cognitivista». anche se vi sono eccezioni (le simulazioni di K. Colby, di cui parleremo nel cap. 4, costituiscono un notevole esempio) e soprattutto anche se. come vedremo, il metodo ha molto contribuito alla nascita di nuovi ambiti psicologici non più confinati all'interno della sola psicologia: ci riferiamo alla <<scienza cognitivan (v. 5 2.2). che è proprio un esempio evidente del modo

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in cui nuovi criteri di costruzione dell'oggetto possano dar origine a nuovi. autonomi settori d'indagine scientifica.

Per capire meglio come mai queste scelte siano maturate pro- prio all'interno di questo quadro disciplinare e per capire anche se l'eventuale allargamento dell'adozione della metodologia simulativa ad altri ambiti psicologici sia incompatibile con essi o li snaturi. è opportuna una riflessione sulle diverse funzioni dei metodi nelle scienze in generale e nelle discipline psicologiche in particolare.

Anche in psicologia, come in tutte le scienze. si distinguono alcune attività definibili «empiriche» ed altre attività definibili «teoriclie>>. Le prime consistono nel compiere esperienze ed osser- vazioni su un certo ambito di realtà e nel ricavarne dati e propo- sizioni «protocollari» per descriverle. Le seconde consistono nella costruzione di sistemi di simboli per rappresentare. descrivere, spiegare, prevedere i dati ricavati dall'espenenza'.

In generale i metodi riguardano sia le attività empiriche che quelle teoriche: possiamo definirli dei sistemi di regole che da una parte indicano come ottenere e come «trattare» i dati protocol- lari e dall'altra indicano come costruire ed elaborare le ipotesi. Si può perciò parlare di metodi per rappresentare, per scoprire, per spiegare in funzione degli scopi più generali di natura epistemo- . - . logica.

Chiameremo «metodi di rappresentazione» quegli strumenti che servono per descrivere ciò che osserviamo nella realtà, sia nel senso che consentono di trovare le parole giuste, spiegandone o precisandone il significato, sia nel senso che consentono di stabi- lire le relazioni corrette fra i dati che risultano all'esperienza. L'attività di rappresentazione è una attività più teorica che empiri- ca: lo stabilire relazioni è già formulare ipotesi al fine di render conto dell'esperienza. I metodi che definiamo di scoperta» sono invece gli strumenti che consentono di procurarsi i dati empirici, cioè le procedure che sono accettate come valide per ottenere i protocolli. Fra l'attività di rappresentazione e quella di scoperta esiste uno stretto legame, dato dal fatto che non si può scoprire

' Naturalmente la distinzione fra i due tipi di attività. empirica e teorica. non è assoluta. perché l'aspetto osservativo incorpora già qualche .punto di vistau che non fa parte dell'esperienza ed il linguaggio protocollare che serve per la descri- zione usa termini che hanno già un significato nel linguaggio comune.

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nulla se non si sa dove e come cercare e , d'altro canto, scoprire significa sostanzialmente trovare un nuovo modo di vedere le cose. Una terza funzione dei metodi è poi quella di aiutare lo scienziato nei suoi tentativi di dire«perché», di fornire una giusti- ficazione di quanto viene osservato e descritto. Questo compito è primariamente demandato alle teorie, al corpo di ipotesi di una data disciplina, la cui ragion d'essere è proprio la spiegazione dei dati dell'esperienza. Ma la prova della validità di queste ipotesi (la conferma o la falsificazione) attraverso il necessario confronto con I'empirico, è anch'essa regolata da metodi ben precisi.

Se ora adottiamo una semplificazione utile ai nostri fini, pos-' siamo prendere in considerazione, quali punti di vista psicologici più importanti, un punto di vista definibile interpretativo ed uno definibile sperimentale. Non intendiamo certo dire che questi siano gli unici modi di fare psicologia, ma la distinzione accorpa una cospicua parte delle «psicologie». sufficiente a consentirci di constatare delle differenze metodologiche ragguardevoli. Queste differenze derivano per l'appunto dal fatto che vengono usati metodi diversi per aspetti che rientrano in tutte e tre le funzioni sopra viste. anche se la differenza decisiva deriva, come si è visto, dall'uso di diversi criteri di costituzione dell'oggetto. Anche il peso che viene dato a questi tre aspetti dell'attività scientifica risulta notevolmente diverso a seconda dell'ambito psicologico in cui ci si colloca. Ad esempio, la psicolegia interpretativa è inte- ressata più alla comprensione del singolo individuo che alla ricerca di leggi generali (seguendo una vecchia distinzione di Windelband, si suo1 dire che è idiografica piuttosto che nomotetica) e quindi privilegia l'attività clinica, il colloquio, la stimolazione non stan- dardizzata ma flessibilmente adattata al soggetto e alcune tecniche specifiche in relazione al particolare orientamento teorico (come l'analisi dei sogni, del transfert, delle associazioni libere per gli psicoanalisti). Dunque nell'ambito interpretativo vengono di gran lunga privilegiati i metodi che abbiamo definito di rappresenta- zione e di scoperta (cfr. Greco, 1986a). Per la psicologia speri- mentale. invece. ciò che ha un ruolo di primo piano è l'esperimen- to. In questo caso il metodo consente di provocare i fenomeni da indagare in situazioni controllate e di verificare il grado di affi- dabilità dei risultati. Per questa ragione le metodologie connesse alle attività di giustificazione si sono notevolmente affinate e sono di fatto privilegiate rispetto alle altre, almeno nella comune con- siderazione epistemologica degli psicologi.

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1.2.2. Il concetto di «modello» e i modelli simulativi

Prima di esaminare più in dettaglio alcune differenze fra gli strumenti metodologici adottati in psicologia, dobbiamo trattare un secondo ordine di problemi connesso ad una modalità molto diffusa di concettualizzare quegli strumenti. Questa concettualiz- zazione implica il ricorso al termine modello. usato in parecchi contesti psicologici e peculiare anche per la metodologia della simulazione. alla quale spesso è associato direttamente, come nella locuzione «modelli simulativi».

I1 concetto è stato tanto usato quanto poco chiarito. Ad esem- pio Bruschi (1971) ne ha individuato almeno 16 definizioni, che ha ricondotto ad alcuni gruppi basilari di significati. Secondo questa classificazione, un modello può avere lo scopo di: rappre- sentare in modo più chiaro tralasciando ciò che non è essenziale o modificando qualche aspetto di ciò che è rappresentato al fine di migliorarne la comprensione; mettere dei dati in relazione fra loro, talora in corrispondenza biunivoca; esprimere un insieme di ipotesi provvisorie o euristiche o programmatiche come una «teo- ria approssimata. o una «quasi-teoria».

In psicologia di solito si parla di modelli in una accezione che sembra fondere insieme il primo e I'ultinio di questi significati. In altri termini. i modelli psicologici hanno in genere l'ambizione di rappresentare in maniera semplificata la complessa realtà psichica proponendosi anche come teorie limitate o approssimate. Ci si riferisce soprattutto a quest'ultimo aspetto, fondendovi spesso la contrapposizione fra modelli e teorie, quando ci si riferisce ai modelli del cognitivismo. nel cui ambito per parecchi anni si è assistito alla proliferazione di indagini su oggetti molto ristretti (cioè processi cognitivi molto settoriali). In questo caso la differen- za fra i modelli (o cmicro-modelli», come a volte sono stati definiti) e le teorie sarebbe sostanzialmente questione di ampiezza dell'oggetto di indagine. Tuttavia questa interpretazione non è corretta, come vedremo più avanti, e per di più i modelli cogniti- vistici contengono un'altra connotazione che è fondamentale anche per la comprensione dei modelli simulativi: il riferimento che spesso viene fatto ad una sorta di «cambio di sistema>,, cioè all'uso di un sistema concettuale i cui componenti non sono psi- cologici.

Questo ulteriore aspetto deriva direttamente dal precedente.

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Infatti. se costruire modelli significa dare un taglio selettivo, semplificante, approssimato alle proprie costruzioni teoriche, nel senso di riferisi solo agli aspetti che sono «essenziali» da un certo punto di vista, non essendo tutti i dettagli ugualmente importanti per rappresentare la realtà psicologica si può anche far riferimento a realtà non psicologiche che le somiglino per qualche aspetto, che abbiano qualche analogia con essa. Si noti l'introduzione del concetto di analogia, che garantisce la corrispondenza fra i due ambiti di realtà, concetto su cui torneremo più avanti. Queste realtà non psicologiche possono essere sistemi di simboli come le leggi di altre scienze o le formule matematiche, oppure rappre- sentazioni grafiche, o ancora sistemi, meccanismi, dispositivi fisi- camenti funzionanti; i calcolatori elettronici sono proprio sistemi di questo genere. E allora evidente che, in questo senso, la costruzione e l'uso di modelli è una pratica largamente diffusa e adottata più o meno nell'ambito di tutti gli indirizzi, compreso quello clinico. Nel $1.2.3. ricorderemo due tipi di modelli larga- mente adoperati in psicologia, cioè quelli statistici e quelli ener- gefico-omeostatici.

E però opportuno, prima, volgersi ad esaminare quale sia la peculiarità dei (modelli simulativi*, esaminando imanzitutto il significato della stessa espressione. Agazzi (1984) ha mostrato come alcune confusioni implicite nelle varie connotazioni del termine «modello» possano esser districate già attraverso una semplice analisi linguistica e in particolare ha notato che a volte il temine è seguito da un aggettivo, a volte da un complemento di specificazione. Nella nostra situazione si verificano entrambi i casi. in quanto si parla di modelli «simulativi* o anche «di simu- lazione». Agazzi rileva che l'aggettivo a volte serve ad indicare l'ambito disciplinare all'interno del quale il modello stesso viene proposto (è questo, ad es., il senso dell'espressione «modello psicologico»). altre volte indica l'ambito di realtà a partire dal quale il modello è costruito (come quando si parla di «modello cibernetico);), altre volte ancora indica semplicemente l'origine storica del modello o relativa a chi lo ha proposto (come per il «modello di Palo Altos). I1 caso dell'espressione «modelli simula- tivi» appare tuttavia anomalo rispetto a queste connotazioni. Ma l'ambiguità in realtà deriva, a nostro parere. dal fatto che usare il metodo simulativo è sempre fare qualcosa che corrisponde al «costruire modelli», sia pure di un genere peculiare. Quindi, in pratica, l'espressione intende specificare semplicemente un tipo di modelli.

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Che «tipo di modelli. sono, allora, quelli simulativi? In sostan- za simulare consiste nel riprodurre una realtà dinamica (come un processo o un sistema con elementi in interazione) estraendo al- cuni aspetti formali e10 semplificati del dinamismo che è rappresen- tato. L'uso del computer non è essenziale per la definizione di una simulazione. anche se naturalmente può esserlo per la sua realizzazione. Dunque ritroviamo nei modelli simulativi gli stessi ingredienti già visti per altri tipi di modelli: in particolare, l'a- strazione di caratteristiche formali o semplificate dall'ambito di realtà che si vuole indagare, astrazione che consente che quest'ul- timo possa essere rappresentato. fra l'altro, attraverso «sistemi fisici di simboli» (per usare un'espressione di Newell e Simon, cfr. Newell, 1980) instanziati in computer digitali.

Si osservi anche che. come nella maggior parte degli altri modelli adottati in psicologia, la relazione fra il processo simulato e quello reale è di analogia. Questa relazione presuppone il rico- noscimento di una certa «somiglianza» fra le due realtà, dome sottolineava la classica definizione che Chapanis (1961) dava dei modeili come «analogie. . . . rappresentazioni . . . di certi aspetti di eventi complessi, strutture o sistemi, fatte usando simboli o oggetti che in qualche modo somiglino alla cosa modellata».

Sull'operazione psicologica (che lo scienziato compie intuitiva- mente) del riconosere somiglianze torneremo fra un momento. Ora ci preme invece sottolineare un altro problema di ragguar- devole importanza. Tale problema deriva dal fatto che, come la Hesse (1966). nella più nota monografia sul concetto di modello, ha sottolineato. nel modello non entrano soltanto le somiglianze fra il modello e la realtà (che la Hesse definisce analogia positi- va) , ma anche le differenze (la cosiddetta analogia negativa) ed il rischio è di estendere erroneamente proprietà che sono esclusive del modello anche alla realtà. Ad esempio. secondo alcuni questo è ciò che avviene quando si afferma che il pensiero, al di là delle metafore. possiede una intriseca natura computazionale (cfr. F, 2.4. e 5 11.1.). La cosa più interessante è però il fatto che per alcune caratteristiche non si può dire a priori se esista una analo- gia (la Hesse parla di «analogia neutrale») e in questo campo il modello può fornire idee produttive facendo scoprire aspetti della realtà che prima non si immaginavano: questo è ciò che fornisce valore euristico ai modelli simulativi ed una delle ragioni per cui può valere la pena di costruirli.

In effetti possono esserci tante buone ragioni per dar vita a

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modelli simulativi in psicologia. Secondo Agazzi (1984) si può attribuire ai modelli in generale, oltre alla funzione euristica, una funzione conoscitiva ed una pratica. Nella funzione conoscitiva il modello permette, appunto attraverso la conoscenza di una strut- tura creata artificialmente. la conoscenza della struttura che oggetto di indagine; nella funzione pratica, può fra l'altro servire come paradigma per la realizzazione di un progetto su una realta affine (analoga) a quella originaria ma che ne differisce per aspetti che è difficile, costoso. rischioso mantenere (si pensi alle simulazioni di volo nell'addestramento dei piloti).

Si può dire che i modelli simulativi possiedono tutte e tre le funzioni sopra descritte. Innanzitutto la funzione euristica, che consente - come abbiamo appena visto - di far nascere nuove idee, di facilitare il modo di rappresentare o concettualizzare le cose, nel contesto della simulazione può scaturire anche dal semplice tentativo di tradurre il dinamismo indagato in un sistema diverso; dunque, non è soltanto lo sviluppo delle analogie trovate ma anche la stessa ricerca di analogie (ciò che prima si indicava come ariconoscere somiglianze»), che può offrire questo vantag- gio. Si potrebbe pensare (e si è pensato) che l'uso di strumenti euristici non faccia parte a pieno titolo dell'impresa scientifica. restando nella penombra come tutti i processi psichici che lo scienziato utilizza nel suo lavoroz; tuttavia una simile concezione non appare legittima perché il momento della rappresentazione concettuale della realtà non è solo preliminare ad una impresa che possa poi procedere in modo del tutto svincolato da esso ma si trova invece ad esser un costante punto di riferimento durante ogni fase dell'indagine3.

Si noti che si può ripresentare qui la curiosa situazione della psicologia cogniti- va, che in quanto disciplina scientifica è oggetto d'indagine per I'epistemologia ma il cui contenuto può seniire a spiegare anche i processi psichici dello scienziato. Si possono citare, solo come esempi, le teorie di Piaget o il filone di ricerche speri- mentali sulla genesi o sulla verifica delle ipotesi inaugurato da Wason e Johnson- Laird. con le famose prove delle quattro carte. o della tripletta «2-4-6n (cfr. Wason, Johnson-Laird, 1972). Ebbene. la simulazione può essere utilizzata per tentare di riprodurre proprio quelle attività psichiche che servono nel fare scien- za, l'induzione in primo luogo. Su questi tentativi si veda il 5 7.4. e per una discussione il 5 11.1, ' Agazzi (1986) parla di funzione «ermeneutico-gestaltica>, dei modelli, per sot- tolineare l'aspetto di «comprensione» e di «interpretazione» globale, che si affian- ca alla dimensione logico-deduttiva delle teorie e che dà ragione. prima ancora

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La funzione conoscitiva dei modelli simulativi emerge se si parte dal fatto che l'esistenza di una analogia o somiglianza fra un modello e ciò che è da esso modellato non risulta da qualche attività empirica ma costituisce un'ipotesi. In questo senso, modello è sinonimo di teoria. in quanto esprime in termini ipotetici una determinata rappresentazione della realtà allo scopo di darne ragione e di essere sottoposta alla verifica empirica. I modelli simulativi fanno precisamente questo a proposito di realtà dina- miche o processuali, utilizzando per lo più sistemi simbolici diver- si dal linguaggio verbale.

Si osservi che questi sistemi simbolici devono tuttavia essere necessariamente esprimibili in qualche linguaggio: logico. mate- matico, computazionale ... A questo proposito non siamo d'accor- do con l'interpretazione (Simon. Newell, 1956) secondo la quale l'uso di parole. formule matematiche, tubi in cui circola acqua o dispositivi elettronici costituisca in ogni caso l'uso di analogie. Simon e Newell sostengono che, ad esempio, esprimere un feno- meno economico attraverso parole o attraverso un sistema di tubi può essere indifferentemente definito come proporre un modello, una teoria o una analogia. Come abbiamo osservato altrove (Greco. 1985). le leggi della linguistica dicono come le parole possono combinarsi per formare frasi (che qui sono teorie scien- tifiche) ma non dicono nulla sul fenomeno, poniamo economico, di cui le frasi parlano; le leggi fisiche della circolazione di acqua nei tubi, invece. sono ipotesi che possono servire. per analogia, a spiegare quel fenomeno.

I1 valore conoscitivo dei modelli simulativi è dunque paragona- bile a quello fornito dalla sperimentazione ed anzi ne conserva alcuni aspetti: anche nella sperimentazione si costruiscono rap- presentazioni alternative di uno stesso fenomeno, che conducono alla manipolazione delle variabili al fine di rispondere a domande del tipo «vediamo cosa succede se...» o «assumiamo questo come se...», ecc. Nel 5 1.3.3. vedremo come il metodo sperimentale sia adoperato in psicologia e nel 5 11.3.2. per quali circostanze la metodologia simulativa può evitarne alcune difficoltà.

che dell'uso euristico o pragmatico dei modelli, della stessa nascita dell'inright che porta al loro concepimento. E questa funzione ermeneutica a rimanere costante durante l'impresa scientifica, consentendo di rappresentare il valore delle conferme - disconferme empiriche o di «immaginare» situazioni future dando origine a delle previsioni, e così via.

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I modelli simulativi hanno, infine, anche una funzione pratica, nel senso sopra precisato. consentendo di sperimentare un pro- getto su una realtà in cui possano essere eliminati certi aspetti rischiosi. irrealizzabili o anche eticamente improponibili. Ad esempio non si può indurre la paranoia in una persona al fine di sperimentare diverse tecniche terapeutiche, ma si può scrivere un programma che cattura gli aspetti essenziali del processo da cui la paranoia scaturisce o in cui si manifesta (v. 5 4.3.). Natural- mente questo aspetto è legato ai due precedenti, perché al tempo stesso dalla simulazione può ricavarsi un beneficio euristico (come la scoperta di aspetti rilevanti del processo prima non visti) e conoscitivo (in quanto la costruzione del modello traduce in un linguaggio computazionale certe ipotesi sulla natura del processo e la sperimentazione delle diverse tecniche altro non è che la verifica di ulteriori ipotesi).

Se, a questo punto, tiriaino le somme delle osservazioni fin qui fatte, possiamo accorgerci che le tre funzioni che avevamo notato esser proprie dei metodi in generale vengono a coincidere con alcune delle funzioni appena viste dei modelli. In particolare. i modelli sono a volte metodi per rappresentare, per scoprire. per giustificare. Nel prossimo paragrafo ricorderemo. a titolo esern- plificativo, alcuni modelli adottati in contesti psicologici, al fine di mostrarne l'affinità di fondo con quelli simulativi, in quanto pregni degli stessi caratteri generali peculiari ad ogni tipo di modello.

1.2.3. Alcuni modelli adottati in psicologia

I criteri disciplinari specifici di parecchi ambiti psicologici ammettono una serie di strumenti di rappresentazione che hanno tutte le caratteristiche dette a proposito dei modelli. A titolo di esempio, fra gli innumerevoli tipi di modelli psicologici esistenti. in questo paragrafo ne ricorderemo due: quelli statistici e quelli energetico-omeostatici.

E noto ad ogni studioso di psicologia quanto centrale sia il ruolo della statistica nella teoria. nella ricerca e nella pratica psicologica. Uno dei modi di usare la statistica conduce diretta- mente alla formazione di ipotesi, riguardanti i fenomeni che sono oggetto di studio della psicologia, secondo le quali gli stessi fenomeni possiedono caratteristiche analoghe a quelle degli

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oggetti statistici. È un caso, cioè, in cui siamo di fronte a model- li statistici, in quanto si afferma che dei fenomeni o delle entith psicologiche si «comportano come» le entità statistiche e che le leggi della statistica sono applicabili a tali fenomeni.

Ciò avviene. ad esempio, quando si rappresenta un fenomeno psichico come ~misurabilen su una scala (vuoi nominale, vuoi ordinale. vuoi a intervalli o di rapporti) e quindi ci si serve di simboli astratti o «indici» per riassumerne le caratteristiche. Indici di questo tipo possono essere proporzioni, percentuali, medie, mediane e simili. E cosa evidente che attraverso l'uso di tali indici il fenomeno sia sottoposto ad una notevole semplifica- zione e visto attraverso l'ottica delle ipotesi statistiche: tali ipo- tesi, e i sistemi di simboli che ne scaturiscono, vengono assunti come modello che aiuta a rappresentare entità di cui non si conosce appieno la natura.

Un caso particolare in cui delle ipotesi statistiche condizionano da vicino quelle degli psicologi è la rappresentazione di attività psichiche come aleatorie, casuali, probabilistiche, stocastiche. Fra queste si possono ricordare la teoria della campionatura dello stimolo (stimulus sampling theory) (Estes, 1959), e altre «teorie matematiche dell'apprendimento~ (v. Hilgard, Bower, 1975, tr. it. pp. 511-578, per una esauriente trattazione), la teoria deUa detezione del segnale (Beretta. 1968). la teoria della decisione (a cui si è fatto ampio riferimento in psicologia, a cominciare da Broadbent, 1971). Ad esempio le cosiddette teorie matematiche dell'apprendimento si prefiggono di rappresentare i dati risultanti da osservazioni empiriche di semplici situazioni di apprendimento (come quelle dei labirinti) attraverso formule statistiche. analiz- zando cioè gli eventi in termini di probabilità. Lo sviluppo di questi modelli ha richiesto l'elaborazione di formule attinenti il calcolo delle probabilità che di per sé non hanno significato psi- cologico. Eppure si è ritenuto che essi potessero avere una fun- zione euristica che aiutasse a concettualizzare in maniera più economica i dati ed anche a spiegarli perché le formule, tentando di esplicitare un sistema teorico che producesse risultati «analo- ghi» a quelli dei dati sperimentali, costituivano in sostanza delle ipotesi sul processo di apprendimento.

Un altro modello di notevole importanza, usato soprattutto - ma non soltanto - nell'ambito della psicoanalisi, è definibile e- nergetico-omeostatico, in quanto i suoi concetti-chiave sono, appunto, l'energia e l'omeostasi. Chiariremo questi concetti ricor-

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dando. per quanto noti, alcuni presupposti della psicoanalisi freu- diana.

I1 sistema freudiano adotta, per rappresentare le variabili psi- cologiche e il loro funzionamento, una serie di concetti astratti ed anche di suggestive metafore, come il concetto di libido. La libi- do è, come si sa, l'energia che fa funzionare tutti i processi psi- chici. affettivi o cognitivi che siano. I1 suo modo di funzionamen- to è stato spesso paragonato a quello di una macchina a vapore, in cui una certa quantità di energia, derivante dallla combustione di una certa sostanza, viene accumulata in una caldaia sotto forma di vapore che, opportunamente convogliato. spinge stantuffi o altri congegni meccanici per provocare il moto o il lavoro richie- sto. Qualcosa di analogo si ha per le attivita psichiche: è «come se» la tensione che noi proviamo quando abbiamo qualche desi- derio o bisogno da soddisfare fosse un «vapore» da far scaricare per un condotto adeguato e se ciò non awiene esso continuerà a premere con conseguenze negative per il sistema. Una certa quantità di energia (catexis) viene usata da tutti i processi psichici ed è responsabile dei contenuti di coscienza (che sono «caricati>* di energia) come della rimozione di contenuti nell'inconscio (at- traverso le <<controcariche»).

La maggioranza delle teorie psicodinamiche accetta, come la psicoanalisi, una concezione energetica dei fatti psichici che assume un carattere prevalentemente omeostatico. In questo contesto, la «dinamica» consiste sostanzialmente nell'accumulo di tensione (situazione di squilibrio) e nella sua conseguente ridu- zione o scarica che awiene allo scopo di riportare il sistema in equilibrio. Fra gli autori che condividono questa concezione, si possono ricordare Jung, Sullivan, Goldstein e Murphy.

In maniera non molto dissimile Kurt Lewin, attratto più daUa fisica dei campi magnetici che dalla termodinamica, concettualizzò questi bisogni non soddisfatti nei termini di tensioni e squilibri del sistema persona-ambiente (che chiamava «spazio di vita*) facendo entrare in azione una energia psichica per ristabilire l'e- quilibrio. E non si dimentichi che lo stesso Lewin scelse, per rappresentare i fatti psichici, un sistema concettuale così peculiare quale la topologia.

Come si pub facilmente comprendere, anche queste concezioni possiedono i caratteri di veri e propri modelli: fanno ricorso a concetti già noti per descrivere il funzionamento di sistemi che non si conoscono, fanno riferimento a sistemi di simboli non

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propriamente psicologici per parlare di attività psichiche, usano l'analogia per fondare le corrispondenze entro i limiti in cui esse hanno senso (non viene detto, ad esempio, che l'energia psichica sia equivalente ad una .massa» psichica come la relazione di Einstein suggerisce per quella fisica).

1.3. I modelli simulativi nel contesto psicologico

1.3.1. Caratterizzazione generale dei modelli simulativi

Dalle considerazioni che abbiamo finora svolto, la simulazione risulta essere un'attività di riproduzione di una realtà dinamica (processo o sistema) mediante l'estrazione di aspetti più astratti o più semplici da tale realtà e che utilizza per lo più sistemi simbolici diversi dal linguaggio verbale, al fine di rappresentare e10 spie- gare meglio la realtà stessa. Abbiamo anche visto che in psicolo- gia la pratica di far ricorso a modelli è tutt'altro che rara. Adesso occorre caratterizzare meglio i modelli simulativi che vengono proposti per la psicologia, aggiungendo quindi due nuove conno- tazioni: la realtà dinamica candidata ad essere riprodotta corri- sponde a dei processi psichici e i sistemi simbolici utilizzati per riprodurla sono programmi per computer.

Come abbiamo proposto altrove (Greco, 1985, 1986b) in psi- cologia si può parlare di tre tipi di modelli che fanno riferimento a programmi per computer e solo uno di questi è definibile «si- m u l a t i ~ ~ » . I1 primo tipo è quello formale, in cui il programma ha la funzione di eseguire molto velocemente dei calcoli logici. in modo da ricavare le conseguenze formali di una serie di premesse e mostrare, ad esempio, che non vi siano contraddizioni. In questo senso, l'utilità dell'operazione consiste nell'ottenere garan- zie sulla coerenza logica di una teoria. Queste garanzie si limitano al piano formale e quindi il funzionamento del programma non può dire nulla sul significato della teoria né sulla sua verità. Natu- ralmente ciò non è sufficiente per una disciplina che, come la psicologia, non fa molto ricorso a quelle strutture di ipotesi organicamente interrelate proprie delle scienze deduttivamente più sviluppate e difatti questo tipo di modelli 6 scarsamente ado- perato in ambito psicologico.

Ma si può anche non limitarsi ad attribuire ai dati manipolati da

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un programma un mero valore formale e richiedere invece che si stabilisca nn'analogia fra tali dati e quelli nlevabili in un contesto umano. Ciò può essere fatto in due modi. che corrispondono agli altri due tipi di modelli che fanno riferimento a programmi. Il primo, che definiremo informazionale. assume schiettamente che i processi psichici siano paragonabili a programmi, in quanto l'uomo è considerato un «elaboratore di informazioni». Questo modello, detto in inglese dell'human information processing, è ampiamente utilizzato nell'ambito cognitivista4, ove ha dato luogo a innumerevoli ipotesi che parlano, più o meno metafoncamente, dei processi mentali umani come se si trattasse di programmi per computer. E importante osservare. però, che in questo senso non è richiesta (e di fatto non sempre è attuata) una simulazione su computer. La traducibilità in programma. anzi, è in questi casi una questione banale in quanto fa già parte degli assunti di partenza del modello ispirarsi ai procedimenti e alle tecniche sviluppate da chi scrive programmi per trarre idee su come si svolgano i pro- cessi umani.

Non bisogna confondere. dunque, come spesso avviene, i modelli che possiamo chiamare informazionali con i modelli si- mulativi veri e propri. In questo ultimo caso, invece, il procedi- mento è opposto. Si parte da teorie psicologiche già esistenti, che non devono necessariamente accettare la metafora dell'analogia fra processi psichici e programmi, per costmirvi sopra dei pro- grammi che le rispecchiuo anche da un punto di vista non pura- mente formale. Lo scopo che ci si propone è più ambizioso del- l'ottenimento di una semplice verifica logica, in quanto ora si suppone che i dati che il programma legge in ingresso siano sim- bolicamente interpretabili come analoghi a quelli psicologici (ad esempio come stimoli), che il procedimento di elaborazione adot- tato riproduca la dinamica contemplata dalla teoria psicologica di partenza, e infine che i risultati emessi in uscita siano nuovamen- te interpretabili come analoghi a quelli psicologici (ad esempio come comportamenti umani).

' Questa espressione costituisce il titolo di un noto compendio di psicologia cognitivista (Lindsay, Norman, 1972).

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1.3.2. La metafora dell'elaborazione di informazione

Parlando dei modelli adottati in ambito psicologico abbiamo scelto, fra i tanti proposti, quello relativo all'energia anche perché esso per lungo tempo è stato contrapposto al modello ispirato al concetto di informazione. La distinzione fra i concetti di energia e informazione già nella stessa teoria psicoanalitica in realtà era presente in forma embrionale, in quanto non tutti i processi per gli psicoanalisti implicano energia: almeno per la psicoanalisi dell'Ego (rappresentata principalmente da Hartmann e suoi col- laboratori) il processo secondario è paragonato al controllo infor- mazionale (cfr. Rapaport. 1960. tr. it. p. 61), nel senso che minime quantità di energia possono essere usate per controllarne quantità inolto maggiori. Ma il concetto di informazione si trova, come abbiamo visto nel precedente paragrafo. alla base di modelli ben più articolati, alcuni dei quali a volte si confondono con quelli simulativi. Per comprendere la ragione per cui spesso si fa confusione fra i modelli informazionali e quelli simulativi, è opportuno chiarire il concetto di informazione. che è sotteso ad entrambi ma utilizzato in modo diverso.

Tale concetto è nato inizialmente per soddisfare esigenze pura- mente tecniche nell'ambito dell'ingegneria dei sistemi di comuni- cazione. Era specificamente nella progettazione di impianti tele- fonici o telegrafici che si incontrava il problema di definire e misurare la quantità di informazione che un segnale o messaggio possa contenere, così come di individuare le variabili che possono influenzarla. come ad esempio i disturbi di trasmissione.

È importante ricordare, per quanto nota. l'origine puramente matematica del concetto. L'idea fondamentale fu di misurare la quantità di informazione adottando un sistema di scelte binarie per individuare univocamente un elemento da trasmettere, in un certo insieme di elementi alternativi equiprobabili, dimezzando ogni volta il numero di alternative5. Tale concezione è alla base

Per chiarire questo punto si soliti fare questo semplice esempio. Supponiamo di dover indovinare. tramite una serie di opportune domande. un numero com- preso fra 1 e 100. Si puu adottare una strategia consistente nel dividere ogni volta l'insieme delle alternative a metà. Così si può dapprima chiedere se è compreso fra 1 e 50. in modo che la risposta (si o no) ci consenta di scartare metà delle alternative: se la risposta è *si». potremo successivamente chiedere se si trova fra 1 e 25 e così via in modo da restringere sempre più il ventaglio delle alternative

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sia della #teoria dell'informazione» che della «teoria matematica della comunicazione», compendiata per la prima volta da Shannon e Weaver (1949).

Secondo tali teorie, l'informazione è data dal verificarsi di un evento che elimina una incertezza e, poichè la più elementare incertezza è quella fra due alternative, dire q~tale delle due si verifica è trasmettere la più piccola quantità possibile di informa- zione (un bit)6. Un'informazione più complessa potrà essere tra- smessa utilizzando più bit in modo da individuare diverse lettere dell'alfabeto o diversi gruppi di lettere o altri simboli anche rife- riti a concetti complessi. Le alternative fra le quali l'informazione consente di discriminare possono, quindi, avere diversi livelli di generalità e di astrazione essendo possibile tradurre simbolica- mente in una sola alternativa un insieme di concetti. Ad esempio, se si stabilisce un opportuno codice, è possibile trasmettere con un solo bit l'informazione relativa al possesso o meno da parte di un soggetto di qualche capacità o attributo, proprietà, ecc. Ma questo non vuol dire che si sia in presenza di una teoria che spieghi la complessità di un sistema concettuale riducendola in termini esat- ti.

Ciò che crea problemi ad una trattazione puramente matematica o formale del concetto di «informazione» è il fatto che. facendo riferimento ad una «incertezza» fra alternative, esso comincia ad essere inquinato da connotazioni psicologiche, perché implica un «qualcuno» per cui tale incertezza esiste e soprattutto una serie di conoscenze precedenti o contestuali che determinano in maniera decisiva se un evento è informativo oppure no. In altri termini, è. informativo solo ciò che non è prevedibile a priori in base al contesto (altrimenti si ha ciò che i teorici dell'informazione hanno

fino ad arrivarc ad un'unica possibilità. Possiamo immaginare di trovarci in una situazione di tal genere quando dobbiamo trasmettere un'informazione. Se si codifica ogni risposta affermativa con il simbolo *l* e ogni risposta negativa con il simbolo *O». una data sequenza di questi due simboli porta permetterci di individuare I'informazione che ci interessa. "1 numero di bit necessario per avere I'informazione completa (I) dipenderà dal numero originano complessivo di alternative (n) e sarà il logaritmo in base 2 di tale numero: I = log2 n.

Per quanto riguarda il concetto di bir. esso sarà definito in maniera piiì com- pleta nel capitolo terzo, quando verrà esaminato il motivo per cui è rilevante anche nel caso dei computer.

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definito ridondanza) ma determinare le proprietà del contesto è un fatto essenzialmente psicologico e tutt'altro che formale. Ecco perché al di là del suo uso quale puro strumento di misura, cioè riguardante una certa quantità di alternative, del cui aspetto qua- litativo (del cui significato. se si vuole) non interessa dire nulla, il concetto di informazione è tutt'altro che rigoroso e le sue con- notazioni si confondono con quelle che ha nel linguaggio comu- ne. Nel senso psicologico (e anche più comune). infatti, il termine indica il contenuto di conoscenza che viene apportato da un messaggio attraverso il suo significato: un telegramma o una notizia sono più «informativi» di altri non solo in quanto ci indi- cano qualcosa che non sapevamo o che non ci attendevamo come probabile, ma anche in quanto ci dicono qualcosa che ci «interes- sa».

La prima applicazione del concetto di informazione, come si è accennato. riguardò la teoria della comunicazione. Tale teoria, ponendosi il problema sopra esposto, di stabilire quantitativamen- te in che misura l'informazione trasmessa giungesse a destinazione integra, ha compiuto alcune utili concettualizzazioni atte a indi- viduare le componenti essenziali di un sistema di comunicazione. In questo contesto è stato proposto il notissimo schema: un emit- tente codificu il messaggio di informazione in opportuni segnali che invia lungo un canale fino al ricevente che. previa decodifica, potrà ricostruire l'informazione originaria (a meno che non si verifichino dei disturbi - detti rumore - che possono alterare l'informazione stessa). La psicolingnistica ha usato (ed abusato) parecchio di questo schema, che chiaramente possiede i requisiti di un vero e proprio modello.

Questo modello è stato esteso anche a sistemi in cui non si può parlare propriamente di «comunicazione» ma di «elaborazione». cioè di trasformazione delle informazioni in base all'applicazione di determinate regole. Si noti però che il concetto di «informa- zione* ha in questo caso perduto la connotazione matematica di fenomeno che toglie dall'incertezza relativa ad una serie di alter- native equiprobabili, per avvicinarsi a quella psicologica di «no- tizia~.

Abbiamo più volte accennato al fatto che. nell'ambito della psicologia sperimentale, il concetto di «informazione» è stato considerato come centrale dall'approccio comunemente denomi- nato «cognitivista». Vorremmo ora soffermarci un momento a considerare più da vicino in che senso il cognitivismo abbia fatto

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proprio tale concetto. Sappiamo già che il presupposto condiviso da gran parte dei cognitivisti è che l'uomo sia un elaboratore di informazioni e che i suoi processi psichici, in particolare quelli cognitivi, siano paragonabili ai programmi dei computer; sappiamo anche che auesto uresupuosto è stato a volte denominato human

. &

information processing. Il concetto di informazione dovrebbe in questo caso rinviare

all'uso che ne viene fatto nell'informatica (a volte anche nella teoria della comunicazione, considerando i processi psichici come uno scambio di «messaggi». tra l'ambiente e l'organismo o all'in- terno dell'organismo). Ma abbiamo appena visto che in realtà il concetto non ha rigore formale se non nei casi specifici che abbiamo esaminato e rinvia al significato del linguaggio comune piuttosto che precisarlo. Si comprende allora perché il termine «informazione» ha finito con l'essere usato in alcuni casi comepas- re-partout estremamente generico, al punto che è legittimo chie- dersi che cosa si guadagni dal suo uso. In tali casi esso potrebbe essere benissimo sostituito dal termine «qualcosa» senza che si perda qualche apprezzabile chiarimento concettuale.'

In altri casi, il concetto di cinformazionen è usato in un senso diverso, essendo riferito a una sorta di «ordine» o «regolarità» presente nell'ambiente; ad esempio è questo il senso implicito con cui Neisser (1976) lo usa quando parla di «informazione nella luce». Neppure questo uso corrisponde al senso definito formal- mente dall'information theory (informazione è ciò che elimina un'in- certezza fra alternative) ma ne assume una connotazione che a tale teoria è connessa. Infatti è ben noto che la formula proposta da Shannon per la misura dell'informazione si rivela la stessa (tranne il segno) usata dai fisici per tradurre in termini formali il concetto di «entropia»; è altrettanto noto che l'entropia è in que-

' Prendiamo come esempio alcune definizioni tratte da un noto manuale univer- sitario di osicoloeia (Lindzev. Hall. Thom~son . 1975. tr. it. OD. 469; 471). . , . .

1iiitii:ti;irz reiro.irni , i . ,F iin pro:c.xb per il 4u;ilc Id ritenlione di inform~zione apprew in prcccJr.iil;~ iiiicrtr.ri\;c ,<in I'nppreiijimcnto JI informa~ione nuova.. potrebbe diventare: <<E un processo per il quale la ritenzione di qualcosa appreso in orecedenra interferisce con I'ao~rendimento di aualcosa di nuovo». . .

Sostituiamo direttamente il termine anche nella definizione seguente. Percezio- ne: *Una funzione psicologica che - attraverso gli organi di senso - consente all'oraanismo di ricevere ed elaborare qualcosa concernente i'ambiente circostante " e le modificarioni che hanno luogo in esso»

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sto senso un'espressione del «disordine» mentre l'informazione è un'espressione dell'eordine» (cfr. ad es. Tonini, 1964). In questo caso, parlare di «elaborazione di informazioni» (e non. ad esem- pio. di <(stimoli») può servire a ricordare il fatto che l'attività psi- cologica che conferisce un senso alla realtà deve partire da qual- che struttura «ordinata», o anche che essa stessa deve essere «ordinata.. ma non dice nulla di specifico sulla natura di tale atti- vita.

E evidente. però. che il grande successo che ha avuto in psi- cologia la metafora dell'«information processing~ non può essere dovuto semplicemente al fatto che essa ha offerto la possibilità di adottare una comoda ma vuota terminologia. In realtà questa metafora va considerata sottolineando ilprocessing più che l'infor- mation. In altri termini. ciò che è stato più utile e fruttuoso per la psicologia cognitivista è stata l'analogia fra processi psichici e programmi per computer. soprattutto nel suggerire indicazioni su come riempire il vuoto teorico lasciato dal comportamentismo riguardo al passaggio dallo stimolo alla risposta.

Presentando un modello della memoria che sarebbe stato desti- nato ad avere un grande successo, Anderson e Bower (1973, pp. 135 sgg.) affermavano che prima dell'approccio dell'information processing esistevano tre modalità principali per lo studio della mente: l'introspezione (che fornisce, a loro parere, dati psicolo- g~c i validi ma su cui non è facile costruire una teoria), l'approccio comportamentista della«scatola nera. e l'approccio fisiologico che inserisce in questa «scatola» attività neurofisiologiche. Il modello dell'information processing tenta di inserire nella fatidica scatola qualcosa di meno complesso e meno molecolare delle attività neurofisiologiche e cioè strutture e processi mentali di natura astratta di cui finalmente si può dire qualcosa tramite l'analogia con i procedimenti di elaborazione dell'informazione da parte dei computer.

Uno dei primi esempi che viene citato comunemente a questo proposito è il libro di Miller, Galanter e Pribram (1960). in cui veniva suggerito il concetto di «piano», quale antecedente del comportamento osservabile, modellato sul concetto di «program- ma» per computer. I modelli che sono stati inventati in seguito a queste prime indicazioni non si contano. In questi casi ciò che rende un buon servigio è il concetto di «programma» più che quello di «informazione», ma il secondo è legato al primo perchk, nel momento in cui si parla di elaborazione, automaticamente si

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comincia a pensare agli «oggetti» di tale elaborazione e tali oggetti nella computer science vengono definiti, appunto. «infor- mazioni~.

A questo punto dovrebbe essere chiaro perché l'idea che almeno alcuni processi psichici possano avere uno svolgimento simile a quello di programmi che elaborano informazione è stata da più parti ritenuta la soluzione dell'annoso problema di specifi- care i processi interiori in termini meno vaghi di quanto si faccia parlando di «esperienze», «coscienza>> et similia. Ma si è dawero riusciti in questo intento? In psicologia cognitivista al concetto di «coscienza» sono venuti sostituendosi concetti come quello di «canale a capacità limitata». un canale cioè dove può entrare ed essere elaborata una quantità limitata di informazioni. In un senso più specifico, la coscienza è stata vista come il risultato dell'atten- zione focale (Neisser, 1967). un processo che seleziona gli oggetti o eventi che possono entrare a farne parte. Se queste concezioni non siano riduttive e se si possano catturare davvero tutti gli aspetti fenomenologici in questa rete concettuale, la discussione è aperta8.

A questo punto dovrebbe essere più chiara anche la ragione della distinzione, posta nel precedente paragrafo, fra i modelli informazionali e modelli simulativi. L'ambiguità che porta alla confusione nasce dall'uso del concetto di informazione in modi diversi. Usando i modelli psicologici basati sulla metafora infor- mazionale non si ha bisogno di costruire effettivamente program- mi che compiano operazioni paragonabili a quelle psichiche: ci si può limitare a rilevare tale analogia e a ricavarne idee per le ipotesi psicologiche; in altri termini si può condividere l'idea che

' Prima di concludere queste note sulla metafora informazionale. intendiamo mettere in evidenza un aspetto. che non ci sembra sia stato ancora sottolineato. per il quale la metafora potrebbe essere forse interessante. Come sarà più chiaro dopo che avremo preso in considerazione il funzionamento di un computer. il concetto di informazione. essendo generico. lascia anche aperta la possibilità di riferirsi indiffereritemente sia agli oggetti dell'elaborazione (<<dati>>) sia a ciò che guida l'elaborazione stessa (<<programmi.). Sia i dati che i programmi sono dun- aue insiemi che contengono informazioni, Per auesto motivo. l'uso della metafora

cui un intero processo psichico può diventare oggetto (*dato>>) di un altro o dello stesso processo psichico, così come un programma per calcolatore dal punto di vista di un altro o dello stesso programma può costituire un dato.

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l'uomo sia un elaboratore di informazioni senza per questo dover fare delle simulazioni. Fare delle simulazioni sul computer, al contrario, non richiede obbligatoriamente di condividere il pre- supposto informazionale. In questo caso, infatti, l'analogia con- tenuta nel modello non è costituita dall'idea di informazione ma da altre idee su come un processo si svolga. Queste idee potreb- bero, ad esempio. attribuire al processo una dinamica energetica, che è perfettamente emulabile da un sistema informazionale, senza che perciò si debba essere costretti a snaturare la rappre- sentazione analogica che aveva dato origine al modello sostenendo che essa è di natura informazionale. L'informazione insomma non costituisce qui un punto di partenza ma di arrivo, perché finisce con l'essere una «analogia negativa» nel senso della Hesse. facen- do semplicemente parte della tecnica adoperata per riprodurre una diversa analogia.

1.3.3. Simulazione e metodo sperimentale

Parlando delle funzioni dei modelli simulativi. abbiamo osser- vato che fra queste è compresa quella conoscitiva. che si attua consentendo non solo una rappresentazione ma anche una giu- stificazione dei dati deli'esperienza. Tale funzione è stata tradi- zionalmente svolta in psicologia dal metodo sperimentale. che quindi appare il più diretto concorrente del metodo simulativo. Per capire se effettivamente vi sia contrasto fra i due metodi e per caratterizzarne comunque le differenze, dobbiamo considerare quale sia la tipica modalità d'uso del metodo sperimentale in psi- cologia a fini giustificativi.

Per provare la validità delle proprie ipotesi, la psicologia spe- rimentale ha fatto ricorso in modo massiccio all'elaborazione statistica. Si osservi che si tratta di un uso della statistica diverso da quello delineato nel 5 1.2.3. perché qui essa non è applicata alla natura delle variabili psicologiche ma alle ipotesi costruite dagli psicologi. Tali ipotesi (teorie o modelli) sono basate nor- malmente su osservazioni sperimentali o generalizzazioni empiri- che e dovrebbero anzi «spiegarle». Nella pratica, le attività teori- che ed empiriche sono connesse in una catena circolare: ad esem- pio, si parte da certe ipotesi e si compiono osservazioni elo esperimenti per confermarle o confutarle; oppure si hanno a disposizione dei dati empirici e da questi, per induzione, si nca-

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vano ipotesi generali delle quali i dati stessi possano ritenersi conseguenza logica.

Dato il carattere peculiare dei dati psicologici. è difficile, come ben si sa, ricavare leggi generali esatte dalle quali essi possano derivare quali conseguenze logiche. Per questo motivo le gene- ralizzazioni usate in psicologia hanno molto spesso carattere pro- babilistico.

L'idea di fondo su cui si basa il ricorso alla teoria statistica della probabilità è la seguente. Quando compiamo una esperienza un certo numero di volte, in base a tale teoria è possibile dire quante volte otterremo un risultato e quante volte un altro se i fattori che incidono sono puramente casuali. La probabilith di un certo risultato è data dal rapporto fra il numero di casi favorevoli ed il numero di casi possibili: ad esempio, se lanciamo una volta un dado, i casi possibili sono 6 ma quello favorevole (che si pre- senta effettivamente) è uno solo, quindi la probabilith che compa- ia una qualunque delle sei facce è di 116. Ma se il dado fosse truc- cato. alcune facce potrebbero comparire più spesso di altre, secondo una «legge» che dipenderh dal trucco adottato. Qualun- que scienza assume che viviamo in un mondo non casuale ma ordinato e quindi fa ricerca delle leggi che consentano di spiegare i fenomeni che osserviamo assomiglia alla ricerca del «trucco» che fa sì che il dado non si comporti in maniera puramente aleato- ria.

Le tecniche statistiche consentono, dunque, di determinare se i risultati che si ottengono negli esperimenti sono «abbastanza» differenti da quelli attesi in base al puro caso, consentendo di precisare l'entità di tale diversità perché essa possa essere consi- derata «significativa>>. Ora, come si sa, la logica dell'esperimento prevede che alcune variabili (quelle indipendenti) vengano man- tenute costanti o controllate dallo sperimentatore in modo tale che gli eventuali effetti, evidenziabili dopo la prova sperimentale, sulle variabili dipendenti (in genere le risposte o i comportamenti dei soggetti) siano da attribuire esclusivamente alle condizioni introdotte nell'esperimento.

Quando viene ipotizzato che una particolare variabile influenza in modo determinante un processo. allora. basta confrontare la situazione in cui tale variabile è presente con una situazione in cui essa è invece assente o è comunque controllata dallo speri- mentatore: se i risultati otenuti sono <<abbastanza» diversi da quelli ottenibili per puro effetto del caso. possiamo concludere che la nostra ipotesi è stata convalidata.

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Da questi cenni dovrebbe essere chiaro che è possibile adottare e sfruttare pienamente la metodologia sperimentale solo in quei casi in cui si possa rendere esplicito in partenza quali aspetti del fenomeno che è oggetto d'indagine saranno tenuti costanti, quali manipolati. quali infine osservati. A ciò si aggiunga un ulteriore presupposto ideale: gli aspetti su cui si è deciso di intervenire nell'esperimento dovrebbero essere realmente e direttamente manipolabili. cioè modificabili a piacere secondo le esigenze spe- rimentali. Si è definito *ideale» questo presupposto perche, in realtà. in psicologia non è sempre possibile soddisfarlo. L'ipotesi da convalidare empiricamente potrebbe infatti richiedere che la variabile da manipolare sia un processo mentale (ad esempio una strategia nella soluzione di un problema. una conoscenza nella comprensione di un significato, ecc.) e su questo genere di variabili. come ben si sa, non è possibile intervenire direttamente. Ciò che si può. al massimo, fare & variare le condizioni sperimen- tali (istruzioni o compiti dati ai soggetti) in modo che, si ipotiz- za, vengano ad essere modificati certi processi mentali. Si dovreb- be tuttavia riflettere sulla natura ipotetica di tale assunto e sul fatto che in ogni caso sarà ben difficile arrivare ad una manipo- lazione dei vari aspetti di un processo che giunga ad escluderne alcuni e includerne altri. come una sistematica indagine sperimen- tale degna di questo nome richiederebbe. Anzi. anche se ciò fosse tecnicamente possibile, si potrebbero avanzare serie obiezioni di natura etica nei confronti di una tale manipolazione.

La metodologia simulativa. che è stata in precedenza definita come la riproduzione di realtà dinamiche o processuali, appare uno strumento molto più affinato per affrontare questa proble- matica perché fa diverse promesse interessanti. In primo luogo promette di consentire una rappresentazione di fenomeni, come quelli mentali, che sono astratti e non direttamente osservabili: in questo la sua funzione è paragonabile a quella di altri sistemi di rappresentazione (come potrebbe essere, ad esempio, l'«apparato psichicon freudiano). Si noti che, a differenza della metodologia sperimentale, che si applica a sistemi di rappresentazione esisten- ti (teorie) lasciandoli inalterati, la simulazione richiede che quei sistemi di rappresentazione vengano analizzati in dettaglio per essere tradotti in altri sistemi (cioè in programmi). Una seconda promessa riguarda la possibilità che il fatto stesso di compiere questa traduzione ci faccia scoprire cose interessanti a cui non avremmo pensato. A questa scoperta. naturalmente. si può arri-

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vare in mille modi, compreso il riflettere sulle variabili in gioco nella fase di progettazione di un esperimento; il valore euristico della simulazione non è perciò una esclusiva di tale metodo, anche se non sembra esserci dubbio che il procedimento stesso di costruzione di una simulazione favorisca in modo speciale la sco- perta. Un'altra promessa, infine, la più ambiziosa. è quella di consentire in un contesto dinamico «analogo» al processo in esame quelle manipolazioni che il metodo sperimentale richiede e che non sono consentite nella realtà.

Per valutare se queste promesse siano mantenute, è preferibile caratterizzare in maniera più dettagliata in che cosa realmente consista la metodologia simulativa ed esaminare in quali program- mi Ma stato effettivamente tentato di applicarla. Per questo motivo riteniamo opportuno rinviare la discussione aiia parte conclusiva del volume ( 5 11.3.2.), ove potrà essere proseguita con riferimenti concreti a dati che fin qui non sono emersi.