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EVO ANTICO PARTE I

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EVO ANTICO

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EVO ANTICO

�PARTE I

Nel proporre un’analisi o valutazione di un evento, sia esso storico o scientifi co, rite-niamo che debba essere doveroso introdurre il lettore con una presentazione del periodo storico nel quale l’evento è accaduto. Riteniamo ancora opportuno precisare come l’evento stesso sia frutto di un Pensiero il quale lentamente, ma in maniera fortemente coinvolgente, sappia trascinare una Comunità o un Popolo a pretendere la realizzazione di conquiste sociali, scientifi che, mercantilistiche. Queste infi ne generano ricchezza, che è sempre stimolo a maggiori esigenze artistiche e culturali. Le scoperte, le invenzioni, l’evoluzione della tecnica sono sempre una risposta ai reali bisogni dell’uomo.

Non si può comprendere Ippocrate se non si comprende il pensiero greco del V sec. a. C., né il concetto di Ordine di Federico II se non si rivive l’ansia di Ricostruzione che rende fecondo il pensiero politico e sociale di Carlo Magno. Così ci pare inutile ricordare Nicolai Preposito e il suo Antidotario se non si rivive il pensiero politico e il Costume dell’Italia meridionale nel XII sec.

È vero, la scienza, i suoi teoremi e le sue realizzazioni traggono origine dall’osservazione della natura, ma è sempre l’evoluzione del Pensiero che rende sensibile e indirizza la capa-cità del ricercatore; non a caso Galeno ricordava come un buon medico dovesse essere, per sua prima virtù, un fi losofo.

Questo testo, per meglio comprendere l’evoluzione delle scienze farmaceutiche e con esse della Farmacia, seguirà questo metodo.

In quale momento della sua storia l’Uomo ha sviluppato il Pensiero?

� I prodromi della farmaceutica �

Certo, il vivere insieme, sia pure in piccole comunità, deve avere stimolato un linguaggio comune e i primi attrezzi prodotti, frutto di ragionamento consequenziale. Nel Paleoli-tico dobbiamo chiamare questo essere “Uomo”, ora con un cervello più sviluppato e con una bocca più ricca di fonemi. Con quali pensieri, probabilmente suggeriti dall’istinto, quest’uomo abbia affrontato la durezza della natura che lo circondava non ci è dato saperlo; certo il fuoco, una vera reazione chimica sia pure non compresa, è frutto di osservazione e rifl essione, anche se certamente la gran parte del Pensiero è assorbito dalle esigenze dettate dalla sopravvivenza. Ma già nell’uomo di Neanderthal, che oggi si pensa non appartenga alla linea evolutiva dell’Homo Sapiens, è possibile osservare una sepoltura rituale, indice di sentimenti, religione, paure, di speranze.

Tra i fi ni primari degli uomini primitivi vi è la ricerca del cibo per sé e per gli animali allevati. Questo ci invita a rifl ettere che la pratica del nomadismo non deve avere solleci-

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tato, nella osservazione della natura, particolari deduzioni; lo spostarsi di luogo in luogo, per esempio, comporta che una pianta, edule o medicamentosa, presente in un territorio non lo sia in un altro più a Nord e quindi più freddo; questo causava quella mancanza di esperienza alla base di qualsiasi empirismo. Certamente il loro vagare consentiva l’affer-marsi di una civiltà tutta propria, gli dei che trasportavano con sé erano piccole sculture (le grandi non avrebbero potuto trasportarle) raffi guranti delle Veneri dai grandi seni a invo-care la fertilità o frammenti di ossi graffi ti con disegni di animali propiziatori per un gregge fecondo o una profi cua caccia. Certamente queste popolazioni nomadi avranno alzato gli occhi al cielo per invocare pioggia e calore al sole, al fi ne di avere erba abbondante per le loro mandrie. Si manifesta così l’esigenza di instaurare un rapporto con il divino.

È con la civiltà del bronzo che si affermano i popoli “rivieraschi”, cioè che vivevano nei pressi dei grandi fi umi: l’Eufrate, il Tigri, il Nilo, forieri di pesca e di terra fertile, facile da coltivare in quanto dissodabile anche con il primordiale aratro di legno. Alla tecnica della pesca bisogna affi ancare le capacità agricole del sapere coltivare, organizzare e program-mare la propria vita, sapendo di dover attendere la stagione del raccolto. Recenti studi affermano che è stato l’istinto a portare a selezionare e coltivare i cereali e i legumi, in quanto in questo momento del suo processo evolutivo l’uomo si presenta con un cervello più sviluppato e quindi fi siologicamente pretende più calorie che potrà trovare appunto in cereali e legumi ricchi di carboidrati.

Questi uomini rivieraschi sono agricoltori, ma integrano la loro dieta a differenza dei loro progenitori, con piccole prede e con pesce apportatore di acidi grassi della serie omega-3, anch’essi tanto importanti per l’ulteriore sviluppo del cervello. Si creano le premesse per una organizzazione sociale che sa darsi un proprio linguaggio scritto, sa misurare il proprio operato e il mondo che lo circonda, sente l’esigenza di migliorare la qualità della vita. Ora, gli avvenimenti che scandiscono il suo vivere, il parto, lo sviluppo, l’amore, la salute e la malattia, sono affi dati alla benevolenza di un dio o di una dea; nasce più propriamente la medicina teurgica, dove la preghiera e la speranza della guarigione sono il primo farmaco.

� Magia, religione, scienza �

Il concetto di magia, se riferito alla storia dell’Uomo e all’evolvere del suo Pensiero, non trova una facile defi nizione. Oggi, nell’accezione comune, ma solo nelle civiltà più evolute, la magia ci trova increduli, quando non viene intesa come sinonimo di trucco o addirittura di imbroglio o mistifi cazione, ma non così nel pensiero greco dove il termine indica la teologia dei sacerdoti persiani e le loro pratiche religiose, tanto diverse da quello che sarà il processo mentale greco, tutto teso ad una rigorosa “ratio”. I Magi1 infatti, nella antica reli-gione persiana, ma anche babilonese, sono astrologi, indovini, e stregoni nel senso migliore della parola ed è per questo che nel mondo ellenistico la Magia viene intesa come forma superiore della Conoscenza. Nel Medioevo, dalla intelligentia, è intesa come la Volontà e la Capacità, grazie anche a una diffusa concezione neoplatonica, di conoscere le forze che danno vita e regolano la Natura; quindi magia è ricerca, è scienza al sevizio dell’Uomo. Così come gli alchimisti, anche i nostri attuali scienziati, pur con una maggiore conoscenza e tecnica, altro non fanno che scoprire leggi e capacità della natura, per utilizzarle appunto a seconda delle necessità dell’Uomo.

1 Nel Vangelo i Magi sono sacerdoti defi niti anche Re. Guidati da una stella giunsero a Betlemme per rendere onore al bambino Gesù.

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Ma allora Magia è sinonimo di Scienza? Stando all’accezione storica sì, a patto che non sconfi ni in quelle degenerazioni buone per i deboli e per gli animi troppo semplici.

La magia, particolarmente nelle credenze primitive, può essere defi nita come una forma di religione primordiale che indubbiamente ha alimentato l’animo e stimolato la Cono-scenza. Alcuni etnologi ritengono che la magia e la religione siano state generate per sfuggire alla paura e al mistero che incombevano sulla vita dell’uomo primitivo; dello stesso avviso è lo studioso Lewis Browne, che nel 1952 intitola la sua opera L’evasione dalla paura, bollando tutte le religioni come frutto di intimidazioni e di paure. In maniera meno dissacrante possiamo affermare che le religioni, sebbene abbiano stimolato un importante processo educativo, in alcuni momenti storici sono state un freno al processo cognitivo dell’uomo, con l’intento però di portarlo verso una eticità edifi cante.

Quali sono i prodromi della religione? Come detto, la paura certamente: del grande freddo, degli animali feroci, della malattia che troppo spesso conduceva a morte, quest’ul-tima tanto inspiegabile, tanto inquietante. Alla fuga deve aver fatto seguito la Speranza; il pensiero di un momento migliore, e questa è stata la prima preghiera dell’uomo, una speranza espressa in cuor suo, poi ad alta voce, infi ne elevata insieme alla sua piccola Comu-nità. Nasce il dialogo con gli dei, la Religione, la Liturgia. Come conseguenza di questo incontro con il divino, ricco di fervore e di speranza, la malattia (inspiegabile) viene vissuta come una collera, una punizione del dio; il peccato, come conseguenza, porta quale puni-zione la malattia. Pensiero questo che ha attraversato la storia dell’Uomo sino ai giorni nostri.

Non solo allora la paura ha generato la prima religiosità, ma anche l’osservazione delle cose positive ha portato l’uomo a sperare: la bellezza e la potenza del Sole certamente invitavano alla preghiera, la pioggia stimolava la crescita dell’erba, vitale per le mandrie, la Terra generava frutti e messi. Naturalmente la religiosità prendeva forma a seconda della propria organizzazione sociale: chi era dedito al nomadismo auspicava valli ricche di foraggio e quindi pregava il dio Sole e della pioggia; chi invece era dedito all’agricol-tura pregava la dea Terra affi nché fosse prodiga di frutti e di messi. I Pelasgi, popolazione autoctona della antica Grecia, coltivando la terra ne invocavano la fertilità, rivolgendo la loro preghiera guardando il suolo; più tardi gli Elleni, quindi gli Achei e i Dori, essendo originariamente popolazioni nordiche nomadi, pregavano gli dei rivolgendosi al cielo. In seguito, occupando la Grecia, le due religioni si fusero originando così quel credo raccolto nella mitologia greca.

Altro prodromo della religiosità sono state le virtù, le somme capacità dell’uomo stesso, quindi: la forza di Ercole, il coraggio nel combattimento di Marte, la bellezza di Venere, le capacità mediche di Esculapio per i Greci e di Imothec (“colui che viene in pace”) per gli Egizi. Deifi care gli uomini che avevano generato ammirazione con il loro valore e virtù faceva sentire l’uomo più partecipe alla magnifi cenza e onnipotenza degli dei e lo autoriz-zava a emularli e a richiederne i favori. Vale ricordare, quale esempio, che gli imperatori Romani venivano deifi cati in quanto espressione vivente dello Ius e del Genio Romano, valori che i popoli dovevano riconoscere e ai quali ispirarsi e modellarsi.

Abbiamo già affermato come la magia possa essere prodromo della Ricerca, della Scienza; rimane da indagare come la religione possa avere infl uito sull’evoluzione della scienza. Nel caso dell’Islam, già dal IX sec. d.C. appare evidente come questa nuova religione fosse tutta protesa verso la Conoscenza e questo promosse un grande impulso verso gli studi fi losofi ci, le scienze matematiche e astronomiche oltre alla ricerca medico-farmaceutica. Per contro, molte altre religioni assoggettate alla casta sacerdotale furono di ostacolo al progresso sociale e scientifi co, anche se è innegabile, come già detto, che la religione stessa inviti l’uomo a una educativa rifl essione. Anche quando gli viene richiesta semplicemente

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la Fede, lo invita all’individuazione dei Valori edifi canti che lo devono allontanare dalla belluina aggressività che è in lui. All’animo dell’uomo, che ricerca la Conoscenza, occorre un Credo che soddisfi e promuova il suo anelito, che gli dia forza facendolo sentire una espressione della divinità, esaltando così il suo infi nito potenziale. Per tutto ciò, in ultima analisi, dobbiamo convenire come, almeno nella sua prima fase evolutiva, la Religione abbia predisposto l’uomo alla Conoscenza.

� La Civiltà Egizia �

Per quanto i Sumeri, i Medi, gli Assiri e i Babilonesi siano con la loro civiltà fonte di evoluzione e conoscenza per tutto il Medio Oriente, è alla Civiltà Egizia che si preferisce fare riferimento in quanto nasce in un contesto sociale e culturale e per molti aspetti più storico, che sarà propedeutico per le civiltà del bacino del Mediterraneo, e più propria-mente per quella che oggi defi niamo “occidentale”; inoltre si espresse nei secoli, anche con fasi di decadenza, ma sempre con una propria spiccata personalità che cambierà solo con l’avvento dell’Islam.

La Civiltà Egizia prende forma in un periodo storico databile intorno al 3000 a.C. quando un condottiero di nome Menes, con il suo carisma oltre che genio politico-militare, unifi ca le pur diverse tra loro popolazioni dell’Alto e Basso Egitto.

Per la prima volta nella storia dell’Uomo, egli organizza con criteri meritocratici un governo nel quale ministri capaci, funzionari, un’effi ciente burocrazia e un corretto sistema di tassa-zione concorrono a dare vita a una nazione produttiva e serena nel suo lavoro. La tecnologia conosciuta è avanzata per il momento storico: si conosce la ruota, la navigazione a vela, la bilancia, il telaio, i colori e la tecnica per utilizzarli; tutto concorre a stimolare commercio, ricchezza, nuovi confronti con altri popoli e quindi nuove esperienze. Le fi nanze dello Stato sono interamente dedicate all’edifi cazione della Nazione e comunque – colpisce questa affer-mazione storica – divise dal tesoro personale del faraone. Alcuni aforismi dell’epoca come: «Non insuperbire per il tuo sapere, perché non si tocca mai il termine di un’arte», oppure: «Rara è la sapienza, ma spesso si trova nella schiava presso la mola» ci inducono a comprendere come lo Stato fosse impegnato a favorire una più vasta comune cultura con fi nalità educative, ma anche come valore cementante tra loro le diverse etnie della costituita Nazione Egizia.

In una nazione, il lavoro ordinato e profi cuo genera sempre diffuso benessere e questo a sua volta sollecita il piacere dell’Arte, della Cultura, il desiderio di migliorare lo stile di vita, esigenze queste che a loro volta stimolano lo studio, la Ricerca, l’evoluzione della Scienza.

Il nuovo Stato affronta problemi sociali come la Sanità pubblica, anche con principi di prevenzione e di igiene sociale. L’Arte Medica e Farmaceutica in particolare sono frutto di rigorosa ricerca; è emblematico il fatto che il medico è educato a porsi davanti al malato, tre rifl essioni: posso curarlo? È un male che posso controllare con la conosciuta terapia? Non posso curarlo! È in quest’ultima risposta che traspare l’umiltà e il rigore scientifi co di questo periodo, in quanto il Medico sa riconoscere i propri limiti senza ricorrere alla teurgia o peggio ancora alla mistifi cazione; quindi prende forma per la prima volta in Egitto, e certamente nell’immediato Mediterraneo, una medicina più razionale che comincia anche a indirizzarsi verso studi specialistici; troveranno questi più tardi in Alessandria, nel periodo ellenistico, la loro massima espressione. L’Egitto, anche in momenti di recessione economica e politica, è stato sempre un formidabile polo culturale e quindi anche medico e farmaceutico, e ciò in virtù del fatto che tutti i commerci e quindi le culture confl uivano non solo nei suoi porti ma anche via terra lungo le carovane, dalla Somalia, dalla Eritrea,

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dall’intera Africa e Medio Oriente. Ogni scambio era foriero di Conoscenza e dall’Egitto si irradiava in tutto il Mediterraneo.

Erodoto nelle sue Storie ci parla del popolo Egizio come il più sano del Mediterraneo, in quanto oltre all’igiene personale molto curata, che più volte sconfi nava nella cosmesi, venivano osservati periodi di digiuno, durante i quali venivano assunti blandi lassativi: la polpa dei datteri, di tamarindo o infusi di sena.

Questa diffusa cultura, che nasce nel periodo dell’antico Egitto o Menfi ta, rivolta all’i-giene e alla prevenzione, caratterizzò sempre gli Egizi, ma è nel 1700 a.C. che la Nazione subisce un decadimento, come spesso accade ai popoli, per corruzione o per fraintendi-mento del concetto di potere. È in questo successivo periodo che il faraone, ora deifi cato, è al vertice della casta sacerdotale la quale si ritiene depositaria del Sapere che gestisce secondo i propri intenti. La Scienza quindi ora non è più libera Ricerca, non ardore di Conoscenza, non riconosce più i suoi limiti, ma in quanto rivelazione, ossia espressione del dio, deve essere amministrata e dispensata dai sacerdoti e per questo motivo è da ritenersi infallibile. È vero che, come diffuso convincimento religioso, la Conoscenza era attribuita alle rivelazioni degli dei, ma mentre prima si adorava Thoth, rappresentato nell’iconografi a con la testa di ibis o di babbuino, successivamente si pregherà Iside che viene rappresentata foriera di erbe terapeutiche, ma col dio del silenzio ai suoi piedi, Harpocrate, che appunto con il dito sulla bocca invita a tacere, a non rivelare la “Scienza divina”. Non è quindi un silenzio meditativo, bensì un preciso invito ai sacerdoti del tempio, come spesso è accaduto nella storia dell’Uomo, a non rivelare la scienza conosciuta, che deve essere intesa come un potere oligarchico. Un dispotismo teocratico, questo, che verrà di fatto accettato dal popolo Egizio e diverrà radicato costume, che non verrà scalfi to né dalle limitrofe civiltà emergenti del Mediterraneo né dall’Ellenismo.

È verso la fi ne del 1800 della nostra era che vengono scoperti – in seguito ne verranno ritro-vati altri – i papiri conosciuti con il nome dei loro scopritori: Edwin Smith e Giorgio von Ebers oltre al nostro Giuseppe Passalacqua. Il primo papiro (2000 a.C.), pur riportando medicamenti composti, alcune droghe calmanti il dolore e norme dietetiche, si sofferma maggiormente su aspetti clinici e chirurgici; colpisce come per la cura delle ferite infette venisse raccomandato il miele impastato con il pane ammuffi to quale antibiotico ante litteram. Il secondo (1800-1700 a.C.) appare come un vero trattato di farmacologia e materia medica, tanto da essere defi nito come “la prima Farmacopea” conosciuta nel senso anche etimologico della parola: “farmaco-fare”, che descrive quindi l’arte di preparare il farmaco. Il papiro inizia con le seguenti parole:

… qui incomincia il libro delle preparazioni, dei medicamenti adatti a tutte le parti del corpo di un ammalato. È lo stesso dio dell’universo Ra che presa compassione per le sofferenze dell’Umanità, mi ha ispirato con le parole di Thoth, l’uso dei più portentosi rimedi. Dio farà vivere chi lo ama e poiché io sono timorato di Dio, io vivrò …

Il concetto di materia medica rivelata è evidente e ce ne dà conferma il fatto che contiene ancora 700 formule magiche, forse per preparare il paziente o come coadiuvanti l’azione terapeutica del farmaco. Ancora di rilevante importanza è il papiro ritrovato dall’egittologo Passalacqua che, con le sue 170 ricette, amplia il concetto di terapia dell’epoca. Tutti i papiri di questa epoca sono scritti in ieratico, la scrittura preferita dalla casta sacerdotale e più adatta a essere riportata su papiro, riservando i geroglifi ci alle pareti in pietra o intona-cate. Successivamente, dopo il primo millennio a.C., verrà adottato il demotico, forma più evoluta e più semplice, quindi maggiormente comprensibile per il popolo.

Certo, non mancavano oli e unguenti per la cura del corpo, né terre (ciprie), né colori, né balsami profumati, il tutto con funzioni igieniche e cosmetiche. La lettura della materia

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medica, dei rimedi e delle droghe utilizzate non deve sorprendere né indurre a un sommario giudizio negativo; sono valutazioni cliniche e relative terapie riferite a 5000 anni or sono. Per quanto la maggior parte delle piante offi cinali non sia stata identifi cata, sappiamo che venivano utilizzate il Papaver somniferum e il suo lattice, la canapa indiana, il rosolaccio dei campi (Papaver rhoeas), la mandragora, dai quali si potevano ottenere rimedi analgesici e ipnoinducenti raccomandati dallo stesso dio Thoth. Evidentemente, allora come oggi: «Divinum est sedare dolorem».

La scilla era prescritta come cardiotonico e diuretico (i cui principi attivi sono stati ben confi gurati dagli scillareni nelle farmacopee sino ai nostri anni Sessanta); il ginepro dige-stivo e diuretico; la corteccia del frutto del melograno come vermifugo; salvia, canfora e rosmarino come revulsivi; il ricino per il suo olio purgante; i fi ori di camomilla, profumati e salutari consacrati al dio del Sole, come antispastico; l’Apium graveolens, una ombrellifera alla cui famiglia appartiene il sedano, prescritto come digestivo e carminativo insieme al fi nocchio, al coriandolo, all’anice. Il fi eno greco, triturato in mortaio e amalgamato con miele, veniva somministrato come anabolizzante e con funzione galattogena. Ancora: il miele come eccipiente e correttore, ma anche come disinfettante sulle piaghe; il vino come solvente di principi attivi nei macerati, ma anche tal quale per uso terapeutico; la mirra, il propoli, l’incenso usati come disinfettanti e antifermentativi anche nella pratica dell’im-balsamazione; la resina storace (Styrax offi cinalis resina) in forma sia solida sia liquida; il Natron, carbonato idrato di sodio (Na2CO3 � 10 H2O) che, in quanto fortemente disi-dratante, veniva usato nell’imbalsamazione. Appare inutile riportare tutte le droghe e i rimedi che si è riusciti a interpretare, ricordiamo solo che molte di queste rientrano ancora nella terapia di oggi. Va comunque detto, a onor del vero, che nella “Farmacopea” egizia compaiono anche droghe, le più improbabili, quali: fegato d’asino, carne e grasso di leone, di serpente, urine di uomo e donna, escrementi di coccodrillo et similaria, che certamente limitavano l’Arte Medica e Farmaceutica. Quest’ultima è da intendere come l’arte di prepa-rare le medicine, sebbene fossero gli stessi medici che sovrintendevano alla preparazione del farmaco; questi certamente erano assistiti da specializzati che, inoltre, curavano la conservazione delle droghe in locali idonei e in appositi contenitori.

Il nostro archeologo Schiapparelli,2 nello scoprire la tomba dell’architetto tebano Kha, ha trovato un vaso il cui contenuto, a una recente analisi, ha mostrato di contenere ferro e oppio. Certamente i farmacisti dell’epoca conoscevano le tecniche farmaceutiche almeno più elementari quali: polverizzare, setacciare, infondere droghe, usare solventi come vino, oli, acqua; torchiare, fi ltrare, e certamente anche una forma primordiale di distillazione; ancora, amalgamare le diverse droghe farmacologicamente attive in grassi animali, nella cera, nella polpa di dattero, nel miele.

Come detto, la lettura della Farmacopea egizia, nonostante tutto, non deve portare a una ingiusta critica, ma ne vanno valutati e intuiti gli aspetti costruttivi. Il fatto che fosse scritta e codifi cata vuol dire che era oggetto di studio da parte del medico-sacerdote e quindi, sia pure lentamente, gli orizzonti terapeutici si ampliavano. Lo studio dell’anatomia-fi siologia certamente avrà stimolato la pratica delle norme salutistiche, igienico-alimentari e di auto-medicazione che appunto fecero degli Egizi un popolo attento alla propria salute e alla sanità della Comunità; ancora la pratica medica e la conseguente terapia avranno stimo-lato quell’empirismo che deve necessariamente aver portato all’osservazione della causa e dell’effetto. Il consiglio medico andava oltre: bagni di mare terapeutici, il salasso, il vomito,

2 A tal proposito è interessante visitare il Museo Egizio di Torino, secondo solo a quello de Il Cairo.

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il clistere (pratica questa scoperta proprio dagli antichi Egizi), il digiuno, l’uso di evacua-tivi, tutte norme igienico-terapeutiche che troveremo nelle pratiche mediche ippocratiche e ancora nella materia medica della fi ne del XVIII sec. dell’era cristiana. Depurare il corpo, depurarlo dallo pneuma cattivo che produce fermentazioni, indurlo a costumi salutistici che allontanino gli “umori cattivi”, sono gli intenti terapeutici essenziali del medico egizio e così, come già affermato, lo sarà per Ippocrate e per tutta la materia medica galeno-araba. Nello studiare le affermazioni mediche antiche, sia pure di millenni, è raccomandabile la volontà e l’umiltà di interpretarle e tradurle, se possibile, in analoghi indirizzi medici moderni; allora si parlava di pneuma cattivo e di putrefazione, poi si parlerà di umori peccanti, poi ancora di stati di autointossicazione, oggi di fl ora colica putrefattiva e di radicali liberi e così come la materia medica egizia, ma oggi, conoscendone il meccanismo d’azione, dobbiamo ripetere che le cause delle patologie sono da ricercare nella putrefazione negli umori cattivi, ovvero nelle conseguenze del nostro metabolismo.

I farmaci, gli unguenti, gli oli profumati, grazie anche ai Fenici che costantemente per i loro commerci solcavano il Mediterraneo e alla Civiltà Minoica di Creta, la medicina e la farmacia egizia si estesero e di lì ancora torneranno in epoca ellenistica ad Alessandria, che diverrà, tra l’altro, un centro di cultura medica e in particolare specialistica. Qui, Galeno perfezionerà i suoi studi, divenendo maestro dell’Arte Medica occidentale e lo sarà sino all’avvento dell’Illuminismo.

� L’epopea omerica �

La guerra di Troia, cantata dal divino Omero, descrive l’assedio che gli Achei portarono sotto le mura della “ricca Ilio”: così più volte la descrive il sacro vate, sia per onorare una città nemica tanto valorosa, ma anche per farci sapere che in virtù della sua posizione strate-gica e delle sue terre era da ritenersi “ricca”, potente e quindi potenzialmente pericolosa per la nascente Civiltà Micenea. Sarebbero preziose le tante descrizioni di Omero, se su tutto non incombesse la “questione omerica”, la quale si pone giustamente, da una attenta esegesi dei Libri (capitoli), alcune domande:

• Omero è davvero la persona fi sica che nel IX-VIII sec. a.C ha ideato e cantato l’intera Iliade? Oppure è un raccoglitore-assemblatore dei tanti cantori che già in epoca storica3 percorrevano la Grecia?

• Vi si cantano certamente le gesta degli Achei invasori, ma il modus vivendi, i credo e le tradizioni riportati sono dell’VIII o del XII sec. a.C.?

A complicare le cose, recenti studi avanzano la suggestiva tesi che gli avvenimenti descritti nell’Iliade e nella Odissea in realtà si siano svolti sul mar Baltico e non su quello Egeo e che quindi queste popolazioni nordiche (Vichinghi-Achei) invadendo l’attuale Grecia, Creta e le coste (ora turche) prospicienti, abbiano portato con sé le loro saghe, che infi ne la Civiltà Micenea ha grecizzato. Il pensiero va rispettato anche perché gli Achei, tanto diversi somaticamente dagli abitanti autoctoni, vengono descritti alti, biondi, con gli occhi azzurri e «smisurati»; non certo il tipo mediterraneo. Sempre dall’Iliade, l’alimenta-zione che praticano tra un convivio e l’altro rivela un forte consumo di carne, improprio al costume mediterraneo, che preferiva prevalentemente cereali e legumi.

3 Ancora oggi in Sicilia (anticamente Magna Grecia) è possibile ascoltare questi cantori che in piazza raccon-tano le gesta del paladino Orlando che con la sua Durlindana combatteva contro i Mori.

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Per contro, dobbiamo constatare un abbondante uso di vino che certamente non veniva prodotto nelle fredde brume nordiche. Gli stessi dei che partecipano con grande “umanità” alle sorti della battaglia sono di diversa origine: Minerva, tutta saggezza e bellicosità, ha gli occhi azzurri; Gea, dea della Terra, è autoctona; Apollo, dio solare, è di origine orientale. Tutti devono obbedire a Giove che dopo avere scacciato Crono ora è sovrano e accoglie e comanda i vari dei con le loro peculiarità e le loro diverse origini.

La guerra di Troia uffi cialmente è scoppiata per difendere l’onore di Menelao, al quale viene rapita la moglie Elena, di stirpe divina4 e, più o meno consenziente, dal principe troiano Paride.

In realtà la “ricca” città di Troia, dalle possenti mura, non poteva essere lasciata a domi-nare i popoli limitrofi suoi alleati (Licii, Lidi, Dardani, Sciti) e il mare prospiciente la sua costa. La Grecia è una terra affascinante, ma povera di valli fertili, e ha sempre avuto la necessità di essere padrona dei mari per poter prosperare con i suoi vitali commerci.

Va anche detto che questo antagonismo con il mondo persiano-turco dura malcelato ancora oggi.

Gli Achei con i loro alleati sbarcano sulla spiaggia antistante la ricca e turrita Ilio con ben 1180 navi, come testimoniano i versi del Libro II, defi nito dagli esegeti Il catalogo delle navi. L’armata greca, forte di 120-140.000 uomini, ha il compito di annientare secondo il costume dell’epoca i 50.000 difensori di Troia e la città stessa.

Un corpo d’armata così imponente certamente avrà avuto un responsabile sanitario e un’osservanza igienico-sanitaria atta a mantenere salubre il campo e la sanità degli uomini che avranno lamentato ferite da combattimento. Omero in questo non dà troppa soddisfa-zione, anche se con pochi versi descrive le possibili terapie dell’epoca.

Il corpo sanitario è rappresentato da Podalirio e Macaone che, oltre a essere stimati combattenti, sono luminari della medicina con un curriculum di tutto rispetto: sono infatti i fi gli di Asklepios (traslitterato)5, ormai divinizzato, ed i nipoti della maga Circe, che più tardi sulle rive italiche incontrerà lo scaltro Odisseo. Questo ci permette di datare la fi gura del divino Asklepios medico e farmacista intorno al XIII sec. a.C.

Nel campo greco, che si estendeva sulla spiaggia per circa 7 km, per motivi probabil-mente di scarsa igiene, scoppiò una pestilenza, la cui causa fu individuata nell’ira di Apollo e nei suoi strali, al fi ne di punire l’offesa che Agamennone gli aveva arrecato offendendo un suo sacerdote. Placato il dio, cessata la pestilenza, lo stesso re Agamennone comanda a tutti un bagno purifi catore nel mare per allontanare defi nitivamente ogni causa di infezione, una pratica questa già raccomandata da Asklepios e anche in seguito da Ippocrate.

Altri versi di interesse sanitario riguardano Menelao, il quale viene ferito proditoria-mente e subito soccorso da Macaone, il quale estrae la freccia: «… ne cavò fuori il sangue … e sulla ferita appose … farmaci lenitivi …». Per la verità l’Autore si è avvalso della pregevole traduzione del professor Giovanni Cerri, ma va detto anche che Vincenzo Monti traduce là dove bisogna drenare e detergere la ferita: «… succhionne il sangue …» pratica questa più propria alla medicina dell’epoca e da tempo praticata in Egitto.

Achille, per volere del padre Peleo, aveva studiato medicina e farmacia presso il saggio Chirone, un centauro che dedicò tutta la sua vita allo studio ed all’insegnamento delle Arti sanitarie, anche se i suoi alunni (Giasone, Teseo, Ercole, Asklepios, Enea, Aiace di Oileo e lo stesso Peleo)6 dovevano essere nobili e per una buona metà fi gli di una qualche divinità.

4 Figlia di Giove e sorella dei Dioscuri.5 Tutti i nomi e le parole in greco antico saranno riportate traslitterate.6 Questi eroi, guerrieri e taumaturghi, avevano in seno alla comunità una funzione ritenuta apotropaica.

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13EVO ANTICO

Achille aveva le credenziali giuste e, oltre a essere un formidabile combattente, fu un ottimo studente, tanto da meritare che gli venisse intitolata una pianta offi cinale (ancora oggi): l’achillea, che, grazie ai suoi Principi Attivi, svolgeva una precisa azione farmaco-logica, vulneraria, emostatica, spasmolitica. Come dire: quod suffi cit per il prode Achille.

Naturalmente, il nostro insegnò al suo amico Patroclo un poco di materia medica e ce ne dà conferma nel Libro XI, versi 844-848, dove Patroclo, estratta la freccia dalla coscia di Euripilo, lavò la ferita con acqua tiepida e poi, sbriciolandola con le mani, vi applicò una radice amara (mandragora?) che calmò il dolore, il sangue cessò di scorrere e la ferita si asciugò.

Omero non è molto preciso nel descrivere il farmaco, si limita a dire “unguento leni-tivo”, senza citare i Principi Attivi; ci complica il giudizio quando sul corpo di Patroclo, ucciso da Ettore, Achille ed i suoi compagni spalmano sulle ferite «un unguento di ben nove anni». Ora, la base di questo rimedio sarà stata certamente costituita da grasso animale o olio vegetale o magari in giusta miscela tra loro.

La tendenza dei grassi è quella di ossidarsi, quindi di irrancidire e dopo nove anni questo processo ci consegna un unguento con un odore discutibile, anche se fosse stato profumato successivamente. Perché usarlo sulle ferite di un defunto?

Nella medicina tradizionale, il grasso rancido, in quanto leggermente irritante (revulsivo), veniva applicato sui paterecci, sugli ascessi, su piccoli dolori reumatici, ma in questo caso Patroclo è morto; si possono allora formulare due ipotesi: le ferite coperte da questo grasso non venivano infestate dalle mosche e quindi dai vermi; oppure, come suggeriscono Giovanni Cerri e la sua commentatrice professoressa Antonietta Gostoli, può avere una valenza apotropaica, essendo il numero nove sacro alla religione minoico-micenea.

Nel divino poema non mancano accenni alla cosmesi, come quando Giunone (Libro XIV,verso 170) con un processo mentale tutto femminile, si fa bella per adescare Giove in un letto d’amore e indurlo al sonno al fi ne di mettere in atto il suo inganno. Quindi indossa splendidi abiti accattivanti, graziosi sandali, si lava con ambrosia e unge il suo corpo con un olio che spandeva attorno a sé soave profumo. Anche Giove dovette cedere alle grazie e alle astuzie di Giunone.

Un’altra curiosità riportata più volte da Omero è quella di alludere alla grande forza degli Achei invasori, mentre gli uomini del suo tempo, di inferiore possanza, certo non potevano paragonarsi agli eroi da lui cantati, come quando dice che quel tale masso solle-vato e scagliato da Diomede gli uomini di oggi certo non avrebbero potuto sollevarlo. Propaganda o realtà?

Forse le antiche saghe giunte a Omero parlavano di uomini “smisurati” dotati di forza divina.L’intera opera lascia intendere che al di là di qualche unguento miracoloso non si

disponga di altro, ma si contraddice nel Libro XVI quando si afferma: «… medici con i loro molti farmaci …», e certamente così sarà stato perché anche la Civiltà Minoico-Micenea, per quanto attiene all’Arte Medica e Farmaceutica, è fortemente tributaria alla cultura egizia che ormai è diffusa in tutto il Mediterraneo.

Comunque l’intera opera ci riporta una medicina teurgica che non può prescindere dall’intervento degli dei, non solo, ma la stessa pratica medica è affi data a esseri superiori: condottieri forti e saggi alla guida di popoli, semidei, uomini che per le loro virtù sono stati deifi cati, infi ne il divino vate al Libro XI, verso 514, si lancia in un apprezzamento verso l’Arte sanitaria: «… un uomo che è medico, molti uomini vale ad estrarre frecce a spalmare farmaci curativi …».

Per un defi nitivo affrancamento della medicina dal sacro, l’umanità dovrà attendere Ippocrate.

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14 STORIA DELLA FARMACIA. DALLE ORIGINI AL XXI SECOLO

� Asklepios: Ars Medica incipit �

Nel XII sec. a.C. la guerra infuria sotto le mura di Troia. Circa tre secoli dopo il divino vate Omero ci descriverà il mondo miceneo, degli Achei e ognuno dei personaggi, come abbiamo già visto, a somiglianza degli dei rappresenta una virtù, un modello al quale ispi-rarsi, da imitare, ma Omero ci presenta anche dei e semidei che con la loro sacralità speci-fi ca sono posti a salvaguardia della salute.

Podalirio e Macaone, fi gli di Asklepios (che presso i Romani verrà chiamato Esculapio), sono stimati medici presso l’armata greca; Elena sapiente nell’uso di farmaci sia salutiferi che mortali; il centauro Chirone che istruì nell’Arte Medica Ercole, Teseo, Achille, Enea, Diomede a testimonianza di come questi eroi fossero per il loro popolo non solo fi gure da emulare nella vita ed in guerra, ma anche tutori dotati di saggezza medica. Con il loro eroismo e la loro conoscenza medica, sapevano tutelare la vita dei loro uomini.

Splendidi i versi omerici che presentano Apollo dio del sole vivifi catore, ma che con i suoi dardi d’argento sa anche punire con la pestilenza, con la morte; Asklepios, fi glio di Apollo e della bella, ma mortale, Coronide; sua fi glia Igea, dea della salute sia della singola persona che della Sanità di una comunità e ancora sua sorella Panacea, dea della salvifi ca terapia, della guarigione, del farmaco capace di curare tutte le malattie.

Ultima, Circe, sorella di Asklepios, ci ricorda come un farmaco possa essere terapeutico o mortale o indurre in strane visioni.

Il mondo descritto da Omero ci fa conoscere, attraverso accaduti divenuti mitologici, una medicina dove la componente teurgica è essenziale e dove i principi medici e la terapia erano appena agli albori e comunque mutuati dalla Civiltà Minoico-Micenea. Con Asklepios, uomo o dio che fosse, la Medicina diviene più razionale e sociale e tanto era vasta la sua Arte Medica che volle richiamare in vita un morto; essendo questo pericolosamente contro natura, Giove lo fulminò, allora Apollo raccolse suo fi glio e lo assunse deifi cato nell’Olimpo. Asklepios, pur in epoca storica, fu associato o identifi cato al dio egizio Imothep, fi gura semi-mitica dell’Egitto.

Cicerone ci dice che era un uomo, e forse lo fu, se accettiamo il presupposto che la mito-logia altro non è che una traccia, pur lontana, della storia dell’Uomo. È certo che fu medico e che, istituendo dei Templi-Ospedali, diede vita a una Scuola medica dove i suoi discepoli, e più tardi i sacerdoti, esercitarono l’Arte Medico-Farmaceutica, mai scevra da una costante e razionale osservazione e ricerca.

La tradizione ci tramanda che, visitato il paziente, questo veniva fatto oggetto di cure imme-diate dove l’igiene, la detersione delle piaghe (anche con la suzione), la somministrazione delle erbe medicinali, una studiata alimentazione, preparavano il paziente all’“incubazione” in un apposito sanatorio; qui, dopo la somministrazione di decotti ipnoinducenti se non proprio anal-gesico-narcotici, il malato riceveva in sogno la visita degli dei preposti alla tutela della salute: Apollo, Hermes e solo successivamente, a deifi cazione avvenuta, di Asklepios e delle sue fi glie Igea e Panacea. Nel sogno il dio o la dea rivelava la terapia o annunciava la guarigione immi-nente. Va detto che Asklepios deve avere intuito le capacità di recupero e guarigione del malato (oggi diremmo “potenziale anticorpale”) e quindi poneva il malato in condizione igienica, di serenità e di speranza che certamente valevano come primo farmaco.

La tradizione vuole che nelle “corsie” strisciassero liberi dei serpenti che, con la loro lingua, anche leccando le ferite, inducevano alla guarigione, in questo caso avvalendosi anche della suggestione. Il serpente poi comparirà attorcigliato allo scettro di Esculapio quale simbolo dell’ineffabile e del potere non conosciuto (Figura 1).

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15EVO ANTICO

Figura 1 Copia romana della statua di Esculapio, dall’originale del Santuario di Epidauro.

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16 STORIA DELLA FARMACIA. DALLE ORIGINI AL XXI SECOLO

È opportuno precisare che questi ospedali-santuari non erano solo sanatori ieratici, tutti dediti a una semplice medicina teurgica, bensì vi si praticavano interventi chirurgici e appropriate terapie con applicazioni o somministrazioni di preparati semplici o composti. Vari autori come Artemidoro, Alieno, Ippocrate e Plinio, ma soprattutto la lettura delle esposizioni epigrafi che, ex voto, scritte su tavole di argilla, dove venivano descritti gli inter-venti chirurgici, le pratiche igieniche o la terapia vera e propria, ce ne danno conferma.

Ci viene tramandato l’uso, come detto, del miele, del vino, dell’aceto come solventi e disinfettanti; delle gemme di pino balsamiche e disinfettanti delle vie urinarie; della mandragora per i suoi alcaloidi: iosciamina, atropina, ipnoinducenti e con azione anche anestetica locale; e ancora l’aglio disinfettante, revulsivo e regolatore di patologie disme-taboliche; l’anice, il fi nocchio, l’origano, per le loro proprietà stomachiche e stimolanti le funzioni digestive, ma anche nei casi di catarri cronici; l’agno casto, per i disturbi del ciclo mestruale causati da insuffi cienza del corpo luteo; il lattice di fi co; la cicuta; la salvia; il panace asclepio.

Ma ancora, come detto, il vino farmaco e solvente; ed ancora il sangue sia umano sia del galletto bianco simbolo stesso, insieme al serpente, dello stesso Asklepios.

Il sangue è simbolo della vita e della vitalità, e allora viene somministrato come farmaco ricostituente per rigenerare nuova vigoria; terapia questa diffusa anche in Italia sino ai primi anni del Novecento, quando appunto il sangue sgorgante da animali appena macel-lati veniva distribuito ai bambini deboli, ai debilitati, ai tisici.

Se si considera che nei sanatori asclepiadei venivano praticate tecniche riabilitanti come bagni di mare, massaggi con oli revulsivi, ginnastica rieducativa, bagni termali, oltre che una accurata igiene alimentare, si può affermare che Asklepios e la sua Scuola sono da rite-nere gli istitutori della medicina occidentale che evolverà successivamente con Ippocrate e con la medicina galeno-araba, per giungere di fatto sino alla fi ne del XVIII sec. dell’era cristiana. Se valutiamo con attenzione la Scuola asclepiadea, osserviamo che evolve dalle precedenti – e pur propedeutiche – egizia, fenicia e mediterranea in genere, perché, pur non rinunciando alla componente teurgica, non nasconde l’Arte Medica nel segreto del tempio e dei suoi sacerdoti che con l’esercizio delle pratiche mediche detengono il potere, in quanto unici interpreti del suggerimento divino rivelato.

La medicina asclepiadea sarà suggerita anche dal dio, il quale però è più umano in tutte le sue manifestazioni e soprattutto non ha segreti per nessuno, anzi vuole che si renda manifesta la terapia a maggior gloria del dio e del sacerdote-medico.

Questo dunque non ha particolari poteri se non quelli che ha guadagnato con l’osser-vazione, lo studio e l’acquisita scienza; è un uomo tra gli uomini e dedica il suo impegno alla cura del malato ed è a sua volta maestro ed educatore per chi voglia dedicare la vita, all’Arte Medica al servizio dell’Uomo.

� La Civiltà Minoico-Micenea �

Duemila anni prima di Cristo, le popolazioni abitanti le rive del Mediterraneo, grazie anche a un progresso culturale e tecnologico, conobbero un forte incremento demografi co e questo determinò che l’eccedenza della popolazione di un territorio, di una polis, quindi uomini e donne per lo più giovani guidati da un riconosciuto capo-guerriero, in coinci-denza della primavera (Primavera sacra) con una commovente cerimonia si staccassero dalla propria Comunità e “senza voltarsi indietro” migrassero verso lidi o isole ritenuti adatti a fondarvi una nuova patria.

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Questo fenomeno interessò Eoli, Enotri, Tirreni, Fenici e tutti i popoli rivieraschi del Mediterraneo; inoltre i continui scambi commerciali avevano fatto del Mediterraneo una opportunità di confronto tra le diverse Civiltà, dando così vita a una comune conoscenza tecnologica e anche a un costume di vita che, pur ossequioso ciascuno del proprio credo, era di fatto più aperto ai vantaggi commerciali ed ai benefi ci, anche in termini culturali, che questi comportavano.

Non dobbiamo dimenticare infatti che è la ricchezza prodotta da un popolo che deter-mina infi ne l’esigenza culturale, estetica, e tecnologica. Quest’ultima poi è sempre la risposta alle necessità della vita.

Emblematica è quella che possiamo defi nire la prima Civiltà Europea ovvero quella Minoica, sorta nell’isola di Creta, la quale, pur tributaria della potenza mercantile dell’E-gitto, elabora una sua civiltà (re Minosse e sua moglie Pasifae ne segnano l’apogeo) efferve-scente e colta, amante della musica, della pittura, rispettosa delle leggi dello Stato, dove le donne, così ci tramandano le pitture murali, amavano mostrare un abbigliamento originale stretto in vita e che lasciava ammirare la loro femminilità e i loro seni. Gli scultori Difeno e Scilli scolpivano già in maniera più plastica e meno stilizzata.

La stessa leggenda del Minotauro e del labirinto di Dedalo rivela una propensione a pensieri arditi7 oltre che a una confl ittualità con l’emergente popolo acheo-greco.

Queste caratteristiche della Civiltà Minoica non appaiano futili nel formulare una valu-tazione, perché in realtà sono proprie di una civiltà evoluta, aperta a tutte le genti del Medi-terraneo, che dall’incontro-scontro con gli Achei darà vita ai prodromi della civiltà greca classica. Solo il loro credo religioso votato al dio Veleano, severo e onnipotente, in antitesi con il loro costume di vita, lascia trasparire una religione ancora involuta, basata più sulla paura che sul desiderio di identifi carsi nei valori espressi dal dio stesso.

La Civiltà Minoica decadde con il declino commerciale dell’Egitto, schiacciata dagli Achei che già dal 1400 a.C., provenienti dalle brume del Nord, con le loro armi di ferro e non di bronzo,8 soggiogarono le popolazioni autoctone greche; due secoli più tardi avverrà una nuova invasione, quella dei Dori, sedicenti discendenti di Ercole e anch’essi ottimi guerrieri e artigiani del ferro.

Certamente questa stratifi cazione di civiltà pelasgica, achea e dorica ha provocato scontri, prevaricazioni, ma anche costruttivi confronti. Ciò, se generò particolarismi che porteranno alla città-stato, diede vita a un unico processo culturale nel quale tutta la Nazione ellenica si riconoscerà e che nel VI-IV sec. a.C. esploderà nell’ammirata Civiltà Greca; propedeutica per le sue intuizioni e per i suoi valori a tutta la Civiltà occidentale.

C’è da chiedersi quale fu la causa che portò il popolo ellenico, per primo nel Mediter-raneo, a porsi quelle domande che ne fecero uno spirito libero, esigente di estetica, di etica, di scienza, desideroso di comprendere i Perché della Terra, della vita e non per fi nalizzarli alle leggi dello Stato o a una qualsivoglia conquista, ma solo per arricchire il proprio Io, per sentirsi autorevolmente partecipe alla Conoscenza ed alla Verità, attributo primo della divinità. Nel descrivere lo svolgersi della storia e la sua evoluzione, si cerca una data precisa che funga da divisorio tra ciò che è trascorso e ciò che dovrà avvenire.

Ma rimane diffi cile datare il momento nel quale l’uomo greco inizia a desiderare nel suo intimo la Conoscenza, probabilmente tra il IX e il VII sec. a.C., in un periodo storico

7 Emblematiche sono le fi gure di Dedalo ed Icaro che con “ali non concesse” fuggono dal labirinto e “si librano nell’aria”.

8 Le lame e le punte delle lance in precedenza erano di bronzo, meno resistenti e meno effi caci nel combatti-mento.

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molto ampio caratterizzato da due personaggi diversi tra loro, ma che descrivono – a saper leggere tra le righe dei loro poemi – il proprio mondo, i sogni di gloria, le intime aspirazioni: Omero con la sua Iliade ed Esiodo con la Teogonia, dove si legge la descrizione degli dei, i loro scontri e le loro apoteosi.

Queste due opere descrivono, tra l’altro, la nascita di una religione che, pur evolvendosi, rispecchierà le ambizioni e le debolezze dell’uomo greco. Non sarà quindi una religione severa, punitiva, chiusa ed esoterica che nega al popolo la Conoscenza in quanto ipotetica fonte di ribellione al Potere costituito; al contrario gli dei altro non sono che la proiezione di quei Valori che gli uomini ammirano e ai quali istintivamente tendono.

Pongono così ordine al loro mondo religioso dove le antiche divinità pelasgiche vengono accettate, come Gea, dea della Terra, le ninfe delle sorgenti e dei boschi, mentre altri vengono relegati al Tartaro dal dio acheo Giove, il quale con comportamenti e desideri tutti umani popola e governa l’Olimpo.

Questi dei greci, come già detto, rispecchiano le speranze dell’uomo, che vuole essere forte, e questa virtù pensata come valore assoluto genera Ercole; la bellezza e l’amore, sempre così vicini, si sublimano in Afrodite, che però cerca la sua consacrazione in un uomo altrettanto bello, Paride, ma sposa Marte che esprime la bellicosa furia invincibile, tanto necessaria agli eroi in battaglia; Minerva, bella e guerriera, fonte della saggezza, è colei che all’uomo appena creato da Prometeo alitò la Psiche, l’animo. È lei che rappresenta ciò che ogni uomo aspira ad essere: bello, forte e saggio.

Nell’Olimpo vengono deifi cate tutte le debolezze umane, riconosciute quasi come un aspetto irrinunciabile della vita, e così nasce Hermes, che dona la sicurezza nei viaggi, tutela la giovinezza e la salute, ma è anche il dio dei mercanti e del loro saper mercanteggiare, quindi del profi tto; per non parlare di Apollo, che come Giove è sempre desideroso di conoscere nuove ninfe.

La religione greca, libera da sacerdoti detentori del potere divino, non schiaccia l’uomo su principi codifi cati e cristallizzati, bensì lo spinge anche verso l’ignoto, libero di emulare i suoi dei e di raggiungere con le sue forze, con la sua umanità, quei Valori assoluti che gli dei rappresentano.

Omero infatti ci presenta personaggi emblematici di questi valori: Agamennone il potere, Aiace Telamonio la forza, Nestore la saggezza, Ulisse il vero vincitore della guerra, furbo opportunista, ma reso grande agli occhi dell’uomo per il suo insaziabile desiderio di sapere, Elena la bellezza femminile, sopraffatta dagli eventi, ma anche ambigua e conoscitrice di farmaci – la sua maestra è stata l’egizia Polidamnia.

Nella religione greca c’è solo un momento di antagonismo tra l’uomo e la divinità ed è quando il titano Prometeo, pietoso, vuole donare all’uomo il fuoco. Subirà un’atroce punizione, ma l’uomo, grazie al suo martirio, sarà sempre più vicino agli dei: il fuoco come principio di Conoscenza, di Scienza. Lewis Browne, sempre critico nei riguardi di tutte le religioni, asserisce che i Greci si rivolgono alla fi losofi a appena comprendono la pochezza della loro religione olimpica, ma sbaglia perché, come detto, questa non ostacolò, bensì favorì un processo di emancipazione sia sociale sia del Pensiero.

Il Pensiero in Grecia è stato il frutto della sua storia e del costume di vita che si è data. La fusione della Civiltà Minoica con la Micenea (Achea), la Pelasgica e quella Dorica devono avere creato una risultante aperta a ogni iniziativa, dove pragmaticamente ogni innovazione valida veniva approvata e adottata e dove i commerci consentivano un continuo confronto di pensieri e di costume. La vera peculiarità del Greco è il suo stile di vita, il suo desiderio di vivere in prima persona la sua polis, di mescolarsi tra i suoi concit-tadini, parlare o sparlare di politica, confrontare le sue idee, magari nel corso di conviviali

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banchetti tra amici, o di lunghe passeggiate al fresco, sotto ai portici. Del lavoro non deve preoccuparsi, ci sono i mercanti egizi, i suoi schiavi, ma soprattutto i liberti e i methechi che lavorano per lui. Socrate, cittadino greco emblematico, vende la sua proprietà, consegna i suoi risparmi all’amico Critone perché li faccia fruttare, e così vivrà con la sua piccola rendita, ma almeno sarà sempre vicino ai suoi amici e allievi, alla sua città, che rispetterà anche in punto di morte, sempre stimolando la sua comunità con nuove domande alla ricerca della Verità.

La stessa educazione superiore del cittadino greco prevede lo studio dell’oratoria, della storia e della fi losofi a e non con fi nalità di erudizione, bensì proprio per prepararlo a vivere intensamente e profi cuamente quella politica che costituirà il progresso stesso del suo mondo. Verrà quindi educato ad uno spirito speculativo e dialettico che piacevolmente sconfi nerà nel sofi sma, nell’oratoria costruita e guidata da quella logica che prima appar-teneva ai grandi saggi o ai sacerdoti, mentre ora in Atene è la virtù essenziale per sentirsi cittadino a pieno diritto.

È in questa Grecia libera e desiderosa di esprimersi che nasce l’amore per la Filosofi a, per il Pensiero; al fi ne di conoscere meglio l’Uomo, il suo potenziale, il suo mondo e tutto questo per conoscere la Verità.

� I Presocratici �

L’etimo della parola “fi losofi a” sta a signifi care “amore per la sapienza”, per estensione possiamo dire della Conoscenza, defi nizione questa pertinente ai Presocratici, che si dedi-carono allo studio sistematico e cosmologico della natura, alla ricerca del suo “principio primo”. Successivamente, nel periodo convenzionalmente defi nito “ontologico”, che vede i vertici del pensiero greco (Platone e Aristotele), il termine risulterà in parte improprio in quanto non si accontenta dello studio della realtà, bensì con un pensiero più ampio vuole conoscere l’Uomo, il suo Essere e – cosa apprezzabile – i suoi indispensabili Doveri, ma – cosa ancor più ardita – vuole conoscere il potenziale dell’uomo stesso, sapere se con la Ragione può comprendere i Valori assoluti, Dio stesso.

I Presocratici, osservando la poliedricità della natura e la sua apparente mutevolezza, indirizzano la loro ricerca fi losofi ca verso la conoscenza di quella legge, di quella sostanza prima, di quella “forza” dalla quale ha tratto origine la vita, in senso appunto cosmolo-gico con il suo continuo divenire. Non deve apparire semplicistica l’individuazione di questo Arché, al contrario ne va valutato l’impegno speculativo a comprendere la natura, il mondo, non come una serie di realtà diverse, magari volute dalla divinità, bensì come una unità animata, nel suo essere e nel suo divenire, dalla “sostanza prima”. Altro valore dei Presocratici è quello di essere usciti, come credo fi losofi co, da quel Pantheon che ci descrive Omero dove uomini e dei si incontravano e scontravano a seconda dei loro umori ed uzzoli. Agamennone, per aver preteso da Achille la sua fanciulla Briseide, se ne scuserà in seguito con gli Achei: «... non sono colpevole io, bensì Zeus e il Fato e le Erinni che mi indussero nell’animo un selvaggio accecamento …». Quella omerica è una religione profon-damente umanizzata che non ha rappresentato un freno al divenire dell’uomo greco, anzi il contrario; esalta i Valori dell’uomo, ma senza armonizzarli, in quanto non identifi cati con la “Legge”, la “Forza” che alimenta e regola la vita, e che quindi deve rappresentare anche un riconosciuto Valore etico oggettivo.

Le scuole presocratiche sono: la Ionica, la Pitagorica, la Eleatica e la Sofi stica; i maestri che hanno dato vita a queste scuole, con eccezione di quella Pitagorica la quale si rivolgeva solo ai

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suoi discepoli diretti, hanno espresso il loro pensiero tra i cittadini della polis (inizia la demo-cratizzazione della cultura), ritenendo questo loro metodo di insegnamento fi nalizzato ad una doverosa Comunicazione rivolta alla Comunità, propedeutico ad un pensiero formativo. Il fi losofo quindi come indagatore del Pensiero e con esso Educatore del cittadino, fi gura che più tardi sarà emblematica nella persona di Socrate.

Nel VII sec. a.C. la città di Mileto è una colonia greca, ricca per i suoi commerci e per le sue industrie tessili. Trasibulo, tiranno capace, sa arricchire la città di Arte e incoraggiare la Cultura; tra i fi losofi fi gura Talete, che per primo fra i Presocratici dà vita alla scuola Ionica. Il suo pensiero enuncia che la sostanza prima è l’“Acqua”, animata da una forza vivifi ca-trice per la quale tutto “È” e che tutto trasforma. Celebri sono due sue rifl essioni: «Conosci te stesso» per meglio vivere la propria vita; e «Tutto è pieno di dio» per comprendere il signifi cato sacrale della sua Forza animatrice.

Non è compito del nostro lavoro analizzare tutti i fi losofi presocratici ma, solo per meglio comprendere il periodo storico e la sua evoluzione, è opportuno guardare ad Eraclito, sempre della scuola Ionica, ad Empedocle e a Gorgia della Sofi stica. Eraclito nasce nella bella e colta città di Efeso verso la fi ne del VI sec. a.C.: la sua Arché è il “Fuoco”, inteso come una forza creatrice e intelligente; nel suo regolare accendersi e spegnersi si ha il mutamento delle cose.

Altra certezza per Eraclito è il continuo divenire, intendendo così che la realtà inces-santemente cambia e noi con essa. Possiamo interpretarla con saggezza solo se conside-riamo e ci ispiriamo al Logos che, pur esprimendo la legge divina, costituisce l’anima stessa dell’Uomo, il suo essere e quello del mondo. Eraclito parla alla sua comunità, si sente educatore e prosegue: «Ho indagato il mio animo» e questa Ricerca la ritiene fondamentale per penetrare sempre più la Conoscenza della propria anima, del Logos, anche se questo trova un limite proprio nelle capacità dell’Uomo, ma questa continua Ricerca arricchirà costantemente la mente e l’animo stesso.

La volontà di conoscere deve essere rivolta anche verso la natura la quale, però, nel suo scorrere concederà una Conoscenza soggettiva. Anticipando esigenze moderne, Eraclito ci parla di quanto opportuna sia la Comunicazione che, rendendo manifesta e fruibile la Ricerca, arricchisce il sapere comune ed educa l’Uomo, in quanto soggetto, ma anche come componente della Società. È affascinante questo pensiero eracliteo del VI sec. a.C. tipica-mente greco, che trova la sua concreta espressione nel vivere in comune, in un continuo e fertile confronto e travaso di idee.

Empedocle di Agrigento nacque verso l’inizio del V sec. a.C.; ne riportiamo il suo Pensiero perché, oltre alle sue attività di politico e studioso, fu medico e questo in una Grecia e Magna Grecia che si avviavano alla sua massima potenza non solo militare, avendo sconfi tto ripetutamente le forze persiane (492-479 a.C.), ma anche economica e politica.

Empedocle pone come constatazione imprescindibile che la Conoscenza umana è promossa, ma anche limitata, dai suoi sensi. Lasciamo la parola a Empedocle che si esprime in versi:

Sappi primieramente che quattro sono le radici d’ogni cosa, Zeus lucente, Era avviva-trice, Edenco e Nesti che di sue lacrime le nutre le mortali fonti di vita … e queste cose non cessano mai di mutarsi continuamente ora ricongiungendosi tutte in unità per forze d’amore, ora invece portate ciascuna separatamente nell’inimicizia della Discordia …

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21EVO ANTICO

Acqua, Terra, Fuoco e Aria sono le quattro Radici (Platone li chiamerà “Elementi”) che animate dall’amore tendono ad unirsi, se dall’odio, a separarsi. Ricordiamo poi Gorgia da Lentini, che del pantheon dei fi losofi certo è il meno affascinante, ma nella sua semplicità sembra chiudere un’epoca così da consentire a Socrate di illuminare con il suo metodo e con il suo sapere la mente umana per i tempi a venire.

Gorgia negava sostanzialmente tutto, persino quella Conoscenza legata ai sensi. Così sosteneva: «… nulla c’è …», negando così la Verità; se al contrario “c’è” questa non può essere intesa né dai sensi né dall’intelletto in quanto soggettivi; infi ne, se ipoteticamente la Verità, o un aspetto di questa potenzialmente conoscibile, può essere rivelata, lo sarà con diffi coltà e comunque non potrà essere compresa, causa la soggettività dell’uomo. Non solo la Conoscenza è soggettiva, ma è legata alla Parola, la quale si esprime con l’arte del persua-dere, un’arte suggestiva e convincente esercitata sull’animo di chi ascolta. Come dire: né la Verità né la Realtà esistono come Valori, queste sono soggettive e comunque frutto di una suggestione indotta da un persuasore, da un retore, da un fi ne conoscitore dell’arte del dire e della comunicazione (come lo stesso Gorgia).

Questo non ci deve far pensare a Gorgia come ad un nichilista che rifugge da ogni Valore: è un fi losofo che enuncia il suo pensiero indipendentemente dal dovuto compor-tamento virtuoso; infatti scriverà ne L’Elogio di Elena: «Gli uomini retti sono onore ed ornamento della città, del corpo lo è la bellezza, dell’animo la saggezza, dell’azione la virtù, del pensiero la verità». Un pensiero apprezzabile per la sua eticità!

Pitagora dovrebbe essere escluso dal novero dei Presocratici non per il suo Pensiero, in realtà tanto profondo ed innovativo oltre che poliedrico, ma perché la sua Scuola fu piuttosto una associazione religiosa, da taluni defi nita setta, più che una scuola aperta alla Comunità. Non predicava per aprire un dialogo, né per stimolare quella Ricerca comune foriera della grandezza del pensiero greco e non solo. L’insegnamento di Pitagora, essen-zialmente comportamentale e religioso, era rivolto ai suoi seguaci (non discepoli) i quali, anche attraverso un costume vegetariano e castigato, apprendevano come i numeri fossero regolati da leggi divine, fossero di fatto “la causa materiale”, esprimendo i principi di tutte le cose. Il suo interessamento alla Medicina è frutto del suo pensiero fi losofi co; sosteneva infatti che lo stato di Salute fosse lo stato di Armonia tra il proprio corpo e l’universo; la disarmonia provocava la malattia; questo, come detto, richiedeva norme comportamentali ben precise che escludevano eccessi di ogni tipo, raccoglimento nella meditazione e nella preghiera, alcune restrizioni alimentari, tra le quali il vino e le fave e per i “matematici”, suoi seguaci eletti, esclusivamente una dieta vegetariana.

Oggi diremmo che raccomandava un’attenta prevenzione con due farmaci da sempre approvati: la serenità dell’animo ed una dieta morigerata e igienica.

Non vogliamo seguire tutto il pensiero pitagorico, se non per ricordare la sua etica che invitava a ispirarsi alla divinità per divenire simile a essa; un pensiero che giunge a noi grande e inalterato. Ripetiamo che Pitagora fu compreso, lodato e confutato solo dai grandi pensatori, non certo dal Greco che, aperto al sapere universale, amava fi losofeggiare per le strade con gli amici, più spesso durante un banchetto; per questo Socrate fu il più amato tra tutti i fi losofi .

I Presocratici, in estrema sintesi, hanno affermato l’indistruttibilità della Materia formata da uno o più “elementi” e animata dalla Forza o Fuoco Sacro che nel suo continuo dive-nire, si trasforma, si riduce nei singoli elementi i quali, aggregandosi di nuovo, danno vita ai diversi aspetti della Natura. L’esempio che veniva portato era come la legna, materiale combustibile, bruciando genera fuoco, calore, fumo, lasciando infi ne le ceneri che sono della medesima natura della terra. Lavoisier, giustamente considerato il fondatore della chimica moderna, nel XVIII sec. ripeterà: «Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma».

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22 STORIA DELLA FARMACIA. DALLE ORIGINI AL XXI SECOLO

� La Sanità della Polis: un diritto �

La Materia, la Natura quindi, come realtà da conoscere doverosamente, pur con le limi-tazioni imposte dai nostri sensi.

Questa concezione ha educato anche il semplice cittadino della Polis greca alla ricerca del metodo per ampliare la Conoscenza e se questo fu vero per lo studio della Natura, dei Valori dell’uomo, delle formule politiche, lo fu anche per la Medicina e la Farmacia, che da espressione della divinità si trasformarono in Scienza, frutto appunto di Ricerca praticata con metodo sempre più razionale e che evolverà in una disciplina oltre che Servizio sociale, tanto da essere nella sua evoluzione regolata da un codice deontologico che più tardi sarà perfezionato e stigmatizzato da Ippocrate. Alcmeone di Crotone (500 a.C.) è interprete di questo fervore scientifi co e, pur nascendo culturalmente alla scuola di Pitagora, con intento tutto pragmatico inizia i primi studi di fi siologia praticando la dissezione, scoprendo il nervo ottico e osservando così che conduceva al cervello.

Comprese come questo fosse la sede dei sensi e della attività intellettuale, ma ancora – anticipando Empedocle ed Ippocrate – afferma come lo stato di salute sia dato dall’equili-brio di quelle “qualità” antagoniste tra loro (isonomia), che caratterizzano il mondo vivente e l’uomo in particolare.

Il caldo, il freddo, il secco e l’umido, l’amaro e il dolce, l’acerbo e il maturo che, se presenti nell’organismo in giusta “Armonia”, garantiscono il desiderato benessere psicofi -sico. La terapia consisterà nell’igiene alimentare mirata a contrastare le “qualità” manife-stamente in eccesso e in quei farmaci armonizzanti che lo stesso medico, all’interno del suo Iatreo, aveva già preparato o preparava al momento.

L’aspetto da evidenziare è che il cittadino greco nella sua crescita sociale e culturale, pur esclusivamente all’interno della sua Polis, ora pretende tutti quei Valori, espressioni estetiche e servizi, che caratterizzano la sua evoluta Comunità.

La Sanità della città è considerata un diritto e l’educazione che viene impartita ai giovani, ispirata al concetto di “vigore e grazia”, tende a costruire quel benessere psicofi sico, status primo capace di elevare la qualità della vita.

È in questo più evoluto contesto sociale che il Medico lascia il tempio asclepiadeo per essere presente nella sua scuola di formazione, al fi ne di portare la sua capacità professio-nale là dove ce ne sia bisogno; è un medico quindi “periodeuta”, ma anche Farmacista, in quanto viaggia con quei farmaci preparati in precedenza e che più ricorrono nella terapia.

Solo successivamente, in una Comunità ricca, più colta e quindi maggiormente esigente, il medico nel suo Iatreo riceve il paziente per le cure del caso e dove il suo assistente, che possiamo defi nire “protofarmacista”, prepara quei farmaci semplici o composti per i quali la tecnica farmaceutica ora richiede un maggior tempo ed attenzione per la preparazione.

Sarà questa fi gura professionale che gradatamente si approprierà di capacità tecniche sempre più ampie e peculiari, ma anche di cultura scientifi ca propria, particolarmente nell’ambito della Fitoterapia essendo suo compito “erborizzare”, selezionare le erbe offi -cinali, ricavarne la droga9 e custodirla nel più attento dei modi, per preparare successiva-mente le prescritte forme farmaceutiche: succhi, decotti, enoliti, acetoliti, oli, unguenti. Evolve quindi in un Farmacognosta, profondo conoscitore delle droghe offi cinali, delle loro qualità terapeutiche e della trasformazione in farmaci.

9 La droga è la parte farmacologicamente attiva della pianta o dell’animale.

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Si delinea la fi gura del Farmacista dal cui etimo greco (“avvelenatore-guaritore”), mago, colui che sacrifi ca al dio, traspare tutto il fascino – ma anche timore reverenziale – che per secoli aleggerà attorno alla sua fi gura.

� Il V sec. a.C.: Socrate e Ippocrate �

Il V sec. a.C. in Atene è un periodo storico che all’uomo ancora oggi desta meraviglia ed ammirazione e possiamo defi nirlo propedeutico all’evoluzione della Civiltà Europea: è infatti in questo momento storico che i Presocratici avviano l’uomo ad una costruttiva speculazione fi losofi ca e di osservazione della natura. Va ricordato inoltre che questo è anche il sec. di Eschilo, di Sofocle, Erodoto, Euripide, autori che esaltano il sentimento, invitano a consi-derare l’operato umano con le sue grandezze, ma anche a valutarne i limiti. Tra il 447 e il 432 a.C. Ictino e Callicrate, sotto la guida di Fidia e su commissione dell’autokrator Pericle, costruiscono il Partenone.

È il secolo di Ippocrate, della alternanza tra la democrazia e la tirannide, è il secolo dove concetti come Verità e Ragione prendono consistenza, dividendo così l’umanità in un confl itto tra Fede e Ragione che permane ancora ai giorni nostri, anche se Papa Giovanni Paolo II nella sua illuminata enciclica Fides et Ratio approva la Ragione purché fi naliz-zata a un pensiero positivo, costruttivo, rispettoso dell’uomo. Il V sec. è il momento di un grande politico, Pericle, il quale senza voler entrare nella storica controversia sul suo concetto di democrazia (forza del popolo o della maggioranza?), pure diede corpo alla parola Libertà; citiamo le sue parole riportate da Tucidide « … però nelle controversie private attribuiamo a ciascuno ugual peso e comunque nella nostra vita pubblica vige la libertà …».Giustizia e Libertà, solo i Romani in seguito sapranno perfezionare questi due Valori. Platone, nell’ottavo libro del De Republica, ci ricorda che la Libertà è come una coppa di vino che inebria se bevuta ad libitum. Va goduta a piccoli sorsi e comunque conquistata giorno dopo giorno! Solo quando l’uomo identifi cherà la parola Libertà con il concetto di Dovere e di Dignità, solo allora questa parola non sarà stata pensata invano.

Il V sec. è il secolo di Socrate, luce del Pensiero, medico dell’anima, colui che ha spro-nato e insegnato a pensare agli uomini, al di là della evidenza dei propri sensi e dei propri apparenti limiti.

Socrate nacque ad Atene nel 470 a.C., fu educato al rispetto della sua Polis, intraprese studi di fi sica senza che questi lo interessassero particolarmente o lo distogliessero dalla sua dedizione preferita: conoscere l’uomo. A Potidea, Antipoti e a Delio mostrò di essere un combattente forte e coraggioso e il suo “auto-dominio” (dominio sulla propria animalità) gli consentì di resistere con apparente indifferenza a sacrifi ci come la fatica ed a freddi intensi. Visse come un vero Ateniese senza lavorare, soddisfatto di una piccola rendita, ma felice così di frequentare botteghe, incontrare amici, parlare con loro delle mille cose cittadine, contri-buire con il suo pensiero a stimolare nuove rifl essioni, a porsi costantemente il “Perché”, a riconoscere in se stessi la propria Psiche, l’anima che distingue l’uomo dalle altre cose. Socrate non volle lasciare suoi scritti, conscio come era del continuo evolvere della Cono-scenza, ma grazie a Senofonte e Platone conosciamo il suo Pensiero, la sua “Maieutica”, l’arte con la quale con continue interrogazioni si conduce il proprio interlocutore a scoprire da sé quelle verità appena celate nel suo animo.

Socrate quindi ci invita a riconoscere in noi la Psiche, l’anima che va intesa come l’Io consapevole, come la ragione, come la nostra coscienza che ci porta a pensare ed ad agire appunto con razionalità e moralità, e questo grazie alla “Areté” che è la facoltà dell’anima di

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essere etica così come la sua stessa natura vuole. Questo pensiero, pur nella sua semplicità, ha generato una rivoluzione perché ha spostato l’oggetto del pensiero dall’Arché e dai Valori classici greci (forza, bellezza, salute, benessere) alla Psiche dell’uomo; come dire, i Valori che contano nella vita, per la tua comunità e per la tua persona sono dentro di te, sta alla tua ragione e al tuo metodo di ricerca scoprire l’Areté e in genere il grande potenziale dell’Uomo. Questa concezione, pur attraverso i grandi fi losofi , caratterizzerà il pensiero morale, intellet-tuale e quindi scientifi co europeo sino ai giorni nostri.

Non appaia l’educazione e l’etica socratica lontana dal mondo scientifi co, perché alla domanda “Che cosa è la Virtù?” Socrate risponde: «La Conoscenza!», intendendo quest’ul-tima come Valore primo capace con il metodo (maieutica) di generare nuova Conoscenza, perché sarà questa infi ne che lo porterà a Dio. Da Socrate in poi saranno il Metodo e la costante ricerca della Conoscenza, che ispireranno Filosofi , Scienziati, Medici e Farmacisti.

Nel V sec. a.C., i Greci della madre patria e quelli italioti delle colonie si trovarono a dominare il Mediterraneo. L’arroganza persiana era stata più volte battuta e placata, la Magna Grecia in particolare progrediva economicamente e militarmente tanto che i Sira-cusani sbaragliarono nella battaglia di Imera10 nel 480 a.C. la fl otta e l’esercito cartaginese, mentre a Cuma nel 474 a.C. annientarono quella etrusca. I Romani erano ancora tutti intenti a perfezionare la loro Res Publica11 ed a difendersi dai popoli limitrofi .

Questo quadro generale consentiva ai Greci, pur tra scontri interni intensi, di essere padroni dei commerci nel Mediterraneo, attività che rendeva le città greche ricche ed attente ad ogni iniziativa culturale ed artistica.

Atene poi, grazie alla Lega Delio-Attica, approfi ttava del tesoro della federazione e questo perché Pericle, opportunamente nel 454 a.C., l’aveva fatta trasferire da Delo ad Atene,12 disponendo così del tesoro che gli permise di realizzare nella sua Polis una esplo-sione artistica e culturale mai eguagliate nella storia dell’Uomo.

Fu anche un periodo fortunato: infatti, proprio nei pressi di Atene, in quel di Laurium, fu scoperta una miniera con un importante fi lone di argento che, oltre a sostenere la prosperità, garantiva una dracma stabile e forte, accettata da tutti i popoli del Mediterraneo e quindi un’ulteriore stabilità per i fi orenti commerci ateniesi.

Come spesso accade, tanta ricchezza ed effervescenza aumentano le attese della Comunità, la quale ora desidera progredire, accrescere il proprio livello culturale, migliorare la qualità della vita: si aprono più Scuole, Platone apre la sua Accademia; l’alimentazione migliora tanto che Ippocrate perplesso e scandalizzato osserverà che: «… c’è gente che mangia anche due volte al giorno …»; il cittadino, prendendo coscienza di se stesso, sente che la Salute è un suo diritto. Come detto, la Medicina sino agli inizi del V sec. a.C. era di tipo teurgico, i sacrari-ospedali dedicati ad Asklepios erano molti e le guarigioni venivano considerate miracolose; oggi possiamo affermare che avvenivano solo in quanto gran parte delle malattie sono risolte dagli anticorpi e dal sistema antiossidante, quindi grazie alla Forza Vitale dell’organismo.

Certo l’igiene, il riposo, l’alimentazione e una terapia praticata con erbe offi cinali, coadiuvavano sia gli dei preposti alla tutela della Salute, che la Forza Vitale.

Con il progredire delle varie Scuole mediche, molti, ritenendosi suffi cientemente prepa-rati, vagavano per il Paese in cerca di pazienti da guarire (medici periodeuti); sino a che

10 Nei pressi della odierna Termini Imerese (Sicilia). 11 Nel 509 a.C. i Romani cacciano i re Etruschi e instaurano la Repubblica. 12 La Lega Delio-Attica fu costituita nel 478 a.C. e va intesa come una federazione di Stati greci con fi nalità

difensiva.

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punto la loro professionalità garantisse una corretta diagnosi e terapia non è dato saperlo; di fatto la suggestione, la preghiera e la speranza risultavano farmaci importanti, pensiero questo condiviso anche da Platone e Aristotele.

Ippocrate, fi glio di un medico non proprio luminare, ebbe come sua prima virtù il fatto di essere un grande osservatore, la qual cosa gli consentì di guardare con spirito attento e critico sia al malato che alla malattia e di comprendere così defi nitivamente come questa mai debba essere ritenuta una punizione divina, bensì frutto di una discrasia degli elementi che costitui-scono il corpo umano e la sua vitalità, con il conseguente accumulo di cataboliti metabolici.

Questo convincimento, per quanto Ippocrate si fosse formato alla scuola asclepiadea,13 lo fece allontanare dal credo teurgico; fu il primo medico laico che alimentò la sua professionalità con l’osservazione e con lo studio, ricercando così nel malato la causa della patologia.

Predicò inoltre, come sempre, che la professione debba essere praticata con scienza e coscienza e come il medico per la sua professione non debba guardare agli dei, bensì con la sua dedizione, la sua eticità essere sacerdote di se stesso.

Nacque nell’isola greca di Koo nel 459 a.C., fu attento studente del padre Eracleide dal quale apprese i primi rudimenti; frequentò il sacrario-ospedale dedicato ad Asklepios, iniziando qui i suoi studi di medicina (Platone lascerà dire a Fedro: «… se si deve credere ad Ippocrate, che è della stirpe degli asclepiadi …») ed ebbe così modo di osservare i tanti malati che vi giungevano cogliendone, aldilà della malattia, la loro unicità.

Il concetto di malattia è una astrazione, la realtà è un uomo che soffre e che parla al medico con il suo modo di essere, il suo corpo, i suoi sintomi; osservazione questa che caratterizzerà la medicina ippocratica. Studiò la medicina egizia, la fi losofi a dei Presocra-tici e si convinse che il mondo in tutte le sue molteplici espressioni era governato dalla Armonia, il giusto equilibrio tra i contrari: il caldo con il freddo, l’umido con il secco, l’amaro con il dolce ecc.

Crasi, quindi, quando vi è il giusto equilibrio tra gli elementi, i costituenti, gli Umori (benessere psicofi sico); discrasia, a indicarne un disequilibrio (l’etimo della parola rinvia a “cattiva mescolanza”).

Fu formativa, per Ippocrate, la scuola di Crotone della quale ricordiamo i suoi due “lumi-nari”: Pitagora e, ancor più per quanto attiene alla medicina, Alcmeone.

Gli studi fi losofi ci, l’attenta osservazione volta a cogliere la peculiarità del malato e natu-ralmente la pratica medica, radicarono in lui il convincimento medico che va sotto il nome di “Teoria umorale” per la quale il corpo umano con la sua vitalità è governato dalla crasi dei quattro elementi che danno origine agli umori:

• il Sangue, caldo e umido ovvero il fuoco e l’acqua;• la Flegma o Pituita un umore freddo che nasce dal cervello e caratterizza il comporta-

mento fl emmatico;• Bile Gialla o Flava, generata dal fegato, è secca e calda, tende a riscaldare, un eccesso

genera infi ammazione, febbre, vomito, un comportamento bilioso o, per usare un termine più recente, pletorico;

• l’Atrabile o Bile Nera un umore che induce alla malinconia14 nasce dalla terra e dall’aria, dal secco e dal freddo.

13 Nell’isola di Koo vi era un sacrario-ospedale asclepiadeo. 14 Ancor oggi ricorre la frase: «È di umor nero».

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Quando uno di questi umori prevale sugli altri allora si manifesta la discrasia, la malattia; è compito del medico osservare attentamente il paziente, scrutare il suo volto (facies ippocratica), ascoltare l’anamnesi e solo dopo, enunciata la diagnosi, prescri-vere la dieta più appropriata, norme comportamentali e la giusta terapia farmacologica quando necessaria.

Ippocrate comunque credeva fermamente nella Forza sanatrice della natura (vis medica-trix naturae) e amava ripetere: «Il medico deve solo seguirne gli insegnamenti …».

Il concetto della vis medicatrix naturae nel pensiero ippocratico è fondamentale, perché: «… l’organismo tende a guarire … la natura è il medico delle malattie …», la natura che con le sue “reazioni” (sintomi, difese), infi ammazione, febbre, nausea e vomito, catarro, suppurazione, combatte o meglio “concuoce” quanto le difese dell’organismo nella fase acuta della malattia producono.

Successivo compito del medico sarà quello di espellere gli umori concotti,15 attraverso gli emuntori naturali: saliva, sudore, muco nasale e bronchiale, urina, vomito e feci.

La terapia ippocratica, in estrema sintesi, può essere così riassunta:

• una opportuna dieta che dia vigore, ma che non affatichi la Forza Vitale dell’organismo;• norme comportamentali igieniche, compresi i bagni marini e termali;• somministrazione di farmaci che facilitino la cozione;• farmaci “evacuativi” che facilitino l’espulsione degli umori concotti attraverso gli emun-

tori ritenuti più idonei.

Riportiamo alcuni pensieri e formule prese dal trattato Le piaghe:

� Le piaghe non si infi ammano se non quando vogliono suppurare e suppurano a mezzo del sangue che si altera e si riscalda fi nché marcendo si trasforma in pus.

� È necessario, specie per le ferite di arma da taglio, applicare un medicamento vulnerario e qualche sostanza disseccativa.

� Umettare e detergere la piaga con vino, prima di procedere ad altra medicazione. � Si fanno cuocere nel vino bianco dolce le radici di quercia verde, quando avranno bollito a suffi cienza si decanti. Si prendano due parti di questo decotto ed una di feccia di olio di oliva ben asciutta, si faccia cuocere con questa mescolanza a fuoco lento sino a giusta concentrazione.

� Fare una decozione unicamente con grasso vecchio di porco che si fonderà e sopra si metta la radice di scilla precedentemente tagliata, poi coprite con una benda. L’indomani si faranno dei lavaggi con vino.

� Si fa fondere grasso vecchio di maiale e cera, si mescola olio, incenso, raschiatura di loto, argilla ocracea (ricca di idrossido di ferro), si adopera in unzioni.

� Dopo avere unto la parte con grasso vecchio di maiale, si impasta con il residuo della radice di asfodelo bruciata nel vino e resa impalpabile.

Il paradigma ippocratico tenne scuola nei secoli, e lo fece proprio Claudio Galeno e sino alla fi ne del XVIII sec. costituì la medicina uffi ciale del mondo arabo e occidentale.

Cominciò a essere appena incrinata da Galileo e da Cartesio, che pretendevano l’osser-vanza del metodo e la riproducibilità del fenomeno.

Lentamente, ma defi nitivamente, fu messa da parte dall’Illuminismo sempre critico e dissacrante verso un pensiero di fatto imposto dal “credo” uffi ciale senza alcuna ulteriore ricerca critica, benedicente la volontà della Chiesa.

15 In epoca medioevale verranno chiamati “umori peccanti”.

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Ricordiamo che alla Università Federico II di Napoli solo nel 1840 fu abolita la cattedra di Studi ippocratici a favore di quella di Igiene.

Oggi, pur in epoca di medicina tecnocratica, il pensiero ippocratico ritorna proprio in quei medici che prima ancora di riconoscere la malattia, intendono conoscere il malato.

È attuale grazie anche alla “educazione” professionale del medico omeopata, che vuole evidenziare la unicità del malato per meglio giungere alla diagnosi e alla terapia.

Tornano ancora, dal loro periodo aurorale, il riconoscimento dovuto alla vis medicatrix naturae,16 la scienza delle costituzioni umane, la psicosomatica, e ancora quell’approccio medico tutto umanistico, il quale crede che la medicina sia un’Arte piuttosto che un metodo terapeutico.

Elementi, Umori, Temperamenti

Aria cuore SANGUE umido e caldo temperamento sanguigno.

Fuoco fegato BILE FLAVA secco e caldo temperamento bilioso, collerico.

Acqua cervello FLEGMA umido e freddo temperamento fl egmatico.

Terra milza ATRABILE secco e freddo temperamento melanconico, introspetto.

Ippocrate non fu un innovatore della tradizionale pratica asclepiadea, bensì un rivolu-zionario; cancellò il medico demiurgo tra il malato e gli dei e ne istituì uno responsabile della sua diagnosi e terapia, forte solo dei suoi studi e della sua dedizione.

Insegnò anche – certamente conosceva Socrate – la maieutica per essere vicino al malato e meglio comprendere la malattia; raccomandò anche a chi sano un costume di vita capace di tutelare la salute, facendo comprendere l’importanza della dieta, dell’attività fi sica, dell’osservanza dei Valori che danno serenità alla vita.

Forgiò l’Arte Medica inferendo in essa eticità, doverosa scienza, e curando la fi gura del medico sin nei minimi particolari: ben vestito, non altezzoso, disponibile e profumato affi nché il profumo rendesse grata al paziente la sua presenza.

Lasciamo parlare Ippocrate nel suo trattato Del Medico:

… stimiamo buona pratica del medico che egli badi di essere di buon colore e in carne, per quanto lo porta la sua costituzione, in quanto la gente stima che chi non è ben disposto del corpo suo né agli altri possa recar vantaggio. Anche esteriormente vesta decoroso ed usi profumi che abbiano odore non nocevole; da questi ricevono grata sensazione i malati …

Il suo sapere medico è racchiuso nel Corpus Hippocraticum, 72 libri in gran parte scritti da lui, ma certamente anche dai discepoli che successivamente hanno riportato il suo pensiero. L’opera ci dà la vastità degli interessi del Maestro; solo per citarne alcuni: il morbo sacro (epilessia), la dieta,17 le acque, le ferite, la prognosi, il cielo, gli aforismi.

16 Uno studio recente ha osservato che il 70% delle patologie si risolvono senza intervento medico.17 Ippocrate: «… fa che il cibo sia la tua medicina …».

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Questi per due millenni furono considerati il testo classico fondamentale della Medicina ed ancora oggi oggetto di rifl essione.

L’intero Corpus Hippocraticum fu infi ne raccolto e custodito nella costituita Biblioteca alessandrina.

L’esegesi e la ratio dell’intero Corpus collocano l’opera nel suo tempo, e ciò sta a indicare che ogni critica risulta pleonastica; del pensiero del Maestro va colta l’eticità ed il metodo per comprendere il malato e la conseguente malattia.

Il paradigma di Ippocrate così letto ed interpretato giunge intatto, ancora oggi, a quanti intendono ritenere che la Medicina sia un’Arte dedicata all’uomo.

Socrate sosteneva di non conoscere la verità, ma certamente di conoscere i miracoli e gli incantesimi, quel tanto da non crederci.

Una simile affermazione presuppone che ancora nel V sec a.C. i miracoli erano all’or-dine del giorno, così come gli incantesimi perpetrati da persone più o meno in buona fede, medici compresi, che affi davano il loro intervento alla suggestionabilità del paziente.

Questa situazione era ben nota ad Ippocrate, che quindi, oltre che inferire eticità e dignità nella professione, pretese che venisse osservato un ordine degli studi dove, quale prima disciplina, dovesse fi gurare la Filosofi a; questa avrebbe garantito al futuro “Iatros” una maggiore ampiezza di pensiero e sensibilità sui molteplici aspetti della vita.

Inoltre, lo studio della fi losofi a avrebbe allontanato quegli “studenti” non disposti al massimo impegno.

Questa saggia imposizione fu, nel futuro, sempre osservata e fatta propria da Galeno e ancora da Federico II Sacro Romano Imperatore, proprio per conferire maggiore autore-volezza alla fi gura del medico.

Diede vita quindi con i discepoli che avrebbero diffuso la sua Arte a una casta, intesa questa nel senso migliore del termine di cui studio, norme comportamentali, rispetto, assi-stenza e reciproco scambio di osservazioni e rifl essioni mediche erano i valori fondanti.

Tutto questo, chiaramente espresso nel suo Giuramento, aveva anche la fi nalità di non lasciare spazio a medici sedicenti, oltre che tutelare il malato al quale era dovuta la migliore prestazione possibile scevra da miracoli ed improvvisazioni.

Queste leggi ad usum scholae medici hippocratis rappresentarono la base statutaria per quelle che saranno le Universitas e le Corporazioni medievali, le quali, come propria fi na-lità, avevano quella di difendere l’Arte in tutti i suoi aspetti: giuridico ed economico, ma anche di garantire all’aquirente-utente un prodotto o prestazione di assoluta qualità.

Ippocrate morì a 109 anni e dedicò tutta la sua vita all’Arte Medica, fu un vero Greco, sensibile interprete del suo secolo; quando fu invitato con doni ed onori da re Artaserse in Persia per debellare una epidemia, rifi utò, affermando che mai avrebbe aiutato un nemico della Grecia.

Gli furono riconosciuti i massimi onori, compresa la concessione della cittadinanza ateniese.

Esculapio fu elevato all’Olimpo, Ippocrate ad emblema stesso della Medicina.

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Giuramento antico di Ippocrate

Giuro per Apollo medico e per Asclepio e Igea e Panacea e per gli dei tutti e per tutte le dee, chiamandoli a testimoni1 che eseguirò questo giuramento e questo impegno scritto: di stimare il mio maestro di quest’Arte come mio padre e di vivere insieme a lui e di soccorrerlo se ha bisogno e che considererò i suoi fi gli come fratelli ed insegnerò loro quest’Arte se essi desiderano apprenderla; di rendere partecipi dei precetti e degli insegnamenti orali e di ogni altra dottrina i miei fi gli ed i fi gli del mio maestro e gli allievi legati da un contratto e vincolati dal giuramento del medico, ma nessun altro.Regolerò il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze ed il mio giudizio, mi asterrò dal recare offesa.2 Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né sugge-rirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo.3

Con innocenza e purezza io custodirò la mia vita e la mia Arte. Non opererò coloro che soffrono del male della pietra, ma mi rivolgerò a quelli che sono esperti di questa attività.In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati e mi asterrò da ogni offesa e danno volontari e fra l’altro da ogni azione corruttrice sul corpo delle donne e degli uomini liberi e schiavi.4 Ciò che io possa vedere o sentire durante il mio esercizio sulla vita degli uomini tacerò ciò che non è necessario sia divulgato, ritenendo come un segreto cose simili.A me dunque che adempio un tale giuramento e non lo calpesto, sia concesso di godere della vita e dell’Arte onorato dagli uomini tutti, per sempre.Mi accada il contrario se spergiuro.Tradotto dall’originale greco

1 Da queste prime righe, si comprende meglio la laicità di Ippocrate tutta volta verso la sua professione, ma senza irridere o mancare di rispetto agli dei, che anzi invoca quali tutori della sua eticità.2 In questo primo paragrafo si leggono quelli che saranno i primi impegni che caratterizzeranno gli statuti delle Corporazioni medievali.3 In questo secondo paragrafo ed in quello che segue, la Chiesa ha letto la santità degli intenti ed il rispetto per la vita, accettando così nella sua interezza il pensiero ippocratico. 4 Molto bello questo passo che pone il medico di fronte all’Uomo, senza nessuna discriminazione.

Ippocrate e i suoi allievi disponevano di una propria Farmacopea intesa come un elenco di droghe vegetali oltre che rimedi di origine biologica e minerale; di questi ne conosciamo il nome, ma non tutti riusciamo ad identifi carli anche perché, essendo caduti in disuso, se ne è perso il ricordo della loro attività farmacologica.

La scuola ippocratica riteneva giustamente che ogni farmaco (da adesso in poi inteso esclusivamente come preparato curativo) avesse una sua naturale predisposizione per un particolare umore o organo piuttosto che per un altro; questo ci dice che la terapia consi-steva nel concuocere la patologia nella sua fase acuta ed infi ne con un secondo farmaco scegliere l’emuntore dal quale espellere i cataboliti della malattia (purgare).

Gli aghi o la resina dei pini, ad esempio, con la loro azione balsamica, dopo avere prima somministrato nella fase iniziale della patologia (tosse, bronchite) un infuso di petali di Papaver rhoeas, ipnoinducente e sedativo della tosse con azione bulbare, venivano prescritti

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anch’essi in infuso o per suffumigi, al fi ne di promuovere, in quanto balsamici, una azione risolutiva ed espettorante.

Nel Corpus Hippocraticum sono riportate solo 130 erbe offi cinali, in realtà poche rispetto a quante se ne conoscevano in Persia ed in Egitto; si può ipotizzare che una maggiore cono-scenza delle droghe da utilizzare si avrà solo dopo l’occupazione da parte di Alessandro dei territori orientali.

Chi scrive ritiene che ciò sia solo in parte esatto; vero è che Dioscoride, cinque secoli dopo, elencherà oltre 800 droghe (così come la Historia Plantarum di Teofrasto, V sec. a.C.) nel suo De Materia Medica e così tante altre opere dell’epoca, ma tutte hanno una fi nalità enciclopedica piuttosto che di pratica medica “sul campo”. Inoltre dopo Ippocrate, nel tempo ogni discepolo si è sentito in dovere di valutare ed aggiungere un farmaco di natura animale o vegetale, quel tanto da personalizzare la sua Farmacopea.

Quanto sopra ce lo lascia intendere il Benedicenti nel suo Medici, Farmacisti, Malati dove riporta come nella terapia di scuola ippocratica, al fi ne di curare alcuni disturbi dell’u-tero, venissero prescritti suffumigi: «… facendo bollire un cagnolino sventrato e riempito di erbe aromatiche …». Ippocrate, da quell’attento osservatore e sperimentatore che era, non avrebbe mai usato un farmaco tanto improbabile quale un povero cagnolino ridotto a suffumigi, né escrementi di coccodrillo o grasso di leone o tante altre assurdità che fi gure-ranno nelle Farmacopee medievali e rinascimentali.

Purtroppo il testo Farmaxitis, dove il Maestro descriveva i suoi farmaci e la tecnica farmaceutica per prepararli, è andato perduto e quindi non rimane, nella esegesi dei suoi scritti, che lasciarsi guidare dalla ontologia del suo pensiero.

Elencare le droghe vegetali menzionate nel Corpus Hippocraticum sarebbe prolisso, ricor-diamo solo quelle conosciute o ancora oggi prescritte:

Il Papaver somniferum ed il rhoeas, la Mandragora, l’Aconito napello; quest’ultimo in quanto contenente alcaloidi tossici, dimostra che lo si sapeva usare in giusta dose, ben sapendo che: dosis sola facit venenum.

Le resine: di pino, la mirra, il mastice per le loro azioni rubefacenti ed antibatteriche.Droghe digestive, di natura calda che in ambiente gastrico concuociono gli alimenti

facilitando così la digestione: Finocchio, Anice, Aneto, Salvia, oltre la Camomilla per la sue qualità anche miorilassanti.

Compare anche la segale cornuta, più propriamente la farina infettata dal fungo, certo utilizzata non a scopo abortivo, bensì per facilitare il parto.

I semi di lino, la malva fi ori, le galle di quercia, il salice corteccia erano droghe semplici, ma largamente usate.

Molto particolare, nella loro prescrizione, erano gli oli essenziali (ancora oggi di diffi cile prescrizione) che si ottenevano per distillazione. Alcuni, particolarmente aromatici, veni-vano dispersi in olio di oliva o mandorle al fi ne di profumare più che le belle donne greche, i loro mariti e gli atleti dopo i loro esercizi ginnici.

Le piante offi cinali e le rispettive droghe venivano colte in tempo balsamico e preparate dai rhizotomoi, erboristi ante litteram, e successivamente consegnate al medico il quale preparava, anche estemporaneamente, nel suo laboratorio il farmaco prescritto. Natural-mente molti rhizotomoi preparavano di propria iniziativa prodotti generici o per patologie minori più ricorrenti.

Alcuni di questi seguitarono ad erborizzare, altri coadiuvarono maggiormente con il medico acquisendo così una specializzazione che li qualifi cherà “Farmacisti” ante litteram, garanti della droga usata e della corretta tecnica di preparazione.

Le forme farmaceutiche somministrate erano molteplici.

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• Per uso interno: sciroppi, succhi, i macerati nei vari solventi, ma anche le paste, le pillole e le polveri, oltre che i tradizionali decotti ed infusi.

• Per uso esterno: pomate e linimenti, oli arricchiti di principi attivi, ma anche suffumigi per inalazione, gargarismi e sciacqui per le affezioni del cavo orale.

Per ottenere la forma farmaceutica voluta necessariamente si doveva ricorrere a solventi ed eccipienti. Tra i primi oltre l’aqua fontis e la piovana perché priva di soluti, il vino che, essendo una soluzione idroalcolica, aveva un potere estrattivo e solubilizzante maggiore rendendo al farmaco anche una migliore palatabilità.

Come esempio ricordiamo che le capsule immature del Papaver somniferum (il migliore era quello di Smirne) secernono, se incise, un lattice che rapprendendosi dà l’oppio, succes-sivamente raccolto in pani, come droga fi nale. Della pianta offi cinale tal quale venivano somministrate le capsule in poltiglia, amalgamate nel miele o sospese in forma di sciroppo.

I pani consentivano di essere somministrati in polvere, quindi anche in pillole oltre che in soluzioni alle volute concentrazioni.

La solubilizzazione della polvere in vino e non in acqua consentiva di estrarre la morfi na solubile sia in acqua che alcol, la papaverina, la tebaina, la narcotina, solubili in alcol. Così la soluzione idroalcolica di oppio, con funzione paregorica,18 riproduceva l’attività farmacolo-gica propria dell’oppio che – oggi si è visto – è diversa da quella della semplice morfi na. Altro solvente usato era l’aceto con il quale, oltre che estrarre i Principi Attivi, si potevano prepa-rare gli ossimelliti. Ricordiamo l’ossimellito di Scilla (5 parti di acetolito di Urginea Scilla Maritima e 10 di miele depurato) solo perché fi gurerà ancora nelle Farmacopee del XIX sec.

Gli oli erano utilizzati sia come solventi che eccipienti, tra questi l’olio di mandorle, di olivo, di ricino, di lino. Come eccipienti propriamente detti venivano usati: la farina di grano o di orzo ben setacciata, la pasta di fi chi (quella di datteri era costosa), il miele e l’ossimellito. Per uso esterno: adipe di maiale, oli e cera.

Nel laboratorio del medico e dei rhizotomoi certo non poteva mancare il fuoco, che facilitava le solubilizzazioni, consentiva di depurare il miele, cuoceva quello che la tecnica richiedeva, infi ne ispessiva o concentrava la preparazione. Gli strumenti, quelli di sempre: distillatore, almeno due torchi di diversa grandezza, una macina media di basalto, mortai di varie misure, setacci, imbuti, piastre e spatole per le pomate, contenitori e misuratori di vetro, anche se costosi.

Con questa offi cina (che poi si dirà “galenica”), i rhizotomoi si affrancheranno dall’erbo-rizzare, cercare radici e rizomi; e sempre più, nel tempo, saprà costruire, più propriamente, l’Arte Farmaceutica.

� �Farmaco: pozione magica,

veleno o medicamento?

Sin qui abbiamo parlato dei prodromi della storia della Medicina e Farmacia, ma anche dello stesso Omero nell’Iliade, che ci ha indotto a parlare di “Farmaco” come di un preparato benefi co e salutifero, ma in realtà molti autori antichi lo intendono come veleno, ricordando così il suo signifi cato primigenio. Ancora oggi alcuni vocabolari di lingua italiana ispirandosi alla parola greca pharmakon sostengono che indichi: una o più sostanze capaci di produrre

18 Medicamento ad azione calmante.

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modifi cazioni funzionali utili o dannose. Altri, rifacendosi alla odierna diffusa accezione, precisano che il farmaco è dotato di virtù terapeutiche.

Nella fase aurorale della medicina greca, pharmakos (con il sigma fi nale) sta a indicare il mago, la vittima sacrifi cale, l’avvelenatore. A ricordarne l’antico etimo, Ipponatte (una sorta di Cecco Angiolieri ante litteram) tre secoli dopo Omero usa il termine pharmakoi per indi-care gente malvagia. Evidentemente, aldilà della cattiva propensione di Ipponatte, deve aver prevalso il signifi cato più sacrale per il quale il prodotto del pharmakos è il pharmakon con funzione sia terapeutica che avvelenatrice; infatti, Omero, questa volta nell’Odissea (Libro IV, verso 219) ci parla di Elena, grande conoscitrice di farmaci, ma ora meno “amante” e più moglie di Menelao, perfetta padrona di casa, impietosita dalle ansie dell’ospite Telemaco in cerca del padre Ulisse:

entro nel vino ch’essi bevevano un farmaco infuse19

ch’ira e dolore scacciava, che dava l’oblio d’ogni male…………………………………………………………..Tali di Giove la fi glia (Elena) sapea salutari possentifarmachi: dati a lei li aveva la sposa di Tono,Polidamnia d’Egitto che molti quel fertile suolofarmachi dà, buoni questi mortiferi quelli

(ODISSEA, Libro IV, verso 219)

Ma nei canti successivi la maga Circe somministra il pharmakon sia a Ulisse che ai suoi compagni, ma solo Ulisse riesce a scongiurare il pericolo con un antidoto suggerito dal dio Hermes: il moly, una radice nera, al latte, simile al fi ore.20

La stessa parola Pharmakeia ha una molteplicità di signifi cati per noi discordanti: medi-cina, avvelenamento, sortilegio o magia; insomma, in tempi mitici il termine Pharmakon richiedeva un’ulteriore precisazione a indicarne un uso: terapeutico, velenoso o prodigioso.

Non a caso, il simbolo della medicina è il serpente con il suo veleno, ineffabile, affasci-nante, ma anche perché ritenuto esente da malattie e con il suo rinnovare ogni anno la pelle è il simbolo della immortalità. Comunque già Platone (Atene 427-347 a.C.), discepolo di Socrate nel De legibus, anticipando la moderna medicina psicosomatica, afferma che anche la parola (benevola), il canto, la musica (e la preghiera) sono da considerare farmaci perché inducono a una più pronta guarigione.

Quindi Platone usa il termine Farmacon a indicare un benefi co uso terapeutico. Con l’evoluzione dell’arte medica, il temine Farmaco diverrà sinonimo di preparato terapeutico.

La lingua latina come sempre pragmatica e precisa, userà termini come: medicina, medi-camentum, remedium, potio, cataplasma, a indicare un uso auspicalmente benefi co; mentre: venenum, virus indicano un’azione tossica, anche se Varrone, Sallustio, Svetonio usavano ancora l’antico termine (più raffi nato) a indicare una azione velenosa.

Verrà Teofrasto Paracelso nel XVI sec. il quale, forte dei suoi studi innovativi, così si esprimerà: «Dosis sola facit venenum».

19 Si tratta del Nepenthes, per quanto alcuni autori ritengano si tratti del laudano (farmaco degno di lode); non se ne conosce ancora con certezza la formula, probabilmente veniva preparato con oppio, canapa indiana, mandragora e belladonna. Comunque, essendo un farmaco composto, molte droghe sedative o ipnoinducenti concorrevano alla preparazione del farmaco.

20 Per quanto Apuleio defi nisse il moly “clarissimus herbarum” e Galeno riteneva che fosse la ruta silvestre, in realtà è un preparato che non conosciamo. Alcuni autori ipotizzano sia l’Allium magicum (Linneo: Allium moly), altri le solite droghe allucinogene o ipnoinducenti: Belladonna, Mandragora. Ovidio nelle sue Metamorfosi ricalca il pensiero di Omero: pianta magica da usare negli incantesimi.

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� Profumi �

Per quanto si voglia datare l’uso dei profumi in periodi storici a noi più vicini, dobbiamo precisare che già da 6000 anni a.C. la pratica era ricorrente. Le motivazioni sono molteplici: la più istintiva e comprensibile è che ogni uomo viene attirato da un aroma coinvolgente come quello dei fi ori, ad esempio, dell’arancio amaro: le zagare. Averlo apprezzato e desi-derato sul proprio corpo e sugli indumenti appare sentimento naturale, tale da sollecitare una richiesta al laboratorio di un rhizotomos il quale, intuito l’interesse commerciale, si specializzerà nella odorosa disciplina unguentaria dimenticando le droghe più terapeu-tiche, ma meno redditizie.

Le popolazioni che abitavano le sponde del Mediterraneo, Babilonesi e Siriani compresi, avevano un concetto diverso dell’igiene personale; gli Egizi ne erano molto attenti,21 così come gli Etruschi ed i Romani. I Greci ed i Persiani non brillavano per una particolare pulizia del corpo; a questi, cospargersi di profumo, al fi ne di coprire gli odori maleodoranti del proprio corpo, parve una soluzione piacevole. Quanti al contrario si detergevano, lo facevano con argilla in polvere o con la cenere. Essendo entrambe alcaline creavano, con i grassi della cute (fi lm idrolipidico), una sorta di “sapone” che detergeva la pelle, però lasciandola secca ancor più di quanto la potesse rendere il forte calore del sole. Per ovviare a questo inconveniente ci si ungeva con oli e grassi di varia natura restituendo così elasticità e morbidezza alla pelle. Però i grassi e gli oli usati non avevano un odore particolarmente gradevole; fu cosa naturale, anche con l’elevarsi della cultura e del censo, desiderare un olio lenitivo, ma odoroso, che rendesse gradevole la persona.

Altra motivazione, la più remota, appartenente alla protostoria, è data dal convinci-mento che gli dei si alimentassero non con cibi umani, bensì con i fumi dei sacrifi ci o con le offerte profumate dei fi ori, delle resine (incenso), di piante aromatiche. La parola “Profumo” deriva dalla frase latina “Pro fumo tribuere” (agli dei). Cospargere il corpo di essenze odorose signifi cava aggiungere un tocco di sacralità alla propria persona oppure più semplicemente evocare una funzione apotropaica: il profumo nella sua sacralità allon-tana i mali.

Ogni ipotesi merita rifl essione.Con il tempo e considerato l’alto costo del profumo, questo ha evidenziato il censo,

il ceto di appartenenza, la cultura, determinando così un fi orire di offi cine interamente dedicate alla produzione di profumi. Ci si preoccupò di valutare l’aspetto terapeutico di un aroma grato, anche dietro sollecitazione di Platone e di Aristotele, ma si constatò che la cura risultava più palliativa che terapeutica. (Oggi, l’Aromaterapia più propriamente studia gli effetti terapeutici dei diversi oli essenziali aromatici, senza dimenticare le implicazioni sui sentimenti e sulla psiche.)

La cosmesi e l’uso dei profumi era un aspetto importante del costume egizio, basti pensare che la regina Hatsepsuthe organizzò una spedizione militare verso Oriente al fi ne di procurarsi droghe e resine odorose; il risultato fu la realizzazione del Kyphi un profumo molto apprezzato in tutto il Mediterraneo, per non parlare, ma in epoca più tarda, di Cleopatra, che dedicava molta attenzione al suo laboratorio cosmetico,22 con i risultati che hanno fatto la storia. Ma l’esigenza del profumo per la propria persona dilagava nel Mediterraneo già dal secondo millennio a.C.

21 Lo testimonia Erodoto nelle sue Storie.22 Cleopatra amava prendere il bagno nel latte di mandorle. A Roma Poppea preferiva quello di asina.

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Recentemente a Pyrgos, nell’isola di Cipro, è stata rinvenuta una offi cina-profumeria interamente attrezzata alla produzione sia dell’olio di oliva che dei profumi pronti per essere commercializzati. L’offi cina presenta macine di basalto, un torchio grande per l’estrazione dell’olio, altri di dimensioni minori, utilizzati per spremere le droghe rese esauste dall’estra-zione, inoltre recipienti fi ttili per la decantazione, orcioli da porre sul fuoco, imbuti e – cosa interessante – un distillatore per l’estrazione di oli essenziali dalle piante aromatiche. Si è visto che questi distillatori funzionavano come gli attuali (saranno perfezionati dagli Arabi nel IX sec. d.C.) raccogliendo il distillato in un orciolo oppure convogliando i vapori saturi di oli essenziali su di un panno intriso di olio o di grasso; in seguito a distillazione esaurita, questo verrà rimosso saturo di oli essenziali. Si è anche osservato che la “pentola” dove avveniva la formazione del vapore non veniva posta sul fuoco diretto, ma su di un letto di sassi al fi ne di non denaturare con l’eccessivo calore le delicate essenze odorose. Altra tecnica di estrazione era quella di lasciare macerare per più giorni la droga odorosa in appo-sito solvente; questo a seconda della fragranza e della tonalità che si voleva ottenere poteva essere: olio, grasso animale, vino o acqua. Per meglio favorire il processo di estrazione, la giara ben sigillata con la calce si poneva sulla cenere calda ad una temperatura non supe-riore a 60° (oggi il processo ancora attuale viene chiamato “digestione”). La temperatura era controllata perché, se troppo elevata, gli oli essenziali, le frazioni proteiche e le aldeidi si denaturavano alterando così la fragranza voluta. Il prodotto fi nito, profumi o acque aroma-tiche venivano confezionati in contenitori appositi: aryballoi o alabastra, più tardi in fi ale di vetro, pronti per la vendita ad una clientela selezionata dato l’alto costo del prodotto.

Cipro, già nel secondo millennio a.C., era un’isola felice che seppe sfruttare la sua posi-zione geografi ca, essendo posta a metà strada tra la Grecia e l’Egitto e prospiciente le coste dell’Anatolia colonizzate dai Greci. Dopo l’insediamento miceneo, ma già in epoca minoica, la sua produzione e relativa commercializzazione fu ispirata ed orientata da due fattori. Il primo: la spuma del suo mare, dalla quale splendida e femminile, era nata Venere –kyprogenia – e questo deve avere orientato i Ciprioti al culto della dea e delle sue sacre e femminili attese: profumi e cosmetici, ingredienti fi nalizzati a correggere ed esaltare la bellezza.

Altra felice intuizione fu quella della coltivazione – furono tra i primi – degli ulivi e quindi della produzione dell’olio di oliva23 utilizzato per uso alimentare, ma in gran parte per scopi farmaceutici e cosmetici. Dopo il lavaggio del corpo o degli esercizi ginnici ci si ungeva con olio d’olivo per ripristinare sulla cute la giusta acidità ed il fi siologico fi lm idro-lipidico che avrebbe svolto la sua azione lenitiva. Però l’olio ottenuto dalle olive mature ha un odore sui generis che, se grato sugli alimenti, lo è meno sulla cute rendendolo di fatto inadatto per uso cosmetico. L’intuizione dei Ciprioti fu quella di utilizzare le olive comple-tamente acerbe, ottenendo così un olio inodore, pur con una resa molto bassa; questa giustifi cava un costo elevato. A tale prodotto, base per la produzione dei profumi, fu dato il nome di “Omphaciom” (acerbo) ideale per “accogliere” oli essenziali liposolubili.

Gli oli essenziali più usati erano: il Rosmarino, la Lavanda, il Pino, la Salvia, il Mirto, il Calamo Aromatico, la Mirra e molti altri; tutte droghe i cui oli essenziali venivano estratti, come detto, sia per distillazione che per macerazione o digestione. Altra tecnica, ma per i fi ori più delicati, era quella che oggi chiamiamo “infi oraggio” ovvero stenderli e porli ad intimo contatto con il grasso voluto e ripetendo l’operazione sino a risultato voluto, la

23 Il costo dell’olio d’oliva era molto elevato (ancora oggi) per la lenta crescita dell’olivo, la scarsa resa, la diffi -coltà della raccolta; per questo si preferiva commercializzarlo per uso farmaceutico o per la produzione di profumi. L’olio vecchio, irrancidito, veniva usato nelle lampade. Per uso alimentare, oltre certamente lo stesso olio di oliva, si utilizzava l’olio di sesamo.

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35EVO ANTICO

successiva spremitura dava il prodotto fi nito. Con le droghe, le cui essenze odorose erano idrosolubili (rosa, hennè fi ori, zafferano, mandorle amare) si producevano acque profu-mate o anche oli ed unguenti con una particolare tecnica; mescolando l’acqua di macera-zione con olio e lasciandola evaporare lentamente con calore tenue.

Va detto che le tecniche, in gran parte già conosciute dagli Egizi, si diffusero nel Medi-terraneo con la particolarità però che venivano utilizzati oli di natura diversi: in Anatolia dai semi di lino, in Mesopotamia dal sesamo, in Egitto si preferivano grassi animali e, ove consentito dalle coltivazioni, l’olio di mandorle dolci ed amare.

I profumi ciprioti erano prevalentemente preparati con l’Omphaciom, inodore, nessuna acidità ed una relativa lunga conservazione in virtù delle sue caratteristiche chimico-fi siche: essere monoinsaturo, contenere polifenoli e tocoferoli (vitamina E), questi ultimi antiossi-danti che ne rallentano l’irrancidimento. In realtà il Profumo che si otteneva non aveva una lunga scadenza, quindi molti, personalizzati, venivano preparati estemporaneamente, su richiesta del cliente; tal’altri, quelli che maggiormente erano apprezzati, era possibile trovarli già pronti in eleganti contenitori ed ognuno veniva richiesto con il suo nome commerciale; ne riportiamo alcuni: Susinum24 delicato con tonalità di giglio, canfora e mirra; Rhodinum, con effl uvi di rosa e calamo; Cyprinum, un profumo caldo di calamo e cardamomo; Metopium, dal caratteristico aroma delle mandorle amare e della resina di terebinto; Mirtum-Laurum un profumo non eccessivamente costoso con tonalità aspre di mirto, alloro, fi eno greco; Telinum tipico dell’isola di Telo, gradito al divo Cesare, con un vago aroma di violetta, maggiorana e calamo. Ultimo, ma non in termini di raffi natezza, era l’Unguento Reale preparato per il re dei Parti e tanto apprezzato dai Romani; ne riportiamo la formula qualitativa: vino, miele, maggiorana, loto, cipero, zafferano, mirabolano, costo, ammomo, nardo, maro, mirra, cassia, storace, lodano, cinnamomo, opobalsamo, calamo aromatico, giunco, enante, malobrato, sercato, fi ori di hennè, aspalato, panace. La formula è riportata da Plinio, dove l’ammomo, con un gradevole odore canforato, veniva anche usato come fi ssatore, così come il “costo” (pianta aromatica); la maggiorana dal dolce profumo (tanto apprezzato dai Latini); la cassia dal delicato aroma di cannella; lo storace, contenendo vanillina, ha una fragranza dolce e persistente; lo spalato soave – così lo ha defi nito Plinio –, la cui estrazione avveniva con una breve macerazione nel vino. Diffuso, anche per la semplicità della preparazione, era l’Espe-ridee, una piacevole miscela di aromi agrumosi: arancio, limone, cedro, bergamotto, formula che verrà intelligentemente ripresa nel XVII sec. dal farmacista Giovanni Paolo Feminis.

Gran parte delle droghe erano di importazione: dalla Siria, dall’Egitto, dalla Palestina, dall’India. Desta meraviglia come piante odorose autoctone, come timo, rosmarino, salvia, lavanda, fossero poco utilizzate, ma forse solo per profumi più commerciali o per oli da usare nei massaggi per la loro azione revulsiva. Nella Roma repubblicana (post seconda guerra punica) ed imperiale la diffusione delle terme e delle palestre incrementò l’uso di oli profumati anche presso ceti non proprio abbienti, ma era la qualità, l’uso degliunguenta exotica, che denotava il vir nobilis.

È dal VII sec. a.C. che gli scambi commerciali e culturali nell’intero Mediterraneo stimolarono il consumo di profumi; quindi appare ovvio, conoscendo il carattere degli Etruschi e delle loro donne così amanti della vita, che ne facessero largo consumo come testimoniano gli arredi funebri, dove si può osservare come i contenitori, tanto apprezzati per la loro fattura e decorazione, inizialmente venissero dall’Eubea, isola greca nel mare Egeo e successivamente da Corinto, questi ultimi molto raffi nati. Considerato lo stato di

24 Susinum, dall’arabo soushin, “giglio”.

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emancipazione femminile presso gli Etruschi, c’è da ritenere che il consumo dei profumi fosse molto elevato.

Valutato l’interesse commerciale e di costume che ruotava attorno ai profumi nel IV sec. a.C., se ne volle interessare lo stesso Teofrasto (“oratore divino”, così lo chiamò Aristotele) grande fi losofo e naturalista che successe ad Aristotele nella conduzione del Liceo e volle fi ssare il suo pensiero anche ne I Profumi e lo fece da par suo trattando: la causa degli odori, l’eucrasia dei vari aromi, le piante aromatiche idonee, gli oli più opportuni da utilizzare, le corrette tecniche, insomma una summa che sarà stata propedeutica ai tanti unguentari che fervevano in Alessandria ed a quelli che fi oriranno nell’Italia greco-romana.

Anche nella Roma dei re, l’uso di erbe odorose da bruciare era praticato nei templi e nelle funzioni funerarie; in seguito, la vicinanza con gli Etruschi e gli scambi commerciali con i Greci fecero conoscere ai severi Romani un uso più personale dei profumi, degli unguenta. Per quanto Catone tuonasse contro tali costumi corruttori, un uso maggiore cominciò dopo la conclusione della seconda guerra punica – 201 a. C. (pace con Cartagine) – quando Roma si decise per una politica estera di tipo imperialista; questo determinò un più intimo contatto con il mondo greco ed orientale. Una vera e propria attenzione ai costumi orientali ed ai suoi prodotti si avrà con il ritorno nell’Urbe del generale Lucullo dal suo proconsolato in Cilicia, che riportò tanto oro per sé e per il Senato, il piacere per una tavola ricca di raffi nate pietanze, la pianta di ciliegio sconosciuta a Roma, l’uso della droga – Oppio o Hascisc – ma solo per uso personale, oltre che le mollezze orientali compresi i profumi.

L’evoluzione degli unguentari fu rapida e la Campania, greca ed ubertosa, divenne un importante centro di produzione con le città di Paestum e Pompei, prime fra tutte anche per le loro rinomate coltivazioni di rose che consentivano di produrre acque distillate ed unguenta alla fragranza appunto di rosa.

Se nella Roma tardo-repubblicana l’uso del profumo era un vezzo, in quella imperiale appariva imprescindibile, quasi una sorta di divisa, era un modo di comunicare la propria cultura ed il proprio ceto sociale; non a caso il consumo degli unguenta diminuirà con il decentrarsi del potere di Roma, mentre si manterrà importante a Costantinopoli-Bisanzio.

Gli Arabi cureranno il piacere dell’uso degli aromi, dei vapori odorosi, dei profumi; in Europa ed in Italia, la povertà, la consequenziale ignoranza, la castigata morale cristiana, imponevano un regime di sussistenza che nulla poteva concedere al superfl uo. Sarà il Rina-scimento, con la sua esplosione culturale, a ricorrere, come sua esigenza, all’uso dei profumi.

Con il perfezionamento, dopo l’XI sec. dell’era cristiana, della distillazione e quindi con l’avvento dell’alcol (aqua ardens 60° o aqua vitae 70-80°) se ne intuì il valore solubiliz-zante. Grazie a questa nuova tecnica farmaceutica, le essenze odorose non vennero più, o in minima parte, amalgamate con grassi vegetali o animali, bensì solubilizzate in soluzioni idro-alcoliche.

Fu così che nel 1685 il farmacista GianPaolo Feminis realizzò l’Aqua Mirabilis utiliz-zando essenze agrumose, lavanda, rosmarino. Il preparato in realtà aveva intenti terapeutici sfruttandone le doti disinfettanti e revulsive, ma la sua fragranza nuova e coinvolgente prevalse. La formula infi ne giunse ad un suo parente acquisito, Giovanni Maria Farina da Santa Maria Maggiore (Piemonte), che perfezionando l’antica formula con l’aggiunta di essenze più “calde” realizzò l’Acqua di Colonia, così chiamata in onore della città dove appunto venne defi nitivamente realizzata. Il genio imprenditoriale di, ora Giovanni Maria Farina, e la gradevolezza del prodotto, seppero affermare l’Eau de Cologne in tutta Europa, con grande apprezzamento di sua maestà l’imperatore Napoleone. Ancora oggi è un gradito profumo.

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37EVO ANTICO

� Verso l’Ellenismo �

Il macedone Filippo II e suo fi glio Alessandro imposero, nel 357 a.C., la loro egemonia sulla Grecia; se questo signifi cò la fi ne politica delle varie Polis (città stato), non lo fu per le attività commerciali e culturali. Alessandro, in particolare, per realizzare il suo sogno di conquista, aveva bisogno di danaro, di uomini, di navi e quindi promosse ogni attività ed iniziativa commerciale e culturale che potesse garantirgli quanto voluto. Volle fondare, conquistato l’Egitto, una nuova capitale – Alessandria – dove la sua aspirazione di unifi care la civiltà greca e quella orientale doveva realizzarsi e dove furono edifi cate le tre meraviglie del mondo: il grande Faro alto 135 m; la Biblioteca, quale emblema del sapere, che conservava settecentomila volumi; il museo, vero e primo luogo di ricerca teso al progresso della scienza e della conoscenza.

Fu cosa naturale per l’intelligentia del momento confl uirvi ed infatti vi conversero le scuole fi losofi che e mediche di tutto il Mediterraneo, divenendo così un polo culturale che decadrà solo con la caduta dell’impero Romano, ma non prima di avere formato Galeno e Dioscoride, due pilastri indiscussi del sapere medico.

Va ricordato che l’educatore del giovane Alessandro fu Aristotele, il quale infuse nella sua mente e nell’animo l’amore per il Sapere; per tutto questo egli nutrirà, per il suo Maestro, stima ed affetto e dai territori da lui occupati, tramite i ricercatori che lo segui-vano, gli invierà ogni curiosità scientifi ca, piante, animali o resoconti medici che avrebbero potuto interessarlo.

Da questa osmosi tra la Grecia, le colonie italiote ed il mondo orientale sino all’Indo, la scienza in genere se ne avvalse, particolarmente la Medicina e le scienze naturali, ma anche gli studi propriamente farmaceutici.

Socrate, Ippocrate, Aristotele avevano guidato l’intelligentia del loro momento storico verso un processo irreversibile: Socrate aveva predicato la Conoscenza, come unico mezzo per giungere alla Verità.25 Aristotele aveva dato fi ducia all’uomo, al suo Potenziale, alla sua ratio, capace questa di penetrare e superare confi ni inimmaginabili. Ippocrate, con la sua disciplina, aveva invitato a guardare all’uomo, alla sua unicità, e quindi anche al suo corpo inteso come insieme di organi solo apparentemente funzionanti ognuno per proprio conto (rifl essone e ricerca che oggi chiamiamo “fi siologia”). Platone, Aristotele, Teofrasto, Erasi-strato, pur con lievi distinguo, non cambiarono il pensiero ippocratico, ma coralmente parteciparono a quell’effervescente momento storico nel quale ognuno da protagonista fu artefi ce di quella speculazione scientifi ca che sarà alla base dell’Arte Sanitaria.

Tra i grandi medici e ricercatori vogliamo ricordare Erofi lo, fondatore della Scuola Medica Alessandrina, in quanto più vicino al nostro concetto di essere medico. Studiò il corpo umano dissezionandolo ed ancora attuali sono le sue osservazioni; fu anche un attento assertore della Polifarmacia dando un impulso alla farmacologia e conseguente-mente alla tecnica farmaceutica.

Si avvia così un processo storico classifi cato: Ellenismo; periodo magico per la scienza, nel quale sinergicamente il pensiero greco, egizio, persiano, mesopotamico confl uirono nella loro capitale naturale: Alessandria. Roma è attenta al mondo che la circonda, ma è ancora impegnata contro i temibili Sanniti.

Nella Scuola Medica Alessandrina, il sapere medico ora è così vasto che prendono forma, come una esigenza professionale, le specializzazioni: quella oculistica e ginecolo-gica, ad esempio. Si avvia sempre più un processo scientifi co che Roma saprà valorizzare ed in epoca cristiana Costantino l’Africano consegnerà alla Scuola Salernitana.

25 Socrate: «… non la raggiungerai mai, ma ti ci avvicinerai sempre di più».

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38 STORIA DELLA FARMACIA. DALLE ORIGINI AL XXI SECOLO

� L’Ellenismo �

Il termine “ellenistico” fu introdotto dallo storiografo tedesco Johann Gustav Droysen a metà del XIX sec., sulla base di una errata traduzione di un brano degli Atti degli Apostoli dove hellenistai non indicava persone che parlavano un greco imbarbarito (come riteneva il Droysen), ma Giudei di lingua greca, per differenziarli da quelli di lingua aramaica. È evidente che il termine è completamente diverso da “ellenico”, che i Greci utilizzavano per designarsi, e che nell’accezione moderna defi nisce il momento della cultura più propria-mente classica, limitata, anche geografi camente, alla Grecia continentale e alle colonie di Occidente.

Convenzionalmente si indica con Ellenismo il periodo storico che inizia con la morte di Alessandro Magno nel 323 a.C., a soli 33 anni per febbri, e termina con la battaglia di Azio nel 31 a.C. (o con la conquista di Alessandria da parte di Ottaviano, il futuro imperatore Augusto, quando di fatto l’Egitto divenne provincia personale dell’imperatore). In realtà gli storici non concordano sulla data della fi ne di questa epoca, sebbene siano prevalente-mente d’accordo che coincida con la defi nitiva conquista romana del regno d’Egitto.

È evidente che qualunque siano le date scelte per convenzione, il trapasso dall’età clas-sica al mondo Romano fu lento e graduale e che non si realizzò contemporaneamente in tutte le regioni.

Non è questo il luogo dove esporre le interminabili guerre con le quali i generali di Ales-sandro si contesero il potere dell’immenso impero da lui lasciato. Ricordiamo solamente che intorno al 301 a.C. (battaglia di Ipso) i Diadochi, o successori diretti di Alessandro, dopo anni di confl itti ed intrighi per conquistare almeno una parte dell’Impero, sono tutti scomparsi. La situazione tende a stabilizzarsi con la costituzione di tre vasti reami: quello d’Egitto (dinastia dei Tolomei), quello di Macedonia (dinastia degli Antigonidi) e quello d’Asia (dinastia dei Seleuciti). Da quest’ultimo si originerà nel 263 a.C. il quarto Regno ellenistico indipendente, quello di Pergamo, che rivaleggerà, se non altro dal punto di vista culturale, con il regno d’Egitto.

La disgregazione del grande Impero di Alessandro segna il fallimento del progetto culturale ecumenico tra la Civiltà Greca e quella persiana ideato dal Macedone. La batta-glia di Azio e l’avvento del principato di Augusto segnano la fi ne di un’epoca, avvertita da alcuni storici antichi come un lungo intervallo di decadenza culturale durante il quale si erano persi i grandi ideali dell’età classica, sia nella politica che nell’arte, e ristabilisce una continuità con il progetto di impero universale di Alessandro.

Dal punto di vista politico, lo smembramento dell’Impero del Macedone conferma la grande innovazione rappresentata dall’istituto monarchico: di grandi o piccole dimensioni le monarchie si instaurano ovunque.

Questi avvenimenti politici ebbero delle pesanti ripercussioni sull’arte e sulla cultura in genere. A governare non erano più regimi democratici o oligarchici, ma un sovrano che esercitava un potere assoluto ereditario, circondato da una corte brillante e sfarzosa, dotata di corposi apparati burocratici e di eserciti professionali ed agguerriti.

Il processo di divinizzazione del monarca, diffuso tra i Persiani e gli Egizi e continuato dallo stesso Alessandro, divenne man mano più forte, tanto che il cerimoniale di corte raggiunse eccessi mai visti prima. Il sovrano è l’espressione vivente della legge e le sue decisioni non necessitano di essere approvate da alcuna assemblea.

È logico che tali cambiamenti infl uissero sostanzialmente anche sull’aspetto sociale. Il cittadino, indipendentemente dalla sua condizione economica e sociale, non è più chia-mato ad esprimere il proprio parere attraverso le assemblee democratiche (istituzione che

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aveva caratterizzato l’età delle polis), ma è divenuto un semplice suddito che deve al re cieca obbedienza. Di conseguenza, si disinteressa della cosa pubblica e si ripiega su sé stesso. Fondamentali in questo contesto furono le maggiori dottrine fi losofi che in voga in età ellenistica, cui accenneremo più avanti.

Dal punto di vista economico assistiamo in questo periodo ad una situazione critica nella Grecia continentale. L’agricoltura, nonostante la diffusione dei concimi, non riesce a soddisfare la richiesta di cereali ed il prezzo del grano sale vertiginosamente; l’allevamento trae profi tto dall’estensione dei pascoli, ma pochi se ne avvantaggiano. L’industria ed il commercio della Grecia continentale sono in pericolo, poiché rapidamente i nuovi Stati orientali cominciano a svilupparne di proprie. La Grecia può esportare solo vino ed olio, i cui prezzi sono purtroppo stabili; anche l’artigianato, un tempo fondamentale per l’eco-nomia ellenica, sopravvive modestamente in alcune zone, Corinto ed Atene ad esempio. Questo contesto vede gli elementi più dinamici dell’economia abbandonare la madrepatria e trasferire i capitali nelle città insulari e nelle terre d’Egitto e d’Asia minore.

Le conseguenze di questa crisi si rivelano fatali per la Grecia: si spopola, la povertà genera la rivolta; il brigantaggio e la pirateria si diffondono nuovamente.

La situazione non è altrettanto grave nelle isole dell’Egeo. Rodi, approfi ttando della sua strategica posizione davanti ad Alessandria d’Egitto e vicino alle coste dell’odierna Turchia, sviluppa intensi scambi commerciali ed in qualche modo eredita il ruolo esercitato dal porto del Pireo durante l’età classica. Per capire l’importanza della sua fl otta mercantile citiamo l’esempio del codice marittimo (la Lex Rhodia) applicato in età ellenistica, tenuto in grande considerazione dall’imperatore romano Marco Aurelio e adottato in parte da Bisanzio e da Venezia, secoli dopo.

In questo contesto assistiamo allo sviluppo di un fenomeno sociale caratteristico del periodo ellenistico: l’urbanizzazione. Questa fu particolarmente intensa in Asia minore, dove gli agglomerati urbani contribuirono alla diffusione della cultura e del modo di vivere greci. Le nuove città, che spesso conservavano il nome del monarca fondatore, sono i centri del potere, ospitano la residenza del re con tutta la corte ad essa legata, il ginnasio e le Scuole fi losofi che, cuore pulsante della vita culturale ed artistica; l’Agorà muta il suo signi-fi cato originario: da spazio riservato alle assemblee politiche e popolari, diventa esclusiva-mente luogo di incontro e di commercio.

Importantissima fu Pergamo, città voluta dalla dinastia Attalide per rivaleggiare con le grandi capitali dell’Oriente, in primis Alessandria d’Egitto. Pergamo ospitò una famosa biblioteca, degna di competere con quella alessandrina, una famosa scuola di retorica, una splendida collezione di sculture all’interno del palazzo reale, i migliori artisti ed arti-giani dell’epoca, e divenne il principale centro d’arte drammatica. Plinio il Vecchio così commenta: «Quando Attalo (il re che lasciò in eredità il suo stato a Roma) morì, i Romani cominciarono ad amare, e non solo ad ammirare, le meraviglie greche». Atene, scuola della Grecia, si trova così affi ancata da Pergamo, scuola di Roma.

Alessandria d’Egitto, in effetti, giocò un ruolo fondamentale nello sviluppo culturale dell’epoca ellenistica, tanto che la letteratura e l’arte fi orite in questo periodo vengono defi nite da alcuni Autori “alessandrine”. La città sull’estuario del Nilo, più fi orente rispetto agli altri centri ellenistici, ebbe un vantaggio: fu la capitale di un regno che, essenzialmente, durò millenni. In Alessandria le nuove tendenze urbanistiche, più effi cienti e pratiche, ma anche un po’ rigide e limitate, ideate dagli architetti di Mileto, si sposano con il gusto del monumentale, del grandioso, caratteristico dell’Egitto e dell’Oriente. In questa capitale troviamo accanto ad un capolavoro di ingegneria, qual è il famosissimo Faro, il primo tentativo di raccogliere in un unico luogo il sapere universale: la Biblioteca.

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Dal punto di vista economico i cambiamenti in questo periodo storico furono altrettanto notevoli. La Grecia continentale ha perso il ruolo dominante ed accentratore proprio dei secoli passati. Già nel IV sec. a.C. il declino è evidente: solo due centri insulari, Rodi, di cui abbiamo già parlato, e Delo, oltre a Corinto, mantengono un’importanza internazio-nale; tutte le attività si spostano progressivamente in Asia minore, in Siria ed in Egitto. È importante sottolineare che in questa epoca assistiamo allo sviluppo di decisive inno-vazioni tecnologiche nel campo della navigazione (ad esempio l’astrolabio, utilizzato per secoli dai naviganti per determinare l’altezza di un astro sull’orizzonte) e delle infrastrut-ture commerciali (ad esempio il nuovo porto ed il faro ad Alessandria d’Egitto), inoltre gli scambi furono facilitati dallo sviluppo dell’economia monetaria e dalle banche. Il Medi-terraneo è ormai troppo piccolo ed i mercanti si spingono ad est verso l’India e a sud, verso l’Africa nera, pur di soddisfare le esigenze di una clientela sempre più sofi sticata ed esigente. I mercanti creano le prime “associazioni di categoria”, ad esempio a Delo. Si crea una grande borghesia capitalista, ricca ed illuminata, amante del fasto, che certo non può più accontentarsi della vita colta, ma semplice ed austera della Grecia del V sec. a.C.

Come precedentemente accennato, in questo contesto socioeconomico, le trasforma-zioni avvenute nell’ambito fi losofi co furono ancora più radicali. Obiettivo dell’indagine conoscitiva non è più la rifl essione politica ed il sistema democratico sociale, ma l’indi-viduo, la sua felicità (in senso fi losofi co) e l’appagamento mediante la sapienza individuale.

Le principali correnti fi losofi che del periodo ellenistico furono lo stoicismo e l’epicu-reismo. Il primo, fondato nel 308 a.C. ad Atene da Zenone, prende il nome da stoà, “portico” in greco, ove Zenone impartiva le sue lezioni. Alla base di questa dottrina, fi losofi ca e spiri-tuale, vi è l’autocontrollo ed il distacco dai beni materiali, pensiero incarnato dall’atarassia (letteralmente “assenza di agitazione”), intesa come metodo per raggiungere l’integrità morale ed intellettuale. Lo Stoicismo infl uenzò il mondo Romano, oltre che importanti uomini politici e fi losofi greci e romani, da Seneca a Catone Uticense a Marco Aurelio.

Anche l’Epicureismo, fi losofi a fondata da Epicuro nel IV sec. a.C., ebbe numerosi adepti tra uomini di Stato, personaggi politici e pensatori; tra i tanti ricordiamo Lucrezio ed Orazio. Questa dottrina prevede il raggiungimento da parte dell’Uomo della liberazione dall’ansia e dalla paura vivendo una vita morigerata, scevra da ogni desiderio di ricchezza, oltre che etica.

Entrambe queste fi losofi e ellenistiche affermavano che la felicità non dipende da fattori esterni. L’uomo saggio è invulnerabile a qualsiasi disgrazia. Il fi ne è la tranquillità della mente, ed ogni attività, inclusa l’investigazione della natura, è ad essa subordinata. Il concetto non è nuovo tanto che lo stesso Aristotele disse: «Il Saggio cerca di raggiungere l’assenza di dolore, non il piacere».

La conseguenza diretta di queste profonde variazioni nel mondo politico, economico e fi losofi co fu un approccio culturale più scientifi co e razionale nei confronti delle Scienze, anche mediche e farmaceutiche.

� La Scienza in epoca ellenistica �

Prima di analizzare velocemente alcuni dei più importanti scienziati e medici di questo periodo storico, è necessario comprendere come i cambiamenti politici, economici e cultu-rali esposti in precedenza e che differenziano il periodo ellenistico da quello classico, inte-ressano in vario modo l’evoluzione della Scienza. In primo luogo è evidente che non siamo più di fronte ad una scienza esclusivamente greca, ma incontriamo studiosi provenienti da tutto il mondo conosciuto; ad esempio Zenone, il fondatore dello stoicismo, era di Cizio,

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città dell’isola di Cipro; Seleuco era babilonese, nato sulle rive del Tigri; Archimede, tra i più grandi matematici di tutta l’antichità, nacque a Siracusa, in Sicilia. Le conoscenze si diffondono ora in modo diverso, più rapido, e rimbalzano da un punto all’altro del Medi-terraneo sulla scia dei traffi ci commerciali.

Troviamo un’altra caratteristica sociale, di non secondaria importanza, della scienza ellenistica: lo sviluppo del mecenatismo regio. Alcuni scienziati iniziano a ricevere congrui aiuti dai sovrani ellenistici, in particolare dalle dinastie dei Tolomei e degli Attalidi. La ricerca mirata alla matematica ed alle scienze naturali trasse vantaggio dal mecenatismo dei sovrani di Alessandria; ad esempio il grande matematico, geografo ed astronomo Eratostene (Cirene 276 a.C. - Alessandria d’Egitto 194 a.C.) ricoprì la prestigiosa carica di direttore della Biblioteca di Alessandria. L’aiuto dei sovrani non si limitò solo all’a-spetto economico, ma fu anche pratico: analizzeremo più avanti gli studi di due grandi medici anatomisti, Erofi lo di Calcedone ed Erasistrato di Ceo, che ebbero la possibilità di eseguire gli studi su cadaveri provenienti dalle prigioni di Stato di Alessandria, chiaro esempio della lungimiranza dei Tolomei, unici in tutta l’antichità a permettere, anzi a favorire, ricerche su corpi umani. Certamente le tecniche d’imbalsamazione utilizzate da secoli in Egitto, e le relative conoscenze, furono di non poco aiuto agli studiosi di epoca ellenistica.

È vero che i sovrani non “sponsorizzarono” la ricerca in quelle che noi defi niamo “scienze applicate”, tranne chiaramente quella mirata al perfezionamento di macchine belliche e di strumenti per la navigazione.

È certamente valida la considerazione che i Tolomei attiravano studiosi e scienziati ad Alessandria per lo stesso motivo per cui raccoglievano i testi letterari nella biblioteca: aggiungere lustro ed importanza alla loro dinastia. Stesso pensiero è riferibile alla dinastia degli Attalidi a Pergamo.

Rimane evidente che la maggior parte di coloro che si dedicarono alla ricerca scientifi ca proveniva da famiglie agiate ed infl uenti; per fare un esempio, il già citato Archimede fu amico e parente di Ierone, tiranno di Siracusa.

Di non secondaria importanza è che molti studiosi integravano le loro rendite con l’in-segnamento o praticando la professione di medico o di architetto. Sicuramente vi furono architetti ed ingegneri ed ancor più medici che guadagnarono notevoli somme esercitando la professione.

Un fondamentale passo avanti nell’evoluzione della Scienza compiuto in epoca elleni-stica è la defi nitiva separazione delle scienze esatte e naturali dalla fi losofi a. Questa fu una conseguenza imposta dall’incremento delle conoscenze e delle problematiche emerse nei singoli settori della ricerca scientifi ca. Solo Teofrasto (m. ca. nel 290 a.C.), grazie alla sua versatilità, si può ancora permettere di interessarsi al mondo naturale e scrivere testi come Storia delle piante e Ricerche sulle piante, che hanno costituito un modello unico nell’anti-chità di studio delle scienze naturali, ed al contempo elaborare l’opera Caratteri morali ad alto contenuto fi losofi co ed etico. Gli scienziati che verranno preferiranno approfondire singole discipline, ormai lontane dall’antica matrice, la fi losofi a.

Altro tratto caratteristico del periodo ellenistico fu la produzione specialistica, priva di pretese letterarie, che assunse proporzioni ragguardevoli dal IV sec. a.C. Un numero di opere sempre maggiore fu pensato e scritto per un ristretto numero di “addetti alla materia”: furono testi tecnici, scevri da qualunque vezzo poetico.

Se vogliamo evidenziare un limite dello sviluppo della Scienza in questa epoca, dobbiamo ammettere l’incapacità di giungere ad una sintesi, così che molte idee e creazioni culturali rimasero allo stato di embrione.

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Principali scienziati Eratostene di Cirene (290-180 ca. a.C.) occupa un posto di rilievo tra gli eruditi alessan-

drini, se non altro per i suoi molteplici interessi (fu soprannominato “Pentatlo” dai contem-poranei). Eratostene si occupoò di fi losofi a, cronologia, matematica, musica e geografi a. A prescindere dal valore letterario delle sue opere, Eratostene ci ha lasciato in prosa numerosi trattati riguardanti le sue ricerche. I colleghi invidiosi gli diedero anche il soprannome “Beta”, per indicare che nei vari campi della sua attività restava sempre secondo. Questo giudizio è chiaramente iniquo. Fondamentali furono i suoi studi in materia di cronologia: egli gettò le basi di questa materia e la sua cronologia greca divenne un modello e rimase valida per tutte le epoche successive. Eratostene adottò per le epoche a lui più vicine le liste delle Olimpiadi, mentre per i periodi anteriori fece ricorso agli elenchi dei re di Sparta. L’autentica origina-lità di Eratostene furono comunque gli studi nelle scienze matematiche e nelle conoscenze geografi che. Gli si attribuisce all’unanimità il merito di aver gettato le basi della geografi a matematica. La scoperta più impressionante fu quella del calcolo della circonferenza della Terra. Conoscendo la distanza tra due luoghi, Alessandria d’Egitto e Siene, la misurazione delle ombre per mezzo dello gnomone (strumento da lui stesso inventato) diede come risul-tato la cifra di 252.000 stadi, equivalenti a circa 39.690 chilometri, con una approssimazione stupefacente al valore calcolato in seguito, che è di circa 40.000 chilometri.

La fortuna delle discipline matematiche durante il periodo ellenistico è legata senza dubbio ad altri due grandissimi studiosi: Euclide ed Archimede. Del primo si ignora la patria, ma ci sono giunti alcuni testi riguardanti la matematica, la geometria, l’algebra e lo studio della fi sica ottica. È quasi incredibile che i tredici libri degli Elementi scritti da Euclide ad Ales-sandria durante il regno di Tolemeo I Sotèr (quindi durante la prima metà del III sec. a.C.) siano rimasti in uso come testo scolastico fi no ai tempi moderni. Sfortunatamente sono andati perduti numerosi scritti, altri sono giunti a noi parzialmente nella versione araba.

Mente ancora più feconda fu Archimede (Siracusa 287-212 a.C.), secondo alcuni Autori il più insigne matematico dell’antichità, universalmente riconosciuto come il più grande ingegnere. Studiò ad Alessandria, ma passò in patria il resto della vita. La sua attività di ingegnere fu estremamente creativa: inventò la vite perpetua, utile per l’irrigazione agri-cola, e macchine per il trasporto di carichi pesanti. Collaborò attivamente alla difesa della sua città contro l’assedio dell’esercito Romano, guidato da Claudio Marcello, inventando straordinarie macchine da guerra e balistiche. Si narra che morì proprio durante l’assedio di Siracusa: nonostante l’ordine perentorio del generale Romano di risparmiare la vita al grande scienziato greco, un soldato lo trafi sse con la spada dopo che Archimede, total-mente assorto nei suoi calcoli, si era rifi utato di rispondere per tre volte all’intimidazione del milite che gli chiedeva il nome. Di Archimede ci sono giunti numerosi scritti, conside-rati tra i capisaldi della matematica e della fi sica antica; soprattutto egli va ricordato per la misurazione della circonferenza mediante il valore di π,26 la determinazione del peso specifi co dei corpi, il principio idrostatico, tutt’oggi chiamato con il suo nome, la ricerca del centro di gravità dei corpi ed i meccanismi delle leve.

Alcune tra le più grandi intuizioni della Scienza Alessandrina interessano l’Astronomia. Aristarco di Samo (310-230 a.C.) fu il primo ad ipotizzare un sistema eliocentrico in tutta la sua purezza: il concetto che il sole e le stelle rimangono fi ssi mentre la Terra e gli altri pianeti compiono un percorso circolare attorno ad essi era troppo audace per gli scienziati coevi. Il sistema geocentrico era troppo radicato nel pensiero dell’epoca, e la concezione

26 Archimede riteneva che corrispondesse a 3,1419.

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aristarchea fu combattuta per secoli e riuscì ad affermarsi solo agli albori dell’età moderna, dopo quasi due millenni, con la riscoperta della cosmologia eliocentrica da parte dell’astro-nomo polacco Nicola Copernico (1473-1545 d.C.).

Molti Autori individuano in Ipparco di Nicea in Bitinia (metà del II sec. a.C.) il più grande astronomo dell’antichità. A lui dobbiamo l’invenzione di vari strumenti tra cui l’astrolabio, la scoperta della processione degli equinozi e le eclissi, la catalogazione di oltre 800 stelle con l’indicazione della loro latitudine e longitudine celeste, l’applicazione del calcolo trigonometrico all’astronomia, alla geografi a ed alla cartografi a. Ipparco era certa-mente a conoscenza delle osservazioni babilonesi in materia astronomica: probabilmente tra gli studiosi dei due popoli vi fu lo scambio delle reciproche conoscenze.

Un accenno, tra i tanti grandi studiosi di età ellenistica, meritano Apollonio di Perge in Panfi lia, attivo verso il 200 a.C., che elaborò la teoria delle sezioni coniche, e Ctesibio, vissuto ad Alessandria d’Egitto sotto Tolomeo II Filadelfo. Sono attribuite a Ctesibio l’in-venzione della pompa da incendio e l’organo idraulico, il perfezionamento dell’orologio ad acqua e l’intuizione delle potenzialità dell’aria compressa. L’impiego della forza del vapore dimostra che durante l’epoca ellenistica si arrivò ad un passo da invenzioni di grandissima portata sociale, che avrebbero rivoluzionato l’economia. È da tenere presente che la possi-bilità di utilizzare a basso costo, fi no all’estremo, la forza lavorativa dell’uomo smorzava ogni forte stimolo allo sviluppo della macchina. Inoltre gli interessi dei depositari delle conoscenze tecniche utilizzabili per questo balzo erano spesso rivolti alla conoscenza pura ed astratta. Questi sono i motivi essenziali per cui durante l’Ellenismo lo sviluppo tecnico fu mirato soprattutto al servizio dell’arte militare e della medicina.

Anche nel campo delle scienze mediche furono compiuti progressi fondamentali durante il periodo ellenistico. Gli insegnamenti di Ippocrate, raccolti nel famoso Corpus Hippocraticum, la cui datazione risale al periodo compreso tra il 430 ed il 300 ca. a.C., serviranno come modello ai medici per secoli, fi no all’arrivo di Galeno, che diede un altro decisivo contributo alla Scienza medica. Gli studiosi di età ellenistica ebbero quindi come riferimento il percorso indicato da Ippocrate: la raccolta e l’analisi dei dati e la succes-siva elaborazione di teorie generali che avvalorassero e spiegassero razionalmente le tesi espresse. Ippocrate non fu certamente uno scienziato ellenista, ma infl uenzò in maniera decisiva il pensiero scientifi co delle epoche successive, in particolare la Scuola empirica, sorta ad Alessandria d’Egitto nel III sec. a.C. L’empirismo, concezione che fu ripresa ed approfondita in età moderna da fi losofi quali Ruggero Bacone, Hobbes e Locke, pone nell’esperienza la fonte ed il criterio di validità di ogni conoscenza. Fondatori di questa Scuola furono Filino di Coo e Serapione di Alessandria, che vissero tra il 270 ed il 220 a.C. L’esponente più illustre fu Eraclide di Taranto, attivo tra la fi ne del II sec. e l’inizio del I sec. a.C., acuto osservatore e prolifi co autore di materie mediche. Le sue opere non ci sono giunte, ma Galeno certamente le analizzò e riportò che Eraclide fu attratto particolarmente dallo studio dei veleni, tanto che, per testarne gli effetti, non avrebbe esitato ad assumere delle microdosi di alcuni di essi.

Facendo un passo indietro, troviamo nella prima fase dell’Ellenismo due grandi medici: Erofi lo di Calcedone ed Erasistrato di Iulide a Ceo. Entrambi diedero vita a scuole di grande importanza e contribuirono a notevoli progressi nel campo della medicina, in parti-colare dell’anatomia. Il primo si dedicò allo studio del cervello e fu il primo a considerarlo come sede del pensiero e della sensibilità, abbandonando la dottrina aristotelica che iden-tifi cava nel cuore l’organo centrale. Erofi lo sviluppò le osservazioni fatte dal suo maestro Prassagora sulle pulsazioni, e giunse a differenziare i nervi motori da quelli sensitivi.

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Erasistrato studiò in particolare il sistema circolatorio, riuscendo a distinguere le arterie dalle vene; secondo le sue teorie, in queste ultime scorreva effettivamente il sangue, mentre le arterie erano deputate alla diffusione dello pneuma, ossia l’essenza vitale. In questo modo egli si precluse la possibilità di scoprire la reale circolazione del sangue. Ciò non sminuisce i notevoli risultati raggiunti da Erasistrato, che fornì una precisa descrizione dei vasi polmo-nari e delle valvole cardiache: egli giunse a specifi care che l’arteria polmonare assomigliava ad una vena mentre la vena polmonare somigliava ad una arteria. Erasistrato gettò le basi dell’anatomia patologica, ricercando nelle alterazioni anatomiche le cause di numerose patologie, dalla pleurite alla pericardite. Il grande medico di Ceo, che secondo Plinio il Vecchio era nipote di Aristotele, elaborò una teoria secondo la quale il sangue, una volta procurata una ferita, passa dalle vene alle arterie e, spinto in periferia dallo pneuma prove-niente dal cuore, determina non solo uno stato infi ammatorio, ma anche la reazione della febbre. Estremamente attuali sono i principi terapeutici proposti da Erasistrato, i quali si basano su norme dietetiche ed attività fi sica, concetti peraltro già noti in quanto facenti parte degli insegnamenti della Scuola Medica Ippocratica. Il grande Ippocrate (460-370 a.C.) raccomandava l’importanza delle norme alimentari e comportamentali che ai nostri occhi possono sembrare banali, quali l’alimentazione varia e leggera, l’attività fi sica mode-rata e costante, ma radicalmente innovative per quel periodo.

Dal punto di vista della tecnica farmaceutica è doveroso sottolineare che, sebbene ancora non si conoscessero i concetti di punto di fusione e di prodotto di solubilità, già a quei tempi si prediligeva un eccipiente rispetto ad un altro in base all’esperienza ed all’os-servazione. Nel II sec. a.C. i nostri Padri farmacisti avevano a disposizione vari tipi di oli vegetali (estratti ad esempio dall’olivo, dal sesamo, dal mandorlo, dalla palma; addirittura alcuni Autori, tra i quali lo stesso Nicandro di Colofone, distinguevano diversi oli di oliva ottenuti da varietà e metodiche di raccolta differenti e di grasso animale, principalmente dai bovini, dagli ovini o dai suini) e, di conseguenza, sceglievano l’eccipiente più appro-priato in funzione delle caratteristiche delle sostanze attive necessarie alla specifi ca prepa-razione, fermo restando le proprietà medicamentose insite nell’eccipiente stesso.

Grande valore, sia dal punto di vista tecnico che terapeutico, fu dato alle soluzioni saline. L’acqua di mare, che ai tempi doveva essere certamente meno inquinata rispetto ai giorni d’oggi, era ritenuta avere proprietà medicamentose e disinfettanti e quindi era impiegata frequentemente per diluire i principi attivi di origine minerale e vegetale, oltre che per lavaggi e bagni terapeutici.

Durante il periodo ellenistico, le conoscenze farmaceutiche non riuscivano a distinguere perfettamente tra Principio Attivo ed eccipiente; è il caso del latte e del miele, ma anche dell’aceto e del vino, sostanze alle quali si attribuivano proprietà medicamentose, ma che, allo stesso tempo, erano frequentemente utilizzate per veicolare altri principi.

Abbiamo visto che Eraclide si interessò in modo particolare allo studio dei veleni, ma egli non fu l’unico a perseguire tali ricerche in epoca ellenistica. Facciamo un particolare approfondimento su due fi gure, differenti da molti punti di vista, ma che, a nostro parere, possono costituire un riferimento per capire alcuni aspetti peculiari della cultura in questo periodo: Mitridate VI Eupatore, re del Ponto, e Nicandro di Colofone, poeta didascalico alessandrino.

Mitridate VI ed il Mitridato

Mitridate VI, noto anche con l’appellativo “il Grande”, fu re del Ponto dal 120 a.C. alla sua morte, avvenuta nel 63 a.C. È ricordato per essere stato uno dei più formidabili

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ed indomiti nemici della Repubblica Romana; egli costrinse a ben tre guerre Roma, scon-trandosi con alterne fortune con alcuni tra i più grandi condottieri romani: Lucio Cornelio Silla, Lucio Licinio Lucullo e Gneo Pompeo Magno. Non è questa la sede per analizzare il corso delle Guerre mitridatiche, sebbene sia rilevante ricordare che Mitridate si propose come campione della causa greca, l’unico in grado di sottrarre i Greci al giogo Romano; egli nutrì l’ambizione di espandere il suo regno dal Mar Nero all’Anatolia, dalla Bitinia alle isole del Dodecanneso. Uomo di grande spessore politico e di grande cultura (è ricor-dato anche per la fenomenale memoria e la sua poliglossia: Plinio il vecchio narra che «... regnò su ventidue nazioni amministrò la legge in altrettante lingue senza bisogno di interprete ...»), in questa sede lo vogliamo ricordare per il suo interesse nei confronti dello studio dei veleni. Aiutato dal suo medico personale Crateua (autore peraltro di un interessante erbario con commento), Mitridate elaborò e mise in pratica una teoria che ancora oggi porta il suo nome: mitridatismo. Il re del Ponto studiò e, a quanto risulta dagli storici che riportarono la sua fi ne, da Appiano d’Alessandria a Cassio Dione ad Aulo Gellio, riuscì a rendersi immune ai veleni. Certamente non doveva mancare il coraggio a questo sovrano che osò sfi dare i Romani ripetutamente inseguendo il sogno che fu di Alessandro; egli volle acquisire l’immunità ai veleni più utilizzati in quel periodo grazie all’assunzione di piccole dosi crescenti degli stessi. Mitridate mise in pratica questo stratagemma per difendersi da possibili attentati, ma, dopo essere stato battuto nell’86 a.C. da Silla, nel 69 a.C. da Lucullo e nel 66 a.C. da Pompeo Magno e tradito dal fi glio Farnace, decise di togliersi la vita. Gli storiografi dell’epoca narrano che, dopo essersi somministrato il veleno (immediatamente fatale per le fi glie che avevano implorato il re di assumerlo prima di lui) e aver constatato il mancato effetto, Mitridate il Grande chiese a Bituito, un uffi ciale dei Galli al suo servizio, di trafi ggerlo con la spada. Riporto le commoventi parole pronunciate dal sovrano, traman-date da Appiano d’Alessandria:

Ho avuto gran servigi dalla tua arma usata contro i nemici, ora avrò da essa un vantaggio ancora più grande se mi ucciderai e mi risparmierai dall’essere condotto prigioniero a Roma. Benché io mi sia prevenuto contro tutti i veleni che uomo possa ingerire, non mi sono mai prevenuto contro l’insidia domestica, che è sempre stata la più pericolosa per i re: il tradimento dell’esercito, dei fi gli, degli amici.

Bituito subito dopo rese al sovrano il favore che lui desiderava.A Mitridate VI si attribuisce la creazione di un antidoto universale, contenente oltre

90 Principi Attivi, passato alla storia con il nome di “Mitridato”, e che in epoche succes-sive fu preso a modello per l’elaborazione della famosa Teriaca. Questa formulazione, più volte modifi cata ed arricchita (ad esempio Andromaco, medico personale dell’imperatore Nerone, aggiunse la carne di vipera, principio attivo insostituibile a suo parere), ha goduto per secoli di una notevole fama come rimedio universale.

Nicandro e la Theriakà

Ricordiamo il poeta Nicandro di Colofone per le sue opere Theriakà (Sugli animali vele-nosi e relativi antidoti) ed Alexipharmaka (Sui veleni vegetali, minerali e d’altra natura e relativi antidoti). Questi due poemetti didascalici in esametri sono a noi giunti integri e, sebbene siano ritenuti da alcuni Autori scritti in maniera pedante e banale, sono ricchi di descrizioni naturalistiche curiose, a volte anche molto fantasiose, oltre che di ricette mediche.

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Tra gli esempi più curiosi citiamo una ricetta contro l’avvelenamento da morso di serpenti:

� Togli le sottili membrane dal cervello di un pollo domestico, altre volte tritura fi nemente del basilico selvatico e dell’origano o taglia dal fegato di un cinghiale il lobo più alto che cresce dalla tavola e inclina verso la cistifellea e verso le porte. E dopo aver tagliato tutti questi ingredienti insieme o separatamente, bevili in aceto o in vino; ma con il vino seguirà un migliore effetto terapeutico.

È possibile affermare che proprio la Theriakà di Nicandro sia la più antica opera esistente su i rischi determinati da morsi e punture di animali e sulle possibili cure ai loro veleni.

Interessante ricordare che nella Biblioteca Nazionale di Parigi è conservata una copia dei testi di Nicandro dell’XI sec. d.C., derivata da modelli illustrati molto più antichi. La Theriakà e l’Alexipharmaka conservate in Francia riportano importanti riferimenti per la storia iconografi ca dei codici farmaceutici; sono corredate infatti da numerose immagini di eleganti fi gure umane, zoologiche e botaniche, che conferiscono all’opera un incredibile fascino ed originalità.

Nicandro di Colofone nacque probabilmente intorno al 180 a.C. e fu sacerdote eredi-tario del dio Apollo e quindi poeta. Egli fu attivo presso la corte di Attalo III: il re di Pergamo fu grande conoscitore di veleni e ripetutamente sperimentò le proprie conoscenze sui suoi schiavi.

Per comprendere l’importanza dei poemi di Nicandro è necessario fare riferimento al ruolo rivestito dalla iologica (Scienza dei Veleni, da ιóς: “tossico”, “veleno”) durante l’epoca ellenistica. Molti sovrani del periodo incentivarono le ricerche mediche e farma-cologiche e, proprio per cautelarsi da possibili avvelenamenti, promossero lo studio di antidoti e panacee. Oltre ai già citati Mitridate VI Eupatore ed al re di Pergamo Attalo III, ricordiamo il re di Macedonia Antigono Gonata (320-240 a.C.) ed il re d’Egitto Tolomeo IV (240-205 a.C.), tutti affascinati dalla scienza dei veleni.

Per quel che riguarda le precedenti produzioni alle quali può aver fatto riferimento Nicandro, a lungo si è pensato che la sua fonte principale fossero gli scritti di Apollodoro Iologo di Alessandria. Ciò non è esatto in quanto Nicandro certamente deve aver letto anche le opere degli allievi di Apollodoro, come Stratone e Apollonio di Menfi , che molte ricerche dedicarono in questa direzione. Altro importante precedente per il nostro Autore deve essere stato Numenio di Eraclea (ca. 250 a.C), medico, fi glio di Dienclese, medico anch’egli noto per gli scritti di dietetica e per i fantasiosi rimedi contro il mal di mare e le nausee della gravidanza. Più volte Nicandro fa riferimento ad antidoti studiati da Numenio nella sua Theriakà.

Il poeta di Colofone ebbe a disposizione testi quali la Theriakà di Filino (prima metà del III sec. a.C.) e Sugli animali velenosi di Andrea (ca. 220 a.C.). Come i precedenti in versi, Nicandro probabilmente attinse alla Theriakà di Numenio di Eraclea e al poema Dei serpenti di Metrico. Sfortunatamente nessuno di questi scritti è a noi giunto integro. È a questo punto evidente l’importanza dei poemi di Nicandro, che ebbero una vasta eco ed una indiscutibile infl uenza su tutti gli scienziati che si interessarono successivamente all’an-tica scienza dei veleni e dei loro antidoti.

Analizziamo brevemente il testo della Theriakà, componimento di 958 esametri. Dopo un breve proemio in cui si dedica l’opera ad Ermesinatte e in cui si spiega il contenuto al lettore, Nicandro apre la trattazione vera e propria con raccomandazioni di carattere gene-rale, illustra la possibilità di evitare il morso dei serpenti, ragni e scorpioni con le fumiga-zioni a base di sostanze di odore sgradevole e penetrante (ad esempio lignite, zolfo, Nigella

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nera, Galbano), con la preparazione di giacigli con piante dall’aroma repulsivo (ad esempio Laburno fetido, Agnocasto e Menta, che ci lascia perplessi) oppure ungendosi il corpo con preparati dall’odore nauseabondo, nel caso si debba dormire all’addiaccio. Segue una ampia sezione dedicata alla descrizione degli animali pericolosi; si trattano quattordici serpenti velenosi, dall’aspide alla vipera. Dopo alcuni versi di collegamento, Nicandro comincia l’analisi dei rimedi semplici e composti atti a contrastare gli effetti dei veleni. Segue ancora una sezione riservata a ragni, scorpioni ed altri animali nocivi, dall’ape alla vespa alla sala-mandra alla murena marina. La Theriakà si chiude con la descrizione di terapie generali e di varie misure di emergenza, come l’applicazione di ventose e sanguisughe, la cauterizzazione o l’applicazione del succo di fi co sulla lesione. Negli ultimi versi troviamo la ricetta per la preparazione di un “rimedio per ogni forma di affezione”, una sorta di panacea.

Riportiamo il testo di Nicandro, nel quale ritroviamo specie vegetali ancora utilizzate ai nostri giorni accanto a elementi che suscitano la nostra ilarità.

Perché tu possa apprendere a fare un rimedio per ogni forma di affezione, ti sarà molto utile, quando avrai mischiato tutte le erbe insieme, che vi sia l’aristolochia e le radici dell’iris e del nardo, e quelle del galbano insieme a secchi piretri, e quelle della pasti-naca cretese, che guarisce ogni male. E della brionia nera, e insieme radici porose di peonia, scavata di fresco e frutti di elleboro nero, misto a schiuma di nitro. E versa inoltre cumino, un germoglio di enula insieme a scorza di stafi sagria. Grattugia una uguale quan-tità di semi di alloro, citiso, muschio equino basso e inoltre del ciclamino, dopo averlo raccolto. Metti succo di papavero splendente, semi di agnocasto tutt’intorno, balsamo, e inoltre semi di cinnamomo, sfondilo e una tazza piena di sale, mescola insieme anche caglio e granchio; ma il primo dovrebbe essere di lepre, l’altro dovrebbe abitare in fi umi pieni di ciottoli. E avendo messo il tutto in una cavità di mortaio assai grande, impasta triturando con pestelli di pietra. E subito versa sugli ingredienti secchi succo di caglio e mescola insieme; prepara pastiglie rotonde del peso di una dracma, determinando il peso in maniera precisa con bilancia e prendile in due cotili di vino, dopo aver agitato.

Questi versi possono essere considerati alla stregua del Mitridato o delle numerose ricette che saranno defi nite Teriaca nei secoli successivi.

Le forme terapeutiche, gli ingredienti vegetali, animali e minerali utilizzati per la prepa-razione dei rimedi occupano una buona parte dell’opera di Nicandro. Va evidenziato che i principi vegetali sono di gran lunga i più numerosi e che raramente l’Autore si preoccupa di fornire delle motivazioni farmacologiche sulla scelta di questo o di quel rimedio.

In alcuni casi l’appartenenza dei principi attivi alla sfera del simbolico o del sacro è evidente, ad esempio un valore magico di amuleto contro il morso dei serpenti è attribuito alla radice a fi ttone della carota e al trifoglio. Anche l’impiego di rimedi quali il cervello di pollo domestico, i testicoli di castoro o dell’ippopotamo, è da riferire ad un ambito più magico che scientifi co; certo sono elementi che fanno sorridere al giorno d’oggi. Sicura-mente buffa è la convinzione che anche lo sputo umano possa atterrire ed allontanare gli animali pericolosi e che quindi possa essere utilizzato come strumento di difesa.

È altresì vero che molti principi vegetali citati da Nicandro erano conosciuti per l’attività depurativa; esempi riconosciuti dalla moderna farmacognosia sono il ginepro, il sambuco e l’anice. Altre droghe erano e sono tutt’ora utilizzate per l’attività emetica (ad esempio il Ricino) o fortemente purgativa (Senna e Frangula). Alcune piante citate nella Theriakà di Nicandro hanno un elevato contenuto in tannini, ad esempio l’enula, l’iris, il cinquefoglie, ed erano impiegate per uso topico come astringenti. Anche l’impiego di specie dotate di azione antispasmodica (ad esempio l’agnocasto) risulta razionale al giorno d’oggi.

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Da un’analisi di tutti i rimedi consigliati da Nicandro viene ribadito il pensiero medico fondamentale di purifi care l’organismo del paziente mediante la stimolazione del vomito, la sudorazione, la minzione o la purga intestinale.

Più complessa è la comprensione del ruolo svolto dai rimedi di origine animale. Ad esempio Nicandro prescrive ripetutamente l’impiego di parti del cervo (ad esempio il midollo per la preparazione di un unguento, le corna per le fumigazioni): l’unico criterio nella scelta di questi ingredienti è da attribuire alla credenza di una sorta di antagonismo tra le due specie animali, cervo e serpente. Convinzione questa estremamente radicata presso gli Antichi, tanto da essere più volte citata da Dioscoride e da Plinio (addirittura questi credeva che i serpenti evitassero chi porta con sé un dente di cervo). Comunque il corno di cervo è stato utilizzato in diverse forme farmaceutiche sino alla fi ne del XVIII sec.

L’utilizzo del fegato o della testa di un serpente velenoso per curare l’avvelenamento causato dal morso della stessa specie di serpente porta quasi ad una considerazione degna delle moderne scuole di omeopatia: il principio terapeutico per il quale è considerato rimedio di un male la causa stessa che lo ha determinato («simila similibus curantur»).

Sono interessanti le raccomandazioni del nostro Poeta riguardanti le tecniche di prepa-razione dei rimedi. Ad esempio egli distingue, tra i cosiddetti eccipienti, varie qualità di vino (bianco, invecchiato ecc.), latte, aceto o più raramente acqua, scegliendo quelli più idonei, dal suo punto di vista, di volta in volta.

Curiosa, ma certamente pratica, l’idea di preparare preventivamente delle specie di compresse, ottenute mediante lavorazione in mortaio ed essiccazione degli ingredienti, da diluire in olio nel momento della necessità.

Possiamo concludere che nell’opera di Nicandro sono presenti un gran numero di elementi diversi, alcuni appartenenti alla tradizione magico-simbolica, altri suffragati dalle attuali conoscenze, altri, infi ne, di cui non si è potuto individuare l’origine, miscelati in maniera originale, che rispecchiano in qualche modo le caratteristiche della Scienza medica di epoca ellenistica.

� La medicina etrusca �

Fin dall’VIII sec. a.C. il Mediterraneo era un mondo, che oggi diremmo “globalizzato”, perché è vero che la competizione tra i popoli era molto accesa, ma tutti erano accumunati dal commercio che consentiva loro lo scambio di materie prime: ferro e piombo etrusco, grano e droghe esotiche egizie; olio, vasellame e vino pregiato greco; profumi ciprioti; vetro e stoffe di varie tinte fenicie. Questi scambi commerciali portavano ricchezza, ma anche esperienze, tecniche e cultura, un sapere, pur diversifi cato, ma propedeutico ad un costante comune progresso. Ad esempio, gli Etruschi erano in forte competizione con i Greci, eppure non sapevano rinunciare al vasellame corinzio od attico, particolarmente raffi nato, che copiosamente oggi troviamo nelle loro tombe. Roma stessa era sorta nelle immediate vicinanze del porto etrusco sul Tevere, dove approdavano regolarmente navi greche e fenicie. Queste comunanze commerciali, in qualche modo livellarono la cono-scenza e la cultura in genere, ma si dovrà aspettare il V sec. a.C. nel quale il paradigma culturale greco cominciò a primeggiare per esplodere infi ne nell’Ellenismo, che anche Roma apprezzò e fece proprio. Ma quando questo evento evolutivo avvenne, gli Etru-schi erano ormai politicamente assenti e di fatto non parteciparono da protagonisti al

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progresso culturale; per questo motivo la Conoscenza che ci hanno lasciato appare affa-scinante, ma arcaica.

Erodoto nelle sue Storie riporta che gli Etruschi guidati dall’eroe Tirreno giunsero dalla Lidia e si insediarono in un territorio che dal fi ume Tevere si estendeva sino alla valle Padana. Dionigi di Alicarnasso più tardi dirà, sbrigativamente, che sono autoctoni, Italici. Le teorie in realtà sono molteplici ma queste due oggi sono ritenute le più attendibili, pur lasciando ancora nel dubbio quali siano gli ascendenti degli Etruschi.

Questi giunsero (o presero coscienza di sé) in Italia nel XIII sec. a.C., ma è solo nel IX-VI sec. che rappresentano una potenza italica con precise mire espansionistiche, almeno per quanto attiene i commerci via mare. Tale esplosione di potenza era data da indubbie capa-cità imprenditoriali e commerciali, che hanno generato ricchezza e consentito loro un livello culturale tale da desiderare e concedersi una vita ordinata, elegante e piacevole: primeg-giarono nella pittura e nell’arte in genere; nell’edilizia e nella realizzazione di fi gure fi ttili;27 costruirono acquedotti, segno di grande civiltà; drenarono zone paludose. Furono formida-bili navigatori, ma anche coltivatori ed allevatori in una terra (alto Lazio, Toscana, Umbria, Emilia) particolarmente fertile. Questa loro versatilità fece dell’Etruria una terra ricca e felice; Livio dirà di loro: «… Etruscos gentem Italiae opulentissimam armis, viris, pecunia esse ...».

Come Popolo commise degli errori; non seppe approfi ttare del paradigma culturale e politico che giungeva dalla Grecia, rimanendo legato a quella “Etrusca Disciplina”28 – così la chiamavano – che voleva a capo della città-stato un re-sacerdote, lucumone, di estrazione strettamente aristocratica, che certo non voleva considerare le diverse esperienze politiche percorse dai popoli del Mediterraneo.

Altro grave errore strategico è stato quello di essere paghi del loro territorio, senza assi-curarsi di avere una autorevole presenza in tutto il territorio Italico; strategia politica che al contrario caratterizzò Roma. Fondarono qualche colonia in Campania ed a nord del Brutium (attuale Lucania), ma si dimostrò una strategia ineffi cace; di fatto queste furono fagocitate dalla più pressante presenza Greco-Italiota e Romana. La disastrosa battaglia navale di Cuma (474 a.C.) contro i Greci siracusani e successivamente la pressione Romana, li fecero scomparire già nel IV sec. come entità politica. Negli anni tra il 90 e l’88 a.C. Roma concesse loro, “ per fedeltà”, la cittadinanza Romana.

Gran parte dei loro costumi e delle loro esperienze furono assorbite da Roma; Servio Tullio, la gens Fabia, Pompeo, Mecenate erano di origine etrusca, vissero per la grandezza di Roma.

Riconoscersi esclusivamente nella “Etrusca Disciplina”, senza voler sperimentare altre esperienze politiche e sociali, fece sì che il loro livello culturale e sociale non conobbe i vertici di quello greco e così anche la medicina rimase di tipo teurgico, dove il medico-sacerdote fungeva da demiurgo tra il “paziente” ed il dio preposto alla tutela dell’organo malato. Per le affezioni alla testa si pregava Tinia (il Giove greco), Giano, antico dio etrusco-romano era tutore del concepimento, Turan degli organi genitali; per pregare il dio si offriva prima o dopo la guarigione la riproduzione in terra cotta delle parti anatomiche da guarire o guarite. È interessante il ritrovamento di un utero, sempre fi ttile, offerto a Giano, all’interno del quale è visibile una pallina (feto) ad invocare il concepimento. Una

27 Splendidi ed insuperati sono: Apollo di Vejo e Latona recante in braccio Apollo infante, entrambe al Museo di Valle Giulia a Roma. Altrettanto splendidi sono i cavalli alati al Museo Etrusco di Tarquinia.

28 A Tarconte, fondatore di Tarquinia, mentre con l’aratro dissodava il suo terreno dal solco, balzò un giovane nell’aspetto, ma saggio nel pensiero, di nome Tagete, che gli rivelò l’Etrusca Disciplina. Questa dettava il sistema sociale e politico oltre che il modus vivendi.

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medicina quindi molto simile, anche sotto l’aspetto più propriamente terapeutico, a quella asclepiadea anche se più libera ed aperta di quella egizia, ma da considerarsi nella sua dottrina, di qualità pre-ippocratica, intesa nel senso più limitativo del termine.

Teofrasto parla della Etruria come di una terra «… ricca di farmaci …», ma forse intendeva dire di erbe medicamentose e propensa all’uso di preparati destinati alla cura del corpo; infatti gli Etruschi, pur non avendo precise nozioni anatomiche, erano molto attenti alla prevenzione: curando l’igiene personale, praticando attività fi sica, prendendo frequentemente bagni termali ed osservando una dieta non parca,29 ma curata e variata. Le droghe assunte per uso terapeutico erano quelle tipiche che ricorrono nelle farmacopee del Mediterraneo: Finocchio, Alloro, Timo, Pino aghi, Camomilla, Rosmarino, Cavolo, Aglio, il Papaver rhoeas, Miele, il vino30 sia come farmaco diaforetico che come solvente, ma anche la limatura di ferro contro le anemie. Le erbe medicinali autoctone sopra ripor-tate sono di ampia maneggevolezza, come dire esenti da controindicazioni; questo lasciava spazio ad una medicina demoiatrica, familiare, empirica, praticata dal “pater familias”che somministrava pozioni ai familiari ed elevava preghiere. Il Colchico, Nardo, Bosso, Salice, Felce maschio sono droghe autoctone in Etruria, ma con un più elevato indice di tossicità, pertanto venivano prescritte dai medici-sacerdoti. Non sappiamo se preferissero la prescri-zione di farmaci semplici o composti, in ogni caso i solventi erano sempre acqua, vino, olio, aceto. Per i preparati ad uso esterno: grassi animali, olio e farina di cereali, quest’ultima per i cataplasmi. Gli strumenti del laboratorio? Il mortaio, recipienti vari, qualche rara fi ala fenicia in vetro, piastre e spatole per lavorare gli unguenti; comunque lo immaginiamo, meno attrezzato di un laboratorio egizio, cipriota o greco.

Gli Etruschi furono però esperti chirurghi (così come lo saranno i Romani), come testimoniano numerosi reperti e strumenti quali coltelli di varie misure e fogge, cauteri, pinze. Si distinsero anche per la loro perizia nelle tecniche odontoiatriche; lo dimostrano le numerose ed ingegnose protesi dentarie ritrovate, che per la loro precisione, funziona-lità e resistenza all’usura, destano ancora stupore ed ammirazione. La loro abilità nella lavorazione dell’oro31 in forma di piccoli granuli fu propedeutica per la lavorazione delle protesi dentarie. Queste venivano realizzate con vari strumenti: crogiuoli, pinze, saldatori, piccole incudini e, non deve sorprendere, trapani32. I reperti trovati ci mostrano lamine d’oro impiegate per unire tra loro i denti che presentano mobilità e quindi fl essibili e resi-stenti alla masticazione; ma anche veri e propri ponti volti a sostituire i denti mancanti. Questi non potevano essere estratti da cadaveri, vista la sacralità del defunto ed allora venivano ricavati da denti animali, per lo più vitello e bue, sagomati in modo da adattarsi adeguatamente alla bocca del paziente; anche in questi casi la protesi veniva legata ai denti superstiti mediante fasce d’oro.

Oggi è possibile ammirare questi esemplari di protesi dentarie anche presso i musei di storia etrusca di Roma, Civitacastellana, Tarquinia, Volterra.

Tarquinio Prisco, quinto re di Roma di padre greco, ma nato a Tarquinia, fu il fonda-tore della cultura etrusco-romana ed egli stesso fu attento osservatore del mondo vegetale

29 Posidonio d’Apamea scandalizzato dagli etruschi ripeteva: «… e pensare che apparecchiano due volte al giorno!».

30 La parola “Vinum” è un termine etrusco adottato in seguito dalla lingua latina, deriva dal Falisco “Vinom”.31 Gli Etruschi furono valenti orafi , ma lavorarono con grande raffi natezza anche il ferro ed il bronzo.32 L’invenzione del trapano risale al periodo Neolitico, quando la trapanazione dei denti veniva eseguita a

scopo terapeutico, usando un trapano rudimentale presumibilmente in legno dotato di idonea punta di selce ed azionato mediante apposito archetto.

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e volle riportare le sue osservazioni nell’Ostentarium Arborium Etruscum33 dove parla di piante infauste, ma anche di quelle ritenute terapeutiche, segno dell’interesse allo studio della “fi toterapia”. Inoltre attento alla Sanità34 di Roma, promulga leggi sanitarie ed invia una commissione di studiosi a Delo per invocare la protezione di Apollo, ma anche per apprendere provvedimenti contro la pestilenza che in quel momento ammorbava la città. Stessa cosa fece Servio Tullio, suo successore, mandando ambasciatori a Crotone per apprendere nozioni mediche. Queste due iniziative dimostrano l’attenzione per la Sanità, ma anche quanto nel VII sec. a.C. fossero conosciuti ed apprezzati questi centri medici.

Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio imposero ai rudi Romani di razza latina e sabina la cultura, la liturgia etrusca, le capacità edili, la cura per l’igiene del proprio corpo, ma per un vero interesse verso la medicina, i Romani dovranno attendere la conclusione della seconda guerra punica.

� La medicina romana �

Prendiamo in considerazione la Comunità Romana successiva al 509 a.C., momento nel quale con forte determinazione le tre tribù dell’Urbe decisero di costituirsi in Repubblica. Evento politico importante, non solo dal punto di vista istituzionale, ma anche perché afferma che tutti i cives pur di diversa origine, latina, etrusca e sabina, si devono ricono-scere in un unico popolo con una propria comune volontà. Certo gli Etruschi avranno contribuito con iniziative commerciali, con tecniche edili più raffi nate, con uno stile di vita più ricercato, i Sabini con la loro bellicosità, i Latini con il loro innato pragmatismo e stoicismo. Zenone di Cizia predicherà il pensiero stoico solo nel III sec. a.C., ma nei Romani anche della prima Repubblica, l’accettazione degli eventi, qualunque fosse la loro conclusione, faceva parte del loro stile di vita al quale, per somma virtù, si doveva parte-cipare senza piegarsi a debolezze o particolari emozioni, mostrando forza e sopportazione per gli eventi avversi.

Anche la malattia era un evento avverso che si sarebbe verifi cato inesorabilmente più volte nella vita; non rimaneva quindi che rivolgersi al dio con un sacrifi cio e “concordare” con lui la guarigione; questo dopo che il pater familias aveva propinato al suo familiare malato il farmaco da lui ritenuto specifi co, comportamento medico che aveva imparato da suo padre. Veniva quindi osservata una medicina teurgica praticata secondo le antiche tradizioni.

Il civis Romano aveva con gli dei un rapporto franco, verrebbe da dire “utilitaristico”, questo grazie al fatto che, ritenendo di avere lui stesso un comportamento morale verso la sua famiglia e nei riguardi della Res Publica, non aveva bisogno di elevare preghiere implo-ranti il perdono, accettava gli dei come entità superiori, tutori di tutto ciò che all’uomo appare ed accade.

Era cosi variegato il pantheon Romano che ogni cosa vivente o inanimata aveva la sua ninfa od il suo “genio” protettore, a tutela di una fontana, di un confi ne, di un letto nuziale. Da ricordare ancora che Roma ed i suoi cives, nel loro momento aurorale, non avevano

33 Le notizie sugli Etruschi a noi pervenute sono riportate nelle opere di Catone, Varrone, Columella, Saserna. L’Opera “magna” sulla storia etrusca Tirrenikà fu scritta in venti volumi dall’imperatore Claudio, ma è andata perduta.

34 Chi scrive, usa il termine “Sanità” se riferito ad una nazione, città, comunità. – Salute – se riferito alla singola persona.

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particolari commerci diretti con i popoli del Mediterraneo; questo limitava il loro orizzonte e li costringeva ad un rapporto arcaico con il sacro, con tutto ciò che ne conseguiva.

Con questi convincimenti, stoico-teurgici, il Romano affrontava la malattia invocando i suoi dèi prischi, quelli più propri alla malattia o, in seguito, quelli che verranno assorbiti dalle altre culture mediterranee. Quindi invocheranno Giano come dio del concepimento, Bona Dea per la fecondità, Mater Matuta per una nascita senza complicazioni, ma aiutata in questo da Stimula, capace con il suo intervento di regolare le contrazioni uterine. A questi si affi ancavano dei minori, come Juturna, Fauno, Rumina, tutrice di un abbondante allattamento, ed ancora Pomona che, oltre a concedere frutti abbondanti, propiziava la raccolta delle erbe medicinali al pater familias, erborista ante litteram. Questo pantheon di dei italici aviti, successivamente verrà integrato con quelli Greci: Apollo, Esculapio, Igea, Panacea, Mercurio, tutori della Salute ed in epoca imperiale con tutti quelli che i popoli conquistati proporranno.

I Romani credevano, come molti popoli del Mediterraneo, ma ancora ai giorni nostri in qualche sacca di arretratezza, che la malattia fosse una punizione del dio e quindi più che pie invocazioni, suppliche e sacrifi ci non potevano offrire. Una volontà la espressero quando nelle XII Tavole (449 a.C.) vollero scrivere: «… salus populi suprema lex …», ad indicare che la “Res Publica”, e per essa il Senato ed i tribuni, doveva curare maggiormente, e possibil-mente con nuove tecniche, l’igiene della città, delle acque e dei bagni publici oltre a tutti quei provvedimenti adatti a prevenire malattie e pestilenze.35 Ma è solo nel 291 a.C., dopo tre anni di pestilenza, che – letti i Libri Sibillini – il Senato inviò dieci ambasciatori guidati da Quinto Ogulnio in Grecia presso il tempio-ospedale di Epidauro (il console Flaminino libererà la Grecia dall’occupazione macedone solo nel 196 a.C.) per ascoltare il responso di Esculapio e comprendere così come porre fi ne alla pestilenza. Non ci fu un vero e proprio responso, ma la leggenda narra che un serpente, simbolo del dio e della sua Arte, uscito dal tempio si diresse verso la nave romana e qui, acciambellato, giunse infi ne all’isola Tiberina, insula in fl umine nata, dove sbarcò scomparendo nell’isola stessa, ad indicare la sacralità del luogo. Lì i Romani costruiranno un tempio-ospedale dedicato ad Esculapio.36

Aldilà dell’aspetto mitologico, bisogna ricordare che Quinto Ogulnio era un tribuno, oggi lo defi niremmo “progressista”, che con l’aiuto del fratello Gneo, ma tra molte reti-cenze da parte degli ottimati,37 fece approvare appunto la Lex Ogulnia (287 a.C.), grazie alla quale ai plebei era consentito di accedere al Collegio degli Auguri e quindi alle cariche politiche. Questa sua propensione alle esigenze del popolo gli deve aver suggerito quanto importante fosse la Salus dell’Urbe e quindi di cercare di porre fi ne, con mezzi e scienza, alle sofferenze che l’epidemia portava; da qui la sua missione al tempio asclepiadeo di Epidauro. La missione non si risolse solo in invocazioni e sacrifi ci (serpente a parte), bensì, valutata l’importanza medica e sociale dell’ospedale e della sua organizzazione, si volle creare un centro medico che si prendesse cura dei malati, che tutelasse la sanità di Roma e che inferisse, cosa ancor più importante, principi sanitari di prevenzione.

Nonostante l’istituzione dell’ospedale pubblico, la Medicina rimase con le sue consuetu-dini teurgiche simili a quelle asclepiadee nella Grecia pre-ippocratica; in Roma l’affl usso dei medici greci inizierà dopo la conclusione (201 a.C.) della seconda guerra punica. Quindi

35 Le XII Tavole rappresentano un determinante progresso giuridico e politico, in quanto le leggi orali o consuetu-dinarie vengono scritte evitando così interpretazioni di parte. Riconoscono inoltre l’uguaglianza dei cittadini Romani di fronte alla legge. Saranno sempre vigenti e riportate nel Digesto dell’imperatore Giustiniano (533 d.C.).

36 Il tempio è stato eretto proprio dove oggi si trova l’Ospedale Fate Bene Fratelli.37 Gli ottimati sono gli aristocratici con diritto a ricoprire il ruolo senatoriale.

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53EVO ANTICO

il paziente, una volta ricoverato nel tempio-ospedale, oltre alle consuete norme igieniche, doveva osservare tre giorni senza bere vino, più un giorno di completo digiuno; a tutto ciò seguiva l’incubatio per mezzo della quale in sogno gli apparivano il dio tutore o le sue rivelazioni; l’interpretazione del sogno, se poco chiara, veniva affi data al sacerdote-medico che dichiarava la terapia e le norme comportamentali.

I Romani, pragmatici come sempre, credevano nell’intervento divino, ma meno ai sogni ed alle loro interpretazioni, buone per gli animi semplici. Tale sospettoso atteggiamento crebbe con l’elevarsi del livello culturale, tanto che nel 63 a.C. Cicerone nel suo De Divi-natione scriverà: «… et enim ad aegros non vates aut hariolos sed medicos solemus adducere …». I tempi sono cambiati, Ippocrate ha conquistato la medicina Romana, nonostante Catone maior, more maiorum, avesse poco prima defi nito il medico :«… nequissimus et indocile genus ...».

A Roma, negli ultimi decenni del III sec. a.C., la terapia era molto semplice e vedeva prescritte quelle erbe medicinali che la dea Pomona “indicava”, tipiche della campagna mediterranea; a ben osservare sono le medesime che ancora compaiono nei nostri testi di fi toterapia: Assenzio, Lauro, Ortica, Mirto, Ginepro, Menta, Noce, Mela Granata.38 Vera panacea era ritenuto il Cavolo (tanto magnifi cato da Catone), il quale aveva virtù alimen-tari, regolatrici della peristalsi intestinale e formidabile vulnerario. Molto usato era il vino,39 anche medicato con le erbe sopra menzionate. Veniva consigliata l’Aristolochia contro il morso dei serpenti, la cui effi cacia era data dal fatto – riteniamo – che in Italia solo la vipera è velenosa e raramente mortale. Droghe esotiche come il Papaver somniferum, la Cannella, il Cardamomo e tutte quelle che saranno presenti nella Farmacopea ellenistica ancora non fi guravano nella pratica medica di Roma, ma il dilatarsi degli orizzonti inevitabilmente aveva creato l’esigenza di tutelare la salute e, se possibile per un Romano, migliorare la qualità della vita. Comincia così a farsi strada il mercato delle piante medicamentose; infatti sulla sua bancarella lungo la via, l’Herbarius vende e consiglia le sue erbe; la Taberna Unguen-taria, più professionalmente vende unguenti, impiastri, farmaci semplici, aromi. Cicerone già parla di “Pharmacopola” (produttore e rivenditore di farmaci), Scipione l’Africano, molto curato nella persona, amava vestire alla greca, con grande scandalo di Catone, e quindi probabilmente si sarà rivolto al suo Myropola di fi ducia per ottenere un profumo cipriota.

I Romani vengono defi niti, se paragonati ad altre civiltà mediterranee, rozzi ed affatto acculturati, giudizio parzialmente vero anche se giustifi cabile. Quanto al suo livello cultu-rale va considerato che era un popolo giovane, senza una sua storia, proveniente essenzial-mente da pastori-guerrieri e quindi nella sua fase aurorale più attento alla sua sopravvi-venza che ad esteriorità considerate futili, anche se dobbiamo riconoscere loro la volontà e la capacità di darsi Leggi di elevato spessore politico e sociale, cosa per l’epoca innovativa e progressista ed ancora oggi fondamenta del Diritto moderno. Va considerato, inoltre, che già dal 493 a.C., appena sedici anni dopo l’istituzione della Repubblica, il popolo Romano dovette affrontare guerre aspre, con l’unico intento di difendere la propria sopravvivenza contro i popoli limitrofi , contro la temibile Veio,40 le tremende guerre sannitiche, quelle

38 Il melograno non è una pianta italica, come conferma la sua classifi cazione, Punica Granatum (Plinio affer-mava che i migliori frutti venissero da Cartagine). Il frutto è originario della Persia; la sua migrazione verosimil-mente è: Persia, Egitto, Grecia, Magna Grecia, Italia centrale.

39 Il vino stesso era ritenuto un effi cace farmaco. Nel costume della Roma repubblicana alla donna non era permesso bere vino, pena severe punizioni sino alla morte; solo in caso di malattia alla donna veniva sommini-strato vino tal quale o medicato.

40 Veio cadrà solo nel 396 a.C.

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tarantine che videro le legioni impegnate da Pirro re dell’Epiro, generale defi nito da Anni-bale “il Migliore”. Nel 264 a.C. cominciano le guerre puniche, sessantadue anni dopo Annibale verrà sconfi tto irrimediabilmente da Scipione a Zama.

Per Roma si apre una nuova era: concluse le campagne di carattere difensivo in territorio Italico e considerando che Filippo V di Macedonia si era mostrato vicino ad Annibale, il Senato inaugura una politica da molti defi nita “imperialista” attaccando il re macedone. A guerra fi nita, come sopra ricordato, il console Flaminino dichiara libera la Grecia dal giogo macedone di fronte ad una folla grata ed esultante. Ma i Greci non compresero la fortuna che era loro capitata ed in nome della presunzione ed arroganza si mostrarono proditorii nei riguardi di Roma. Il console Flaminino aveva studiato a Taranto quindi era portato, per sua educazione, ad ammirare la cultura greca; questo forse giustifi ca il suo munifi co gesto rivolto al popolo greco, ma questa volta il Senato, indignato dal loro comportamento,41 inviò il meno sensibile console Mummio che non soffriva affatto di timore reverenziale nei riguardi dei Greci; quindi, individuata in Corinto la città più riottosa, la rase letteralmente al suolo, uccise tutti gli uomini, rese schiave le donne. Da quel giorno la Grecia non si riprese più. Dopo un ultimo intervento di Silla diverrà partecipe dei destini e della civiltà di Roma.

Ma qualche cosa nell’animo dei rudi Romani stava cambiando: la tradizione vuole (vera o costruita) che il console Mummio vedendo Corinto bruciare piangesse, commosso tra il dovere verso Roma e ciò che la Grecia rappresentasse per il Pensiero, l’Arte e la Civiltà. (Una tradizione politicamente corretta.)

Questo excursus sulla storia delle campagne militari di Roma, pur in estrema sintesi, è solo per evidenziare il fatto che con un simile reiterato impegno, il popolo Romano altro non poteva fare che confi dare esclusivamente nelle sue stoiche virtù militari, non per insen-sibilità alla cultura, quanto per dedizione alla Repubblica.

Sono passati appena sei secoli da quando Roma “quadrata” era grande appena pochi jugeri di terra; ora il mare è “nostrum”, Pergamo e l’Egitto invocano la protezione del Senato, le coste iberiche e nord africane sono province Romane e l’Urbe è pronta a fare propria l’Arte in tutte le sue espressioni, anche quelle Mediche e Farmaceutiche.

� Graecia capta ferum victorem cepit �

Per la verità, prima del defi nitivo intervento del console Mummio, Perseo fi glio diFilippo di Macedonia fomentò una “guerra santa” chiamando a raccolta i Greci delle varie Poleis contro Roma, sempre più egemone nel Mediterraneo; questa, in risposta, mandò il console Paolo Emilio il quale sbaragliò le falangi della coalizione macedone ed ancora una volta si limitò a redarguire i Greci, ma portò con sé mille ostaggi: tra questi lo storico Polibio, istitutori, fi losofi , artisti e medici; molti di questi aprirono, nelle città italiche, scuole e “studi”.

Roma era ormai pronta per pensieri alati, l’“estetica” non era più un inutile esibizio-nismo, ma si stava trasformando in una esigenza.

Quanto alla Salute, ora, veniva curata con entusiasmo ed interesse per tre motivi: poter maggiormente godere delle gioie della vita, per comunicare agli altri effi cienza, per manife-stare uno status aristocratico o un censo elevato (paiono i nostri tempi).

41 I Greci costituirono la lega achea proprio quando Roma stava combattendo la terza ed ultima guerra punica. Forse reclamavano la libertà, ma più propriamente era in gioco per Roma e per la Grecia il dominio commerciale del Mediterraneo.

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Roma, a ben rifl ettere, rappresentava nel II e I sec. a.C. un interessante mercato per quanti avessero qualche cosa da offrire o da commercializzare. Per i tanti medici oltre che preparatori di farmaci e profumi, che le scuole greche ed alessandrine potevano proporre, fu una opportunità di lavoro e per quanto possibile di celebrità. Tra i tanti che giunsero a Roma dalla Bitinia, ma di Scuola alessandrina, vogliamo ricordare Asclepiade, che esercitò la sua arte medica confutando Ippocrate ed affermando come l’unica terapia dovesse consi-stere in un costume igienico, alimentazione compresa, e in qualche appropriato farmaco che, senza considerare gli umori corrotti, agisse ripristinando, non già l’eucrasia, ma un corretto equilibrio tra atomi che entrano nell’organismo e quelli che escono. Parole oscure per dire che una sana alimentazione, aria salubre (atomi che entrano) conferiscono una buona salute, sempre che gli emuntori (atomi che escono) funzionino correttamente; il tutto deve essere valorizzato con una vita sportiva e serena. Amava sintetizzare la sua medi-cina in: «cito, tuto et iucunde», aforisma che confortava i pazienti Romani: rapidamente, con sicurezza, e gioiosamente; anticipando così quelle che saranno le regole della Scuola salernitana del XII sec. d.C. Dietro quel suo pensiero si nascondeva forse non un inno-vatore, ma certamente un clinico di spessore che sapeva individuare la patologia e la sua eziologia; inoltre era un medico molto apprezzato per il suo fascino personale, ma forse anche perché prescriveva copiose coppe di vino che con la loro azione vasodilatatrice,42 dilatando i pori, facilitavano il fl usso degli atomi. Prescriveva inoltre vino miscelato con acqua di mare, massaggi, elleboro come depurativo e catartico; ammirato oratore ed amico di Cicerone, sapeva infondere al malato la serenità e la iucunditas necessarie per guarire.

Il continuo affl usso di medici era apprezzato dai cives, anzi stimolava in loro un maggiore interesse ed apprezzamento per l’Arte Medica che cominciò così ad essere considerata una professione, non più di formazione empirica, bensì un’Arte scientifi ca altamente meri-toria, tanto che Caio Giulio Cesare decretò di concedere la cittadinanza Romana ai medici che esercitassero in Roma, uffi cializzando così il loro ruolo. Questa decisione stimolò la presenza dei vari “Sanitari” nell’Urbe i quali giustamente, ognuno con le proprie espe-rienze e rifl essioni professionali, vollero fondare proprie scuole mediche, che infatti sorsero numerose: l’Organicista, l’Empirica, la Dogmatica, la Pneumatica, ognuna con una sua premessa fi losofi ca, anche se tutte infi ne confl uivano in una dieta igienica, nel farmaco purifi catore, nella attività fi sica.

Ancora va ricordato Temisone, fondatore della scuola metodista, il quale è passato alla storia per avere messo a punto lo sciroppo Diacodio, ne riportiamo la formula:

� Teste di Papavero (var. somniferum), Zafferano, Acacia, miele e vino.

Formula di sicura effi cacia se ancora la troviamo nella Farmacopea del dott. Baumé, maestro speziale di Parigi e dimostratore in chimica, edita nel 1788, il quale, pur apprez-zandola, ne propone un’altra semplifi cata:

� Teste di Papavero lb. 1 e cassonada (zucchero raffi nato) lb. 4

anche se il dott. Baumé dichiara infi ne di preferire lo sciroppo di Oppio realizzato con il suo metodo, dove l’estratto è ottenuto per digestione in acqua di fi ume: «… è ottimo quando è necessario istupidire ed acchetare i dolori interni, calma la tosse ...».

42 L’alcol ha una azione vasodilatatrice e quindi facilita la fuoriuscita di atomi da espellere. Oggi al vino, che è una soluzione idroalcolica, si riconosce una importante azione antiradicalica in virtù dei suoi polifenoli; contrasta inoltre le dislipemie.

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56 STORIA DELLA FARMACIA. DALLE ORIGINI AL XXI SECOLO

Con il moltiplicarsi in Roma di scuole e studi medici, la magra Farmacopea demoiatrica latina si moltiplicò importando tutte quelle droghe e materie prime che la Scuola alessandrina proponeva, ma quello che ci rimane diffi cile comprendere sono quei “neo-farmaci” prescritti, che oggi anche ai profani appaiono illogici ed inutilmente ripugnanti. L’unica spiegazione è che il medico, accettata l’elucubrazione per cui la tale assurdità fosse una valida terapia, una volta somministrata, costatava che il malato guariva; il medico ne menava vanto, miscono-scente della vis naturae medicatrix di ippocratica memoria. La cosa che appare sconcertante è che anche personalità di valore come Aulo Cornelio Celso le abbia riportate nella sua opera enciclopedica, tra le possibili terapie senza confutarle, in disprezzo al suo stesso pensiero: «… rationalem puto medicinam esse debere …» abbandonando i tempi di quando era «scientia rudis et vulgaria» (De Medicina, Proemio 2-74). Tra i farmaci improbabili riportiamo il fi ele delle pernici selvatiche per acuire la vista,43 fi ele di iena per gli ematomi, carne di vipera nelle ulcere gastriche, sterco di cane bianco seccato e triturato in casi di angina, rondini di nido tal quali o polvere di rondinotti sospesa in acqua mielata pratica terapeutica questa che, a detta dello stesso Celso, annoverava abili ed autorevoli sostenitori. Per fortuna dei suoi pazienti nel capitolo XXVI del IV libro sostiene: «… sed medicamentis uti nisi in vehementibus malis supervacuum est».

Questa pratica di pensare farmaci assurdi e ripugnanti comincerà a scemare solo dopo il XVII sec., quando la immobile tradizione medica lascerà il posto alla Ragione ed al Metodo.

Ad Aulo Cornelio Celso viene riconosciuto un posto di rilievo nella storia della Medi-cina e Farmacia, fu studioso e ricercatore, ottimo oratore, Romano appartenente alla aristo-cratica gens Cornelia e quindi vanto della intelligentia Romana e testimone dell’interesse che la Medicina destava in Roma. Nacque tra il 14 a.C. ed il 50 d.C. nei pressi di Verona, forse fu medico, certamente persona colta ed enciclopedica, volle fi ssare la sua ricerca nel lavoro De Artibus, opera in sei libri dove ha trattato: agricoltura, giurisprudenza, oratoria, arte militare, fi losofi a oltre che medicina; l’opera risulta emblematica e testimone dell’inte-resse culturale del suo momento. Resta il dubbio sul fatto se fosse medico o meno, perché non viene menzionato dagli storici, ma anche perché ha voluto trattare la Medicina in un contesto troppo ampio dove si parla anche di Arte Militare; inoltre, per quanto le sue osser-vazioni siano corrette ed interessanti, nella lettura particolarmente del De Medicina, libro IV,non convince: non si riesce a comprendere se sia un suo pensiero o una nozione appresa. Mostra una buona conoscenza dell’anatomia e, compatibilmente con il suo tempo, della patologia. Sconcerta con le pratiche mediche e la terapia, probabilmente la Conoscenza del momento non permetteva altro. Dalla lettura del libro IV possiamo vedere che molto usati erano i cataplasmi revulsivi e con le stesse fi nalità: i massaggi, suffumigi, bagni caldi e freddi alternati, esulcerazioni sulla cute operate con ferro rovente.44 Altre pratiche che ricorrono sono i clisteri, i salassi, e le incisioni sulle parti infi ammate ed infette per consentire alla noxa morbosa di drenare. Anche il vomito era ritenuto terapeutico;45 riportiamo una pratica terapeutica in caso di paralisi della lingua: «… mangiare molti ravanelli … deinde vomere».

43 Il fi ele animale era usato come lassativo ma particolarmente nella cura degli occhi; ricordiamo che nella Bibbia è riportato come l’Arcangelo Raffaele guarisca Tobia dalla cisposità agli occhi che lo rendeva cieco, prescrivendogli di cospargervi sopra il fi ele del pesce. Per questo motivo l’Arcangelo Raffaele viene ritenuto uno dei protettori dell’Arte Farmaceutica perché non opera un miracolo, ma prescrive un farmaco, appunto il fi ele del pesce.

44 Terapia ancora oggi praticata, solo per uso veterinario, defi nita “bottone di fuoco”. Serve per fare affl uire sangue (calore) sulla parte dolente e risolvere così la patologia.

45 Il vomito veniva ritenuto altamente terapeutico in quanto consentiva di espellere umori ritenuti dannosi. Veniva sollecitato ingerendo acqua tiepida con sale e miele o somministrando una pozione di Elleboro bianco o ancora per titillamento della gola con una piuma o bacchettina d’avorio.

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57EVO ANTICO

Le droghe più consigliate da Celso sono: il vino bianco e rosso, senape, isoppo, menta, timo, assenzio, ma anche fi ele di toro, castoreum,46 il Tetrafarmaco per massaggi, ed ancora per unzioni: oli e grasso vecchio. (Il Tetrafarmaco, di origine greca, era composto da: cera, pece, resina di pino e grasso di toro – o in sostituzione Lanolina. Lasciare fondere il tutto a fuoco tenue.)

Le forme farmaceutiche tradizionali, con una ricorrente prescrizione, sono: vini medi-cati, pastiglie, succhi, oleoliti, acetoliti.

A ben rifl ettere, meravigliarsi e criticare le terapie e le pratiche mediche dell’epoca augu-stea risulta improprio; non dobbiamo mai dimenticare che la Medicina e la Farmaceutica sono ancora agli albori, cosa che giustifi ca, almeno in parte, le incomprensibili ed impro-babili scelte.

Il merito di Aulo Celso è quello di averci tramandato la sua volontà di voler razionaliz-zare la Medicina, ma anche di avere elaborato una sintesi della medicina ellenistico-romana del I sec. d.C.; subito dopo verranno Dioscoride e Galeno.

Molti furono i medici che esercitarono in Roma nei primi decenni dell’Impero, ma tra questi sicuramente Dioscoride primeggiò per il suo vasto Sapere; apprezzato in seguito da Galeno, lo sarà ancora da quanti vorranno educarsi alla Scienza medica e farmaceutica. Di virtù eclettiche, nato in Cilicia nel I sec. d.C., compì i suoi studi in Grecia ed Alessandria. Seguì come medico militare le legioni, con grande interesse e curiosità per ciò che poteva osservare e studiare e questo arricchì ulteriormente la sua esperienza professionale, che volle raccogliere nella sua opera De Materia Medica. Scritta in cinque libri, questo suo lavoro fu testo di riferimento e consultazione per quindici secoli; scritta in greco fu tradotta in latino, in arabo e da questo ancora in latino in epoca medievale e poi umanistica.

Di testi enciclopedici ne furono scritti molti secondo il vezzo culturale dell’epoca, ma Dioscoride intuì la corretta stesura del testo; divise i libri in tre regni: vegetale, animale e minerale. Nel primo libro classifi ca gli oli, gli unguenti, spezie ed alberi; nel secondo gli animali, alcune loro parti, i diversi tipi di latte, di grassi e di miele; nel terzo e quarto le erbe, le loro droghe e radici; nel quinto il vino, bevande in genere e minerali. Inoltre, cosa particolarmente comoda per la consultazione del medico e farmacista neofi ta, tutto viene elencato a seconda della loro azione farmacologica. Descrive poco più di mille sostanze delle quali 813 piante medicinali,47 suggerisce 4780 utilizzazioni terapeutiche; un’opera indubbiamente imponente.

Apprezzato dalla intelligentia del suo tempo, fu da tutti ritenuto un grande farmaco-gnosta e preparatore di farmaci. Probabilmente lo fu, anche se rimane diffi cile comprendere quanto il suo lavoro sia originale o una semplice, pur attenta, osservazione dei tanti ottimi medici e rhizotomoi presenti nel mondo greco-orientale. L’opera sommamente apprezzata fu propedeutica ai futuri studi arabi, alla Scuola Salernitana ed utilizzata pedissequamente per tutto il Medio Evo. Oltre la consueta tecnica farmaceutica utilizzò molto la distillazione per ottenere oli essenziali ed il mercurio dal cinabro; l’“Oisypum” (“lanolina”, grasso rica-vato dalla lana di pecora, capace di emulsionarsi con l’acqua), che ha la caratteristica di non irrancidire; la Gomma Ammoniaca,48 solo per citare qualche sua originalità.

46 È la secrezione del castoro maschio al fi ne di attirare le femmine. Veniva molto usata nella terapia dell’epoca nelle varie forme farmaceutiche.

47 Di queste, dall’elenco riportato dal Conci, escluse quelle eduli; ne abbiamo contate 59 ancora utilizzate in fi toterapia.

48 La Gomma Ammoniaca è una gommo-resina ricavata dal Doreum Ammoniacum. Veniva utilizzata per la sua azione balsamica e come addensante nelle sospensioni; per uso esterno come revulsivo in impiastri.

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58 STORIA DELLA FARMACIA. DALLE ORIGINI AL XXI SECOLO

Quello che al solito lascia perplesso sono alcuni farmaci da lui descritti, decisamente improbabili, e ci si domanda allora come un genio dell’Arte Sanitaria potesse credere che il “fumo delle scarpe vecchie” faccia uscire i serpenti entrati nella bocca. Passi l’affermazione che il sangue di agnello possa guarire l’epilessia, ma che l’unguento preparato con la intera testa di una lepre guarisca la calvizie è contro ogni logica, così come lo zoccolo bruciato dell’asino e bevuto è ottimo per la montata lattea.

Senza nulla togliere a Dioscoride, rimpiangiamo il vecchio infuso di Camomilla.

� Aetas Galeni incipit �

Quando l’imperatore Cesare Augusto chiuse le porte del tempio di Giano promulgando la Pax in tutto l’impero, Roma pose fi ne alla sua aspirazione espansionistica e lentamente si trasformò in una idea satura di Valori, in una civiltà comune nella quale dalla Britannia sino alla Siria i popoli si riconoscevano nel Genius di Roma imperiale. Ci saranno ancora confl itti lungo i confi ni del nord-est o piccole rivolte come quelle giudaiche, ma di fatto venivano considerate come semplici operazioni di tutela o di polizia. La solidità dell’Impero, la sua prosperità, diffusero esigenze culturali e, con esse, tutte quelle proprie dell’uomo che vuole andare oltre i suoi bisogni più semplici.

Galeno nacque in questo felice momento storico, nel 129 d.C., a Pergamo sotto il prin-cipato di Adriano dove, sollecitato dal padre, iniziò i suoi studi di fi losofi a e di medicina. Molte erano le scuole a sua disposizione di anatomia, che tanto lo coinvolse, e di accademie mediche ispirate ai vari orientamenti (i dogmatici, gli empirici ed altri pensieri medici). Tutti lo interessarono, ma avvertì anche che il processo fi losofi co e medico iniziato con Socrate ed Ippocrate si era arrestato, ripetendo a volte con sofi smi schemi di epoche precedenti; la Cultura stessa gli parve che si fosse cristallizzata, paga del Pensiero dei grandi fi losofi e medici. Sentì, Galeno, la necessità di allargare i suoi orizzonti, di incontrare nuovi Maestri; per tutto ciò si trasferì a Smirne dove perfezionò ulteriormente gli studi di anatomia, ma anche di fi losofi a. Qui iniziò a delinearsi la personalità di Galeno, che per gli studi fi loso-fi ci preferì ricostruire il suo sapere dedicandosi alla lettura diretta dei testi di Alcmeone, Platone, Aristotele, Posidonio, Ippocrate; questa sua scelta didattica e formativa era frutto di un convincimento che, allontanandolo dalle diverse scuole, lo portò ad elaborare una sua sintesi, un nuovo paradigma con una “maieutica” giustifi cata da una nuova euristica e proprio in questa si esprimerà gran parte della originalità di Galeno.

Da Smirne si trasferì nella capitale della scienza e di quella medica in particolare, Ales-sandria, dove tutto confl uiva e dalla quale tutto si irradiava nell’impero. Dalle tante scuole alessandrine, anche specialistiche, certamente Galeno arricchì la sua professionalità, ma sempre più si convincerà (forse saranno stati i più approfonditi studi ippocratici) di dover rifondare la Medicina che dovrà essere, questa volta, intesa unica e non suddivisa in sette e quindi di dover riproporre l’ontologia, il dovere della Scienza medica, la quale sarà intera-mente dedicata allo studio ed alla sua funzione sociale.

Maturati questi suoi convincimenti, si sentì pronto ad affrontare Roma, dalla quale tutto prendeva le mosse, con la sua moltitudine di cittadini sempre più attenta alla cura del proprio corpo: dalla prevenzione alla benefi ca terapia. È stato osservato che tra tutte le scienze i Romani prediligessero la Medicina, forse perché la consideravano una scienza esatta, in qualche modo tangibile a differenza di altre discipline troppo teoriche ed affatto pragmatiche. A Roma Galeno si sentì un medico completo capace di educare, promuovere comportamenti igienici, formulare la corretta diagnosi e, da questa, la terapia più idonea,

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senza evocare sedicenti maestri o indirizzi preconcetti e per questo limitanti; compor-tamento professionale che piacque ai Romani ed all’imperatore Marco Aurelio i quali seppero apprezzare e valorizzare il Maestro. Fecondo di pensiero e di scritti, se ne contano più di mille pagine, sempre in greco: scrisse su ogni aspetto dello scibile medico. Citiamo solo alcuni titoli tanto diversi tra loro: Procedimenti Anatomici, De Diaeta Subtiliante, De Natura Hominis, De Theriaca. Tutti i suoi testi si differenziano da quelli enciclopedici che lo avevano preceduto, per il fatto che sono frutto di studi originali e di sue esperienze professionali, cosa che rende ancor più autentico ed attendibile il suo Pensiero medico.

Galeno come fi siologo, clinico, terapeuta, dietologo, chirurgo, riconosce gli insegna-menti ippocratici: l’osservazione del malato e dei suoi sintomi, la vis medicatrix naturae, ma trova la teoria umorale perfettibile e con la sua terapeutica vuole andare oltre, essere lui stesso artefi ce della guarigione; ritiene di perfezionare il pensiero ippocratico adattandolo maggiormente non solo alla discrasia che manifesta il malato, ma anche ad ogni farmaco ed ad ogni cibo o bevanda che dovrà assumere il paziente.

Osserva Galeno che i quattro umori ippocratici, Sangue, Bile, Flegma, Atrabile, presen-tano quattro Qualità Elementari: Caldo, Freddo, Secco ed Umido. In ogni corpo,49 queste qualità si manifestano in quattro Gradi diversi ed ancora ognuno di questi viene graduato in: il Principio, il Mezzo, la Fine.

Il Temperamento di un corpo altro non è che l’insieme delle qualità espresse nella loro giusta e peculiare gradazione, per cui avremo un Temperamento Temperato dove le Qualità Elementari sono in perfetto equilibrio; un Temperamento Intemperato quando una delle Qualità nei suoi Gradi caratterizza il corpo stesso sia umano, sia animale che vegetale. Ad esempio nei legamenti del corpo, dovendo questi essere elastici, prevale l’Umido, così come nell’umor vitreo; nelle ossa, avendo queste funzione di sostegno, prevalgono il Freddo ed il Secco a scapito del Caldo e dell’Umido, presenti solo in caso di infi ammazione. La clinica e la terapia consistono, in Galeno, nel valutare attentamente la discrasia manifestata dal paziente (la patologia), nel considerare il sesso, il colorito, l’età, la complessione e la facies ed ancora l’ambiente e lo stile di vita del paziente, quindi: clima, attività fi sica, qualità del sonno, alimentazione, funzioni intestinali, ansia o depressione. Al termine di questa indagine clinica (ancor oggi in epoca tecnocratica apprezzabile), si deve trovare uno o più rimedi che, antagonizzando la discrasia stessa, ripristinino il giusto equilibrio degli Umori e delle loro Qualità. Osserva ancora Galeno (le droghe vegetali da lui studiate ed utilizzate sono circa 500) che il farmaco somministrato tal quale è a volte inerte, ma viene trasformato in attivo dal Calore Innato, liberando così i suoi Principi Attivi: «… medicamentum est omne quod naturam nostram alterare potest ...».

Lo studio dei Temperamenti nei loro diversi Gradi investì anche una fondamentale branca della terapia: la dietetica, che doveva prescrivere cibi compatibili con lo stato di salute del paziente e della sua malattia; se questa si manifestava con una discrasia nella quale risultava prevalente l’Umore freddo, non sarebbe stato igienico alimentarsi con avena, cavolo, fave fresche, ciliegie, oxygala (yoghurt), bensì con cibi caldi come: puls di grano, carne di maiale, aglio e cipolla. Questa osservanza fu scrupolosa ancora nel Rinasci-mento, quando i prìncipi, mercanti e benestanti programmavano pranzi e banchetti dove ad un cibo di Qualità calda ne doveva corrispondere uno di Qualità fredda per non alterare la crasi dell’intero banchetto. Naturalmente i poveri ed i contadini non avevano di questi problemi; il loro piatto forte quotidiano era dato dai legumi.

49 Si intende ogni corpo o parte di esso appartenente al mondo animale o vegetale.

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Rimane da scoprire il metodo per valutare le Qualità, i Gradi e quindi i Temperamenti dei farmaci e degli alimenti, cosa non facile perché solo l’osservazione, il tatto ed il gusto ci possono suggerire l’esatto Temperamento. Quindi la valutazione è affi data ai sensi ed a volte, da come si esprime Galeno, al buonsenso. Questa metodica lascia interdetti e comunque appare affi data interamente alla sensibilità di Galeno che indubbiamente doveva essere grande, ma soggettiva.

Fu chirurgo (medico dei gladiatori di Pergamo), clinico, terapeuta di elevata esperienza, rappresentò la logica e completa evoluzione del pensiero ippocratico, lasciando ai futuri medici e farmacisti norme scientifi che che giungeranno intatte sino a tutto il XVIII sec. dell’era cristiana e questo per due motivi: non era facile confutarlo e poi, con quali mezzi? Per quanto Galeno non stimasse i cristiani, così come il suo imperatore Marco Aurelio, nelle sue rifl essioni fi losofi che ammise di credere in una unica Entità divina autrice di ogni cosa, e questo fece di lui per la chiesa un monoteista degno di essere accolto tra i credenti del vero Dio. Riportiamo le belle parole di Galeno:

Nell’ordire questo ragionamento, mi pare di cantare un inno alla gloria di Te, che ci hai creati! Meglio Ti onoro con il rivelare le opere tue stupende, che non con ecatombe di tori e con gli incensi. La pietà vera sta prima nel conoscere me stesso, poi nel manifestare agli altri quanto grande sia la tua bontà, sapienza, possanza, e bontà per l’equa distribu-zione dei tuoi doni…

(DE USU PARTIUM)

Dobbiamo dire, sia pure a malincuore, che per questo suo convinto pensiero, da parte della Chiesa cristiana (ma anche da parte della fede mussulmana ed ebraica), il paradigma di Galeno non fu utile al progresso scientifi co, perché non confutabile, era la Verità, quasi un dogma, cristallizzando così il Sapere medico su di una tradizione che sempre più veniva superata. Né vi fu revisionismo nel Rinascimento con il suo ardore di sapere, né con il Concilio di Trento. Sarà compito dell’Illuminismo proporre una nuova euristica.

Di Galeno proponiamo una sua formula: Pillole Tribus (tre componenti) ricavata dal De Medicamentorum Compositione secundum locos. È interessante, non tanto per i suoi costi-tuenti – sono tre lassativi – quanto per il meccanismo d’azione con il quale dovrà svolgere la sua azione farmacodinamica nelle affezioni articolari:

� Agarico (bianco), Aloe, Coloquintide polverizzati ed impastati con Oximele.

Hanno la funzione di indurre un alvo diarroico risucchiando e purgando gli umori corrotti, quindi di espellere le sierosità infi ammatorie dalle articolazioni. Favoriscono l’espulsione dei tre Umori diversi dal Sangue che si pervertono nell’organismo: Flemma, Bile nera, Bile gialla.

Possiamo ipotizzare che il meccanismo d’azione sia questo: stimolando in dose catartica la funzione intestinale e con l’osservanza di una attenta dieta di cibi “freddi”, l’organismo sia costretto a ridurre la sua azione infi ammatoria; come dire che “esso sia costretto a raffreddarsi”.

� Il medicamentarius e la sua taberna �Compito del medico, secondo i dettami ippocratici, era quello di visitare il malato,

consigliare la giusta dieta, prescrivere il farmaco più idoneo, che lui stesso doveva prepa-rare responsabilmente. Se tutto questo era praticabile nella fase aurorale della medicina,

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con l’evolversi di questa si moltiplicarono i “tecnici” necessari alla defi nitiva preparazione del farmaco, in considerazione che sempre più la prescrizione preferiva farmaci composti (mixturae) che, in quanto tali, richiedevano tempi di preparazione più lunghi e quindi non praticabili da un medico che doveva prestare attenzione ed assistenza ai suoi pazienti. Sappiamo che il medico, sul retro del suo ambulatorio, produceva farmaci coadiuvato da tecnici, ma la materia prima, le piante medicinali (che ora possiamo chiamare “offi cinali”) dovevano essere raccolte da persone esperte, mentre resine, piante esotiche, oli, grassi di diversa natura venivano acquistati da grossisti rivenditori. Questa ripartizione di compiti si amplifi cò con l’affermarsi della Scuola ellenistica, che vide lievitare la conoscenza delle droghe, in gran parte provenienti dall’ex Impero di Alessandro e da tutto il Mediterraneo, ora diventato Mare Nostrum. Prenderanno così forma nuovi operatori, ognuno con una sua specializzazione; come gli herbarii ed i rhizomatoi che raccoglievano piante e radici offi cinali. Questi, oltre che vendere all’ingrosso ed al minuto le loro droghe, ne consiglia-vano alla clientela l’azione farmacologica e come prepararla per il proprio uso terapeutico, espletando un compito medico e farmaceutico non loro. Questo abuso viene testimoniato dal termine Seplasium (rimedio) mutuato da una piazza della città di Capua – Seplasia – dove venivano smerciate le erbe medicinali; Seplasarius in seguito identifi cherà la fi gura del “Farmacista” che nel tempo ed in diversi luoghi verrà chiamato anche: pharmacopola, myrapola, medicamentarius, pigmentarius (rivenditore di sostanze colorate e profumi), apothecarius (magazziniere), aromatarius (venditore di spezie aromatiche). Ancora nel XV sec. a Roma, negli atti uffi ciali, chi operava in Farmacia veniva chiamato aromatarius; il termine di “Farmacista” verrà adottato verso la fi ne del XVII sec ed in Italia dopo la Rivoluzione Francese, anche se nei Paesi del Nord Europa verrà preferito quello di apothecarius.

Alcuni erboristi, dovendo importare droghe da Paesi lontani, si trasformarono in Tabernae apothecariae che con la funzione di magazzino grossista trovarono la loro specia-lizzazione vendendo al pubblico ingredienti preconfezionati, come ad esempio il Bolo Armeno ed altre argille di provenienza esotica, ma anche sale (cloruro di sodio), miele, cera, oli, grassi di varia natura, prodotti in genere che interessavano la cura del corpo.

Le Tabernae medicamenti o medicinae condotte dal medicamentarius operavano più specifi catamente per i medici prescrittori di farmaci semplici o composti, ma curavano anche la produzione di quei rimedi dalla formula consolidata come il Mitridato, la Teriaca, il collirio Danai, l’Isotheon (divino) contro la colite, il Diarhdometitis per stimolare le funzioni intestinali; preconfezionati che oggi i farmacisti defi niscono da banco, ovvero affi -dati al loro consiglio professionale.

Infi ne oltre ai medici propriamente detti, vi erano quelli periodeuti o circulatores che portavano la loro professionalità in paesi poveri, lontani dai grossi centri, ed avevano con sé farmaci in precedenza preparati, vere panacee per ogni male. (Herbarii, rhizomatoi, circu-latores, confl uiranno nell’interessante fi gura del Ciarlatano che svolgerà il suo commercio sulla pubblica piazza.)

Nel tempo, queste diverse prestazioni paramediche si sono consolidate formando persino, oggi diremmo, delle categorie, tanto che più volte sono dovute intervenire, con editti e multe, le autorità sanitarie per frenare queste iniziative il più delle volte dannose per il paziente. Ma inutilmente, a causa delle rivendicazioni – che si sono verifi cate sino agli anni Cinquanta dei nostri giorni – tra le varie categorie (erboristi, droghieri, ciarlatani, farmacisti e medici); ognuno puntualizzava le loro specifi che e legali competenze e diritti.

Come detto, Galeno disponeva della conoscenza diretta di circa cinquecento piante offi cinali con grande preoccupazione del suo “Farmacista” di fi ducia, che doveva tra l’altro

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conservarle tutte nel suo laboratorio, anche se la prescrizione in genere vedeva incremen-tato l’uso di rabarbaro, pepe, centaurea, iperico, uva ursina, biancospino, ambra grigia, resina di trementina e valeriana, oltre all’oppio, mandragora ed il giusquiamo. Tra le droghe animali: la cantaride, la ragnatela come emostatico, la vipera ed i tanti tipi diversi di grasso. Di sicura pertinenza del Medico e del Farmacista risultavano i diversi minerali: zolfo, pirite, nitrum,50 bitume, antimonio, la spuma d’argento (ossido di piombo). I più prescritti e consigliati erano i rimedi per uso esterno, che venivano usati come eccipienti, ma anche per una loro azione terapeutica: oli, lanolina, burro, grasso di bovino, oca, suino (fresco o vecchio), capra, cervo, orso e felini, anche se il più pregiato era considerato quello che si depositava intorno ai reni degli animali ed al midollo delle ossa (medulla). Purtroppo la polifarmacia dell’epoca non poteva fare a meno di rimedi che ci limitiamo a defi nire “originali”: cenere di rane, polvere di riccio terrestre, sterco di varia natura, da quello della lucertola a quello del coccodrillo, anche se molto apprezzato era quello di lupo che aveva mangiato ossa.

La Taberna seplasia o myrapolium (la Farmacia), in epoca imperiale, aveva una attività poliedrica in quanto vendeva ai suoi clienti-pazienti profumi, polveri per la pulizia del corpo, unguenti lenitivi ed odorosi, farmaci preconfezionati o da preparare su prescrizione del medico (galenici magistrali). Tale attività dettava le esigenze tecniche della Farmacia, la quale doveva essere locata in un posto commerciale, ed essere dotata di più locali per la conservazione delle droghe e sostanze minerali, di un laboratorio per la produzione del farmaco che sempre più richiedeva tecniche appropriate. Ma quello che in ultima analisi dettava l’ubicazione era l’uso del fuoco, indispensabile per la preparazione delle tante forme farmaceutiche; il che escludeva le “insule” (palazzine), le quali strette le une alle altre, non essendo dotate di camino, di cappe e canne fumarie, spesso si incendiavano. Al contrario, la farmacia doveva avere un ampio locale dedicato all’uso del fuoco con relativa cappa che allontanava i fumi magari in un proprio giardino, lontano dalle eventuali possibi-lità d’incendio. Le forme farmaceutiche che il medicamentarius preparava erano: le polveri che otteneva con il mortaio ed i diversi setacci; i succhi da frutti o piante fresche, che una volta pestati venivano torchiati e fi ltrati con un panno; i macerati sia in poltiglia per appli-cazioni locali che in forma liquida, che poteva essere concentrata a fuoco lento; gli infusi ed i decotti per lo più venivano preparati estemporaneamente in quanto, mancando i conser-vanti, con facilità si deterioravano (si riteneva che la scadenza fosse entro i tre giorni); per questo motivo, quando possibile, venivano preparati in aceto o utilizzando un vino di forte gradazione (vini medicati) per evitare la fermentazione acetica. Gli unguenti profumati ed i malagma medicinali (unguenti, empiastri) fi guravano ampiamente nella polifarmacia Romana utilizzando come detto: cera, oli ed i grassi a disposizione a seconda se il malagma doveva avere azione lenitiva, risolvente o curativa in profondità.51 Le Tabernae, come detto, che preparavano unguenti profumati erano provviste di distillatore o compravano le essenze tal quali, magari a Cipro, da incorporare in adeguato eccipiente grasso. Forme farmaceutiche più usate che in epoche precedenti erano le pillole,52 i colliri ed i tamponi vaginali, segno che le specializzazioni, che si acquisivano in Alessandria, stavano produ-cendo specifi che attenzioni.

50 Per quanto l’individuazione del nitrum sia controversa, riteniamo si tratti del nitrato di potassio.51 Tre sono i termini che distinguono l’azione degli unguenti: Unguentum, preparazione odorosa per profu-

mare; Malagma, con funzione propriamente medicamentosa; Acopa, con funzione di emolliente, lenitiva.52 Tra queste ricordiamo con azione analgesica e soporifera le pillole di Oppio, Mandragora, Giusquiamo in

virtù dei loro Principi Attivi: morfi na, scopolamina, atropina.

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Abbiamo sempre parlato di medicina romana, ma intendiamo dire di “epoca romana”; appare logico che Siena, Mantova, Napoli, ma anche Efeso e Costantinopoli avessero le medesime opportunità mediche; sarà proprio quest’ultima capitale che saprà conservare ai posteri la Scienza medica e farmaceutica greco-romana.

Abbiamo citato il Mitridato e la Teriaca, di questa parleremo più estesamente in seguito; del Mitridato diciamo che fu un farmaco studiato da Crateva, celebre medico e fi totera-peuta alla corte di Mitridate VI re del Ponto. Questo – per ritornare sulla sua affascinante fi gura – fu un personaggio dotato di grande personalità e fascino che impegnò non poco Roma ed i suoi generali. Nacque nel 132 a.C., da ragazzo si rifugiò sulle montagne per sfuggire alla madre che voleva sopprimerlo, al fi ne di poter regnare liberamente sul Ponto. Temprò il suo corpo al freddo ed alla fatica, quando ritenne di essere suffi cientemente pronto, anche politicamente, tornò, uccise la madre ed i suoi fratelli probabili antagonisti, sposò la sorella e fi nalmente diede sfogo alla sua ambizione: emulare le gesta del macedone Alessandro e distruggere Roma ed il suo crescente potere nel Mediterraneo. Le statue lo riproducono con una evidente bellezza fi sica; la storia riporta che, oltre alla sua ambizione, era dotato di notevole curiosità intellettuale e di una formidabile memoria che gli consen-tiva di parlare ben 22 lingue. Il suo interessamento per le Scienze mediche lo portò ad avere vicino a sé Crateva al quale chiese un rimedio che lo rendesse insensibile ai veleni, che per la verità erano molto usati a quei tempi nelle corti medio-orientali.

Crateva, con i suoi studi, intuì che l’organismo riusciva ad assuefarsi ai veleni se questi fossero stati assunti costantemente a micro, ma crescenti dosi (mitridatismo) e così preparò, per il suo re, il pharmakon con 50 diversi tipi di veleni. Qui le cose si complicano, perché è vero che dosi non tossiche, di alcuni veleni, non uccidono, ma è anche vero che, se assunte per lungo tempo per accumulo o danni agli organi, portano a morte lentamente; ad esempio l’arsenico, con un dosaggio inferiore ai 100 mg non uccide ma, tra l’altro, rallenta la respirazione cellulare portando comunque, dopo un certo tempo, a morte il malcapitato.

Non sappiamo quali fossero i veleni somministrati in microdosi da Crateva a Mitridate, ma certamente questi assumeva quotidianamente un antidoto che in ogni caso avrebbe neutralizzato ogni veleno: quello che passerà alla storia come il Mitridato; apprezzato in seguito da Galeno e Andromaco, medico personale dell’imperatore Nerone, con qualche sostituzione di droga e con l’aggiunta dei trocisci di Scilla, del Rabarbaro rapontico e della carne di Vipera, formulò la Teriaca.

Il Mitridato doveva essere ben effi cace, insieme alla pratica del mitridatismo se, Pompeo alle porte, Mitridate, assunto il veleno, non riuscì a morire, così che – come detto – dovette ricorrere alla spada.

Crateva con il suo Mitridato diede inizio a quelle formulazioni interminabili che domi-neranno gli Antidotari53 sino ai primi del XIX sec., frutto del processo mentale per il quale più droghe compaiono nel preparato, più questo risulterà terapeutico. Quello riportato nel Ricettario Fiorentino del 1498 verrà preparato con circa 101 droghe macerate in vino “anti-quissimo”; infatti anche nella Teriaca verrà consigliato, quale solvente, il vino: malvasia amabile di Spagna, di Scio, di Falerno, purché di corpo, ricco di tannini e di polifenoli oltre che di elevato grado alcolico per scongiurare la fermentazione acetica. Nel tempo, il Mitri-

53 L’Antidotario è una raccolta di rimedi, contravveleni, alexifarmaci che fungono da antidoto in casi di avve-lenamenti causati sia da sostanze minerali, vegetali o da malattie. Nel Medio Evo, sulla scia di questo pensiero, il termine indicherà una raccolta di ricette, considerando, per esteso, che l’antidoto signifi cherà più propriamente “rimedio”.

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dato varierà la formula in alcuni suoi costituenti, ma non il nome, che comparirà ancora nelle farmacopee del 1800 non più in casi di “avvelenamenti criminali”, ma nei morsi vele-nosi e nella rabbia, contro la peste, nelle febbri maligne, contro le semenze verminose e «si dà nel vaiolo come ottimo cordiale». La dose è da diciotto grani a due dramme/die. Deve essere conservata in vaso invetriato ben chiuso per una durata non superiore a dieci anni (ma alcune Farmacopee parlano anche di trenta anni).

A ben valutarla non sembra tutta questa panacea, ma appaiono alcune sue funzioni farmacologiche: Amaro stomachico, stimolante l’appetito e le difese anticorpali; Carmi-nativo per la temuta fl atulenza; Balsamico per le vie respiratorie; Regolatore della peri-stalsi intestinale; Coleretico per incrementare la funzionalità epatica. Contiene Oppio per le coliche e perché induce, nell’oblio, a sperare. Tutte funzioni meritorie certamente, ma con il beneplacito di Crateva e di Mitridate, in caso di avvelenamenti da cibi o da farmaci, è bene non assumere il Mitridato, sarebbe inutile; per il morso degli animali niente paura: sono in Europa (quasi) tutti innocui, mentre in caso di malattia è bene chiamare un medico!

� Roma ultimo atto �

Con la morte dell’imperatore Marco Aurelio, fi nì il periodo aureo dell’Impero Romano e la sua capacità di aggregare i popoli conquistati assorbendo i loro Credo e Valori, ma donando loro lo Ius ed un convincimento: l’imperatore, nel quale si materializzava il Genio di Roma, era padre e tutore di ogni cittadino o uomo libero dell’Impero. Gli imperatori che si susseguirono dopo Marco Aurelio non ebbero la capacità di emularlo e così per l’im-pero cominciò inesorabile una parcellizzazione ed una decadenza dolorosa ed umiliante. Quali le cause?

La prima fu proprio il “decentramento”. Sotto Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio, ogni cittadino Romano, ma anche ogni uomo libero, sentiva che la forza dell’imperatore era la sua, che credere in lui, non tanto come dio, ma come uomo, signi-fi cava identifi carsi in quei Valori che la Civiltà greco-romana aveva saputo costruire e che erano motivo di sicurezza e prosperità.

Inoltre si verifi cò il decadimento dell’istituto del Principato, per il quale l’imperatore aveva la facoltà di eleggere un successore tra i suoi parenti o persone da lui stimate. Il prescelto, primus inter pares, acquisiva il titolo di Princeps54 che avrebbe conservato insieme a quello di imperatore. Si potrà osservare che alcuni prescelti furono di scarse capacità e moralità, ma nell’insieme l’impero tenne proprio nei suoi Valori più cementanti. Tutto questo venne meno quando fu affi dato il Proconsolato a generali di sangue non romano né italico. Questi, presa conoscenza del loro effettivo potere, constatando che possedevano la regione loro affi data, oro per il prelievo fi scale e le legioni necessarie alla difesa (o per l’of-fesa), si domandarono perché non utilizzare tutto questo e quindi ambire al titolo di impe-ratore. Cosa che avvenne più volte, tra l’altro con spargimento di sangue, come accadde con Galba, Settimio Severo, Costantino e molti altri. Processo, questo, facilitato dal fatto che le legioni, ormai tanto decentrate da Roma, erano fedeli esclusivamente al loro generale che le utilizzava infi ne per le sue ambizioni ed il suo potere.

La seconda causa fu provocata dagli imperatori che da Costantino e successori arriva-rono al potere; questi, per elevare l’autorità della propria persona, adottarono la strategia di sminuire quella del Senato e di tutta la classe aristocratica, che in verità tanto si era

54 Princeps: l’etimo della parola viene da primus capere.

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prodigata, mores maiorum, con carattere, capacità e sacrifi ci per la grandezza di Roma. Sminuendo il Senato, si sopprimeva l’anima stessa della Caput Imperii.

La terza causa fu proprio Costantino che divise l’Impero con due capitali: Roma e Costantinopoli e questo inevitabilmente creò interessi che sempre più si diversifi carono, provocando disunione tra i due Imperi, senza considerare che la parte più produttiva apparteneva a Costantinopoli.

La quarta causa fu l’adozione del Cristianesimo come religione di stato (313 d.C.), e questo divise ulteriormente la coesione all’interno dell’Impero; sfaldamento che in molti casi si trasformò in lotta aperta tra le diverse religioni. Non bisogna credere all’alone di misticismo che pervase, dopo l’Editto di Milano, la fase aurorale del Cristianesimo; fu uno scontro determinato ed arrogante, particolarmente da parte dei cristiani, come sempre intolleranti. Di questa situazione ne risentì l’esercito, che vide sostituire i suoi uffi ciali, vecchi legionari esperti ma pagani, con altri inesperti e cristiani ed in quanto tali probabil-mente poco versati alle leggi della guerra. Tutto questo proprio nel momento in cui da nord e da est i barbari premevano ai confi ni manu militari.

Quinta causa furono i barbari, che di fatto trovarono l’Impero ridotto ad una semplice entità giuridica. Alarico, Ataulfo, Genserico, Eurico, Odoacre sono solo dei capi barbari che il console Caio Mario avrebbe sbaragliato al primo attacco: eppure dal 410 d.C. (primo sacco di Roma) furono gli attori del dramma “La caduta dell’Impero di Roma”.

Un’altra concausa fu che il tardo Impero e l’imperatore con la sua classe dirigente non seppero o non vollero gestire l’assimilazione dei barbari che già avevano varcato i confi ni; da Alarico ad Odoacre tutti riconoscevano nell’Impero la fonte della Civiltà, ma certo non erano personaggi da sopportare arroganze; di conseguenza il loro intervento militare fu cruento e destabilizzante sino a giungere all’atto fi nale: la deposizione dell’ultimo impera-tore di Roma, Romolo Augusto.

Probabilmente altri ulteriori motivi ne determinarono la caduta, ma è certo che, iniziato il processo, le cause si moltiplicarono, ogni città si racchiuse in se stessa, il mercato e l’eco-nomia crollarono, le strade si dissestarono, lo stesso servizio postale, vanto dell’effi cienza di Roma, venne meno. La conseguenza peggiore fu che la Cultura, intesa in senso lato, non essendo più alimentata né dall’interesse né dal benessere, lentamente decadde, così come le professioni, che non potendo “alimentarsi e rigenerarsi”, frequentando Disciplinae ed Accademie, si rifugiarono nell’empirismo, senza più alcuna base teorica e senza intenti di ricerca. Se questo accadde nelle città a prevalenza latina, fi guriamoci nelle campagne e nei piccoli centri dove era prevalente l’elemento barbaro. Le biblioteche, le Arti, le Scienze e per esse la Medicina e la Farmacia persero il loro ruolo primario, in qualche caso scom-parvero, ritornando a pratiche magico-demoiatriche. Questo decadimento si manifestò particolarmente nell’Europa nord-occidentale, mentre in quella orientale con capitale Costantinopoli ed in Italia, in Puglia, Sicilia, nel Ravennate, ad Amalfi ed in genere le coste italiane, che giuridicamente dipendevano ancora dall’Impero d’Oriente, la Cultura, pur faticosamente, si conservò o quanto meno venne rispettata.

Come più volte evidenziato, la Cultura viene sempre sostenuta o dalla volontà dello Stato o da un diffuso benessere; non è facile pensare ad uno studente Latino del VII sec. d.C. andare ad Alessandria d’Egitto per frequentare un corso di specializzazione medica. Ma i testi, gli scritti dei grandi pensatori, in gran parte si salvarono proprio grazie all’Im-pero d’Oriente e saranno studiati attentamente dagli Arabi e riconsegnati ad una Europa che non aveva più memoria di se stessa.

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