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Diretta da LUCIANO M. QUATTROCCHIO 5 - 2016 G. Giappichelli Editore – Torino Rivista telematica bimestrale 5 - 2016 Iscrizione al R.O.C. n. 25223 ISSN 2499-3158 INTERVENTI di G. Büchi, M. Cugno, M.C. Vietti, A. Terzuolo, S. Rostagno, F. Lunardon G. Bonfante, P. Montalenti, L.M. Quattrocchio, A. Rossi APPROFONDIMENTI di L. Furfaro, L.M. Quattrocchio, B.M. Omegna SAGGI di L.M. Quattrocchio, B.M. Omegna,V. Bellando, R. Monchiero, G. Quaranta

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Diretta da LUCIANO M. QUATTROCCHIO 5 - 2016

G. Giappichelli Editore – TorinoRivista telematica bimestrale 5 - 2016 • Iscrizione al R.O.C. n. 25223ISSN 2499-3158

INTERVENTI diG. Büchi, M. Cugno, M.C. Vietti, A. Terzuolo, S. Rostagno, F. Lunardon

G. Bonfante, P. Montalenti, L.M. Quattrocchio, A. Rossi

APPROFONDIMENTI di

L. Furfaro, L.M. Quattrocchio, B.M. Omegna

SAGGI di

L.M. Quattrocchio, B.M. Omegna,V. Bellando, R. Monchiero, G. Quaranta

Diretta da LUCIANO M. QUATTROCCHIO

5 - 2016

G. Giappichelli Editore – Torino

Direttore responsabile: Luciano M. Quattrocchio

Direzione e Redazione:www.dirittoeconomiaimpresa.it

© Copyright 2016 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINOVIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100http://www.giappichelli.it

ISSN 2499-3158

Pubblicato nel mese di novembre 2016

Comitato di Direzione

Direttore: Luciano M. Quattrocchio.Vice-Direttore: Monica Cugno.Segretario: Maurizio Cavanna.Consulente linguistico: Diana Fahey.

Comitato Scientifico

Presidente: Guido Bonfante.Vice-Presidente: Giacomo Büchi.Segretario: Giuseppe Vanz.

Sergio Foà, Aldo Frignani, Patrizia Grosso, Bruno Inzitari, Fiorella Lunardon, Giovanni Ossola, Alessandra Rossi.

Comitato di Redazione

Presidente: Carlo Majorino (Consigliere SAA). Vice-Presidente: Francesco Cappello.Segretario: Maria Maccarrone.

Fabrizio Bava, Cecilia Casalegno, Margherita Corrado, Anna Cugno, Alain Devalle, Paolo Fabris, Elena Gentile, Francesco Gerino, Guido Giovando, Mario Grandinetti, Valeria Miraglia, Bianca Maria Omegna, Elena Piccatti, Anna Maria Porporato, Michele Ricciardo Calderaro, Maurizio Riverditi, Fa-brizia Santini, Alessandro Terzuolo, Andrea Trucano, Gabriele Varrasi, Bar-bara Veronese, Alessandro Vicini Ronchetti.

Collaboratori di RedazioneAlessandro Avataneo, Fabrizio Bava, Valentina Bellando, Francesco Cappel-lo, Cecilia Casalegno, Giovanni Castellani, Maurizio Cavanna, Margherita Corrado, Chiara Crovini, Anna Cugno, Monica Cugno, Alain Devalle, Paolo Fabris, Elena Gentile, Francesco Gerino, Guido Giovando, Mario Grandinet-ti, Melchior E. Gromis Di Trana, Maria Maccarrone, Carlo Majorino, Cinzia Manassero, Valeria Miraglia, Roberta Monchiero, Luisa Nadile, Bianca Ma-ria Omegna, Alessandro Pastore, Elena Piccatti, Anna Maria Porporato, G. Quaranta, Michele Ricciardo Calderaro, Maurizio Riverditi, Fabrizia Santini, Alessandro Terzuolo, B. Tessa, Andrea Trucano, Gabriele Varrasi, Barbara Veronese, Alessandro Vicini Tronchetti.

V Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

Indice

Interventi

Le aggregazioni fra imprese: analisi delle diverse forme in una prospettiva interdisciplinare

G. BÜCHI-M. CUGNO, Reti di impresa tra crescita e innovazione 2

M.C. VIETTI, La Rappresentazione Contabile delle Aggregazioni tra Imprese 23

A. TERZUOLO, Il regime tributario delle aggregazioni fra imprese: un focus sulle reti di imprese 39

S. ROSTAGNO, Le aggregazioni di imprese negli appalti pubblici 49

F. LUNARDON, Aggregazioni tra imprese e rapporto di lavoro 57

G. BONFANTE, I consorzi e le reti d’impresa 69

P. MONTALENTI, I gruppi di società: dottrina, giurisprudenza e prassi 76

L.M. QUATTROCCHIO, L’insolvenza dei gruppi 86

A. ROSSI, L’infedeltà patrimoniale 115

Approfondimenti L. FURFARO, Dal distacco alla codatorialità nell’ottica delle reti e gruppi

d’impresa 126

L.M. QUATTROCCHIO-B.M. OMEGNA, L’Alternative Investment Market Ita-lia (AIM Italia) 134

L.M. QUATTROCCHIO-B.M. OMEGNA, Le relazioni del curatore e del com-missario giudiziale: criteri di redazione 150

Saggi L.M. QUATTROCCHIO-B.M. OMEGNA-V. BELLANDO, Criteri di verifica del

rispetto della soglia di usura nei rapporti di conto corrente 165

L.M. QUATTROCCHIO-B.M. OMEGNA-V. BELLANDO, La prescrizione in ambito civile e penale, nella ripetizione dell’indebito e nell’usura 189

L.M. QUATTROCCHIO-V. BELLANDO-R. MONCHIERO, La valutazione dell’e-ventuale usurarietà delle operazioni finanziarie complesse: T.I.R. e T.I.R.M. a confronto 224

G. QUARANTA, Crowdfunding. Il finanziamento della folla, o dei “folli”? 249

Variazioni sui temi di Diritto del lavoro Fasciolo 1|2016

1

Interventi Le aggregazioni fra imprese: analisi delle diverse

forme in una prospettiva interdisciplinare

2 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

Reti di impresa tra crescita e innovazione Giacomo Büchi-Monica Cugno 1

SOMMARIO

1. Le radici del fenomeno delle relazioni di impresa. – 2. Capire le reti di impresa per conosce-re i contratti di rete. – 3. I contratti di rete. – 4. I principali risultati dell’analisi empirica dei contratti di rete. – 4.1. Il profilo delle reti. – 4.2. Il profilo dei soggetti della rete. – 4.3. L’evo-luzione dei contratti di rete. – 5. Prime considerazioni conclusive. – Bibliografia di riferimento.

1. Le radici del fenomeno delle relazioni di impresa

Per comprende le radici e la rilevanza delle relazioni di impresa è necessa-rio considerare che il percorso di entrata e di consolidamento delle realtà nel tessuto imprenditoriale deriva dal mutamento delle opportunità produttive del-le organizzazioni. Riprendendo le parole di Penrose (1959) «se si vuole trova-re un limite allo sviluppo, o un condizionamento allo sviluppo, bisogna tener conto che le opportunità produttive sono limitate in ogni periodo. È chiaro che queste opportunità sono ridotte in relazione alla capacità dell’impresa di intra-vedere opportunità di espansione, alla volontà o meno di sfruttarle e all’abilità di saperle sfruttare opportunamente». I limiti all’incremento dell’impresa se-condo l’Autore non sono dunque rappresentati dai costi crescenti o dalla man-canza di opportunità bensì sono esito delle “diseconomie manageriali” nel ge-

1 Giacomo Büchi Ph.D. (Padova) e M.Sc. (Oxford), Professore ordinario di Economia e ge-stione delle imprese – Università degli Studi di Torino.

Monica Cugno Ph.D. (Padova), Professore aggregato e ricercatore di Economia e gestione delle imprese – Università degli Studi di Torino.

Il saggio è frutto dell’elaborazione della relazione su invito presentata al Convegno Studi “Le aggregazioni fra imprese: analisi delle diverse forme in una prospettiva interdisciplinare”, Torino 29 settembre 2016. Il lavoro scaturisce da una riflessione congiunta degli Autori, che hanno condiviso la definizione della struttura, le modalità di sviluppo dell’argomentazione e i relativi risultati, mentre la stesura del testo risulta così ripartita: il Prof. Giacomo Büchi ha cu-rato i parr. 1 e 3; la Prof.ssa Monica Cugno i parr. 2, 4 e 5.

3 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

stire l’organizzazione. Ne scaturisce che «le vie per lo sviluppo non sono solo quelle della crescita lineare e incrementale di tipo interno, ma sono fondate sulla crescita esterna attraverso l’instaurazione di legami forti con imprese ter-ze oppure attraverso acquisizioni» (LORENZONI, 2000, 171-172).

I percorsi di incremento e di rafforzamento mediante coalizioni e assetti re-ticolari aprono problemi non solo da un punto di vista giuridico – nella costi-tuzione del soggetto giuridico, nella tutela dei differenti interessi, nell’esercizio fiscale e lavorativo – ma anche di tipo economico – nella gestione delle realtà coinvolte, nel profilo strategico, nelle interazioni tra diversi attori, nella misu-razione della competitività prodotta –.

Nella pratica gli interessi delle organizzazioni verso le relazioni di impresa si sono irrobustiti in particolare nell’ultimo quinquennio con l’introduzione del cosiddetto contratto di rete 2. Il nuovo istituto ha incentivato la collabora-zione inter-imprenditoriale allo scopo di rispondere in modo più competitivo all’attuale scenario economico. I vari documenti ministeriali evidenziano in-fatti che lo strumento consente per le parti coinvolte di «acquisire maggiore forza contrattuale nei confronti dei terzi» mediante la realizzazione di «colla-borazioni tecnologiche e commerciali appartenenti a Regioni diverse ma alla stessa filiera produttiva» 3. Grazie ai legami orizzontali e alle relazioni che possono estendersi oltre ai confini nazionali (internazionalizzazione) è possi-bile supportare la competitività dell’impresa e godere delle agevolazioni fisca-li applicate dall’attuale legislazione, senza scambi di partecipazione e opera-zioni di fusione e incorporazione.

L’istituto giuridico è particolarmente rilevante se si pensa che i percorsi di crescita e rafforzamento competitivo sono impegnativi in termini di risorse e competenze, e che le difficoltà riscontrate sono tali da scoraggiare soprattutto le piccole e medie imprese. Questo problema è ancora più sentito nel sistema imprenditoriale italiano che è connotato da realtà di dimensione minore 4 che, rispetto alle grandi, hanno una maggiore difficoltà nel competere sui temi del-l’innovazione e dell’internazionalizzazione a causa del loro “nanismo” (CU-

GNO, TARDIVO, 2012).

2 Come si avrà modo di analizzare nel prosieguo dei lavori del numero monografico della rivista, il contratto di rete è stato istituito con il d.l. 10 febbraio 2009, n. 5, convertito con mo-difiche dalla legge 9 aprile 2009, n. 33 – meglio conosciuto come d.d.l. Incentivi – e ha ricevu-to un’ultima revisione con il Programma Industria 2015.

3 Con tale locuzione si intende l’insieme di lavorazioni conseguenti effettuate per trasfor-mare un certo ammontare di materie prime in un prodotto finito e collocarlo sul mercato.

4 Il 95% delle organizzazioni della Penisola impiega meno di 10 dipendenti (CORBETTA, 2008).

4 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

Lo strumento giuridico-economico si presta dunque a essere un importante “veicolo” di cooperazione e integrazione di ricchezza considerando i ridotti costi di costituzione e di sviluppo e la flessibilità contrattuale. L’aggregazione consente ai soggetti specializzati nei diversi campi: di avvalersi della sinergia della rete per rafforzare il proprio business o svilupparne uno nuovo; di supe-rare i momenti di discontinuità interna ed esterna, servendosi dell’esperienza degli altri partecipanti alla collaborazione; di operare in contesti internaziona-li, senza al contempo rinunciare alla propria autonomia giuridica.

Malgrado l’interesse degli imprenditori per la creazione, l’organizzazione, la gestione e il successo di una strategia di rete, limitati sono i contributi di economia e gestione delle imprese che hanno fornito le caratteristiche di que-sto nuovo fenomeno 5.

Il saggio si inserisce nel filone di ricerca con un percorso distinto in due momenti strettamente correlati. Nella prima parte viene offerta una review del-la letteratura sulle reti di impresa, con approfondimenti mirati agli aspetti eco-nomici dei contratti di rete. Nella seconda parte viene condotta un’analisi del data-base Contratti di rete realizzato da Infocamere – Unioncamere Naziona-le. L’approfondimento quantitativo è condotto a livello di caratteristiche: del network (analisi di primo livello) e dei soggetti coinvolti (analisi di secondo livello). Al fine di comprendere quali sono i vantaggi che le parti interessate possono avere dalla collaborazione e quali sono le soluzioni organizzative adottate nell’impostazione di una strategia di coalizione, i risultati sono inter-pretati alla luce di mirati approfondimenti di case study, di interviste in pro-fondità a imprenditori, presidenti delle reti e stakeholder. È infine utile sotto-lineare che nella stesura del saggio sono stati integrati i diversi approcci di ri-cerca al fine di ottenere un lavoro completo e unitario.

2. Capire le reti di impresa per conoscere i contratti di rete

A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, il tema delle relazioni tra imprese ha occupato una posizione di rilievo nella letteratura nazionale e in-ternazionale fornendo considerevoli studi teorici e pratici.

I lavori condotti con differenti approcci interdisciplinari – economici, ma-nageriali, organizzativi, finanziari, giuridici, sociologici, di economia regiona-le – hanno riguardato prevalentemente l’analisi delle relazioni nei distretti in-

5 Una guida operativa per la creazione, la gestione e lo sviluppo di contratti di rete è offerto nel contributo di ZANNI, BELLAVISTA (2012, a cura di); l’importanza della cooperazione inter-firm è offerta nei lavori di LOPES et al. (2010) e ARRIGO et al. (2013).

5 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

dustriali. Per anni, tali sistemi produttivi locali hanno raggruppato imprese dello stesso settore industriale o comunque che svolgevano fasi differenti lun-go la medesima filiera di produzione. Le coalizioni erano prevalentemente realizzate attraverso legami verticali (cliente-fornitore) con processi di ap-prendimento fortemente dipendenti dal contesto locale. Negli ultimi quindici anni tale forma di organizzazione della produzione ha evidenziato precisi se-gnali di debolezza 6, sottolineando l’esigenza di introdurre nuovi schemi di competitività del sistema imprenditoriale non più circoscritti a livello spaziale.

Una rete di imprese 7 può essere definita come un insieme di realtà impren-ditoriali, «giuridicamente autonome i cui rapporti si basano su relazioni fidu-ciarie e in qualche caso su contratti che si impegnano, attraverso investimenti congiunti, a realizzare un’unica produzione» (RICCARDI, 2013).

Concentrando l’attenzione sulla sola letteratura di management, l’ampia gamma di lavori che scaturisce può essere ricondotta a tre filoni di ricerca vol-ti a:

1. comprendere le motivazioni che inducono le realtà imprenditoriali a col-laborare (PFEFFER E SALINCIK, 1978; OLIVER, 1990, AHUJA, 2000);

2. analizzare l’influenza dei network sulla performance aziendale delle or-ganizzazioni coinvolte (UZZI, 1997, KIM, OH, SWAMINATHAN, 2006);

3. esplorare le caratteristiche strutturali e organizzative delle architetture delle reti 8 (VACCÀ, 1986, LORENZONI, ORNATI, 1988; RULLANI, 1989, LOREN-

ZONI, 1992; LOMI, 1991, KOGUT, 2000).

6 La disamina delle principali criticità dei distretti industriali può essere rivenuta nel lavoro di ARIKAN E SHILLING (2010).

7 Occorre in questa sede ricordare le parole di RULLANI (2003) secondo il quale «la discus-sione su cosa siano le reti e sul valore che questo concetto può avere per l’economia di impresa è tuttora aperta. Si confrontano diverse definizioni o concezioni, uno spaccato delle quali – per limitarci alla letteratura italiana – è rinvenibile nei due numeri di Economia e Politica Industriale (nn. 64 e 65) dedicati alle reti, nel volume su accordi e reti curato da LORENZONi (1992), nel lavo-ro di BUTERA (1990), cui si deve l’intuizione che contrappone la rete al “castello” fordista. La diversità deriva in parte da un effettivo contrasto di opinione sul ruolo teorico da dare alle reti; ma in parte deriva dal fatto che il concetto di rete è “emerso” in diverse discipline quasi contempo-raneamente negli ultimi anni, dopo essere stato coltivato a lungo – ma senza eccessiva visibili-tà – negli studi topologici. Per qualche ragione la sociologia, l’organizzazione, le discipline manageriali, la teoria dell’impresa “scoprono” insieme il concetto di rete e lo contrappongono alle forme organizzative ereditate dal fordismo».

8 Si tratta di lavori che considerano la network governance, ossia un «gruppo selezionato, stabile e strutturato di imprese autonomo impegnato nella creazione di prodotti o servizi basati su contratti impliciti e al tempo indeterminato al fine di adattarsi all’evoluzione ambientale e di coordinare e tutelare gli scambi» (JONES, HESTERLY, BORGATTI, 1997, 2).

6 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

Le coalizioni hanno assunto nella letteratura differenti:

• locuzioni, tra le altre organizzazioni a rete (MILES, SNOW, 1986), relazio-ni cooperative inter-organizzative (OLIVER, 1990), costellazioni di imprese (LORENZONI, 1990), gruppi di business (GRANOVETTER, 1998);

• ruoli svolti dai partner dell’aggregazione, anche se gli attori che le com-pongono sono autonomi giuridicamente, le relazioni tra gli stessi sono asim-metriche. Anche in presenza di soggetti centrali o leader, lo sviluppo della rete dipende dalla partecipazione attiva e duratura di tutti i nodi;

• soluzioni contrattuali 9, tra le più rilevanti, distretto, consorzio, associa-zione temporanea di impresa – ATI, consorzio, distretto, subfornitura e gruppo europeo di interesse economico – GEIE.

Ciononostante i vari studi mostrano come le relazioni sono potenti stru-menti di competitività, in grado di: rispondere in modo rapido e flessibile alle esigenze del mercato; garantire l’elasticità dei processi produttivi; migliorare l’efficienza nella gestione economica; integrare le competenze di partner di-versi per fronteggiare le sfide innovative nella globalizzazione; condividere le soluzioni con altri operatori in modo da ridurre il rischio di investimento.

Grazie alle coalizioni è possibile attivare la combinazione di alcuni fattori (economia di scala e di apprendimento, innovazioni di processo e/o di prodot-to) che consentano una riduzione dei costi operativi (leadership di costo), ri-spetto al caso in cui la produzione sia svolta totalmente all’interno di ogni sin-gola realtà organizzativa. Ne consegue una minore incidenza degli oneri fissi e una più flessibile struttura dei costi, con riflessi positivi sia dal punto di vista operativo, che nella produzione del valore economico di impresa.

Il surplus realizzato dalla leadership di costo può essere investito in impre-sa (autofinanziamento) e consentire una maggiore capacità di attrarre capitali a

9 È importante sottolineare che il contratto di rete è una modalità di relazione tra operatori economici che non sostituisce quelle già esistenti, ma si aggiunge ad esse al fine di consentire una maggiore competitività al tessuto imprenditoriale. Tra le varie collaborazioni, il contratto di rete presenta similitudini al GEIE. Disciplinato dal regolamento comunitario n. 2137/85, il GEIE può essere costituito da società e altri soggetti di diritto pubblico o privato di diversi Paesi europei con l’obiettivo di facilitare o sviluppare attività economiche dei partner, metten-do in comune risorse, attività ed esperienze allo scopo di raggiungere migliori risultati econo-mici. La normativa pone alcuni limiti nella realizzazione di un GEIE: sulla provenienza dei membri che costituiscono la collaborazione sia di almeno due Paesi diversi dell’UE, sul nume-ro massimo di persone impiegate (pari a 500), sulla necessità che le attività siano collegate a quelle dei suoi membri senza sostituirle. A differenza del contratto di rete, il GEIE ha sempre personalità giuridica e il suo obiettivo può anche essere diverso dal miglioramento della com-petitività. La normativa europea inoltre identifica la struttura organizzativa e le procedure deci-sionali.

7 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

migliori condizioni di mercato. Tali aspetti possono a loro volta supportare al-tre attività di business e potenziare ulteriormente il vantaggio competitivo 10 dei vari partner e della rete stessa.

È infine utile ricordare che nel «processo di interazione-cooperazione en-trano in gioco diverse variabili, ma quelle che svolgono un ruolo cruciale sono quattro: l’impegno (commitment) dei partner, la trasparenza informativa, l’a-dattamento reciproco, la fiducia reciproca» (ARRIGO et al., 2013, 8).

3. I contratti di rete

Con la legge 9 aprile 2009, n. 33 e successive modifiche si è introdotto in Italia 11 il contratto di rete, allo scopo di accrescere la capacità innovativa e la competitivi-tà sul mercato delle singole imprese della rete e del network nel suo complesso.

La realizzazione del progetto di rete deve prevedere il conseguimento di vantaggi per ciascun partner, valutati da un punto di vista di maggiore capacità innovativa e/o di competitività sul mercato. I benefici ottenuti devono consen-tire ai soggetti che fanno parte della rete di incrementare i propri ricavi e/o ri-durre i propri costi, al fine di ottenere maggiori profitti. Le partnership costi-tuite tramite il contratto di rete consentono il mantenimento e dell’identità dei singoli partecipanti alla rete e contemporaneamente il miglioramento della di-mensione necessaria per competere nei mercati globali.

I contraenti si obbligano, sulla base di un programma comune e predefinito, a:

1) collaborare a forme e ambiti attinenti le attività delle imprese 12;

10 Una recente indagine di Unioncamere (2013) mostra come le imprese che utilizzano for-me di collaborazione possiedono un posizionamento competitivo superiore (+17%), rispetto a quelle che operano totalmente isolate; inoltre nei distretti dove sono localizzate delle collabo-razioni la redditività delle realtà imprenditoriali coinvolte è più elevata rispetto a quelle dello stesso settore che non realizzano attività di cooperazione.

11 L’emanazione di tale forma contrattuale consente all’Italia di essere il primo paese in Europa a disciplinare il contratto di rete. Le modifiche introdotte hanno avuto l’obiettivo di precisare meglio le regole da applicare e/o sviluppare le sue potenzialità. Il risultato che ne scaturisce è che oggi esistono reti basate su contratti ispirati a norme diverse perché esito di regolamentazioni differenti. La norma-tiva non ha infatti imposto nessun adeguamento degli accordi esistenti. È utile precisare che nel sag-gio non si evidenzieranno le differenze tra varie regolamentazioni che si sono succedute nel tempo, preferendo invece di attirare l’attenzione del lettore su come il contratto di rete – secondo lo stato at-tuale – possa essere impiegato quale strumento di crescita e di sviluppo di piccole e medie imprese.

12 La creazione di un marchio comune, la definizione della politica dei prezzi, la creazione di gruppi di acquisto possono essere esempi esplicativi dell’attività di relazione.

8 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

2) scambiare informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica o tecnologica 13;

3) esercitare in comune una o più attività rientranti nell’oggetto della pro-pria impresa 14.

Nei primi due casi si parla di “reti di coordinamento”, ossia di attività dove l’incremento della competitività si realizza attraverso forme di collaborazione tra i partecipanti; nel terzo caso si parla di “reti associative” e costituisce lo schema organizzativo con maggiori potenzialità operative (ASSOCIAZIONE

ITALIANA POLITICHE INDUSTRIALI, 2011). Secondo l’ordinamento, possono aderire al contatto di rete due o più sog-

getti non ponendo vincoli per quanto riguarda: la forma giuridica dei parteci-panti, la localizzazione e il settore produttivo.

Alla rete possono infatti partecipare imprese individuali, società, associa-zioni senza scopo di lucro ed enti che abbiano per oggetto esclusivo o princi-pale un’attività di impresa non necessariamente commerciale (a esempio fon-dazioni). Una volta costituita la rete essa deve essere aggiornata con i nuovi aderenti e i partner che lasciano il network.

La normativa non impone vincoli territoriali di appartenenza geografica e precisa che possono costituire partner del network anche le filiali di società estere con stabile organizzazione in Italia (Agenzia delle entrate 15/E del 14 aprile 2011).

Sotto il profilo merceologico, la rete può essere sottoscritta da organizza-zioni che operano in settori diversi, purché abbiano individuato e formalizzato uno scopo comune 15. È il caso, a esempio, di fornitori che producano con lo stesso gruppo di clienti o che realizzano prodotti complementari e interdipen-denti.

13 La condivisione degli esiti della ricerca, lo scambio delle informazioni commerciali sono oggetto a questa tipologia di aggregazione.

14 L’attività di R&S, la gestione di analisi e di condivisione delle piattaforme logistiche co-stituiscono esempi della forma di rete associativa.

15 Anche in questo caso il contratto a rete si distingue da un’altra tipologia di coalizione imprenditoriale. Diversamente da quello che avviene nei distretti, che sono agglomerazioni in-formali di imprese specializzate in un determinato prodotto situate in una specifica area territo-riale oggetto di un provvedimento di riconoscimento da parte di un’Autorità Pubblica, i con-tratti di reti possono operare tra soggetti residenti in Italia o eventualmente in Unione Europea. Nei contratti di rete l’appartenenza a un distretto può risultare utile in termini di accesso a ser-vizi (esempio trasporti), disponibilità di personale specializzato, agevolazioni fiscali della col-laborazione distrettuale … e contemporaneamente può consentire anche la collaborazione tra partner diversi dall’area distrettuale.

9 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

Dal punto di vista di temporale, per la realizzazione degli obiettivi strategici non ci sono limiti, se non quelli stabiliti dal contratto di rete in base all’oggetto e alla natura dell’aggregazione. I soggetti partecipanti possono far durare il soda-lizio allo scopo di permettere l’emergere delle sinergie del gruppo in funzione del programma comune 16. Gli obiettivi devono presentare due caratteristiche importanti:

1) essere comuni a tutti i soggetti aderenti per garantire coerenza e omoge-neità di azione;

2) essere unidirezionali ai fattori della competitività, ossia riguardare la qualità dei prodotti e il prezzo.

Il contratto di rete formalizza i rapporti di collaborazione e condivisione tra partecipanti in modo da definire chiaramente l’impegno, l’investimento e il ti-po di legame da adottare. La norma prescrive inoltre che, accanto agli obietti-vi, sia necessario stabilire i metodi di misurazione del raggiungimento degli stessi.

Le coalizioni che legano l’imprese non devono essere occasionali, ma de-vono basarsi su rapporti fiduciari e non gerarchici. Le relazioni pur essendo durevoli non sono esclusive, ossia ciascun partecipante può svolgere l’attività economica singolarmente e/o in collaborazione con gli altri partner. Sotto que-sto aspetto ciò che unisce i vari nodi della rete sono le disponibilità a sviluppa-re relazioni di collaborazione tramite un progetto comune, in base al quale cia-scun membro assume ruoli e compiti e mette a disposizione le risorse e le competenze di cui dispone, ottenendo in cambio l’aumento della capacità in-novativa e della competitività sul mercato.

16 Il fine perseguito e la durata del contratto sono elementi chiave per distinguere i contratti di rete da altre forme aggregative quali i consorzi e le associazioni temporanee di imprese – ATI. Il primo è un contratto attraverso il quale due o più imprenditori istituiscono un’organiz-zazione comune per la disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive im-prese (art. 2602 c.c.). Le ATI sono aggregazioni alle quali le imprese ricorrono per partecipare a gare di appalto o per raggiungere i requisiti dimensionali minimi richiesti dal bando o per suddividersi il lavoro/la fornitura e si caratterizzano per il conferimento collettivo di un manda-to con rappresentanza all’impresa capogruppo. Entrambe le forme sono connotate dall’assenza di un programma comune duraturo, in quanto l’accordo è limitato al compimento di un’attività specifica o alla disciplina di alcune fasi dell’attività produttiva, unificando l’attività imprendi-toriale con altri partner.

È necessario tuttavia considerare che riforme successive (leggi nn. 134/2012 e 221/2012) avvicinano lo strumento del contratto di rete con quello dei consorzi, prevedendo non solo l’applicabilità di diverse norme previste, ma anche l’obbligo di predisporre un bilancio di eser-cizio in presenza di un fondo patrimoniale e consentendo l’acquisizione di una soggettività giu-ridica al contratto di rete.

10 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

Diverse sono le attività che consentono il raggiungimento degli obiettivi di miglioramento delle performance. A titolo esemplificativo si possono ricorda-re le azioni volte a:

• incrementare la dimensione per affrontare meglio il mercato – interno e internazionale – e/o per partecipare alle gare di affidamento dei contratti pub-blici;

• implementare l’offerta di prodotti e le opportunità di business; • usufruire di competenze e risorse esterne all’attività di impresa; • migliorare la contrattazione dei prezzi di acquisto delle materie prime; • sviluppare nuove relazioni con i clienti e/o a implementare quelle esistenti; • realizzare un marchio comune.

Le principali novità – sotto il profilo economico – riguardano l’individua-zione di “reti a regime speciale” dove il legislatore ha aumentato la flessibilità giuridica del contratto di rete, introducendo anche l’opportunità del riconosci-mento della soggettività giuridica facoltativa e condizionata 17. In tale regime è possibile realizzare:

• l’istituzione di un fondo patrimoniale comune; • l’individuazione di una sede e di una denominazione; • la creazione di un organo comune; • lo svolgimento da parte di quest’ultimo, anche dell’attività commerciale

con i terzi.

In presenza dei requisiti si prevede che la rete: disponga di un regime di au-tonomia patrimoniale, per obbligazioni contratte dall’organo comune; abbia l’obbligo di redazione e di deposito di un bilancio di esercizio.

L’organo comune agisce come catalizzatore dei rapporti verso l’esterno e come unico interlocutore. Esso è inteso come soggetto distinto dei singoli par-tecipanti. La responsabilità verso terzi si esprime a seconda che agisca in forza di un mandato con o senza rappresentanza. La garanzia patrimoniale offerta ai terzi è in primo luogo quella rappresentata dal fondo comune.

17 Il riconoscimento della soggettività giuridica della rete è secondo la normativa vigente facoltativa e condizionata all’iscrizione nella sezione ordinaria del Registro delle imprese in cui ha sede. Ai fini dell’iscrizione sono necessarie: la costituzione di un fondo patrimoniale co-mune; la stipulazione del contratto per atto pubblico, la scrittura privata autenticata o atto fir-mato digitalmente (art. 25, d.lgs. n. 82/2005).

11 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

4. I principali risultati dell’analisi empirica dei contratti di rete

4.1. Il profilo della rete L’analisi a seguire mostra i principali risultati dei contratti di rete attual-

mente realizzati a livello italiano. Il data-base – consultabile online sul sito internet 18 di Unioncamere Nazionale – fornisce un identikit statico delle coa-lizioni realizzate.

A distanza di pochi anni dall’introduzione si registra un crescente coinvol-gimento degli attori nei contratti di rete (Set Fig. 1): dalla data di costituzione al 3 settembre 2016 il numero di collaborazioni è aumentato in maniera considere-vole arrivando a quota 3.070, di cui 447 con soggettività giuridica – reti sogget-to 19, mentre le restanti partnership, pari all’85,4%, non hanno al momento eser-citato l’opzione per l’ottenimento della soggettività giuridica – reti contratto.

Set figura 1 – Progressione dei contratti di rete

18 La normativa, l’iter, gli strumenti e il data-base sono disponibili al sito internet: www.contrattidirete.registroimprese.it.

19 Come si avrà modo di analizzare nei lavori presenti del numero della rivista, la circolare dell’Agenzia delle Entrate 18 giugno 2013, n. 20/E chiarisce ulteriormente alcuni aspetti della soggettività giuridica e fiscale delle reti, effettuando un’importante distinzione tra reti soggetto e reti contratto.

Le reti soggetto sono contratti di rete che hanno optato per acquisire la soggettività giuridica, iscrivendosi alla sezione ordinaria del registro delle imprese. Da un punto di vista tributario sono in grado di realizzare fattispecie impositive a essa imputabili: obblighi di tenuta delle scritture contabili; soggetti passivi IRES, IRAP ed IVA (con gli obblighi dichiarativi conseguenti).

Le reti contratto sono caratterizzate dall’assenza di un’autonoma soggettività giuridica, ci-vile e fiscale che comporta che gli atti posti in essere in esecuzione del programma di rete pro-ducano effetti direttamente nelle sfere giuridico-soggettive dei nodi di rete (Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 4/E/2011 e risoluzione n. 70/E/2011).

12 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

Fonte: elaborazione propria.

Il fenomeno dei contratti di rete ha avuto una rapida ascesa negli ultimi an-ni: il numero di imprese è salito in media di 208 unità a trimestre. L’accele-razione più forte è stata nelle reti soggetto (Fig. 1), dove a partire dal 2013 l’incremento è stato di oltre 500% (rispetto al 2012), dato confermato anche per i primi 8 mesi del 2016.

Figura 1 – Progressione delle reti soggetto

Fonte: elaborazione propria.

I contratti di rete si sono diffusi prevalentemente nelle Regioni del Centro-Nord: in testa Lombardia (2.904), Toscana (1.776), Emilia Romagna (1.745), seguono Lazio (1.482) e Veneto (1.468). La distribuzione del fenomeno mo-stra che le aree con una maggiore concentrazione del fenomeno sono anche quelle che si connotano per una più importante presenza del tessuto produttivo italiano. La mappa evidenzia al contempo che le coalizioni si sono diffuse in tutta la Penisola.

La distribuzione mostra una buona multi-territorialità: solo il 41,3% delle

13 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

reti sono costituite da soggetti localizzati in un’unica provincia (mono-provinciali), mentre le restanti collaborazioni coinvolgono attori ubicati in al-meno due 2 Province differenti, mostrando in parte il superamento del locali-smo distrettuale.

Le coalizioni sono dotate di un buon patrimonio di competenze in ambito tecnologico, infatti, l’oltre 45% dei casi vede il coinvolgimento di almeno un partner appartenente al settore high-tech.

Il 56% dei contratti di rete mostra al proprio interno imprese specializzate in diversi in macro-settori.

Mappa 1 – La distribuzione dei contratti di rete in Italia

* Numero di contratti che coinvolgono almeno un soggetto con sede nella regione. La somma supera il totale degli accordi stipulati poiché uno stesso contratto può coinvolgere imprese in sedi diverse.

Fonte: elaborazione propria

4.2. Il profilo dei soggetti della rete Le collaborazioni vedono coinvolti 17.074 soggetti –3129 sono società di

capitali – non mancano tuttavia enti morali, fondazioni e associazioni che hanno come oggetto esclusivo o principale un’attività di impresa non necessa-riamente commerciale. Rari sono ancora i casi di coinvolgimento nelle reti di: spin-off universitari (4 contratti di rete); attori transnazionali (8 contratti di re-

814 2.904 1.468

812286

1.745

1.776349

32

514

445

8761482

525

895226

1071

427

364

41

14 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

te), ossia soggetti residenti in un Paese estero appartenente all’Unione Euro-pea.

Le reti attualmente realizzate sono “di tipo misto” (Tabella 1). Nella mag-giorparte dei casi comprendono reti di società di capitali (di poco inferiore al 58%), queste sono costituite in prevalenza Srl (circa 51%); seguite dalle socie-tà di persone (13,94%) e dalle cooperative (13,94%). Insolita è la presenza di soggetti quali le fondazioni (11) e reti (6).

I contratti di rete sono architetture differenziate da “reti bilaterali” e “reti estese”.

Nonostante il forte sviluppo, il grado di diffusione dei contratti di rete è an-cora decisamente modesto se si considera che sono coinvolte solo 0,18% delle imprese italiane.

Tabella 1 – Tipologie di soggetti

Tipologia FA % Associazioni 14 0,1

Reti 332 1,9

Consorzi 1.223 7,2

Cooperative 3 0,0

Enti pubblici 12 0,1

Fondazioni 2.798 16,4

Imprese individuali 7 0,0

Imprese, cooperative e consorzi sociali 8 0,0

Sas 914 5,4

Snc 1.106 6,5

SpA 1.152 6,7

Srl 8.636 50,6

Società semplice 506 3,0

Altre forme 363 2,1

Totale 17.074 100,0

Fonte: elaborazione personale.

Il profilo di attività economica delle imprese (Tabella 2) mostra come le coalizioni si adattano a ogni settore: i comparti produttivi dove i contratti di rete sono più diffusi sono le attività manifatturiere (30,8%), la rilevanza è de-stinata a crescere se si considerano anche le attività a media ed elevata capaci-tà tecnologica (36,2%), a seguire i comparti del terziario avanzato (13%), delle costruzioni (10,2%) e del commercio (9,4%).

15 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

I comparti economici sono diversi e abbracciano i più importanti segmenti di punta del Made in Italy (l’agro-alimentare, industrie di metalli, l’automazio-ne, costruzione e bioedilizia, servizi avanzati per le imprese, sistema moda, beni per la casa e per la persona, servizi informatici, industria alimentare, commercio all’ingrosso, meccanica).

Tabella 2 – Distribuzione di macrosettore di attività economica delle imprese *

Macrosettori di attività economica %Agricoltura 0,1

Attività manifatturiera 30,8

Altra industria 1,1

Costruzioni 10,2

Commercio 9,4

Turismo 6,1

Trasporto e magazzinaggio 3,8

Manifatturiero ad alta tecnologia 1,4

Manifatturiero a media tecnologia 2,9

Servizi ad alta intensità tecnologica 4,5

Servizi a media intensità tecnologica 2,6

Terziario avanzato 13,0

Altri settori economici 14,2

Totale 100,0

Fonte: elaborazione propria (*) Il totale considera solo le imprese.

4.3. L’evoluzione dei contratti di rete

I contratti di rete normalmente seguono un approccio graduale di concen-trazione delle diverse visioni imprenditoriali dei partner del network, volto a diminuire le distanze tra gli stessi. La trasformazione può essere distinta in tre fasi.

• Nella prima fase viene creata una rete “leggera”, dove le attività coinvol-gono prevalentemente partner della rete. In questo stadio l’impegno dei ade-renti è limitato, così come il capitale investito. I rapporti constano nella parte-cipazione a riunioni per sviluppare il progetto comune e per aver modo di co-noscersi, senza al contempo compromettere la propria autonomia o investire capitali ingenti.

• Nella seconda fase, connotata per un maggior successo dell’iniziativa, i soggetti partecipanti possono decidere di espandere l’attività della rete – che

16 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

da “leggera” diventa “pesante” 20 – con la possibilità di creare un apposito fon-do per sostenere gli investimenti più rilevanti e creare una struttura dedicata alla gestione del programma di network.

• Nella terza fase la rete aspira a siglare contratti e assumere obbligazioni in proprio, ossia a diventare un autonomo centro di attribuzione di diritti e obbli-ghi. L’evoluzione necessita la richiesta della soggettività giuridica nella sezio-ne originaria del Registro delle imprese ove ha sede la rete. L’organo comune non è più mandatario dei partecipanti, ma è un’organizzazione della stessa coa-lizione. Gli imprenditori possono svolgere anche attività esterna comune in mo-do efficiente e stabile. Quest’ultima viene realizzata direttamente dalla rete a se-guito della richiesta di soggettività giuridica all’attribuzione di partita IVA.

L’evoluzione dei contratti di rete scaturisce dai cambiamenti, in alcuni casi radicali, introdotti dai diversi Decreti Sviluppo che hanno confermato la cen-tralità dell’istituto quale strumento di politica industriale per aumentare la com-petitività delle piccole e medie imprese favorendo la ricerca, l’innovazione e l’internazionalizzazione del Sistema Italia.

5. Prime considerazioni conclusive

L’analisi empirica, le interviste in profondità e i case study consentono di formulare rilevanti considerazioni sul nuovo istituto, organizzate in 7 macro-aree.

Le tipologie dei contratti di rete e le principali finalità

La ricerca mostra come l’istituto ha consentito la collaborazione tra impre-se. Le coalizioni si distinguono in due macro gruppi: reti orizzontali e reti ver-ticali 21. In entrambi i casi il contratto di rete non sostituisce gli strumenti esi-

20 Nella pratica i termini vengono utilizzati per distinguere quelle reti che non sono dotate di fondo comune “reti leggere”, da quelle provviste di dotazione patrimoniale “reti pesanti”. Secondo quanto stabilito dalla norma le “reti leggere” non possono mai assumere soggettività giuridica; mentre quelle “pesanti possono facoltativamente assumerla, qualora provvedano al-l’iscrizione nella sezione ordinaria del Registro delle imprese.

21 Sotto questo aspetto il contratto di rete si distingue da un’ulteriore collaborazione istitu-zionalizzata tra imprese: il contratto di subfornitura. Quest’ultimo lega due imprese secondo un normale schema cliente-fornitore. Il contratto di rete, pur riguardando operatori della stessa fi-liera “rete verticale”, pone i partner aderenti su un piano di parità basandosi su una collabora-zione contrattualizzata che consente di lavorare insieme in un’ottica di medio-lungo periodo.

17 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

stenti, ma mette al centro la cooperazione imprenditoriale consentendo di rag-giungere obiettivi che le singole realtà non sarebbero in grado di perseguire o potrebbero realizzare solo a costi molto più elevati.

Il contratto di rete per realtà appartenenti allo stesso settore è stato utile per:

• risolvere problemi comuni a monte (fornitori) o a valle (clienti) dell’atti-vità produttiva con la finalità di cost sharing;

• entrare in nuove aree di mercato e/o aumentare le quote di mercato; • partecipare congiuntamente a eventi internazionali, in modo da ridurre i

costi e superare le complessità della presenza; • realizzare forme di coordinamento migliori di quelle conseguibili attra-

verso contratti bilaterali o filiere di subfornitura; • scambiare prestazioni tra i partner; • ottenere commesse importanti, tipicamente proprie di grandi gruppi mul-

tinazionali; • acquisire all’esterno tecnologie innovative da parte di realtà prive di ade-

guate risorse finanziarie e competenze per realizzare sviluppi di prodotto e processo 22;

• interagire efficacemente con attori di grandi dimensioni, in primis banche e autorità pubbliche, al fine di ottenere migliori condizioni contrattuali;

• migliorare la reputazione grazie alla maggiore competitività acquisita dal-la rete.

L’esperienza dei contratti a rete tra partner appartenenti a settori diversi, evidenzia come la ragione più frequente dell’attivazione del processo di ag-gregazione è la volontà di realizzare un pacchetto “chiavi in mano” relativa-mente a un prodotto complesso, sollevando il cliente dalle problematiche di individuazione di una serie di fornitori complementari per la realizzazione di quando a lui necessario. La funzione principale della collaborazione è la crea-zione di un contesto regolamentato attraverso il quale i soggetti – pur rima-nendo indipendenti – possono realizzare progetti industriali o commerciali co-muni diretti. In questi casi il contratto di rete può anche essere utile supporto nello scambio di informazioni tecniche del prodotto.

Il potere decisionale del network

Nella maggior parte dei network il potere decisionale è condiviso e solo in una minoranza dei casi è attribuito a un solo soggetto giuridico (leader).

22 Analogamente il contratto di rete può essere vantaggioso per soggetti che sperimentano problemi con un approccio multidisciplinare.

18 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

Le relazioni tra i differenti attori della rete, giuridicamente autonomi, sono asimmetriche. Anche nei casi nei quali si è in presenza di “leader” che – per iniziativa, competenze, risorse o spirito di iniziativa – svolgono una funzione di coordinamento, gli altri soggetti – “nodi” – non subiscono le attività del partner centrale, ma fanno convergere nella rete le loro compe-tenze distintive e/o supportano l’attività di coordinamento. I vari stakehol-der intervistati sono infatti consapevoli che la rete non deve essere proget-tata e coordinata da un unico soggetto, ma è necessario ideare, costruire e sviluppare relazioni non gerarchiche, basate su rapporti fiduciari in modo da favorire una coalizione duratura. Il rapporto si costituisce nel tempo e si alimenta grazie al riconoscimento – formale o informale – della relazione di cooperazione.

La patrimonializzazione della rete

I casi analizzati mostrano che la patrimonializzazione delle rete è relativa-mente ridotta, anche se in alcuni casi il finanziamento è consistente. L’aspetto è in parte esito del fatto che lo stadio evolutivo della rete viene disciplinato so-lo con il d.l. 22 giugno 2012, n. 83.

I programmi di internazionalizzazione ed export Dall’indagine sull’oggetto dei contratti di rete emerge che la maggior parte

dei contratti di reti (73% circa) sono costituiti con l’obiettivo specifico di fa-vorire l’internazionalizzazione dei soggetti coinvolti 23.

La rilevanza del network rispetto ai terzi

Rare sono le reti nate con lo scopo primario di beneficiare di meccanismi di valutazione diversi da parte delle banche: un rating di rete migliore significa garantirsi dei finanziamenti più contenuti. L’attribuzione facoltativa e condi-zionata di soggettività giuridica è funzionale alla maggiore finanziabilità dei programmi sviluppati attraverso il contratto di rete, non solo grazie al miglio-

23 Da un’indagine, condotta dal Ministero dello Sviluppo Economico su un campione di oltre 300 contratti di rete, emerge che i soggetti che aderiscono a una coalizione da almeno un anno hanno aumentato le esportazioni del 21,8%; quelle realtà che hanno aderito da meno di un anno hanno fatto registrare dati ancora più positivi dell’export con un incremento del 25,2%.

Tali trend sono anche confermati dal 5° Osservatorio Intesa-Sanpaolo e Mediocredito Ita-liano sulle reti di impresa dove emerge che le imprese manifatturiere in rete presentano miglio-ri posizionamenti competitivi, rispetto alle organizzazioni dello stesso settore non coinvolte in coalizioni (43,7% vs 22,2%).

19 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

ramento del rating riconosciuto ai singoli partecipanti, ma anche alla possibili-tà giuridica di finanziare la rete in quanto tale.

Da parte del sistema bancario tuttavia si assiste a un inserimento di nuovi meccanismi di valutazione del merito creditizio e di sperimentazione di pro-getti pilota di organizzazione del lavoro, non ancora validati a livello interna-zionale. I parametri normalmente utilizzati considerano:

• il ciclo di vita del contratto di rete, man mano che aumenta l’evoluzione della rete cresce anche il giudizio sulla coalizione;

• la qualità del contratto di rete, intesa come attitudine a incrementare la competitività e l’innovazione tra i soggetti della stessa;

• la composizione della rete, che scaturisce dall’analisi di bilancio e delle attività svolte;

• la presenza di soggetti leader; • le caratteristiche e le tipologie delle imprese nodali; • la localizzazione della rete in distretti; • la pianificazione strategica della rete.

La politica industriale a favore dello sviluppo del contratto di rete

Il successo del contratto di rete è esito anche della predisposizione di poli-tiche industriali volte a promuovere l’istituto da parte di enti pubblici e del si-stema bancario. Gli interventi realizzati riguardano: incentivi, agevolazioni, semplificazioni e migliori accessi al credito.

Sotto questo aspetto è importante sottolineare che: la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) ha stanziato un plafond di oltre 100 milioni di euro destinato ai vari Istituti di credito italiani; il Piano nazionale dell’export del-l’ICE 2013-2015 ha previsto un supporto ai contratti di rete per l’inter-nazionalizzazione; gli Enti locali e le Camere di commercio hanno realizzato interventi per la nascita e il consolidamento dei contratti a rete, molti dei quali volti a realizzare un maggior profilo internazionale dei partner della coalizione.

Le principali finalità e l’efficacia economica dei contratti di rete

La finalità principale per l’attivazione di contratti di rete consente l’acqui-sizione della massa critica di risorse e competenze simile a quella ottenibile tramite aggregazioni di natura proprietaria – fusioni, acquisizioni – salvaguar-dando l’autonomia e l’indipendenza dei partner aderenti.

A detta degli operatori, il contratto di rete si affianca alle forme di collabo-razione esistenti (consorzi, ATI, joint venture) senza sostituirle, ma rappresen-

20 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

tando un “salto culturale” fondamentale che consente all’impresa di lavorare insieme per la realizzazione di un programma comune.

La collaborazione istituita attraverso il contratto di rete ha delle peculiarità che la rendono robusta verso l’esterno e estremamente duttile al suo interno. Il nuovo modello normativo è visto come una garanzia di affidabilità da parte di soggetti terzi (istituti bancari e pubblica amministrazione in primis) che pos-sono apprezzare la validità del network. I soggetti, grazie alla coalizione, ac-quistano una maggiore visibilità, che consente di mostrare a chi si interfaccia con loro, di disporre un valido programma e di possedere gli strumenti neces-sari per raggiungere gli obiettivi di sviluppo nel lungo periodo.

Dai dati attualmente a disposizione non è possibile fornire delle informa-zioni dettagliate sull’efficacia economica dei contratti di rete. L’analisi sui contatti di rete condotta da Intesa-Sanpaolo e Mediocredito Italiano (2015) su un campione di PMI entrate in rete nel 2011 mostra come le realtà hanno regi-strato nel biennio 2012-13 un calo di fatturato più contenuto rispetto a quelle non in rete (–3,6% contro –4.9%), mentre il margine operativo lordo (EBIT-DA) è cresciuto di due decimi di punto (dal 7,7% al 7,9%) contro una perdita analoga (due decimi, dal 7,8% al 7,6%) delle altre imprese.

I soggetti intervistati dichiarano infine che il contratto di rete non è tuttavia «la panacea di tutti i mali». Oltre ai doveri previsti dal contratto nel proprio ruolo e quello delle controparti, l’attivazione di una rete può comportare:

• risultati diversi tra i partner aderenti, misurati in termini benefici (mag-giori ricavi e/o minori costi);

• difficoltà oggettive nel determinare il contributo di ciascuna realtà parte-cipante;

• lunghi lassi di temporali per ottenere i primi risultati; • carenza di skill.

Il problema della creazione di nuove competenze è particolarmente sentito – non solo per la facilitazione dell’internazionalizzazione e dell’innovazione – ma anche nella qualificazione di personale interno e consulenti esterni – manager di rete – che aiutino le imprese nella progettazione, nella realizzazione e nello svi-luppo della rete.

21 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

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23 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

La Rappresentazione Contabile delle Aggre-gazioni tra Imprese Maria Chiara Vietti

Il fenomeno dell’aggregazione d’impresa ha avuto un forte sviluppo tra i ricercatori della scuola di Harvard che, partendo da una riflessione sulla confi-gurazione sociale di una comunità come organo costituito da classi, famiglia, associazioni, introdussero il concetto di “rete”. Grazie a questi studi fu dato il via a quella teoria che con il tempo prese il nome di Network Analysis (PRO-

VASI, MONTI, 2015). Di seguito ci si concentrerà sulla rappresentazione contabile delle aggrega-

zioni tra imprese soffermandosi su:

1. Il Bilancio Consolidato; 2. I Consorzi; 3. Le Reti.

Il Bilancio Consolidato

Il Bilancio Consolidato è un documento attraverso cui vengono rappresen-tate le situazioni economico-finanziarie e patrimoniali di più entità giuridiche aggregate in un’unica entità economica 1.

Il d.lgs. n. 127/1991 ha introdotto l’obbligo di redazione e pubblicazione dei Bilanci Consolidati ed ha rappresentato l’unica fonte normativa in Italia per molti anni. In seguito, con il d.lgs. n. 139/2015 sono state apportate alcune modifiche alla normativa sul consolidato.

In primo luogo occorre definire i soggetti che devono obbligatoriamente redigere il bilancio consolidato. Ai sensi dell’art. 25 del d.lgs. n. 127/1991 re-digono obbligatoriamente il Bilancio consolidato:

1. le SPA, SAPA e SRL che controllano un’impresa; 2. gli Enti Pubblici, se hanno per oggetto esclusivo o principale un’attività

1 OIC 17, Principio Contabile emanato dall’Organismo Italiano di Contabilità.

24 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

commerciale e se controllano una SPA, SAPA o una SRL; 3. le società cooperative e le mutue assicuratrici che controllano una socie-

tà per azioni, in accomandita per azioni o a responsabilità limitata.

Cosa si intende per società controllata? Per società controllate si considera-no quelle indicate all’art. 2359 c.c.:

1. le società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti eser-citabili nell’assemblea ordinaria (controllo di diritto);

2. le società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria (controllo di fatto);

3. le società che sono sotto influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa (controllo contrattuale).

Per ciò che concerne il controllo contrattuale l’art. 26 del d.lgs. n. 127/1991 indica che: «Agli stessi effetti sono in ogni caso considerate controllate:

a) le imprese su cui un’altra ha il diritto, in virtù di un contratto o di una clausola statutaria, di esercitare un’influenza dominante, quando la legge ap-plicabile consenta tali contratti o clausole;

b) le imprese in cui un’altra, in base ad accordi con altri soci, controlla da sola la maggioranza dei diritti di voto».

Sono previsti, però, taluni casi di esonero dalla redazione del documento consolidato, contenuti nell’art. 27 del d.lgs. n. 127 ora modificato dal d.lgs. n. 139/2015. Vengono così esonerate dalla redazione del Consolidato: «le impre-se controllanti che, unitamente alle imprese controllate, non abbiano supera-to, per 2 esercizi consecutivi, 2 dei seguenti limiti:

1. 20 milioni di Euro (prima 17,5) nel totale degli attivi degli stati patri-moniali;

2. 40 milioni di Euro (prima 35) nel totale dei ricavi delle vendite e delle prestazioni;

3. 250 dipendenti occupati in media durante l’esercizio». I limiti devono essere calcolati sui bilanci d’esercizio senza operare alcuna

rettifica di consolidamento. L’esonero non è applicabile qualora l’impresa controllante o una delle im-

prese controllate sia un ente di interesse pubblico (modifica dell’art. 7, d.lgs. n. 139/2015) e non più qualora abbia emesso titoli quotati in borsa. Si riduce in tal modo la possibilità di esonero.

L’esonero si applica anche in caso di imprese che controllino altre imprese se:

1. l’impresa è controllata al 95% o, per percentuali inferiori, purché i soci rappresentanti almeno il 5% del capitale non abbiano fatto richiesta per la re-

25 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

dazione del bilancio consolidato almeno sei mesi prima della fine dell’eserci-zio;

2. l’impresa controllata è soggetta al diritto di uno Stato Membro dell’UE; 3. l’impresa controllante redige e sottopone a controllo il proprio consoli-

dato secondo il diritto di uno stato membro UE o in conformità agli IFRS; 4. l’impresa controllata non ha emesso titoli quotati in borsa.

L’impresa controllata dovrà dare informativa delle ragioni dell’esonero in nota integrativa.

Principi Contabili Applicati

È importante indicare quali siano i principi contabili utilizzati in caso di re-dazione di Bilancio Consolidato. In Italia viene utilizzato l’OIC 17 emanato dall’Organismo Italiano di Contabilità e adatto ai casi propri del tessuto italia-no caratterizzato da piccole e medie imprese. L’OIC 17 rimanda a quanto so-pra indicato sul concetto di “controllo” inteso ai sensi dell’art. 2359 c.c.

Bisogna, però, considerare che non esistono unicamente i principi contabili nazionali e che a livello internazionale l’International Accounting Standard Board ha emanato un principio contabile, l’IFRS 10, che in modo diverso de-finisce il concetto di controllo. L’IFRS, inoltre, è stato introdotto eliminando il precedente principio IAS 27 sul Bilancio Consolidato. L’IFRS 10 indica che il concetto di controllo è un rapporto tra l’investor e l’investee. Vi è controllo secondo l’IFRS 10 quando l’investor è esposto a rendimenti variabili o detiene diritti su tali rendimenti derivanti dal proprio rapporto con l’investee e ha nel contempo la capacità di incidere su tali rendimenti (POROY ARSOY A., 2016).

In conclusione si vuole evidenziare come i principi contabili internazionali definiscano il concetto di controllo in maniera completamente diversa rispetto all’OIC 17 e giusta o sbagliata che sia la definizione dell’IFRS 10 deve essere applicata alle società italiane che redigono il Bilancio Consolidato applicando gli IAS/IFRS.

Area di Consolidamento

Il Bilancio Consolidato include al suo interno:

• le società controllate, come sopra definite; • le società partecipate, in cui la capogruppo esercita un’influenza notevole;

26 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

• le joint venture, in cui la capogruppo esercita un controllo congiunto in-sieme ad altri.

Metodi di Consolidamento

I metodi di consolidamento adottati nel Bilancio Consolidato sono quelli previsti dall’OIC 17:

• il metodo di consolidamento integrale, line by line per le società control-late. Si tratta di un metodo di consolidamento analitico attraverso cui le attivi-tà e passività della società controllata vengono consolidate integralmente;

• l’equity method (metodo del patrimonio netto) che si applica in caso di società partecipate ed è previsto dall’art. 36 del d.lgs. n. 127/1991 che rimanda all’art. 2426, n. 4, c.c. Si tratta di un metodo di consolidamento sintetico (cfr. OIC 17) con cui la partecipazione viene valutata per un importo pari alla cor-rispondente frazione di Patrimonio Netto risultante dall’ultimo bilancio, de-tratti i dividendi ed operate le opportune rettifiche;

• il metodo proporzionale è un metodo utilizzato per il consolidamento del-le Joint Venture. Sulla base della quota di pertinenza della controllante vengo-no attratte attività e passività, costi e ricavi delle imprese a controllo congiunto (OIC 17).

Rettifiche di Consolidamento

All’interno del Bilancio Consolidato il metodo di consolidamento integrale è quello rilevante e viene utilizzato, come anticipato, nel consolidamento di Società controllate. Di seguito si riportano alcuni esempi di rettifiche di conso-lidamento effettuate attraverso il predetto metodo analitico.

Hp: la società A ha una partecipazione di controllo (70%) in B di 500 (K Euro) valutata al Costo Rettificato.

Nel Bilancio Consolidato la Società B verrà consolidata integralmente da

27 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

A. In primo luogo è necessario confrontare la partecipazione in B con la corri-spondente frazione di P. Netto. Dal confronto emerge che la partecipazione acquistata a 500 ora vale 560. La differenza di 60 può essere dovuta:

1. ad un buon affare di A, che ha acquistato una partecipazione in B ad un prezzo inferiore. In tal caso la differenza dovrà essere iscritta nella Riserva da Consolidamento nel Patrimonio Netto Consolidato;

2. alla previsione di rischi economici futuri. A ha acquistato la partecipa-zione ad un prezzo inferiore poiché prevede che si avranno delle perdite in fu-turo. In tal caso la differenza andrà iscritta nel Passivo Consolidato nel Fondo da Consolidamento per Rischi e Oneri Futuri.

Qualora dal confronto si ottenesse una differenza positiva, all’opposto, l’OIC 17 indica che questa dovrà essere allocata ai plusvalori latenti dell’atti-vo fino al raggiungimento del valore corrente ed i valori rimanenti, non alloca-ti, saranno considerati quale avviamento. Nel caso in cui non vi fossero plu-svalori latenti la differenza positiva andrà iscritta in detrazione dalla riserva da consolidamento nel Patrimonio Netto Consolidato.

Si ipotizza che la Società abbia fatto un buon affare:

• Bisognerà eliminare il titolo partecipativo della controllante nella control-lata poiché esso rappresenta effettivamente una frazione del patrimonio netto di B. Nello stesso tempo viene rilevata la differenza riscontrata nel consolida-mento.

28 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

• Bisogna rilevare anche le interessenze di terzi del 30%: (800 x 30%) = 240

Le interessenze di terzi non sono altro che i diritti dei “soci di minoranza”, come li definisce l’OIC 17. Infatti, nell’esempio, la Società A non ha il con-trollo sul 100% di B ma solo il 70%. Bisognerà rilevare a chi appartiene il ri-manente 30%. I diritti dei soci di minoranza possono essere meglio definiti se-condo l’IFRS 3 che parla di “non controlling interest” e quindi di “interessi non di controllo”. Come si è detto il controllo si può avere anche in virtù di clausole statutarie, accordi con i soci, contratti, e quindi il parlare di “soci di minoranza” fornisce forse una connotazione quantificativa non necessaria e inesatta. (SCOTTI, 2012).

Una parte della dottrina però sostiene che il capitale di terzi dovrebbe esse-re iscritto separatamente dal Patrimonio Netto o come passività o come una voce separata tra il Patrimonio Netto e le Passività (LOLI, 1980; SARCONE, 1985; CASSANDRO, 1985; PARIS, 1986).

All’interno della dottrina che predilige l’iscrizione del Capitale di Terzi come voce del Patrimonio Netto, invece, vi è chi sostiene che tali interessenze debbano essere esposte in un’unica posta rappresentativa dei diritti delle mi-noranze (AZZINI, 1975; PASSAPONTI, 1994: PEPE ,1968; PISONI, 1983).

Nell’esempio, seguendo la dottrina maggioritaria e soprattutto la prassi, la voce Capitale e Riserve di terzi è stata ricondotta ad una posta del Patrimonio Netto.

È necessario anche attribuire l’utile di B di competenza di terzi, ovvero, ipotizzando un utile di B di 100:

(100 x 30% spetterà ai terzi). Scrittura di Stato Patrimoniale

a 560500

60

Capitale e riserve di B #Partecipazione in B

Riserva di consolidamento

a 240Capitale e riserve di B Capitale di terzi

a 30Utile di B Utile di terzi

29 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

Scrittura di Conto Economico

Crediti/debiti intragruppo

Poiché bisogna pensare al Bilancio Consolidato come il documento che rappresenti un’unica entità economica, bisognerà anche “eliminare” tutte le operazione realizzate tra la società controllante e la controllata nell’esercizio. (PISONI ET AL., 2007) Tali operazioni infatti vanno a “gonfiare” il bilancio consolidato apportando una maggiorazione inesistente (OIC 17).

Hp: A ha un credito di 200 verso B, tale credito dovrà essere rettificato nel bilancio consolidato e si avrà così:

Stato Patrimoniale

Conto Economico

Utili interni

Nel caso in cui nelle operazioni infragruppo si siano realizzati degli utili in-terni, bisognerà, anche in questo caso, eliminarli come se l’operazione non fosse mai avvenuta. Si ipotizzi il caso in cui la società A abbia venduto merci alla società B e realizzato un utile da questa vendita. Qualora poi B non abbia rivenduto interamente le merci ai terzi verrebbe a crearsi una situazione per cui nel Bilancio Consolidato vi sarebbero sia le merci in magazzino (che B ha comprato da A) e sia l’utile (che A ha realizzato dalla vendita a B). Non è però possibile che un’entità economica realizzi una vendita con se stessa e tanto-meno che abbia alla fine dell’esercizio un utile realizzato dalla vendita insie-me con le merci relative alla medesima vendita ancora in magazzino. Pertanto risulta necessario rettificare l’utile interno realizzato da A nella vendita per la quota parte di merci non ancora vendute da B ai terzi.

Hp: A ha venduto a B materie prime per 10 realizzando un utile interno di 2 e le materie prime sono ancora per metà nel magazzino di B, si avrà:

2/2=1

a 200debiti vs controllante A crediti vs controllata B

a 30Utile di terzi Utile di B

a 200Ricavi di A Costi di B

30 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

Rettifica Stato Patrimoniale

Rettifica Conto Economico

Dividendi

Un’altra importante rettifica da effettuare è quella relativa ai dividendi per le stesse motivazioni legate a quanto si è detto sugli utili interni. Una società non potrà distribuire a se stessa dividendi e quindi, considerando A e B come un’unica entità, questi devono essere eliminati poiché vanno a “gonfiare” i va-lori del Bilancio.

Hp: B ha distribuito ad A dividendi per 20 nell’anno, si avrà: Rettifica di Stato Patrimoniale

Rettifica Conto Economico

I Consorzi

Il consorzio è un contratto regolato dagli artt. 2602 ss. c.c. mediante il qua-le più imprenditori istituiscono un’organizzazione comune per la disciplina o lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese, al fine di soddisfa-re gli interessi dei consorziati.

Esistono vari tipi di consorzi che possono essere con attività interna o esterna.

I consorzi con attività interna sono atti a regolamentare i rapporti tra gli stessi consorziati. I consorzi con attività esterna invece hanno “un ufficio de-

a 1Utile di A Rimanenze materie prime

Variazione rimanenze a 1materie prime

Utile di A

a 20Utile di A Riserva utile consolidato

a 20Didivendi di A Utile di A

31 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

stinato a svolgere un’attività con i terzi” (art. 2612 c.c.). I consorzi con attività esterna, a differenza di quelli con attività interna, de-

vono dare pubblicità delle loro attività e ai sensi dell’art. 2615-bis coloro che dirigono il consorzio devono depositare al registro delle imprese, entro due mesi dalla chiusura dell’esercizio annuale, la situazione patrimoniale osser-vando le norme relative al bilancio d’esercizio delle società per azioni.

Per situazione patrimoniale si intende il Bilancio d’esercizio comprensivo di Stato Patrimoniale, Conto Economico e Nota Integrativa.

Dato che il consorzio non ha, di norma, lo scopo di realizzare utili, il suo bilancio dovrebbe normalmente chiudere in pareggio. Le ultime indagini svol-te negli Usa hanno però evidenziato che la crisi sta colpenso molti organismi no profit. Il No Profit Finance Found ad aprile 2009 ha rilevato che partendo la un campione di 1200 organizzazioni statunitensi solo il 12% riteneva di po-ter raggiungere il break-even point (KUNZ, 2011).

Di seguito si riporta un esempio di Stato Patrimoniale e un Rendiconto di Gestione che raggruppa le principali voci di Conto Economico del Consorzio.

A seconda della tipologia di attività del consorzio si caratterizzano, ad esempio, i seguenti conti economici:

Consorzi che svolgono particolari e limitati servizi a favore dei consorziati: in questi casi il conto economico evidenzierà, oltre ai costi di gestione, i costi per le prestazioni di servizi effettuate dal consorzio nei confronti dei consor-ziati (costi del personale, ammortamenti, costi per l’utilizzo di beni di terzi, ecc.); nei proventi verranno registrate le fatture ai consorziati per i servizi for-niti e gli eventuali contributi dei consorziati che consentono al consorzio la

Crediti verso Consorziati Fondo ConsortileImmobilizzazioni Avanzo/(Disavanzo) di GestioneAltri Crediti Debiti verso consorziatiCassa Debiti verso FornitoriBanca Debiti diversi

TFR

Totale Attivo Totale Passivo

Situazione PatrimonialeAttivo Passivo

Contributi dei ConsorziatiCosti di GestioneAvanzo/(Disavanzo) di Gestione

Rendiconto di Gestione

32 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

copertura dei costi di gestione relativi al suo ordinario funzionamento. Questi ultimi non sono da confondere con il fondo consortile.

Consorzi a ribaltamento dei costi: in tali consorzi tutti i costi sostenuti rela-tivi all’attività svolta vengono «ribaltati» sui consorziati secondo gli accordi consortili in proporzione alle loro quote di partecipazione. L’imputazione dei costi consorziati avviene attraverso fatturazioni usualmente periodiche, con conguaglio a fine esercizio. Di conseguenza il bilancio del consorzio chiude sempre in pareggio (Memento Pratico Contabile, 2016).

Fondo Consortile

I consorzi con attività esterna e le società consortili devono poter disporre di fondi per realizzare il loro oggetto sociale. All’art. 2614 c.c. viene infatti indicato che: «i contributi dei consorziati e i beni acquistati con questi contri-buti costituiscono il fondo consortile. Per la durata del consorzio i consorziati non possono chiedere la divisione del fondo, e i creditori particolari dei con-sorziati non possono far valere i loro diritti sul fondo medesimo».

Tale fondo consortile deve restare vincolato, per tutta la durata del contratto, a garanzia e tutela dei terzi. Con tale capitale di partenza il consorzio effettua inve-stimenti necessari per la propria attività. Il fondo consortile ha la natura di una ri-serva non divisibile, cioè non distribuibile, poiché vincolata per tutta la durata del contratto. Qualora in un consorzio si verificasse un disavanzo di gestione, non ri-pianabile mediante l’utilizzo di avanzi di gestione di esercizi precedenti, lo stesso non può andare a decurtare il fondo consortile (Memento Pratico Contabile, 2016).

Si ponga ad esempio il seguente caso:

Ricavi per serviziCosti per serviziContributi dei consorziatiCosti di gestione del consorzioAvanzo / (Disavanzo) di gestione

Rendiconto di Gestione

1.500 2.000-

500-

Rendiconto di GestioneContributi dei ConsorziatiCostiDisavanzo di Gestione

33 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

Poiché il Fondo Consortile non si può ridurre, sarà necessario che i consor-ziati provvedano a ripianare il disavanzo, oppure che venga inserito un credito verso i consorziati nell’attivo. Si avrà così:

I contributi erogati al consorzio dagli aderenti si possono distinguere in due differenti tipologie: ordinari e straordinari.

Dalla differente natura degli stessi discende il diverso trattamento contabi-le, qui di seguito analizzato:

1. Contributo iniziale o straordinario, destinato a costituire il fondo consor-tile. Tali versamenti hanno la natura di veri e propri conferimenti di capitale e saranno così contabilizzati dal consorzio:

2. Contributi periodici versati per fronteggiare i costi di ordinario funzio-

Crediti verso Consorziati Fondo Consortile 1.000 Immobilizzazioni 650 Avanzo/(Disavanzo) di Gestione -500Altri Crediti 500 Debiti verso consorziati 200Cassa 450 Debiti verso Fornitori 700Banca 400 Debiti diversi 350

TFR 250

Totale Attivo 2.000 Totale Passivo 2.000

Situazione PatrimonialeAttivo Passivo

Crediti verso Consorziati 500 Fondo Consortile 1.000 Immobilizzazioni 650 Avanzo/(Disavanzo) di Gestione - Altri Crediti 500 Debiti verso consorziati 200Cassa 450 Debiti verso Fornitori 700Banca 400 Debiti diversi 350

TFR 250

Totale Attivo 2.500 Totale Passivo 2.500

Situazione PatrimonialeAttivo Passivo

2.000 2.000-

- Disavanzo di Gestione

Rendiconto di GestioneContributi dei ConsorziatiCosti

aCassa Fondo Consortile

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namento del consorzio. Hanno la natura di erogazioni ordinarie, per l’esercizio dell’attività comune. Tali contributi verranno contabilizzati dal consorzio nel modo seguente:

Società consortile

Ai sensi dell’art. 2615-ter i consorzi possono decidere di avere una forma so-cietaria. Il legislatore consente così di utilizzare con il consorzio i modelli so-cietari previsti per il raggiungimento di uno scopo di lucro. Tale previsione normativa ha generato un lungo dibattito sulla disciplina applicabile in caso di Società Consortile. L’orientamento della dottrina maggioritaria è quello se-condo cui lo scopo consortile in nessun modo può influenzare la disciplina del tipo societario scelto che dovrebbe essere quindi interamente applicata. Per-tanto secondo questo orientamento il consorzio che decide di presentarsi sotto-forma di società dovrà applicare tutte le norme relative al tipo di società scel-to. Diverso orientamento è quello secondo cui è applicabile una disciplina mi-sta dove formalmente saranno da applicare le norme sul tipo di società scelto ma nella sostanza verranno applicate le norme sul consorzio (BATTIROLO, 2016).

L’orientamento giurisprudenziale maggioritario appoggia questa seconda posizione: Cass. 4 novembre 1982, n. 5787: «nel caso di “società-consorzio”, cioè di società commerciale che venga costituita fra più imprenditori, come consentito dall’art. 2615 ter c.c. (introdotto dalla L. 10 maggio 1976, n. 377) per il perseguimento di finalità consortili, di discplina e coordinamento delle rispettive attività, restano interamente applicabili le disposizioni sui consorzi dettate dagli artt. 2602 e ss. c.c., tenuto conto che l’espressa previsione in questo senso contenuta nell’art. 2620 primo comma c.c. non può trovare limi-tazioni o deroghe, sotto il profilo della compatibilità di tali disposizioni con quelle dettate in tema di società, perché, nell’indicata fattispecie, la società non viene impiegata nella sua funzione tipica, ma come strumento di attuazio-ne di una volontà diversa, specificamente riconosciuta e regolamentata dalla legge».

Inoltre con lo stesso indirizzo la Cass. 27 novembre 2003, n. 18113: «in materia di società consortile costituita secondo il tipo delle società di capitali (nella specie, s.r.l.), la causa consortile può comportare la deroga delle nonne che disciplinano il tipo adottato, qualora. la loro applicazione sia incompati-

aCassa Contributi dei Consorziati

35 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

bile con profili essenzlali del fenomeno consortile, fermo restando che slffatta deroga non può giustificare lo stravolgfmento del principi fondamentali che regolano il tipo di società di capitali scelto».

Infine l’orientamento è stato da ultimo confermato con la Cass. 17 giugno 2011, n. 13293: «In materia di società consortile costituita secondo il tipo del-le società di capitali, la causa consortile può comportare la deroga delle norme che disciplinano il tipo adottato, senza però giustificarne lo stravolgi-mento del connotati fondamentali, dovendosi tenere conto che non può co-munque essere eliminata o elusa la causa consortIle,ill cui inserimento nella struttura sociale adottata, da parte del consorziati, introduce una IimltazIone, almeno Interna, delle dispozizfoni applicabili al particolare tipo di socfetà prescelto».

Le Reti d’Impresa

Il contratto di Rete è stato introdotto con la legge n. 33/2009 con cui «più imprenditori perseguono lo scopo di accrescere, individualmente e collettiva-mente, la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato».

Il contratto di rete ha così la finalità di accrescere la capacità innovativa e la competitività delle imprese aderenti. Il legislatore ha guardato con favore al contratto di rete tanto da prevedere anche benefici di carattere amministrativo e finanziario nonché incentivi fiscali in caso di creazione di una rete (BOCCI, 2011).

L’Agenzia delle Entrate con la Circolare n. 20/E del 18 giugno 2013 ha poi chiarito le differenti posizioni della “rete contratto” e della “rete soggetto”. La rete d’impresa che per l’effetto dell’iscrizione al registro delle imprese diviene un nuovo soggetto giuridico in qualità di autonomo centro d’imputazione dei costi diventa rilevante anche dal punto di vista tributario: Rete Soggetto. La rete soggetto è così un soggetto distinto dalle altre imprese che hanno sotto-scritto il contratto. Con il conferimento al Fondo Patrimoniale della Rete Sog-getto l’impresa retista ne diventa partecipante; tale conferimento è infatti una partecipazione. La rete soggetto è solitamente dotata di un fondo patrimoniale e di un organo comune di rete.

Per ciò che concerne la Rete Contratto invece, l’Agenzia delle Entrate ha confermato con la risoluzione n. 70/E del 30 giugno 2011 che l’assenza di un’autonoma soggettività giuridica e conseguentemente fiscale delle reti di impresa comporta che gli atti posti in essere in esecuzione del programma di rete producano i loro effetti direttamente nelle sfere giuridico-soggettive dei partecipanti alla rete. Nella rete-contratto la titolarità di beni, diritti, obblighi

36 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

ed atti è riferibile, quota parte, alle singole imprese partecipanti; in generale, la titolarità delle situazioni giuridiche rimane individuale dei singoli partecipanti, sebbene l’organo comune possa esercitare una rappresentanza unitaria nei confronti dei terzi.

L’operatività di gestione delle operazioni della rete contratto potrà essere effettuata in due modi differenti (Circolare n. 20/E):

1. l’imputazione delle singole operazioni avverrà direttamente alle imprese partecipanti. Vi è quindi l’obbligo di fatturare da parte di queste ultime ed a queste ultime, rispettivamente, le operazioni attive e passive poste in essere dall’organo comune. Per i beni acquistati ed i servizi ricevuti nell’esecuzione del programma di rete, il fornitore dovrà, pertanto, emettere tante fatture quan-ti sono i partecipanti rappresentati dall’organo comune, intestate a ciascuno di essi e con l’indicazione della parte di prezzo ad essi imputabile. Specularmen-te per le vendite e le prestazioni di servizi effettuate dall’organo comune, cia-scun partecipante dovrà emettere fattura al cliente per la quota parte del prezzo a sé imputabile. Tale scelta si presenta molto complicata soprattutto dal punto di vista esterno qualora un fornitore debba ad esempio predisporre tante fattu-re quanti siano i retisti e per la quota parte corrispondente ad ogni retista.

2. gli eventuali atti posti in essere dalle singole imprese o dall’“impresa ca-pofila” – che operano senza rappresentanza – non comportano alcun effetto sulla sfera giuridica delle altre imprese partecipanti al contratto. In tale ipotesi, infatti, qualora trattasi di atti esecutivi di singole parti o fasi del contratto di rete, la singola impresa o l’eventuale “capofila” dovrà “ribaltare” i costi ed i ricavi ai partecipanti per conto dei quali ha agito emettendo o ricevendo fattu-re per la quota parte del prezzo riferibile alle altre imprese. L’individuazione di un’impresa capofila sembra essere il metodo migliore per gestire le opera-zioni della rete, ribaltando poi le operazioni per la quota parte relativa agli altri retisti partecipanti alla rete. Ciascuna impresa aderente alla rete, pertanto, farà concorrere alla formazione del proprio risultato di periodo i costi che ha soste-nuto e i ricavi che ha realizzato per l’attuazione del programma di rete, a pre-scindere dall’esistenza o meno di un organo comune dotato di poteri di rappre-sentanza.

Infine ai sensi dell’art. 3, comma 4-ter, punto 3, legge n. 33/2009, modifi-cato così dall’art. 17, comma 1, legge n. 154/2016: «qualora la rete di imprese abbia acquisito la soggettività giuridica ai sensi del comma 4-quater, entro due mesi dalla chiusura dell’esercizio annuale l’organo comune redige una situazione patrimoniale, osservando, in quanto compatibili, le disposizioni re-lative al bilancio di esercizio della società per azioni, e la deposita presso l’ufficio del registro delle imprese del luogo ove ha sede; si applica, in quanto

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compatibile, l’articolo 2615-bis, terzo comma, del codice civile». Si tratta del caso in cui la rete sia effettivamente un soggetto giuridico e in tal caso dovrà redigere il bilancio d’esercizio, poiché per situazione patrimoniale si intendo-no lo stato patrimoniale, il conto economico e la nota integrativa.

Nel caso in cui la rete non abbia soggettività giuridica, invece, sarà neces-saria la redazione del bilancio d’esercizio solo se (art. 4-ter, ultima parte, così modificato dall’art. 45, comma 1, legge n. 134/2012, poi dall’art. 36, comma 4, lett. a), legge n. 221/2012) il contratto prevede l’istituzione di un fondo pa-trimoniale comune e di un organo comune destinato a svolgere un’attività, an-che commerciale, con i terzi. In tali casi quindi anche la rete contratto sarà soggetta alla redazione e al deposito del Bilancio della rete al Registro delle Imprese. L’impresa di riferimento dovrà occuparsi del deposito della situazio-ne al registro delle imprese in cui ha la sede.

L’impresa di riferimento non coincide necessariamente con l’eventuale impresa mandataria o capogruppo: è esclusivamente un’identificazione al fine della presentazione dei dati da iscrivere nel Registro delle Imprese, come ri-portato nel Decreto del Ministero dello Sviluppo Economico del 18 ottobre 2013 e relativa circolare 3663/C del 22 ottobre 2013 e sulle istruzioni per la compilazione della modulistica ministeriale (circolare 3668/C del 27 febbraio 2014 sempre del Ministero dello Sviluppo Economico).

Riferimenti Normativi e Bibliografici

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39 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

Il regime tributario delle aggregazioni fra imprese: un focus sulle reti di imprese Alessandro Terzuolo 1

SOMMARIO:

1. Introduzione sul concetto di aggregazione. – 2. Le diverse tipologie di aggregazione. – 3. Focus sulla fiscalità delle reti di imprese. – 4. Le reti soggetto. – 5. Le reti contratto. – 6. Cenni di comparazione sul differente regime tributario delle varie tipologie di aggregazione.

1. Introduzione sul concetto di aggregazione

Il tema delle aggregazioni di imprese, dal punto di vista tributario, richiede una preliminare specificazione terminologica per evitare sovrapposizioni e fraintendimenti con gli strumenti impositivi, solitamente opzionali e caratte-rizzati da finalità agevolative, previsti per i gruppi di imprese.

È infatti necessario distinguere il concetto di aggregazione di imprese, ela-borato dalla dottrina per identificare un fenomeno composito dalle diverse sfaccettature giuridiche e organizzative, rispetto ai regimi tributari previsti per le imprese facenti parte di un medesimo gruppo.

Un’aggregazione di imprese prevede che i soggetti che prendono parte all’aggregazione mantengano in misura più o meno ampia la loro autonomia decisionale e gestionale esercitando alcune funzioni in comune al fine di rag-giungere uno scopo o un obiettivo difficilmente conseguibile dal singolo sog-getto.

Per usufruire dei regimi tributari stabiliti per i gruppi di imprese, invece, sono necessari rapporti di partecipazione più o meno ampia ma sostanzialmen-te riconducibili al concetto di controllo.

Essendo quindi il concetto di aggregazione meno definito e inclusivo di fe-

1 Professore a contratto e cultore di diritto tributario presso l’Università degli Studi di Tori-no. Dottore Commercialista e revisore legale.

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nomeni contrattuali estremamente eterogenei, anche i risvolti tributari della singola aggregazione possono essere profondamente diversi tra di loro. La va-riabile fiscale risultante dalla singola tipologia di aggregazione scelta potrà quindi influenzare positivamente o negativamente i risvolti economici dell’o-perazione imprenditoriale sottostante l’aggregazione, diventando quindi un driver valutativo estremamente rilevante.

Inoltre, i regimi impositivi opzionali previsti per i gruppi di imprese quali il consolidato fiscale nazionale (previsto dagli artt. 117 ss. TUIR), il consolidato fiscale mondiale (previsto dagli artt. 130 ss. TUIR) e la c.d. IVA di gruppo (previsto dall’art. 73, ultimo comma, d.P.R. n. 633/1972), hanno come finalità sostanziale quella di consolidare la base imponibile, ai fini delle imposte diret-te o indirette, dei vari soggetti passivi facenti parte del gruppo di imprese, con-cedendo in alcuni casi delle agevolazioni ulteriori rispetto al mero consolida-mento di basi imponibili eventualmente di segno opposto.

Per quanto riguarda le aggregazioni di imprese, invece, la finalità del legi-slatore è quella di conferire o meno soggettività tributaria alla specifica moda-lità di aggregazione di imprese, evitando così che gli accordi economico con-trattuali conclusi tra singole diverse entità possano creare ottimizzazioni fisca-li non desiderate e non direttamente incentivate. Il centro di interessi comuni e di relazioni economiche creato da un’aggregazione di imprese può in alcuni casi acquisire soggettività passiva tributaria in virtù dell’autonomia organizza-tiva e decisionale raggiunta. È pertanto interesse precipuo del legislatore e de-gli operatori economici riuscire a distinguere chiaramente i casi in cui una par-ticolare tipologia di aggregazione comporti l’insorgere o meno della soggetti-vità tributaria. Di seguito si analizzano le principali tipologie di aggregazioni più frequenti nell’ordinamento italiano.

2. Le diverse tipologie di aggregazione

La tipologia di aggregazione, più recente in termini di esistenza temporale nel nostro ordinamento, ossia quella delle reti di imprese, gode oggi di un di-screto successo in quanto alla data del 3 settembre 2016 conta 3210 reti di im-presa che coinvolgono più di 15.000 imprese di cui circa il 15% è rappresenta-to da “reti-soggetto”, mentre la restante parte dalle cosiddette “reti-contratto”. Le motivazioni di questo frequente utilizzo risiedono sia nelle specificità del tessuto imprenditoriale italiano (caratterizzato in larga parte da piccole e me-die imprese che, per loro natura, sono maggiormente propense a creare legami di rete con altre entità economiche per gestire progetti imprenditorialmente più complessi e impegnativi) sia nella passata e superata previsione di incentivi

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fiscali alle stesse reti, sia, infine, nell’identificazione di alcune reti dotate di soggettività giuridica autonoma ad opera delle modifiche normative apportate dal d.l. n. 83/2012 (c.d. decreto crescita).

Accanto a strumenti giuridici più recenti, vi sono istituti ben consolidati nel nostro ordinamento giuridico quali quello del consorzio previsto dagli articoli 2602 ss. c.c. (eventualmente con attività esterna come previsto dall’art. 2612 ss. c.c.) e delle società consortili di cui all’art. 2615-ter c.c., su cui non ci si soffermerà particolarmente in quanto non presentano minori punti dubbi og-getto di dibattito, non fosse altro che per la notevole stratificazione giurispru-denziale e di prassi cui possono fare riferimento.

Un altro strumento ben consolidato che risponde alla necessità di aggrega-zioni di imprese è rappresentato dai raggruppamenti temporanei di imprese (o associazioni temporanee di imprese) spesso necessariamente utilizzate per par-tecipare a gare per l’appalto di opere pubbliche o per forniture alla pubblica amministrazione. Com’è noto questa forma di collaborazione giuridica tra im-prese autonome è volta spesso alla conclusione di un singolo affare, che in al-cuni casi è per legge deputato a questa tipologia di aggregazione.

Coinvolgendo invece nell’obiettivo della cooperazione anche soggetti non residenti all’interno dell’ordinamento italiano, il gruppo europeo di interesse economico può essere certamente adatto a favorire l’aggregazione tra imprese. Lo strumento in questione richiede, tuttavia, l’adesione di almeno due parteci-panti provenienti da paesi diversi dell’Unione Europea e non prevede la possi-bilità di coinvolgere soggetti extra europei. La sua costituzione avviene attra-verso un contratto che è soggetto a registrazione e dota il gruppo della capaci-tà di essere titolare di diritti e obbligazioni, coinvolgendo i suoi membri nella responsabilità illimitata e solidale per le obbligazioni assunte dal gruppo.

Infine, è possibile fare riferimento allo strumento delle joint-venture, spes-so utilizzate nella prassi internazionale, che si dividono in joint-venture con-trattuali e c.d. corporated. Nel primo caso l’accordo stipulato tra le imprese partecipanti alla joint-venture non genera la creazione di un nuovo soggetto giuridico in quanto tale e, ai fini tributari, dovrà essere approfondita con atten-zione l’eventuale soggettività passiva. Per quanto riguarda invece le joint-venture corporated l’accordo stesso prevede la costituzione di una nuova so-cietà distinta rispetto alle imprese partecipanti e pertanto anche la disciplina fiscale farà riferimento alla nuova società.

Ultima tipologia, con specifiche particolarità, per le aggregazioni di impre-se è rappresentata dai c.d. distretti su cui però le agevolazioni fiscali non sono più vigenti a seguito della loro cancellazione ad opera della Legge di stabilità 2014.

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3. Focus sulla fiscalità delle reti di imprese

Le reti di impresa rappresentano uno strumento giuridico di più recente concezione da parte del nostro legislatore ed hanno trovato una chiara identifi-cazione tributaria non dal loro principio ma a seguito di un fitto dibattito av-venuto in dottrina e anche in seguito ad alcune agevolazioni fiscali introdotte (e non più rinnovate) dallo stesso legislatore per le imprese che decidessero di prendere parte a una rete. Le reti inoltre possiedono come caratteristica princi-pale quella di accrescere la reciproca capacità innovativa e la competitività sul mercato delle imprese aderenti.

Occorre innanzitutto premettere come la disciplina civilistica del contratto di rete di imprese è il risultato di una serie di differenti interventi normativi che ne hanno nel tempo modificato la natura, comportando, in particolar modo per l’ultima modifica, rilevanti conseguenze anche in ambito tributario. Gli interventi normativi sono stati nell’ordine apportati dall’art. 3, commi 4-ter e 4-quater, d.l. 10 febbraio 2009, n. 5 (convertito con modificazioni dalla legge 9 aprile 2009, n. 33), dall’art. 45 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83 (c.d. decreto crescita, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 134) ed infine dall’art. 36 del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179 (c.d. decreto crescita-bis, convertito con modificazioni dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221). Le modi-fiche in questione riguardano un ambito temporale di circa un quadriennio, pe-riodo all’interno del quale il contratto di rete ha subito un notevole incremento nell’utilizzo pratico, nonostante alcune incertezze sia sotto il profilo civilistico sia sotto il profilo fiscale.

Tuttavia, a discapito del frequente utilizzo dello strumento giuridico, la modifica che ha comportato rilevanti riflessi anche in ambito tributario è stata l’ultima in ordine temporale, concedendo la possibilità, alle reti dotate di fon-do patrimoniale comune, di acquisire su base volontaria un’autonoma sogget-tività giuridica e, come si vedrà, la conseguente soggettività dal punto di vista tributario.

Le imprese facenti parte della singola rete, qualora la stessa rete sia dotata di un fondo patrimoniale comune e proceda con l’iscrizione nella sezione or-dinaria del registro delle imprese nella cui circoscrizione è stabilita la sua se-de, creeranno un nuovo soggetto di diritto, giuridicamente autonomo rispetto alle singole imprese aderenti al contratto e, conseguentemente, anche dal pun-to di vista tributario.

In realtà l’ultima modifica in commento, seppure non citi direttamente le reti di impresa dal punto di vista tributario, a differenza di quanto avviene ad esempio per i consorzi inclusi esplicitamente tra i soggetti passivi IRES, rap-presenta un’innovazione di grande portata perché, conferendo ad alcuni tipi di

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rete la soggettività giuridica, ne determina la conseguente soggettività tributa-ria. Sebbene non sia tra le finalità principali del presente contributo, va segna-lato che dal punto di vista civilistico, invece, sono state sviluppate alcune ana-logie con l’istituto dei consorzi.

Ad ogni modo, in base ai dati aggiornati a settembre 2016 le reti soggetto rappresentano ancora soltanto circa un quinto del totale delle reti esistenti, a testimonianza che la variabile fiscale, seppur importante, rappresenta, come è giusto che sia, una conseguenza di scelte giuridicamente autonome. Apprez-zabile a riguardo è stata la scelta del legislatore di lasciare al contribuente la possibilità di acquisire o meno la soggettività giuridica, seppur sulla base di un dato meramente formale qual è quello dell’iscrizione nella sezione ordinaria del registro delle imprese. In dottrina il tema della soggettività tributaria è am-piamente dibattuto (si rimanda ex multis a F. GALLO, La soggettività ai fini IRPEG, nel commentario al testo unico delle imposte sui redditi, Roma, 1990) e, sebbene negli anni si sia consolidato l’orientamento secondo cui la soggetti-vità tributaria non possa esservi in assenza di quella civilistica, non sono rari i casi di organizzazioni di beni e di persone, pur privi di piena personalità giuri-dica, che sono considerati soggetti passivi in quanto titolari di una capacità giuridica ridotta (si veda in merito l’art. 73, comma 2, TUIR).

4. Le reti soggetto

L’ultima modifica normativa citata ha creato una sostanziale distinzione tra le c.d. “reti-contratto”, non dotate di soggettività giuridica (almeno nella mag-gior parte dei casi), e le c.d. “reti-soggetto” con soggettività giuridica discen-dente dall’esistenza di un fondo patrimoniale comune e dall’iscrizione nella sezione ordinaria del registro delle imprese.

Tuttavia, come già anticipato, le reti di impresa non sono direttamente cita-te tra i soggetti passivi ma vi rientrano, ai fini delle imposte dirette (in qualità di enti commerciali o di enti non commerciali) ai sensi dell’art. 73, comma 2, TUIR il quale prevede che siano soggetti passivi IRES «oltre alle persone giuridiche, le associazioni non riconosciute, i consorzi e le altre organizza-zioni non appartenenti ad altri soggetti passivi, nei confronti delle quali il presupposto dell’imposta si verifica in modo unitario e autonomo». È il veri-ficarsi in modo autonomo e unitario del presupposto a rendere le reti di impre-sa soggetto passivo, e il requisito è chiaramente connesso alla soggettività giu-ridica autonoma.

Come detto, quindi, la rete-soggetto, in quanto soggetto diverso e autono-mo rispetto alle imprese retiste è considerato singolarmente un soggetto passi-

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vo d’imposta. La suddetta circostanza determina due ordini di conseguenze: la prima sotto il profilo delle imposte dirette (con una distinzione che vedremo in seguito tra enti commerciali ed enti non commerciali) e la seconda sotto il pro-filo delle imposte indirette (in merito all’identificazione di un soggetto passivo ai fini IVA).

Analizzando il primo profilo e dando per assodata la soggettività tributaria ai fini IRES per le reti soggetto, come detto per espressa previsione normativa e seppur sulla base di un mero dato formale, restano da distinguere le reti sog-getto che esercitino attività commerciale rispetto alle reti soggetto che non esercitano attività commerciale. Infatti, qualora la rete soggetto eserciti attività commerciale (come oggetto esclusivo o principale) rientrerà tra gli enti com-merciali di cui all’art. 73, comma 1, lett. b), TUIR, e si renderanno applicabili le disposizioni conseguenti sulla determinazione della base imponibile (artt. 81 ss. TUIR).

Qualora, invece, la rete non eserciti un’attività commerciale in via esclusi-va o prevalente (come ad esempio le reti costituite per lo scambio di informa-zioni) ma solo in via residuale, la stessa rientrerà tra gli enti non commerciali di cui all’art. 73, comma 1, lett. c), e si renderanno applicabili le disposizioni conseguenti sulla determinazione della base imponibile (artt. 143 ss. TUIR).

Ai fini IRAP invece la rete soggetto può essere considerata soggetto passi-vo ai sensi del combinato disposto degli artt. 2 e 3 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, e in particolar modo vi ricadono le reti soggetto con attività commerciale (incluse all’art. 3 nel comma 1, lett. a del suddetto decreto). Sempre in riferimento alle reti soggetto che svolgono attività commerciale, le stesse saranno anche obbligate alla tenuta delle scritture contabili ex art. 13 del d.P.R. n. 633/1972.

Infine, sotto il profilo dell’imposta sul valore aggiunto la rete soggetto veri-fica il presupposto soggettivo di cui all’art. 4 del d.P.R. n. 633/1972. Tuttavia, come previsto dall’art.1 del d.P.R. n. 633/1972, affinché vi sia applicabilità dell’IVA dovranno però essere necessariamente verificati anche rispettiva-mente il presupposto oggettivo e quello territoriale.

Per quanto riguarda infine le dotazioni che le imprese aderenti alla rete de-cidono di assegnare al fondo di dotazione patrimoniale della rete stessa queste vengono trattate, sulla base di una condivisibile interpretazione fornita dall’A-genzia delle Entrate con la Circolare n. 20/E del 18 giugno 2013 nella comple-ta assenza di un dato normativo, come apporti di natura partecipativa nell’am-bito dei soggetti passivi IRES. Tale analogia nei rapporti tra socio e società di capitali da una parte e impresa retista e rete soggetto dall’altra anche se prove-niente da un organo quale l’amministrazione non deputato alla funzione legi-slativa, risulta coerente e operativamente molto lineare.

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5. Le reti contratto

A discapito della sua mancata soggettività giuridica, la rete contratto risulta essere ad oggi la tipologia di rete maggiormente diffusa in Italia. Tale dato di fatto è, secondo il parere dello scrivente, frutto di due diversi motivi attinenti al-la sfera negoziale-contrattuale e all’ambito del legittimo risparmio di imposta.

La prima motivazione risiede nel fatto che la rete contratto risulta meno strutturata rispetto alla rete soggetto e soprattutto conserva la massima auto-nomia da parte delle imprese retiste nei confronti l’una delle altre. La tipologia in analisi consente quindi di soddisfare esigenze di collaborazione che siano più leggere e ben lontane da una cointeressenza societaria. La rete contratto ha quindi nella sua assoluta duttilità il suo maggiore pregio anche se al prezzo di qualche complicazione amministrativa e incertezza fiscale.

La seconda motivazione, che non va sottovalutata, risiede nella previsione di un incentivo fiscale come disciplinato dall’art. 42, comma 2-quater, d.l. 31 maggio 2010, n. 78. L’articolo in commento prevedeva un’agevolazione, ora soppressa, che si sostanziava in un regime di sospensione d’imposta relativo ai soli utili di esercizio accantonati in un’apposita riserva e destinati alla realiz-zazione di investimenti previsti nel programma comune di rete, il quale dove-va essere preventivamente asseverato. L’Amministrazione finanziaria aveva ritenuto che, nel caso di rete soggetto, non fosse possibile usufruibile delle agevolazioni di cui al suddetto art. 42, in quanto, tra le condizioni dell’age-volazione fiscale, vi era la realizzazione degli investimenti previsti dal pro-gramma di rete da parte delle imprese che sottoscrivono o aderiscono al con-tratto, cosa che, sempre secondo il parere dell’Amministrazione, non sarebbe stata realizzata nel caso di specie perché l’investimento sarebbe ad opera di un altro soggetto giuridico (ossia la rete soggetto diverso dall’impresa aderente). Ad ogni modo l’agevolazione suddetta non è stata rinnovata e quindi rappre-senta ormai un ricordo nel nostro ordinamento tributario e per il tema in analisi.

Nel silenzio normativo, l’Amministrazione finanziaria ha ritenuto opportu-no fornire alcune indicazioni di notevole rilevanza pratica affermando che le reti contratto, in quanto sprovviste di un’autonoma soggettività giuridica, lo siano conseguentemente anche in materia tributaria. Tale approccio pur estre-mamente apprezzabile dal punto di vista pratico-operativo dimentica però che la valutazione andrebbe fatta al di là del mero dato formale di iscrizione nel registro delle imprese, ma sulla sostanza della natura di vera e propria orga-nizzazione autonoma in capo alla rete.

Pertanto, sia ai fini delle imposte dirette sia ai fini IVA, le imprese aderenti alla rete manterranno la loro autonomia tributaria, mentre la rete potrà acquisi-re al massimo un proprio codice fiscale. L’apporto di beni o servizi al fondo

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della rete non determina quindi una perdita della titolarità giuridica da parte dell’imprenditore che partecipa alla rete stessa; con la conseguenza che i rica-vi o i costi saranno imputati alla singola impresa partecipante così come, ai fi-ni IVA le operazioni attive e passive saranno oggetto di fatturazione autonoma da parte di ciascuna impresa retista.

Diversa situazione, unicamente dal punto di vista degli adempimenti am-ministrativi e fiscali si ha nel caso in cui una delle imprese retiste decida di svolgere un’attività di “capofila” che si tradurrà in un’attività di mero soggetto esecutore. In questo caso il soggetto esecutore sarà il centro di imputazione principale degli obblighi amministrativi e contabili e dovrà poi ribaltare i rela-tivi ricavi e costi alle singole imprese retiste secondo le rispettive percentuali. Pertanto le operazioni passive determineranno la deducibilità dei costi dal red-dito d’impresa dei singoli imprenditori, così come la detraibilità dell’Iva assol-ta. Per il conteggio della quota individuale di deduzione, di imponibilità e di detrazione, sono prese a riferimento le indicazioni previste nel contratto di rete a proposito della ripartizione dei diritti e dei doveri degli aderenti al contratto. In mancanza di chiare indicazioni contrattuali, si ritiene opportuna una riparti-zione effettuata in quota proporzionale agli apporti economici effettuati dalle singole imprese retiste.

In riferimento, invece, all’apporto di beni e servizi da parte delle imprese aderenti alla rete, esso non comporta una perdita di titolarità giuridica da parte dell’imprenditore partecipante alla rete né si possono ritenere i beni apportati come destinati per finalità estranee allo svolgimento dell’attività d’impresa (con i risvolti che questo comporta ai sensi dell’art. 86, comma 1, lett. c, TUIR) in quanto l’apporto di beni all’attività della rete è strumentale alla stes-sa attività del singolo imprenditore retista.

Infine, si pone il tema di comprendere se la destinazione dei beni alle fina-lità della rete rappresenti o meno il presupposto di imposta dell’imposta sulle successioni e donazioni in virtù della assimilazione ai vincoli di destinazione di cui all’art. 2645-ter c.c. Al di là di recenti e poco condivisibili sviluppi giu-risprudenziali su tale ambito, riferiti per la verità principalmente a casi di trust che per brevità si tralasceranno, è la stessa Amministrazione finanziaria, in un suo provvedimento di prassi del 22 gennaio 2008 (Circolare n. 3/E), che, a proposito di vincoli di destinazione non traslativi come nel caso delle reti con-tratto, ritiene non essere applicabile l’imposta di successione e donazione, scontando agli atti invece l’imposta di registro in misura fissa (come previsto per gli atti privi di contenuto patrimoniale).

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6. Cenni di comparazione sul differente regime tributario delle varie tipologie di aggregazione

Come anticipato al paragrafo 2, sono diverse le modalità in cui un’aggrega-zione di impresa si può realizzare dal punto di vista giuridico, nel presente para-grafo verranno analizzati, non tanto di aspetti di natura civilistica, quanto i ri-svolti fiscali dei singoli istituti.

Una tipologia di aggregazione certamente consolidata nella prassi professio-nale è quella dei consorzi i quali sono soggetti passivi IRES, ai sensi dell’art. 73, comma 2, TUIR ponendo in essere il presupposto di imposta in modo uni-tario e autonomo. A seconda che esercitino in misura prevalente attività com-merciale o non commerciale applicheranno le disposizioni sulla determinazio-ne della base imponibile ai sensi, rispettivamente, degli artt. 81 ss. TUIR op-pure degli artt. 143 ss. TUIR.

I consorzi inoltre si distinguono in consorzi con esclusiva attività interna, ossia con attività svolta solo nei confronti dei consorziati e in consorzi con at-tività esterna, ossia svolta anche nei confronti di terzi. Il primo caso solitamen-te non genera reddito imponibile in quanto gli eventuali proventi dell’attività consortile vengono tassati direttamente in capo ai consorziati, mentre i con-sorzi con attività esterna sono soggetti alle regole impositive ai fini IRES co-me sopra ricordato. Infine, un caso particolare è rappresentato dalle somme percepite dal consorzio per attività svolta nei confronti di terzi ma per conto delle imprese consorziate. In questo caso i proventi saranno imputabili non al consorzio, bensì alle imprese consorziate.

Vi sono, inoltre, le società consortili previste dall’art. 2615-ter c.c. che si definiscono tali qualora l’attività commerciale assuma come proprio oggetto sociale l’attività consortile. Dal punto di vista tributario, le società consortili seguiranno il regime fiscale tipico della tipologia societaria scelta a seconda, ad esempio, che si tratti di società di capitali o di società di persone.

In merito ai risvolti fiscali dei raggruppamenti temporanei di imprese o le as-sociazioni temporanee di imprese, seppur simili a quelli propri della rete con-tratto, negli anni passati si è verificato un ampio dibattito in particolare sul tema della loro eventuale soggettività passiva. Da un lato l’Amministrazione finan-ziaria ha in alcuni casi riconosciuto in tali raggruppamenti la possibilità di dar vita ad un ente associativo a cui sarebbe applicabile il regime di trasparenza previsto dall’art. 5 TUIR, con quindi una determinazione unitaria del reddito nei confronti del raggruppamento, considerato una sorta di società di fatto, per poi attribuire il reddito così determinato per trasparenza alle singole imprese che ne fanno parte. La dottrina prevalente ha invece ritenuto necessario un ragionamen-to volto ad individuare i confini dell’intesa economica e contrattuale del rag-

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gruppamento, per comprendere se si muova all’interno del rapporto di mandato oppure se realizzi di fatto un consorzio e quindi un soggetto passivo IRES. Ad ogni modo è necessario comprendere se vi sia un’autonomia organizzativa e ge-stionale e se le singole imprese formanti l’aggregazione si comportino o meno in modo unitario ed indistinto, e, solo successivamente, identificare la corretta qualificazione fiscale (attraverso la trasparenza fiscale o la soggettività passiva IRES, prevista nelle ipotesi residuali).

Per concludere su questa, si sottolinea come un raggruppamento temporaneo di imprese non dia solitamente luogo ad un soggetto fiscalmente autonomo, no-nostante su questo punto l’Amministrazione finanziaria sia spesso in disaccordo con contribuenti e dottrina e possa considerare società di fatto alcuni raggrup-pamenti, pur in aperta contraddizione con la sentenza della Corte di Cassazione 20 marzo 2009, n. 6791.

Occupandosi invece di gruppi europei di interesse economico è pacifico co-me questi non siano soggetti autonomi di imposta, pur determinando in via uni-taria il reddito d’impresa o di lavoro autonomo prodotto dal GEIE ma al solo fine della ripartizione della base imponibile a ciascun membro.

Ai fini Irap, ai sensi dell’art. 3, comma 2, d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, i GEIE non sono mai considerabili soggetti passivi d’imposta.

Dal punto di vista IVA il GEIE, in virtù dell’attività esercitata, risulta un sog-getto passivo e quindi deve attenersi e sottostare agli obblighi formali e sostanziali previsti appunto in tale ambito. Essendo, inoltre, l’istituto caratterizzato da un’ine-ludibile componente di internazionalità dovranno essere valutati con particolare attenzione i profili di residenza fiscale e in particolar modo l’eventualità di realiz-zare una stabile organizzazione residente nel territorio dello Stato.

Concludiamo la disamina delle aggregazioni fra imprese con le joint-venture, distinguibili, come anticipato nel paragrafo 2, in contrattuali e corporated.

Le prime, che non generano automaticamente la creazione di un nuovo sog-getto passivo tributario non avendo soggettività giuridica, sono state tuttavia og-getto di dibattito e il loro regime fiscale risulta nella pratica incerto. Qualora una joint-venture contrattuale non realizzi i presupposti per l’esistenza di una stabile organizzazione estera di un soggetto residente o di una stabile organizzazione residente di un soggetto estero, si applicheranno sostanzialmente i ragionamenti fatti ai fini dei raggruppamenti temporanei di imprese.

Relativamente invece alle joint-venture c.d. corporated, il corretto inqua-dramento tributario risulta decisamente più semplice in quanto è lo stesso ac-cordo a prevedere la costituzione di una nuova società distinta rispetto alle imprese partecipanti. Si dovrà quindi fare riferimento alla tipologia societaria scelta e soprattutto allo Stato in cui è stata costituita la nuova società, valutan-do, nell’eventualità di distribuzione di utili, la qualificazione fiscale in Italia.

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Le aggregazioni di imprese negli appalti pubblici Simona Rostagno

Intanto ringrazio per il gentile invito e, dovendo introdurre un argomento che di per sé è mastodontico, cercherò prima di tutto di dare delle linee di na-vigazione.

Intanto in questo settore, intendendo come appalti pubblici gli affidamenti pubblici e quindi sia gli appalti propriamente detti che le concessioni – preci-sazione importante perché poi vedremo che ci sono anche delle discipline dif-ferenti – è da tener presente che le aggregazioni possono essere distinte tra ag-gregazioni non equity e equity. Perché? Perché le prime, le aggregazioni non equity, ci portano ad un mondo che quello degli operatori economici aggregati e quindi se vogliamo un modo più noto e più conosciuto a termine di quello che oggi l’art. 45, d.lgs. n. 50/2016. È notorio che la normativa degli affida-menti pubblici è una delle più tormentate del nostro ordinamento, con il che ncontriamo nuovamente figure che conosciamo già da tempo a partire dalle associazioni temporanee di impresa che adesso si chiamano raggruppamenti di imprese per poi arrivare ai consorzi e alle loro categorie fra cui i consorzi sta-bili, istituto tipico degli appalti pubblici, per poi approdare, per esempio, alle aggregazioni sotto forma di rete di impresa eccetera.

Necessariamente abbandonerò il tema dei consorzi anche perché vedo che è trattato particolarmente anche in altre relazioni per invece dedicarmi più da vicino alle aggregazioni di tipo reticolare quindi associazioni oggi raggruppa-menti e non è un caso che li chiami associazioni perché quando si affacciò la normativa alla fine degli anni ’80 si chiamavano così e, dall’altra, parte le reti.

Ancora invece per quanto riguarda le equity è oggi importante ricordare che si è creato sostanzialmente un mondo a parte con l’introduzione del d.lgs. n. 175/2016 entrato in vigore il 23 settembre 2016. Ma qual’è il punto di unione? Perché parliamo delle applicazioni equity nel mondo degli affidamenti?

Perché di fatto si è teorizzato con una operazione coraggiosa, abbandonan-do le sirene dell’entificazione (da sempre in Italia si assiste al tentativo di enti-ficare tutto in Italia e quindi a partire da un nota sentenza del Consiglio di Sta-to 1478/1998 si è riusciti a entificare anche le società a partecipazione pubbli-ca) si è data una scelta cioè quella, a partire dalla valorizzazione delle caratte-

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ristiche sotto il profilo dell’affidamento, di individuare una sottocategoria spe-ciale di società che sono le società in house.

Il tema è particolare perché l’in house non è affatto un istituto del diritto italiano ma è un istituto del diritto comunitario ed attiene esclusivamente alla modalità di affidamento. Questo è un problema talmente noto che la Corte di Cassazione ripetutamente è stata costretta ad intervenire avvertendo che il fat-to che un ente usi la modalità in house non è significa che la modalità e in house possa essere di per sé fattore interpretativo di altri istituti dell’ordina-mento.

Problema gravissimo, per esempio, è come qualifico la partecipazione di controllo analogo di un ente pubblico rispetto una società in house proprio perché per l’in house io non posso usare l’art. 2359 a titolo di spiegazione anzi semmai esattamente il fenomeno si legge al contrario. Nell’art. 2359 c.c. il so-cio è un tiranno, il che è esattamente il contrario del paradigma dell’in house, ove tutti i soci debbono essere in grado di dispiegare un controllo analogo co-me quello sui propri servizi.

Quindi, come immaginate, i temi sono piuttosto variegati e, considerato il tempo concessomi, partirei dai raggruppamenti e dalle reti per fare qualche ri-flessione.

Ascoltando le interessanti relazioni che ho potuto ascoltare mi verrebbe da dire sotto il profilo dei raggruppamenti che non si crea mai, in verità, il pro-blema della soggettività giuridica nel contesto dei raggruppamenti di imprese nell’ambito degli affidamenti degli appalti e delle concessioni e quindi anche pubblici; perché? Perché necessariamente e normalmente accade esattamente il contrario cioè più si è separati meglio si sta e c’è una ragione molto tecnica: le imprese si riuniscono per protocollo esclusivamente per una ragione di ra-zionalizzazione dei requisiti e quindi del possesso dei requisiti e, dall’altra parte, di mezzi. Quindi tendenzialmente non hanno voglia di aggregare alcun-ché e questa non è solo una notazione banale di prassi che deriva dall’osserva-zione tipica di una stazione appaltante ma in discende da precise linee ed esi-genze che hanno determinato la prima sistematizzazione dell’istituto nel 91 ed erano le cosiddette ATI dei grandi lavori da decine di miliardi.

Perché il legislatore improvvisamente alla fine degli anni Ottanta si è deci-so a sistematizzare in qualche modo l’istituto? Perché si è reso conto che l’a-narchia tipica dell’ATI è consustanziale all’istituto e determinava per la sta-zione appaltante la necessità di avere un punto di riferimento e, quindi, negli appalti pubblici questa è la prima grossa distinzione che si può fare tra i rag-gruppamenti e le reti, perché nei raggruppamenti, di fatto, c’è una scelta impo-sta dall’ordinamento del diritto positivo di individuare l’impresa la cosiddetta mandataria che di per sé assume una funzione ineludibile e incancellabile non

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solo fino all’esecuzione dell’appalto ma anche dopo cioè fino a che ci sia l’ultimo profilo anche risarcitorio, anche contabile che riguardi stazioni appal-tanti o terzi. Si sa che ATI continuano serenamente nei secoli dei secoli anche per 10-15 anni eccetera eccetera e magari si attende soltanto che si completi un giudizio di cassazione. Perché? Perché l’esigenza del Legislatore era prima di tutto quella di trovare un’impresa che facesse da capogruppo e che fosse l’unico punto di riferimento rispetto alle altre imprese. Un’altra esigenza si è poi affacciata con la Merloni ter e quindi stiamo parlando sostanzialmente del-la fine degli anni ’90; e quale esigenza? Quella di fare in modo che –ripeto– la consustanziale anarchia dell’ATI non impedisse un sereno rapporto con i terzi fornitori perché l’altro problema era: ma chi è responsabile di fronte ai terzi. Per questa ragione, se oggi andate ad esaminare l’Istituto (sostanzialmente siamo nella parte seconda del nuovo d.lgs. n. 50/2016) scoprite una serie di norme che sono veramente caratteristiche di questo istituto per esempio la precisazione che in altri settori dell’ordinamento disorienterebbe assolutamen-te che tutta l’ATI è responsabile ma è responsabile verso sub-appaltatori e ter-zi in ragione di successivi affinamenti (e successivi illegittime condotte degli operatori economici) che all’ennesimo contenzioso hanno costretto il Legisla-tore ad aggiungere sempre un pezzetto alle norme. In questo ambito peculiare si comprende anche tutta un’altra serie di norme speciali del raggruppamento negli appalti pubblici e, per esempio, la differenza che non è normale nella ti-pica joint venture fra raggruppamento verticale e raggruppamento orizzontale dove raggruppamento verticale porta con sé per scelta la responsabilità della cosiddetta mandataria capogruppo e dell’impresa specializzata che ha, per e-sempio, eseguito la lavorazione x o il servizio y mentre invece nel raggruppa-mento di tipo orizzontale sostanzialmente c’è una qualità orizzontale di attivi-tà, come dice la parola, sostanzialmente omogenea tra le parti per cui normal-mente c’è una responsabilità di tutte le parti.

Nel tempo abbiamo avuto delle linee di sviluppo dell’istituto che troviamo assolutamente conclamate (l’istituto è diventato oramai quasi “noioso” perché è finalmente disciplinato) ossia, per esempio, nel tempo si è lentamente eroso il principio dell’immodificabilità del raggruppamento. Anche questa è una co-sa che cozza normalmente con il diritto civile perché immodificabilità? Perché nell’ambito della disciplina degli appalti il problema vero è il rispetto in sede di esecuzione di quei canoni e criteri che hanno consentito al raggruppamento di vincere. Conseguentemente se io consentissi una normalissima modificabi-lità, io porrei in difficoltà il principio della par condicio in gara perché se io in gara ho ottenuto l’appalto a determinate condizioni poi non posso modificare il raggruppamento. Ripeto però che è un principio che si è modificato. Altre questioni che nel tempo sono state risolte: quella per esempio della corrispon-

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denza tra i requisiti di partecipazione e i requisiti di esecuzione dove in mate-ria di lavori non si nasconde che, anche sotto la spinta di esigenza di categoria dovuta ad una fortissima crisi economica, ormai c’è una differenza sostanziale fra gli appalti di lavoro e gli appalti di servizio-fornitura perché negli appalti di lavori noi abbiamo la sostanziale possibilità che in sede di esecuzione l’ATI ridefinisca all’interno dei suoi lavori ma non è un caso perché le imprese di lavori sono più “industriali” e duttili e soffrono anche di più mentre negli ap-palti di servizi e forniture può essere anche molto importante il lato del singo-lo, il lato del servizio, il lato della qualità del servizio e della personalità del servizio con il che è rimasta la regola (che a volte non è facile rispettare) per cui vi deve essere una corrispondenza sostanziale tra i requisiti di partecipa-zione e quelli di esecuzione.

Nell’ambito invece delle reti abbiamo una situazione molto diversa e, tra l’altro, una delle poche cose interessanti del d.lgs. n. 50 è che oggi almeno so-no rappresentati tutti gli istituti perché nelle definizioni (in queste orribili defi-nizioni come redatte) troviamo anche le joint ventures e se non non troviamo le reti, troviamo il concetto di aggregazione e poi infine troviamo il concetto di impresa collegata. Queste sono tutte le forme reali e problematiche di ag-gregazioni di sistema.

Tratto per ultima l’impresa collegata perché ci porta poi alle equity. Per quanto riguarda le reti, a volte mi fa un po’ sorridere leggere certe determina-zioni delle varie autorità di vigilanza perché si vede la fatica di tradurre in qualhe modo con gli istituti e facendo fondamento sugli istituti del diritto pub-blico problematiche che in ambito civilistico sono perfettamente risolvibili.

Quindi siamo andati avanti per tre anni cercando di capire dove le stessero le reti e perché le reti non sono delle società e ripeto un gius-commercialista civilista sorride di problematiche del genere ma nell’ambito del diritto pubbli-co era veramente un problema classificare un soggetto che non era fra i sog-getti tipici perché, a ben vedere, la rete non è nemmeno un consorzio.

Non la faccio lunga perché ci sono tante altre relazioni ma neanche faccia-mo le cose più semplici di quel che sono. Alla fine l’Autorità ha deciso quasi sempre di trattarla come associazione temporanea tranne per le reti dotati di personalità giuridica dove tendenzialmente si è spinta a trattarle come società con delle difficoltà perché poi una rete non è una società, E quindi il problema in parte si crea e rimane.

Ma l’assimilazione più forzata è stata quella con i raggruppamenti le e que-sto fa sì che si sia creato un sottomondo del sottomondo del sottomondo che è la trattazione delle problematiche della rete nell’ambito degli affidamenti degli appalti pubblici dove le stazioni appaltanti per disperazione si affannano, viste anche le scelte dell’Autorità di vigilanza, di cercare delle mandatarie che nella

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rete classica non ci sono; perché normalmente cosa c’è? C’è un legale rappre-sentante espresso normalmente da una delle imprese di rete ma non c’è tecni-camente una mandataria per cui ci sono determinazioni un po’ surreali e da questo punto di vista normalmente le stazioni appaltanti prese appunto da sana disperazione hanno deciso poi sostanzialmente di creare due tipi di formulari: uno pensato per la rete come raggruppamento e uno pensato per la rete come impresa. In realtà l’istituto è di enorme differenza e basta vedere lo scopo per-ché se il raggruppamento ha una sua precipua caratteristica è il fatto di essere un’istantanea: un momento ci troviamo qui perché facciamo una cosa insieme ma è non è detto che esistono altri rapporti. Esistono le cosiddette agenzie ma-trimoniali nel mondo delle ATI. Nel senso: c’è un lavoro da fare ma senti tu conosci qualcuno che abbia la categoria ottava e 100 miliardi di ponti e così che funziona; invece nella rete ovviamente è esattamente il contrario: c’è un rapporto fiduciario di fondo perché normalmente non ci si mette insieme, c’è un progetto di fondo ci ricordava una delle interessanti relazioni che ho potuto sentire solo in parte che è necessario un programma di rete e anche se possibi-le dettagliato (mi verrebbe da dire non troppo dettagliato perché sennò poi ri-cominciano le liti), e difatti, se ci badate, la rete sotto il profilo degli affida-menti si trova nel settore dei programmi quadro comunitari e dei finanziamen-ti ai progetti. Non è un caso che a Torino si trovino interessanti casi di rete di questo genere: per esempio se io mi occupo della macchina intelligente piutto-sto che della macchina alimentata con il più strano degli idrocarburi eccetera, è chiaro che piuttosto andrò a cercare finanziamenti o processi o progetti di largo respiro. Il tipico affidamento invece è una cosa differente.

Andiamo a vedere invece alcuni problemi ma anche alcuni profili interes-santi create da tre nuove norme è qui introduciamo il concetto di joint venture e il concetto di impresa collegata.

Quali sono questi due concetti? Il concetto di joint venture è una nuova realtà molto speciale che non si capisce perché sia stata inserita nell’art. 6 fra i principi generale attiene al caso dei settori cosiddetti speciali che per noi sono trasporti gas acqua eccetera servizi postali e in questo settore è prevista la pos-sibilità che degli enti aggiudicatori (pensate ad esempio ad una università) cre-ino un rapporto sufficientemente stabile almeno per tre anni con delle imprese e a questo punto è prevista la possibilità di appalti direi infra joint venture. Al-tro caso è quello degli appalti cosiddetti infra gruppo perché è la prospettiva del diritto comunitario e quindi a cascata; è una prospettiva di aggregazione anche vedendo il gruppo come un’aggregazione e di qui discende il concetto di impresa collegata. Cosa è l’impresa collegata? L’impresa collegata ha due settori nell’ambito degli appalti pubblici due momenti di rilevanza il primo è quello della presenza di un’esigenza di consolidare i conti. Questa esigenza

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pare surreale però nell’ambito della appaltistica porta con sé la possibilità di affidamenti diretti perché il tema fondamentale della appaltistica è la tutela delle concorrenza insieme a quella dell’interesse pubblico perché poi in un po’ di tempo la comunità europea si è ammorbidita dopo primo atteggiamento li-berista degli inizi anni ’80 ma proprio perché la tutela in primis è quella della concorrenza allora il tema è: possono o non possono delle imprese tra di loro a carattere pubblicistico (perché comunque di mezzo c’è un ente certificatore oppure perché la stazione appaltante è un ente aggiudicatore) possono fare de-gli affidamenti tra di loro senza passare da una gara? Allora il primo fattore è quella dell’impresa collegata. Ma è una impresa collegata anche quella dove la controllante sostanzialmente abbia un effetto di stimolo e controllo o quello che volete rispetto alla controllata e qui si aprono dei mondi affascinanti per-ché per noi è il 2359 comma 1 e comma 2, nn. 1-2 eccetera eccetera controllo di fatto controllo di diritto mentre in ambito comunitario ci sono, soprattutto nei settori speciali, delle forme di collegamento che sono veramente peculiari e non presuppongono poi chissà quale tipo di collegamento nella vita normale e questo è il punto, Sono sotto un certo profilo transitori anch’essi.

Il tema dell’impresa collegata porta poi il tema della rilevanza dell’in house perché in house sostanzialmente è un modo di fotografare. In Italia non l’ab-biamo ancora capito adesso, una parte del Consiglio di Stato non ancora lo ha capito adesso, è un modo di fotografare una realtà che non sta nel codice dei contratti e questo lo dice la Corte di Giustizia sostanzialmente dalla prima sen-tenza olandese sui rifiuti xxx eccetera eccetera. Allora oggi la direttiva 23 con-cessioni del 2014 e le direttive 24 e 25 settore ordinari e speciali del 2014 hanno identificato una volta per tutte l’istituto per spiegare che non è appalti-stica l’in house e a questo punto questa normativa speciale è invece interessan-te perché porta direttamente (e così mi avvio alla seconda parte della relazio-ne) ad affrontare il tema delle aggregazioni equity.

Perché? Perché è il tema oggi affrontato dal nuovo codice ma anche dal d.lgs. n. 175 sotto una serie di profili. Perché in Italia, vi dicevo, c’è stata la fortissima tendenza disastrosa disastrosa veramente disastrosa a tradurre la so-cietà in house, solo perché partecipate da enti pubblici, sostanzialmente in un pubblico o para-pubblico. Sciocchezza più grande non si poteva fare, ha porta-to a distorsioni inenarrabili per esempio oggi si discute se una società in hou-se, quando ha fatto una gara sia ancora in house. Cosa che voglio dire? Ci so-no diversi mondi che nemmeno poi si incrociano troppo cioè io posso avere una situazione di controllo analogo di coordinamento da parte di un ente pub-blico sulla società ma questa società può essere benissimo un operatore libero di mercato totalmente libero perché ha fatto una gara rispetto a servizio. Credo che finalmente il d.lgs. n. 175/2016 abbia fatto ordine; perché? Perché spiega

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finalmente che le società a partecipazione pubblica sono degli enti di diritto privato, soggetti di diritto privato dotati di capacità giuridica piena ed esclusi-va salvo normative limitanti su singoli aspetti dove quindi il legislatore inter-viene esclusivamente per risolvere alcuni aspetti di dettaglio e qui arriviamo al tema dove appalti pubblici e aggregazione si inseriscono insieme sotto il profi-lo equity. Quali sono i profili? La società in house e la società mista e da que-sto punto di vista il tema sarà per il futuro ricordarsi che il tema dell’appalto in house è un tema collegato a quello della società in house mentre il tema della società mista è un tema collegato alla trattazione del partenariato pubblico pri-vato in sede di codice dei contratti.

Andiamo a vedere poi la filosofia di fondo di questa normativa dove porta. Sulla base anche di alcuni equivoci di fondo perché oggi ci sono società in house di servizio a tariffa che non hanno più ricevuto un contributo pubblico da credo centinaia di anni anche in certi casi perché il pubblico non riesce più a dare contributo, accade che la corte di cassazione che non ha tanta voglia ogni tanto di riconoscere proprio errori, nel 2013 ha detto che le società in house e quindi dotate di affidamento diretto devo essere comunque qualificate e inserite sotto la giurisdizione della Corte dei Conti. Questa è per esempio una conseguenza che rimasta ancora oggi che limita in qualche modo la possi-bilità di aggregazione e questo è il momento di interesse della normativa sotto il profilo della possibilità di acquisire nuove partecipazioni e, quindi, nel caso, per esempio, delle in house cosiddette strumentali che appunto anche a termini dell’attuale art. 4, d.lgs. n. 175/2016 non possono acquisire nuove partecipa-zioni. Le società di servizio pubblico, diretto o indiretto che sia.

Allora se andiamo a vedere il nuovo Testo unico nell’ambito dell’art. 4, comma 2, lett. a) e d), vediamo non a caso che le società di servizio pubblico non hanno assolutamente problematiche sotto il profilo della possibilità di ac-quisire azioni di altri e quindi per esempio di aggregarsi di azioni o quote per-ché si tratta di società per azioni o responsabilità limitata (oggi è stato chiarito anche consortile) ma poco cambia mentre invece nel caso delle società cosid-dette strumentali il problema c’è perché è vietato. Quindi il fenomeno aggre-gativo nell’ambito di società strumentale è stroncato definitivamente dal legi-slatore. Il tema è notorio e dietro certe tesi ci sono certi precisi interessi, non ogni tanto, ci sono sempre certi precisi interessi e quindi in questo caso è stato stroncare una volta una certa imprenditoria pubblica. Altra questione è per e-sempio che ci sono tutta una serie di limitazioni e ci sono delle norme che non si capirebbero diversamente se non ci fosse questo intreccio tra appalto e ten-tativi di entificazione che poi hanno determinato questa classificazione tra in house e non in house; per esempio ci sono limitazioni all’art. 5 per cui si può in generale acquisire una partecipazione nuova solamente se si è sicuri che

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non ci siano modalità alternative più economiche di gestire servizio. Uno dice ma cosa c’entra col fatto di comprare la partecipazione? Potrei

farmi un problema di oggetto sociale potrei fare un problema di costo. No! Perché il tema è in questa particolare ottica strettamente collegato ossia nor-malmente si ritorna al concetto di impresa collegata perché io compro qualcu-no nell’ambito del pubblico? Tendenzialmente non sempre tendenzialmente perché creo una filiera nel servizio pubblico si addirittura creato il tema ed è un istituto sostanzialmente a parte affascinantissimo del gruppo di servizio pubblico dove normalmente le singole attività centrale e accessorie si svilup-pano in una serie di società che si chiamano tra loro e quindi conseguentemen-te ecco perché sennò diversamente risulterebbe totalmente incomprensibile il fatto che per esempio le in house applicheranno tutta normativa in materia di affidamenti e le miste no. E così via cioè vedete questa sostanziale differen-ziazione che non significa di nuovo aver compenetrato istituti che sono diversi ma serve ormai esclusivamente nella nuova prospettiva di questo codice a i-dentificare fenomeni paralleli che hanno una giustificazione l’una nell’altra. Riepilogando in house rappresentano un sistema parte che non è negli appalti e crea se vogliamo una situazione diversa rispetto a quella della normale con-corrente concorrenza e del normale affidamento con il che ho un trattamento differente dopo gli anni di sofferenze e di cavalcate nel deserto e però come dire ha un trattamento diverso sotto alcuni aspetti specifici però di fatto davve-ro è da riprendere tutto in mano perché bisognerà avere coraggio di cambiare mentalità ed avere il coraggio di capire che si buttano dal mio punto di vista (e sono estremamente lieta) 10 anni di normative e anche di dottrina che non mi vedeva assolutamente d’accordo perché assolutamente contrari ai principi co-munitari mentre invece ormai legge diventa la sentenza della Corte Costitu-zionale 20 luglio del 2012, n. 199 in materia di in house che ha sancito la e-guaglianza fra imprenditoria cosiddetta privata e imprenditoria cosiddetta pubblica sotto il profilo appunto della impostazione e dei comportamenti di ti-po aziendale.

Vi ringrazio

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Aggregazioni tra imprese e rapporto di lavoro Fiorella Lunardon

SOMMARIO:

1. Il gruppo: letture unitariste vs. letture pluraliste. – 2. Il contratto ‘di rete’. – 3. Le ricadute sui rapporti di lavoro. – 3.1. Il distacco tra imprese di rete. – 3.2. La codatorialità. – 3.3. L’assun-zione congiunta.

Il fenomeno dell’aggregazione tra imprese ha sempre costituito una sfida per il diritto del lavoro.

È sufficiente ricordare lo schema “archetipico” sotteso all’art. 2094 c.c., per comprendere che il rapporto di lavoro nasce come rigorosamente bilaterale e restìo ad eventuali “complicazioni” (intese come articolazioni o moltiplica-zioni) del soggetto creditore della prestazione.

La legge n. 1369/1960, all’inizio del decennio contrassegnato dal “garanti-smo individuale”, già prevedeva il divieto di intermediazione e/o interposizio-ne di manodopera, esprimendo l’ostilità dell’ordinamento lavoristico nei con-fronti di ogni ipotesi di scissione tra la titolarità formale del rapporto e l’uti-lizzazione sostanziale della prestazione. In questa separazione si annidava in-fatti il pericolo dell’elusione dell’applicazione della disciplina tipica di tutela.

1. Il gruppo: letture unitariste vs. letture pluraliste

Non v’è da stupirsi se, di fronte al fenomeno dell’aggregazione tra imprese, il diritto del lavoro si sia sentito “spiazzato” e i suoi protagonisti si siano pre-sto divisi, come conferma la stessa esistenza di un’opzione alternativa tra la nozione ‘impresa di gruppo’ e la nozione ‘gruppo d’imprese’.

Un primo orientamento, condiviso soprattutto dalla giurisprudenza di meri-to, collocandosi in una prospettiva patologica, tendeva a superare il famoso

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“velo” della personalità giuridica e a ricostruire unitariamente il gruppo per consentire al lavoratore di poter rivendicare i propri diritti nei confronti di tut-te le affiliate (controllate o collegate che siano).

Un secondo orientamento, condiviso dalla giurisprudenza di legittimità, preferiva invece valutare la fisiologicità della forma gruppo ricostruendola co-me un’evoluzione delle modalità organizzative del mondo produttivo, quindi sostanzialmente accettandola, se pur con difficoltà dal punto di vista dell’ac-certamento dei presupposti per l’applicazione della normativa di tutela.

La giurisprudenza ‘unitarista’ utilizzava quali segni rivelatori dell’esistenza dell’unicità dell’impresa “gruppo” la gestione di attività economiche e coordi-nate; le sedi comuni; gli assetti proprietari coincidenti; l’interscambiabilità del personale.

La giurisprudenza ‘pluralista’ è invece sempre stata cauta, limitandosi a di-chiarare che «il collegamento tra società il quale implichi la gestione di attività economiche o coordinate configura un fenomeno di mero fatto che non vale ad attribuire la titolarità del rapporto di lavoro ad un soggetto diverso da quello che formalmente assume la qualità di datore di lavoro» (Cass. 10 novembre 1999, n. 12494).

Unico limite era costituito da «una simulazione o una preordinazione in frode alla legge degli atti costitutivi della società del gruppo mediante appunto interposizioni fittizie ovvero quando vi sia un’illecita interposizione ex lege del 1960» (Cass. cit.).

Su queste posizioni il Supremo Collegio è rimasto sostanzialmente fermo fino alla prima metà degli anni 2000; più recentemente è però giunto a formu-lare una serie di indici che possono venire in aiuto, sul piano probatorio, a co-loro che siano interessati a ricostruire il gruppo modo unitario: indici che, qua-lora presenti, proverebbero la ricorrenza della frode, l’elemento tradizional-mente richiesto per il superamento dello schermo fittizio della pluralità.

Si ritiene pertanto oggi ravvisabile un unico centro di imputazione del rap-porto di lavoro «ogni volta che vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un’unica attività fra i vari soggetti del collegamento economico-funzionale e ciò venga accertato in modo adeguato attraverso l’esame delle attività di ciascuna delle imprese gestite formalmente da quei soggetti, che deve rivelare l’esistenza dei seguenti requisiti: a) unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) integrazione tra le attività eserci-tate dalle varie imprese del gruppo e il correlativo interesse comune; c) coor-dinamento tecnico amministrativo e finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) utilizzazione contemporanea della prestazione la-vorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso

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che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favo-re dei vari imprenditori» (ex plurimis, Cass. 9 dicembre 2009, n. 25763).

In questa giurisprudenza è dunque rintracciabile il tentativo di favorire sul piano probatorio la “risalita” al gruppo; è come se fosse stato tracciato un per-corso a passaggi progressivi che consente al giudice di chiedere e impone alle parti di provare, con la presenza e/o l’assenza di alcuni specifici elementi, se c’è la possibilità di dichiarare formalmente l’esistenza di un soggetto unitario che non sia soltanto economicamente connotato.

2. Il contratto ‘di rete’

Posto di fronte alla recente fattispecie del “contratto di rete”, il giuslavori-sta non può non chiedersi come essa si collochi rispetto alla tematica tradizio-nale dei gruppi.

Secondo la dottrina, cui restano care le distinzioni concettuali, il gruppo realizzerebbe una ‘networked firm’, vale a dire un insieme di imprese collega-te attraverso una rete che può svilupparsi, però, non solo in senso orizzontale ma anche in senso verticale gerarchico mentre la rete vera e propria realizze-rebbe un ‘network of firms’ vale a dire un collegamento tra imprese che si svi-luppa soltanto sul piano orizzontale.

Tale distinzione può essere facilmente condivisa, se non altro per un moti-vo molto semplice: perché la rete non è un soggetto né una struttura, la rete prima di tutto è uno strumento, è un contratto da cui scaturiscono vincoli che non possono che svilupparsi su di un piano essenzialmente orizzontale: «con il contratto di rete più imprenditori perseguono lo scopo di accrescere, indivi-dualmente e collettivamente, la propria capacità innovativa e la propria com-petitività sul mercato e a tal fine si obbligano, sulla base di un programma co-mune di rete, a collaborare in forme e in ambiti predeterminati attinenti all’e-sercizio delle proprie imprese ovvero a scambiarsi informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica o tecnologica ovvero ancora ad e-sercitare in comune una o più attività rientranti nell’oggetto della propria im-presa» (legge 9 aprile 2009, n. 33, di conversione del d.l. 10 febbraio 2009, n. 5, art. 3, comma 4-ter).

Certo, alla rete è consentita l’acquisizione della soggettività giuridica; anzi inizialmente tale acquisizione era prevista come automatica nell’ipotesi che fosse stato costituito un fondo patrimoniale comune e un organo comune di gestione. Ma successivamente il legislatore, volendo lasciare spazio alle reti-contratto (rispetto alle più strutturate reti-soggetto) ha stabilito che l’attri-buzione della soggettività giuridica sia facoltativa e condizionata all’iscrizione

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nella sezione ordinaria del registro delle imprese «presso cui è iscritto ciascun partecipante» 1. Ai fini di tale iscrizione è necessaria a) la costituzione di un fondo patrimoniale comune e b) la stipulazione del contratto per atto pubblico, scrittura privata autenticata o atto firmato digitalmente ex art. 25 del d.lgs. n. 82/2005 (legge 17 dicembre 2012, n. 221, di conversione del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, di modifica dell’art. 3, comma 4-quater della legge n. 33/2009).

Nella prospettiva lavoristica classica, in verità, il soggetto più “difficile” è proprio la rete-contratto, perché la rete-soggetto costituisce in qualche modo (sull’esattezza dell’effetto dovrà discutersi) l’approdo delle letture unitariste, vale a dire dei tentativi di ricostruzione in senso unitario di una impresa-sog-getto che in quanto tale assume, formalmente e su base contrattuale, le respon-sabilità previste dalla normativa lavoristica nei confronti dei dipendenti di cui utilizza la manodopera.

Il contratto di rete dà finalmente una forma giuridica ad un fenomeno di fatto, quale era (ed è) il gruppo a meno che non ci sia la prova della frode; in altre parole il contratto di rete consente l’emersione del tutto fisiologica del gruppo nella sua volontaria pluralità (o, sempre volontaria, unicità) e quindi trasforma in contratto il collegamento economico.

Purtuttavia, resta chiaro che il contratto di rete non risolve automaticamen-te il problema lavoristico perché non autorizza alcun superamento automatico della distinzione giuridica tra le imprese, neppure quando si tratti di una rete-soggetto 2. Ciò che conta, a tale fine, è il contenuto del programma comune di

1 «Il contratto (di rete) può anche prevedere l’istituzione di un fondo patrimoniale comune e la nomina di un organo comune incaricato di gestire, in nome e per conto dei partecipanti, l’esecuzione del contratto o di singole parti o fasi dello stesso. Il contratto di rete che prevede l’organo comune e il fondo patrimoniale non è dotato di soggettività giuridica, salva la facoltà di acquisto della stessa ai sensi del comma 4-quater ultima parte» (art. 3, comma 4-ter, legge n. 33/2009).

2 La personalità giuridica è il meccanismo di imputazione unitaria al gruppo degli effetti giuridici dell’attività comune e si applica solo alle associazioni riconosciute, alle società di ca-pitali ed alle cooperative. Vi sono poi altre forme di soggettività dei gruppi, che possiamo de-nominare intermedie perché, da un parte non si riducono alla soggettività delle persone fisiche e dall’altra non assumono l’intensità e la completezza delle caratteristiche tipiche della perso-nalità giuridica. Trattasi delle forme di soggettività collettiva che si applicano alle associazioni non riconosciute, alle società di persone, ai consorzi con attività esterna, al G.e.i.e.

All’Ente che sorge per effetto della stipulazione di un contratto di rete, è in ogni caso da escludere che sia riconosciuta personalità giuridica. Lo stesso Governo italiano, come confer-mato dalla decisione della Commissione Europea del 26 gennaio 2011, relativa alla causa n. C(2010)8939 (riconoscimento della sospensione d’imposta per i fondi destinati al fondo patri-moniale comune), ha infatti chiarito che la rete di imprese non avrebbe assunto “personalità giuridica autonoma” . In termini generali quindi, pur riconoscendo alla rete una propria sog-

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rete in punto di ripartizione degli obblighi e delle responsabilità scaturenti dai contratti di lavoro e già sussistenti in capo alle singole imprese.

3. Le ricadute sui rapporti di lavoro

Si potrebbe anche sostenere che in fondo non è cambiato granché. L’affermazione non è però del tutto vera. Il legislatore italiano, nel 2013,

probabilmente nel tentativo di sintonizzarsi con le nuove disposizioni, ha in-trodotto, oltre alla previsione della sussistenza dell’interesse del distaccante nel caso di distacco posto in essere tra imprese di rete, due concetti assoluta-mente nuovi per i giuslavoristi: quello di ‘codatorialità’ e di ‘assunzione con-giunta’.

3.1. Il distacco tra imprese di rete Cominciamo dal disposto meno “nuovo” ma pur sempre innovativo, che ri-

chiede una breve premessa. Nel diritto del lavoro il distacco è uno degli istituti che realizza una separa-

zione tra il soggetto formalmente titolare del rapporto di lavoro (distaccante) e il soggetto che effettivamente utilizza la prestazione (distaccato). È una fatti-specie legittima a determinate condizioni: «l’ipotesi del distacco si configura quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone tempora-neamente uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa» (art. 30, d.lgs. n. 276/2003).

Lo schema è triangolare come tutti gli schemi nei cui confronti il diritto del lavoro ha manifestato ostilità, ma è regolato, anzi a partire dal 2003 dovrem-mo dire “giuridificato”, attraverso l’indicazione espressa dei due requisiti cui la giurisprudenza da sempre subordina la sua legittimità: l’interesse del distac-cante e la temporaneità del distacco.

gettività, mancherebbe quell’alterità tra imprenditori “retisti” e rete che, unita ai tratti della re-sponsabilità patrimoniale e dell’unità, renderebbe la rete una persona giuridica distinta dai reti-sti.

In questa sede può essere opportuno ricordare che non tutte le reti dotate di soggettività giuridica (cd. reti-soggetto) godono anche di autonoma responsabilità patrimoniale: questa ca-ratteristica è infatti appannaggio delle sole “reti soggette a regime speciale”. Dall’altra parte, nelle reti-soggetto l’organo comune “agisce in rappresentanza” della rete in quanto tale perché gli effetti giuridici degli atti compiuti dall’organo comune ricadono in capo alla rete e non in capo ai retisti.

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Quanto al profilo dell’interesse, come già si esprime la Circ. Min. Lav. n. 2/2004, il disposto normativo «ne consente un’interpretazione piuttosto ampia, tale che il distacco può essere legittimato da qualsiasi interesse produttivo del distaccante che non coincida con quelle alla mera somministrazione di lavoro altrui».

La temporaneità è invece la spia, come si diceva, del fatto che il nostro or-dinamento continua a non tollerare (anche ora che è stata abrogata la legge n. 1369/1960) una separazione che si atteggi come perpetua tra la titolarità for-male del rapporto e l’utilizzazione sostanziale della prestazione 3.

Ora, il nuovo comma (4-ter) dell’art. 30 del citato decreto legislativo, in-trodotto dalla legge 9 agosto 2013, n. 99 (di conversione del d.l. 28 giugno 2013, n. 76), stabilisce che «qualora il distacco di personale avvenga tra aziende che abbiano sottoscritto un contratto di rete di impresa ai sensi del d.l. 10 febbraio 2009, n. 5, convertito dalla legge 9 aprile 2009, n. 33, l’interesse della parte distaccante sorge automaticamente in forza dell’operare della rete fatte salve le norme in materia di mobilità dei lavoratori previste dall’art. 2103 cod. civ.» 4.

Confermati i limiti legislativamente previsti per l’esercizio del potere diret-tivo, segnatamente per la variazione delle mansioni (ora, a seguito delle modi-fiche apportate all’art. 2103 c.c. dal c.d. Jobs Act, eventualmente anche in de-roga al criterio dell’equivalenza), la norma riconosce l’esistenza di un interes-se comune in capo alle imprese che stipulano il contratto di rete; si tratta del riconoscimento di una “dimensione” (da leggersi in chiave di collegamento economico) che consente al giudice, nel momento della verifica dei presuppo-sti di legittimità del distacco – interesse del distaccante e temporaneità –, di considerare il primo già accertato e presente.

Con riferimento ai gruppi di impresa, la giurisprudenza aveva invero già stabilito che in caso di distacco tra infra-gruppo l’interesse del datore di lavoro distaccante potesse presumersi. Si trattava senza dubbio di presunzione sem-plice; mentre ora, per l’impresa di rete, la previsione che “l’interesse sorge au-tomaticamente” configura un effetto voluto dalla legge, difficilmente esponi-bile a prova contraria 5.

3 Questo è il motivo per cui «il concetto di temporaneità coincide con quello di non defini-tività indipendentemente dall’entità della durata del periodo di distacco, fermo restando che tale durata sia funzionale alla persistenza dell’interesse del distaccante» (Circ. Min. Lavoro e delle Politiche Sociali 15 gennaio 2004, n. 3).

4 Cfr. altresì la Circolare ministeriale 29 agosto 2013, n. 35. 5 Cfr. tuttavia l’interpello n. 1 del 20 gennaio 2016 con cui il Ministero, dopo aver sinteti-

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Quanto al requisito della temporaneità, esso resta pur sempre richiesto a norma di legge e verificabile dal giudice, anche se il distacco avviene tra im-prese “retiste”.

A questo proposito, sarà essenziale la valutazione del “programma comune di rete” il quale dovrà rispettare la disposizione di cui all’art. 30, comma 1, d.lgs. n. 276/2003 e chiarire in cosa consista nello specifico caso la “tempora-neità” dei distacchi posti o da porsi in essere.

Su questo punto, insomma, il contratto di rete non potrà tacere.

3.2. La codatorialità Sempre il comma 4-ter dell’art. 30, d.lgs. n. 276/2003 (introdotto nel 2013)

«ammette per le stesse imprese ‘la codatorialità’ dei dipendenti ingaggiati 6 con regole stabilite attraverso il contratto di rete stesso».

«Le stesse imprese», come recita la disposizione, sono quelle che hanno stipulato il contratto di rete e che appunto sono facilitate nelle operazioni di distacco per il sorgere automatico dell’interesse in capo al distaccante.

Il giuslavorista “classico” non può non chiedersi cosa sia questa “codato-rialità”. Da certo punto di vista, infatti, essa appare la negazione dello schema rigorosamente bilaterale di cui all’art. 2094 c.c.

È allora più facile cominciare a dire cosa non è, per poi passare a cosa la dottrina ha suggerito che possa essere. In ogni caso, si tratta di un concetto più innocuo di quanto si possa temere.

camente richiamato la disciplina di cui al comma 4 ter del citato art. 30 del d.lgs. n. 276/2003 e specificato che l’aggregazione in gruppo di imprese si caratterizza, ferma restando l’autonomia giuridica dei soggetti che ne fanno parte, per il potere di controllo e direzione che una società del gruppo (c.d. capogruppo) esercita sulle altre in virtù delle condizioni di cui all’art. 2359 c.c, ha ritenuto che «anche nel gruppo di imprese venga condiviso un medesimo disegno stra-tegico finalizzato al raggiungimento di un unitario risultato economico che trova, peraltro, rappresentazione finanziaria nel bilancio consolidato di gruppo».

Il Ministero è così addivenuto all’interessante conclusioneche “appare pertanto possibile ritenere che in caso di ricorso all’istituto del distacco tra le società appartenenti al medesimo gruppo di imprese, ricorrendo, quanto meno, le condizioni di cui al’art. 2359, comma 1, c.c., l’interesse della società distaccante possa coincidere nel comune interesse perseguito dal gruppo analogamente a quanto espressamente previsto dal Legislatore nell’ambito del con-tratto di rete”, in pratica ammettendo la possibilità, anche per il gruppo di imprese, di ricorrere in via analogica, in ambito di interesse del distaccante, alla disciplina normativamente prevista per le imprese di rete.

6 Il termine “ingaggio” è considerato ambiguo, non riuscendosi a definire, in verità, il rap-porto (solo indiretto e solo di fatto) che sussiste tra i lavoratori e la rete.

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Anzitutto, essa non è la codatorialità – forte e sostanziale – che le teorie “unitariste” intendevano (e intendono) ricostruire in capo al gruppo per poter, ad esempio, computare in organico tutta la forza lavoro presente nelle singole articolazioni produttive ai fini dell’applicazione dell’art. 18 St. lav.

Al contempo, non ha nulla a che vedere con il concetto di codatorialità che accede all’istituto del distacco, giacché in tal caso ciò che si realizza è una si-tuazione di condivisione del potere direttivo, non predefinita ex lege come av-viene nella somministrazione di manodopera, le cui forme di concretizzazione restano (eventualmente) affidate agli accordi tra i due datori di lavoro.

Essa poi non coincide neppure con la codatorialità dell’appaltatore e del-l’appaltante ai sensi dell’art. 29, d.lgs. n. 276/2003, vale a dire non coincide con la responsabilità solidale ivi prevista per i crediti dei dipendenti dell’ap-paltatore, atteso che quest’ultima è configurata quale semplice effetto della fattispecie “appalto” tratteggiata dal richiamato disposto normativo.

Infine, non coincide certo con la contitolarità formale del rapporto, che anzi è quanto di più lontano ci sia dalla codatorialità. Contitolarità formale infatti significa che il contratto individuale è sottoscritto, al momento dell’assunzio-ne, da due datori di lavoro, pur restando un contratto rigorosamente impronta-to allo schema bilaterale sinallagmatico che presuppone l’intreccio (lo ‘scam-bio’) tra due (e non più di due) obbligazioni fondamentali (cfr. infra il para-grafo sull’assunzione congiunta) 7.

Termino a questo punto il discorso sulla definizione “per differenza”, an-che perché a ben vedere sussistono ulteriori differenze tra la situazione, per così dire, di codatorialità che si presenta nella somministrazione di manodope-ra e quella che si presenta nel distacco.

Il problema resta quello della definizione della “codatorialità” ammessa dall’art. 30, comma 4-ter, d.lgs. n. 276/2003 codatorialità da intendersi in mo-do tale che si rispettino i principi e le categorie della nostra materia.

* * *

Ebbene ritengo che della codatorialità possa darsi una definizione essenzia-

le, considerandola il risultato della condivisione tra più imprenditori (che av-viene su base contrattuale attraverso le previsioni del programma di rete) delle modalità di esercizio del potere direttivo.

In realtà, la “rete” non determina il sorgere di alcun nuovo potere in capo ai

7 Oggi tra l’altro è ammessa, ma solo in agricoltura, la contitolarità formale di un contratto di lavoro tra due datori, con implicazioni che verranno spiegate nel prosieguo.

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singoli “retisti”, scaturendo tutto dal potere originario che ha il datore di lavo-ro di distaccare il proprio lavoratore subordinato.

Non a caso la disposizione che ammette la codatorialità, introducendo per la prima volta questo concetto nell’ordinamento, è la stessa che prevede l’in-sorgenza automatica dell’interesse del datore “retista” distaccante (comma 4-ter del d.lgs. n. 276/2003: «qualora il distacco di personale»); da qui la con-clusione che tale concetto inerisca necessariamente all’istituto del distacco, come la sedes materiae lascia intendere 8.

Il potere di distaccare i propri dipendenti, come sostiene parte della dottri-na, è consustanziale con il potere direttivo; come a dire che è potere direttivo: il “comando” o “distacco” può infatti essere assimilato ad un ordine o ad una direttiva. Diversamente dal trasferimento, però, l’ordine di “distacco” implica non solo il mutamento del luogo di lavoro, ma anche la sottoposizione (parzia-le o totale, per quanto ci dice la legge) di quel lavoratore all’esercizio direttivo del distaccatario.

Nel distacco viene dunque “condiviso” il potere direttivo, secondo modali-tà e/o quantità che vengono stabilite di comune accordo tra i due datori di la-voro (distaccante e distaccatario).

Il legislatore, infatti, pur regolando il distacco non ha chiarito il modo con cui distaccante e il distaccatario si dividono il potere direttivo, lasciandolo al-l’accordo delle parti. Si possono così immaginare situazioni nelle quali il pote-re direttivo (nei suoi diversi profili, potere di conformazione, jus variandi, di-sciplinare, di controllo) è quasi tutto dislocato in capo al distaccatario; ed altre nelle quali il distaccante ne mantiene alcune porzioni, riservandosi di imparti-re al distaccato ulteriori ordini e direttive rispetto a quelli del distaccatario.

Siffatta “condivisione” del potere direttivo non è mai stata oggetto di rego-lamentazione legislativa, diversamente da quanto avviene nella somministra-zione di manodopera, ove è la legge a suddividere le “porzioni” di potere di-rettivo tra il somministratore e l’utilizzatore della prestazione: quest’ultimo ha lo jus variandi, il potere di conformazione e di controllo; ma non ha il potere disciplinare, che resta in capo all’agenzia, previa segnalazione dell’utilizza-tore.

Il concetto di “codatorialità” si riferisce proprio a questa zona dell’istituto del distacco mai regolata e, senza ancora colmare la lacuna, semplicemente dà

8 Per questo motivo non si pone il problema del “consenso” dei lavoratori al distacco infra-rete, costituendo la destinazione della prestazione lavorativa a beneficio della rete una mera conseguenza del comando datoriale. Secondo taluni, sarebbe in ogni caso opportuna (in sosti-tuzione del consenso del lavoratore) una regolamentazione collettiva delle condizioni dei lavo-ratori utilizzati promiscuamente.

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un nome ad un’area che finora era rimasta inespressa: essa dunque “fotografa” la situazione dei retisti che condividono su base contrattuale il potere direttivo, potendo decidere di dislocarlo in tutto o in parte sugli altri datori di lavoro o comunque di scomporlo.

In questo modo la codatorialità viene ad assumere un significato forse “mi-nore”, quella di un concetto vuoto che rinvia al contratto di rete nelle modalità e negli effetti della sua realizzazione. Siffatta interpretazione deve però consi-derarsi obbligata, quantomeno sulla base dei dati di sistema: resta indubbio in-fatti che i dipendenti di un’impresa non diventano, per effetto della rete, i di-pendenti delle altre imprese; né ciò potrebbe succedere anche qualora alla “re-te” fosse riconosciuta la soggettività giuridica, perché resterebbero sempre sal-vi i contratti formalmente stipulati tra lavoratori e datori di lavoro precedenti l’iscrizione della “rete” nel registro delle imprese.

La codatorialità non ha quindi niente che a vedere con la responsabilità, la quale va verificata in base all’accertamento della titolarità formale dei contrat-ti oltre che della legittimità dei distacchi e soprattutto in base al rinvio, che è e resta fondamentale, al contenuto del programma di rete; è da questo program-ma che traggono origine tutte le implicazioni del contratto di rete sul piano giuslavoristico.

Alla stregua della stessa Circolare del Ministero del Lavoro n. 35/2013 «sul piano di eventuali responsabilità penali, civili e amministrative – e quindi sul piano della sanzionabilità di eventuali illeciti – occorrerà rifarsi ai contenuti del contratto di rete, senza configurare automaticamente una solidarietà fra tutti i partecipanti al contratto».

Parimenti, il concetto di “utilizzo promiscuo” delle prestazioni dei lavora-tori non potrà che essere chiarito sulla base delle disposizioni del programma di rete relative alle modalità di condivisione delle prestazioni medesime.

Si rammenti che il contratto di rete è un contratto commerciale, non v’è nella sua causa nessun tipo di scambio o corrispettività con il lavoratore: per-ciò, come lo schema contrattuale ovvero il tipo di obbligazione che scaturisce dal contratto di lavoro subordinato non viene direttamente toccato dal contrat-to di rete anzi resta intatto e/o separato 9, anche le responsabilità dei singoli re-stano intatte e/o separate fino a quando non siano gli stessi imprenditori che

9 Ed infatti, il vizio del contratto d’assunzione (o di licenziamento e dimissioni) determina l’impossibilità per i retisti di avvalersi del rapporto obbligatorio da esso scaturente; correlati-vamente, la cessazione di uno dei rapporti obbligatori diversi da quello principale (ad esempio di uno dei retisti), così come lo stesso scioglimento del contratto di rete non ha effetto sul con-tratto di lavoro; semplicemente quest’ultimo retrocede entro lo schema binario (esecutivo) classico.

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creano la rete (stipulando il relativo contratto) ad attribuire all’uno o all’altro o alla totalità di essi (secondo esigenze reciprocamente riconosciute e finalità perseguite) le relative responsabilità 10.

3.3. L’assunzione congiunta Da non confondere con la codatorialità, che secondo chi scrive la dottrina

tende a sopravvalutare sotto il profilo della vis innovativa, l’assunzione con-giunta è veramente qualcosa di più che però ha fatto meno scalpore per un mo-tivo preciso.

L’assunzione congiunta non è infatti una prerogativa del contratto di rete: “le imprese agricole appartenenti allo stesso gruppo … possono procedere congiuntamente all’assunzione di lavoratori dipendenti per lo svolgimento di prestazioni lavorative presso le relative aziende”; tuttavia, “l’assunzione con-giunta di cui al precedente comma può essere effettuata anche da imprese le-gate da un contratto di rete, quando almeno il 50% di esse sono imprese agri-cole” (art. 31, commi 3-bis e 3-ter, d.lgs. n. 276/2003, come modificato dalla legge n. 99/2013).

In questo caso dal lato datoriale si verifica una reale “pluralizzazione” del soggetto creditore della prestazione: si tratta propriamente di un contratto di lavoro stipulato da più datori, secondo modalità definite con decreto del Mini-stero del lavoro e delle politiche sociali.

Non stupisce quindi che la legge preveda, diversamente da quanto è avve-nuto con la codatorialità, che «i datori di lavoro rispondono in solido delle ob-bligazioni contrattuali, previdenziali e di legge che scaturiscono dal rapporto di lavoro instaurato con le modalità disciplinate dai commi 3-bis e 3-ter».

10 Tra le diverse proposte di inquadramento civilistico della fattispecie, va richiamata quella che configura l’esistenza di un collegamento negoziale tra il contratto di lavoro e il contratto di rete: un negozio tipico principale (contratto di assunzione originario) collegato ad un contratto commerciale. Per effetto di tale collegamento, le vicende esecutive del secondo (che riguarda-no solo i retisti) si proiettano sul rapporto obbligatorio scaturente dal primo. Il contratto di rete non genera però rapporti obbligatori tra il lavoratore e gli altri datori retisti, anzi dal punto di vista obbligatorio le situazioni giuridiche soggettive restano ben definite. È solo il datore di lavoro (formale) che può chiedere, in esecuzione degli obblighi assunti nei confronti degli altri retisti, l’effettuazione della prestazione a favore di questi. Si resta così nei limiti esatti del pote-re di distacco, ed è per questo che il riconoscimento della codatorialità è effettuato dal legisla-tore nel contesto dell’istituto del distacco (art. 30, comma 4-ter, d.lgs. n. 276/2003). Non è condivisibile, invece, la ricostruzione in termini di “unico rapporto di lavoro soggettivamente complesso, condiviso tra più soggetti (pluralità di creditori; eadem res debita; eadem causa obligandi)” perché essa richiederebbe la novazione del contratto o il consenso del prestatore e l’esercizio iure proprio del potere direttivo, che al contrario è iure derivato.

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Il disposto possiede peraltro una sua giuridica inevitabilità: quei datori han-no, seppur in condivisione, formalmente stipulato il contratto individuale di la-voro, non il contratto di rete che a livello teorico non ha alcunché in comune con il contratto di lavoro.

Da tale angolazione, non pare peregrino sostenere che l’assunzione con-giunta è il reciproco della codatorialità: l’accento non è posto sull’esercizio sostanziale del potere direttivo, ma sulla contitolarità formale del contratto di lavoro, da cui scaturisce un’obbligazione autenticamente plurisoggettiva ma non un’alterazione della struttura bilaterale del contratto, considerato che la pluralità di soggetti si dispone sul solo versante datoriale.

Ci si potrebbe chiedere se allo stesso schema potrebbe giungersi con la sti-pulazione del contratto di lavoro da parte di una rete “soggetto”, intesa come unico datore di lavoro.

In verità se il contratto di lavoro fosse stipulato da una rete soggetto, più che aprirsi, il cerchio si chiuderebbe perché in tal caso saremmo tornati all’ori-gine, avendo di fronte un solo datore e un solo lavoratore, una situazione “classica” per la nostra materia. Né potrebbe in tal caso parlarsi di “responsa-bilità solidale”, istituto che presuppone una pluralità di soggetti ed è finalizza-to ad estendere l’ambito della tutela riservata al creditore.

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I consorzi e le reti d’impresa Guido Bonfante

SOMMARIO:

1. I consorzi. – 2. Il contratto di rete. – 3. Il gruppo paritetico cooperativo. Qualche cenno.

1. I consorzi

Fra le varie tipologie di forme contrattuali riguardanti le aggregazioni fra imprese il consorzio rappresenta il modello più risalente nel tempo ancorché l’attuale disciplina sia riconducibile alla legge 10 maggio 1976, n. 377.

Con tale normativa si è statuito che più imprenditori istituiscono fra loro un’organizzazione comune per la disciplina e lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese.

I consorzi possono essere di vario tipo, operanti sia nel settore pubblico che privato. In questa sede ci dobbiamo occupare solo dei consorzi volontari la-sciando da parte quelli cosiddetti obbligatori di cui agli artt. 2616-2617 c.c.

L’elemento soggettivo del consorzio, che è anche una sua caratteristica di-stintiva rispetto ad altre figure come il Geie e il contratto di rete, è rappresen-tato dal fatto che i consorziati debbono essere imprenditori e il loro numero minimo per la costituzione è di almeno due, salvo si tratti di particolari tipi di consorzi. E così per i cosiddetti consorzi stabili, ossia per quei consorzi che vengono costituiti fra imprenditori per partecipare ad appalti pubblici, il nu-mero minimo è di tre come statuisce l’art. 36 del d.lgs. n. 163/2006. Inoltre se si vuole godere delle agevolazioni fiscali i consorziati devono essere almeno cinque.

Nell’ambito dei consorzi una distinzione di fondo è fra i cosiddetti consorzi contrattuali e quelli in forma societaria disciplinati dall’art. 2615-ter c.c. In quest’ultimo caso i modelli societari delle S.r.l. e della S.p.A. – e vedremo an-che della cooperativa – vengono modificati nella loro causa in quanto nel con-sorzio non vi può essere scopo di lucro.

Si discute se il consorzio “contrattuale” sia dotato di personalità giuridica. Ora mentre è pacificamente riconosciuto, e non potrebbe essere diversamente,

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che il consorzio societario ha personalità giuridica, per il consorzio contrattua-le le cose si presentano più complesse. Sicuramente non ha personalità giuri-dica il consorzio che ha un’attività meramente interna quale può essere un consorzio fra imprenditori per la gestione, ad esempio, del magazzino, per la gestione in comune delle celle frigorifere e via discorrendo. Diverso è il di-scorso invece dei consorzi con attività esterna di cui agli artt. 2612 ss. c.c.

Mentre infatti per taluno i consorzi con attività esterna avrebbero una sog-gettività giuridica simile a quella della personalità giuridica, la Cassazione si è espressa in passato per la tesi negativa. È pacifico però che un qualche grado di soggettività giuridica debba riconsocersi in quanto siamo pur sempre in pre-senza di centri di imputazione giuridica di rapporti giuridici che per di più pre-sentano anche una loro autonomia patrimoniale.

Un punto molto importante in tema di consorzio è la considerazione che questa figura deve prevedere in ogni caso un’organizzazione comune diretta alla disciplina e allo svolgimento di una fase dell’impresa. Questa regola non vale per tutti consorzi perché, ad esempio, quando si è in presenza di consorzi cooperativi regolati dalla c.d. legge Basevi, il consorzio, che riunisce imprese cooperative, e che è a sua volta una cooperativa cosiddetta di secondo grado, svolge la medesima attività delle imprese consorziate. Ma qui siamo in presen-za di una legge ad hoc per questo tipo di modello.

Un quesito oggetto di valutazioni spesso difformi è se il consorzio sia as-soggettabile a fallimento.

La questione non è così pacifica in quanto bisogna esaminare in concreto com’è strutturato quel determinato consorzio. Sicuramente è sottoponibile a fallimento un consorzio in forma societaria che svolga in concreto un’attività commerciale.

Al contrario un consorzio fra imprenditori agricoli non fallisce, così come non fallisce un consorzio contrattuale con attività solo interna. Può invece fal-lire il consorzio contrattuale con attività esterna che svolga un’attività di tipo commerciale.

Costituire un consorzio è un po’ più complicato rispetto, ad esempio, alla costituzione di un contratto di rete, fermo restando che la “complicazione” cambia a seconda del tipo di consorzio. Se si deve costituire un consorzio in forma societaria è pacifico che si dovranno seguire le regole della società, mentre se si ha a che fare con un consorzio con attività interna è comunque necessaria la forma scritta che dovrà rispettare le regole dell’art. 2603 c.c. a pena di nullità.

Inoltre se il contratto prevede un ufficio destinato a svolgere un’attività coi terzi occorre procedere altresì all’iscrizione al Registro Imprese entro trenta giorni dalla stipulazione dell’atto.

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Vediamo ora l’aspetto forse più delicato ovverossia l’esistenza del fondo consortile e la responsabilità dei consorziati.

Il fondo consortile viene costituito con i contributi dei consorziati ed è strumentale al perseguimento delle finalità del consorzio con la conseguenza che i consorziati non possono chiederne la divisione così come i creditori par-ticolari dei singoli consorziati non possono aggredirlo e quindi non possono far valere su di esso i loro eventuali diritti di credito.

A differenza delle società di capitali non è previsto peraltro un minimo le-gale.

Quanto alla responsabilità del consorzio la regola è che per le obbligazioni assunte in nome del consorzio da parte dei soggetti che hanno la rappresentan-za i terzi possono far valere loro azioni esclusivamente sul fondo consortile.

Dunque principio fondante è che vi è una responsabilità esclusiva del fondo consortile per le obbligazioni assunte in nome del consorzio da coloro che ne hanno la rappresentanza non sussistendo la responsabilità dei singoli soggetti partecipanti al consorzio.

Nel caso invece in cui gli affari siano condotti direttamente dai consorziati delle obbligazioni risponderà il singolo consorziato nei confronti del terzo.

Secondo una parte della dottrina vi sarebbe in questo caso anche una re-sponsabilità solidale del consorzio ove peraltro questa responsabilità dovrebbe essere fatta valere nei limiti del fondo consortile.

Il punto è peraltro discusso e va aggiunto che vi sono poi delle regole parti-colari per quanto riguarda gli appalti pubblici e quindi per i consorzi per gli appalti pubblici.

Le società consortili, come detto, sono regolate dall’art. 2615-ter c.c. Dun-que in questo tipo di consorzio la gestione di una fase dell’attività d’impresa può far capo ad una società di capitali. La legge non fa riferimento alle società cooperative, ma successivamente anche in seguito alla normativa in tema di agevolazione ai consorzi, non vi sono più dubbi circa la possibilità di costitui-re consorzi in forma cooperativa ai sensi dell’art. 2615-ter c.c.

Resta però il fatto che in generale lo statuto di una società consortile non può essere copiato con la carta carbone da un qualunque statuto delle società tipiche S.p.A., S.r.l. o cooperative perché appunto nei consorzi è vietato lo scopo di lucro e quindi non sarà possibile la distribuzione degli utili ai soci.

Visto che si è accennato alle cooperative va ricordato ancora che si può co-stituire un consorzio in forma cooperativa sia ai sensi dell’art. 2615-ter c.c., sia ai sensi dell’art. 27 della legge Basevi ovvero il d.lgs. c.p.s. 14 dicembre 1947, n. 1577 e sue modificazioni. La differenza fra le due fattispecie è rap-presentata dal fatto che il consorzio cooperativo costituito secondo l’art. 2615-ter c.c. può avere come consorziati anche non cooperative, mentre invece se si

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costituisce un consorzio ai sensi della legge Basevi i consorziati debbono esse-re società cooperative.

Un ultimo accenno ai cosiddetti consorzi stabili di cui all’art. 36 del codice appalti pubblici.

I consorzi stabili sono, come si è già detto, consorzi che hanno le stesse ca-ratteristiche dei consorzi illustrate finora, ma presentano alcune differenze, prima fra tutte, il fatto che devono avere una durata di almeno cinque anni ed inoltre il numero minimo di consorziati è di almeno tre.

A parte vi sono poi, requisiti particolari indicati dalla legge sugli appalti su cui però in questa sede non è il caso di soffermarsi.

2. Il contratto di rete

Quando è stata introdotta questa figura sembrava di avere a che fare con un istituto del tutto inutile, una specie di brutta copia del consorzio.

E infatti le differenze dal consorzio sono abbastanza modeste perché la fi-nalità è simile e quindi si potrebbe dire che il contratto di rete sembrerebbe una specie di consorzio di serie B che costa di meno costituire e gestire e che ha maggiore elasticità di forme.

Si può immaginare infatti, per esempio, che vi possa essere un fondo pa-trimoniale e un organo comune, ma non è detto che questi elementi ci debbano sempre essere; si può infatti “costruire” un contratto di rete che non ha il fon-do patrimoniale o che non ha l’organo comune. E del resto se si guarda alla legge che ha introdotto questa figura, la legge n. 39/2009, vi è un solo articolo che disciplina questo modello che viene descritto come una sorta di “veicolo” a disposizione delle piccole e medie imprese per entrare o restare nel mercato. Infatti col contratto di rete si possono immaginare due finalità differenti: una per così dire di mero coordinamento in cui si collabora fra i membri per crea-re, ad esempio, un marchio comune, per stabilire una politica di prezzi comuni oppure per condividere informazioni commerciali.

Per altro verso ci può essere una collaborazione molto più stretta attraverso l’esercizio comune di un’attività rientrante nell’oggetto della propria impresa e in questo caso la similitudine con il contratto di consorzio è evidente.

Nel contratto di rete non è previsto nessun numero minimo di partecipanti, ma anche in questo caso bisogna essere almeno in due come nel consorzio con la differenza però che se il consorzio vuole avere le agevolazioni – come si è visto – il numero minimo sale a cinque mentre invece in questo caso bastano due partecipanti.

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Quanto ai contenuti minimi del contratto occorre innanzitutto l’indicazione dei soggetti che sottoscrivono il contratto e vi deve inoltre essere specificato l’oggetto del contratto, la durata, i requisiti di ammissione, le condizioni del recesso.

Fra gli elementi facoltativi va ricordato il fondo patrimoniale. Se non è previsto il fondo patrimoniale, le imprese partecipanti dovranno

prevedere, per così dire, una sorta di budget annuale di spese. L’organo comu-ne di regola è previsto, ma potrebbe anche non esserci se il contratto ha fun-zione di mero coordinamento. Va però aggiunto che se non c’è un organo co-mune sembra difficile immaginare la possibilità di funzionamento di questa figura.

Quanto alle formalità costitutive da rispettare se c’è un fondo è pacifico che il contratto debba essere fatto con atto pubblico oppure con scrittura priva-ta autenticata, almeno così chiede la legge.

Per quanto concerne la responsabilità verso i terzi bisogna verificare se gli impegni che sono stati assunti dalla rete abbiano ad oggetto prestazioni che siano divisibili o non divisibili fra i vari membri. Se non sono divisibili sorge-rà una responsabilità dell’organizzazione, se invece sono divisibili la respon-sabilità farà capo alle imprese che hanno svolto quel tipo di attività.

La rete non ha personalità giuridica, ma anche in questo caso, come per il consorzio contrattuale, non si può negare una qualche soggettività giuridica, esclusa la soggettività tributaria.

Infine una differenza dal contratto di consorzio non marginale che può an-che portare a preferire il contratto di rete piuttosto che un contratto di consor-zio è rappresentata dal fatto che con il contratto di rete è possibile perseguire anche scopi lucrativi.

3. Il gruppo paritetico cooperativo. Qualche cenno

A margine dei temi sopra affrontati merita fare un qualche cenno in tema di aggregazione fra imprese al gruppo paritetico cooperativo.

Il gruppo cooperativo paritetico, recita l’art. 2545-septies, è un contratto con cui più cooperative, anche appartenenti a categorie diverse, regolano, anche in forma consortile, la direzione e il coordinamento delle rispettive imprese.

La norma precisa quali debbano essere i contenuti minimi del contratto os-sia: la durata; la o le cooperative a cui è attribuita la direzione del gruppo con un’indicazione dei relativi poteri; l’eventuale partecipazione di altri enti pub-blici o privati; i criteri e le condizioni di adesione e di recesso del contratto; i

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criteri di compensazione e l’equilibrio nella distribuzione nei vantaggi deri-vanti dall’attività comune.

Il testo letterale della norma indica che si è in presenza di un accordo fra partecipanti al gruppo al fine di designare la società o le società a cui viene as-segnata la direzione e il coordinamento del gruppo.

Peraltro secondo alcuni non sussisterebbe alcuna valida ragione per esclu-dere che la direzione avvenga in alternativa a quanto indicato dalla norma a mezzo di un apposito comitato eletto in rappresentanza di tutti i partecipanti al gruppo.

Per quanto attiene alla durata può sorgere la questione della legittimità di una clausola che stabilisca la durata illimitata del contratto. È da ritenersi che, ove essa sia consentita, occorra comunque prevedere i meccanismi di recesso con preavviso non diversi da quelli stabiliti nella riforma in presenza di con-tratti di società con durata illimitata.

Anche se la partecipazione al gruppo cooperativo è aperta a enti non coo-perativi, la direzione spetta comunque sempre alla o alle cooperative con ob-bligo di indicare dettagliatamente i relativi poteri. E ciò a maggior ragione ove la direzione venga affidata a più soggetti.

Il contratto, lo si è detto, deve stabilire altresì i criteri e le condizioni di adesione e di recesso del contratto.

Per quanto attiene all’adesione la formulazione sembra quasi richiamare il principio della porta aperta. Si tratta, come ovvio, di una semplice suggestione in quanto nel caso di specie non siamo necessariamente in presenza di un con-tratto aperto; ciò che rileva è piuttosto una chiara regolamentazione delle con-dizioni di partecipazione che espliciti le condizioni e le modalità di ammissio-ne, oneri, diritti e doveri della partecipazione al gruppo.

Per quanto attiene al recesso oltre al caso del recesso con preavviso, qualo-ra si ammetta la durata a tempo indeterminato del gruppo, è consentito co-munque il diritto della cooperativa aderente di recedere qualora in seguito al-l’adesione al gruppo «le condizioni dello scambio risultino pregiudizievoli per i propri soci». A ciò si possono aggiungere qualora si ritenga applicabile la di-sciplina generale sui gruppi, le ipotesi di recesso disciplinate dall’art. 2497-quater c.c.

In punto recesso una particolare sottolineatura va fatta con un riguardo alla facoltà sopra segnalata di recedere qualora lo scambio mutualistico del socio risulti pregiudicato all’adesione al gruppo: si tratta di una disposizione che va-lorizza, il carattere paritetico dell’accordo impedendo che il gruppo cooperati-vo possa trasformarsi in una sorta di contratto di dominio o che comunque il controllo possa pregiudicare la prestazione mutualistica dei soci delle coopera-tive aderenti.

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Ma si tratta anche di una misura che indebolisce la capacità di direzione della capogruppo ed è appunto questa la ragione principale per cui, a differen-za del contratto di rete, questa figura non ha avuto finora alcun apprezzabile seguito nel mondo della cooperazione che ha continuato a preferire affidarsi in tema di aggregazione fra imprese al modello consortile.

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I gruppi di società: dottrina, giurisprudenza e prassi Paolo Montalenti

SOMMARIO

1. I gruppi di società. – 2. Le ragioni del gruppo. – 3. Il gruppo di società: i problemi. – 4. Dal-le leggi speciali alla riforma del diritto societario. – 5. Impresa di gruppo? – 6. La direzione unitaria. – 7. Il rapporto contrattuale di gruppo. – 8. Il regolamento di gruppo: funzioni opera-tive. – 9. Regolamento di gruppo e autorizzazioni statutarie. – 10. L’attività di direzione unita-ria: tipologia. – 11. Il criterio dei vantaggi compensativi. – 12. I vantaggi compensativi: casi-stica. – 13. I vantaggi compensativi: la giurisprudenza. – 14. Abuso di direzione e coordina-mento: la giurisprudenza. – 15. Altri casi giurisprudenziali. – 16. Conclusioni. – Nota.

1. I gruppi di società

Nel trattare un argomento ampio e complesso qual è il tema dei gruppi di società, intendo focalizzare l’attenzione sui punti di riferimento normativi es-senziali in questa materia e vedere come l’elaborazione dottrinale e giurispru-denziale si sia sviluppata dopo la riforma del 2003, alla luce della casistica pratica sia sotto il profilo della patologia sia sotto il profilo della fisiologia e in che misura l’evolversi della riflessione dottrinale si sia tradotto nella giuri-sprudenza più recente.

Il gruppo di società rappresenta la forma organizzativa della maggioranza delle imprese italiane. Molto spesso si pensa al gruppo solo in termini di gran-di gruppi o gruppi multinazionali: in realtà, come oggi si legge anche nei ma-nuali, il gruppo è la forma giuridica tipica della moderna società per azioni.

2. Le ragioni del gruppo

Quali sono le ragioni economiche per cui si costituisce un gruppo? La pri-ma, ormai neanche la più importante, è la ripartizione ulteriore della responsa-bilità patrimoniale; inoltre la funzione di leverage nella raccolta dei capitali,

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soprattutto nei gruppi a catena; in tutti i gruppi, in maniera più o meno com-plessa, la realizzazione di una strategia complessiva dal punto di vista econo-mico-produttivo, dal punto di vista della distribuzione commerciale, dal punto di vista finanziario sia esterno sia interno, nonché di una organizzazione ma-nageriale più efficiente.

3. Il gruppo di società: i problemi

Quali sono i problemi essenziali che hanno un immediato riflesso giuridico? La questione di fondo è la dialettica tra l’unità del gruppo (e quindi l’esi-

genza di strategie unitarie condivise e comuni a tutte le società appartenenti al gruppo) e, dall’altra parte, la conservazione di una sfera di autonomia delle singole società, con un “istituzionale” conflitto di interessi tra capogruppo (e socio di controllo), da un lato, e soci di minoranza e creditori delle società ete-rodirette, dall’altro lato.

4. Dalle leggi speciali alla riforma del diritto societario

Il legislatore per lungo tempo è intervenuto in molti settori della legislazione speciale, nell’ordinamento bancario, nella legge sull’editoria, nell’ordinamento assicurativo, in materia di amministrazione straordinaria ma si è astenuto, a lun-go, dall’intervenire con una nozione e una disciplina di carattere generale.

Si giunge così alla riforma del 2003-2004 in cui, di nuovo, il legislatore è stato “prudente”, perché non ha voluto una definizione di gruppo. Un autore-vole studioso (SPADA) ha però, esattamente, osservato che, pur mancando una definizione di gruppo, è tuttavia noto quali siano i problemi del gruppo.

Il legislatore, inoltre, non ha dettato – è vero – una disciplina sulla “fisiolo-gia” del gruppo ma, regolando la responsabilità da abuso di direzione e coordi-namento, ha implicitamente introdotto una disciplina positiva: stabiliti infatti i confini oltre i quali sorge una responsabilità da direzione unitaria, si evince che al di sotto di quella soglia l’attività di direzione e coordinamento è legittima.

5. Impresa di gruppo?

Un tema molto discusso è l’esistenza dell’impresa di gruppo. L’opinione prevalente – che condivido – è nel senso che un’impresa di gruppo non esiste: esiste una pluralità di imprese che sono imputate alle singole società. Tuttavia

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la dimensione del gruppo trasforma per così dire qualitativamente e le singole imprese e le società: per usare una formula che mi pare efficace, le società di-ventano, nel gruppo, «società a sovranità limitata» (MIGNOLI). Si tratta allora di stabilire fino a che punto i condizionamenti sull’attività delle controllate imposti dalla capogruppo siano legittimi e fino a che punto invece l’autonomia delle singole società debba essere conservata.

6. La direzione unitaria

In primo luogo è necessario definire che cosa significa direzione unitaria. Ebbi a suo tempo a scrivere che si tratta di una pluralità sistematica e costante di atti idonei ad incidere sulle decisioni gestorie delle controllate cioè sulle scelte strategiche di carattere finanziario, industriale e commerciale pur nel-l’ambito di una relativa autonomia delle singole società. Questo principio ha trovato conferma in diverse sentenze, in particolare del tribunale di Milano, decisioni che – con nostra soddisfazione – hanno utilizzato la stessa formula-zione.

7. Il rapporto contrattuale di gruppo

Un tema assai discusso – e molto rilevante – è il problema della relazione all’interno del gruppo tra la controllante e le controllate, cioè tra società capo-gruppo e le società eterodirette. Vi sono – essenzialmente – due teorie: secondo una teoria si tratta di un rap-porto di mero fatto (GALGANO). A mio parere, per contro, e ci sono conferme giurisprudenziali, il rapporto di direzione e coordinamento è un rapporto giu-ridicamente rilevante e precisamente un rapporto contrattuale, o formalizzato nel regolamento di gruppo o posto in essere per facta concludentia consistenti nella emanazione e nella esecuzione delle direttive della capogruppo.

La qualificazione del rapporto di direzione e coordinamento come rapporto contrattuale ha precise conseguenze sul piano della disciplina applicabile poi-ché nei limiti della soglia consentita – e cioè come subito si dirà nei limiti del criterio dei vantaggi compensativi – la capogruppo ha non solo il potere ma il diritto di emanare direttive e le società eterodirette sono non solo facoltizzate bensì obbligate ad eseguirle.

Vi è una precisa conferma giurisprudenziale: è stato stabilito che la revoca degli amministratori per non aver adottato legittime direttive è una giusta cau-

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sa di revoca (Trib. di Cagliari, 14 aprile 2011, in Giur. comm., 2013, II, 691, con nota di RIVARO).

La questione non è di astratta dottrina; ha, bensì, nella operatività concreta del gruppo, un significato rilevante: gli amministratori della società eterodiret-ta valutano se la direttiva, emanata in relazione ad una specifica decisione del-la controllata, non incide illegittimamente (cioè in assenza di compensazione attuale o prospettica) sull’autonomia gestoria della società e, in caso afferma-tivo, sono tenuti ad adottarla. Se invece si ritenga che si tratti di una mera re-lazione di potere (ANGELICI) l’incertezza nel rapporto tra amministratori della holding e della controllata può diventare problematica. Una conferma: l’art. 2497-septies statuisce che ove non vi sia una relazione di controllo, le società possono, con un contratto, assoggettarsi alla direzione e coordinamento di un’altra società. Francamente risulta arduo comprendere come ciò possa esse-re legittimo tra società indipendenti ed invece essere vietato all’interno di un gruppo che ha una struttura più coesa.

8. Il regolamento di gruppo: funzioni operative

Se è vero – come a me pare – che la relazione di gruppo “qualificata” (cioè caratterizzata dalla direzione unitaria della capogruppo) si configura come rapporto giuridico contrattuale, ciò implica che il regolamento di gruppo può diventare un elemento efficiente ed efficace per la regolazione dei rapporti in-terni. Frequentemente, nell’esperienza pratica, il regolamento di gruppo stabi-lisce le aree decisionali in cui la capogruppo può impartire direttive alle con-trollate, ad esempio in materia di criteri di nomina degli amministratori delle società controllate, di modalità per la stipulazione dei contratti di fornitura, di disciplina delle forme di finanziamento e così via.

Il regolamento di gruppo – dotato dunque di valenza giuridica vincolante – si configura come strumento operativo chiaro ed efficiente.

9. Regolamento di gruppo e autorizzazioni statutarie

Il gruppo può essere a struttura direzionale maggiormente concentrata op-pure invece decentrata. Uno strumento di rafforzamento del potere direttivo che si unisce bene al regolamento di gruppo è la previsione di autorizzazioni statutarie. È noto che in base all’art. 2364, n. 5, c.c. l’assemblea non può avere competenze amministrative ma lo statuto può prevedere autorizzazioni assem-bleari su atti di gestione. Se nello statuto della società controllata si inserisce –

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ad esempio – la clausola per cui la nomina del direttore generale è sottoposta all’autorizzazione dell’assemblea, e cioè della capogruppo, si configura una sorta di potere di veto del socio di controllo, cioè della capogruppo, che con-duce, a ben vedere, ad una decisione positiva nei confronti del direttore gene-rale gradito. Se si sottopone ad autorizzazione dell’assemblea della eterodiret-ta ad esempio l’acquisizione di partecipazioni strategiche o di rami aziendali strategici, chiavi fondamentali della gestione, vengono attribuiti, legittima-mente, sia pure con il sistema “indiretto” dell’autorizzazione, poteri direttivi alla società capogruppo con una regolamentazione giuridica chiara sia per la capogruppo stessa sia per le controllate.

10. L’attività di direzione unitaria: tipologia

Quanto alle aree di esercizio dell’attività di direzione e coordinamento, si possono richiamare alcuni esempi. I piani strategici finanziari, la individua-zione delle regole per l’erogazione di garanzie infragruppo, tema particolar-mente delicato in particolare con riferimento alle garanzie up-stream, da una controllata a favore della controllante, le strategie commerciali, le modalità dell’advertising, i servizi di gruppo.

In particolare i servizi di gruppo – materia assai frequentemente oggetto di direzione unitaria (si pensi ai servizi informatici “centralizzati”) – pongono problemi pratici rilevanti. Ad esempio, a mio parere, l’adozione delle tariffe di gruppo deve sempre essere giustificata nelle decisioni dei consigli di ammini-strazione delle singole società, in quanto il prezzo pagato deve essere non le-sivo dell’efficienza della società stessa. È quindi opportuno che i criteri con cui vengono allocati i prezzi dei servizi intragruppo siano precisati nella deli-berazione consiliare.

Altro tema rilevante è la gestione della liquidità di gruppo. In Francia la materia è addirittura regolata per legge ma in ogni ordinamento gli accordi di cash pooling sono ampiamente diffusi, nei gruppi di una certa dimensione, e consentono alle società con liquidità in eccesso di metterla a disposizione di società che necessitano invece di liquidità aggiuntiva, a condizioni più favore-voli rispetto a quelle disponibili sul mercato.

11. Il criterio dei vantaggi compensativi

Il limite all’“ingerenza” e al condizionamento delle scelte gestorie delle controllate che la capogruppo deve rispettare nell’esercizio dell’attività di di-

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rezione e coordinamento consiste nel c.d. criterio dei “vantaggi compensativi” che proposi in via interpretativa, ormai vent’anni orsono, e che il legislatore ha poi accolto con la riforma del diritto societario. Il condizionamento della ca-pogruppo è legittimo anche se impone un pregiudizio alla controllata, purché il pregiudizio sia compensato da vantaggi attuali o anche soltanto fondatamen-te prevedibili (cfr. artt. 2497 e 2634 c.c.).

Il legislatore civilistico ha usato una formula un po’ anodina, perché ha stabilito che «non vi è responsabilità quando il danno risulta mancante alla lu-ce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a ciò dirette». In propo-sito si segnalano due interpretazioni. Un’interpretazione restrittiva, letterale, secondo cui il pregiudizio non si configura se con una valutazione ex post se ne verifica l’insussistenza: si tratta, a mio parere di un’interpretazione illogica, perché la valutazione ex post contrasta con ogni principio in tema di scelte ge-storie, con il risultato che nessun amministratore si prenderà mai la responsa-bilità di stabilire che un atto, probabilisticamente, non è dannoso per poi ri-schiare di essere ritenuto responsabile con un giudizio ex post.

Più chiaro il legislatore penale perché, nell’art. 2634, ha stabilito che il rea-to di infedeltà patrimoniale non sussiste se «il profitto della società collegata o del gruppo» è «compensato da vantaggi, conseguiti o» – appunto – «fondata-mente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo»; per l’appunto se i vantaggi sono fondatamente prevedibili: esattamente la for-mula che avevo suggerito.

12. I vantaggi compensativi: casistica

La casistica pratica è ricca di spunti. Riporto un esempio tratto da un’e-sperienza concreta. Si tratta della organizzazione di un finanziamento di grup-po erogato ad una special purpose entity assistito da una pluralità di garanzie – ipoteca su immobili, fideiussioni, lettere di patronage, revolving pledges – ri-lasciate dalle diverse società del gruppo a favore del finanziatore. A sua volta il finanziamento viene ripartito tra le diverse società del gruppo ma – ecco la peculiarità – in misura non necessariamente proporzionale all’entità della ga-ranzia prestata dalle singole società. La ragione della particolarità dell’opera-zione consiste, nel caso di specie, nella necessità di un forte investimento in un nuovo prodotto i cui risultati economici, in termini di futura produzione e commercializzazione, si producono in favore dell’intero gruppo. È chiaro che in una prospettiva “atomistica” l’intera operazione non potrebbe essere posta in essere; per contro, nella misura in cui, ragionevolmente, con valutazione ex

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ante è prevedibile un vantaggio per tutte le società del gruppo, l’operazione è legittima e non concreta un abuso di direzione unitaria.

Vi è poi giurisprudenza consolidata, con riferimento anche ai gruppi di mi-nori dimensioni, che ha stabilito la legittimità della società immobiliare di gruppo destinata a rilasciare garanzie per i finanziamenti erogati a favore delle diverse società del gruppo.

13. I vantaggi compensativi: la giurisprudenza

Interessanti le pronunce giurisprudenziali che hanno deciso di ipotesi in cui la direzione e coordinamento deve ritenersi legittima.

Ad esempio si è ritenuto che nell’interesse di gruppo possa essere stipulato un contratto di appalto intragruppo con determinazione del compenso pari al costo (così Trib. Milano, 15 maggio 2014, Direct People s.r.l c. The DMC Holding AG e altri).

Altre decisioni hanno riconosciuto la legittimità di contratti di servizi di gruppo a prezzo forfettariamente determinato (così Trib. Milano, 25 ottobre 2012, Valbruna Nederland B.V. c. Ilva S.p.a. e analogamente Trib. Milano, 25 marzo 2013 Valbruna Nederland B.V. c. Ilva S.p.a.).

Interessante altresì altra decisione che ha ritenuto legittimo un finanzia-mento intragruppo, in quanto è legittimo «che la controllante agisca nell’e-sclusivo interesse proprio purché non rechi danno alle controllate o che i danni siano adeguatamente compensati»; nella specie si è rilevato che «l’interesse percepito dalla controllata è sempre stato superiore a quello attivo che essa avrebbe percepito depositando in banca la propria liquidità nonostante gli inte-ressi attivi percepiti sui depositi, in quanto società facente parte del gruppo Policlinico San Donato fossero superiori a quello di mercato» (Trib. Milano, 17 febbraio 2012).

Analogamente si è ritenuto legittimo un sistema di cash-pooling redatto se-condo le normali tecniche di «efficiente gestione della tesoreria aziendale» (così Trib. Milano, 10 novembre 2014 Carla Garuti e altri c. Smurfit Kappa Holdings Italia S.p.a.).

14. Abuso di direzione e coordinamento: la giurisprudenza

Si è per contro ritenuto concretare un abuso di direzione e coordinamento l’imposizione alla eterodiretta di operazioni preordinate all’ottenimento da parte della controllante di un indebito risparmio di imposta (Trib. Milano, 22

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marzo 2013 Mib Prima S.p.a.); l’imposizione di un’operazione di cessione di crediti che non ebbe a determinare un danno patrimoniale ma che produsse un danno finanziario che, privando la società della necessaria liquidità in un mo-mento di grave difficoltà, si è ripercosso in termini di continuità aziendale (co-sì, Trib. Milano, (ord.), 3 aprile 2015, Immobiliare La Cartiera S.r.l. c. Esperia S.p.a. e al., rilevante anche ai fini della violazione del disposto dell’art. 2467).

Significativo il caso Bertone in cui il Tribunale ha riconosciuto una viola-zione del principio di corretta gestione societaria e imprenditoriale dell’etero-diretta in quanto «la capogruppo di fatto impediva ogni forma di ricapitalizza-zione della controllata, nonché l’adozione da parte della controllata di ipotesi di salvataggio quali la presentazione di istanza di ammissione al concordato preventivo», «decisioni prese esclusivamente nell’interesse proprio in quanto decisioni diverse avrebbero coinvolto Bertone S.p.A nella necessità di garanti-re l’esecuzione del concordato con il proprio patrimonio» (cit., Trib. Torino, 21 dicembre 2012, Carrozzeria Bertone S.p.A. c. Cortese Ermelinda Bertone e altri).

15. Altri casi giurisprudenziali

Segnalo infine alcune decisioni su temi peculiari. Una sentenza del Tribunale di Milano, affrontando una fattispecie che mi

era parsa a suo tempo come possibile elemento di criticità nella disciplina dell’art. 2497-bis, ha accolto un “disconoscimento di paternità”, inibendo alla società che aveva dichiarato di essere sottoposta a direzione e coordinamento di altra società la menzione di tale soggezione in quanto, pur in presenza di un accordo commerciale di fornitura, non poteva in esso ravvisarsi né un’i-potesi di «controllo contrattuale e ancor meno di soggezione al coordina-mento» (Trib. Milano, 19 settembre 2012, Pressmetal Gunzenhausen GMBH & Co.KG c. Newcast BDC S.r.l.).

Una decisione in tema di recesso ex art. 2497-quater: il Tribunale di Mila-no ha statuito che «a seguito dell’acquisto di una partecipazione sociale, il so-cio coltiva una aspettativa agli utili e un diritto alla quota positiva di liquida-zione, esponendosi, al contempo, al rischio di non ricevere né l’uno − per sva-riate ragioni − né l’altro (nel caso la liquidazione non lasci margini positivi); in linea di principio, quindi, si dovrebbero ritenere “alterate” le condizioni di rischio dell’investimento allorché si ravvisi che l’ingresso o l’uscita dal gruppo − o il cambio della società esercente l’attività di direzione e coordinamento − abbia determinato o rischi in concreto di determinare un impatto negativo sul-

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l’equilibrio patrimoniale e finanziario della società e/o sul valore della parte-cipazione e/o sulle prospettive reddituali della società eterodiretta, e di conse-guenza, sulle aspettative reddituali che il socio nutriva prima di questo cam-biamento» (Trib. Milano, 21 luglio 2015, Comitalia S.p.a. c. Pomellato S.p.a. e al.).

16. Conclusioni

La disciplina italiana per diversi profili costituisce addirittura una punta avanzata rispetto al diritto europeo, anche se, come ho già avuto modo di so-stenere, alcune modificazioni della disciplina potrebbero essere utili anche per risolvere alcune questioni interpretative ancora aperte.

Per evitare il rischio di una lettura riduttiva, cioè ex post, del criterio defini-torio dei vantaggi compensativi – «non vi è responsabilità quando il danno ri-sulta mancante alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento» (art. 2497, comma 1, ult. parte) – mi parrebbe opportuno mu-tuare espressamente – come ho sostenuto, in ogni caso, in via interpretativa – la formula dal più chiaro sintagma dell’art. 2634: la responsabilità non sussiste «se il danno risulta mancante, in quanto compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dall’attività di direzione o coordinamento».

Un opportuno restyling merita poi l’art. 2497-septies, in materia di direzio-ne e coordinamento contrattuale. La norma, in primo luogo, dovrebbe contem-plare nella rubrica non soltanto il coordinamento ma anche la direzione, come del resto emerge dal testo della disposizione.

Soprattutto non si comprende la ragione dell’inciso «fuori dalla ipotesi di cui all’art. 2497-sexies». Per quale ragione il rapporto contrattuale dovrebbe essere legittimo soltanto tra società indipendenti e non anche nell’ambito del gruppo?

È ben vero il contrario: il passaggio da una relazione di mero potere ad una relazione qualificata come rapporto giuridico ha il pregio, come si è detto, di de-lineare con chiarezza i “poteri” della società che esercita la direzione unitaria, e i suoi limiti, e, specularmente, i doveri della eterodiretta e i “diritti di resistenza” degli amministratori di questa nei confronti del management della capogruppo. Abrogare l’inciso legittima, utilmente, il regolamento di gruppo come strumento contrattuale di disciplina, anche nel gruppo, della direzione unitaria.

La disciplina italiana si pone, per completezza di regolazione e modernità di criteri, pur con alcuni limiti da superare, come un punto di riferimento per una disciplina europea alla luce degli spunti emersi da altri ordinamenti (si ve-da in Francia la c.d. dottrina Rozenblum) e delle indicazioni emergenti dal-l’Action Plan 2012.

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E un tema tutto da esplorare è il rapporto con la proposta di Direttiva 2014/120 del 9 aprile 2014, Single member private limited companies, che può porsi come efficace strumento di “società infragruppo”, specie nei gruppi mul-tinazionali.

In sintesi ritengo che:

(i) l’interesse sociale debba intendersi come interesse al profitto (composi-tivo dei diversi interessi delle categorie degli azionisti) nei limiti legali, con-trattuali, autodisciplinari, integrato dall’interesse dell’impresa all’efficienza gestoria nella operatività delle singole decisioni amministrative;

(ii) l’interesse di gruppo è un interesse distinto e comune alla capogruppo e alle diverse società del gruppo che corrisponde alla logica aziendale di gruppo, si estrinseca nei piani strategici di gruppo e si attualizza nell’attività di dire-zione e coordinamento;

(iii) il rapporto di gruppo è rapporto giuridico non già mero fatto o mera re-lazione di potere, concretizzandosi allora in un sistema contrattuale di poteri e doveri che realizza nel gruppo razionalità di organizzazione, di indirizzo, di coordinamento ed anche chiarezza di diritti, doveri e responsabilità;

(iv) la tipologia delle diverse aree in cui si estrinseca la direzione e coordina-mento trova elemento unificante nel criterio dei vantaggi compensativi che deve essere inteso non già come limitato alla compensazione economica attuale bensì anche alla razionalmente prevedibile compensazione futura derivante dai vantaggi dell’appartenenza al gruppo nell’arco temporale delle singole operazioni;

(v) la disciplina italiana, con alcuni interventi di restyling, può costituire un punto di riferimento per il legislatore comunitario.

Nota

Segnalo gli scritti da cui ho tratto alcuni spunti per la relazione:

P. MONTALENTI, Conflitto di interessi nei gruppi di società e teoria dei vantaggi compensativi, in Giur. comm., 1995, I, 710 ss.

P. MONTALENTI, Direzione e coordinamento nei gruppi societari: principi e proble-mi, in Riv. Soc., 2007, 317 ss.

P. MONTALENTI, L’attività di direzione e coordinamento: dottrina, prassi, giurispru-denza, in Giur. comm., 2016, I, 111 ss.

La giurisprudenza citata è reperibile sul sito www.giurisprudenzadelleim prese.it.

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L’insolvenza dei gruppi Luciano M. Quattrocchio

SOMMARIO:

1. Premessa. – 2. L’insolvenza dei gruppi di imprese. – 2.1. L’insolvenza dei gruppi di “diritto comune”. Lo status quo. – 2.1.1. Il fallimento di gruppo. – 2.1.2. Il concordato preventivo di gruppo. – 2.1.2.1. Il contesto normativo. – 2.1.2.2. La posizione della giurisprudenza. – 2.2. Se-gue. L’insolvenza dei gruppi nel progetto di riforma delle procedure concorsuali. – 2.2.1. Il dise-gno di legge. – 2.2.2. La relazione al disegno di legge. – 2.3. L’insolvenza dei gruppi nel-l’amministrazione straordinaria. Lo status quo. – 2.4. Segue. Il progetto di riforma dell’am-ministrazione straordinaria. – 3. Conclusioni. – Riferimenti di dottrina. – Riferimenti di giuri-sprudenza.

1. Premessa

Il fenomeno economico del gruppo di imprese ha avuto crescente diffusio-ne nel nostro Paese, al punto che la strutturazione nella forma di gruppo di so-cietà è ormai diventata il modello organizzativo abituale di tutte le grandi im-prese, nazionali e multinazionali: esso si caratterizza per la presenza di una pluralità di imprese che svolgono la loro attività come componenti di un unita-rio centro di organizzazione economica imprenditoriale. In tale prospettiva, viene anche comunemente definito come un’aggregazione di imprese formal-mente autonome ed indipendenti l’una dall’altra, ma assoggettate ad una dire-zione unitaria.

E il principale elemento di differenziazione del gruppo di imprese in senso proprio, rispetto a fenomeni che realizzano comunque un raggruppamento (qua-li, ad esempio, i consorzi o le diverse forme di joint venture) viene individuato dagli interpreti proprio nella direzione unitaria che la società capogruppo (o so-cietà-madre) esercita nei confronti delle partecipate (o società-figlie), sia perché partecipa direttamente al capitale di queste ultime (c.d. controllo interno o diret-to) sia in forza di vincoli contrattuali (c.d. controllo esterno o contrattuale).

Occorre, tuttavia, considerare che la nozione di gruppo è comprensiva an-che del fenomeno del c.d. gruppo in senso orizzontale o paritetico, che nasce propriamente da un accordo tra imprese giuridicamente distinte, le quali si sot-

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topongono volontariamente ad una direzione unitaria, senza peraltro che l’una abbia il controllo o un’influenza dominante sulle altre.

Il gruppo sotto il profilo economico viene – quindi – considerato in termini di impresa unitaria, anche se sul piano giuridico questa ricostruzione è accolta soltanto da una parte della dottrina e della giurisprudenza. Essa ha trovato la sua illustrazione più importante nel pensiero di Francesco Galgano, secondo il quale il gruppo di società rappresenta una particolare forma di organizzazione imprenditoriale in cui l’impresa esercitata dalla holding e dalle controllate è unica e di essa sono titolari tutte le società che lo compongono. Più in partico-lare, in esso la funzione di direzione e controllo è riservata alla capogruppo, mentre le funzioni operative sono affidate alle controllate; inoltre, la capo-gruppo esercita un’attività imprenditoriale non in ragione della direzione, ma in quanto, in via mediata e indiretta, svolge l’attività delle controllate, che vie-ne così a far parte del proprio oggetto sociale.

E del resto, sempre in questa visuale, si sottolinea come l’unitarietà del gruppo e il superamento delle distinte personalità giuridiche delle società che lo compongono possono trovare conferma in una serie di elementi quali l’uti-lizzo dei marchi da parte delle controllate, il consolidamento del bilancio, la considerazione unitaria del gruppo nelle controversie di concorrenza sleale, i riflessi dell’appartenenza al gruppo in ambito penalistico e lavoristico (F. GALGANO; Trib. Milano 20 dicembre 2004; Cass. 26 febbraio 1990, n. 1439).

Sul versante opposto l’opinione maggioritaria riconosce nel gruppo un fe-nomeno unitario solo sul piano economico, mentre sul terreno giuridico per-mane la distinzione fra le varie società (U. TOMBARI). Al riguardo numerosi e risalenti nel tempo sono gli arresti della giurisprudenza. E così: «se il gruppo di società aventi ciascuna autonoma personalità, ma costituito a tutela di co-muni interessi economici (holding), può essere considerato unitario sotto il profilo economico, ciò, invece, non può assolutamente ritenersi sotto il profilo giuridico-tributario» (Cass. 2 marzo 1964, n. 472); «la figura del gruppo di so-cietà costituisce nel nostro ordinamento giuridico una formula descrittiva di un fenomeno di natura meramente economica, giuridicamente rilevante solamen-te nelle materie espressamente regolate da specifiche disposizioni di legge e per i fini in queste previsti» (App. Roma 1° luglio 1985); «il gruppo di impre-se non costituisce un soggetto giuridico o comunque un centro di interessi au-tonomo rispetto alle società collegate» (Cass. 8 maggio 1991, n. 5123; Id. 21 gennaio 1999, n. 521; ID. 17 luglio 2007, n. 15879).

Peraltro, in tale contesto, non mancano segnali parzialmente divergenti dal-l’orientamento maggioritario sul terreno lavoristico, ove viene sottolineato come l’esistenza delle distinte personalità giuridiche non vale ad escludere «la possi-bilità di ravvisare un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro – anche

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ai fini della sussistenza o meno del requisito numerico necessario per l’appli-cazione della cosiddetta tutela reale del lavoratore licenziato – ogni volta che vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un’unica attività fra vari soggetti» (Cass. lav. 3 agosto 1991, n. 8532).

E ancora, sempre in questa logica contrastante, il gruppo di società è consi-derato come un’unica impresa anche per il diritto comunitario della concor-renza, con la conseguenza che «la ripartizione dei mercati, attuata da società appartenenti al medesimo gruppo, non integra perciò l’estremo della intesa fra gruppi o delle pratiche concordate che impediscano, restringano o falsino il gioco della concorrenza» (F. GALGANO). E questa posizione è stata assunta dalla Commissione (decisione 13 luglio 1996) e condivisa dall’Autorità garan-te della concorrenza e del mercato (Relazione annuale per il 1990).

Per quanto concerne il marchio di cui sia titolare la controllante, l’art. 19 del d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, prevede che «può ottenere una registrazione per marchio d’impresa chi lo utilizzi, o si proponga di utilizzarlo, nella fabbri-cazione o commercio di prodotti o nella prestazione di servizi della propria impresa o di imprese di cui abbia il controllo o che ne facciano uso con il suo consenso».

Tali considerazioni, insieme con la disciplina di cui agli artt. 2497 ss. c.c. introdotta dalla riforma del 2003, hanno contribuito – per così dire – a riavvi-cinare in una tesi mediana la dicotomia unità-pluralità del gruppo.

Così, se per un verso la holding è impresa non in quanto svolga in via me-diata l’attività delle controllate, ma in quanto esercita un’attività di prestazione di servizi e compravendita di partecipazioni, per altro verso resta indipendente da tale attività quella della direzione. Ed è proprio nella direzione e coordina-mento dell’attività della holding che il gruppo assume evidenti connotati di unitarietà anche sul terreno giuridico, attraverso il riconoscimento da parte della norma di un particolare valore organizzativo alla controllante nei con-fronti delle controllate. Al punto da statuire che la responsabilità per i danni provocati dalle direttive impartite può non sussistere «alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento».

Sotto tale profilo, è difficile negare che l’unitarietà anche giuridica del gruppo non sia entrata a far parte dei principi del nostro ordinamento. E del resto questa osservazione trova ulteriore conferma dissodando più a fondo il concetto di direzione e coordinamento introdotto dalla riforma che – come è stato osservato (F. GUERRERA) – legittima il trasferimento del potere ammini-strativo e gestorio dalla controllata alla capogruppo, comportando il venir me-no della piena ed incondizionata “autonomia gestionale (e giuridica)” della so-cietà diretta e coordinata. Ne discende una significativa alterazione del sistema delle competenze organiche delle società dipendenti, dal momento che gli am-

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ministratori di una società diretta e coordinata possono essere privati del pote-re di definire le linee strategiche della propria società e di alcuni poteri di ge-stione ordinaria, a seconda del maggiore o minor grado di accentramento del gruppo; inoltre, essi devono collaborare con la capogruppo nel perseguimento delle politiche di gruppo ed eseguirne le direttive che non contrastino con i principi di corretta gestione societaria.

In questa prospettiva, si ritiene che «qualora la direttiva impartita dalla ca-pogruppo sia “legittima”, il sistema legale delle competenze e – più in genera-le – il dovere di gestire con diligenza e nel rispetto dell’interesse sociale im-pongono all’organo amministrativo di una società per azioni diretta e coordi-nata di attuarla, esponendosi in caso contrario ai rimedi riconosciuti dal diritto azionario in presenza di comportamenti illegittimi degli amministratori (revo-ca per giusta causa, azione di responsabilità, se il fatto ha causato dei danni, ecc.)» (P. MONTALENTI).

Dunque ben poco resta dell’autonomia delle società del gruppo, per cui può dirsi che l’unitarietà giuridica – e non solo di fatto – del gruppo fa ormai parte dei principi del nostro ordinamento.

Naturalmente un tale criterio organizzativo del gruppo deve a sua volta tra-dursi in regole di comportamento per gli organi delle società madri e delle controllate e i capisaldi delle predette regole sono ora contenuti negli artt. 2497 ss. c.c., che delineano i fondamentali momenti dello statuto organizzati-vo di una “società di gruppo”; anche se non bisogna dimenticare i “frammenti di disciplina di una società per azioni di gruppo” contenuti in diverse disposi-zioni sulle società per azioni ed introdotte dalla riforma:

• l’obbligo imposto agli organi delegati di riferire al consiglio di ammini-strazione ed al collegio sindacale sulle operazioni di maggior rilievo effettuate dalla società o dalle sue controllate (art. 2381, comma 5, c.c.);

• le disposizioni in tema di operazioni con parti correlate (art. 2391-bis c.c. e relativo regolamento);

• il potere del collegio sindacale di chiedere agli amministratori notizie, an-che con riferimento a società controllate, sull’andamento delle operazioni so-ciali o su determinati affari, nonché di scambiare informazioni con i corri-spondenti organi delle società controllate in merito ai sistemi di corporate go-vernance ed all’andamento dell’attività ovvero il potere di collaborare tra or-gani di controllo delle società del gruppo in deroga ai consueti doveri di riser-vatezza (art. 2403-bis, comma 2, c.c.);

• la denuncia al tribunale ex art. 2409 c.c. per il caso di gravi irregolarità degli amministratori della controllante, potenzialmente dannose per le control-late;

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• le norme negli artt. 150, 151-bis e 151-ter t.u.f., in tema di poteri-doveri di informazione all’interno dei gruppi ai quali partecipano società quotate.

Dunque, in definitiva, seppure non nei termini originariamente invocati da Galgano, la marcia verso una nozione unitaria del gruppo in aderenza ai profili sostanziali ed economici del fenomeno è proseguita in questi anni, trovando, nella disciplina della direzione e coordinamento introdotta dalla riforma del 2003, il suo passepartout verso una sua affermazione, che non può non espli-care i suoi effetti anche sul terreno dell’insolvenza.

Fatta questa premessa, allorquando ci si confronta con la ristrutturazione dell’indebitamento di un gruppo di imprese con l’obiettivo di coordinare al meglio le diverse procedure concorsuali delle varie società costituenti lo stes-so, viene in considerazione una serie di problematiche oramai piuttosto note alla prassi giurisprudenziale e che, ultimamente, hanno ricevuto nuove ed inte-ressanti soluzioni.

Ciò in quanto una disciplina più o meno organica dell’insolvenza del grup-po societario è (al momento) presente nel nostro ordinamento soltanto in ipo-tesi di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi di cui al d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270, disciplinata anche dal successivo d.l. 23 dicembre 2003, n. 347, poi convertito con modifiche nella legge 18 febbraio 2004, n. 39 (la c.d. “Legge Marzano”); con la conseguenza che i professionisti che assi-stono i gruppi in crisi si trovano a dover gestire problematiche tutt’altro che banali. E, sebbene sia opinione diffusa che ogni società debba predisporre il proprio strumento di risanamento, destinato a ricevere autonoma valutazione, la prassi ha messo a punto soluzioni più o meno originali per realizzare il c.d. concordato di gruppo, onde assicurare una gestione unitaria dell’insolvenza.

Le soluzioni via via proposte, tuttavia, sono state spesso giudicate incom-patibili con le norme legislative in vigore, a partire da quelle – inderogabili – relative alla competenza per territorio. Invero, l’art. 161, comma 1, l. fall., non prevede – ai fini dell’individuazione del tribunale territorialmente competente a pronunciarsi, ad esempio, sull’ammissione (e, quindi, sull’omologazione) di una proposta di concordato preventivo – l’attrazione degli altri fori a favore di quello della capogruppo, ovvero di altro foro, allorché le società coinvolte ab-biano sede legale in circondari diversi. La competenza ad accertare lo stato d’insolvenza appartiene, infatti, solo al tribunale del luogo in cui l’impresa ha la sede principale, senza che a tale criterio possa derogarsi per ragione di con-nessione con altre procedure relative a società diverse facenti parte di un gruppo (Cass. 31 agosto 2011, n. 17907).

E proprio sotto il richiamato profilo della competenza e di altri di cui si di-rà in appresso, il tentativo che ha avuto più ampia diffusione nella pratica pro-

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fessionale – consistente nel conferimento delle attività e delle passività in una società di nuova costituzione (normalmente una società di persone, onde evita-re la relazione di stima), così da realizzare una sorta di “concentrazione” delle masse – è stato recentemente sconfessato dalla Corte di Cassazione (Cass. 13 ottobre 2015, n. 20559).

In particolare, ad avviso della Suprema Corte:

• l’operazione determina – inammissibilmente – l’attrazione di tutte le so-cietà alla competenza del tribunale in ragione della sede della s.n.c., in viola-zione dell’art. 161, comma 1, l. fall. (che non prevede deroghe alla competen-za territoriale);

• il concordato preventivo deve – per contro – riguardare individualmente le singole società, non la s.n.c. in unione con le sue socie, non ammettendosi un unico giudizio omologatorio;

• in presenza di un concordato di diverse società, occorrere tenere distinte le masse attive e passive, che conservano la loro autonomia giuridica, mentre i conferimenti determinano la confusione dei patrimoni, con l’effetto che i cre-ditori delle società più capienti concorrono – inammissibilmente – con quelli delle società meno capienti;

• le maggioranze per l’approvazione del concordato devono essere calcola-te in riferimento alle singole società;

• il concordato preventivo della società non si estende in ogni caso ai soci illimitatamente responsabili, i quali beneficiano “solo” dell’effetto esdebitato-rio ai sensi dell’art. 184, comma 2, l. fall., per i debiti sociali (e non per quelli personali).

In definitiva, l’operazione forza «il dato normativo – in particolare, gli artt. 161 l. fall. e 2740 c.c. – oltre i limiti che, a mezzo di una mera interpretazione ed in mancanza di una disciplina positiva del fenomeno (una legge che intenda disciplinare il concordato preventivo di gruppo dovrebbe verosimilmente oc-cuparsi di regolarne la competenza, le forme del ricorso, la nomina degli orga-ni, la formazione delle classi e delle masse), esso poteva ragionevolmente tol-lerare».

Ma qualcosa sembra profilarsi de jure condendo… Come è noto, il disegno di legge delega predisposto in esito ai lavori della

Commissione Rordorf, allo scopo di colmare tale lacuna dell’attuale legge fal-limentare, detta le direttive cui dovrà attenersi il legislatore delegato nel disci-plinare l’insolvenza, per le peculiarità e le esigenze che essa presenta quando riguarda non una singola impresa (in veste individuale o societaria che sia) bensì un gruppo d’imprese, e cioè una pluralità di società collegate ovvero controllate da un’unica holding.

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D’altronde, la Corte di Cassazione – nella sentenza ora richiamata – ha af-fermato che «l’attuale sistema del diritto fallimentare… non conosce il feno-meno, non dettando alcuna disciplina al riguardo, che si collochi sulla falsari-ga di quella enunciata in tema di amministrazione straordinaria agli artt. 80 ss. della legge 8 luglio 1999, n. 270, o dall’art. 4-bis del d.l. 23 dicembre 2003, n. 347 sulla ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza, convertito, con modificazioni, in legge 18 febbraio 2004, n. 39, o con riguardo ai gruppi bancari od assicurativi insolventi».

D’altra parte, anche a livello europeo (si veda, in particolare, il Reg. (CE) n. 2015/848 sull’insolvenza transfrontaliera), numerose sono state le sollecita-zioni rivolte al legislatore nazionale di colmare al più presto detta lacuna, spe-cie a fronte della necessità – da tempo acutamente avvertita nella pratica – so-prattutto per quel che riguarda le procedure di concordato preventivo, di una gestione coordinata delle procedure concorsuali relative alle diverse imprese del gruppo.

Il disegno di legge delega intende – appunto – rispondere a tali sollecita-zioni, disponendo in via generale che «la crisi e l’insolvenza dei gruppi di im-prese vanno specificamente disciplinate».

Il progetto di riforma, tuttavia, non intende fornire una nozione del gruppo nuova ed ulteriore rispetto a quella assunta dal codice civile all’esito della ri-forma organica del diritto societario intervenuta nel 2004, rinviando – quanto alla individuazione dello stesso – ad una definizione «modellata sulla nozione di direzione e coordinamento di cui agli articoli 2497 e seguenti, nonché 2545-septies del codice civile».

D’altra parte, allo scopo di facilitare l’accertamento dei legami di gruppo, il progetto di riforma stabilisce – sempre in via generale – non solo che, anche ai fini concorsuali, vale la «presunzione semplice di assoggettamento a direzione e coordinamento in presenza di un rapporto di controllo ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile», già stabilita dall’art. 2497-sexies c.c., ma conferma la necessità di prevedere «specifici obblighi dichiarativi, nonché il deposito del bilancio consolidato di gruppo, ove redatto, a carico delle imprese appartenen-ti ad un gruppo, a scopo di informazione sui legami di gruppo esistenti, in vi-sta del loro assoggettamento a procedure concorsuali», nonché «il potere del-l’organo di gestione della procedura di richiedere alla CONSOB, o a qualsiasi altra pubblica autorità, informazioni utili ad accertare l’esistenza di collega-menti di gruppo, nonché di richiedere alle società fiduciarie le generalità degli effettivi titolari di diritti sulle azioni o sulle quote ad esse intestate».

In tale prospettiva, il progetto di riforma contiene disposizioni volte a con-sentire lo svolgimento di una procedura unitaria per la trattazione dell’insol-venza delle imprese del gruppo, individuando, a tal fine, criteri di competenza

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territoriale idonei allo scopo, e prevedendo comunque che – anche in caso di procedure distinte che si svolgano in sedi giudiziarie diverse – vi siano obbli-ghi di reciproca informazione a carico degli organi di tali procedure.

Inoltre, come si avrà modo di porre in evidenza, anche la disciplina del-l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi è destinata a fare un ulteriore passo avanti verso la considerazione unitaria della crisi di gruppo.

2. L’insolvenza dei gruppi di imprese

2.1. L’insolvenza dei gruppi di “diritto comune”. Lo status quo

2.1.1. Il fallimento di gruppo

Anzitutto deve essere affrontata la questione se sia possibile la dichiarazio-ne di fallimento di un “gruppo”.

All’interrogativo non può che essere data risposta negativa, in quanto non esiste nel nostro ordinamento il “fallimento del gruppo”: la distinta personalità giuridica e l’autonomia patrimoniale di cui sono dotate le società appartenenti ad un medesimo gruppo, nonostante il vincolo derivante dal rapporto di colle-gamento o controllo, comportano che l’accertamento dello stato di insolvenza debba essere effettuato con esclusivo riferimento alla situazione economica di ogni singola società.

In tale prospettiva, la Suprema Corte (Cass. 18 novembre 2010, n. 23344) ha affermato il principio per cui: «Ai fini della dichiarazione di fallimento di una società, che sia inserita in un gruppo, cioè in una pluralità di società colle-gate ovvero controllate da un’unica società “holding”, l’accertamento dello stato di insolvenza deve essere effettuato con esclusivo riferimento alla situa-zione economica della società medesima, poiché, nonostante tale collegamen-to o controllo, ciascuna di dette società conserva propria personalità giuridica ed autonoma qualità di imprenditore, rispondendo con il proprio patrimonio soltanto dei propri debiti».

2.1.2. Il concordato preventivo di gruppo

2.1.2.1. Il contesto normativo

Come si è detto, manca nel nostro ordinamento una specifica disciplina in tema di concordato preventivo di gruppo. Infatti, come rilevato ormai da tem-po dalla giurisprudenza di merito (si veda, fra le altre, Trib. Roma 7 giugno

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2007), il legislatore della riforma fallimentare «non si è preso cura di affronta-re e regolare l’insolvenza dei gruppi di impresa, neanche tenendo conto che l’istituto, sia pure limitatamente alla responsabilità, era stato regolato dalla ri-forma societaria attraverso l’art. 2497». Il che costituisce una lacuna non mar-ginale ove si osservi che l’organizzazione in gruppo delle imprese costituisce, come si è già osservato, la realtà economica qualitativamente e numericamen-te più rilevante riscontrabile nel mercato. E sotto questo profilo – almeno con riguardo al concordato – non può certo dirsi che aiutino a superare del tutto la lacuna le norme contenute nella disciplina codicistica in tema di direzione e coordinamento di società (artt. 2497 ss. c.c.). Semmai qualche spunto argo-mentativo può essere tratto dalla regolamentazione dell’insolvenza “di grup-po” delle grandi imprese in crisi contenuta nel d.lgs. n. 270/1999 e, soprattut-to, nella variante “Marzano” della disciplina dell’amministrazione straordina-ria (v. supra).

Ciò nonostante, già prima della riforma fallimentare, si è affermata la ne-cessità di realizzare procedure di concordati preventivi di gruppo. Ed anche in ragione dei contributi della dottrina si è venuto dipanando – sul tema – un fil rouge sempre più robusto attraverso cui ha preso forma “di fatto” questa figu-ra, con la conseguenza che – almeno secondo alcuni autori – il piano sotto-stante al ricorso diretto ad ottenere l’apertura del concordato può essere unico e funzionale alla soluzione della crisi delle diverse società con una prospettiva omogenea di gruppo. Ciò comporta che anche il ricorso con il quale il tribuna-le viene investito della domanda di apertura della procedura può essere unico, pur se necessariamente sottoscritto dagli organi amministrativi e decisionali di ogni singola società, ferma restando la necessità che le proposte ai creditori, intesi come singole masse corrispondenti alla singola società debitrice, siano tenute distinte. La qual cosa ovviamente non osta a che le proposte siano con-tenute in un unico documento, che può formalmente coincidere anche con lo stesso ricorso ex art. 160 l. fall., unicamente rilevando che – nella distinzione concettuale esistente tra piano sottostante, ricorso al tribunale e proposte ai creditori – queste ultime devono essere specificamente riferite alle singole masse dei creditori. E in questo ambito viene sottolineata l’opportunità che ad essere unici siano il giudice delegato ed il professionista chiamato ad attestare la fattibilità del piano.

2.1.2.2. La posizione della giurisprudenza

Pur in assenza di una specifica disciplina sul punto, nel recente passato – cioè, prima della richiamata pronuncia della Corte di Cassazione – la giuri-sprudenza di merito ha tentato in varie occasioni di dare maggiore rilevanza

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alla realtà sostanziale e commerciale del fenomeno del gruppo, soprattutto con riferimento al concordato preventivo. In particolare, e in estrema sintesi:

• alcuni tribunali hanno riconosciuto il (solo) momento aggregativo delle situazioni delle varie società coinvolte nell’esame congiunto delle (separate) proposte di concordato preventivo, provenienti dai diversi soggetti (in tal sen-so, Trib. Perugia 3 marzo 1995, secondo il quale l’autonomia di ogni società appartenente a un gruppo di imprese non esclude che i giudici possano attri-buire un ruolo rilevante all’esistenza di una aggregazione societaria cui fanno capo distinti interessi);

• altri, a fronte di distinti ricorsi delle società facenti parte di un gruppo, hanno adottato un unico decreto di ammissione, nominato un unico giudice delegato e un unico commissario giudiziale, nonché svolto un solo giudizio di omologazione – utilizzando lo strumento della riunione dei procedimenti –, emettendo, infine, un unico decreto. Il tutto continuando ad effettuare la valu-tazione in merito alla sussistenza dei requisiti e al raggiungimento delle mag-gioranze richieste, con riferimento a ogni singolo soggetto giuridico (in tal senso, Trib. Ivrea 21 febbraio 1995);

• un differente orientamento, pur muovendosi nel solco dei precedenti ap-pena ricordati, si è spinto addirittura sino a prevedere una visione unitaria dell’attivo e delle possibilità di soddisfacimento dei creditori, con un’unica adunanza e il computo delle maggioranze riferito all’unico programma con-cordatario (Trib. Terni 30 dicembre 2010; Trib. Terni 19 maggio 1997);

• un altro indirizzo è giunto a validare la proposizione di un singolo ricorso per l’ammissione a concordato preventivo da parte di imprese costituenti un gruppo e a stabilire che le maggioranze per l’approvazione del concordato po-tessero addirittura essere calcolate con riferimento non a ciascuna impresa ma al gruppo (Trib. Crotone 28 maggio 1999);

• infine, altre pronunce – attraverso un approccio pragmatico con riferimen-to specifico alla problematica dell’appartenenza delle società del medesimo gruppo a circoscrizioni di tribunali differenti – hanno sottolineato la necessità di un’unica procedura, allorché esista interconnessione fra i soggetti richieden-ti sotto il profilo gestionale, economico, finanziario e amministrativo, affer-mando il principio per cui tutte le partecipanti al gruppo avrebbero necessa-riamente la propria sede effettiva presso il luogo in cui la capogruppo ha la se-de principale (Trib. Firenze 13 luglio 1992; Trib. Roma 16 dicembre 1997).

Quindi, pur in assenza di una espressa disciplina normativa che riconosca il concordato preventivo “di gruppo”, una parte della giurisprudenza di merito ha provato a fornire una lettura diversa e più aperta della questione, giungendo alle soluzioni dianzi richiamate.

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Ma, oltre a tali pronunce, sono stati formulati ulteriori principi nell’ambito di alcuni leading cases.

Anzitutto, in un caso (Trib. Rovigo 5 novembre 2013), la giurisprudenza ha ammesso la presentazione di una proposta di concordato preventivo unitaria, avendo valutato la sussistenza – nella fattispecie sottoposta al proprio esame – di elementi oggettivi idonei a determinare una connessione funzionale tra le due società ricorrenti, quasi che vi fosse una sorta di identità sociale fra le im-prese in crisi.

Ha, peraltro, precisato che l’esistenza di stretti rapporti fra società del me-desimo gruppo non sarebbe di per sé idonea a giustificare la presentazione di un’unica proposta di concordato preventivo: è, infatti, necessario che sussista anche un interesse dei creditori e delle società ricorrenti allo svolgimento di un’attività unitaria in esecuzione della procedura (in particolar modo se di na-tura liquidatoria). E l’interesse dei creditori a che vi sia una procedura di gruppo dovrebbe essere legato ad un loro inequivocabile vantaggio di tale na-tura: ad esempio, una procedura di concordato preventivo unitaria potrebbe consentire una contrazione dei costi di procedura a beneficio dei creditori so-ciali, una rapida evoluzione dell’iter procedimentale, nonché – eventualmente – la soddisfazione sulla totalità del patrimonio del gruppo.

Ma anche in tale ipotesi, è sempre necessario tenere distinte le masse attive e passive fra le diverse società; infatti, i principi sanciti dall’art. 2470 c.c. vie-tano la confusione dei patrimoni, perché ciò determinerebbe la lesione del vin-colo della divisione delle masse per il soddisfacimento dei propri creditori, che potrebbero essere penalizzati qualora si operasse con una mescolanza degli at-tivi e dei passivi (M. VITIELLO).

In aggiunta, dubbi significativi potrebbero nascere in ipotesi di risultati di-somogenei nelle votazioni da parte dei creditori delle distinte società, con la conseguenza che – pur in presenza di una procedura unitaria – le adunanze dovrebbero essere tenute distinte, in quanto la maggioranza dei creditori di una società – diversamente dalle altre – potrebbe ritenere di non aderire alla proposta.

In definitiva, se da un lato può essere ipotizzabile la presentazione di un unico piano di concordato, e forse anche di un unico ricorso, con nomina di un unico giudice delegato e di un solo commissario giudiziale, sarebbe in ogni caso opportuno che le votazioni fossero mantenute separate, così come do-vrebbero essere lasciate divise le masse attive e passive, nonché le maggioran-ze per l’approvazione o meno della proposta.

In un altro caso (Trib. Roma 18 aprile 2013, decr.), si è affermato che:

• è ammissibile, tanto sotto il profilo sostanziale, quanto sotto il profilo

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procedimentale, la presentazione – da parte di più società appartenenti allo stesso gruppo – di una proposta di concordato preventivo e di un piano nel se-gno della unitarietà, intesa nel senso dello stretto collegamento negoziale ne-cessario fra le proposte rispettivamente promananti da ciascuna società e da questa rivolte ai propri creditori, purché la proposta unitaria avanzata dai sog-getti componenti il gruppo tenga separate le componenti dell’attivo e quelle del passivo di ciascuna persona giuridica da quelle delle altre e – in riferimen-to a una proposta di concordato con cessione dei beni (nel senso lato in cui ta-le modalità di ristrutturazione dei debiti viene intesa dall’art. 160, lett. a, l. fall.) – preveda la disposizione a favore dei creditori di ciascuna società (e so-lo di costoro) di tutti gli elementi costituenti il patrimonio di questa. È inam-missibile, per contro, la proposta unitaria di concordato da parte di società fra loro collegate da un vincolo di direzione e controllo che preveda l’attribuzione ai creditori di ciascuna società solo di parte del patrimonio di questa;

• solo l’omologazione dei concordati di tutte le società interessate consente la formazione di un consenso soggettivamente complesso sulla proposta e la fattibilità del piano unitariamente predisposto, mentre l’eventuale impedimen-to all’omologazione del concordato anche per una delle società costituisce ex se impedimento all’omologazione del concordato di ciascuna delle altre socie-tà del gruppo;

• l’esistenza di un rapporto di gruppo in senso stretto tra diverse società non determina il venir meno dell’autonoma personalità giuridica e dell’auto-noma qualità di imprenditore di ciascuna società, che solo con il proprio pa-trimonio risponde esclusivamente dei suoi debiti; con la conseguenza che l’ac-certamento dello stato di insolvenza non può che riferirsi alla sola situazione economica della società nei confronti della quale lo stesso è sollecitato, nono-stante il controllo cui la stessa è assoggettata.

Secondo l’impostazione accolta dal Tribunale di Roma, dunque, il concor-dato di gruppo si configura come una fattispecie giuridica complessa, caratte-rizzata dalla formulazione di una pluralità di proposte tra di loro collegate in vista del risultato unitario perseguito (vale a dire il superamento della crisi in cui versa ciascuna società del gruppo). Peraltro, tenuto conto del collegamento fra le proposte concordatarie presentate da una pluralità di società facenti parte del medesimo gruppo di imprese, vale il principio simul stabunt simul cadent, il quale impone – tra l’altro – di rendere edotti i creditori che l’eventuale man-cata omologazione del concordato anche per una sola delle società del gruppo la impedisce anche per le altre società.

In un altro caso, la giurisprudenza (Trib. Palermo 4 giugno 2014) ha affer-mato che:

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• è ammissibile il concordato di gruppo, fondato su un piano aziendale rife-rito all’“impresa di gruppo”, ove il piano risulti rispondente all’interesse dei creditori e favorisca un’attività liquidatoria unitaria, in virtù delle strette con-nessioni esistenti tra le imprese che ne fanno parte e preveda l’abbattimento dell’esposizione debitoria infragruppo, in modo tale da rendere possibile la prosecuzione dell’attività aziendale nel suo complesso attraverso l’intervento di un assuntore in forma di società appositamente costituita;

• nel concordato di gruppo, i rapporti che legano le varie imprese giustifi-cano e legittimano sia una valutazione sostanziale sia una trattazione a livello procedurale unitaria del piano concordatario e quindi una gestione integral-mente unitaria della procedura concorsuale, con una sola adunanza dei credi-tori e un computo delle maggioranze riferito non già ad ogni singola impresa bensì all’unico programma concordatario;

• nel concordato di gruppo, il piano e la relazione redatta dagli esperti atte-statori devono tenere distinte le attività e passività di ogni singola impresa e devono consentire ad ogni singolo creditore di verificare la propria posizione creditoria e l’impatto della proposta concordataria sul loro soddisfacimento e l’alternativa in caso di liquidazione fallimentare.

Tralasciando altre pronunce di merito, è opportuno esaminare a fondo la pronuncia – già richiamata – della Corte di Cassazione (Cass. 13 ottobre 2015, n. 20559), descrivendo anche la fattispecie sottostante.

Nel 2010, alcune società di capitali – appartenenti ad un primario gruppo cantieristico navale – conferivano i propri complessi aziendali in una società in nome collettivo (costituita ad hoc), ricevendo in cambio una partecipazione al capitale sociale della stessa e divenendone soci illimitatamente responsabili.

L’operazione avveniva al dichiarato scopo di presentare un ricorso per concordato preventivo, così da garantire la conservazione e la continuità delle imprese, salvaguardandone patrimoni e occupazione, sotto la condizione riso-lutiva della mancata definitiva omologazione del concordato.

In tale prospettiva, la s.n.c. e le conferenti presentavano domanda di am-missione alla procedura di concordato preventivo, che veniva ammessa dal Tribunale competente in ragione della sede della neo-costituita società di per-sone.

A distanza di circa un anno – nel 2011 – il concordato preventivo veniva omologato e – nel medesimo anno – la Corte d’Appello dichiarava inammissi-bile un reclamo (dell’Agenzia delle Entrate) e respingeva gli altri (di creditori privati).

La questione veniva quindi sottoposta alla Cassazione, che accoglieva il ri-corso, sulla base delle considerazioni di seguito riportate:

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• l’art. 161, 1° comma, l. fall., non prevede l’attrazione degli altri fori a fa-vore di quello della capogruppo, o di altro foro, allorché le società coinvolte abbiano sede legale in circondari diversi;

• in assenza di una disciplina sul concordato di gruppo, la competenza ad accertare lo stato di insolvenza appartiene – dunque – al tribunale del luogo in cui la singola impresa ha la sede principale, senza che a tale criterio possa de-rogarsi per ragioni di connessione con altre procedure relative a società diver-se facenti parte di un gruppo;

• in definitiva, permane sempre la competenza territoriale del Tribunale nel cui circondario l’impresa in stato di crisi ha la propria sede principale, ovvero-sia il luogo in cui si trova il centro direttivo ed amministrativo degli affari dell’impresa (Cass., SS.UU., 25 giugno 2013, n. 15872);

• in ogni caso, non è ammissibile il concordato preventivo di gruppo, in as-senza di una disciplina positiva del fenomeno nel nostro ordinamento: infatti, «l’attuale sistema del diritto fallimentare non conosce il fenomeno del concor-dato di gruppo, e l’assenza di una disciplina positiva al riguardo, che ne regoli la competenza, le forme del ricorso, la nomina degli organi, le formazioni del-le classi e delle masse, non può essere superata, in via interpretativa, mediante la presentazione di un unico piano concordatario per le società facenti parte del gruppo»;

• le maggioranze necessarie per l’approvazione del concordato devono es-sere calcolate in riferimento alle singole imprese del gruppo: non è ammissibi-le una procedura che non preveda adunanze separate, senza votazioni e mag-gioranze distinte per ciascuna società;

• non è, quindi, prospettabile un unico giudizio omologatorio per il gruppo: infatti, le proposte di concordato devono riguardare individualmente le singole società del gruppo, e – pur in presenza di società legate da un rapporto di con-trollo e soggette a direzione unitaria – vanno sempre tenute distinte le masse attive e passive, che conservano un’autonomia giuridica;

• il concordato preventivo della società non si estende ai soci illimitatamen-te responsabili, i quali beneficiano solo dell’effetto esdebitatorio ex art. 184, comma 2, l. fall., limitatamente ai debiti sociali e non per quelli personali.

In definitiva, conclude la Cassazione, «la descritta operazione ha forzato il dato normativo, in particolare gli artt. 161 l. fall. e 2740 c.c., oltre i limiti che, a mezzo di una mera interpretazione ed in mancanza di una disciplina positiva del fenomeno (una legge che intenda disciplinare il concordato preventivo di gruppo dovrebbe verosimilmente occuparsi di regolarne la competenza, le forme del ricorso, la nomina degli organi, la formazione delle classi e delle masse), essa poteva ragionevolmente tollerare».

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D’altronde, «l’attuale sistema del diritto fallimentare, in particolare per quanto attiene al concordato preventivo, non conosce il fenomeno, non dettan-do alcuna disciplina al riguardo, che si collochi sulla falsariga di quella enun-ciata in tema di amministrazione straordinaria alla L. 8 luglio 1999, n. 270, art. 80 e ss., o dal D.L. 23 dicembre 2003, n. 347, art. 4 bis, sulla ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza, convertito, con modifica-zioni, in L. 18 febbraio 2004, n. 39, o con riguardo ai gruppi bancari od assi-curativi insolventi».

In ogni caso, «L’operazione societaria posta in atto nella vicenda in esame …, con la costituzione della nuova società nella sede ligure in funzione esclu-siva della competenza del tribunale fallimentare del circondario, e la successi-va presentazione di un unico piano concordatario per questa e per le sue socie, dunque per la “impresa di gruppo”, non può superare in via interpretativa l’assenza di una disciplina positiva che regoli il concordato di gruppo».

In definitiva:

• il concordato preventivo avrebbe dovuto riguardare individualmente le singole società del gruppo, e non invece la società di persone e le società di quella socie;

• pur in presenza di un concordato di diverse società legate da rapporti di controllo, anche se soggette a direzione unitaria, sarebbe stato necessario tenere distinte le masse attive e passive: per contro, il pregresso conferimento dei pa-trimoni nella neonata società aveva – nei fatti – operato una commistione dei medesimi, nonostante il formale rispetto del principio della loro distinzione;

• al contrario, poiché la società personale era stata costituita ad hoc con un patrimonio che – tramite i conferimenti – risultava dalla somma di quelli delle socie fondatrici, tutti i creditori delle quattro società erano confluiti nel mede-simo numero di classi, con la conseguenza i creditori delle società meno ca-pienti avevano inammissibilmente concorso con quelli delle società più ca-pienti;

• il concordato preventivo della società non si estende – comunque – ai soci illimitatamente responsabili, i quali beneficiano solo dell’effetto esdebitatorio, ai sensi dell’art. 184, comma 2, l. fall., per i debiti sociali, e non invece per quel-li personali di ciascuno di essi, che rimangono di titolarità delle conferenti;

• sul piano procedimentale, le maggioranze per l’approvazione del concor-dato avrebbero dovuto essere calcolate in riferimento alle singole imprese del gruppo, mentre nel caso di specie non era avvenuto, procedendosi – al contra-rio – senza adunanze separate e senza votazioni e maggioranze distinte per ciascuna società;

• non può – in ogni caso – essere ammesso un unico giudizio omologatorio.

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2.2. Segue. L’insolvenza dei gruppi nel progetto di riforma delle proce-dure concorsuali

2.2.1. Il disegno di legge

Il disegno di legge di riforma delle procedure concorsuali prevede, anzitut-to, la soppressione del termine “fallimento” che verrà sostituito dall’espressio-ne “liquidazione giudiziale”, con l’evidente obiettivo di attenuarne il disvalo-re. Rimarrà, invece, inalterato il nomen del concordato preventivo.

Il disegno di legge di riforma prevede, poi, l’introduzione di una nozione di gruppo modellata su quella codicistica di direzione e coordinamento e la pos-sibilità di gestire in modo unitario, seppure con masse separate, le procedure di concordato preventivo di gruppo e di liquidazione giudiziale, con una speci-fica disciplina.

In particolare, l’art. 3 contiene le seguenti enunciazioni:

1. La crisi e l’insolvenza dei gruppi di imprese vanno specificamente discipli-nate introducendo: a) una definizione di gruppo di imprese modellata sulla nozione di direzio-

ne e coordinamento di cui agli artt. 2497 ss., nonché 2545-septies, c.c., corredata dalla presunzione semplice di assoggettamento a direzione e coordinamento in presenza di un rapporto di controllo ai sensi dell’art. 2359 c.c.;

b) specifici obblighi dichiarativi, nonché il deposito del bilancio consolida-to di gruppo, ove redatto, a carico delle imprese appartenenti ad un gruppo, a scopo di informazione sui legami di gruppo esistenti, in vista del loro assoggettamento a procedure concorsuali;

c) il potere dell’organo di gestione della procedura di richiedere alla Con-sob, o a qualsiasi altra pubblica autorità, informazioni utili ad accertare l’esistenza di collegamenti di gruppo, nonché di richiedere alle società fiduciarie le generalità degli effettivi titolari di diritti sulle azioni o sulle quote ad esse intestate;

d) la facoltà per le imprese, in crisi o insolventi, del gruppo sottoposte alla giurisdizione dello Stato italiano di proporre con unico ricorso domanda di omologazione di un accordo unitario di ristrutturazione dei debiti, o di ammissione al concordato preventivo, o di liquidazione giudiziale, ferma restando in ogni caso l’autonomia delle rispettive masse attive e passive, con predeterminazione del criterio attributivo della competenza, ai fini della gestione unitaria delle rispettive procedure concorsuali, ove le imprese abbiano la propria sede in circoscrizioni giudiziarie diverse;

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e) obblighi reciproci di informazione e di collaborazione fra gli organi di gestione delle diverse procedure, nel caso in cui le imprese insolventi del gruppo siano soggette a separate procedure concorsuali, in Italia o all’estero;

f) il principio di postergazione del rimborso dei crediti di società o imprese appartenenti allo stesso gruppo, in presenza dei presupposti di cui all’art. 2467 c.c., salve deroghe dirette a favorire l’erogazione di finan-ziamenti in funzione o in esecuzione di una procedura di concordato preventivo e di accordo di ristrutturazione dei debiti.

2. Nell’ipotesi di gestione unitaria della procedura di concordato preventivo di gruppo devono essere previsti: a) la nomina di un unico giudice delegato e di un unico commissario giudi-

ziale ed il deposito di un unico fondo per le spese di giustizia; b) la contemporanea e separata votazione dei creditori di ciascuna impresa; c) gli effetti dell’eventuale annullamento o risoluzione della proposta unita-

ria omologata; d) l’esclusione dal voto delle imprese del gruppo che siano titolari di crediti

nei confronti delle altre imprese assoggettate alla procedura; e) gli effetti dell’eventuale annullamento o risoluzione della proposta unita-

ria omologata; f) i criteri per la formulazione del piano unitario di risoluzione della crisi

del gruppo, eventualmente attraverso operazioni contrattuali e riorga-nizzative infragruppo funzionali alla continuità aziendale e al miglior soddisfacimento dei creditori, fatta salva la tutela in sede concorsuale per i soci ed i creditori delle singole imprese, nonché per ogni altro con-trointeressato.

3. Nell’ipotesi di gestione unitaria della procedura di liquidazione giudiziale di gruppo devono essere previsti: a) la nomina di un unico giudice delegato e di un unico curatore, ma di di-

stinti comitati dei creditori, per ciascuna impresa del gruppo; b) un criterio di ripartizione proporzionale dei costi della procedura fra le

singole imprese del gruppo; c) l’attribuzione al curatore, anche nei confronti di imprese non insolventi

del gruppo, del potere di: 1) azionare rimedi contro operazioni antecedenti l’accertamento dello

stato di insolvenza e dirette a spostare risorse ad altra impresa del gruppo, in danno dei creditori;

2) esercitare le azioni di responsabilità di cui all’art. 2497 c.c.;

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3) promuovere la denuncia di gravi irregolarità gestionali nei confronti degli organi di amministrazione delle società del gruppo non assog-gettate alla procedura di liquidazione giudiziale;

4) nel caso in cui ravvisi l’insolvenza di imprese del gruppo non ancora assoggettate alla procedura di liquidazione giudiziale, segnalare tale circostanza agli organi di amministrazione e di controllo ovvero promuovere direttamente l’accertamento dello stato di insolvenza di dette imprese;

d) la disciplina di eventuali proposte di concordato liquidatorio giudiziale.

2.2.2. La relazione al disegno di legge

La relazione della Commissione Rordorf dedica all’insolvenza di gruppo un intero capitolo (Cap. 9 – “La crisi e l’insolvenza dei gruppi d’imprese”), di cui si riportano i passi salienti.

È un capitolo importante perché si tratta di colmare una lacuna dell’attuale legge fallimentare, che non solo dedica poca attenzione all’insolvenza delle imprese costituite in forma societaria, ma apparentemente ignora del tutto le peculiarità dell’insolvenza riguardante quei particolari conglomerati societari cui si è soliti riferirsi con l’espressione “gruppi” (d’imprese). Eppure è ben e-vidente che l’insolvenza e le eventuali possibilità di risolverla si presentano con connotati peculiari quando non una singola impresa (in veste individuale o societaria che sia) bensì un gruppo d’imprese nella sua interezza ne viene col-pito.

Lo scenario europeo, ed in particolare il recentissimo Regolamento UE 2015/848, sull’insolvenza transfrontaliera, ulteriormente sollecitano il legisla-tore nazionale – che dell’insolvenza dei gruppi d’impresa si è occupato finora solo dettando alcune disposizioni in tema di amministrazione straordinaria – a colmare al più presto tale lacuna. Lacuna che, del resto, è da tempo acutamen-te avvertita nella pratica: soprattutto per quel che riguarda le procedure di con-cordato preventivo, nelle quali si sono spesso contrapposte l’esigenza di ab-bracciare unitariamente la realtà imprenditoriale del gruppo d’imprese sogget-te a procedura concorsuale ed il vigente impianto normativo che impone, in-vece, di considerare separatamente ogni procedura riguardante ciascuna singo-la impresa.

A questo scopo si è anzitutto scelto di evitare una nozione o definizione ri-gida di gruppo, e comunque una nozione nuova ed ulteriore rispetto a quella assunta dal codice civile all’esito della riforma organica del diritto societario intervenuta nel 2003, che dovrebbe ormai costituire il punto di riferimento comune ad ogni disciplina del fenomeno in parola.

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Quanto, poi, all’evenienza della crisi e dell’insolvenza, pare chiaro che il connotato tendenzialmente unitario del fenomeno di gruppo possa assumere una valenza maggiore nelle procedure concordatarie, tese a garantire il più possibile la continuità aziendale, rispetto alle procedure meramente liquidato-rie, in cui è naturalmente destinata a prevalere la visione statica dei diversi pa-trimoni sui quali i creditori di ciascun singolo imprenditore hanno rispettiva-mente titolo per soddisfarsi.

Ciò posto, sono state ipotizzate disposizioni volte a consentire lo svolgi-mento di una procedura unitaria per la trattazione dell’insolvenza delle pluri-me imprese del gruppo, individuando criteri di competenza territoriale idonei allo scopo e prevedendo, comunque, che anche in caso di procedure distinte che si svolgano in sedi giudiziarie diverse vi siano obblighi di reciproca infor-mazione a carico degli organi di tali procedure.

È stata altresì prevista la possibilità di proporre un unico ricorso sia per l’omologazione di accordi di ristrutturazione dei debiti dell’intero gruppo, sia per l’ammissione di tutte le imprese del gruppo alla procedura di concor-dato preventivo e per la successiva eventuale omologazione, anche con pre-sentazione di un piano concordatario unico o di piani tra loro collegati ed in-terferenti. Ciò non dovrà comportare, evidentemente, il venir meno dell’au-tonomia delle masse attive e passive di ciascuna impresa costituita in forma di società dotata di propria personalità giuridica (né, quindi, varrà ad esclu-dere la necessità di votazioni separate da parte dei creditori di ciascuna so-cietà), ma consentirà di tenere pienamente conto dei riflessi reciproci delle singole operazioni contemplate dal piano e delle eventuali operazioni orga-nizzative infragruppo.

2.3. L’insolvenza dei gruppi nell’amministrazione straordinaria. Lo sta-tus quo L’istituto dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi è

stato introdotto dal d.l. 30 gennaio, 1979, n. 26, convertito dalla legge 3 aprile 1979, n. 95 (c.d. legge Prodi), accanto alle procedure concorsuali tradizionali, per evitare il fallimento di imprese di rilevante interesse pubblico.

Scopo della procedura era quello di evitare le soluzioni liquidatorie che non tenessero conto dei rilevanti interessi, privati e pubblici, alla conservazione e al risanamento dell’impresa, contrariamente alle procedure concorsuali tradi-zionali la cui funzione essenziale era invece quella di tutelare l’interesse priva-to dei creditori a soddisfarsi sul patrimonio dell’imprenditore fallito.

Infatti, l’amministrazione straordinaria introdotta dalla legge Prodi preve-deva l’intervento di uno o più commissari, sotto la vigilanza dell’allora Mini-

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stero dell’industria (ora Ministro dello Sviluppo economico) escludendo il fal-limento dell’impresa.

Nata come strumento temporaneo ed eccezionale, volto a consentire la ve-rifica delle situazioni aziendali più rilevanti e l’individuazione sulla base di criteri socio-economici, delle attività risanabili e di quelle da liquidare, la leg-ge nel corso degli anni è stata oggetto di varie censure da parte degli organi comunitari i quali, in diverse occasioni, ne hanno rilevato l’incompatibilità con le disposizioni comunitarie in materia di aiuti di Stato.

Le censure sono state superate con il d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270 (c.d. legge Prodi-bis), finalizzato a consentire una drastica riduzione della durata della procedura, ad orientare la procedura stessa alla celere individuazione di un nuovo assetto imprenditoriale ed a potenziare gli strumenti di tutela dei credi-tori.

Per quanto di interesse, occorre richiamare l’art. 80 della Prodi-bis, il quale individua la “procedura madre” nella prima procedura cui è sottoposta l’im-presa che possiede, da sola, tutti i requisiti (di cui agli artt. 2 e 27 della Prodi-bis) per essere ammessa alla procedura di amministrazione straordinaria.

In funzione della procedura madre, il gruppo viene individuato considerando:

• le imprese che controllano (direttamente o indirettamente) la società sot-toposta alla procedura madre (i.e. le imprese direttamente e/o indirettamente controllanti);

• le società che sono direttamente o indirettamente controllate dall’impresa sottoposta alla procedura madre o dall’impresa che controlla quest’ultima (i.e. le imprese direttamente e/o indirettamente controllate);

• le imprese che, per la composizione degli organi amministrativi o sulla base di altri concordanti elementi (es. importanti rapporti contrattuali), risulta-no soggette ad una direzione comune a quella dell’impresa sottoposta alla pro-cedura madre.

L’apertura della procedura di amministrazione straordinaria nei confronti di una società appartenente ad un gruppo legittima l’estensione di detta proce-dura anche alle altre imprese del gruppo che versano in stato di insolvenza e che, pur soggette al fallimento, non presentano gli specifici requisiti dimen-sionali di cui all’art. 2 della Prodi-bis. Tale estensione della procedura di am-ministrazione straordinaria alle altre società del gruppo è però subordinata alla ricorrenza di due alternativi presupposti in capo a dette società:

• quando vi siano concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economi-co delle attività imprenditoriali, tramite l’esecuzione di un programma di ces-sione dei beni aziendali o di ristrutturazione di cui all’art. 27 della Prodi-bis;

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• quando risulti comunque opportuna la gestione unitaria dell’insolvenza nell’ambito del gruppo, in quanto idonea ad agevolare – per i collegamenti di natura economica o produttiva esistenti tra le singole imprese – il raggiungi-mento degli obiettivi della procedura.

Si tratta di una deroga piuttosto rilevante alla disciplina di diritto comune, sostanzialmente giustificata dall’esigenza di coordinare al meglio l’insolvenza delle varie società del gruppo in una procedura che si caratterizza per la conti-nuazione dell’attività di impresa e la conservazione dei livelli occupazionali ed in cui, anche in considerazioni dei requisiti dimensionali, l’aspetto e le fina-lità latamente pubblicistiche sono sicuramente rilevanti.

Sulla disciplina generale dell’amministrazione straordinaria contenuta nella Prodi-bis si è innestata la procedura speciale di ammissione immediata (c.d. accesso diretto) all’amministrazione straordinaria introdotta dalla “Legge Marzano” (d.l. 23 dicembre 2003, n. 347, convertito con modificazioni in leg-ge 18 febbraio 2004, n. 39).

2.4. Segue. Il progetto di riforma dell’amministrazione straordinaria Il Governo Renzi ha presentato un progetto di legge delega al governo in

materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insol-venza (C3671-ter), che prevede il conferimento di una delega legislativa al Governo per il riordino dell’amministrazione straordinaria delle grandi impre-se in stato di insolvenza (d.lgs. n. 270/1999).

Il disegno di legge A.C. 3671-ter deriva dallo stralcio dell’originario dise-gno di legge A.C. 3671, concernente la “Delega al Governo per la riforma organica delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza”, presentato alla Camera dei deputati l’11 marzo 2016.

Il Governo – nella relazione illustrativa al disegno di legge – evidenzia le sollecitazioni provenienti dall’Unione europea e in particolare dalla racco-mandazione n. 2014/135/UE della Commissione, del 12 marzo 2014, oltre che dal Regolamento (UE) 2015/848, sulle procedure di insolvenza. Nella relazio-ne sono poi richiamati i principi della model law, elaborati in tema di insol-venza dalla Commissione delle Nazioni Unite per il diritto commerciale inter-nazionale (UNCITRAL), cui hanno aderito Stati anche extra europei (tra cui gli USA) e il cui recepimento, in regime di reciprocità, consente il riconosci-mento dei provvedimenti giurisdizionali emessi nei rispettivi Paesi, con evi-dente vantaggio anche per gli imprenditori italiani operanti all’estero.

L’articolo unico del disegno di legge A.C. 3671-ter contiene i principi e i criteri direttivi di delega per la riforma dell’istituto dell’amministrazione stra-

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ordinaria delle grandi imprese in crisi, al fine di ricondurlo ad un quadro di re-gole generali comuni, come derivazione particolare della procedura generale concorsuale.

I numerosi criteri direttivi contenuti nel disegno di legge di delega (comma 1, lett. da a) a q)) riguardano, in primo luogo, una procedura unica di ammini-strazione straordinaria, con finalità conservative, destinata alla regolazione dell’insolvenza di singole imprese, ovvero di gruppi di imprese laddove queste si trovino nelle condizioni già indicate dalla legislazione vigente (art. 81 del d.lgs. n. 270/1999), che, sotto questo profilo, viene pertanto conservata (com-ma 1, lett. a)).

Cambiano i presupposti di accesso alla procedura, con riferimento ai profili dimensionali dell’impresa o dei gruppi di imprese:

• nelle imprese singole è stabilito in 400 il numero minimo di dipendenti e in complessivi 800 in caso di contestuale richiesta di ammissione alla proce-dura di più imprese del gruppo (comma 1, lett. b), n. 3)). Viene dunque adotta-ta una soluzione intermedia tra i presupposti di accesso delineati nel d.lgs. n. 270/1999 (numero di lavoratori non inferiore a 200 per le singole imprese) e i presupposti di accesso fissati nel d.l. 347/2003 (numero di lavoratori non infe-riore a 500 per le singole imprese);

• il requisito dimensionale – dunque il concetto di “grande impresa” – non è più ancorato ai soli occupati, ma anche alla media del volume di affari degli ultimi tre esercizi (comma 1, lett. b), n. 2)).

Si prevede poi l’estensione alla procedura di amministrazione straordinaria riguardante i gruppi di imprese dei principi e i criteri direttivi fissati dall’arti-colo 3 (comma 1, lett. p)).

Per quanto di interesse, l’art. 3 del disegno di legge A.C. 3671-bis detta principi e criteri direttivi per la disciplina della crisi del gruppo societario, pre-figurando disposizioni volte a consentire lo svolgimento di una procedura uni-taria per la trattazione dell’insolvenza delle società del gruppo e prevedendo, comunque, che anche in caso di procedure distinte che si svolgano in sedi giu-diziarie diverse, vi siano obblighi di reciproca informazione a carico degli or-gani procedenti.

In particolare, il Governo è delegato a definire il concetto di “gruppo di imprese”, ai fini dell’applicazione delle procedure concorsuali, e dovrà inoltre:

• prevedere, a carico delle imprese appartenenti al gruppo, specifici obbli-ghi dichiarativi nonché, se redatto, il deposito del bilancio consolidato di grup-po: dovranno dunque essere palesati i legami di gruppo esistenti in vista del loro assoggettamento a procedure concorsuali;

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• consentire all’autorità giudiziaria competente per la procedura concorsua-le di rivolgersi alla Consob o a qualsiasi altra autorità pubblica in possesso di informazioni al fine di verificare l’esistenza di legami di gruppo;

• prevedere, se sono più di una le imprese del gruppo che si trovano in cri-si, la possibilità di presentare una sola domanda con la quale chiedere l’ammissione al concordato preventivo. La delega precisa inoltre che il ricorso unitario non comporta il venire meno dell’autonomia delle masse attive e pas-sive di ciascuna impresa;

• prevedere, quando le procedure di concordato relative a imprese del me-desimo gruppo sono distinte, che gli organi di gestione delle procedure debba-no collaborare e scambiare informazioni;

• disciplinare le sorti dei finanziamenti all’impresa in crisi provenienti da altre società o imprese del gruppo.

3. Conclusioni

Come si è già avuto modo di porre in evidenza, la rilevanza giuridica del gruppo assume un perimetro di applicazione che assume portata non esclusi-vamente endogena, ma sfocia nella considerazione dell’interesse di tutti gli stakeholder.

In tale contesto, e nella prospettiva della valutazione degli interessi degli stakeholder maggiormente esposti in una situazione di default, non si può pre-scindere dalla considerazione dell’interesse dei creditori – soprattutto nel con-cordato in continuità – alla sopravvivenza dell’intero gruppo ove, dalla “capi-tolazione” anche soltanto di una delle sue componenti, discenda il tracollo di tutte.

Si è ampiamente detto della posizione netta della giurisprudenza in ordine all’inammissibilità del fallimento di gruppo, mentre sono state richiamate al-cune sentenze di merito in cui è stata attribuita rilevanza al concordato di gruppo, con il noto epilogo dissacratorio della Suprema Corte.

In attesa della riforma, ci si deve quindi interrogare se – attraverso la previ-sione di appositi correttivi – possano essere superati i limiti di fattibilità giuri-dica individuati dalla Suprema Corte, nella sentenza più volte richiamata.

Il limite principale posto in evidenza dalla Suprema Corte è costituito dall’autonomia delle masse passive: ciò sancirebbe in radice l’illegittimità del concordato di gruppo. Vale quindi la pena di verificare se e come tale limite possa essere superato.

Muovendo da tale constatazione, occorre prendere in esame quali possano essere gli strumenti utilizzabili per accentrare e coordinare l’espressione del

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voto, pur nella salvaguardia del “peso specifico” delle singole masse passive: ciò è possibile attraverso la creazione di “classi virtuali”, corrispondenti alle masse distinte di ciascuna delle società appartenenti al gruppo insolvente.

Come è noto, l’art. 160 l. fall. consente di suddividere i creditori in classi secondo la loro posizione giuridica e l’omogeneità dei loro interessi economi-ci, e di assegnare trattamenti differenziati ai creditori appartenenti a classi di-verse.

Al riguardo occorre sottolineare che l’organizzazione dei creditori in classi è facoltativa, potendo il ricorrente decidere di non formare alcuna classe, o meglio di accomunare tutti i creditori in un’unica classe indistinta. Laddove però vengano formate le classi, occorre rispettare l’ordine delle cause legitti-me di prelazione e un criterio di ragionevolezza (omogeneità delle posizioni giuridiche e degli interessi economici).

La ratio della suddivisione in classi risiede, secondo alcuni, nell’esigenza di favorire la ristrutturazione del debito del proponente, consentendogli di su-perare i contrasti con i singoli creditori; altri affermano cherisieda invero nell’esigenza di offrire maggiore tutela ai creditori, per far sì che la maggio-ranza per l’approvazione del concordato si formi all’interno di gruppi portatori di interessi assimilabili, non inquinata da interessi particolari e contingenti.

Tuttavia, mentre nel concordato fallimentare devono essere precisate le ra-gioni dei trattamenti differenziati tra i creditori, nel concordato preventivo manca un’analoga previsione. Pertanto, nel silenzio del legislatore su come debba essere effettuata in concreto la distribuzione dei creditori all’interno delle classi, deve ritenersi che il debitore sia libero di effettuare la distribuzio-ne dei debitori in classi secondo scelte affidate alla sua discrezionalità, con il solo limite dell’applicazione di criteri ragionevoli. A meno che, infatti, il debi-tore assuma decisioni bizzarre, sganciate da qualsiasi riferimento a un criterio economico, ogni altro parametro deve ritenersi legittimo.

La giurisprudenza ha affermato che l’obbligo della suddivisione in classi non può derivare dalle diverse situazioni individuali, poiché tali situazioni so-no potenzialmente tante quanti sono i creditori ed il loro censimento, prima ancora che arbitrario, sarebbe impossibile e porterebbe a una proliferazione assurda delle classi (Cass. 10 febbraio 2011, n. 3274). Inoltre, la stessa valuta-zione del giudice rischierebbe di sconfinare pericolosamente nella discreziona-lità. La suddivisione in classi non richiede, pertanto, l’identità di posizioni giuridiche e di interessi economici, ma solo la loro omogeneità (Trib. Perugia 16 luglio 2012).

Una parte della giurisprudenza ritiene che il sindacato del tribunale non possa spingersi fino al punto di effettuare valutazioni di merito sull’oppor-tunità della collocazione di un creditore in una classe piuttosto che in un’altra,

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ma deve limitarsi a valutare la correttezza dei criteri utilizzati alla luce del det-tato normativo, che indica, come unico parametro, l’omogeneità di posizione giuridica e di interessi economici.

In tale contesto, si potrebbe – come anticipato – ipotizzare la creazione di classi virtuali corrispondenti alle singole masse, con la precisazione che il concordato preventivo – per essere approvato – deve ottenere la maggioranza dei voti favorevoli in tutte le classi; in tal modo, si garantirebbe l’autonomia formale e sostanziale delle masse passive, pur nell’ambito di un’unica adu-nanza.

Sotto tale profilo, dalla necessità di celebrare un’unica adunanza dei credi-tori, preceduta dalla redazione di un’unica relazione ex art. 172 l. fall., nella quale i profili di trattazione unitaria della crisi del gruppo possano essere illu-strati a tutti i creditori del gruppo, discende l’opportunità di una votazione che tenga conto degli stati passivi delle singole società in concordato e delle masse dei creditori – che costituirebbero le “classi virtuali” di cui si è detto – ai fini del calcolo della maggioranza necessaria per l’approvazione.

Con riferimento alla competenza di cui all’art. 161, comma 1, l. fall. – altro limite all’unitarietà della procedura concordataria –, se è vero che la disciplina è commisurata alla domanda della singola impresa di essere ammessa alla procedura di concordato preventivo, così determinando la competenza del tri-bunale in cui detta impresa ha la propria sede principale, non può essere esclu-so che – in presenza appunto di un raggruppamento di imprese “a direzione unitaria” e cioè di “una impresa di gruppo” – se ne debba tenere conto, così che la competenza stabilita dall’art. 161, comma 1, l. fall., abbia a radicarsi presso il Tribunale ove la capo-gruppo ha la sua sede principale.

Pare invece fuori di discussione che – ove la riconduzione ad unità del con-cordato venga “forzata” attraverso il preliminare conferimento in una società di persone – l’intera operazione rimane soggetta ad un evidente elemento di incertezza durante la fase esecutiva, costituito dal possibile esercizio dell’azio-ne revocatoria da parte dei creditori di ciascuna delle società del gruppo, in re-lazione al conferimento dell’azienda nella s.n.c. veicolo. Tanto più che l’azio-ne revocatoria può essere esercitata entro cinque anni, ancorché possano esse-re salvi gli effetti degli atti trascritti anteriormente alla domanda revocatoria e relativi ad attività liquidatorie poste in essere in esecuzione del concordato preventivo.

Si potrebbe, tuttavia, esplorare un percorso alternativo: la fusione fra socie-tà – alcune delle quali o tutte – in crisi.

Occorre subito precisare che, nell’ipotesi del concordato di gruppo, l’unico caso concretamente verificabile è quella della fusione che si perfeziona nel corso (o dopo) la procedura concordataria, dal momento che nell’ipotesi con-

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traria – cioè quella di fusione perfezionata prima della domanda di ammissio-ne al concordato preventivo – si avrebbe già un unico soggetto, con la conse-guenza che non si potrebbe neppure ipotizzare un concordato preventivo di gruppo. In tale caso, infatti, i creditori della società eventualmente incorporata nella società in concordato, per i quali siano decorsi i termini ex art. 2503 c.c. senza che sia stata fatta opposizione, diventano concorsualizzati tout court, con la conseguenza che gli stessi hanno diritto di voto (se non privilegiati o in prededuzione) e possono proporre opposizione in sede di omologazione del concordato (R. BROGI).

Come è noto, la riforma del diritto societario – attuata con il d.lgs. n. 5/2003 – ha abolito il divieto di partecipazione alla fusione per le società sot-toposte ad una procedura concorsuale, con la conseguenza che la fusione, oltre alla sua funzione tradizionale di strumento di concentrazione giuridica e di ri-organizzazione aziendale, può ora svolgere anche un ruolo importante nel momento della ristrutturazione del debito. E in tale contesto l’art. 160, comma 1, lett. a), l. fall., prevede che la soluzione della crisi possa realizzarsi anche mediante altre operazioni straordinarie, compresa l’attribuzione di azioni ai creditori ed a società da questi partecipate; d’altronde, la previsione di un’o-perazione straordinaria nell’ambito di un piano concordatario può trovare una significativa applicazione proprio con riferimento alle crisi di gruppo, dove emerge – spesso – l’esigenza di proporre un piano concordatario unitario in cui la soluzione della crisi avvenga anche mediante un riassetto societario complessivo.

Con riferimento al coordinamento tra diritto societario e diritto concorsuale è bene precisare, tuttavia, come l’art. 160 l. fall. contenga niente più che un generico riferimento alle operazioni straordinarie, senza dettare alcuna disci-plina particolare rispetto a quella civilistica, che deve pertanto trovare piena-mente applicazione, soprattutto laddove vengano in gioco principi fondamen-tali come quelli espressi dall’art. 2740 c.c.. E, in mancanza di una normativa ad hoc, spetta quindi all’interprete l’individuazione della disciplina concreta-mente applicabile alle ipotesi di operazioni straordinarie compiute in ambito concorsuale, attraverso il complesso raccordo tra la disciplina concorsuale e quella societaria (R. BROGI). In particolare:

• i rapporti tra la disciplina societaria della fusione ed il concordato tratta-mento dei creditori della società partecipanti alla fusione;

• i rapporti tra la disciplina relativa all’opposizione all’omologazione e quella relativa all’opposizione alla fusione ex art. 2503 c.c.;

• la stessa fattibilità giuridica del concordato preventivo; • la corretta informazione dei creditori.

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In tale contesto, una delle questioni oggetto di più acceso dibattito è costi-tuita dai rapporti tra l’opposizione alla fusione ex art. 2503 c.c. e l’opposizione all’omologazione del concordato di cui all’art. 180 l. fall., giacché lo scarno riferimento compiuto alle operazioni straordinarie da parte dell’art. 160 l. fall. non consente alcun assorbimento della disciplina della fusione nell’ambito di quella relativa al concordato preventivo; con la conseguenza che, in assenza di un’espressa previsione derogatoria dell’art. 2503 c.c., si deve ritenere che il creditore della società partecipante alla fusione mantenga intatto il diritto di proporre opposizione (davanti al c.d. tribunale delle imprese), senza che que-st’ultima possa essere inclusa nella possibilità di opporsi all’omologazione del concordato preventivo (R. BROGI).

Quindi, il piano concordatario di gruppo deve essere costruito nel rispetto dei principi di cui all’art. 2740 c.c., e cioè con votazioni distinte per ciascuna società, masse distinte e previsione delle risorse necessarie a far fronte ad e-ventuali opposizioni ex art. 2503 c.c.

Quanto alla tempistica del perfezionamento della fusione e al trattamento dei creditori, vi sono alcune significative differenze tra fusioni infragruppo a seconda che siano o meno attuate nell’ambito di concordati preventivi di gruppo – dove tutte le società partecipanti alla fusione sono in concordato pre-ventivo – o meno.

Dal punto di vista operativo, il piano concordatario – solitamente – prevede che gli effetti dell’atto di fusione siano condizionati sospensivamente all’omo-logazione del concordato; ciò poiché – nella prospettiva delle società che pro-pongono il concordato di gruppo – la riorganizzazione societaria attuata me-diante la fusione e la ristrutturazione del debito attuata mediante il concordato preventivo costituiscono elementi inscindibili di un quadro necessariamente unitario.

Una volta intervenuta l’omologazione, la società incorporante o risultante dalla fusione ai sensi dell’art. 2504-bis c.c. assume tutti i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, fra i quali l’adempimento del concorda-to preventivo.

L’ampiezza del richiamo compiuto dall’art. 160 l. fall. al possibile ricorso alle operazioni straordinarie, quale possibile oggetto di previsione nell’ambito di un piano concordatario, consente che le stesse possano essere attuate sia nell’ambito di un concordato liquidatorio che di un concordato in continuità. Invero, sono evidenti i vantaggi ricavabili, anche nella prospettiva della conti-nuazione dell’attività di impresa, dal momento che si procede alla ristruttura-zione del debito contestualmente alla riorganizzazione societaria (anche me-diante un’eventuale ridimensionamento delle strutture organizzative grazie al-la concentrazione giuridica attuata mediante la fusione), con la prosecuzione

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dell’attività economica. Ma, nella pratica il ricorso al concordato di gruppo, con un piano caratterizzato da una fusione, può tuttavia assolvere anche all’e-sigenza di concentrare le attività di liquidazione in un unico soggetto, destina-to ad operare in via esclusiva nella fase esecutiva del concordato preventivo: il ricorso alle operazioni straordinarie nell’ambito del concordato di gruppo può essere – pertanto – funzionale anche ad una prospettiva di tipo liquidatorio, anche se è più facile l’ipotesi in cui la concentrazione attuata mediante la fu-sione sia funzionale ad una parziale continuità da attuare nella fase esecutiva del concordato, ancorché prodromica alla liquidazione dei beni (R. BROGI).

Riferimenti di dottrina

BROGI R., Il concordato preventivo di gruppo e la fusione, in www.osservatorio-oci.org/.

DI MAJO A., I gruppi di imprese nel concordato preventivo e nell’amministrazione straor-dinaria delle grandi imprese insolventi, in www.orizzontideldirittocommerciale.it/.

GALGANO F., I gruppi di società, Utet, Torino, 2001. GUERRERA F., La responsabilità “deliberativa” nelle società di capitali, Giappichelli,

Torino, 2004. MONTALENTI P., La riforma del diritto societario, in Giur. comm., 2006. PALLADINO V., Il concordato di gruppo: presupposti di ammissibilità, questioni di

competenza territoriale e rapporti con il procedimento prefallimentare, in www.il fallimentarista.it.

TOMBARI U., Il gruppo di società, Giappichelli, Torino, 1997. VITIELLO M., Il concordato preventivo “di gruppo”, in www.ilfallimentarista.it.

Riferimenti di giurisprudenza

App. Roma 1° luglio 1985, in Foro it., 1986, I. Cass. 26 febbraio 1990, n. 1439, in Giur. comm., 1991, II. Cass. 8 maggio 1991, n. 5123, in Foro it., 1992, I. Cass. Lav. 3 agosto 1991, n. 8532, in Giur. it., 1992, I. Trib. Firenze 13 luglio 1992, in Dir. fall., 1994, 563. Trib. Ivrea 21 febbraio 1995, in Fall., 1995, 969. Trib. Perugia 3 marzo 1995, in Foro it., 1995, 1952. Trib. Terni 19 maggio 1997, in Fall., 1998, 290. Trib. Roma 16 dicembre 1997, in Dir. fall., 1998, 778. Cass. 21 gennaio 1999, n. 521, in Corr. giur., 1999. Trib. Crotone 28 maggio 1999, in Gius. civ., 2000, 1533.

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Trib. Milano, 20 dicembre 2004, in Guida dir., 2004. Trib. Roma 7 giugno 2007, Decr., in Il Fallimento, 2008, 218 con nota di Di Majo. Cass. 18 novembre 2010, n. 23344, in www.ilcaso.it. Cass. 10 febbraio 2011, n. 3274, in www.ilcaso.it. Trib. Perugia 16 luglio 2012, in www.ilcaso.it. Trib. Roma 18 aprile 2013, decr., in www.ilcaso.it. Trib. Rovigo 5 novembre 2013, in www.dirittobancario.it, con nota di Fischetti. Trib. Palermo 4 giugno 2014, in www.ilcaso.it. Cass. 13 ottobre 2015, n. 20559, in www.ilcaso.it.

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L’infedeltà patrimoniale Alessandra Rossi

SOMMARIO:

1. Un flash sulla struttura della fattispecie. – 2. Società collegate e gruppi. La clausola dell’e-sclusione dell’ingiustizia del profitto nelle operazioni infragruppo.

Il complesso e variegato universo dell’‘aggregazione fra imprese’ osserva-to con la lente del cultore di diritto penale attribuisce all’infedeltà patrimoniale (art. 2634 c.c.) 1 un ruolo di spicco, non soltanto per la struttura, certamente innovativa in punto operatività del disposto (come noto, la norma – rivolta alla tutela del patrimonio sociale o, relativamente ai beni posseduti od amministra-ti per conto di terzi, alla ricchezza da essa disponibile, nonché al dovere ogget-tivo di correttezza, di affidabilità e di fedeltà che non deve portare l’organo gestorio a strumentalizzare l’ufficio per fini privati – ha colmato una lacuna da sempre denunciata nel panorama punitivo italiano), ma soprattutto per l’e-spressa rilevanza e per la precisa considerazione che nel contesto della fatti-specie rivestono società collegate e gruppi.

1 L’art. 2634 c.c. recita «Gli amministratori, i direttori generali e i liquidatori, che, avendo un interesse in conflitto con quello della società, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio, compiono o concorrono a deliberare atti di disposizione dei beni so-ciali, cagionando intenzionalmente alla società un danno patrimoniale, sono puniti con la re-clusione da sei mesi a tre anni.

La stessa pena si applica se il fatto è commesso in relazione a beni posseduti o amministrati dalle società per conto di terzi, cagionando a questi ultimi un danno patrimoniale.

In ogni caso non è ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo, se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’apparte-nenza al gruppo.

Per i delitti previsti dal primo e secondo comma si procede a querela della persona offesa».

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1. Un flash sulla struttura della fattispecie

La selezione dei soggetti attivi – amministratori, direttori generali e liqui-datori e che, in punto soggetti amministratori, include anche i comportamenti infedeli posti in essere dall’amministratore unico – risponde alla scelta legisla-tiva di circoscrivere la repressione penale alle forme di abuso del patrimonio sociale commesse nell’ambito dei poteri gestori, intesi comunque in senso la-to. L’art. 2639 c.c. (rubricato Estensione delle qualifiche soggettive) consente l’ascrizione ai soggetti componenti dell’organo gestorio/consiglio di gestione nelle società con sistema di governo societario di tipo duale, ai soggetti di fat-to che significativamente e continuativamente abbiano svolto le funzioni pro-prie dei soggetti formalizzati ed agli amministratori che siano stati legalmente incaricati dall’autorità giudiziaria o dall’autorità pubblica di vigilanza di am-ministrare la società od i beni dalla stessa posseduti o gestiti per conto di terzi.

Costituisce presupposto necessario per la configurabilità del delitto il fatto che il soggetto attivo abbia un interesse (extrasociale) in conflitto con quello della società, avente contenuto economico oggettivo, attuale, effettivo. Esso deve preesistere all’atto dispositivo ed è da valutarsi secondo un giudizio di prognosi postuma, con riferimento al momento dell’assunzione della delibera-zione. Si tratta di un requisito che, caratterizzando il fatto tipico, opera in fun-zione di selezione dei fatti assoggettabili a sanzione penale e che presenta maggiori margini di determinatezza rispetto a eventuali soluzioni alternative incentrate su più generici assunti quali l’abuso dei poteri o la violazione dei doveri, di tale che, in assenza della obbligatoria situazione di conflitto, questi non dovrebbero sussidiariamente assumere rilievo.

Interessa rilevare che la giurisprudenza di legittimità tende ad incardinare la “vera” essenza e la effettiva nozione di infedeltà patrimoniale non tanto nel danno per la società, quanto nella tipizzazione della «necessaria relazione tra un preesistente conflitto di interessi, con i caratteri dell’attualità e dell’obbiet-tiva valutabilità, e le finalità di profitto o altro vantaggio dell’atto di disposi-zione, finalità che si qualificano in termini di ingiustizia per la proiezione sog-gettiva del preesistente conflitto» (Cass. 27 marzo 2008, in Cass. pen., 2009, 1237; Cass. 18 novembre 2007, ivi, 2005, 3782).

La fattispecie pone a carico dei destinatari il divieto di disporre dei beni so-cietari in presenza di una situazione antagonistica di interessi; assumendo il conflitto la natura giuridica di presupposto del reato, risultano escluse dall’e-conomia del disposto le operazioni che creano esse stesse il conflitto e, cioè, i casi (per il vero più frequenti) per i quali il momento di inizio della commi-stione dell’interesse privato con quello della società vengano a coincidere; e così, nonostante che siffatta evenienza logico/temporale sia fonte di concreto

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rischio di infedeltà e portatrice, in prospettiva, di pregiudizio (anche se non apparente o non sempre economicamente misurabile).

Il conflitto qui conferente deve connettersi a singoli atti di gestione, quale dato non meramente potenziale, ma concretamente qualificante sia dell’atto di gestione, sia dell’evento lesivo. Logica vuole che non sia fisiologico alla di-namica della gestione societaria, in quanto non ogni contrapposizione corrente tra soggetto e società risulta rilevante, posto che tutti i soggetti indicati dalla norma si trovano di default in posizione di potenziale conflitto. Poiché il reato richiede l’evento dannoso per la società e poiché questo pregiudizio non può che concretarsi in uno svantaggio contra legem ovvero raggiunto per tramiti illeciti, non può integrare il profilo illecito la situazione di antitesi ammessa o supposta dal nostro ordinamento giuridico.

Il legislatore non ha “dimensionato” il conflitto per cui risulta non agevole rispondere senza riserve al quesito se assuma rilievo penale la contrapposizio-ne tra interessi sociali ed extrasociali che non si profili come integrale, ma si connoti per una soddisfazione parziale per entrambe le parti. Riesce peraltro difficile escludere anche a questo limitato contrasto interesse penale.

Il nucleo del divieto poggia sul collegamento tra il conflitto di interessi e il compiere od il concorrere a deliberare atti di disposizione dei beni sociali: il filtro selettivo per attribuire o meno rilevanza penale alla condotta tipica è rap-presentato, come già affermato, dal (presupposto del reato) conflitto di interes-si, unitamente alla particolare qualificazione del dolo che, nel caso del dolo specifico, connota la stessa tipicità del fatto.

Il compimento di atti di disposizione patrimoniale si presenta come espres-sione di momento di gestione, scevro da connotati formali e rilevante anche se derivato da accordo collegiale non ufficializzato, con la rapportabilità all’eco-nomia della condotta anche di tutte le forme di attività gestoria assunte indi-pendentemente da una delibera consiliare. La deliberazione (od il concorso nella stessa) di un atto dispositivo del patrimonio sociale si caratterizza, inve-ce, quale provvedimento connotato da qualche formalità. Osservandosi co-munque che non del tutto semplice appare l’inquadramento concreto della condotta di chi concorra a deliberare atti di disposizione. Sembra corretto so-stenere al riguardo come l’espressione subordini la responsabilità dell’ammi-nistratore in conflitto di interessi al carattere decisivo del suo voto. Potrebbe tuttavia assumere rilevanza anche un contributo di agevolazione all’adozione della delibera differente dalla partecipazione con voto favorevole, a condizio-ne che sia caratterizzato da inequivocabili giudizi positivi sull’opportunità del-l’operazione, determinando così l’approvazione della delibera. Diversa, inve-ce, è l’ipotesi in cui la condotta dell’amministratore non sia apprezzabile in sede di delibera, ma sia prodromica alla stessa: la condotta dell’amministra-

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tore inerte al momento della votazione non pare possa assumere rilevanza alla luce del dettato normativo, che incentra la condotta tipica sul momento delibe-rativo e non su tutte quelle attività appunto meramente prodromiche alla deli-berazione assembleare. Del resto, la descrizione della condotta tipica porta ad escludere la possibile rilevanza penale di un comportamento meramente omis-sivo: l’espressione normativa utilizzata “compiono o concorrono a deliberare” rimanda infatti ad un comportamento di tipo attivo.

Come appena riportato è prevista soltanto una condotta commissiva, di compimento o di delibera (o di concorso nella delibera) e non una mera asten-sione in una votazione che porti a risultati di pregiudizievole disposizione, né sono inclusi nella censura penale i comportamenti di mera omissione, che pure sono facilmente ipotizzabili e che – al pari degli atti commissivi – sono poten-zialmente forieri di danno. La scelta del legislatore, seppur riduttiva, si segna peraltro positivamente posto che tiene nel massimo conto il principio di preci-sione e di tassatività, giacché la penalizzazione di eventuali omissioni non po-trebbe non comportare una valutazione di merito circa il comportamento degli amministratori, in termini inevitabilmente – quanto inaccettabilmente – ampi e generici, non a sufficienza contenuti dal requisito del conflitto (ALESSANDRI).

Oggetto dell’azione sono “atti di disposizione dei beni sociali”. Ad avviso dei giudici di legittimità, l’espressione, «soprattutto se riguardata con la finali-tà perseguita dal legislatore, allude ad ogni atto di restrizione della sfera pa-trimoniale e, pertanto, qualsiasi atto negoziale foriero di pregiudizio, anche se privo di immediati effetti» (Cass. 22 febbraio 2007, in Cass. pen., 2008, 3023). In dottrina peraltro l’argomentazione appare «poco persuasiva: ricono-scendo che la condotta in questione racchiude una potenzialità dell’evento dannoso, la “restrizione della sfera patrimoniale” non equivale né all’effettiva disposizione di beni sociali né alla causazione del pregiudizio cui è legato il momento consumativo del reato» (SEMINARA). Per dare concretezza alla locu-zione, si devono invece intendere quegli atti dispositivi (quali “comportamen-ti” certamente di qualsiasi tipo) emessi dalla società ed espressione della vo-lontà sociale, correlati alla posizione di potere del soggetto qualificato e che in qualche modo rientrino nelle sue funzioni istituzionali; pertanto non ricondu-cibili a semplici atti di appropriazione che darebbero luogo al reato di appro-priazione indebita di cui all’art. 646 c.p.

Per ciò che riguarda gli atti di organizzazione (aumento di capitale, fusione o scissione di società), ritengo opportuno aderire all’impostazione che ne esclude la rilevanza penale, considerata la mancanza di immediata disposizio-ne dei beni sociali.

Quanto ai ‘beni’, si tratta qui di beni dell’ente collettivo intesi in senso lato, mobili ed immobili, materiali e immateriali e quindi anche crediti, diritti di

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esclusiva su marchi, brevetti, opere dell’ingegno, programmi informatici e te-levisivi, energie, ecc. ...

Nella struttura del delitto, la condotta tipica deve avere cagionato un danno alla società o ai terzi (nel caso previsto dal secondo comma) – danno che in entrambe le ipotesi segna il momento consumativo del reato – caratterizzato da due peculiarità: deve avere carattere patrimoniale ed essere l’effetto della condotta (e, quindi, con natura giuridica di evento naturalistico).

Pacifico che il pregiudizio debba incidere sul patrimonio della società, a fronte dell’indifferenza di pregiudizio patrimoniale per singoli soci, il carattere patrimoniale si apprezza in privazioni o diminuzioni del complesso dei valori che compongono il patrimonio presente o futuro, sia nella forma del danno emergente, sia in quella del lucro cessante: può essere immediato e diretto o co-nsequenziale e indiretto, purché reale. Il nocumento deve pertanto sempre con-sistere in una alterazione sfavorevole del rapporto, da determinarsi sulla base di criteri oggettivi, tra gli elementi attivi e gli elementi passivi del patrimonio. Quest’ultimo comprende il complesso dei rapporti giuridici che vi fanno capo.

Il dolo è contrassegnato da intenzionalità nel cagionare il danno (alla socie-tà od ai terzi per conto dei quali la società possiede od amministra i beni) ed ulteriormente qualificato dallo specifico fine di procurare ingiusto profitto od altro vantaggio, non solo per l’autore, ma anche per altri. E va ben evidenziato come appaia non semplice ipotizzare situazioni in cui l’agente sia consapevole di agire in conflitto di interessi con la società ed al contempo abbia l’intenzio-ne di danneggiare l’altrui situazione patrimoniale, ma non intenda trarre, per sé o per altri, un vantaggio qualificabile come ingiusto.

Il “profitto” ha una connotazione patrimoniale ed economica. Per il vero, è un dato supposto dalla fattispecie oggettiva, del quale si deve accertare non tanto l’esistenza, quanto la natura ‘ingiusta’ (tale per correlazione agli interes-si aziendali o per valutazione discendente da norme giuridiche, penali o di al-tra natura). Tanto è ricavabile dal terzo comma dell’art. 2634 c.c. che – impli-citamente integrando il corredo obiettivo – qualifica non ingiusto un profitto, evidentemente raggiunto dal soggetto attivo. Il riferimento ad “altro vantag-gio” (formula di chiusura protesa ad estendere l’area del beneficio ricercato, priva del richiamo all’ingiustizia) comporta la punibilità di quelle disposizioni dei beni sociali, adottate in conflitto d’interessi, che siano sorrette da una fina-lità del soggetto attivo non di arricchimento patrimoniale, ma di altro genere, quali, ad esempio, prestigio personale, capacità contrattuale con altri soggetti, influenza politica.

Va ricordato che è altresì punibile il fatto commesso in relazione a beni posseduti o amministrati dalla società per conto terzi, allorquando si cagioni a questi un danno patrimoniale.

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La procedibilità è a querela della persona offesa. Scelta, questa, non certo meritevole di sottoscrizione.

Interessante appare, per concludere, il rapporto tra l’ipotesi di Conflitto di interessi di cui all’art. 2629-bis c.c. 2 e l’infedeltà patrimoniale. Premesso che, come avanti ricordato, quest’ultimo è ritenuto inapplicabile alle ipotesi di o-missione, certamente il rapporto tra le fattispecie si pone in un ambito circo-scritto ex lege, come si evince chiaramente dal disposto di cui all’art. 2629-bis c.c.; ambito circoscritto sia per il campo di operatività, sia per l’individuazione dei soggetti attivi.

Detta ipotesi ha comunque un oggetto di tutela ed una condotta differenti dalla fattispecie a condotta attiva di infedeltà patrimoniale. Di conseguenza, si può sostenere che allorquando il comportamento omissivo dei soggetti si con-cretizzi nel mancato rispetto del disposto di cui alla “regola” civilistica, con successiva causazione del danno alla società od ai terzi, senza ulteriori qualifi-cazioni comportamentali e senza specifiche caratterizzazioni del momento soggettivo, sia realizzata soltanto la fattispecie di omessa comunicazione del conflitto di interessi. D’altronde, si tratta di una disposizione che il legislatore del 2005, nella necessità di ampliare ed incrementare la tutela a determinati beni giuridici, ha previsto in un predeterminato contesto operativo, quale ipo-tesi ‘parallela’ ad eventuali comportamenti di infedeltà patrimoniale.

Comune alle disposizioni è tuttavia la “derivazione” del danno alla società od ai terzi. Diventa però difficile ritenere che allorquando si realizzino anche tutti gli elementi dell’infedeltà patrimoniale questa fattispecie possa assorbire, in un quadro di risoluzione del conflitto apparente di norme, l’ipotesi di cui all’art. 2629-bis c.c., considerata la risposta sanzionatoria, inferiore nel mini-mo nell’infedeltà patrimoniale ed identica nel massimo e la diversa procedibi-lità, a querela nell’infedeltà patrimoniale. Per contro, considerare perfezionate in un quadro di concorso formale di reati entrambe le ipotesi allorquando, sen-za denuncia ai sensi dell’art. 2391, comma 1, c.c., si realizzassero poi le mo-dalità di azione dell’infedeltà patrimoniale appare risoluzione forse eccessiva.

2 L’art. 2629-bis c.c. recita: «L’amministratore o il componente del consiglio di gestio-ne di una società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altro Stato dell’Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell’articolo 116 del testo unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, numero 58, e successive modificazioni, ovvero di un soggetto sottoposto a vigilanza ai sensi del testo unico di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, numero 385, del citato testo unico di cui al de-creto legislativo numero 58 del 1998, del decreto legislativo 7 settembre 2005, numero 209, o del decreto legislativo 21 aprile 1993, numero 124, che viola gli obblighi previsti dall’articolo 2391, primo comma, è punito con la reclusione da uno a tre anni, se dalla violazione siano derivati danni alla società o a terzi».

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Alla luce di un orientamento sottoscrivibile, per i fatti che integrano gli ele-menti di entrambi i delitti, come nel caso in cui un amministratore di società quotata, oltre a non adempiere all’obbligo di comunicazione (avendo un inte-resse in conflitto), compia o insieme ad altri deliberi atti di disposizione di be-ni sociali, con ciò cagionando intenzionalmente un danno patrimoniale alla so-cietà, si può ipotizzare il concorso apparente di norme, per specialità bilatera-le, con prevalenza dl disposto di cui all’art. 2629-bis c.c., inteso come reato più grave.

2. Società collegate e gruppi. La clausola dell’esclusione dell’ingiusti-zia del profitto nelle operazioni infragruppo

Come anticipato nell’esordio di questo scritto, nel contesto strutturale della fattispecie di infedeltà patrimoniale è presente un richiamo espresso sia alle società collegate, sia ai gruppi societari.

Per completezza, va ricordato che Il Titolo XI del Libro V del codice civile – “contenitore” dei reati societari codificati – è stato riformato dal d.l. 11 apri-le 2002, n. 61, normazione delegata di cui alla legge delega n. 300/2000, legge delega “comune” anche ai successivi complessi normativi di riforma della par-te “civilistica” del diritto societario codificato del 2003, entrati in vigore nel 2004. Ne consegue che i testi dell’articolato penale sono segnati da una nota negativa di fondo in punto metodologia di produzione, rappresentata dalla “in-versione cronologica” della novella del 2002, con la precedenza accordata, in controtendenza rispetto ai percorsi classici, alla riforma del diritto punitivo so-cietario sulla riforma del diritto civile delle società. Costituisce un esempio problematico proprio il richiamo “penale” espresso nella fattispecie di infedel-tà patrimoniale ai gruppi societari, richiamo che, se nel 2002 venne qualificato come una positiva ed importante novità, ha invece rischiato di scontare in ma-niera forte l’“inversione cronologica”, posto che il legislatore della riforma del diritto civile societario non ha seguito la via – invece presumibile nel 2002 – di una specifica definizione appunto del gruppo societario. Tuttavia, i molte-plici dati normativi civilistico-commerciali che hanno caratterizzato e richia-mato l’istituto portano oggi a valutare con maggiore “tranquillità” il riferimen-to di cui è causa.

Partendo dalla considerazione dei riconosciuti intrecci di interessi in un gruppo societario, la dottrina sottolineava come l’introduzione di una generale figura incriminatrice di infedeltà patrimoniale avrebbe dovuto essere accom-pagnata da una specifica causa di esclusione della responsabilità penale ove si precisassero le condizioni in cui l’interesse sociale del gruppo può operare in

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materia. Il terzo comma dell’art. 2634 c.c., nell’occuparsi delle cosiddette in-fedeltà interagenti nel gruppo societario, è diretto a legittimare le istanze di gestione di un gruppo societario, quando esse impongano operazioni contras-segnate non già da (egoistici) tornaconti di una singola società, bensì da logi-che di un “aggregato” che conosce reciproche interazioni (di controllo/parteci-pazione e di vantaggi, in tema di condizioni contrattuali conseguenti alla pia-nificazione della tesoreria centralizzata, o di costo finanziario o di agevolazio-ne nelle garanzie prestate all’interno), ovviamente imponendo immediati sa-crifici per singole entità, in vista di un beneficio futuro. Il legislatore ha per-tanto adottato la teoria dei vantaggi compensativi (elaborata, come a tutti noto, in sede civilistica da P. Montalenti nel 1995): dunque, occorrerà valutare gli interessi del gruppo e quelli delle singole società bilanciando gli uni e gli altri in una logica che viene definita di tipo compensativo, con l’interesse del grup-po non può a priori essere considerato extrasociale e quindi generare una si-tuazione di conflitto.

La clausola «In ogni caso non è ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo, se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo» non è di facile lettu-ra, con le questioni interpretative che riguardano il riferimento al “collegamen-to” ed alla “appartenenza” al gruppo, la nozione di ‘compensazione dei vantag-gi’ ed il concetto stesso di “vantaggi fondatamente prevedibili”. E non è poco!

In prima battuta, deve verificarsi l’effettiva esistenza di un gruppo societa-rio. Osserva al riguardo la Suprema Corte (Cass. 18 novembre 2004, n. 10688, in Cass. pen. 2005, 3781) che con la riforma del diritto societario iniziata nel 2003 è stato «dettato un complesso di norme (artt. 2497-2497-sexies c.c.), de-dicate alla “Direzione e coordinamento di società” che, pur non offrendo una nozione di “gruppo” ritenuta adeguata rispetto all’incessante evoluzione della realtà sociale, economica e giuridica ... tuttavia ne regolamenta – partendo dal fatto obiettivo dell’esercizio di attività di direzione e coordinamento di una o più società da parte di un diverso soggetto – l’attività, con il limite “costituito dal rispetto dei valori essenziali del bene partecipazione sociale”, bene che la legge individua nella partecipazione all’esercizio in comune di una attività economica, al fine di dividerne gli utili». La Corte aggiunge che «si può parla-re propriamente di gruppo solo quando una pluralità di società, ovvero am-plius di imprese, risulta sottoposta alla giuda unitaria che una di esse esercita sulle altre». Rispetto alla situazione di cui è causa, la disposizione in commen-to ha ad oggetto situazioni di “collegamento” o di “appartenenza al gruppo”, così ampliando i confini del concetto di gruppo come delineato dalla Suprema Corte, concetto che manca, mi permetto ribadirlo, di una disciplina organica. Purtroppo, non certa è la nozione di “collegamento” e troppo generica è quella

123 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

di “appartenenza” al gruppo. Comunque, con riferimento alla normazione ci-vilistica, si deve rilevare che l’art. 2359 c.c. opera una distinzione tra la nozio-ne di “controllo” e quella di “collegamento” in ambito societario, di tale che la portata applicativa della causa di esclusione della responsabilità penale par-rebbe non limitarsi alle ipotesi di “influenza dominante” di una società nei confronti dell’altra, bensì estendersi anche ai casi di mera “influenza notevo-le”. Ove la nozione di appartenenza dovrebbe determinare l’esclusione soltan-to di aggregati occasionali e provvisori.

In riferimento alla seconda problematica, non si può che aderire a quell’im-postazione che giustamente ha lamentato la “atecnicità” della nozione di com-pensazione assunta in un contesto così importante della fattispecie, posto che l’accezione è estranea ai modelli previsti dagli artt. 1214 ss. c.c., essendo sce-vra dai connotati di equipollenza, omogeneità ed esigibilità delle poste e non essendo stabilito quando il rapporto compensativo debba verificarsi, mancan-do un termine anche implicitamente supposto dalla norma, difettando, inoltre, un rapporto di proporzionalità tra il sacrificio patrimoniale e l’utilità (G. SAN-

DRELLI, A. TRUCANO). Fermo restando che per l’individuazione degli elementi compensativi ci si dovrà servire in prima istanza del parametro che fa leva sul-la proporzione tra danno e vantaggio. In questo senso si è affermato che pro-prio l’impiego del termine compensato evocativo di un rapporto fra quantità fra loro paragonabili autorizza l’interprete a ritenere che il vantaggio conse-guito o fondatamente atteso dal quale deriva la non ingiustizia del profitto, do-vrà essere comunque non manifestamente irrisorio, tale cioè da non poter rice-vere la qualifica di vantaggio compensativo (F. MUCCIARELLI).

La terza problematica trova nella incertezza del valore della locuzione il suo punto dolente. Si tratta oggettivamente di una formula indeterminata che ha condotto la giurisprudenza ad assumere che la disposizione di cui al terzo com-ma dell’art. 2634 trova applicazione «in presenza di concreti vantaggi compen-sativi dell’appropriazione e del conseguente danno provocato alle singole socie-tà, non essendo sufficiente la mera speranza, ma che i vantaggi corrispondenti, compensativi della ricchezza perduta, siano “conseguiti” o “prevedibili” fonda-tamente e, cioè, basati su elementi sicuri, pressoché certi e non meramente alea-tori o costituenti una semplice aspettativa; deve trattarsi, quindi, di una previ-sione di sostanziale certezza» (Cass. 23 giugno 2003, n. 38110, in Cass. pen., 2004, 457 ed in Riv. trim. dir. pen. econ., 2004, 656. Cfr. altresì Cass. 10 di-cembre 2013, n. 49787; Cass. 17 dicembre 2008, n. 1137, in Fall., 2009, 1352; Cass. 15 luglio 2008, n. 39546, in Soc., 2009, 919; Cass. 8 novembre 2007, n. 7326, in Cass. pen., 2009, 292; Cass. 18 novembre 2004, cit.). Si tratta di un orientamento tutto sommato condivisibile nella parte in cui esclude rilevanza ad un generico vantaggio, richiedendo, in conformità alla lettera della disposizione

124 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

in parte qua, la sussistenza di elementi non astratti ed ipotetici, ma riconoscibili al momento dell’atto dispositivo dannoso ed in grado di conferire un sufficiente fondamento alla futura compensazione del danno patito dalla società. Nondime-no, la definizione può apparire eccessivamente restrittiva laddove sembra tra-scurare il fisiologico rischio di impresa e la natura prognostica ed elastica del relativo giudizio, così come tipizzata dalla fattispecie: invero, ci troviamo di-nanzi ad una valutazione assai delicata e rimessa alla discrezionalità giudiziale, in un’assoluta vaghezza dei suoi contorni (S. SEMINARA).

Comunque, cercando di dare un contenuto operativo al concetto di “van-taggi fondatamente prevedibili”, il fulcro della valutazione non è la perdita di ricchezza, bensì il profilo del vantaggio perseguito, con la polarizzazione sul profitto, la quale fornisce giustificazione all’atto di apparente infedeltà patri-moniale e che postula una delicata equazione tra un accadimento reale (il dan-no) e quello perseguito da un disegno programmatico (il profitto). Circa la ca-ratterizzazione del giudizio, occorre osservare che non potrà trattarsi di una valutazione da effettuarsi ex post, perché ciò che deve essere verificato non è già il risultato finale positivo o negativo, bensì il risultato complessivo che ci si poteva ragionevolmente (o meglio, fondatamente, come sancisce la norma) attendere. Occorrerà, dunque, effettuare un giudizio ex ante, intendendo la lo-cuzione come una prognosi obiettivo-postuma, con valutazione concreta, di natura tecnico-economico, formulata in base agli elementi noti al momento in cui l’operazione è posta in essere ed il cui esito indichi non una mera probabi-lità, ma quasi certezza sul futuro riequilibrio dei vantaggi tra le società colle-gate ed il gruppo. Certo non sarà agevole stabilire quando, in concreto, i van-taggi erano fondatamente prevedibili da parte del soggetto di riferimento (am-ministratore, direttore generale o liquidatore). In effetti, pretendere che l’am-ministratore della società operante misuri la legittimità della propria gestione sulla base delle aspettative di profitto del gruppo nel suo insieme o di qualche sua componente, significa travisare la realtà dei gruppi: perché si finirebbe inopinatamente con il criminalizzare indirettamente la stessa capacità del gruppo di produrre profitti; e perché, nella maggior parte dei casi, si finirebbe con l’imporre all’amministratore della società figlia una valutazione per la quale questi non dispone di adeguati strumenti cognitivi, trasformando l’arma della pena in una sorta di “spada di Damocle” destinata a cadere quando meno se l’aspetti sul capo di un amministratore identificato come capro espiatorio di una squilibrata politica di gruppo (L. FOFFANI).

La dottrina maggioritaria ha precisato come la clausola delimitativa in esame operi come causa di esclusione del dolo specifico e, quindi, quale limite negativo della tipicità.

Variazioni sui temi di Diritto del lavoro Fasciolo 1|2016

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Approfondimenti

126 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

Dal distacco alla codatorialità nell’ottica del-le reti e gruppi d’impresa Luca Furfaro

SOMMARIO

1. Premessa. – 2. Il distacco e il contratto di rete. – 3. Codatorialità. – 4. La codatorialità in agricoltura. – 5. La gestione del distacco nei gruppi d’Impresa.

1. Premessa

Il d.l. n. 5/2009, convertito con la legge n. 33/2009 e successive modifica-zioni, ha introdotto nella nostra normativa la fattispecie del contratto di rete. Quest’ultimo permette a varie imprese di creare una sorta di “associazione” tra loro, definita contrattualmente, atta ad aumentare la competitività e la capacità innovativa dei componenti. Questo porta diversi benefici per le imprese della rete, che rimangono autonome ma instaurano un rapporto di collaborazione con altre realtà, facilitando ad esempio, le operazioni di logistica o di gestione del personale.

Proprio riguardo quest’ultimo punto, il legislatore, con il d.l. n. 76/2013, ha deciso di sostenere le reti d’imprese anche agevolando la gestione congiunta dei lavoratori impegnati in esse, tramite la semplificazione del ricorso all’isti-tuto del distacco e aprendo alla possibilità della codatorialità.

I dati Infocamere, aggiornati a settembre 2016, parlano di più di 3.000 con-tratti di rete con circa 15.000 imprese coinvolte e una dislocazione geografica così ripartita:

Abruzzo 813

Basilicata 188

Calabria 396

Campania 847

Emilia Romagna 1.509

(Segue)

127 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

Friuli-Venezia Giulia 669

Lazio 1.342

Liguria 477

Lombardia 2.647

Marche 477

Molise 40

Piemonte 788

Puglia 950

Sardegna 413

Sicilia 337

Toscana 1.544

Trentino Alto Adige 278

Umbria 323

Valle d’Aosta 32

Veneto 1.373

Fonte: dati Infocamere.

Con il contratto di rete più imprenditori perseguono lo scopo di accrescere, individualmente e collettivamente, la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato e a tal fine si obbligano, sulla base di un programma comune di rete:

– a collaborare in forme e in ambiti predeterminati attinenti all’esercizio delle proprie imprese;

– a scambiarsi informazioni o prestazioni di natura industriale, commercia-le, tecnica o tecnologica; – o a esercitare in comune una o più attività rientran-ti nell’oggetto della propria impresa.

2. Il distacco e il contratto di rete

Per quanto concerne la gestione delle risorse umane, sono state studiate ri-levanti possibilità, maggiori rispetto alla singola impresa, per coniugare la flessibilità del lavoro con la stabilità dell’occupazione. Il legislatore, che ini-

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zialmente non si era occupato degli aspetti giuslavoristici, è poi intervenuto nella legge n. 99/2013 con due importanti disposizioni, che riflettono positi-vamente la peculiarità della rete, integrando l’art. 30 del d.lgs. n. 276/2003 ed introducendo il nuovo comma 4-ter che prevede che: «qualora il distacco av-venga tra aziende che abbiano sottoscritto un contratto di rete di impresa che abbia validità ai sensi del d.l. 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modifica-zioni, dalla legge 9 aprile 2009, n. 33, l’interesse della parte distaccante sorge automaticamente in forza dell’operare della rete, fatte salve le norme in mate-ria di mobilità dei lavoratori previste dall’art.2103 c.c. Per le stesse imprese è ammessa la codatorialità dei dipendenti ingaggiati con regole stabilite attra-verso il contratto di rete stesso».

Con l’istituto del distacco il legislatore ha stabilito che, quando questo av-viene fra imprese che hanno sottoscritto un contratto di rete, l’interesse del di-staccante sorge automaticamente in forza dell’operare della rete.

Dobbiamo quindi fare un passo indietro e definire l’istituto del distacco; il lavoratore viene collocato presso un soggetto terzo, a patto però che per giusti-ficare tale distacco vi siano alcuni fondamentali requisiti:

– la sussistenza di un “interesse” al distacco in capo al datore di lavoro di-staccante che deve essere mantenuto per tutta la durata del distacco; tale inte-resse deve essere rilevante e concreto, non lasciando spazio a motivazioni prettamente di interesse economico per il distaccante;

– la temporaneità della prestazione, dove temporaneità coincide con non definitivo o anche non indeterminato.

In assenza di tali requisiti, il lavoratore interessato può fare ricorso in giu-dizio per la costituzione di un rapporto di lavoro con il soggetto che ne ha uti-lizzato la prestazione, cioè il datore di lavoro presso cui è stato distaccato.

Nel caso di aziende legate da contratto di rete, l’interesse del distaccante sorge automaticamente in forza dell’operare della rete.

Tale interesse, si presume coincida con quanto previsto negli obiettivi del programma di rete, esauriti i quali il distacco non sarebbe più possibile, ve-nendo meno anche l’oggetto del contratto di rete.

Come indicato nella Circolare del Ministero del Lavoro 29 agosto 2013, n. 35 ai fini della verifica dei presupposti di legittimità del distacco, il personale ispettivo dovrà limitarsi a verificare l’esistenza di un contratto di rete tra di-staccante e distaccatario; si tratta quindi di una verifica eminentemente di tipo documentale, e non sostanziale, sulla genuinità e fondatezza dell’interesse.

L’automaticità del distacco nella rete e quindi la non necessità per il distac-cante di dare prova di un suo interesse specifico, è un forte incentivo alla mo-bilità all’interno della rete, vantaggiosa sul piano della flessibilità, ma anche

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della stabilità del rapporto e della formazione del personale. D’altronde il contratto di rete ritrova la sua utilità proprio nel creare eco-

nomie di scala e nel mettere in comune capacità e professionalità diverse per uno scopo comune, riportando l’interesse, previsto dal distacco, in capo al contratto di rete.

L’articolo relativo al distacco nei contratti di rete non menziona l’altro re-quisito previsto, secondo le regole generali per un uso legittimo del distacco, ossia quello della temporaneità, che resta dunque confermato.

La stessa legge n. 99/2003 ci dà però la previsione di un’altra forma di condivisione sulla quale non vige obbligo di temporaneità, e cioè la codatoria-lità fra imprese retiste.

Le imprese hanno quindi a disposizione due strumenti per la mobilità della forza lavoro nel mercato di rete, distacco e codatorialità, che verranno utilizza-te a seconda che le esigenze della circolazione di manodopera siano tempora-nee o durature. La distinzione fra le due forme e l’individuazione in concreto della temporaneità del distacco andranno determinate dalle stesse parti, con una valutazione che dovrà ritenersi largamente discrezionale.

3. Codatorialità

La codatorialità presta il fianco a notevoli problemi: si tratta infatti di un’alterazione rispetto al normale concetto di rapporto di lavoro previsto dal-l’art. 2094 c.c. che immagina un unico datore di lavoro: «È prestatore di lavo-ro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore».

La Circolare del Ministero del Lavoro n. 35/2013 chiarisce in modo estre-mamente sintetico che il potere direttivo nei confronti del personale potrà es-sere esercitato da ciascun imprenditore; le responsabilità penali, civili e am-ministrative riferibili ad eventuali illeciti, dovranno rifarsi al contenuto del contratto di rete senza configurare in via istantanea un intervento solidaristico tra tutti i partecipanti alla rete d’impresa.

Nel caso in cui il rapporto di lavoro fosse solamente relativo ad un datore di lavoro che si coordina con la rete, non dovrebbero sorgere problemi di sor-ta; nel momento in cui, invece, le attività dei dipendenti venissero ripartite a beneficio della totalità, o ancora peggio, di parte dei datori di lavoro costituen-ti la rete, potrebbero sorgere evidenti problematiche in ambito di potere gerar-chico e disciplinare, di sicurezza sui luoghi di lavoro, di gestione di permessi ferie e riposi, e di conteggio dei lavoratori.

130 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

Deve ritenersi che la codatorialità realizzi una obbligazione soggettivamen-te complessa in base alla quale a un’unica obbligazione di lavoro di un solo lavoratore corrisponde una pluralità di datori di lavoro creditori.

L’accordo di rete potrebbe stabilire la regola della sussidiarietà cioè della preventiva "escussione" del soggetto beneficiario della posizione, ad esempio dell’impresa che ha usato in concreto il lavoratore per un certo periodo.

Per quanto attiene il potere gerarchico, per ottimizzare l’utilizzo del lavora-tore assunto nell’ambito della rete si potrà ricorrere, come già avviene nella prassi applicativa, alla individuazione da parte dei codatori di un soggetto (un manager di rete) incaricato di gestire i rapporti col personale e di esercitare su di esso il potere disciplinare e direttivo.

4. La codatorialità in agricoltura

Ritroviamo una prima indicazione operativa con il decreto 14 gennaio 2014, con il quale il Ministero del Lavoro ha disciplinato l’assolvimento delle comunicazioni obbligatorie da parte delle imprese agricole che assumano in maniera congiunta uno o più dipendenti.

Il Ministero del Lavoro ha per prima cosa definito l’ambito di applicazione, che riguarda le assunzioni congiunte di dipendenti da parte delle imprese agri-cole appartenenti allo stesso gruppo, ovvero riconducibili allo stesso proprieta-rio o a parenti/affini entro il 3° grado, nonché le imprese legate da un contratto di rete.

In queste casistiche il Ministero prevede che le comunicazioni di assunzio-ne, trasformazione, proroga e cessazione che riguardano i lavoratori assunti congiuntamente da gruppi di impresa e da imprese legate da un contratto di rete siano effettuate dall’impresa capogruppo; nel caso delle imprese ricondu-cibili a parenti e affini, l’invio delle comunicazioni può essere affidato a un soggetto individuato di comune accordo, previo deposito di tale atto presso le associazioni di categoria con modalità che ne garantiscano la data certa di sot-toscrizione.

La legge n. 154/2016, c.d. “Collegato agricoltura”, entrato in vigore il 25 ago-sto 2016 ha previsto all’art. 18 novità sull’assunzione congiunta da parte di im-prese legate da un contratto di rete misto, ovvero, nel caso specifico, sottoscritto sia da imprese agricole che da imprese appartenenti a altri settori produttivi.

Dall’assunzione congiunta non si scaturiscono più rapporti di lavoro in ba-se a quante sono le imprese che utilizzeranno le prestazioni di lavoro ma uno solo.

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La norma ha agevolato lo strumento del contratto di rete misto che del settore agricolo, ma potrebbe diventare particolarmente allettante anche per imprese di altri settori produttivi.

Per godere della possibilità di fare assunzioni congiunte, le aziende non appartenenti al comparto agricolo possono essere presenti nel contratto di rete misto anche in misura superiore al 50% (limite precedente) e fino al 60%.

La percentuale viene calcolata esclusivamente sul numero di aziende stipu-lanti il contratto di rete, senza alcuna valutazione circa la dimensione delle stesse sia in termini di dipendenti che di fatturato. La norma, come anche le precedenti fonti normative, non si esprime su materie quali il contratto collettivo da applicare, la disciplina legale e pre-videnziale e su gli obblighi in materia di sicurezza sul lavoro.

5. La gestione del distacco nei gruppi d’Impresa

Con risposta a interpello n. 1 del 20 gennaio 2016 il Ministero del lavoro ha fornito, su sollecitazione di Confindustria, alcuni importanti chiarimenti in merito all’interpretazione del distacco all’interno dei gruppi di imprese.

Nell’interpello veniva chiesto se, anche nell’ambito dei gruppi di imprese, possa applicarsi, per analogia, quanto previsto nell’ambito del contratto di re-te, e cioè l’insorgenza automatica dell’interesse del distaccante, sostanzial-mente in forza del semplice operare della rete.

Dal punto di vista giuridico occorre rilevare la differente regolamentazione tra gruppi e reti d’impresa, anche se, parte della dottrina ha equiparato le due diverse tipologie.

Tuttavia le questioni per l’imputazione del rapporto di lavoro rimangono sul tavolo, atteso anche che solo nel contratto di rete si è prevista la co-datorialità dei dipendenti “ingaggiati” (così si esprime il legislatore).

I gruppi di imprese non assumono autonoma rilevanza come unico centro di imputazione dei rapporti: tale situazione le rende più vulnerabili di fronte ad un’eventuale sospetto di essere uno strumento di elusione di norme inderoga-bili, attraverso l’abuso delle diverse personalità giuridiche e delle differenti situazioni economiche, patrimoniali e finanziarie delle singole società che compongono il gruppo.

Nei gruppi di impresa rimane quindi il problema di capire nell’interesse di chi il lavoratore effettua la prestazione di lavoro: per utilizzare l’istituto del distacco, occorre un’analisi della struttura del gruppo finalizzata a verificare se, tra le varie società, si sia realizzata quella confusione di interessi, attività e

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gestione sociale così intensa da rendere labili i confini originari tra l’una e le altre imprese.

Secondo il Ministero del Lavoro «l’aggregazione in un gruppo di imprese si caratterizza per il potere di controllo e direzione che una società del gruppo esercita sulle altre in virtù dell’art. 2359 c.c.». Da ciò ne fa derivare che «può ritenersi che anche nel gruppo di imprese venga condiviso un medesimo dise-gno strategico finalizzato al raggiungimento di un unitario risultato economico che trova, peraltro, rappresentazione finanziaria nel bilancio consolidato di gruppo».

Un gruppo è comunemente definito come un insieme di unità tra loro auto-nome dal punto di vista giuridico, assoggettate ad un unico soggetto economi-co (società capogruppo o holding) che esercita il controllo attraverso un in-fluenza dominante. Il controllo può essere esercitato attraverso il possesso di-retto o indiretto della totalità o della maggioranza delle azioni della controlla-ta. L’influenza può anche esercitarsi indirettamente, a cascata, attraverso il controllo diretto di una società che a sua volta ne controlla un’altra ecc.. Biso-gna però ribadire la specificità del contratto di rete con previsione della co-datorialità nonché dell’esistenza del programma di rete, all’interno del quale sono identificabili tre elementi come la collaborazione tra le imprese del con-tratto, lo scambio di informazioni e l’esercizio comune di alcune attività rien-tranti nell’oggetto. Il che va oltre il dato della connessione economica rive-niente dal bilancio consolidato delle imprese di un gruppo e dall’attività di di-rezione e controllo. Così come non si può dimenticare che se è vero che, ai sensi dell’art. 31, comma 1, d.lgs. n. 276/2003, i gruppi di impresa, individuati ai sensi dell’art. 2359 c.c. possono delegare lo svolgimento degli adempimenti in materia di lavoro e previdenza alla società capogruppo per tutte le società controllate e collegate, nondimeno al comma 3 si precisa che tale delega di funzioni non rileva ai fini dell’individuazione del soggetto titolare delle obbli-gazioni contrattuali e legislative in capo alle singole datrici di lavoro.

Il Ministero del lavoro evidenzia quindi che nelle ipotesi in cui il distacco dei lavoratori avvenga nell’ambito di un gruppo di imprese, il requisito del-l’interesse può essere ritenuto sussistente allo stesso modo di quanto accade per i contratti di rete.

Questo principio, invece, non sembra potersi applicare ai fondi integrativi di previdenza e assistenza cui partecipano, in qualità di soci, società apparte-nenti al medesimo gruppo; ciò in quanto, ai sensi della normativa istitutiva (d.lgs. n. 252/2005), i fondi integrativi assumono natura di nuovo soggetto giuridico, con propria e distinta autonomia rispetto alle società appartenenti al medesimo gruppo di imprese che li hanno istituiti.

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Dopo pochi mesi dall’interpello del Ministero del Lavoro, anche la Cassa-zione (n. 8068/2016) si pronuncia sull’applicazione ad un distacco disposto nell’ambito di un gruppo societario.

Per valutare l’esistenza di un interesse al distacco tra due imprese di un gruppo, la Cassazione attribuisce rilevanza decisiva all’accertamento in con-creto, compiuto dal giudice del gravame, dell’esistenza di un “sistema di ge-stione integrata di servizi”, consistente «nell’accentramento presso un unico ufficio dell’amministrazione del personale delle società del gruppo».

Se anche rispetto al gruppo si può configurare l’interesse di ciascun com-ponente «a concorrere […] alla realizzazione di comuni strutture produttive e organizzative», l’esistenza di queste strutture comuni non può darsi per pre-supposta, ma deve essere concretamente accertata. Come peraltro conferma l’art. 31, comma 1, d.lgs. cit., consentendo (e non presumendo) la delega alla capogruppo proprio per gli adempimenti di gestione di tutto il personale.

La sentenza risulta importante soprattutto perché conferma la natura del di-stacco semplificato collocandola nella categoria giuridica della presunzione assoluta, vale a dire una presunzione contro la quale non è possibile dare pro-va contraria.

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L’Alternative Investment Market Italia (AIM Italia) Luciano M. Quattrocchio-Bianca M. Omegna

SOMMARIO

1. Premessa. – 2. Le fonti normative. – 3. Le caratteristiche dell’Alternative Investment Market (AIM). – 4. I requisiti di ammissione. – 5. Il team di consulenti. – 6. Il processo di quotazione sull’AIM. L’Initial Public Offering (IPO). – 7. La fase successiva all’ammisione. – 7.1. I requisiti formali. – 7.2. Le negoziazioni. – 8. Conclusioni. – Bibliografia.

1. Premessa

L’Alternative Investment Market Italia (Mercato Alternativo del Capitale) 1 – meglio noto come AIM Italia – è un mercato di Borsa Italiana e, più specifi-camente, un sistema multilaterale di negoziazione (Multilateral Trading Faci-lity o MTF), regolamentato e gestito da Borsa Italiana e non sottoposto alla vi-gilanza di CONSOB.

Esso è rivolto alle piccole e medie imprese con un elevato potenziale di crescita; spesso si tratta di imprese di piccole dimensioni, che assumono – in alcuni settori di nicchia –un ruolo significativo a livello globale. Poiché la cre-scita di tali imprese svolge una funzione fondamentale per il progresso dell’e-conomia, assume particolare importanza il loro accesso a mercati in cui possa-no reperire i finanziamenti necessari per l’innovazione e lo sviluppo.

L’AIM Italia ha iniziato la propria attività nel dicembre 2008 e, nel marzo 2012, ha avuto luogo l’unificazione del mercato AIM Italia con il Mercato Al-ternativo dei Capitali (MAC).

AIM Italia si caratterizza per un’elevata visibilità a livello internazionale e per un processo di ammissione flessibile, costruito su misura per le necessità di finanziamento delle PMI italiane, nel contesto competitivo globale. In sinte-si, AIM Italia offre alle imprese una serie di vantaggi:

1 Si veda, al proposito, BORSA ITALIANA S.P.A, AIM Italia. Il mercato per fare impresa, London Stock Exchange Group, 2013.

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• flessibilità regolamentare: si basa su un regolamento flessibile, concepito per offrire un percorso semplificato alla quotazione e – al tempo stesso – a-dempimenti post-quotazione calibrati sulla struttura delle piccole e medie im-prese;

• centralità del Nomad: il Nomad è il consulente che accompagna la società durante la fase di ammissione e per tutta la permanenza sul mercato;

• requisiti di accesso semplificati rispetto al mercato principale: non è pre-vista una dimensione minima o massima della società in termini di capitaliz-zazione e, per quanto riguarda il flottante, è sufficiente una soglia minima del 10%. Non sono previsti requisiti particolari in tema di corporate governance né requisiti economico-finanziari specifici;

• visibilità internazionale: le imprese, attraverso la quotazione, possono ac-cedere più agevolmente a un mercato realmente globale, beneficiando di visi-bilità internazionale e godendo della credibilità conquistata dall’AIM.

Più in dettaglio, l’AIM Italia si carattaerizza per rapidità e costi contenuti rispetto al mercato principale, assicurando al contempo trasparenza e liquidità per gli investitori: i tempi previsti per la quotazione, infatti, sono molto più contenuti rispetto agli altri mercati e gli adempimenti successivi alla quotazio-ne consistono esclusivamente nella pubblicazione del bilancio e della relazio-ne semestrale, nonché delle informazioni price sensitive.

Inoltre, le società quotate sull’AIM Italia – a differenza delle società quotate in altri segmenti di Borsa Italiana – sono assistite dal Nomad (Nominated Advi-ser), un consulente che le supporta negli adempimenti funzionali alla quotazione, ne garantisce la trasparenza informativa e tutela la reputazione del mercato. È il soggetto responsabile nei confronti di Borsa Italiana, incaricato di valutare l’ap-propriatezza della società ai fini dell’ammissione e – in seguito – di assisterla, guidarla e accompagnarla per tutto il periodo di permanenza sul mercato AIM.

La quotazione sull’AIM, nel contempo, migliora l’accesso ai finanziamenti e consente di diversificarne le fonti, consente l’ampliamento della compagine societaria, aumenta la visibilità internazionale e rafforza la credibilità, e per-mette – altresì – l’introduzione di piani di incentivazione del management e dei dipendenti.

Infine, la quotazione sull’AIM si caratterizza per l’assenza di criteri di ammissione specifici: infatti, non vi sono limiti alla dimensione della società in termini di capitalizzazione, non sono previsti requisiti economico-finanziari particolari né condizioni di corporate governance. D’altronde, le caratteristi-che ideali delle società ammesse (dimensioni, flottante, corporate governance) sono assicurate al mercato stesso grazie alla presenza del Nomad, incaricato – come si è detto – di accompagnare la società quotanda a partire dalla fase di

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ammissione e per tutto il periodo di permanenza sul mercato, nonché – in tale prospettiva – di redigere il documento di ammissione, che riporta le informa-zioni riguardanti l’attività, gli azionisti e i dati economico-finanziari.

2. Le fonti normative

La disciplina del mercato AIM Italia si articola in due regolamenti princi-pali predisposti da Borsa Italiana – il “Regolamento Emittenti” e il “Regola-mento Nominated Advisers” (Regolamento Nomad) –, integrati dal “Manuale delle Procedure di Accertamento delle Violazioni e Impugnazioni” e dal “Re-golamento degli operatori e delle Negoziazioni”.

Il Regolamento Emittenti e il Regolamento Nomad sono stati redatti sulla base delle “AIM Rules for companies” e delle “AIM Rules for Nominated Ad-visers” del London Stock Exchange, con alcuni adattamenti volti a rispondere alle peculiarità della realtà economica e imprenditoriale italiana.

Più in particolare, il Regolamento Emittenti definisce la procedura di am-missione e gli obblighi in via continuativa per gli emittenti ammessi alle ne-goziazioni sul mercato AIM Italia; mentre, il Regolamento Nomad stabilisce i criteri di ammissione, il ruolo e l’attività su base continuativa e gli aspetti di-sciplinari relativi ai Nomad.

3. Le caratteristiche dell’Alternative Investment Market (AIM)

L’Alternative Investment Market 2 è uno dei mercati borsistici più grandi e più importanti del mondo, anche se non può essere considerato propria-mente un mercato regolamentato, ma piuttosto un mercato regolato. È stato lanciato nel 1995 al London Stock Exchange e oggi conta più di 3.600 so-cietà quotate provenienti da tutto il globo.

L’AIM è dedicato alle imprese “small business”, ossia alle PMI (piccole e medie imprese) con un elevato potenziale di crescita che intendono racco-gliere capitale in borsa. Al suo interno sono presenti anche società nella fase early stage, imprese che cercano investitori di venture capital, nonché società affermate e solide alla ricerca di nuove fonti di capitale, per espandere ulte-riormente il loro business.

2 Sul punto, si veda: http://www.londonstockexchange.com/companies-and-advisors/aim/ aim/aim.htm, oltre a LONDON STOCK EXCHANGE PLC, A guide to AIM, 2015.

137 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

Le società che intendono entrare nel mercato AIM non devono necessaria-mente avere un track record storico della loro situazione finanziaria; ciò in quanto il regolamento del mercato è stato realizzato appositamente dal London Stock Exchange Group, con l’obiettivo che qualsiasi piccola e media impresa possa facilmente accedere alla borsa.

Inoltre, l’Alternative Investment Market garantisce la presenza di numerosi stakeholder, tra i quali alcuni svolgono funzioni fondamentali per le società che vogliono accedere al mercato. Fra questi, i Nomad – cui si è accennato precedentemente – giocano un ruolo centrale per la quotazione, oltre agli av-vocati, ai consulenti contabili e ai broker, e cioè gli stessi soggetti fondamen-tali per le società quotande nel Main Market.

Sfruttando i benefici dell’integrazione con la piazza di Londra, che ospita una delle comunità finanziarie più importanti al mondo nel comparto small&medium caps, AIM Italia si propone a un ampio numero di investitori internazionali (isti-tuzionali, privati e fondi di Private Equity) che possono trovare in AIM Italia un nuovo canale per ampliare le loro opportunità di investimento in società di dimen-sioni più piccole o più giovani rispetto a quelle presenti sul mercato regolamenta-to, ma con un alto potenziale di crescita.

Dal canto loro, le imprese – attraverso AIM Italia – possono accedere a un mercato globale, beneficiando di visibilità internazionale e godendo della cre-dibilità conquistata dall’AIM inglese.

Come già si è detto, non si tratta di un mercato regolamentato – come defi-nito dall’art. 1, comma 1, lett. w-ter), d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (TUF) –, ma di un sistema multilaterale di negoziazione exchange regulated, ossia re-golato da Borsa Italiana stessa.

Quindi, non essendo un mercato regolamentato, non è richiesta – in fase di ammissione e/o di collocamento degli strumenti finanziari sul mercato – la pubblicazione di un prospetto informativo, salvo qualora ricorrano i presuppo-sti di applicazione (ad esempio in caso di offerta al pubblico) e di inapplicabi-lità del relativo regime derogatorio.

È un mercato dedicato principalmente a strumenti finanziari azionari, ma aperto anche ad altri (quali warrant e obbligazioni convertibili), a condizione che sia garantita al pubblico la disponibilità di informazioni dettagliate su tali strumenti e sia assicurato un mercato regolare per gli stessi.

La procedura di ammissione è semplificata e non comporta l’istruttoria dell’autorità di vigilanza: la due-diligence è condotta dal Nomad, soggetto in-caricato di valutare l’appropriatezza della società ai fini dell’ammissione al mercato e di assisterla e supportarla nell’assolvimento dei compiti e delle re-sponsabilità derivanti dal Regolamento Emittenti AIM Italia, per tutto il pe-riodo di permanenza sul mercato. L’emittente deve, inoltre, mantenere in via

138 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

continuativa un operatore specialista incaricato di sostenere la liquidità sul ti-tolo.

Dal lato della domanda, AIM Italia è un mercato accessibile agli investitori qualificati e – in fase di rivendita – agli investitori retail. Gli investitori quali-ficati possono acquistare titoli in fase di collocamento nell’ipotesi di offerta al pubblico, fermo restando – in questo caso – l’obbligo per l’emittente di redi-gere il prospetto informativo. Dopo la quotazione del titolo, gli investitori re-tail possono invece negoziare liberamente sul mercato secondario i titoli scambiati sull’AIM Italia, attraverso il loro broker o la loro banca.

Al proposito, occorre sottolineare che le operazioni di rivendita effettuate sull’AIM Italia non sono soggette alla disciplina in tema di offerta al pubblico, in quanto non sono applicabili le disposizioni di cui all’art. 100-bis, commi 2 e 3, t.u.f.

La liquidità del mercato – in termini di numero di scambi giornalieri – è garantita da un operatore specialista, attraverso lo svolgimento di attività di negoziazione in conto proprio.

Le categorie di soggetti che possono partecipare alle negoziazioni nel mer-cato AIM Italia e i relativi requisiti di partecipazione sono – in larga parte – gli stessi indicati per gli altri mercati gestiti da Borsa Italiana. È inoltre previ-sta una procedura agevolata di membership per gli intermediari che sono ade-renti ai mercati del Gruppo London Stock Exchange.

Le PMI beneficiano di enormi vantaggi con l’ammissione alla quotazione nell’AIM, anche e soprattutto per la grande liquidità che può garantire e per l’elevato profilo degli investitori che vi operano. In particolare, un’impresa che intenda accedere all’Alternative Investment Market può beneficiare 3:

• di uno dei mercati di capitale più liquido e vasto di tutto il mondo, in grado di supportare qualsiasi tipo di investimento in ogni fase di vita di un’impresa;

• della quotazione in un mercato specifico dedicato alle PMI; • del supporto di consulenti rinomati ed esperti, soprattutto per le imprese

che intendono trasformarsi in realtà internazionali; • di un profilo di investimento di livello più elevato e di una migliore im-

magine in ambito finanziario e a livello internazionale, grazie alla quotazione in un mercato borsistico;

• di una regolamentazione flessibile, dinamica ed in grado di adattarsi a tut-te le PMI.

3 Sul punto, si veda: http://www.londonstockexchange.com/companies-and-advisors/aim/ for-companies/international/international.htm.

139 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

4. I requisiti di ammissione

A differenza dei mercati regolamentati, per l’ammissione all’AIM Italia non sono richiesti requisiti minimi, né in termini di capitalizzazione, né sotto il profilo della corporate governance (salvo l’obbligo generale di adottare e mantenere appropriate regole di governo societario) o specifici requisiti eco-nomico finanziari. È, infatti, demandata al Nomad la valutazione circa l’appro-priatezza dell’emittente all’ammissione sul mercato AIM Italia, attestata tra-mite la dichiarazione rilasciata a Borsa Italiana dal Nomad stesso. È – pertanto – il mercato, attraverso la figura del Nomad, a definire la dimensione ideale delle società ammesse al mercato e i presidi in termini di corporate governan-ce che meglio tutelino gli azionisti di minoranza.

Ai fini dell’ammissione, è richiesta la presenza di un flottante minimo. Tale condizione si presume realizzata quando le azioni sono ripartite presso gli in-vestitori – non parti correlate né dipendenti della società o del gruppo – per almeno il 10% del capitale sociale, all’esito di un collocamento da effettuarsi contestualmente o in prossimità dell’ammissione alle negoziazioni sul mercato (entro 2 mesi).

L’inizio delle negoziazioni è condizionato al buon esito dell’offerta, che si considera realizzato quando le azioni sono state sottoscritte da almeno 5 inve-stitori professionali o da 12 investitori, di cui almeno 2 professionali. Laddo-ve, per effetto del collocamento, le azioni siano state sottoscritte solo dal nu-mero minimo di investitori professionali richiesto, ciascuna di tali sottoscri-zioni non deve essere di importo esiguo o comunque irrisorio, ossia non deve essere meramente finalizzata al rispetto della soglia minima di flottante richie-sta (10%).

Come si è già sottolineato, il requisito principale che una società deve sod-disfare per l’ammissione all’AIM Italia è la presenza continua del Nomad, sia nella fase di pre-ammissione che in quella di post-ammissione.

In fase di ammissione, l’emittente deve predisporre soltanto il documento di ammissione, nel quale sono riportate le informazioni relative all’attività del-la società, al management, agli azionisti e ai dati economico-finanziari. La struttura del documento di ammissione segue il modello dello schema di pro-spetto previsto dal Regolamento 809/2004/CE di attuazione della “Direttiva Prospetti”, ma contiene un minor numero di informazioni, in particolare di na-tura economico-finanziaria (ad esempio, è richiesto un solo bilancio soggetto a revisione e non sono richieste le informazioni finanziarie pro-forma). L’emit-tente è tenuto a predisporre il documento di ammissione anche quando è esen-tato dalla pubblicazione di un prospetto informativo ai sensi della “Direttiva Prospetti”.

140 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

In sintesi, a differenza dei mercati regolamentati, AIM Italia stabilisce solo alcuni requisiti minimi di ammissione:

• il requisito fondamentale è la presenza continua del Nomad, sia nella fase di pre-ammissione sia in quella di post-ammissione;

• non è prevista una dimensione minima o massima della società in termini di capitalizzazione;

• è prevista una soglia minima di azioni sul mercato in termini di flottante, che deve essere almeno del 10% (suddiviso tra almeno 5 investitori professio-nali o 10 investitori di cui 2 professionali);

• non sono previsti requisiti particolari in tema di corporate governance; • non sono previsti requisiti economico-finanziari specifici.

Il Nomad, nel corso degli incontri preliminari, deve valutare il potenziale apprezzamento della società da parte degli investitori, in base al generale con-testo di mercato, al settore di appartenenza, al track record, alle prospettive di crescita e – all’esito di tale verifica – deve consigliare la società in merito al-l’opportunità di intraprendere il procedimento di quotazione.

Infine, come accennato, in fase di ammissione, la società deve predisporre soltanto il documento di ammissione, che riporta le informazioni utili per gli investitori relative all’attività della società, al management, agli azionisti e ai dati economico-finanziari; e, una volta quotata, la società non deve presentare i resoconti trimestrali di gestione, ma solo il bilancio e la relazione semestrale; inoltre, non deve pubblicare altra documentazione per effettuare aumenti di capitale successivi.

5. Il team di consulenti

Fra i consulenti che devono accompagnare la società, si annoverano: il Nomad, il Global Coordinator, lo specialista e gli altri consulenti.

In particolare, il Nomad deve essere autorizzato da Borsa Italiana e iscritto in un apposito registro. La qualifica di Nomad viene attribuita da Borsa Italia-na al soggetto che ne faccia domanda, a seguito di una procedura di ammis-sione condotta sulla base di una valutazione discrezionale circa il rispetto dei requisiti stabiliti nel Regolamento Nomad. Una volta attribuita tale qualifica, il Nomad viene iscritto in un registro tenuto da Borsa Italiana.

Per assumere la qualifica di Nomad è necessario rispettare i criteri di am-missione definiti da Borsa Italiana:

• avere la forma di societa di capitali, nota al mercato e con adeguata

141 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

professionalità, con un consiglio di amministrazione; • avere sottoposto il bilancio al giudizio di una societa di revisione; • avere esercitato attività di corporate finance per un periodo di tempo suf-

ficiente (di norma pari ad almeno due anni) 4 e avere un’esperienza adeguata nella consulenza professionale, anche in relazione ad operazioni di corporate finance 5;

• avere un numero di dipendenti sufficiente per svolgere le attività richie-ste;

• avere key executives, dotati di adeguata professionalità ed esperienza – comprovata da un adeguato numero di operazioni rilevanti – e di particolare competenza tecnica in corporate finance e in pratiche di mercato; essi devono avere – altresì – un’adeguata conoscenza del quadro legale e regolamentare delle attività di corporate finance, nonché del Regolamento Nominated Advi-sers e del Regolamento Emittenti;

• disporre di adeguati controlli e procedure, al fine di rispettare il Regola-mento Nominated Advisers, così come specificato nel manuale di compliance in materia di corporate finance 6.

Il Nomad può essere una banca d’affari, un intermediario o una società che opera prevalentemente nel settore corporate finance 7. Il suo compito, essen-zialmente, è quello di valutare l’appropriatezza della società ai fini dell’am-missione al mercato, supportarla nel mantenere un profilo adeguato di traspa-renza informativa nei confronti degli investitori, stimolare l’attenzione al ri-spetto delle regole conseguenti alla quotazione su AIM Italia, massimizzando-ne i benefici.

I principali compiti del Nomad, così come previsti dai regolamenti di AIM Italia, sono:

• effettuare la due diligence descritta nel Regolamento AIM Italia al fine di valutare se la società è idonea all’ammissione sul mercato;

4 Borsa Italiana, nel valutare l’adeguatezza del periodo di esercizio di attività di corporate finance, può non tenere conto del riferimento temporale di 2 anni quando ritenga che il richie-dente abbia key executives di elevata esperienza (ad esempio quando i key executives proven-gono da un nominated adviser preesistente).

5 Deve, in particolare, avere effettuato un numero di operazioni rilevanti. 6 Per le banche e le imprese di investimento questo criterio si intende già soddisfatto. 7 Anche se l’attività di Nomad non comporta necessariamente la prestazione di servizi

di investimento (salvo che il Nomad sia coinvolto nella fase del collocamento) e, pertanto, non deve considerarsi attività riservata a soggetti autorizzati.

142 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

• gestire il processo di quotazione, coordinando il team di consulenti, defi-nendone la tempistica e guidando la società nella redazione del documento di ammissione;

• svolgere attività di consulenza a favore dell’impresa, una volta quotata, circa gli adempimenti previsti dal Regolamento emittenti.

In definitiva, il Nomad assiste la società quotata su AIM Italia per tutto il periodo di permanenza sul mercato.

Il Nomad valuta l’appropriatezza di un emittente che presenta domanda di ammissione all’AIM Italia, effettuando verifiche sullo stesso e sui suoi stru-menti finanziari, sullo svolgimento dell’attività di due diligence, sulla comple-tezza e conformità del documento di ammissione nonché sulla conoscenza dell’emittente degli obblighi previsti dal Regolamento Emittenti.

In definitiva, il Nomad svolge attività di assistenza e di supporto dell’emit-tente AIM Italia secondo quanto previsto dal Regolamento Nominated Advi-sers e dal Regolamento Emittenti, sia in occasione dell’ammissione sia su ba-se continuativa in seguito all’ammissione.

La società che intende quotarsi su AIM Italia deve – poi – scegliere un Global Coordinator Broker, ovvero un intermediario – iscritto al Registro dei Nomad – che partecipa ai mercati di Borsa Italiana, con il compito di col-locare i titoli della società sul mercato, dopo aver definito con quest’ultima la tipologia di investitori target, il prezzo più adeguato e la strategia di inve-stor relations da adottare. La figura del Global Coordinator Broker e quella del Nomad possono coincidere nel caso in cui il Nomad sia un intermediario autorizzato.

Una volta ammessa, la società deve – inoltre – dotarsi di uno specialista, con il compito di sostenere la liquidità del titolo. Non sempre lo specialista coincide con il Global Coordinator Broker che ha collocato i titoli in fase di ammissione.

Infine, la società quotanda deve individuare un team di consulenti chiamati a svolgere le proprie prestazioni al fianco del Nomad durante il processo di quotazione, in modo che tutte le attività siano perfettamente coordinate e pia-nificate per rispettare la tempistica prevista per la quotazione.

Il team di consulenti è costituito da diversi soggetti a seconda delle esigen-ze della società e della complessità dell’operazione: lo studio legale, la società di revisione, l’advisor finanziario, la società di comunicazione e il consulente in investor relations.

143 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

6. Il processo di quotazione sull’AIM. L’Initial Public Offering (IPO)

L’offerta pubblica iniziale 8 – meglio nota con il termine IPO (Initial Public Offering) – è una particolare tipologia di offerta pubblica di vendita o di sotto-scrizione, finalizzata all’ammissione alla quotazione su un mercato regola-mentato 9.

Essendo rivolta ad un pubblico indistinto di investitori, l’offerta pubblica iniziale rappresenta una sorta di invito al finanziamento della società ed è pro-prio a questo fine che – nel periodo antecedente al giorno dell’effettiva quota-zione – la società, assieme ai propri advisor, promuove numerosi incontri con la comunità finanziaria ed alcuni road show.

Come è agevole desumere dalla Tabella di seguito riportata, gli adempi-menti nella fase dell’IPO sono semplificati rispetto a quelli richiesti negli altri segmenti di Borsa Italiana.

Requisiti formali in fase di IPO: confronto tra mercati

MTA AIM Italia

STANDARD STAR

Flottante 25% 35% 10%

Bilanci certificati 3 3 1 (se esistente)

Principi contabili Internazionali Internazionali Italiani o internazionali

Offerta Istituzionale/retail Istituzionale/retail Principalmente istitu-zionale

Altri documenti

Prospetto informativo Prospetto informativo

Documento di ammis-sione

SCG SCG

Piano Industriale Piano Industriale

QMAT QMAT

8 In proposito, si veda; LONDON STOCK EXCHANGE PLC, A guide to AIM, 2015. Ulteriori informazioni posso essere tratte dal seguente link http://www.borsaitaliana.it/bit

App/glossary.bit?target=GlossaryDetail&word=IPO%20-%20Offerta%20Pubblica%20Iniziale. 9 Citazione tratta dal seguente link: http://www.borsaitaliana.it/bitApp/glossary.bit?target=

GlossaryDetail&word=IPO%20-%20Offerta%20Pubblica%20Iniziale.

(Segue)

144 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

Market cap (€) Min €40 mil Min €40 mil – Max 1 bn

Nessun requisito formale

CDA (n. indi-pendenti)

Raccomandato (codice di corporate governance)

Obbligatorio (N. nel Regolamento)

Nessun requisito formale

Comitato Con-trollo e Rischi

Raccomandato (codice di corporate governance)

Obbligatorio Nessun requisito formale

Comitato Remunerazione

Raccomandato (codice di corporate governance)

Obbligatorio Nessun requisito formale

Incentivi al Top Management

Raccomandato (codice di corporate governance)

Obbligatorio (remune-razione legata a per-formance)

Nessun requisito formale

Investor Relator Raccomandato Obbligatorio Non obbligatorio

Sito web Obbligatorio Obbligatorio Obbligatorio

Principale Advisor Sponsor/Global Coordinator

Sponsor/Global Coor-dinator

Nomad

Fonte: http://www.borsaitaliana.it/azioni/mercati/comequotarsi/ilmercatogiusto/ilmercato giusto.htm.

Come già si è detto, le figure principali che assistono l’impresa nel lancio di una IPO sono 10 il global coordinator, lo sponsor, lo specialist, l’advisor fi-nanziario, gli studi legali e i membri del consorzio di collocamento.

Nell’AIM Italia – così come in quello di Londra – tutto ruota attorno alla figura del Nomad, che è – tra l’altro – incaricato di analizzare il potenziale ap-prezzamento di una società da parte dei possibili investitori, sulla base del co-ntesto generale del mercato, del settore di appartenenza, del track record e delle prospettive di sviluppo 11.

Nel caso in cui il Nomad e la società valutino positivamente l’ingresso in borsa, quest’ultima deve soltanto predisporre il documento di ammissione, che riporta un’adeguata informativa sul business, sul management, sugli

10 L’elenco è tratto da: http://www.borsaitaliana.it/bitApp/glossary.bit?target=Glossary Detail&word=IPO%20-%20Offerta%20Pubblica%20Iniziale.

11 Si veda, al proposito, http://www.borsaitaliana.it/azioni/mercati/aim-italia/requisitiaim italia/requisitiaimitalia.htm.

145 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

azionisti e sui risultati economici e su quelli finanziari. Le fasi del processo di IPO, specifiche dell’AIM Italia, sono riassunte nella

seguente Tabella.

Fasi del processo di quotazione sull’AIM Italia

Fonte: BORSA ITALIANA S.P.A., AIM Italia. Il mercato per fare impresa, London Stock Exchange

Group, 2013.

Occorre, anzitutto, dare corso alle attività preparatorie alla quotazione 12, fra le quali – in particolare – la due diligence a cura del Nomad.

Successivamente, a 12 settimane dal lancio dell’offerta pubblica iniziale, la società deve provvedere – con sollecitudine e attraverso l’aiuto del Nomad – a risolvere le eventuali problematiche insorte durante la fase di due diligence. È, inoltre, fondamentale, in questo stadio del processo, prendere i primi contatti con gli analisti, procedere alla valutazione della società e, soprattutto, predi-sporre la bozza del documento di ammissione al mercato.

Poi, generalmente, a sole 6 settimane dal lancio dalla quotazione, si com-pleta la due diligence e la documentazione e si dà il via ai road show per i po-tenziali investitori. Successivamente, a 10 giorni dall’IPO, viene fatta la co-municazione pre-ammissione.

Infine, nell’ultima settimana, avviene il completamento della domanda e la pubblicazione dei documenti di ammissione e di collocamento dell’offerta. È in quest’ultimo periodo che si definisce il prezzo delle azioni e avviene il col-locamento dell’offerta sul mercato.

12 BORSA ITALIANA S.P.A., AIM Italia. Il mercato per fare impresa, London Stock Ex-change Group, 2013, p. 4.

146 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

7. La fase successiva all’ammissione

7.1. I requisiti formali Come è agevole desumere dalla Tabella sotto riportata, i requisiti formali

richiesti ad AIM Italia dopo l’IPO sono molto più snelli rispetto a quelli previ-sti per gli altri segmenti di Borsa Italiana.

Requisiti formali dopo l’IPO: confronto tra mercati

MTA

AIM Italia Standard STAR

Corporate Governance Comply or explain Parzialmente obbligatorio Facoltativo

Specialist Facoltativo (liquidity provider)

Obbligatorio (liquidity provider/2 ricerche/in-contri con investitori)

Obbligatorio (liquidity provider)

Disclosure

Necessario price sensi-tive e operazioni stra-ordinarie (TUF e Re-golamento Emittenti)

Necessario price sensitive e operazioni straordinarie (TUF e Regolamento Emittenti)

Necessario price sensi-tive e operazioni straor-dinarie (Regolamento AIM)

Related parties Procedure e obblighi informativi

Procedure e obblighi in-formativi

Procedure semplificate e obblighi informativi

Quarterly data

I-III resoconto inter-medio di gestione entro 45 giorni da chiusura trimestre

I-III resoconto intermedio di gestione entro 45 giorni da chiusura trimestre

No

Half year data Sì – entro 60 giorni da chiusura semestre

Sì – entro 60 giorni da chiusura semestre

Sì – entro 3 mesi da chiusura semestre

Annual report Sì – pubblicazione en-tro 120 giorni da chiu-sura esercizio

Sì – se entro 90 giorni da chiusura esercizio no IV trimestrale

Sì – pubblicazione en-tro 6 mesi da chiusura esercizio

Fonte: http://www.borsaitaliana.it/azioni/mercati/comequotarsi/ilmercatogiusto/ilmercato giusto.htm.

Dalla data di ammissione, l’emittente AIM Italia è tenuto a predisporre un’apposita sezione del proprio sito internet, dove possano essere messe a disposizione del pubblico tutte le informazioni previste dal Regolamento Emittenti. Gli emittenti hanno la possibilità di scegliere – quale lingua di riferimento – l’italiano o l’inglese.

Successivamente alla quotazione, la società è tenuta a pubblicare solo il bi-lancio e la relazione semestrale. A tale fine, può scegliere se redigere il pro-

147 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

prio bilancio di esercizio utilizzando i principi contabili internazionali (I.A.S. o I.F.R.S.) o quelli nazionali.

Sempre in tema di obblighi informativi è previsto un regime piuttosto stringente con riferimento sia all’informativa price-sensitive sia all’informa-tiva sulle operazioni societarie.

Ai fini dell’identificazione delle operazioni societarie oggetto di comunica-zione, il Regolamento Emittenti prevede parametri e modalità di calcolo speci-fici. In particolare, sono considerate significative (e devono quindi essere co-municate) tutte le operazioni societarie in cui almeno uno degli indici di rile-vanza previsti nel Regolamento Emittenti superi la soglia del 25%.

Quanto alla disciplina delle operazioni con parti correlate, la stessa è alli-neata alle disposizioni della regolamentazione CONSOB applicabile agli emit-tenti quotati su mercati regolamentati.

Sempre con riguardo agli obblighi informativi, sono previste – in tema di reverse take-over – soglie più restrittive rispetto a quelle valide per i mercati regolamentati 13. Se la società risultante da tali operazioni intende rimanere quotata nell’AIM Italia, deve presentare una nuova domanda ai fini della riam-missione 14.

Infine, l’obbligo di comunicazione di internal dealing scatta al superamen-to della soglia di Euro 50.000.

7.2. Le negoziazioni Le negoziazioni dei titoli su AIM Italia si svolgono secondo le modalità di

asta e di negoziazione continua. Le fasi di negoziazione sono le seguenti:

• asta di apertura, articolata a sua volta nelle fasi di determinazione del prezzo teorico d’asta di apertura (“pre-asta”) e nella conclusione dei contratti (“apertura”);

• negoziazione continua; • asta di chiusura, articolata a sua volta nelle fasi di determinazione del

prezzo teorico d’asta di chiusura (“pre-asta”) e di conclusione dei contratti (“chiusura”).

13 Il superamento di tali soglie potrebbe comportare la revoca dalle negoziazioni degli strumenti finanziari.

14 Salvo le società di investimento, alle condizioni di cui al Regolamento Emittenti.

148 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

8. Conclusioni

In conclusione, i requisiti e gli adempimenti richiesti dall’AIM Italia – sia nelle fasi precedenti sia in quelle successive alla quotazione – sono molto più snelli rispetto a quelli previsti per gli altri segmenti di mercato.

Innanzitutto, per l’ammissione alla quotazione sull’AIM Italia, è necessario che il flottante della società sia pari ad almeno il 10% del capitale, che vi sia per lo meno un bilancio oggetto di revisione e che si osservino quantomeno i principi contabili italiani.

È, altresì, richiesta l’esistenza di un sito web e la presentazione del docu-mento di ammissione per il lancio dell’IPO.

A differenza dell’MTA (Mercato Telematico Azionario), non è richiesta una capitalizzazione minima di mercato, un comitato e/o un membro indipen-dente del consiglio di amministrazione e non è necessario avere un investor relator. Tuttavia, come ricordato più volte, è fondamentale la presenza del Nomad.

Come per l’MTA, è invece fondamentale la divulgazione (disclosure) di tutte le notizie connesse ad eventuali operazioni straordinarie, price sensitive e/o all’esistenza di parti correlate (related parties).

Per una più agevole consultazione, nella tabella seguente sono indicati sin-teticamente i requisiti pre e post IPO.

Requisiti pre e post IPO sull’AIM Italia

AIM Italia

Requisiti pre-IPO Requisiti post-IPO

Flottante 10% Corporate Governance Facoltativo

Bilanci certifi-cati 1 (se esistente) Specialist Obbligatorio (liquidity

provider)

Principi conta-bili Italiani o internazionali Disclosure

Necessario price sensitive e operazioni straordinarie (Regolamento AIM)

Offerta Principalmente istituzio-nale

Related parties Procedure semplificate e obblighi informativi

Altri documenti Documento di ammissione Quarterly data No

Market cap (€) Nessun requisito formale Half year data Sì – entro 3 mesi da chiu-sura semestre

(Segue)

149 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

CDA (n. indi-pendenti) Nessun requisito formale Annual report Sì – pubblicazione entro 6

mesi da chiusura esercizio

Comitato Con-trollo e Rischi Nessun requisito formale

Comitato Remunerazione Nessun requisito formale

Incentivi al Top Management Nessun requisito formale

Investor Rela-tor Non obbligatorio

Sito web Obbligatorio

Principale Advisor Nomad

Fonte: http://www.borsaitaliana.it/azioni/mercati/comequotarsi/ilmercatogiusto/ilmercato giusto.htm e http://www.borsaitaliana.it/azioni/mercati/comequotarsi/ilmercatogiusto/ ilmercatogiusto.htm.

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150 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

Le relazioni del curatore e del commissario giudiziale: criteri di redazione Luciano M. Quattrocchio-Bianca M. Omegna

SOMMARIO

1. La relazione del curatore. – 1.1. Premessa. – 1.2. Il contenuto. – 1.2.1. Premessa. – 1.2.2. Cronistoria. – 1.2.3. I dati di bilancio. – 1.2.4. Cause del dissesto. – 1.2.5. Circostanze del fallimento. – 1.2.6. Diligenza del fallito e degli organi sociali. – 1.2.7. Situazione dell’attivo fallimentare. – 1.2.8. Situazione del passivo fallimentare. – 1.2.9. Nomina dei collaboratori. – 1.2.10. Situazione del fallimento. – 1.2.11. Fatti di rilievo per eventuali responsabilità del-l’imprenditore o degli ordini societari, di soci o di terzi. – 1.2.12. Considerazioni finali. – 1.3. I soggetti legittimati alla consultazione. – 1.4. Gli orientamenti giurisprudenziali. – 2. La relazione del commissario giudiziale. – 2.1. Premessa. – 2.2. Il contenuto. – 2.3. La rela-zione del commissario giudiziale nel concordato con continuità aziendale. – 2.4. I soggetti legittimati alla consultazione. – 2.5. L’orientamento della giurisprudenza. – Bibliografia.

1. La relazione del curatore

1.1. Premessa La relazione del curatore deve essere depositata entro 60 giorni dal deposi-

to in cancelleria della sentenza di fallimento. Il termine di 60 giorni non è pe-rentorio e non vi sono sanzioni o altre conseguenze in caso di ritardo nel depo-sito: il curatore deve, tuttavia, presentare al giudice delegato istanza di proroga dei termini di deposito, esponendone i motivi.

La relazione del curatore è volta a soddisfare due esigenze fondamentali:

• fornire al giudice delegato una visione globale della situazione dell’im-presa fallita, consentendo così un più agevole esercizio del suo potere di vigi-lanza;

• dare impulso all’attività del pubblico ministero, ai fini dell’eventuale e-sercizio dell’azione penale.

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1.2. Il contenuto La relazione si compone di una serie di parti, che possono essere come di

seguito articolate (S. LAPPONI).

1.2.1. Premessa

La premessa deve contenere:

• gli estremi della sentenza dichiarativa di fallimento; • i dati identificativi dell’imprenditore (individuale o collettivo).

1.2.2. Cronistoria

Deve contenere la storia dell’impresa (individuale o collettiva), con succin-te informazioni sulle principali vicende degli ultimi anni (es. operazioni straordinarie), oltre ad un’analitica descrizione di:

• organi sociali; • partecipazioni significative; • sedi secondarie; • ecc.

1.2.3. I dati di bilancio

Deve contenere l’esposizione e la comparazione dei bilanci degli ultimi cinque anni.

Dai dati di bilancio devono essere desunti i principali indici di bilancio:

• indice di natura patrimoniale; • indice di natura reddituale; • indice di natura finanziaria.

È opportuno anche svolgere un’analisi per flussi. A tale fine, è raccomandabile l’applicazione – mutatis mutandis – del do-

cumento del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti, Crisi d’impresa: Strumenti per l’individuazione di una procedura d’allerta, 2005.

1.2.4. Cause del dissesto Occorre distinguere fra:

• cause endogene

◦ carenza gestionale: produttiva, commerciale, amministrativa;

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◦ sottocapitalizzazione; ◦ assenza di merito creditizio: ◦ incapacità di innovazione;

• cause esogene:

◦ crollo dei mercati; ◦ revoca degli affidamenti; ◦ forza maggiore;

• cause criminose:

◦ artifici; ◦ simulazioni; ◦ occultamenti; ◦ falsificazioni; ◦ tenore di vita eccessivo.

1.2.5. Circostanze del fallimento È opportuno distinguere fra:

• circostanze prodromiche al fallimento:

◦ azioni esecutive; ◦ revoca degli affidamenti; ◦ eventi traumatici; ◦ cessazione dell’attività d’impresa;

• iniziative volte alla dichiarazione di fallimento:

◦ fallimento in proprio; ◦ fallimento su iniziativa dei creditori; ◦ fallimento su iniziativa della Procura; ◦ consecutio fra procedure.

1.2.6. Diligenza del fallito e degli organi sociali È opportuno separare l’esposizione in due parti:

• periodo antecedente alla dichiarazione di fallimento:

◦ capacità gestionale; ◦ diligenza amministrativa; ◦ sacrifici economici;

• durante la procedura:

◦ collaborazione (rilevante anche per l’esdebitazione).

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1.2.7. Situazione dell’attivo fallimentare Questa sezione deve essere compilata nei limiti dell’attività sino a quel

momento svolta:

• inventario dei beni mobili; • stima dei beni mobili e immobili; • crediti; • altre attività (partecipazioni, cauzioni, ecc.); • atti impugnati dai creditori e atti da impugnare ad opera della curatela; • azioni revocatorie; • azioni risarcitorie.

1.2.8. Situazione del passivo fallimentare

È opportuno distinguere fra:

• situazione debitoria risultante dalla contabilità; • situazione debitoria risultante dall’eventuale progetto di stato passivo (o sta-

to passivo definitivo); • beni di terzi.

1.2.9. Nomina dei collaboratori

Occorre dare atto della nomina di:

• periti; • legali; • coadiutori.

1.2.10. Situazione del fallimento

Occorre dare atto di:

• esercizio provvisorio; • realizzi; • azioni intraprese.

1.2.11. Fatti di rilievo per eventuali responsabilità dell’imprenditore o degli organi societari, di soci o di terzi

Occorre distinguere fra:

• ipotesi di responsabilità civile:

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◦ del fallito; ◦ degli organi societari; ◦ di soci e di terzi;

• ipotesi di responsabilità penale:

◦ bancarotta semplice; ◦ bancarotta fraudolenta; ◦ ricorso abusivo al credito; ◦ denuncia di creditori inesistenti; ◦ false comunicazioni sociali; ◦ appropriazione indebita; ◦ truffa; ◦ frode fiscale; ◦ altri reati.

Per la verifica dei presupposti per l’eventuale azione di responsabilità civi-le è opportuno accertare l’eventuale retrodatazione della perdita del capitale sociale.

Per un opportuno apprezzamento degli eventuali presupposti per l’azione penale è opportuno riportare le seguenti informazioni:

• eventuale retrodatazione dello stato di insolvenza; • concorso alla causazione del dissesto delle false comunicazioni sociali; • sintesi dell’attivo fallimentare; • sintesi del passivo fallimentare; • ricostruzione del disavanzo fallimentare giustificato e non giustificato.

La perdita del capitale sociale può essere soltanto un indice dello stato di insolvenza, che deve essere corroborato da ulteriori accertamenti attraverso l’analisi per indici e per flussi.

1.2.12. Considerazioni finali È opportuno inserire la riserva di ulteriori segnalazioni.

1.3. I soggetti legittimati alla consultazione La relazione può (tranne le parti secretate) essere consultata dal comitato

dei creditori e da chiunque sia portatore di un interesse effettivo ed attuale. L’art. 90 l.f., infatti, prevede espressamente: «Il comitato dei creditori e ciascun suo componente hanno diritto di pren-

dere visione di qualunque atto o documento contenuti nel fascicolo. Analogo

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diritto, con la sola eccezione della relazione del curatore e degli atti eventual-mente riservati su disposizione del giudice delegato, spetta anche al fallito.

III. Gli altri creditori ed i terzi hanno diritto di prendere visione e di estrarre copia degli atti e dei documenti per i quali sussiste un loro specifico ed attuale interesse, previa autorizzazione del giudice delegato, sentito il curatore».

1.4. Gli orientamenti giurisprudenziali Si riportano, di seguito, alcune massime giurisprudenziali in tema di rela-

zione del curatore:

• Tribunale Catania 25 gennaio 2014. Anche in ragione della previsione di cui all’art. 90 L.F., deve rigettarsi l’istanza del fallito volta a prendere visione e ad estrarre copia della relazione del curatore ex art. 33 l. fall. ove non si evinca alcun interesse dell’istante al relativo accesso.

• Appello Ancona 20 gennaio 2011. L’efficacia probatoria di quanto rife-rito dal curatore fallimentare nella relazione redatta ai sensi dell’articolo 33, legge fall. si atteggia diversamente a seconda che si tratti a) di fatti compiuti dal curatore o avvenuti in sua presenza; b) di fatti riferiti dal curatore ma di-versi da quelli indicati sub a); c) di semplici valutazioni od opinioni del cu-ratore. Nel primo caso la relazione ha efficacia di prova legale in quanto trat-tasi di atto formato da pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni, il quale fa piena prova fino a querela di falso. Nel secondo caso, il giudice, in base al principio del libero convincimento, ha la possibilità di porre a fon-damento della decisione prove non espressamente previste dal codice di rito, purché sia fornita adeguata motivazione della relativa utilizzazione e purché tali prove “atipiche” non vengano utilizzate per aggirare divieti o preclusioni di carattere sostanziale o processuale. Per quanto, infine, riguarda le valuta-zioni od opinioni personali del curatore, è evidente la loro irrilevanza ai fini probatori.

• Tribunale Milano 18 gennaio 2011. La relazione del curatore, in quanto formata da pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni (art. 33, legge fallimentare) fa piena prova fino a querela di falso degli atti e dei fatti che il curatore attesta essere stati da lui compiuti o essere avvenuti in sua presenza. (Nel caso di specie, in mancanza di prova contraria, è stato ritenuto incontro-vertibile il fatto materiale, dichiarato dal curatore nella relazione, del mancato reperimento della cassa tra i beni aziendali).

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2. La relazione del commissario giudiziale

2.1. Premessa La relazione del commissario giudiziale deve essere depositata almeno 45

giorni prima dell’adunanza dei creditori. Il termine di 45 giorni è perentorio. La relazione del commissario giudiziale è volta a soddisfare tre esigenze

fondamentali:

• fornire ai creditori un giudizio sulla fattibilità economica della proposta concordataria e sulla sua convenienza economica rispetto al fallimento;

• fornire al tribunale tutti gli elementi utili ai fini della valutazione della fat-tibilità giuridica della proposta concordataria;

• in caso di proposte concorrenti, svolgere una particolareggiata compara-zione fra le stesse;

• dare impulso all’attività del pubblico ministero, ai fini dell’eventuale esercizio dell’azione penale.

2.2. Il contenuto La relazione del commissario giudiziale deve contenere le seguenti infor-

mazioni (Gruppo di Lavoro ODCEC di Modena):

• esame dei bilanci dei precedenti esercizi per individuare le principali cau-se dello stato di crisi che hanno indotto il debitore a presentare la proposta di concordato preventivo, il momento in cui tali cause si sono manifestate e se effettivamente abbiano condotto l’impresa all’insolvenza o all’incapacità di a-dempiere regolarmente le proprie obbligazioni;

• verifica dell’eventuale sussistenza di profili di responsabilità attribuibili ai componenti degli organi sociali, la consistenza patrimoniale degli stessi e l’eventuale compimento di operazioni che sarebbero potenzialmente soggette ad azione revocatoria in caso di fallimento. Tale attività è volta ad informare i creditori circa la convenienza della proposta di concordato rispetto ad altre so-luzioni concorsuali prospettabili, quali – appunto – il fallimento, nell’ambito del quale il curatore potrebbe promuovere azioni di responsabilità nei confron-ti degli organi sociali e azioni revocatorie fallimentari, precluse nell’ambito del concordato preventivo;

• accertamento della fattibilità del piano di concordato nei termini proposti dal debitore, evidenziandone i fattori di rischio e di criticità, sulla base della documentazione depositata in tribunale e di ogni altra informazione acquisita;

• verifica della corrispondenza dei saldi comunicati dai creditori con quanto

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esposto nell’elenco depositato dal debitore o dalle risultanze contabili e, se ne-cessario, aggiornamento degli importi;

• analisi sulla solvibilità dei debitori, sia sulla base dell’andamento storico dei pagamenti risultante dalle scritture contabile, sia con visure dei potesti o altri canali che possano permettere di ottenere informazioni più dettagliate sui debitori;

• rettifiche ai dati esposti nel piano dal debitore adeguando i valori attivi e passivi a quelli scaturiti dalle attività sopra descritte, nonché ai valori dell’in-ventario di cui all’art. 172 l.f.;

• in caso di differenze riscontrate rispetto alla proposta del debitore, reda-zione di una situazione concordataria a cura del commissario, da sottoporre ai creditori come possibile esito alternativo della procedura.

2.3. La relazione del commissario giudiziale nel concordato con conti-nuità aziendale Nell’ipotesi di concordato con continuità aziendale, la relazione del com-

missario giudiziale potrebbe articolarsi nelle sezioni di seguito indicate:

1. Premessa. 2. Breve descrizione delle vicende della Società. 2.1. Costituzione e oggetto sociale. 2.2. Compagine sociale. 2.3. Organo Amministrativo. 2.4. Organo di Controllo. 2.4.1. Composizione del Collegio Sindacale. 2.4.2. La Società di Revisione. 2.5. Organico della Società. 2.6. Cause della crisi. 2.6.1. Premessa. 2.6.2. Crisi macroeconomica. 2.6.3. Operazioni straordinarie. 2.6.4. Difficoltà di incasso dai clienti terzi. 2.6.5. Difficoltà di incasso dal Gruppo. 2.6.6. Analisi delle principali azioni intraprese per riequilibrare la

redditività di Gruppo. 2.6.7. Elementi principali di discontinuità industriale che hanno

contribuito ad un peggioramento della redditività. 2.6.8. Esame dei bilanci. 3. La fattibilità giuridica. Verifica della conformità normativa del Piano

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Concordatario e delle asserzioni poste alla base dello stesso. 3.1. Premessa. Il contesto normativo 3.1.1. Il concordato preventivo in continuità aziendale. 3.1.2. Il Regolamento CE n. 1346 del 2000. 3.1.3. Lo status di impresa in concordato. 3.2. Lo status quo. 3.2.1. Il Gruppo. 3.2.2. La governance. 3.2.3. Il contenzioso. 3.2.3.1. Il contenzioso fiscale. 3.2.3.2. Il contenzioso attivo. 3.2.3.3. Il contenzioso passivo. 3.2.4. Contratti in corso. 3.2.4.1. Contratti bancari. 3.2.4.2 Contratti di leasing. 3.2.4.3. Contratti di garanzia. 3.2.4.4. Contratti relativi alle forniture. 3.2.5. Brevetti industriali e marchi. 3.2.6. Rischi. 3.2.7. La responsabilità amministrativa ai sensi del d.lgs. n. 231

del 2001. 3.2.8. L’accordo con le Banche. 3.3. La conformità normativa del Piano Concordatario e delle asserzioni

poste alla base dello stesso. 4. La fattibilità tecnica. La coerenza endogena del Piano Industriale e la sua

compatibilità con gli scenari tecnologici. 4.1. Premessa. Il contesto tecnologico di riferimento. 4.1.1. Area di business AAA. 4.1.2. Area di business BBB. 4.1.3. Key economics storiche. 4.2. Sintesi delle linee strategiche di Piano. 4.2.1. Premessa. 4.2.2. La situazione degli impianti. 4.2.3. Analisi dei prodotti attuali. 4.2.4. Ricerca e Sviluppo. 4.2.5. Progetti di sviluppo. 4.2.6. La Divisione “AAA”. 4.2.7. La Divisione “BBB”. 4.3. La coerenza endogena del Piano Industriale e la sua compatibilità

con gli scenari tecnologici.

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4.4. Conclusioni. 5. La fattibilità economica. La compliance del piano economico-finanziario

con il piano industriale e la coerenza delle sue assumpion con gli scenari macroeconomici, microeconomici e di settore.

5.1. Lo scenario macroeconomico. 5.1.1. Le previsioni della crescita mondiale. 5.1.2. Le prospettive europee. 5.1.3. I mutamenti nello scenario dell’offerta. 5.1.4. La ripresa italiana: rafforzamento dell’export e stabilizza-

zione dei consumi. 5.1.5. Ripresa selettiva per l’industria manifatturiera italiana. 5.2. Lo scenario microeconomico e di settore. 5.3. Verifica della coerenza esogena delle assumption. 5.3.1. Le assumpion del Piano Concordatario. 5.3.2. La coerenza delle assumpion con gli scenari di riferimento. 5.3.3. Il contesto lavoristico di riferimento. La compliance norma-

tiva dei piani di dismissione. 5.4. Verifica della coerenza endogena delle assumption. 5.4.1. Esame delle caratteristiche produttive intrinseche. 5.4.1. Le variabili assunte alla base del Piano Concordatario. 5.4.2. La coerenza delle variabili nella loro dimensione quali-quan-

titativa. 5.4.3. La fattibilità lavoristica. La coerenza del piano industriale

e del piano economico-finanziario con le dinamiche lavo-ristiche.

6. La situazione patrimoniale, economica e finanziaria. 6.1. Le attività. 6.2. Le passività. 7. La Proposta di Concordato Preventivo. 7.1. Il Piano Concordatario. 7.1.1. I forecast economici. 7.1.2 I forecast patrimoniali. 7.1.3. I forecast finanziari. 7.2. Le Passività Concordatarie. 7.2.1. Debiti con privilegio. 7.2.2. Debiti chirografari. 7.3. Il Piano dei pagamenti. 8. La Stima dei Commissari Giudiziali. 8.1. Il Piano Economico-Patrimoniale-Finanziario. 8.1.1. I dati previsionali (sintesi).

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8.1.1.1. I forecast economici. 8.1.1.2. I forecast patrimoniali. 8.1.1.3. I forecast finanziari. 8.2. Le Passività accertate (analisi). 8.2.1. Premessa. 8.2.2. La Categoria “Banche 1”. 8.2.2.1. I debiti in prededuzione. 8.2.2.2. I debiti assistiti da prelazione ipotecaria o pigno-

ratizia. 8.2.2.3. I debiti assistiti da privilegio. 8.2.2.4. I debiti chirografari. 8.2.3. La Categoria “Banche 2”. 8.2.3.1. I debiti in prededuzione. 8.2.3.2. I debiti assistiti da prelazione ipotecaria o pigno-

ratizia. 8.2.3.3. I debiti assistiti da privilegio. 8.2.3.4. I debiti chirografari. 8.2.4. La Categoria “Fornitori terzi”. 8.2.4.1. I debiti in prededuzione. 8.2.4.2. I debiti assistiti da prelazione ipotecaria o pigno-

ratizia. 8.2.4.3. I debiti assistiti da privilegio. 8.2.4.4. I debiti chirografari. 8.2.5. La Categoria “Fornitori Intercompany”. 8.2.5.1. I debiti in prededuzione. 8.2.5.2. I debiti assistiti da prelazione ipotecaria o pigno-

ratizia. 8.2.5.3. I debiti assistiti da privilegio. 8.2.5.4. I debiti chirografari. 8.2.6. La Categoria “Obbligazionisti”. 8.2.6.1. I debiti in prededuzione. 8.2.6.2. I debiti assistiti da prelazione ipotecaria o pigno-

ratizia. 8.2.6.3. I debiti assistiti da privilegio. 8.2.6.4. I debiti chirografari. 8.2.7. La Categoria “Dipendenti”. 8.2.7.1. I debiti in prededuzione. 8.2.7.2. I debiti assistiti da prelazione ipotecaria o pigno-

ratizia. 8.2.7.3. I debiti assistiti da privilegio.

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8.2.7.4. I debiti chirografari. 8.2.8. La Categoria “Debiti tributari”. 8.2.8.1. I debiti in prededuzione. 8.2.8.2. I debiti assistiti da prelazione ipotecaria o pigno-

ratizia. 8.2.8.3. I debiti assistiti da privilegio. 8.2.8.4. I debiti chirografari. 8.2.9. La Categoria “Debiti verso Istituti previdenziali”. 8.2.9.1. I debiti in prededuzione. 8.2.9.2. I debiti assistiti da prelazione ipotecaria o pigno-

ratizia. 8.2.9.3. I debiti assistiti da privilegio. 8.2.9.4. I debiti chirografari. 8.2.10. La Categoria “Ratei e risconti passivi”. 8.2.10.1. I debiti in prededuzione. 8.2.10.2. I debiti assistiti da prelazione ipotecaria o pigno-

ratizia. 8.2.10.3. I debiti assistiti da privilegio. 8.2.10.4. I debiti chirografari. 8.2.11. La Categoria “Altri debiti”. 8.2.11.1. I debiti in prededuzione. 8.2.11.2. I debiti assistiti da prelazione ipotecaria o pigno-

ratizia. 8.2.11.3. I debiti assistiti da privilegio. 8.2.11.4. I debiti chirografari. 8.2.12. La Categoria “Fondo Rischi”. 8.2.12.1. I debiti in prededuzione. 8.2.12.2. I debiti assistiti da prelazione ipotecaria o pigno-

ratizia. 8.2.12.3. I debiti assistiti da privilegio. 8.2.12.4. I debiti chirografari. 8.2.3. Sintesi. 9. Valutazione della Proposta di Concordato e delle garanzie offerte ai creditori. 9.1. Il Piano Concordatario rettificato. 9.2. Le percentuali di soddisfacimento dei creditori. 9.2.1. Considerazioni sulle variazioni di cash in e di cash out. 9.2.2. Le rettifiche sulle percentuali di soddisfacimento dei credi-

tori chirografari. 9.2.3. Precisazioni ulteriori. 10. Conclusioni.

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2.4. I soggetti legittimati alla consultazione La relazione del commissario è depositata in cancelleria e trasmessa, a cura

del commissario giudiziale, a tutti i creditori.

2.5. L’orientamento della giurisprudenza Si riportano, di seguito, alcune massime giurisprudenziali sulla relazione

del commissario:

• Cass. S.U. 23 gennaio 2013, n. 1521. Affinché i creditori possano espri-mere il giudizio loro riservato sulla convenienza economica della proposta di concordato, concorrendo così a garantire il giusto esito della procedura, è ne-cessario che essi ricevano una puntuale informazione circa i dati, le verifiche interne e le connesse valutazioni, incombenti, questi, che assumono un ruolo centrale nello svolgimento della procedura ed ai quali debbono provvedere dapprima il professionista attestatore (rispetto al quale il d.l. n. 83/2012, oltre a sottolinearne la necessaria indipendenza, ha introdotto pesanti sanzioni nel caso di falsità nelle attestazioni o nelle relazioni), in funzione dell’ammissi-bilità al concordato, e successivamente il commissario giudiziale prima dell’a-dunanza dei creditori ai fini del voto.

• Cass. 25 ottobre 2010, n. 21860. Dalla complessa attività che nel nuovo concordato preventivo la legge demanda al commissario giudiziale si ricava che questi è l’organo cui è affidato il compito di garantire che i dati sottoposti alla valutazione dei creditori siano completi, attendibili e veritieri, così che gli stessi possano decidere con cognizione di causa sulla base di elementi che cor-rispondono alla realtà. L’attribuzione al commissario giudiziale del compito di mettere in condizione i creditori di esprimere in relazione alla proposta di con-cordato un consenso informato e non viziato da una falsa rappresentazione della realtà ed il fatto che allo stesso sia a tal fine richiesto l’espletamento di numerose indagini che possono richiedere anche l’ausilio di esperti (che ri-chiederebbero al tribunale, se espletate in sede di ammissione al concordato, una complessa e non prevista istruttoria), porta ad escludere che il tribunale, in detta sede, possa estendere il suo sindacato all’accertamento della veridicità dei dati aziendali.

• Cass. 25 ottobre 2010, n. 21860. Se è vero che la veridicità dei dati azien-dali deve essere garantita soprattutto dal commissario giudiziale, sulla base della documentazione prodotta dal debitore, sarà allora compito del tribunale verificare che la relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanzia-ria dell’impresa sia aggiornata e che contenga effettivamente una dettagliata esposizione della situazione patrimoniale, economica e finanziaria; il tribunale

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dovrà altresì verificare che lo stato analitico ed estimativo delle attività possa considerarsi tale e che la relazione del professionista attestante la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano sia adeguatamente motivata con indica-zione delle verifiche effettuate, della metodologie e dei criteri seguiti per per-venire all’attestazione di veridicità dei dati aziendali ed alla conclusione di fat-tibilità del piano. Solo in tal modo il commissario giudiziale potrà essere mes-so in condizione di valutare criticamente detta documentazione e conseguen-temente elaborare una relazione idonea a rendere possibile, da parte dei credi-tori chiamati a votare la proposta, la percezione quanto più esatta possibile della realtà imprenditoriale, della natura e delle dimensioni della crisi e di co-me la si intenda affrontare. Il compito del tribunale si sostanzia pertanto nel controllo, nei termini indicati, della documentazione allegata al piano, non po-tendo sovrapporsi alla valutazione di fattibilità contenuta nella relazione del professionista e senza che possa effettuare accertamenti in ordine alla veridici-tà dei dati aziendali che la legge riserva esclusivamente al commissario giudi-ziale, reagendo alla mancanza di veridicità con il prevedere, su denunzia ob-bligatoria da parte del commissario giudiziale, la sanzione della immediata re-voca del concordato.

Bibliografia

Giurisprudenza: Cass. 25 ottobre 2010, n. 21860, in www.ilcaso.it. Tribunale Milano 18 gennaio 2011, in www.ilcaso.it. Appello Ancona 20 gennaio 2011, in www.ilcaso.it. Cass. S.U. 23 gennaio 2013, n. 1521, in www.ilcaso.it. Tribunale Catania 25 gennaio 2014, in www.ilcaso.it.

Dottrina: LAPPONI S., La relazione ex art. 33 legge fallimentare, in www.odcec.cl.it/. Gruppo di Lavoro ODCEC di Modena (GRANA CASTAGNETTI M.- ALTOMONTE L.-

BURANI E.-DE LILLO M.-DONNICOLA S.-QUARTIERI C.-VACCARI C.-ADANI E.), Il commissario giudiziale. Poteri e funzioni nel concordato con cessioni di beni, in www.commercialisti.mo.it/.

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Saggi

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Criteri di verifica del rispetto della soglia di usura nei rapporti di conto corrente Luciano M. Quattrocchio-Bianca M. Omegna-Valentina Bellando

SOMMARIO

1. Premessa. – 2. La legge n. 108/1996, dopo l’interpretazione autentica dell’art. 1 della legge n. 24/2001. – 3. Verifica dell’usurarietà nei rapporti di conto corrente. – 3.1. Premessa. – 3.2. Le istruzioni della Banca d’Italia. – 3.2.1. La versione originaria. – 3.2.2. La posizione della giurisprudenza e le soluzioni tecniche prospettate. – 3.2.3. La versione aggiornata. – 4. La sen-tenza della Corte di Cassazione 22 giugno 2016, n. 12965. – 5. L’esame sistematico del pro-blema. – 5.1. La natura giuridica dei decreti del Ministero del Tesoro (ora Ministero dell’Eco-nomia e delle Finanze). – 5.2. Le conseguenze derivanti dalla violazione dei proncipi della “de-lega”. – 5.2.1. I vizi degli atti amministrativi. – 5.2.2. L’autotutela. – 5.2.3. Il ricorso al giudice amministrativo. – 5.2.4. L’istituto della disapplicazione. – 5.3. I criteri alternativi: la revive-scenza del regime del margine. – 6. Conclusioni.

1. Premessa

Come è noto, l’art. 1 della legge 7 marzo 1996, n. 108, ha modificato l’art. 644 c.p., stabilendo – tra l’altro – che:

«Chiunque, fuori dei casi previsti dall’articolo 643, si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari, è punito con la reclu-sione da uno a sei anni e con la multa da lire sei milioni a lire trenta milioni.

Alla stessa pena soggiace chi, fuori del caso di concorso nel delitto previsto dal primo comma, procura a taluno una somma di denaro od altra utilità fa-cendo dare o promettere, a sé o ad altri, per la mediazione, un compenso usu-rario.

La legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari. Sono altresì usurari gli interessi, anche se inferiori a tale limite, e gli altri

vantaggi o compensi che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per operazioni similari, risultano comunque sproporzio-

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nati rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero all’opera di mediazione, quando chi li ha dati o promessi si trova in condizioni di difficol-tà economica o finanziaria.

Per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito».

Al fine di dare attuazione a tale norma, il successivo art. 2 ha previsto che: «Il Ministro del tesoro, sentiti la Banca d’Italia e l’Ufficio italiano dei cambi,

rileva trimestralmente il tasso effettivo globale medio, comprensivo di commis-sioni, di remunerazioni a qualsiasi titolo e spese, escluse quelle per imposte e tasse, riferito ad anno, degli interessi praticati dalle banche e dagli intermediari finanziari iscritti negli elenchi tenuti dall’Ufficio italiano dei cambi e dalla Ban-ca d’Italia ai sensi degli articoli 106 e 107 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, nel corso del trimestre precedente per operazioni della stessa na-tura. I valori medi derivanti da tale rilevazione, corretti in ragione delle even-tuali variazioni del tasso ufficiale di sconto successive al trimestre di riferi-mento, sono pubblicati senza ritardo nella Gazzetta Ufficiale.

(…) Il limite previsto dal terzo comma dell’articolo 644 del codice penale, oltre

il quale gli interessi sono sempre usurari, è stabilito nel tasso medio risultante dall’ultima rilevazione pubblicata nella Gazzetta Ufficiale ai sensi del comma 1 relativamente alla categoria di operazioni in cui il credito è compreso, au-mentato della metà» 1.

È, quindi, evidente che la legge n. 108/1996 ha attribuito al Ministro del te-soro, sentiti la Banca d’Italia e l’Ufficio italiano dei cambi, una mission preci-sa e senza margini di discrezionalità: rilevare trimestralmente il tasso effettivo globale medio, «comprensivo di commissioni, di remunerazioni a qualsiasi ti-tolo e spese, escluse quelle per imposte e tasse»; ciò nella prospettiva di de-terminare il tasso soglia (secondo i due criteri che si sono succeduti nel tem-po), al fine di consentire la verifica dell’eventuale applicazione – nei casi con-creti – di «interessi o di altri vantaggi usurari».

Come è noto, il Ministro del tesoro, di concerto con la Banca d’Italia e l’Ufficio italiano dei cambi, non ha dato correttamente corso alla delega con-

1 È bene rammentare che l’art. 8, comma 5, lett. d), d.l. 13 maggio 2011, n. 70 (c.d. decreto sviluppo), convertito in legge 12 luglio 2011, n. 106, ha modificato il criterio di calcolo degli interessi usurari, prevedendo che «all’articolo 2, comma 4, della legge 7 marzo 1996, n. 108, le parole: «aumentato della meta» sono sostituite dalle seguenti: «aumentato di un quarto, cui si aggiunge un margine di ulteriori quattro punti percentuali. La differenza tra il limite e il tasso medio non puo’ essere superiore a otto punti percentuali».

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ferita, escludendo – fino al 2009 – alcune componenti, fra le quali la commis-sione di massimo scoperto nei rapporti di conto corrente e gli oneri assicurati-vi nei finanziamenti contro cessione del quinto; nonché, tuttora, gli interessi moratori in tutte le operazioni finanziarie.

Ciò ha dato luogo ad un acceso dibattito e a un ampio contenzioso, giacché una parte della giurisprudenza ha ritenuto che il calcolo del tasso soglia doves-se comunque essere effettuato ricomprendendo anche le componenti escluse dalla rilevazione del Ministero del tesoro, sul riflesso che l’art. 644 c.p. – co-me si evince chiaramente dal tenore letterale della norma – non prevede esclu-sioni di sorta (fatta eccezione per le imposte e tasse).

Il presente lavoro si propone di esaminare l’elaborazione normativa, non-ché quella giurisprudenziale che si è stratificata fino ad approdare alla recente sentenza della Corte di Cassazione 2, e le soluzioni tecniche via via fornite per consentire il superamento dell’antinomia; ciò anche con l’obiettivo di verifi-care se la conclusione alla quale è pervenuta la Suprema Corte dopo un lungo percorso giurisprudenziale non potesse – in alternativa – essere desunta ab origine da un’applicazione sistematica delle norme.

2. La legge n. 108/1996, dopo l’interpretazione autentica dell’art. 1 della legge n. 24/2001

Il d.l. 29 dicembre 2000, n. 394, convertito dalla legge 28 febbraio 2001, n. 24, aveva previsto – con norma di interpretazione autentica – che «Ai fini dell’applicazione dell’articolo 644 del codice penale e dell’articolo 1815, se-condo comma, del codice civile, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comun-que convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento».

Tale norma aveva negato – in conformità con le disposizioni vigenti negli altri Paesi europei – l’effetto sostanzialmente retroattivo che la legge n. 108/1996 aveva prodotto in conseguenza dell’interpretazione giurisprudenziale, stabilendo che il tasso di interesse originariamente legittimo non potesse divenire medio tempore usurario.

In particolare, l’intervento del legislatore aveva avuto l’effetto di sterilizzare una pronuncia della Corte di Cassazione 3, che aveva affermato

2 Cass. 22 giugno 2016, n. 12965, in www.ilcaso.it. 3 Cass. 17 novembre 2000, n. 14899, in www.ricercagiuridica.com.

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l’applicazione della legge n. 108/1996 anche ai rapporti di mutuo stipulati anteriormente all’entrata in vigore della medesima legge. In particolare, la Suprema Corte, nella citata sentenza, aveva precisato che – di fronte ad un rapporto fra cittadino e banca che non si era già concluso nel momento dell’entrata in vigore della legge antiusura – il giudice di merito non potesse escludere la rilevabilità d’ufficio della nullità della clausola del contratto relativa agli interessi solo perché la pattuizione era intervenuta in epoca ante-cedente all’entrata in vigore della legge n. 108/1996; al contrario, avrebbe dovuto verificare se detta nullità sussistesse o meno, correlando il tasso d’inte-resse convenuto alla nuova normativa.

Nella citata sentenza, inoltre, venivano richiamati i principi enunciati dalla stessa Corte di Cassazione in altre due sentenze 4. In particolare, nella prima si era affermato che «la pattuizione di interessi a tasso divenuto usurario a segui-to della legge 108/1996 è nulla anche se compiuta in epoca antecedente all’en-trata in vigore di detta legge»; questo perché, aggiungeva la Suprema Corte, «l’obbligazione degli interessi non si esaurisce in una sola prestazione, con-cretandosi in una serie di prestazioni successive e, ai fini della qualificazione usuraria degli interessi, il momento rilevante è la dazione e non la stipula del contratto come si evince anche dall’art. 644-ter c.p. (introdotto dall’art. 11 L. 108/1996)». La seconda sentenza aveva statuito che «si può ben ritenere che la sopravvenuta legge n. 108/1996, di per sé evidentemente non retroattiva e dunque insuscettibile di operare rispetto agli anteriori contratti di mutuo, sia di immediata applicazione nei correlativi rapporti, limitatamente alla regola-mentazione di effetti ancora in corso e, quindi, alla corresponsione degli in-teressi. Non si può insomma far proseguire una pattuizione di interessi che sia-no eventualmente usurari, di fronte ad un principio introdotto nel nostro ordi-namento con valore generale ed assoluto».

Ancora recentemente, la Suprema Corte 5 ha avuto occasione di affermare che «Le norme che prevedono la nullità dei patti contrattuali che determinano la misura degli interessi in tassi così elevati da raggiungere la soglia dell’usura (introdotte con l’art. 4 della l. n. 108 del 1996), pur non essendo retroattive, comportano l’inefficacia “ex nunc” delle clausole dei contratti conclusi prima della loro entrata in vigore sulla base del semplice rilievo, operabile anche d’ufficio dal giudice, che il rapporto giuridico, a tale momento, non si era ancora esaurito».

Per quanto di interesse, è bene precisare che la norma di interpretazione

4 Cass. 22 aprile 2000, n. 5286 e Id. 2 febbraio 2000, n. 1126, in www.ricercagiuridica.com. 5 Cass. 17 agosto 2016, n. 17150, in www.ilcaso.it.

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autentica non aveva sostanzialmente prodotto effetti sui contratti di apertura di credito, in quanto i relativi tassi di interesse – come è noto – subiscono variazioni frequenti per effetto dell’esercizio dello jus variandi, di talché solo raramente – in caso di riduzione del tasso soglia – si produce la c.d. “usura sopravvenuta”. Come è noto, infatti, si può parlare di usura soprav-venuta soltanto quando il superamento del tasso soglia è causato da una modificazione di quest’ultimo e non invece quando il superamento consegue ad una modifica del tasso contrattuale in forza dell’esercizio dello jus va-riandi.

La questione sembra, in ogni caso, risolta anche con riguardo alle (nuove) operazioni finanziarie complesse (per tali intendendosi i mutui, leasing, finan-ziamenti contro cessione del quinto, ecc.), giacché ancora di recente la Corte di Cassazione 6 ha affermato che:

• il delitto di usura è reato a condotta frazionata o a consumazione prolun-gata, costituito da due fattispecie (destinate strutturalmente l’una ad assorbire l’altra con l’esecuzione della pattuizione usuraria) aventi in comune l’induzio-ne del soggetto passivo alla pattuizione di interessi od altri vantaggi usurari in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra cosa mobile, delle quali l’una è caratterizzata dal conseguimento del profitto illecito e l’altra dalla sola accettazione del sinallagma ad esso preordinato;

• nella prima, il verificarsi dell’evento lesivo del patrimonio altrui si atteg-gia non già ad effetto del reato, più o meno esteso nel tempo in relazione all’e-ventuale rateizzazione del debito, bensì ad elemento costitutivo dell’illecito il quale, nel caso di integrale adempimento dell’obbligazione usuraria, si consu-ma con il pagamento del debito;

• nella seconda, invece, che si verifica quando la promessa del corrispetti-vo, in tutto o in parte, non viene mantenuta, il reato si perfeziona con la sola accettazione dell’obbligazione rimasta inadempiuta;

• l’induzione di un soggetto alla pattuizione di interessi o altri vantaggi usurari può seguire iter differenti ed avere sbocchi differenti: l’ipotesi in cui l’induzione conduca ad una pattuizione usuraria e l’ipotesi in cui detta pattui-zione sia seguita dalla relativa esecuzione;

• la consumazione del reato viene “posticipata”, se la pattuizione ha esecu-zione, al momento del conseguimento e/o conferimento degli interessi o van-taggi usurari, e per la precisione viene individuata nelle circostanze fattuali dell’ultimo episodio. Così, il soggetto che si trovi ad “incassare” profitti ille-citi, anche a distanza di tempo dalla pattuizione illecita, non potrà beneficiare

6 Cass. 8 ottobre 2015, n. 40380, con nota di G. DENORA, in www.altalex.com.

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del tempo decorso dalla conclusione del sinallagma illecito per rilevare l’inter-venuta prescrizione del reato;

• la consumazione del reato non è limitata al momento della pattuizione originaria, ma si prolunga al momento in cui – in seguito alla pattuizione in questione – si verifichi effettiva riscossione degli interessi o il concreto conse-guimento dei vantaggi usurari;

• le due fattispecie sono destinate strutturalmente l’una ad assorbire l’altra con l’esecuzione della pattuizione usuraria.

3. Verifica dell’usurarietà nei rapporti di conto corrente

3.1. Premessa Come è noto, la verifica dell’eventuale usurarietà degli interessi applicati

nei rapporti di conto corrente bancario viene effettuata avendo riguardo ad ogni singolo trimestre, attraverso la verifica dell’eventuale superamento del limite usurario, mediante raffronto tra il tasso effettivamente applicato e le so-glie rilevate trimestralmente.

Per la determinazione delle soglie, la Banca d’Italia ha diramato “Istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio ai sensi della legge sul-l’usura”, che – nel corso del tempo – hanno subito significativi cambiamenti e innescato un notevole disorientamento interpretativo.

3.2. Le istruzioni della Banca d’Italia 3.2.1. La versione originaria

La Banca d’Italia, nella versione originaria (rectius, nella versione poi mo-dificata) delle “Istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio ai sensi della legge sull’usura” (2006) 7, aveva previsto quanto segue:

«La commissione di massimo scoperto non entra nel calcolo del T.E.G. Es-sa viene rilevata separatamente, espressa in termini percentuali.

Tale commissione nella tecnica bancaria viene definita come il corrispetti-vo pagato dal cliente per compensare l’intermediario dell’onere di dover esse-re sempre in grado di fronteggiare una rapida espansione nell’utilizzo dello scoperto del conto. Tale compenso – che di norma viene applicato allorché il saldo del cliente risulti a debito per oltre un determinato numero di giorni –

7 Istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio ai sensi della legge sull’usu-ra, febbraio 2006, in www.bancaditalia.it.

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viene calcolato in misura percentuale sullo scoperto massimo verificatosi nel periodo di riferimento.

Il calcolo della percentuale della commissione di massimo scoperto va ef-fettuato, per ogni singola posizione rientrante nelle Categorie 1, 2 e 5, rappor-tando l’importo della commissione effettivamente percepita all’ammontare del massimo scoperto sul quale è stata applicata.

Tale commissione è strutturalmente connessa alle sole operazioni di finan-ziamento per le quali l’utilizzo del credito avviene in modo variabile, sul pre-supposto tecnico che esista uno “scoperto di conto”.

Pertanto, analoghe commissioni applicate ad altre categorie di finanzia-mento andranno incluse nel calcolo del T.E.G.

In occasione di passaggi a debito di conti non affidati la commissione non è oggetto di rilevazione purché gli intermediari diano espressa ed adeguata pub-blicità della sua entità nell’avviso e nei fogli informativi redatti ai sensi delle istruzioni di vigilanza, che prevedono l’obbligo di pubblicizzare “ogni altro onere o condizione di natura economica, comunque denominati, gravanti sul-la clientela”. In ogni caso, l’onere addebitato alla clientela può essere escluso solo se applicato in misura non superiore a quello della commissione general-mente prevista per i conti affidati».

Come è noto, la Banca d’Italia aveva individuato nel T.E.G. (Tasso Effetti-vo Globale) la grandezza da porre a raffronto con i tassi soglia ed ha indicato il seguente algoritmo di calcolo:

T.E.G. = interessi 36.500

+ oneri 100

numeri debitori accordato

ove: Interessi addebitati Sono gli interessi passivi addebitati dalla Banca, risultanti dai conti scalari

Numeri debitori Sono i numeri debitori risultanti dai conti scalari

Spese Si tratta delle spese che risultano imputabili, in base alla loro denomi-nazione, all’erogazione di credito.

Accordato si tratta del c.d. “accordato (affidamento) operativo”, desumibile dal contratto di conto corrente e da accordi successivi al termine del perio-do di riferimento; in caso di mancato accordo, utilizzo effettivo del tri-mestre di riferimento.

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3.2.2. La posizione della giurisprudenza e le soluzioni tecniche prospettate

In tale contesto, parte della giurisprudenza (anche di legittimità) riteneva che – attesa la mancanza di un potere normativo o regolamentare della Banca d’Italia in materia di tassi usurari (in quanto nessuna norma di rango primario attribuiva una tale potestà) – le Istruzioni avessero natura e funzione pretta-mente interpretative e non potessero, invece, avere carattere vincolante circa le modalità di determinazione del tasso d’interesse applicato; tutt’al più, valore di scriminante di un’eventuale responsabilità penale della banca o dell’inter-mediario.

In particolare, la giurisprudenza aveva – via via – formulato i principi di seguito riportati:

• il chiaro tenore letterale del comma 4 dell’art. 644 c.p. (secondo il quale per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle com-missioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per im-poste e tasse, collegate all’erogazione di credito), impone di considerare rile-vanti, ai fini della determinazione della fattispecie di usura, tutti gli oneri che un utente sopporti in connessione con il suo uso del credito. Tra essi rientra in-dubbiamente la commissione di massimo scoperto, trattandosi di un costo in-discutibilmente collegato all’erogazione del credito, giacché ricorre tutte le volte in cui il cliente utilizza concretamente lo scoperto di conto corrente e funge da corrispettivo per l’onere, al quale l’intermediario finanziario di sot-topone, di procurarsi la necessaria provvista di liquidità e tenerla a disposizio-ne del cliente 8;

• nella normativa anteriore alla legge 28 gennaio 2009, n. 2 la commissione di massimo scoperto rimaneva estranea alla definizione delle fattispecie usura-rie: le «istruzioni della Banca d’Italia erano chiare nell’affermare che non do-vevano essere conteggiate». La contraria soluzione adottata dalla Corte di Cassazione «non è condivisibile» perché «si basa su di un assunto indimo-strato» 9;

• l’ammontare della C.M.S., che – prima del d.l. 29 novembre 2008, n. 185 (art. 2-bis, comma 1) convertito nella legge 28 gennaio 2009, n. 2 – non trova(va) spazio nel T.E.G.M. pubblicato nei decreti ministeriali, deve (dove-va) necessariamente essere ricompreso nel margine di scostamento concesso al T.E.G. praticato dall’intermediario rispetto al T.E.G.M. calcolato dalla Ban-ca d’Italia: rilevato il valore medio di mercato del costo del credito, ogni in-

8 Cass. 26 marzo 2010, n. 12028, in www.ilcaso.it. 9 ABF Napoli 24 novembre 2010, in www.ilcaso.it.

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cremento di costo, quale che sia la natura o il titolo a cui viene imputato, deve, pena l’emergere di un profilo patologico in termini di usurarietà, essere com-preso nel margine del 50% stabilito dalla legge; appare conseguente e coe-rente: a) che, nella rilevazione operata dalla Banca d’Italia la stessa non fosse ricompresa nel calcolo del T.E.G.M.; b) che, al contrario, la c.m.s. applicata sia ricompresa nello specifico calcolo del T.E.G. da porre a confronto con la soglia d’usura 10;

• in tema di usura, ai fini della valutazione dell’eventuale carattere usurario del tasso effettivo globale medio (T.E.G.) praticato da un istituto di credito de-ve tenersi conto anche della commissione di massimo scoperto praticata sulle operazioni di finanziamento per le quali l’utilizzo del credito avviene in modo variabile. Il chiaro tenore letterale dell’art. 644 c.p. (secondo il quale per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissio-ni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate all’erogazione del credito) impone di considerare rilevanti, ai fini della determinazione della fattispecie di usura, tutti gli oneri che un utente sopporti in connessione con il suo uso del credito. Tra essi rientra indubbia-mente la commissione di massimo scoperto, trattandosi di un costo legato all’-erogazione del credito, che ricorre tutte le volte in cui il cliente utilizza concretamente lo scoperto di conto corrente, e funge da corrispettivo per l’o-nere, a cui l’intermediario finanziario si sottopone, di procurarsi la necessaria provvista di liquidità e tenerla a disposizione del cliente 11;

• la C.M.S. incide direttamente sul costo effettivo del credito erogato e deve, pertanto, rientrare nel calcolo del T.E.G., da raffrontare con il c.d. “tasso soglia”, oltre il quale il tasso si configura come usurario 12;

• la determinazione della soglia dell’usura soggiace alle metodiche di rilevazione fissate dai decreti ministeriali recettivi delle rilevazioni trimestrali della Banca d’Italia e ciò fino a quando la rilevazione del tasso effettivo globale medio non seguirà le nuove disposizioni onnicomprensive di cui al secondo comma dell’art. 2-bis della legge 28 gennaio 2009, n. 2. Da ciò consegue che il dovere di conformarsi, nel calcolo dei tassi, al criterio c.d. “all inclusive” di cui alla legge 7 marzo 1996, n. 108, è operante esclusivamente per il periodo successivo alla adozione del regolamento di cui al citato art. 2-bis 13;

10 Trib. Pordenone 7 marzo 2012, in www.ilcaso.it. 11 Trib. Pordenone 7 marzo 2012, in www.ilcaso.it. 12 Trib. Brindisi 9 agosto 2012, in www.ilcaso.it. 13 Trib. Verona 19 novembre 2012, in www.ilcaso.it.

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• la determinazione del tasso ai fini dell’indagine sull’usura deve essere condotta tenendo conto di commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e spe-se (escluse quelle per imposte e tasse) collegate all’erogazione del credito, ai sensi dell’art. 644, comma 4, c.p. Tra tali spese rientrano anche le polizze assicurative poste a garanzia del bene al cui acquisto il credito è finalizzato, ancorché non obbligatorie, ove siano contestuali alla concessione del finanzia-mento 14;

• le direttive e le Istruzioni della Banca d’Italia, quale organo di vigilanza e indirizzo delle banche e degli altri intermediari finanziari, non sono vincolanti per gli organi giurisdizionali neanche in materia di usura 15;

• la commissione di massimo scoperto deve essere tenuta in considerazione quale fattore potenzialmente produttivo di usura, essendo rilevante ai fini della determinazione del tasso usurario tutti gli oneri che il cliente sopporta in relazione all’utilizzo del credito e ciò indipendentemente dalle Istruzioni della Banca d’Italia nelle quali si prevede che la commissione di massimo scoperto non debba essere valutata ai fini della determinazione del tasso effettivo globale, traducendosi questa interpretazione in un aggiramento della norma penale che impone alla legge di stabilire il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari 16;

• la portata della legge n. 2/2009 si risolve nella mera conferma della “disciplina vigente” e cioè nel richiamo dell’art. 644 c.p. e non delle circolari della Banca d’Italia, che sono pacificamente sprovviste di portata normativa. Il tenore dell’art. 2-bis di detta legge, in particolare, ha mera valenza chiarifica-trice di un dato che era già contenuto nella legge sull’usura, quale quello della determinazione del costo del denaro con riferimento a tutte le remunerazioni caricate, commissione di massimo scoperto compresa 17;

• l’art. 1, comma 4, legge n. 108/1996 – stabilendo che per determinare il «tasso di interesse usurario, si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito» – intende chiaramente ricomprendere nel calcolo del T.E.G. qualsiasi onere effettivamente sopportato dal cliente quale costo econo-mico 18;

• in tema di usura, per il periodo precedente all’entrata in vigore della legge

14 ABF Roma 26 luglio 2013, in www.ilcaso.it. 15 App. Milano 22 agosto 2013, in www.ilcaso.it 16 Trib. Roma 23 gennaio 2014, in www.ilcaso.it. 17 App. Cagliari 31 marzo 2014, in www.ilcaso.it. 18 App. Cagliari 31 marzo 2014, in www.ilcaso.it.

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n. 2/2009, non si condivide l’assunto teorico che ricollega il metodo di calcolo del T.E.G. alla diretta applicazione del principio di cui all’art. 644, comma 4c.p., che ricomprende nel calcolo del T.E.G. anche la C.M.S., poiché: a) porta alla “disapplicazione” delle Istruzioni emanate dalla Banca d’Italia ai sensi dell’art. 2, comma 1, legge n. 108/1996, che espressamente escludono la C.M.S. dal computo del T.E.G. prevedendone la rilevazione separata, senza tuttavia considerare che la stessa legge 108/96, nel rimettere all’autorità amministrativa ministeriale il compito del rilevamento periodico dei tassi, esige la rilevazione comparata di «… operazioni della stessa natura», cioè di elementi omogenei tra loro, quali non sono gli interessi e la C.M.S., ove concepita come «… il corri-spettivo pagato dal cliente per compensare l’intermediario dell’onere di dover essere sempre in grado di fronteggiare una rapida espansione nell’utilizzo dello scoperto del conto»; b) non tiene conto del fatto che, riconosciuta nell’art. 644 una norma penale in bianco suscettibile di eterointegrazione per la determi-nazione del «… limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari», sono gli stessi Decreti Ministeriali di rilevazione dei tassi usurari, emessi ai sensi dell’art. 2 della legge n. 108/1996 e, quindi, integrativi della stessa norma pe-nale (cfr. art. 644, comma 3, c.p.), ad elevare a rango di legge il criterio tecnico della B.I.; c) contrasta con l’ultima parte del comma 2, art. 2-bis, legge n. 2/2009, che ha previsto l’inclusione della C.M.S. nel calcolo del T.E.G. solo a partire dalla data dell’entrata in vigore della legge stessa, confermando per il periodo precedente la disciplina anteriormente in vigore 19;

• in tema di rapporto di conto corrente bancario in punto di calcolo del T.E.G.M. si deve sempre computare l’incidenza delle C.M.S. 20;

• in tema di rapporto di conto corrente bancario ed in punto di calcolo del T.E.G. si deve sempre computare l’incidenza delle C.M.S. ai fini della determinazione del tasso usurario 21;

• ai fini della verifica dell’usurarietà del tasso applicato nei singoli trime-stri, l’unico metodo di calcolo corretto è quello che fa inclusione di tutti i costi e le spese, commissione di massimo scoperto compresa, a prescindere da quello che dica la Banca d’Italia. La stessa infatti, dopo la nota sentenza della Cassazione Penale del 2009, ha prontamente incluso la commissione nel calcolo del tasso almeno fino a quando la legge n. 2/2009 non ha radicalmente mutato la natura e la struttura della commissione di massimo scoperto 22;

19 Trib. Verona 27 ottobre 2015, in www.ilcaso.it. 20 Trib. Pescara 1° dicembre 2015, in www.ilcaso.it. 21 Trib. Cagliari 4 gennaio 2016, in www.ilcaso.it. 22 Trib. Padova 9 marzo 2016, in www.ilcaso.it.

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• la verifica dell’usura deve essere effettuata in ottemperanza a quanto stabilito dalle Istruzioni di Banca d’Italia pro-tempore vigenti, in quanto essa si basa sulla normativa regolamentare emessa su espressa delega della disci-plina primaria anti-usura, di cui all’art. 2 della legge n. 108/1996 e all’art. 2-bis del d.l. n. 185/2008. In particolare, poiché la Banca d’Italia rileva il tasso medio trimestralmente applicato agli intermediari finanziari, in relazione al quale è conteggiato il tasso soglia, occorre confrontare il T.E.G. applicato dal-la singola banca e il tasso soglia periodale, ricorrendo alla metodologia di cal-colo imposta alle banche dalla Banca d’Italia 23;

• la rilevazione del T.E.G.M., sulla base delle Istruzioni della Banca d’Ita-lia, e la determinazione del T.E.G. della singola operazione creditizia, ai fini della verifica di legalità, sono due operazioni distinte, rispondenti a funzioni diverse e aventi a oggetto aggregati di costi che, seppure definiti con un cri-terio omogeneo (interessi commissioni spese collegate all’erogazione del cre-dito), non sono perfettamente sovrapponibili. Funzione del T.E.G.M., e quindi delle Istruzioni della Banca d’Italia, è infatti ai sensi dell’art. 2 della legge n. 108 (cfr. tra molte Cass. pen. 18 marzo 2003, n. 20148) fotografare l’anda-mento dei tassi medi di mercato, praticati da banche e intermediari finanziari sottoposti a vigilanza (comma 1), distinti per classi omogenee di operazioni «tenuto conto della natura, dell’oggetto, dell’importo, della durata, dei rischi e delle garanzie» (comma 2) al fine di determinare e rendere noto alla generalità di banche e intermediari «il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari» 24.

Accedendo quindi all’orientamento più rigoroso, nella determinazione del tasso applicato all’esposizione debitoria di conto corrente, era necessario tene-re conto non solo dell’“interesse” inteso quale remunerazione del capitale, ma anche di tutti gli altri elementi che rappresentano un costo il cui sostenimento è collegato all’erogazione di credito.

Per raggiungere tale obiettivo, erano stati prospettati tre differenti criteri:

• verifica del superamento del “tasso soglia”, considerando la commissione di massimo scoperto nel primo addendo della formula di calcolo, sul presup-posto che la commissione di massimo scoperto avesse natura di interesse;

• verifica del superamento del “tasso soglia”, includendo la commissione di massimo scoperto nel secondo addendo, sul riflesso che la commissione di massimo scoperto avesse natura di onere;

• verifica del superamento del “tasso soglia”, considerando la commissione

23 Trib. Milano 25 marzo 2016, n. 3855, in www.ilcaso.it. 24 Trib. Torino 27 aprile 2016, in www.ilcaso.it.

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di massimo scoperto come elemento a sé stante, non inclusa né nel primo, né nel secondo addendo, attraverso il c.d. “regime del margine” 25.

In base al “regime del margine”, che restituiva una sorta di omogeneità fra T.E.G. e T.E.G.M. (base di riferimento per la determinazione del tasso soglia), la verifica del superamento del tasso soglia avveniva attraverso un meccani-smo composito che consisteva nel confrontare il T.E.G. comprensivo della commissione di massimo scoperto con il T.E.G.M. maggiorato della commis-sione di massimo scoperto mediamente applicata, che – a partire dal 2005 – aveva formato oggetto di spontanea rilevazione da parte della Banca d’Italia. Più in particolare, il superamento si determinava soltanto nel caso in cui l’e-ventuale differenza positiva della commissione di massimo scoperto non fosse compensata dalla differenza negativa degli interessi 26.

25 Il “regime del margine” è illustrato dalla Banca d’Italia nei seguenti termini (Nota del 2 dicembre 2005):

«Le “istruzioni per la rilevazione” prevedono (al punto C3) che – per le operazioni di aper-tura di credito in conto corrente, di finanziamenti per anticipi su crediti e documenti e di fac-toring – il tasso effettivo globale (T.E.G.) si ottiene sommando gli interessi, rapportati ai saldi liquidi con gli oneri, calcolati in percentuale sull’accordato.

In base al successivo punto C5 la commissione di massimo scoperto (infra C.M.S.) non rientra nel calcolo del T.E.G. ed è rilevata separatamente; la misura media rilevata, espressa in termini percentuali, è riportata in calce nelle tabelle dei tassi.

La scelta è coerente con la circostanza che l’entità della C.M.S. dipende dalle modalità di utiliz-zo del credito da parte del cliente, limitandosi l’intermediario unicamente a predeterminarne la mi-sura percentuale. Essa, infatti, rappresenta il compenso corrisposto dal cliente in relazione all’onere che l’intermediario sostiene per far fronte all’eventualità che venga aumentato lo scoperto di conto.

In tale contesto la verifica del rispetto delle “soglie” di legge da parte di ciascun intermedi-ario richiede:

– il calcolo del tasso in concreto praticato – sommando gli interessi rapportati ai numeri de-bitori e gli oneri in percentuale sull’accordato, secondo le metodologie indicate al punto C3 – e il raffronto di tale tasso con la relativa soglia di legge;

– il confronto tra l’ammontare percentuale dalla C.M.S. praticata e l’entità massima della C.M.S. applicabile (c.d. “C.M.S. soglia”), desunta aumentando del 50% l’entità della C.M.S. media pubblicata nelle tabelle.

Peraltro, l’applicazione di commissioni che superano l’entità della “C.M.S. soglia” non de-termina, di per sé, l’usurarietà del rapporto, che va invece desunta da una valutazione comples-siva delle condizioni applicate.

A tal fine, per ciascun trimestre, l’importo della C.M.S. percepita in eccesso va confrontato con l’ammontare degli interessi (ulteriori rispetto a quelli in concreto praticati) che la banca avrebbe potuto richiedere fino ad arrivare alle soglie di volta in volta vigenti (“margine”).

Qualora l’eccedenza della commissione rispetto alla “C.M.S. soglia” sia inferiore a tale “margine” è da ritenere che non si determini un supero delle soglie di legge».

26 Invero, sarebbe stato più corretto applicare detto criterio tenendo conto, non di valori as-

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3.2.3. La versione aggiornata

La Banca d’Italia, nella versione successiva delle Istruzioni (2009) 27, ave-va precisato – con riguardo al trattamento degli oneri e delle spese nel calcolo del T.E.G. – quanto segue:

«Il calcolo del tasso deve tener conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate all’erogazione del credito e sostenute dal cliente, di cui il soggetto finanziatore è a conoscenza, anche tenuto conto della normativa in materia di trasparenza.

In particolare, sono inclusi: […] 7) gli oneri per la messa a disposizione dei fondi, le penali e gli oneri applicati nel caso di passaggio a debito di conti non affidati o negli sconfinamenti sui conti correnti affidati rispetto al fido accor-dato e la commissione di massimo scoperto laddove applicabile secondo le di-sposizioni di legge vigenti».

Per effetto di tali modificazioni, veniva quindi meno l’antinomia creatasi a seguito dell’inadempimento, da parte del Ministero, della delega conferita dal-la legge n. 108/1996.

4. La sentenza della Corte di Cassazione 22 giugno 2016, n. 12965

La Suprema Corte, con la già citata sentenza 28, ha preso posizione sul punto affermando che la commissione di massimo scoperto, applicata fino all’entrata in vigore dell’art. 2-bis del d.l. n. 185/2008, deve ritenersi in thesi legittima, almeno fino al termine del periodo transitorio fissato al 31 dicembre 2009, posto che i decreti ministeriali che hanno rilevato il T.E.G.M. – dal 1997 al dicembre del 2009 – sulla base delle istruzioni diramate dalla Banca d’Italia, non ne hanno tenuto conto al fine di determinare il tasso soglia usu-rario, dato atto che ciò è avvenuto solo dal 1 gennaio 2010, nelle rilevazioni trimestrali del T.E.G.M. Ne consegue che l’art. 2-bis del d.l. n. 185/2008, in-trodotto con la legge di conversione n. 2/2009, non è norma di interpretazione autentica dell’art. 644, comma 3, c.p., bensì disposizione con portata innova-

soluti, ma di valori relativi; e, al fine di applicare correttamente il principio della matematica finanziaria, secondo cui le percentuali non possono essere sommate o sottratte, ma devono pri-ma essere trasformate in coefficienti, si sarebbe dovuto procedere alla verifica dell’eventuale superamento del margine in termini di coefficienti.

27 Istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio ai sensi della legge sull’u-sura, agosto 2009, in www.bancaditalia.it.

28 Cass. 22 giugno 2016, n. 12965, in www.ilcaso.it.

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tiva dell’ordinamento, intervenuta a modificare – per il futuro – la complessa disciplina anche regolamentare (richiamata dall’art. 644, comma 4, c.p.) tesa a stabilire il limite oltre il quale gli interessi sono presuntivamente sempre usu-rari, derivandone che – per i rapporti bancari esauritisi prima del 1° gennaio 2010, allo scopo di valutare il superamento del tasso soglia nel periodo rile-vante – non debba tenersi conto delle C.M.S. applicate dalla banca ed invece essendo tenuto il giudice a procedere ad un apprezzamento nel medesimo con-testo di elementi omogenei della rimunerazione bancaria, al fine di pervenire alla ricostruzione del tasso-soglia usurario.

La Corte di Cassazione ha inoltre aggiunto che l’art. 2-bis della legge n. 2/2009, disciplinando la materia delle commissioni di massimo scoperto, pure omettendo ogni definizione più puntuale delle stesse, ha effettuato una rico-gnizione dell’esistente con l’effetto sostanziale di sancire definitivamente la legittimità di siffatto onere e, per tale via, di sottrarla alle censure di legittimità sotto il profilo della mancanza di causa.

A tale orientamento si è subito allineata la giurisprudenza di merito 29, affer-mando che solo con la promulgazione della legge di conversione n. 2/2009 la commissione di massimo scoperto (ma solo a far data dal 1° gennaio 2010) “en-tra”, quale possibile addendo, nel calcolo attraverso cui si computa il costo del credito e, quindi, si opera la rilevazione del tasso effettivo globale medio; e solo da tale momento l’onere qui oggetto di studio è suscettivo di concorrere al superamento delle soglie d’usura di cui alla legge n. 108/1996.

5. L’esame sistematico del problema

5.1. La natura giuridica dei decreti del Ministero del Tesoro (ora Mini-stero dell’Economia e delle Finanze) Nell’ordinamento giuridico italiano, il decreto ministeriale è un atto am-

ministrativo emanato da un ministro della Repubblica Italiana, nell’ambito delle materie di competenza del suo dicastero. Esso non ha forza di legge e, nel sistema delle fonti del diritto, riveste carattere di fonte normativa seconda-ria soltanto qualora sia qualificato come regolamento.

È sempre prescritto dalla legge, che – dopo aver delineato i principi fonda-mentali di una data materia – ne affida l’esatta definizione tecnica ed at-tuazione al ministro competente, il quale la realizza con proprio decreto 30.

29 Fra le altre, si veda Trib. Teramo 26 luglio 2016, in www.ilcaso.it. 30 Sotto questo aspetto, il decreto ministeriale non va confuso con il decreto legislativo, che

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Il decreto ministeriale è di solito generale e astratto, in quanto pone norme tecniche di dettaglio (o generiche, ma relative ad uno specifico argomento), fi-nalizzate all’attuazione di una data norma di legge.

Viene normalmente operata una distinzione fra decreti di natura regola-mentare e decreti di natura non regolamentare.

Per quanto di interesse, i decreti di natura non regolamentare – a differenza dei decreti legislativi – non si inquadrano tra le fonti tipiche del diritto, non producono l’effetto iura novit curia, e vincolano non tutti i soggetti dell’ordi-namento giuridico ma solo alcuni destinatari determinati.

Tuttavia, non è possibile ricondurre questi provvedimenti ad una unica ti-pologia di atti: vengono in prevalenza utilizzati quando il legislatore deve inte-grare la previsione normativa con elementi contingenti o tecnici che richie-dono una frequente rimodulazione della disciplina e, pertanto, correttamente non rinvia ad organi latamente politici ma ad organi amministrativi.

È questo l’ambito di tutti i provvedimenti amministrativi generali, di conte-nuto non normativo, quali i provvedimenti di determinazione di aliquote, i provvedimenti di fissazione dei prezzi, i provvedimenti di contingentamento della produzione economica o agricola, i piani urbanistici.

In questa categoria rientrano senza dubbio anche i decreti del Ministero dell’economia e delle finanze, nei quali vengono indicati i tassi soglia usurari, riferiti a diverse categorie di operazioni finanziarie.

5.2. Le conseguenze derivanti dalla violazione dei principi della “delega”

5.2.1. I vizi degli atti amministrativi

L’atto amministrativo “non regolamentare” può essere viziato in modo più o meno grave, dando luogo a due categorie di invalidità: la nullità e l’annulla-bilità.

Secondo la ricostruzione comunemente operata, un atto amministrativo è nullo se:

• c’è incompetenza assoluta: colui che ha emanato l’atto non aveva potere di farlo;

• manca uno degli elementi essenziali: inesistenza o indeterminabilità del soggetto o dell’oggetto, illegittimità del contenuto, mancanza di finalità intesa come interesse pubblico, eccetera.

è invece un atto avente forza di legge emanato dal Governo nel suo insieme a seguito di una legge di delega parlamentare.

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Per contro, un atto amministrativo risulta annullabile quando:

• c’è incompetenza relativa: l’organo che ha emanato l’atto è competente, ma non colui che se ne è occupato ad esempio perché inferiore gerarchicamen-te a chi ne aveva il potere;

• c’è violazione di legge: l’atto va contro una legge dello Stato; • c’è eccesso di potere: disparità di trattamento, illogicità della motivazio-

ne, ingiustizia manifesta, ecc.

Secondo una parte della dottrina, esiste anche una terza categoria di inva-lidità degli atti amministrativi: l’inesistenza.

Nel caso che ci riguarda, vi è pacificamente stata – sino a tutto il 2009 – una violazione di legge, giacché il Ministero dell’economia e delle finanze ha omesso di rilevare il tasso effettivo globale medio, escludendo inopinatamente alcune componenti di costo (quali, per l’appunto, la commissione di massimo scoperto); con la conseguenza che i decreti pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale sono annullabili.

Al proposito, occorre rammentare che l’atto amministrativo annullabile è:

• giuridicamente esistente; • efficace; • sanabile.

Inoltre, l’annullabilità non opera di diritto, ma solo nel caso sia fatta valere da chi ne abbia interesse – il privato ma anche la pubblica amministrazione stessa – ed a seguito di un altro atto della pubblica amministrazione o di una sentenza del giudice amministrativo.

Quindi, nel caso di specie, si deve fondatamente ritenere che chi ne abbia interesse possa – in primis – adire lo stesso Ministero dell’Economia e delle Finanze, affinché – in virtù del principio di autotutela – disponga la revoca della norma ovvero la sua sostituzione.

5.2.2. L’autotutela

L’autotutela amministrativa può essere definitiva come quel complesso di attività con cui ogni pubblica amministrazione risolve i conflitti potenziali ed attuali, relativi ai suoi provvedimenti o alle sue pretese. In questi casi la pub-blica amministrazione interviene unilateralmente con i mezzi amministrativi a sua disposizione (salvo ovviamente ogni sindacato giurisdizionale), tutelando autonomamente la propria sfera d’azione 31.

31 Sul punto si veda G. SGUEO, L’autotutela amministrativa, in www.diritto.it.

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Possono distinguersi due tipologie di autotutela: quella “decisoria” e quella “esecutiva”.

Circoscrivendo l’indagine all’autotutela decisoria, occorre rammentare che essa si attua attraverso l’emanazione di una decisione amministrativa e può ri-guardare – in particolare – gli atti amministrativi precedentemente emanati dalla pubblica amministrazione.

In tale contesto, si parla di autotutela decisoria di tipo diretto, o non con-tenzioso, quando la pubblica amministrazione esercita i suoi poteri sponta-neamente o nell’adempimento di un preciso dovere. In questa categoria rien-trano gli atti di ritiro e di controllo.

In particolare gli atti di ritiro si fondano sulla potestà della pubblica ammi-nistrazione di impugnare autonomamente i propri provvedimenti, qualora que-sti siano illegittimi o inopportuni ab origine, oppure lo siano divenuti in itine-re. Essi si definiscono come provvedimenti amministrativi a contenuto negati-vo che sono emanati in base ad un riesame dell’atto, compiuto nell’esercizio del medesimo potere amministrativo esercitato con l’emanazione dell’atto stesso, al fine di eliminare il vizio che lo affligge.

I principali atti di ritiro sono due:

• l’annullamento d’ufficio, disciplinato dall’art. 21-nonies della legge 7 agosto 1990, n. 241 e qualificabile come un provvedimento amministrativo di secondo grado con cui viene ritirato dall’ordinamento, con efficacia retroatti-va, un atto amministrativo illegittimo, per la presenza di vizi di legittimità ori-ginari;

• la revoca, disciplinata dall’art. 21-quinquies della stessa legge n. 241/1990, che costituisce il corrispettivo dell’annullamento d’ufficio, con la differenza che opera con riferimento ad atti inopportuni.

Il ritiro è dunque un provvedimento amministrativo di secondo grado, con cui la Pubblica Amministrazione ritira con efficacia non retroattiva un atto in-ficiato da vizi di merito in base ad una nuova valutazione degli interessi.

L’autotutela costituisce anche il fondamento degli atti di convalescenza con cui la Pubblica Amministrazione opera una sanatoria dei vizi contenuti nell’atto.

I principali atti di convalescenza sono tre:

• la convalida: si tratta di un provvedimento nuovo, autonomo, costitutivo, che elimina i vizi di legittimità di un atto invalido, precedentemente emanato dalla stessa autorità (ad esempio, integrazione della motivazione insufficiente, eliminazione delle clausole invalidanti);

• la ratifica: anch’esso è un provvedimento nuovo, autonomo, costitutivo, con cui viene eliminato il vizio di incompetenza relativa da parte dell’autorità

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astrattamente competente, la quale si appropria di un atto adottato da autorità incompetente dello stesso ramo;

• la sanatoria: opera quando un atto o un presupposto di legittimità del pro-cedimento, mancante al momento dell’emanazione dell’atto amministrativo, viene emesso successivamente in modo da perfezionare ex post l’atto illegit-timo.

Infine, l’autotutela costituisce il fondamento degli atti di conservazione con cui si cerca di perseguire il raggiungimento dello scopo di un atto ove l’atto, pur viziato, sia egualmente in grado di soddisfare l’interesse pubblico.

I principali atti di conservazione sono:

• la consolidazione-inoppugnabilità: è una causa di conservazione oggettiva dell’atto amministrativo, che dipende dal decorso del termine perentorio entro il quale l’interessato avrebbe dovuto proporre ricorso contro l’atto invalido. Si tratta in sostanza di una figura processualistica assimilabile al passaggio in giudicato della sentenza;

• l’acquiescenza: è una causa di conservazione soggettiva dell’atto ammini-strativo, che dipende da un comportamento con cui il soggetto privato dimo-stra espressamente o per fatti concludenti di essere d’accordo con l’operato della pubblica amministrazione, precludendosi la possibilità di impugnare nuovamente l’atto;

• la conversione: con essa si considera un atto invalido – sia annullabile che nullo – come appartenente ad un altro tipo, di cui presenta gli stessi requisiti di forma e sostanza;

• la conferma: con la conferma si intende la manifestazione di volontà non innovativa con cui l’autorità ribadisce una sua precedente determinazione, eventualmente ripetendone il contenuto.

Nel caso in esame, si potrebbe ricorrere – se non all’annullamento d’ufficio – alternativamente alla convalida, attraverso l’eliminazione del vizio di legittimità (consistente nell’estromissione, ab origine, della commissione di massimo scoperto) ovvero alla conversione, attribuendo rilevanza distinta al T.E.G. e alla commissione di massimo scoperto media.

5.2.3. Il ricorso al giudice amministrativo

Nel caso in cui si ritenga di non ricorrere all’autotutela o nell’ipotesi che quest’ultima non produca i propri effetti, qualunque interessato potrebbe ricor-rere al giudice amministrativo allo scopo di accertare l’illegittimità dell’atto amministrativo.

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5.2.4. L’istituto della disapplicazione

Ma vi è una possibilità alternativa: la disapplicazione, da parte del giudice civile, dell’atto amministrativo illegittimo.

Al proposito, si deve fare riferimento alla legge 20 marzo 1865, n. 2248 (“Legge per l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia”), il cui art. 2 (all. E) individua i diritti soggettivi come criterio attributivo di giurisdizione al giudice ordinario (c.d. “limiti esterni”), ed i cui successivi artt. 4 e 5 indicano i poteri del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione (c.d. “limiti interni alla giurisdizione”) 32.

Ai sensi dell’art. 4, quando la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell’autorità amministrativa, i tribunali si limitano a conoscere degli effetti dell’atto stesso in relazione all’oggetto dedotto in giu-dizio. L’atto amministrativo non può essere revocato o modificato se non a seguito di ricorso alle competenti autorità amministrative, le quali si confor-meranno al giudicato dei Tribunali in quanto riguarda il caso deciso.

Più in particolare, la norma da ultimo citata stabilisce che:

• il giudice ordinario può limitarsi a dichiarare illegittimo l’atto ammini-strativo, senza poterlo annullare, revocare o modificare;

• il sindacato del giudice è limitato al caso deciso e non ha efficacia erga omnes, in quanto oggetto del sindacato è la lesione di un diritto, non la legit-timità dell’atto amministrativo;

• essendo oggetto del giudizio la lesione di un diritto, il giudice ordinario non può annullare l’atto amministrativo;

• per la stessa ragione il giudice ordinario non può sindacare il merito dell’atto amministrativo e, dunque, non può revocarlo o modificarlo;

• dal giudicato discende un vincolo conformativo per la pubblica ammini-strazione, che è tenuta a annullare, revocare, modificare l’atto amministrativo, se necessario per soddisfare la pretesa dedotta in giudizio;

• in caso di inottemperanza, soccorre il rimedio del giudizio di ottemperan-za davanti al giudice amministrativo, per ottenere l’esecuzione della sentenza del giudice ordinario.

La fattispecie ricorre in tutti i casi in cui la questione sulla legittimità dell’atto amministrativo risulta pregiudiziale alla decisione della controversia principale, in quanto costituisce l’antecedente logico-giuridico della suddetta

32 Sul punto si vedano: A. MOSCARINI, Sui decreti del governo “di natura non regolamentare” che producono effetti normativi, in www.archivio.rivistaaic.it; R. DE NICTOLIS, Giurisdizione ordi-naria e pubblica amministrazione: limiti interni, in www.treccani.it.

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decisione. Ove, peraltro, la questione non rientri nell’oggetto del giudizio, poiché l’atto amministrativo non lede alcun diritto del cittadino, bensì – più tipicamente – interessi legittimi, la relativa questione esula dalla competenza principale del giudice civile e non può, quindi, essere decisa con efficacia di giudicato, bensì semplicemente – in via occasionale –, cioè incidenter tantum.

La disapplicazione in via incidentale ha – quindi – spazio applicativo nelle liti su diritti soggettivi, insorte tra privato e pubblica amministrazione, o tra privati, e in relazione alle quali l’atto amministrativo non è l’oggetto principa-le del giudizio, ma un antecedente.

In questa prospettiva, la giurisprudenza ha affermato che il giudice ordina-rio può disapplicare l’atto amministrativo quando la valutazione della legitti-mità del medesimo debba avvenire in via incidentale, ossia quando l’atto non assume rilievo come causa della lesione del diritto del privato, ma come mero antecedente, sicché la questione della sua legittimità viene a prospettarsi come pregiudiziale in senso tecnico e non come principale 33.

Quanto ai vizi dell’atto rilevabili in sede di disapplicazione, la tesi preferi-bile e consolidata è nel senso che il giudice ordinario può sindacare in via in-cidentale qualsiasi vizio di legittimità, dunque anche l’eccesso di potere, oltre all’incompetenza e alla violazione di legge, fermo restando il divieto di sinda-cato del merito amministrativo 34. È bene ancora rammentare che il potere di disapplicazione incidentale è esercitabile d’ufficio.

Un tema dibattuto è quello della disapplicazione da parte del giudice penale 35. Vengono, anzitutto, in considerazione ipotesi in cui l’atto amministrativo

legittimo costituisce elemento costitutivo dell’illecito penale, che consiste nel-l’inosservanza dell’atto. In tale ipotesi, il giudice penale, per accertare se sus-siste o meno l’illecito penale di inosservanza di un provvedimento “legalmen-te dato”, verifica anche la legittimità dell’atto amministrativo e – se accerta che il provvedimento non è legalmente dato – esclude l’illecito penale.

A stretto rigore, in tale caso non si tratta di disapplicazione dell’atto ammi-nistrativo, ma di esercizio dei poteri del giudice penale di accertare la sussi-stenza o l’insussistenza dell’illecito.

Per quanto di interesse, alla luce delle considerazioni sopra esposte, pare quindi ragionevole ritenere che qualsiasi parte del giudizio possa invocare la

33 Cass. 22 febbraio 2002, n. 2588. 34 Cass. 22 febbraio 2010, n. 4242; Id. 26 giugno 2006, n. 14728; Id. 23 luglio 2004, n.

13848. 35 Su cui si veda R. VILLATA, Disapplicazione dei provvedimenti amministrativi e processo

penale, Giuffrè, Milano, 1980.

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disapplicazione incidentale dei decreti pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale (sino a tutto il 2009) e che addirittura lo stesso giudice – in sede sia civile sia penale – possa d’ufficio disapplicarli.

5.3. I criteri alternativi: la revivescenza del regime del margine Nel caso in cui si pervenga – attraverso l’autotutela, una sentenza del giu-

dice amministrativo ovvero mediante l’accertamento incidentale del giudice civile – alla disapplicazione dell’atto amministrativo, il controllo di liceità del costo del finanziamento (comprensivo di tutte le «commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate al-la erogazione del credito») previsto nel contratto o concretamente applicato potrà essere esercitato solo accertando l’usura in concreto ai sensi dell’art. 644, comma 4, c.p., a norma del quale «Sono altresì usurari gli interessi, anche se inferiori a tale limite, e gli altri vantaggi o compensi che, avuto riguardo al-le concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per operazioni simila-ri, risultano comunque sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero all’opera di mediazione, quando chi li ha dati o promessi si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria».

Al di là della seconda parte della norma, ove si fa riferimento alle condi-zioni soggettive dell’utilizzatore, rileva la prima parte della stessa, in cui si ri-chiama il tasso medio praticato per operazioni similari. E a tale fine potrebbe tornare di attualità il regime del margine sopra descritto, che – grazie alla rile-vazione operata dalla Banca d’Italia (solo a partire dal 2005) – offre un’indi-cazione dell’ammontare della commissione di massimo scoperto mediamente praticata.

Tuttavia, il metodo del margine non potrebbe essere assunto a riferimento ai fini dell’usura oggettiva, in quanto i criteri di rilevazione della commissione di massimo scoperto sono disomogenei rispetto a quelli del tasso effettivo globale medio: infatti, nella formula utilizzata per la rilevazione di quest’ul-timo, gli oneri del secondo addendo sono rapportati all’“accordato” (cioè al-l’affidamento concesso) e non all’“utilizzato” (cioè al massimo scoperto), lad-dove le “Istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio ai sensi della legge sull’usura” prevedono che «La commissione di massimo scoperto non entra nel calcolo del T.E.G. Essa viene rilevata separatamente, espressa in termini percentuali (…) Il calcolo della percentuale della commissione di mas-simo scoperto va effettuato, per ogni singola posizione rientrante nelle Cate-gorie 1, 2 e 5, rapportando l’importo della commissione effettivamente perce-pita all’ammontare del massimo scoperto sul quale è stata applicata». Con la conseguenza che la commissione di massimo scoperto media non può essere

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sic et simpliciter aggiunta al tasso effettivo globale medio, per “ricomporre” una grandezza onnicomprensiva rilevante ai fini dell’usura oggettiva.

In definitiva, il metodo del margine – che conduce ad una misura spuria dell’onerosità complessiva – può tutt’al più essere utilizzata come grandezza di riferimento ai fini dell’usura soggettiva.

6. Conclusioni

Alla luce delle considerazioni sopra svolte, possono essere tratte le seguenti conclusioni:

• il T.E.G.M. oggetto di rilevazione da parte del Ministero dell’economia e delle finanze, di concerto con la Banca d’Italia, non può essere assunto a rife-rimento, in quanto non coerente con le indicazioni della legge n. 108/1996;

• i decreti emanati dal Ministero dell’economia e delle finanze sino a tutto il 2009 presentano, dunque, un vizio di annullabilità;

• qualunque interessato può chiedere al Ministero dell’Economia e delle Finanze di revocare o sanare, in autotutela, tali decreti;

• in alternativa, qualunque interessato può adire il giudice amministrativo per ottenere la dichiarazione di illegittimità;

• infine, qualunque interessato chiederne al giudice la disapplicazione, nell’ambito di un giudizio civile o penale;

• in ogni caso, il giudice – civile e penale – può disapplicarli d’ufficio.

Rimane da chiedersi, ed è ciò che viene fatto nella citata sentenza della Su-prema Corte 36, se – per il periodo antecedente al 2010 – la commissione di massimo scoperto possa formare, alternativamente, oggetto di verifica dell’e-ventuale usurarietà e soprattutto se un’eventuale sproporzione nella sua di-mensione applicativa possa rilevare sul piano sia civilistico sia penale.

Tuttavia, anche se la commissione di massimo scoperto mediamente appli-cata ha formato oggetto, a partire dal 2005, di rilevazione e di pubblicazione, non pare che la stessa possa essere assunta a riferimento ai fini dell’art. 644, comma 1, c.p., giacché – a norma dell’art. 2, comma 3, legge n. 108/1996 – «Il limite previsto dal terzo comma dell’articolo 644 del codice penale, oltre il quale gli interessi sono sempre usurari, è stabilito nel tasso medio risultante dall’ultima rilevazione pubblicata nella Gazzetta Ufficiale ai sensi del comma 1 relativamente alla categoria di operazioni in cui il credito è compreso»; lad-

36 Cass. 22 giugno 2016, n. 12965, in www.ilcaso.it.

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dove il comma 1 dello stesso articolo stabilisce che «Il Ministro del tesoro, sentiti la Banca d’Italia e l’Ufficio italiano dei cambi, rileva trimestralmente il tasso effettivo globale medio, comprensivo di commissioni, di remunerazioni a qualsiasi titolo e spese, escluse quelle per imposte e tasse, riferito ad anno, degli interessi praticati dalle banche e dagli intermediari finanziari iscritti ne-gli elenchi tenuti dall’Ufficio italiano dei cambi e dalla Banca d’Italia ai sensi degli articoli 106 e 107 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, nel corso del trimestre precedente per operazioni della stessa natura. I valori medi derivanti da tale rilevazione, corretti in ragione delle eventuali variazioni del tasso ufficiale di sconto successive al trimestre di riferimento, sono pubblicati senza ritardo nella Gazzetta Ufficiale».

Quindi, è vero che la commissione di massimo scoperto media è pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, ma tale misura non può essere utilizzata ai fini dell’art. 644, comma 3, c.p. (usura oggettiva), in quanto rilevata autonoma-mente secondo criteri disomogenei (v. supra) rispetto al tasso effettivo globale medio e non riconducibile – in alcun modo – a quest’ultimo, proprio in ragio-ne della citata disomogeneità. Si tratta, quindi, di una rilevazione “atipica” e a sé stante e – per tale motivo – non significativa ai fini dell’usura oggettiva.

Pertanto, essa potrebbe – tutt’al più – rilevare ai sensi dell’art. 644, comma 4, c.p., ai sensi del quale «Sono altresì usurari gli interessi, anche se inferiori a tale limite, e gli altri vantaggi o compensi che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per operazioni similari, risultano comunque sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero all’opera di mediazione».

Non sarebbe, tuttavia, sufficiente l’eventuale sproporzione, dovendo essere fornita anche la prova che l’utilizzatore «si trovi in condizioni di difficoltà economica o finanziaria».

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La prescrizione in ambito civile e penale, nella ripetizione dell’indebito e nell’usura Luciano M. Quattrocchio-Bianca M. Omegna-Valentina Bellando

SOMMARIO

1. Premessa. – 2. La prescrizione nelle cause di ripetizione dell’indebito in ambito bancario. – 2.1. Il dato normativo. – 2.2. I rapporti di conto corrente bancario. – 2.2.1. La posizione della giurisprudenza. – 2.2.2. L’applicazione pratica del principio. – 2.3. La funzione del fondo pa-trimoniale. – 2.6. L’amministrazione dei beni a fondo patrimoniale. – 2.3. Le operazioni finan-ziarie complesse. – 3. La prescrizione nei procedimenti per usura. – 3.1. Il dato normativo. – 3.2. La posizione della giurisprudenza. – 3.3. Gli aspetti di natura tecnica. – 3.3.1. I rapporti di conto corrente bancario. – 3.3.2. Le operazioni finanziarie complesse. – 4. La “sovrapposizio-ne” fra prescrizione civile e prescrizione penale.

1. Premessa

Il presente saggio si propone di verificare come si atteggi la prescrizione nelle cause civili di ripetizione dell’indebito e nei procedimenti penali per usu-ra, al fine di appurare se vi siano aree di intersezione (o, come si vedrà, di so-vrapposizione), attraverso un approccio – per così dire – quantistico.

Per comprendere la natura dell’approccio seguito, pare opportuno prendere le mosse dal noto “Paradosso del gatto di Schrödinger”, esperimento mentale ideato nel 1935 da Erwin Schrödinger, che si basa sul principio di sovrapposi-zione, uno dei cardini della meccanica quantistica.

In relazione al tema, così ebbe a scrivere Erwin Schrödinger: «Si rinchiuda un gatto in una scatola d’acciaio insieme alla seguente macchina infernale (che occorre proteggere dalla possibilità d’essere afferrata direttamente dal gatto): in un contatore Geiger si trova una minuscola porzione di sostanza ra-dioattiva, così poca che nel corso di un’ora forse uno dei suoi atomi si disinte-grerà, ma anche – in modo parimenti probabile – nessuno; se l’evento si veri-fica il contatore lo segnala e aziona un relais di un martelletto che rompe una fiala con del cianuro. Dopo avere lasciato indisturbato questo intero sistema per un’ora, si direbbe che il gatto è ancora vivo se nel frattempo nessun atomo

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si fosse disintegrato, mentre la prima disintegrazione atomica lo avrebbe avve-lenato. La funzione Ψ dell’intero sistema porta ad affermare che in essa il gat-to vivo e il gatto morto non sono degli stati puri, ma miscelati con uguale pe-so».

L’apparente paradosso nasce dal fatto che in meccanica quantistica non è possibile descrivere classicamente gli oggetti e si ricorre ad una rappresenta-zione probabilistica: per mostrare il fatto che una particella può collocarsi in diverse posizioni, ad esempio, la si descrive come se essa fosse contempora-neamente in tutte le posizioni che può assumere. Ad ogni posizione possibile corrisponde la probabilità che osservando la particella essa si trovi proprio in quella posizione. L’operazione di osservazione, tuttavia, modifica irrimedia-bilmente il sistema poiché una volta osservata in una posizione la particella assume definitivamente quella posizione (cioè ha probabilità 1 di trovarsi lì) e quindi non si trova più in una “sovrapposizione di stati”.

In epoca successiva si è – peraltro – affermato che non è corretto dire che il gatto è in una sovrapposizione di due stati, perché la sovrapposizione riguarda l’intero sistema. La differenza fondamentale è che i due sottosistemi, cioè l’atomo e il gatto presi singolarmente, sono piuttosto descritti da una miscela statistica.

Come si avrà modo di dimostrare, la prescrizione osservata nei due stati possibili – nel caso che ci interessa, il diritto civile e il diritto penale – permet-te di osservare – al pari della fisica quantistica – non una sovrapposizione di stati, ma una sovrapposizione di sistema, con la possibilità di una contempo-ranea presenza – per l’appunto – di entrambi gli stati.

Sul piano civilistico, infatti, assume rilievo la prescrizione ordinaria, che opera in modo differente a seconda che si abbia a riferimento un rapporto di conto corrente bancario oppure operazioni finanziarie complesse (mutui, lea-sing, finanziamenti contro cessione del quinto, ecc.).

Dal punto di vista penale, la prescrizione per così dire ordinaria – che si fonda sul massimo della pena edittale (dieci anni per il reato di usura) – trova eccezione nell’art. 644 c.p., il quale prevede un’estensione dei termini in caso di usura bancaria perpetrata da un intermediario finanziario nei confronti di un’impresa.

Peraltro, come si avrà modo di dimostrare, i termini di prescrizione previsti dalla legge penale dispiegano effetti anche sul piano civilistico, con particola-re riguardo alle azioni di risarcimento del danno: ed ecco la sovrapposizione di sistema.

191 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

2. La prescrizione nelle cause di ripetizione dell’indebito in ambito bancario

2.1. Il dato normativo Come è noto, l’art. 2934, comma 1, c.c. (“Estinzione dei diritti”) stabilisce

che «Ogni diritto si estingue per prescrizione, quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge». E, a norma del successivo art. 2935 c.c. (“Decorrenza della prescrizione”), «La prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere».

Inoltre, l’art. 2943 c.c. (“Interruzione da parte del titolare”), prevede che: «La prescrizione è interrotta dalla notificazione dell’atto con il quale si ini-

zia un giudizio, sia questo di cognizione ovvero conservativo o esecutivo. È pure interrotta dalla domanda proposta nel corso di un giudizio. (…) La prescrizione è inoltre interrotta da ogni altro atto che valga a costituire

in mora il debitore e dall’atto notificato con il quale una parte, in presenza di compromesso o clausola compromissoria, dichiara la propria intenzione di promuovere il procedimento arbitrale, propone la domanda e procede, per quanto le spetta, alla nomina degli arbitri».

Nelle azioni di ripetizione di indebito, si applica l’art. 2946 c.c. (“Prescri-zione ordinaria”), secondo cui «Salvi i casi in cui la legge dispone diversa-mente i diritti si estinguono per prescrizione con il decorso di dieci anni».

2.2. I rapporti di conto corrente bancario 2.2.1. La posizione della giurisprudenza

L’operatività della prescrizione nei rapporti di conto corrente bancario è stata chiarita dalla nota sentenza della Suprema Corte 1, la quale ha precisato che qualora «durante lo svolgimento del rapporto il correntista abbia effettuato non solo prelevamenti ma anche versamenti, in tanto questi ultimi potranno essere considerati alla stregua di pagamenti, tali da poter formare oggetto di ripetizione (ove risultino indebiti), in quanto abbiano avuto lo scopo e l’effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca. Questo accadrà qualo-ra si tratti di versamenti eseguiti su un conto in passivo (o, come in simili si-tuazioni si preferisce dire “scoperto”) cui non accede alcuna apertura di credi-to a favore del correntista, o quando i versamenti siano destinati a coprire un

1 Cass., sez. un., 2 dicembre 2010, n. 24418, in www.ilcaso.it.

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passivo eccedente i limiti dell’accreditamento. Non è così, viceversa, in tutti i casi nei quali i versamenti in conto, non avendo il passivo superato il limite dell’affidamento concesso al cliente, fungano unicamente da atti ripristinatori della provvista della quale il correntista può ancora continuare a godere». In particolare, «Se dopo la conclusione di un contratto di apertura di credito ban-cario regolato in conto corrente, il correntista agisce per far dichiarare la nulli-tà della clausola che prevede la corresponsione di interessi anatocistici e per la ripetizione di quanto pagato indebitamente a questo titolo, il termine di pre-scrizione decennale cui tale azione di ripetizione è soggetta decorre, qualora i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto abbiano avuto so-lo funzione ripristinatoria della provvista, dalla data in cui è stato estinto il saldo di chiusura del conto in cui gli interessi dovuti sono stati registrati».

Tale orientamento è stato confermato, successivamente, dalla stessa Suprema Corte 2, la quale ha ribadito che «Poiché la natura e la funzione della commis-sione di massimo scoperto non si discosta da quella degli interessi, essendo en-trambi destinati a remunerare la banca dei finanziamenti erogati, il principio enunciato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 24428/2010 (decorrenza della prescrizione decennale dell’azione di ripetizione degli importi illegittimamente addebitati sul conto distinguendo tra versamenti con funzione ripristinatoria e versamenti con funzione solutoria della provvista) può essere applicato anche al fine di stabilire la decorrenza della prescrizione dell’azione di ripetizione degli importi illegittimamente addebitati a titolo di commissione di massimo scoperto»; e che «I versamenti eseguiti sul conto cor-rente in costanza di rapporto hanno normalmente funzione ripristinatoria della provvista e non determinano uno spostamento patrimoniale dal solvens all’acci-piens e, poiché tale funzione corrisponde allo schema causale tipico del contrat-to, una diversa finalizzazione dei singoli versamenti, o di alcuni di essi, deve es-sere in concreto provata da parte di chi intende far percorrere la prescrizione dalle singole annotazioni delle poste illegittimamente addebitate».

La stessa Corte di Cassazione ha, ancora più di recente 3, ribadito lo stesso principio affermando che «le operazioni di prelievo e versamento, all’interno dell’unitaria struttura del rapporto di conto corrente e bancario, non configurano distinti ed autonomi rapporti di debito e credito reciproci tra banca e cliente, in relazione ai quali, nel corso dello svolgimento del rapporto, si possa configurare un credito della banca a fronte del quale il pagamento del cliente debba essere imputato in conto di interessi. Se tale è l’assunto di fondo, va osservato che la sentenza delle S.U. n. 24418/2010, pronunciandosi sulla decorrenza della pre-

2 Cass. 26 febbraio 2014, n. 4518, in www.ilcaso.it. 3 Cass. 26 Maggio 2016, n. 10941, in www.ilcaso.it.

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scrizione della domanda di restituzione delle voci indebitamente percepite dalla banca, ha chiaramente rilevato che, se al conto accede l’apertura di credito ban-cario ex artt. 1842 ss., e se il correntista, durante lo svolgimento del rapporto, ha effettuato non solo prelevamenti, ma anche versamenti, questi potranno essere considerati alla stregua di pagamenti, ove si tratti di versamenti su conto c.d. scoperto, quando cioè siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell’accreditamento (o su conto in passivo a cui non acceda l’apertura di credi-to), mentre negli altri casi nei quali il passivo non superi l’affidamento, i versa-menti fungono da atti ripristinatori della provvista di cui il correntista può anche godere. In aderenza a detti principi, potrebbe quindi ritenersi la simultanea ri-correnza dell’esigibilità e liquidità di capitale ed interessi per il credito che su-peri il fido e per i relativi interessi, rimanendo differita tale simultaneità per il credito entro il fido al saldo di chiusura del rapporto e dell’apertura di credito, e la ricorrenza ha richiamato tale giurisprudenza, ritenendola applicabile nel caso, trattandosi di conto corrente “pacificamente” affidato».

Principi analoghi sono, poi, stati recepiti dalla giurisprudenza di merito, la quale ha affermato che:

• App. Bari 2 ottobre 2015 4. Nel conto corrente bancario i versamenti ese-guiti dal correntista nel corso del rapporto rispondono ad una funzione ripri-stinatoria della provvista e non hanno causa solutoria. Conseguentemente, nel giudizio per la ripetizione dell’indebito la banca convenuta che eccepisca la prescrizione decennale del credito restitutorio azionato dal correntista ha l’onere di allegare prima e di provare poi la diversa natura dei versamenti. In mancanza della tempestiva indicazione delle rimesse aventi natura putativa-mente solutoria, l’eccezione di prescrizione va respinta perché il correntista non è messo in condizione di contestare tale circostanza fattuale e di avanzare le relative richieste istruttorie;

• Trib. Palermo 14 febbraio 201 5. Il termine decennale dell’azione di ripe-tizione di indebito va fatto decorrere dal momento della chiusura del rapporto di conto corrente, ovvero, dalla data in cui è stato estinto il saldo di chiusura del conto in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati, qualora i versa-menti eseguiti dal correntista in pendenza dello stesso rapporto abbiano avuto soltanto una funzione ripristinatoria della provvista. Solo da quel momento, infatti, sussiste un pagamento indebito e sorge, pertanto, il diritto a ripetere le somme versate con riferimento a tutto il periodo contrattuale (non quindi limi-tato ai dieci anni a ritroso dalla chiusura del conto).

4 App. Bari 2 ottobre 2015, in www.ilcaso.it. 5 Trib. Palermo 14 febbraio 2012, in www.ilcaso.it.

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2.2.2. L’applicazione pratica del principio

Nella tecnica bancaria l’espressione “rimesse” sta ad indicare i versamenti effettuati dal correntista sul conto corrente: tali versamenti possono, a seconda dei casi, aumentare il saldo positivo o ridurre quello negativo.

La Corte di Cassazione, nella nota Sentenza resa a Sezioni Unite 6, con rife-rimento alle rimesse operate su un conto corrente con saldo negativo ha rie-sumato la distinzione fra rimesse solutorie e rimesse ripristinatorie, nei se-guenti termini:

• le rimesse solutorie: versamenti effettuati su un conto corrente per il quale vi sia stato uno sconfinamento oppure su un conto corrente non affidato;

• le rimesse ripristinatorie: versamenti effettuati dal correntista su un conto corrente con saldo rientrante nei limiti del plafond di affidamento.

Si riporta, di seguito, un esempio numerico, al fine di apprezzarne meglio la distinzione. Si ipotizza che il saldo iniziale sia pari a zero e che l’affida-mento ammonti a euro 200.000,00.

DATA VALUTA DARE AVERE

SALDO PER

VALUTA

RIMESSE SOLUTORIE

RIMESSE RIPRISTINATORIE

1/1/2008 20.000,00 20.000,00 – –

4/1/2008 120.000,00 – 100.000,00 – –

15/1/2008 40.000,00 – 60.000,00 – 40.000,00

25/1/2008 70.000,00 – 130.000,00 – –

5/2/2008 50.000,00 –80.000,00 – 50.000,00

16/2/2008 150.000,00 –230.000,00 – –

27/2/2008 30.000,00 –200.000,00 30.000,00 –

3/3/2008 80.000,00 –280.000,00 – –

10/3/2008 40.000,00 –240.000,00 40.000,00 –

12/3/2008 70.000,00 –310.000,00 – –

21/3/2008 20.000,00 –290.000,00 20.000,00 –

31/3/2008 4.621,30 –294.621,30 – –

294.621,30

6 Cass. S.U. 2 dicembre 2010, n. 24418, in www.ilcaso.it.

195 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

DATA VALUTA DARE AVERE SALDO PER

VALUTA RIMESSE

SOLUTORIE

RIMESSE RIPRISTI-NATORIE

1/4/2008 294.621,30 –294.621,30 – –

4/4/2008 120.000,00 –414.621,30 – –

15/4/2008 240.000,00 –174.621,30 214.621,30 25.378,70

25/4/2008 70.000,00 –244.621,30 – –

5/5/2008 250.000,00 5.378,70 44.621,30 205.378,70

16/5/2008 150.000,00 –144.621,30 – –

27/5/2008 130.000,00 –14.621,30 – 130.000,00

3/6/2008 80.000,00 –94.621,30 – –

10/6/2008 140.000,00 45.378,70 – 140.000,00

12/6/2008 70.000,00 –24.621,30 – –

21/6/2008 120.000,00 95.378,70 – 120.000,00

30/6/2008 4.124,75 91.253,95 – –

385.875,25

In alcuni casi risulta abbastanza semplice distinguere tra rimesse solutorie e

rimesse ripristinatorie: la rimessa effettuata in data 15 gennaio 2008 per euro 40.000,00 e quella effettuata in data 5 febbraio 2008 per euro 50.000,00 hanno natura ripristinatoria, poiché sono state effettuate a fronte di un saldo negativo rientrante nei limiti dell’affidamento concesso.

La rimessa effettuata in data 27 febbraio 2008 per euro 30.000,00 ha invece natura solutoria, in quanto effettuata a fronte di un saldo negativo oltre il limi-te dell’affidamento (il superamento del limite è avvenuto in data 16 febbraio 2008); evidentemente, tutte le rimesse successive hanno natura solutoria, sino a che il saldo non sia rientrato nei limiti del plafond disponibile.

Non è invece così intuitivo il caso in cui una rimessa presenti in parte natu-ra solutoria e in parte ripristinatoria, come ad esempio quella effettuata in data 15 aprile 2008 per euro 240.000,00: in tal caso, infatti, la rimessa ha natura so-lutoria per euro 210.000,00, giacché tale versamento consente il rientro del saldo nei limiti dell’affidamento, e natura ripristinatoria per la differenza pari ad euro 30.000,00.

Secondo la ricostruzione operata nella Sentenza resa a Sezioni Unite (v. supra), la distinzione fra rimesse solutorie e rimesse ripristinatorie assume ri-levanza ai fini della prescrizione del diritto alla ripetizione dell’indebito. In particolare, nel caso di rimesse solutorie il termine decennale – da computarsi

196 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

(dies ad quem) avendo riguardo al primo atto interruttivo ovvero alla data di notifica – decorre dall’annotazione della rimessa. Per contro, il termine decen-nale decorre (dies a quo) dalla chiusura del conto nel caso in cui la rimessa (a copertura delle competenze maturate nel trimestre precedente) abbia natura ripristinatoria.

A tal proposito, è utile riportare letteralmente il principio espresso dalle Sezioni Unite: «Se, pendente l’apertura di credito, il correntista non si sia av-valso della facoltà di effettuare versamenti, pare indiscutibile che non vi sia alcun pagamento da parte sua, prima del momento in cui, chiuso il rapporto, egli provveda a restituire alla banca il denaro in concreto utilizzato. In tal ca-so, qualora la restituzione abbia ecceduto il dovuto a causa del computo di in-teressi in misura non consentita, l’eventuale azione di ripetizione d’indebito non potrà che essere esercitata in un momento successivo alla chiusura del conto, e solo da quel momento comincerà perciò a decorrere il relativo termi-ne di prescrizione. Qualora, invece, durante lo svolgimento del rapporto il cor-rentista abbia effettuato non solo prelevamenti, ma anche versamenti, in tanto questi ultimi potranno essere considerati alla stregua di pagamenti, tali da po-ter formare oggetto di ripetizione (ove risultino indebiti), in quanto abbiano avuto lo scopo e l’effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della ban-ca. Questo accadrà qualora si tratti di versamenti eseguiti su un conto in passi-vo (o, come in simili situazioni si preferisce dire “scoperto”) cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista, o quando i versamenti siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell’accreditamento. Non è co-sì, viceversa, in tutti i casi nei quali i versamenti in conto, non avendo il passi-vo superato il limite dell’affidamento concesso al cliente, fungano unicamente da atti ripristinatori della provvista della quale il correntista può ancora conti-nuare a godere».

In sede di consulenza tecnica, è – quindi – necessario enucleare le rimesse solutorie e le rimesse ripristinatorie per i periodi antecedenti al decorso del de-cennio dalla chiusura del conto, giacché le competenze maturate in epoca pre-cedente e oggetto di richiesta di ripetizione di indebito devono considerarsi prescritte nei limiti di copertura delle rimesse solutorie effettuate (sempre in epoca antecedente al decorso del decennio).

In ordine al tema del c.d. “affidamento di fatto”, è stato osservato: «È onere della banca che eccepisce la prescrizione dell’azione di indebito dare la prova del carattere solutorio delle rimesse, specificando altresì nei termini di cui all’art. 167 c.p.c. quelle aventi detta caratteristica. Si deve escludere il caratte-re solutorio delle rimesse allorché le stesse vengano effettuate su conto corren-te non affidato, ma sul quale il correntista per anni abbia costantemente opera-to in una situazione di scoperto, e con applicazione da parte dell’istituto della

197 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

commissione massimo scoperto; si deve riconoscere in tal caso un affidamento di fatto» 7.

In particolare, la giurisprudenza 8 ha ravvisato gli estremi di un affidamento in linea di fatto in un caso in cui l’istituto di credito, pur a fronte di una forma-le revoca dei fidi, ha consentito che il conto operasse costantemente per ulte-riori quattro anni con saldo passivo senza, tuttavia, «fornire adeguata prova di aver intimato al correntista il rientro, o assunto altre iniziative di revoca, re-cesso, diffida, segnalazione a sofferenza presso la Centrale Rischi (come, in assenza di fido, avrebbe certamente dovuto fare)».

L’esistenza del c.d. fido di fatto è spesso ravvisata dalla giurisprudenza in presenza di ben precise condizioni, quali ad esempio: estratti conto in cui sono indicati tassi differenziati (entro ed extra-fido), addebito di spese di istruttoria fido, applicazione della commissione di massimo scoperto (remunerazione per la messa a disposizione di somme di denaro o utilizzate extra-fido), presenza di terzi garanti, invio lettera di revoca dell’affidamento, sistematica e tollerata operatività con “saldo passivo”. Ma soprattutto, l’esistenza e l’entità dei fidi accordati ed utilizzati può trovare conferma nelle risultanze della Centrale Ri-schi.

In presenza di un fido di fatto, il limite massimo essere individuato nello stesso massimo scoperto di fatto consentito dalla banca; con la conseguenza che le rimesse operate non potrebbero che avere funzione meramente ripristi-natoria della provvista.

Nel caso in cui si disponga degli estratti conto e dei riassunti scalari, è pos-sibile apprezzare appieno l’effetto delle rimesse solutorie ai fini della prescri-zione. Il risultato si ottiene agevolmente, attraverso l’utilizzo di un foglio di Excel, isolando rimesse ripristinatorie, rimesse solutorie e rimesse “ibride” come evidenziato nel prospetto analitico di cui si riporta un estratto riferito ad un trimestre:

7 In tale senso Trib. Torino 3 aprile 2014 (Est. Dott.ssa Cecilia MARINO). 8 Così Trib. Bergamo 3 agosto 2016, n. 2487.

198 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

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31/12/2002 11.165,05 25.000

5/1/2003 5 6.483,29 – 4.681,76 6.483,29 – – 25.000

7/1/2003 2 – 165,00 4.846,76 – – – 25.000

8/1/2003 1 5.159,05 – – 312,29 5.159,05 – – 25.000

12/1/2003 4 – 12.250,00 11.937,71 – – – 25.000

12/1/2003 0 – 2.500,00 14.437,71 – – – 25.000

12/1/2003 0 – 6.000,00 20.437,71 – – – 25.000

12/1/2003 0 – 3.212,79 23.650,50 – – – 25.000

12/1/2003 0 – 2.973,51 26.624,01 – – – 25.000

12/1/2003 0 – 2.336,92 28.960,93 – – – 25.000

13/1/2003 1 – 30,91 28.991,84 – – – 25.000

14/1/2003 1 – 16.820,00 45.811,84 – – – 25.000

14/1/2003 0 17.391,00 – 28.420,84 – 17.391,00 – 25.000

14/1/2003 0 – 665,20 29.086,04 – – – 25.000

14/1/2003 0 – 5,00 29.091,04 – – – 25.000

15/1/2003 1 – 84,50 29.175,54 – – – 25.000

15/1/2003 0 – 298,00 29.473,54 – – – 25.000

15/1/2003 0 – 953,00 30.426,54 – – – 25.000

16/1/2003 1 – 7.374,73 37.801,27 – – – 25.000

16/1/2003 0 – 4.340,30 42.141,57 – – – 25.000

16/1/2003 0 – 120,00 42.261,57 – – – 25.000

19/1/2003 3 – 775,00 43.036,57 – – – 25.000

19/1/2003 0 – 853,00 43.889,57 – – – 25.000

21/1/2003 2 2.369,99 – 41.519,58 – 2.369,99 – 25.000

22/1/2003 1 9.640,00 – 31.879,58 – 9.640,00 – 25.000

(Segue)

199 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

22/1/2003 0 3.245,00 – 28.634,58 – 3.245,00 – 25.000

22/1/2003 0 7.690,00 – 20.944,58 4.055,42 3.634,58 – 25.000

26/1/2003 4 – 640,76 21.585,34 – – – 25.000

26/1/2003 0 – 1.297,00 22.882,34 – – – 25.000

28/1/2003 2 – 578,00 23.460,34 – – – 25.000

28/1/2003 0 – 1,80 23.462,14 – – – 25.000

28/1/2003 0 – 400,00 23.862,14 – – – 25.000

28/1/2003 0 – 1,80 23.863,94 – – – 25.000

29/1/2003 1 180,00 – 23.683,94 180,00 – – 25.000

30/1/2003 1 – 1.027,04 24.710,98 – – – 25.000

30/1/2003 0 – 384,50 25.095,48 – – – 25.000

31/1/2003 1 – 62,00 25.157,48 – – – 25.000

2/2/2003 2 9.000,00 – 16.157,48 8.842,52 157,48 – 25.000

2/2/2003 0 – 7.500,00 23.657,48 – – – 25.000

2/2/2003 0 3.357,84 – 20.299,64 3.357,84 – – 25.000

2/2/2003 0 – 4.046,24 24.345,88 – – – 25.000

2/2/2003 0 – 2.566,87 26.912,75 – – – 25.000

2/2/2003 0 – 4.304,57 31.217,32 – – – 25.000

2/2/2003 0 – 3.357,84 34.575,16 – – – 25.000

5/2/2003 3 – 775,00 35.350,16 – – – 25.000

6/2/2003 1 – 3.500,00 38.850,16 – – – 25.000

9/2/2003 3 – 1.500,00 40.350,16 – – – 25.000

10/2/2003 1 9.000,00 – 31.350,16 – 9.000,00 – 25.000

10/2/2003 0 – 7.500,00 38.850,16 – – – 25.000

11/2/2003 1 – 974,00 39.824,16 – – – 25.000

13/2/2003 2 3.495,00 – 36.329,16 – 3.495,00 – 25.000

13/2/2003 0 960,00 – 35.369,16 – 960,00 – 25.000

13/2/2003 0 15.000,00 – 20.369,16 4.630,84 10.369,16 – 25.000

13/2/2003 0 2.425,00 – 17.944,16 2.425,00 – – 25.000

13/2/2003 0 5.230,00 – 12.714,16 5.230,00 – – 25.000

13/2/2003 0 – 3.000,00 15.714,16 – – – 25.000

16/2/2003 3 – 1.897,85 17.612,01 – – – 25.000

(Segue)

200 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

16/2/2003 0 – 6.991,82 24.603,83 – – – 25.000

23/2/2003 7 – 169,57 24.773,40 – – – 25.000

23/2/2003 0 – 475,86 25.249,26 – – – 25.000

23/2/2003 0 – 3.016,67 28.265,93 – – – 25.000

23/2/2003 0 – 4.000,00 32.265,93 – – – 25.000

25/2/2003 2 – 5.729,10 37.995,03 – – – 25.000

26/2/2003 1 – 1.382,00 39.377,03 – – – 25.000

27/2/2003 1 86,40 – 39.290,63 – 86,40 – 25.000

27/2/2003 0 – 384,50 39.675,13 – – – 25.000

27/2/2003 0 – 733,60 40.408,73 – – – 25.000

28/2/2003 1 – 56,00 40.464,73 – – – 25.000

28/2/2003 0 – 205,20 40.669,93 – – – 25.000

2/3/2003 2 – 4.734,83 45.404,76 – – – 25.000

2/3/2003 0 – 2.954,13 48.358,89 – – – 25.000

2/3/2003 0 – 1.581,32 49.940,21 – – – 25.000

3/3/2003 1 – 3.555,00 53.495,21 – – – 25.000

4/3/2003 1 3.411,63 – 50.083,58 – 3.411,63 – 25.000

5/3/2003 1 15.000,00 – 35.083,58 – 15.000,00 – 25.000

5/3/2003 0 2.360,90 – 32.722,68 – 2.360,90 – 25.000

5/3/2003 0 – 1.967,00 34.689,68 – – – 25.000

5/3/2003 0 – 96,12 34.785,80 – – – 25.000

6/3/2003 1 – 429,00 35.214,80 – – – 25.000

6/3/2003 0 – 1.042,00 36.256,80 – – – 25.000

6/3/2003 0 – 4,00 36.260,80 – – – 25.000

7/3/2003 1 9.228,00 – 27.032,80 – 9.228,00 – 25.000

7/3/2003 0 – 7.690,00 34.722,80 – – – 25.000

9/3/2003 2 – 964,00 35.686,80 – – – 25.000

10/3/2003 1 – 2.000,00 37.686,80 – – – 25.000

11/3/2003 1 2.512,44 – 35.174,36 – 2.512,44 – 25.000

12/3/2003 1 32.438,27 – 2.736,09 22.263,91 10.174,36 – 25.000

12/3/2003 0 – 27.031,00 29.767,09 – – – 25.000

12/3/2003 0 – 1.356,00 31.123,09 – – – 25.000

(Segue)

201 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

13/3/2003 1 12.000,00 – 19.123,09 5.876,91 6.123,09 – 25.000

13/3/2003 0 – 10.000,00 29.123,09 – – – 25.000

13/3/2003 0 – 1.900,00 31.023,09 – – – 25.000

15/3/2003 2 – 500,00 31.523,09 – – – 25.000

16/3/2003 1 – 309,87 31.832,96 – – – 25.000

16/3/2003 0 – 3.722,74 35.555,70 – – – 25.000

16/3/2003 0 – 251,00 35.806,70 – – – 25.000

16/3/2003 0 – 69,50 35.876,20 – – – 25.000

16/3/2003 0 – 1.083,55 36.959,75 – – – 25.000

16/3/2003 0 – 1.907,00 38.866,75 – – – 25.000

17/3/2003 1 3.894,00 – 34.972,75 – 3.894,00 – 25.000

17/3/2003 0 – 3.245,00 38.217,75 – – – 25.000

18/3/2003 1 1.181,90 – 37.035,85 – 1.181,90 – 25.000

20/3/2003 2 1.864,00 – 35.171,85 – 1.864,00 – 25.000

20/3/2003 0 11.460,00 – 23.711,85 1.288,15 10.171,85 – 25.000

25/3/2003 5 – 521,29 24.233,14 – – – 25.000

26/3/2003 1 5.000,00 – 19.233,14 5.000,00 – – 25.000

26/3/2003 0 5.168,54 – 14.064,60 5.168,54 – – 25.000

26/3/2003 0 – 4.180,00 18.244,60 – – – 25.000

30/3/2003 4 – 5.523,71 23.768,31 – – – 25.000

31/3/2003 1 – 384,50 24.152,81 – – – 25.000

31/3/2003 0 571,90 – 23.580,91 571,90 – – 25.000

31/3/2003 0 – 2.349,94 25.930,85 – – – 25.000

31/3/2003 0 – 62,00 25.992,85 – – – 25.000

31/3/2003 0 – 18,45 26.011,30 – – – 25.000

31/3/2003 0 – 1.735,89 27.747,19 – – – 25.000

31/3/2003 0 – 6.810,47 34.557,66 – – – 25.000

31/3/2003 0 257,70 – 34.299,96 – 257,70 – 25.000

31/3/2003 0 34.299,96 2.033,18 2.033,18 25.000

La soluzione accolta nell’esempio è nel senso che, ove vi siano state rimes-

se solutorie tali da assorbire l’intero ammontare delle poste di cui viene chie-

202 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

sta la ripetizione (eccedenti rispetto a quelle già assorbite da rimesse solutorie precedenti), il loro importo abbia effetto anche sulle poste via via accumulate in presenza di rimesse ripristinatorie.

D’altronde, se è vero che nel periodo in cui le rimesse hanno avuto natura ripristinatoria non si è prodotta la prescrizione in corrispondenza dei singoli movimenti, la natura solutoria delle rimesse successive fa – per così dire – piazza pulita di tutto il passato (ovviamente nei limiti del loro importo).

Il risultato ottenuto su base annuale si può apprezzare visivamente attraver-so l’utilizzo di un grafico, in cui il saldo (per valuta) del conto descrive una curva che tiene conto di tutti i movimenti, in cui i tratti decrescenti della curva corrispondono ad altrettante rimesse, ripristinatorie o solutorie a seconda che la curva medesima si trovi al di sotto o al di sopra dell’affidamento.

Nel caso de quo, è evidente che vi sono significative rimesse solutorie, che

– ove si collochino in epoca antecedente al decennio dal primo atto interrutti-vo – dispiegano effetti in termini di prescrizione degli oneri applicati indebi-tamente. In tale ipotesi, le rimesse solutorie sono tali da assorbire integralmen-te gli oneri addebitati illegittimamente.

Rimane una questione che deve essere affrontata dal punto di vista sia tec-nico sia giuridico: il caso di rimesse operate su scoperto di conto nei limiti dell’affidamento, che portino – nel loro complesso – ad un saldo positivo.

La risposta corretta pare debba essere che la rimessa ha natura solutoria, soltanto per un importo pari al valore assunto dal saldo di segno positivo,

203 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

giacché per l’eccedenza la rimessa ha natura pacificamente ripristinatoria. D’altronde, non si potrebbe opinare che l’intero importo della rimessa ab-

bia natura ripristinatoria, giacché il suo effetto è tale non soltanto da ripristina-re l’intero ammontare dell’affidamento, ma – per l’eccedenza rispetto al saldo precedente – a condurre ad un saldo positivo.

In definitiva si deve ritenere che la rimesse abbiano natura ripristinatoria tutte le volte che operino al di fuori del collar che vede come floor il saldo ze-ro e come cap il limite di affidamento (di diritto o di fatto): in questi casi, in-fatti, non dispiega effetti l’apertura di credito.

2.3. Le operazioni finanziarie complesse Ci si potrebbe interrogare se la distinzione fra rimesse solutorie e rimesse

ripristinatorie assuma – mutatis mutandis – rilevanza anche per le operazioni finanziarie complesse (mutui, leasing, finanziamenti contro cessione del quin-to, ecc.).

Infatti, se è pacifico che le rate pagate dal soggetto che ha ricevuto il finan-ziamento hanno natura solutoria, in quanto estinguono parte del debito mag-giorato degli interessi sino a quel momento maturati, è altrettanto vero che tali operazioni hanno carattere unitario e, pur con la “frammentazione” del piano di rimborso, sono legate da un fil rouge indissolubile.

In altri termini, se si ritiene che l’operazione finanziaria debba essere con-siderata nel suo complesso, la distinzione fra rimesse solutorie e rimesse ripri-stinatorie non assume rilevanza e la prescrizione decorre dall’estinzione del rapporto o dalla sua eventuale risoluzione. Se, per contro, l’operazione finan-ziaria è vista – pur nella sua unitarietà – come un’operazione frazionata, la di-stinzione assume rilevanza e le rate pagate in epoca anteriore al decennio sono colpite da prescrizione.

La giurisprudenza ha avuto occasione di affrontare, seppure soltanto inci-dentalmente la questione, affermando che 9 «il termine di prescrizione decen-nale per il reclamo delle somme trattenute dalla banca indebitamente a titolo di interessi su un’apertura di credito in conto corrente decorre dalla chiusura definitiva del rapporto, trattandosi di un contratto unitario che dà luogo ad un unico rapporto giuridico, anche se articolato in una pluralità di atti esecutivi, sicché è solo con la chiusura del conto che si stabiliscono definitivamente i crediti e i debiti delle parti tra loro».

È vero che la sentenza richiamata si riferisce ad una apertura di credito in

9 Cass. 14 maggio 2005, n. 10127, in www.altalex.com, nota di A. Tanza.

204 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

conto corrente, ma la qualificazione di “contratto unitario” vale a maggior ra-gione per le operazioni finanziarie complesse; con la conseguenza che, sebbe-ne il contratto preveda una estinzione progressiva del debito, la prescrizione decennale dell’azione di ripetizione non può che decorrere dall’estinzione o dalla risoluzione del rapporto.

3. La prescrizione nei procedimenti penali per usura

3.1. Il dato normativo In ambito penale, l’art. 157, commi 1 e 2, c.p. (“Prescrizione. Tempo ne-

cessario a prescrivere”), stabilisce che: «La prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al mas-

simo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo non infe-riore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravven-zione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria.

Per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per il reato consumato o tentato, senza tener conto della diminuzione per le circostanze attenuanti e dell’aumento per le circostanze aggravanti, salvo che per le aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e per quelle ad effetto speciale, nel qual caso si tiene conto dell’aumento massimo di pena previsto per l’aggravante».

Il successivo art. 158 c.p. (“Decorrenza del termine della prescrizione”), prevede che:

«Il termine della prescrizione decorre, per il reato consumato, dal giorno della consumazione; per il reato tentato, dal giorno in cui è cessata l’attività del colpevole; per il reato permanente, dal giorno in cui è cessata la perma-nenza.

Quando la legge fa dipendere la punibilità del reato dal verificarsi di una condizione, il termine della prescrizione decorre dal giorno in cui la condizio-ne si è verificata. Nondimeno nei reati punibili a querela, istanza o richiesta, il termine della prescrizione decorre dal giorno del commesso reato».

Ed ancora, l’art. 159, commi 1 e 3, c.p. (“Sospensione del corso della pre-scrizione”) stabilisce che:

«Il corso della prescrizione rimane sospeso in ogni caso in cui la sospen-sione del procedimento o del processo penale o dei termini di custodia caute-lare è imposta da una particolare disposizione di legge, oltre che nei casi di: 1) autorizzazione a procedere; 2) deferimento della questione ad altro giudi-zio; 3) sospensione del procedimento o del processo penale per ragioni di

205 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

impedimento delle parti e dei difensori ovvero su richiesta dell’imputato o del suo difensore. In caso di sospensione del processo per impedimento delle parti o dei difensori, l’udienza non può essere differita oltre il sessantesimo giorno successivo alla prevedibile cessazione dell’impedimento, dovendosi avere riguardo in caso contrario al tempo dell’impedimento aumentato di sessanta giorni. Sono fatte salve le facoltà previste dall’articolo 71, commi 1 e 5, del codice di procedura penale; 3-bis) sospensione del procedimento pe-nale ai sensi dell’articolo 420-quater del codice di procedura penale.

(…) La prescrizione riprende il suo corso dal giorno in cui è cessata la causa

della sospensione». Ed infine, l’art. 160 c.p. (“Interruzione del corso della prescrizione”) pre-

vede che: «Il corso della prescrizione è interrotto dalla sentenza di condanna o dal

decreto di condanna. Interrompono pure la prescrizione l’ordinanza che applica le misure caute-

lari personali e quella di convalida del fermo o dell’arresto, l’interrogatorio reso davanti al pubblico ministero o al giudice, l’invito a presentarsi al pubbli-co ministero per rendere l’interrogatorio, il provvedimento del giudice di fis-sazione dell’udienza in camera di consiglio per la decisione sulla richiesta di archiviazione, la richiesta di rinvio a giudizio, il decreto di fissazione della udienza preliminare, l’ordinanza che dispone il giudizio abbreviato, il decreto di fissazione della udienza per la decisione sulla richiesta di applicazione della pena, la presentazione o la citazione per il giudizio direttissimo, il decreto che dispone il giudizio immediato, il decreto che dispone il giudizio e il decreto di citazione a giudizio.

La prescrizione interrotta comincia nuovamente a decorrere dal giorno del-la interruzione. Se più sono gli atti interruttivi, la prescrizione decorre dall’ul-timo di essi; ma in nessun caso i termini stabiliti nell’articolo 157 possono es-sere prolungati oltre i termini di cui all’articolo 161, secondo comma, fatta ec-cezione per i reati di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale».

Con particolare riguardo al reato di usura, l’art. 644, commi 1 e 5, c.p. (Usura) stabilisce che:

«Chiunque, fuori dei casi previsti dall’articolo 643, si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari, è punito con la reclu-sione da due a dieci anni e con la multa da euro 5.000 a euro 30.000.

(…)

206 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

Le pene per i fatti di cui al primo e secondo comma sono aumentate da un terzo alla metà: 1) se il colpevole ha agito nell’esercizio di una attività profes-sionale, bancaria o di intermediazione finanziaria mobiliare; 2) se il colpevole ha richiesto in garanzia partecipazioni o quote societarie o aziendali o proprie-tà immobiliari; 3) se il reato è commesso in danno di chi si trova in stato di bi-sogno; 4) se il reato è commesso in danno di chi svolge attività imprenditoria-le, professionale o artigianale; 5) se il reato è commesso da persona sottoposta con provvedimento definitivo alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale durante il periodo previsto di applicazione e fino a tre anni dal mo-mento in cui è cessata l’esecuzione».

Il successivo art. 644-ter c.p. (“Prescrizione del reato di usura”) prevede che «La prescrizione del reato di usura decorre dal giorno dell’ultima riscos-sione sia degli interessi che del capitale».

In linea generale, quindi, la prescrizione del reato di usura è pari a dieci anni, cioè coincide con la prescrizione civile ordinaria. Tuttavia, in caso di u-sura perpetrata da un intermediario finanziario in danno di un imprenditore, il termine aumenta della metà – per arrivare a quindici anni – e, almeno secondo un certo orientamento giurisprudenziale, di un ulteriore terzo – per arrivare a venti anni –.

3.2. La posizione della giurisprudenza La Suprema Corte ha ancora di recente 10 affrontato il tema della prescri-

zione, formulando i seguenti principi:

• il delitto di usura è reato a condotta frazionata o a consumazione prolun-gata, costituito da due fattispecie (destinate strutturalmente l’una ad assorbire l’altra con l’esecuzione della pattuizione usuraria) aventi in comune l’induzio-ne del soggetto passivo alla pattuizione di interessi od altri vantaggi usurari in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra cosa mobile, delle quali l’una è caratterizzata dal conseguimento del profitto illecito e l’altra dalla sola accettazione del sinallagma ad esso preordinato;

• nella prima, il verificarsi dell’evento lesivo del patrimonio altrui si atteg-gia non già ad effetto del reato, più o meno esteso nel tempo in relazione all’e-ventuale rateizzazione del debito, bensì ad elemento costitutivo dell’illecito il quale, nel caso di integrale adempimento dell’obbligazione usuraria, si consu-ma con il pagamento del debito;

• nella seconda, invece, che si verifica quando la promessa del corrispetti-

10 Cass. 8 ottobre 2015, n. 40380, in www.altalex.com, nota di G. Denora.

207 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

vo, in tutto o in parte, non viene mantenuta, il reato si perfeziona con la sola accettazione dell’obbligazione rimasta inadempiuta;

• l’induzione di un soggetto alla pattuizione di interessi o altri vantaggi usurari può seguire iter differenti ed avere sbocchi differenti: l’ipotesi in cui l’induzione conduca ad una pattuizione usuraria e l’ipotesi in cui detta pattui-zione sia seguita dalla relativa esecuzione;

• la consumazione del reato viene “posticipata”, se la pattuizione ha esecu-zione, al momento del conseguimento e/o conferimento degli interessi o van-taggi usurari, e per la precisione viene individuata nelle circostanze fattuali dell’ultimo episodio. Così, il soggetto che si trovi ad “incassare” profitti illeci-ti, anche a distanza di tempo dalla pattuizione illecita, non potrà beneficiare del tempo decorso dalla conclusione del sinallagma illecito per rilevare l’intervenuta prescrizione del reato;

• la consumazione del reato non è limitata al momento della pattuizione originaria, ma si prolunga al momento in cui – in seguito alla pattuizione in questione – si verifichi effettiva riscossione degli interessi o il concreto conse-guimento dei vantaggi usurari;

• le due fattispecie sono destinate strutturalmente l’una ad assorbire l’altra con l’esecuzione della pattuizione usuraria.

La Suprema Corte ha, quindi, individuato un diverso dies a quo di decor-renza della prescrizione, a seconda che l’interesse usurario sia soltanto pattuito o venga anche onorato.

Ancora più di recente, la Corte di Cassazione 11 ha precisato che:

• nel caso in cui tra il soggetto agente e la vittima sussista una complessità di rapporti economici, per l’individuazione della natura usuraria degli interessi occorre avere riguardo ai singoli episodi di finanziamento e quindi alle speci-fiche dazioni o promesse, non potendosi procedere al conteggio globale degli interessi dovuti in virtù della pluralità dei prestiti;

• lo sforamento del tasso-soglia è più facile da verificare nel caso di inte-ressi “promessi”, ossia contrattualmente pattuiti in una misura ben precisa (ad esempio, nel caso di usura “bancaria”, normalmente caratterizzata dalla pre-senza di un vero e proprio contratto);

• se ad acquistare rilievo è invece l’elemento fattuale della dazione, la veri-fica dell’usurarietà del saggio di interessi richiede un’indagine più complessa: occorre, anzitutto, accertare il valore totale delle somme riscosse dal mutuan-te; poi, sottraendo da tale importo la sorte capitale (ossia il denaro dato in pre-

11 Cass. 22 settembre 2016, n. 39334, in www.dirittobancario.it.

208 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

stito), si ricava il profitto; quest’ultimo deve essere, infine, rapportato all’intera durata del prestito, in modo da accertare in via deduttiva l’incidenza percentuale del profitto stesso nel corso del tempo, cioè il saggio di interessi in concreto riscosso;

• costituisce un errore tecnico-giuridico, nella redazione di una consulenza tecnica in materia di usura, rilevare il tasso effettivamente praticato dall’im-putato su base annuale, senza distinguere fra i diversi prestiti intercorsi fra gli stessi soggetti e senza verificare la data di ciascun pagamento;

• l’imputazione delle “rate” di ammortamento del mutuo al solo capitale, laddove ricorrano invece gli estremi per l’imputazione agli interessi (già sca-duti), determina un errore di calcolo che in concreto può rivolgersi in danno dell’imputato. Infatti, l’erronea imputazione del pagamento determina un’ap-parente riduzione del capitale mutuato e quindi accresce l’incidenza percen-tuale delle ulteriori somme che saranno corrisposte in seguito, sempre a titolo di interessi;

• a ragionare diversamente qualunque mutuo finirebbe col divenire usurario perché, assottigliandosi man mano il capitale (e considerandosi come insoluti i soli interessi), le rate di ammortamento prima o poi avrebbero inevitabilmente un’incidenza percentuale sul capitale residuo superiore a quella consentita dal c.d. tasso soglia.

La Suprema Corte ha, quindi, confermato – seppure implicitamente – che, nelle operazioni finanziarie complesse, il parametro di riferimento per la verifi-ca del superamento del tasso soglia è costituito dal tasso interno di rendimento (T.I.R.).

3.3. Gli aspetti di natura tecnica È bene subito precisare che l’ambito applicativo della prescrizione penale è

diverso rispetto a quello della prescrizione civile: nel primo caso, infatti, si ha esclusivo riguardo agli interessi usurari, mentre nel secondo rilevano anche le altre componenti oggetto di illecita applicazione (es. interessi ultralegali non previsti contrattualmente, interessi anatocistici ove non ammessi, commissioni e spese non previste contrattualmente o applicate illegittimamente, ecc.).

Fatta questa premessa, occorre nuovamente distinguere fra rapporti di con-to corrente bancario e operazioni finanziarie complesse (mutui, leasing, finan-ziamenti contro cessione del quinto, ecc.), giacché la verifica dell’eventuale superamento del tasso usurario si atteggia diversamente.

209 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

3.3.1. I rapporti di conto corrente bancario Per i rapporti di conto corrente bancario, secondo una prassi diffusa, la ve-

rifica dell’eventuale usurarietà degli interessi deve essere effettuata avendo ri-guardo ad ogni singolo trimestre.

A tal proposito, occorre brevemente premettere che l’art. 644 c.p., come so-stituito dall’art. 1 della legge 7 marzo 1996, n. 108, nel reprimere il reato di usu-ra, prescrive, al comma 4, che «Per la determinazione del tasso di interesse usu-rario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito».

L’art. 2 della legge n. 108/1996 attribuisce al Ministero del Tesoro (ora Ministero dell’Economia e delle Finanze) il compito di rilevare trimestralmen-te, sentiti la Banca d’Italia e l’ormai soppresso Ufficio Italiano Cambi, il tasso effettivo globale medio degli interessi applicati dalle banche e dagli interme-diari, stabilendo che i valori medi così rilevati siano pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale. I tassi medi così rilevati e pubblicati, aumentati della metà, costitui-scono, ai sensi dell’ultimo comma del citato art. 2, il limite oltre il quale i tassi applicati si considerano sempre usurari, ai sensi del comma 3 dell’art. 644 c.p.

Il delineato quadro normativo impone, quindi, di verificare l’eventuale su-peramento del limite usurario mediante raffronto tra il tasso effettivamente applicato e le soglie stabilite con periodicità trimestrale dal Ministero del Te-soro.

In tale contesto, la Banca d’Italia, che si occupa della raccolta dalle banche e dagli altri intermediari dei dati necessari alla predetta rilevazione, ha dirama-to le proprie “Istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio ai sensi della legge sull’usura”, oggetto di successivi aggiornamenti.

Nella determinazione del tasso applicato all’esposizione debitoria di conto corrente è necessario tenere conto non solo dell’“interesse”, inteso quale re-munerazione del capitale, ma anche di tutti gli altri elementi che rappresentano un costo il cui sostenimento è collegato all’erogazione di credito.

A titolo esemplificativo, è stata elaborata la seguente tabella, ipotizzando un perimetro d’indagine compreso tra il IV Trimestre 2000 e il IV Trimestre 2015 e tenendo conto di tutte le ipotesi applicative normalmente considerate:

• commissione di massimo scoperto al primo addendo; • commissione di massimo scoperto al secondo addendo; • regime del margine; • commissione di massimo scoperto esclusa dal computo (fino al terzo tri-

mestre 2009).

210 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

TRIMESTRE

T.E.G. CMS

PRIMO ADDENDO

T.E.G. CMS SECONDO ADDENDO

T.E.G. REGIME

DEL MARGINE

T.E.G. SENZA

CMS

TASSO SOGLIA

SUPERA-MENTO SOGLIA

TEG PRIMO ADDENDO

SUPERA-MENTO

SOGLIA TEG SECONDO ADDENDO

SUPERA-MENTO SOGLIA REGIME

DEL MARGINE

SUPERA-MENTO SOGLIA

TEG SENZA C.M.S.

IV TRIMESTRE 2000

13,61% 10,30% 1,0958 9,58% 15,29%

I TRIMESTRE 2001

12,28% 10,20% 1,0957 9,57% 15,63%

II TRIMESTRE 2001

12,11% 10,09% 1,0946 9,46% 15,57%

III TRIMESTRE 2001

17,61% 15,51% 1,1490 14,90% 15,23% Usura Usura

IV TRIMESTRE 2001

11,93% 10,03% 1,0941 9,41% 15,00%

I TRIMESTRE 2002

11,64% 9,71% 1,0910 9,10% 14,13%

II TRIMESTRE 2002

15,26% 12,95% 1,1226 12,26% 14,55% Usura

III TRIMESTRE 2002

9,76% 7,52% 1,0690 6,90% 14,67%

IV TRIMESTRE 2002

9,70% 7,62% 1,0701 7,01% 14,70%

I TRIMESTRE 2003

9,90% 7,89% 1,0727 7,27% 14,60%

II TRIMESTRE 2003

11,22% 8,90% 1,0828 8,28% 14,06%

III TRIMESTRE 2003

11,76% 9,53% 1,0892 8,92% 14,19%

IV TRIMESTRE 2003

12,35% 10,22% 1,0960 9,60% 13,89%

I TRIMESTRE 2004

14,37% 11,93% 1,1127 11,27% 14,25% Usura

II TRIMESTRE 2004

12,48% 10,33% 1,0971 9,71% 14,13%

III TRIMESTRE 2004

12,54% 10,38% 1,0976 9,76% 14,21%

IV TRIMESTRE 2004

18,43% 16,26% 1,1564 9,82% 14,16% Usura Usura Usura Usura

I TRIMESTRE 2005

13,57% 10,70% 1,0988 9,88% 14,27%

(Segue)

211 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

II TRIMESTRE 2005

12,75% 10,57% 1,0994 9,94% 14,25%

III TRIMESTRE 2005

12,82% 10,63% 1,1000 10,00% 14,28%

IV TRIMESTRE 2005

12,90% 10,70% 1,1006 10,06% 14,06%

I TRIMESTRE 2006

12,98% 10,77% 1,1013 10,13% 14,07%

II TRIMESTRE 2006

13,07% 10,84% 1,1020 10,20% 14,24%

III TRIMESTRE 2006

13,15% 10,92% 1,1028 10,28% 14,37%

IV TRIMESTRE 2006

13,24% 11,00% 1,1035 10,35% 14,70%

I TRIMESTRE 2007

13,34% 11,09% 1,1044 10,44% 14,91%

II TRIMESTRE 2007

13,40% 11,20% 1,1055 10,55% 14,85%

III TRIMESTRE 2007

13,45% 11,30% 1,1065 10,65% 14,94%

IV TRIMESTRE 2007

13,73% 11,41% 1,1071 10,71% 14,93%

I TRIMESTRE 2008

14,05% 11,53% 1,1078 10,78% 14,76%

II TRIMESTRE 2008

14,23% 11,59% 1,1084 10,84% 14,82%

III TRIMESTRE 2008

14,42% 11,73% 1,1098 10,98% 14,81%

IV TRIMESTRE 2008

14,91% 11,96% 1,1128 11,28% 15,14%

I TRIMESTRE 2009

13,57% 10,33% 1,0970 9,70% 13,68%

II TRIMESTRE 2009

12,21% 9,31% 1,0862 8,62% 12,93%

III TRIMESTRE 2009

11,22% 8,34% 1,0762 7,62% 12,48%

IV TRIMESTRE 2009

12,63% 9,45% 1,0865 8,65% 12,77%

I TRIMESTRE 2010

14,73% 11,27% 1,1038 10,38% 14,39%

II TRIMESTRE 2010

14,84% 11,34% 1,1043 10,43% 14,73%

(Segue)

212 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

III TRIMESTRE 2010

14,95% 11,40% 1,1048 10,48% 13,71%

IV TRIMESTRE 2010

15,88% 11,95% 1,1099 10,99% 13,73%

I TRIMESTRE 2011

15,24% 11,45% 1,1081 10,81% 13,53%

II TRIMESTRE 2011

15,29% 11,60% 1,1091 10,91% 13,64%

III TRIMESTRE 2011

15,41% 12,03% 1,1106 11,06% 13,91%

IV TRIMESTRE 2011

15,66% 12,08% 1,1112 11,12% 13,83%

I TRIMESTRE 2012

15,82% 12,26% 1,1129 11,29% 13,97%

II TRIMESTRE 2012

15,75% 12,39% 1,1139 11,39% 14,18%

III TRIMESTRE 2012

15,74% 12,31% 1,1133 11,33% 14,90%

IV TRIMESTRE 2012

14,97% 12,06% 1,1130 11,30% 14,87%

I TRIMESTRE 2013

11,98% 11,98% 1,1198 11,98% 15,21%

II TRIMESTRE 2013

12,27% 12,27% 1,1227 12,27% 15,29%

III TRIMESTRE 2013

13,22% 13,98% 1,1322 13,22% 15,24%

IV TRIMESTRE 2013

13,22% 13,22% 1,1322 13,22% 15,20%

I TRIMESTRE 2014

13,22% 13,22% 1,1322 13,22% 15,09%

II TRIMESTRE 2014

13,24% 13,24% 1,1324 13,24% 15,09%

III TRIMESTRE 2014

13,07% 13,07% 1,1307 13,07% 15,30%

IV TRIMESTRE 2014

13,71% 13,71% 1,1371 13,71% 15,12%

I TRIMESTRE 2015

13,98% 13,98% 1,1398 13,98% 16,46%

II TRIMESTRE 2015

14,17% 14,17% 1,1417 14,17% 16,45%

III TRIMESTRE 2015

14,27% 14,27% 1,1427 14,27% 16,31%

IV TRIMESTRE 2015

13,01% 13,01% 1,1301 13,01% 16,10%

213 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

Tenuto conto dell’orientamento giurisprudenziale sopra richiamato, secon-do cui possono rilevare in concreto le singole dazioni – che, per comodità, vengono considerate a livello trimestrale –, non opererebbe la prescrizione pe-nale, ferma restando l’ipotesi di “ampliamento” dei termini dovuto alla circo-stanza che il finanziatore riveste la natura di intermediario finanziario e il cor-rentista quella di impresa; per contro, nel caso di rimesse solutorie e di atto in-terruttivo al 1° gennaio 2016, gli interessi usurari illegittimamente applicati sarebbero – in parte – “immunizzati” dalla prescrizione civile.

3.3.2. Le operazioni finanziarie complesse

Per le operazioni finanziarie complesse, la verifica dell’eventuale usurarie-tà deve essere effettuata – come si desume dalla sentenza sopra richiamata – ex ante, e cioè alla stipulazione del contratto, ed ex post, con riguardo ad ogni singola rata.

Ipotizzando un contratto di mutuo alle condizioni di seguito richiamate, si potrebbe ricostruire la tabella successiva:

GRANDEZZE VALORI

Capitale iniziale 2.500.000,00

Data di inizio 01/01/2000

Durata in mesi 180

T.A.N. ammortamento 6,66%

T.A.N. ammortamento mensile 0,56%

Rata 22.000,00

Commissione iniziale 2.500,00

Importo erogato 2.497.500,00

Commissioni 2,00

214 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

N. RA-TA

DATA

DATA PAGA-

MENTO RATA

RATA

RATA CUMULA-TA PAGA-

TA

COM-MIS-

SIONI

FLUSSI FINAN-ZIARI

FLUSSI ATTUALIZ-

ZATI

T.E.G. AN-NUO

T.E.G.M.

TASSO SO-

GLIA

SUPE-RA-

MENTO SOGLIA

1 01/01/2000 01/01/2000 22.000,00 22.000,00 2,00 22.002,00 21.880,22

6,89% 5,34% 8,01%

2 01/02/2000 01/02/2000 22.000,00 44.000,00 2,00 22.002,00 21.759,12

3 01/03/2000 01/03/2000 22.000,00 66.000,00 2,00 22.002,00 21.638,69

4 01/04/2000 01/04/2000 22.000,00 88.000,00 2,00 22.002,00 21.518,92

6,89% 5,82% 8,73%

5 01/05/2000 01/05/2000 22.000,00 110.000,00 2,00 22.002,00 21.399,82

6 01/06/2000 01/06/2000 22.000,00 132.000,00 2,00 22.002,00 21.281,38

7 01/07/2000 01/07/2000 22.000,00 154.000,00 2,00 22.002,00 21.163,59

6,89% 6,29% 9,44%

8 01/08/2000 01/08/2000 22.000,00 176.000,00 2,00 22.002,00 21.046,46

9 01/09/2000 01/09/2000 22.000,00 198.000,00 2,00 22.002,00 20.929,97

10 01/10/2000 01/10/2000 22.000,00 220.000,00 2,00 22.002,00 20.814,13

6,89% 6,63% 9,95%

11 01/11/2000 01/11/2000 22.000,00 242.000,00 2,00 22.002,00 20.698,92

12 01/12/2000 01/12/2000 22.000,00 264.000,00 2,00 22.002,00 20.584,36

13 01/01/2001 01/01/2001 22.000,00 286.000,00 2,00 22.002,00 20.470,43

6,89% 6,93% 10,40%

14 01/02/2001 01/02/2001 22.000,00 308.000,00 2,00 22.002,00 20.357,13

15 01/03/2001 01/03/2001 22.000,00 330.000,00 2,00 22.002,00 20.244,46

16 01/04/2001 01/04/2001 22.000,00 352.000,00 2,00 22.002,00 20.132,41

6,89% 6,82% 10,23%

17 01/05/2001 01/05/2001 22.000,00 374.000,00 2,00 22.002,00 20.020,98

18 01/06/2001 01/06/2001 22.000,00 396.000,00 2,00 22.002,00 19.910,17

19 01/07/2001 01/07/2001 22.000,00 418.000,00 2,00 22.002,00 19.799,97

6,89% 6,56% 9,84%

20 01/08/2001 01/08/2001 22.000,00 440.000,00 2,00 22.002,00 19.690,38

21 01/09/2001 01/09/2001 22.000,00 462.000,00 2,00 22.002,00 19.581,40

22 01/10/2001 01/10/2001 22.000,00 484.000,00 2,00 22.002,00 19.473,02

6,89% 6,28% 9,42%

23 01/11/2001 01/11/2001 22.000,00 506.000,00 2,00 22.002,00 19.365,24

24 01/12/2001 01/12/2001 22.000,00 528.000,00 2,00 22.002,00 19.258,06

25 01/01/2002 01/01/2002 22.000,00 550.000,00 2,00 22.002,00 19.151,47

6,89% 5,51% 8,27%

26 01/02/2002 01/02/2002 22.000,00 572.000,00 2,00 22.002,00 19.045,47

27 01/03/2002 01/03/2002 22.000,00 594.000,00 2,00 22.002,00 18.940,06

28 01/04/2002 01/04/2002 22.000,00 616.000,00 2,00 22.002,00 18.835,23 6,89%

5,56%

8,34% 29 01/05/2002 01/05/2002 22.000,00 638.000,00 2,00 22.002,00 18.730,98

(Segue)

215 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

30 01/06/2002 01/06/2002 22.000,00 660.000,00 2,00 22.002,00 18.627,31

31 01/07/2002 01/07/2002 22.000,00 682.000,00 2,00 22.002,00 18.524,21

6,89% 5,62% 8,43%

32 01/08/2002 01/08/2002 22.000,00 704.000,00 2,00 22.002,00 18.421,69

33 01/09/2002 01/09/2002 22.000,00 726.000,00 2,00 22.002,00 18.319,73

34 01/10/2002 01/10/2002 22.000,00 748.000,00 2,00 22.002,00 18.218,33

6,89% 5,61% 8,42% 35 01/11/2002 01/11/2002 22.000,00 770.000,00 2,00 22.002,00 18.117,50

36 01/12/2002 01/12/2002 22.000,00 792.000,00 2,00 22.002,00 18.017,22

37 01/01/2003 01/01/2003 22.000,00 814.000,00 2,00 22.002,00 17.917,50

6,89% 5,37% 8,06%

38 01/02/2003 01/02/2003 22.000,00 836.000,00 2,00 22.002,00 17.818,33

39 01/03/2003 01/03/2003 22.000,00 858.000,00 2,00 22.002,00 17.719,71

40 01/04/2003 01/04/2003 22.000,00 880.000,00 2,00 22.002,00 17.621,63

6,89% 4,79% 7,19%

41 01/05/2003 01/05/2003 22.000,00 902.000,00 2,00 22.002,00 17.524,10

42 01/06/2003 01/06/2003 22.000,00 924.000,00 2,00 22.002,00 17.427,11

43 01/07/2003 01/07/2003 22.000,00 946.000,00 2,00 22.002,00 17.330,66

6,89% 4,53% 6,80% Usura 44 01/08/2003 01/08/2003 22.000,00 968.000,00 2,00 22.002,00 17.234,73

45 01/09/2003 01/09/2003 22.000,00 990.000,00 2,00 22.002,00 17.139,34

46 01/10/2003 01/10/2003 22.000,00 1.012.000,00 2,00 22.002,00 17.044,48

6,89% 4,15% 6,23% Usura 47 01/11/2003 01/11/2003 22.000,00 1.034.000,00 2,00 22.002,00 16.950,14

48 01/12/2003 01/12/2003 22.000,00 1.056.000,00 2,00 22.002,00 16.856,33

49 01/01/2004 01/01/2004 22.000,00 1.078.000,00 2,00 22.002,00 16.763,03

6,89% 4,24% 6,36% Usura 50 01/02/2004 01/02/2004 22.000,00 1.100.000,00 2,00 22.002,00 16.670,25

51 01/03/2004 01/03/2004 22.000,00 1.122.000,00 2,00 22.002,00 16.577,99

52 01/04/2004 01/04/2004 22.000,00 1.144.000,00 2,00 22.002,00 16.486,23

6,89% 4,17% 6,26% Usura 53 01/05/2004 01/05/2004 22.000,00 1.166.000,00 2,00 22.002,00 16.394,98

54 01/06/2004 01/06/2004 22.000,00 1.188.000,00 2,00 22.002,00 16.304,24

55 01/07/2004 01/07/2004 22.000,00 1.210.000,00 2,00 22.002,00 16.214,00

6,89% 5,47% 8,21%

56 01/08/2004 01/08/2004 22.000,00 1.232.000,00 2,00 22.002,00 16.124,26

57 01/09/2004 01/09/2004 22.000,00 1.254.000,00 2,00 22.002,00 16.035,02

58 01/10/2004 01/10/2004 22.000,00 1.276.000,00 2,00 22.002,00 15.946,27

6,89% 5,43% 8,15%

59 01/11/2004 01/11/2004 22.000,00 1.298.000,00 2,00 22.002,00 15.858,01

60 01/12/2004 01/12/2004 22.000,00 1.320.000,00 2,00 22.002,00 15.770,24

61 01/01/2005 01/01/2005 22.000,00 1.342.000,00 2,00 22.002,00 15.682,95 6,89% 5,56% 8,34%

(Segue)

216 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

62 01/02/2005 01/02/2005 22.000,00 1.364.000,00 2,00 22.002,00 15.596,15

63 01/03/2005 01/03/2005 22.000,00 1.386.000,00 2,00 22.002,00 15.509,83

64 01/04/2005 01/04/2005 22.000,00 1.408.000,00 2,00 22.002,00 15.423,99

6,89% 5,36% 8,04%

65 01/05/2005 01/05/2005 22.000,00 1.430.000,00 2,00 22.002,00 15.338,62

66 01/06/2005 01/06/2005 22.000,00 1.452.000,00 2,00 22.002,00 15.253,72

67 01/07/2005 01/07/2005 22.000,00 1.474.000,00 2,00 22.002,00 15.169,30

6,89% 5,16% 7,74%

68 01/08/2005 01/08/2005 22.000,00 1.496.000,00 2,00 22.002,00 15.085,34

69 01/09/2005 01/09/2005 22.000,00 1.518.000,00 2,00 22.002,00 15.001,84

70 01/10/2005 01/10/2005 22.000,00 1.540.000,00 2,00 22.002,00 14.918,81

6,89% 5,00% 7,50%

71 01/11/2005 01/11/2005 22.000,00 1.562.000,00 2,00 22.002,00 14.836,24

72 01/12/2005 01/12/2005 22.000,00 1.584.000,00 2,00 22.002,00 14.754,12

73 01/01/2006 01/01/2006 22.000,00 1.606.000,00 2,00 22.002,00 14.672,46

6,89% 4,97% 7,46%

74 01/02/2006 01/02/2006 22.000,00 1.628.000,00 2,00 22.002,00 14.591,25

75 01/03/2006 01/03/2006 22.000,00 1.650.000,00 2,00 22.002,00 14.510,49

76 01/04/2006 01/04/2006 22.000,00 1.672.000,00 2,00 22.002,00 14.430,18

6,89% 5,14% 7,71%

77 01/05/2006 01/05/2006 22.000,00 1.694.000,00 2,00 22.002,00 14.350,31

78 01/06/2006 01/06/2006 22.000,00 1.716.000,00 2,00 22.002,00 14.270,89

79 01/07/2006 01/07/2006 22.000,00 1.738.000,00 2,00 22.002,00 14.191,90

6,89% 5,30% 7,95%

80 01/08/2006 01/08/2006 22.000,00 1.760.000,00 2,00 22.002,00 14.113,35

81 01/09/2006 01/09/2006 22.000,00 1.782.000,00 2,00 22.002,00 14.035,24

82 01/10/2006 01/10/2006 22.000,00 1.804.000,00 2,00 22.002,00 13.957,56

6,89% 5,71% 8,57%

83 01/11/2006 01/11/2006 22.000,00 1.826.000,00 2,00 22.002,00 13.880,31

84 01/12/2006 01/12/2006 22.000,00 1.848.000,00 2,00 22.002,00 13.803,48

85 01/01/2007 01/01/2007 22.000,00 1.870.000,00 2,00 22.002,00 13.727,08

6,89% 5,99% 8,99%

86 01/02/2007 01/02/2007 22.000,00 1.892.000,00 2,00 22.002,00 13.651,11

87 01/03/2007 01/03/2007 22.000,00 1.914.000,00 2,00 22.002,00 13.575,55

88 01/04/2007 01/04/2007 22.000,00 1.936.000,00 2,00 22.002,00 13.500,41

6,89% 5,72% 8,58%

89 01/05/2007 01/05/2007 22.000,00 1.958.000,00 2,00 22.002,00 13.425,69

90 01/06/2007 01/06/2007 22.000,00 1.980.000,00 2,00 22.002,00 13.351,38

91 01/07/2007 01/07/2007 22.000,00 2.002.000,00 2,00 22.002,00 13.277,49

6,89% 5,91% 8,87%

92 01/08/2007 01/08/2007 22.000,00 2.024.000,00 2,00 22.002,00 13.204,00

93 01/09/2007 01/09/2007 22.000,00 2.046.000,00 2,00 22.002,00 13.130,92

(Segue)

217 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

94 01/10/2007 01/10/2007 22.000,00 2.068.000,00 2,00 22.002,00 13.058,24

6,89% 6,06% 9,09%

95 01/11/2007 01/11/2007 22.000,00 2.090.000,00 2,00 22.002,00 12.985,96

96 01/12/2007 01/12/2007 22.000,00 2.112.000,00 2,00 22.002,00 12.914,09

97 01/01/2008 01/01/2008 22.000,00 2.134.000,00 2,00 22.002,00 12.842,61

6,89% 6,08% 9,12%

98 01/02/2008 01/02/2008 22.000,00 2.156.000,00 2,00 22.002,00 12.771,53

99 01/03/2008 01/03/2008 22.000,00 2.178.000,00 2,00 22.002,00 12.700,85

100 01/04/2008 01/04/2008 22.000,00 2.200.000,00 2,00 22.002,00 12.630,55

6,89% 6,04% 9,06%

101 01/05/2008 01/05/2008 22.000,00 2.222.000,00 2,00 22.002,00 12.560,64

102 01/06/2008 01/06/2008 22.000,00 2.244.000,00 2,00 22.002,00 12.491,12

103 01/07/2008 01/07/2008 22.000,00 2.266.000,00 2,00 22.002,00 12.421,99

6,89% 5,99% 8,99%

104 01/08/2008 01/08/2008 22.000,00 2.288.000,00 2,00 22.002,00 12.353,23

105 01/09/2008 01/09/2008 22.000,00 2.310.000,00 2,00 22.002,00 12.284,86

106 01/10/2008 01/10/2008 22.000,00 2.332.000,00 2,00 22.002,00 12.216,87

6,89% 6,30% 9,45%

107 01/11/2008 01/11/2008 22.000,00 2.354.000,00 2,00 22.002,00 12.149,25

108 01/12/2008 01/12/2008 22.000,00 2.376.000,00 2,00 22.002,00 12.082,01

109 01/01/2009 01/01/2009 22.000,00 2.398.000,00 2,00 22.002,00 12.015,13

6,89% 5,39% 8,09%

110 01/02/2009 01/02/2009 22.000,00 2.420.000,00 2,00 22.002,00 11.948,63

111 01/03/2009 01/03/2009 22.000,00 2.442.000,00 2,00 22.002,00 11.882,50

112 01/04/2009 01/04/2009 22.000,00 2.464.000,00 2,00 22.002,00 11.816,73

6,89% 4,42% 6,63% Usura 113 01/05/2009 01/05/2009 22.000,00 2.486.000,00 2,00 22.002,00 11.751,33

114 01/06/2009 01/06/2009 22.000,00 2.508.000,00 2,00 22.002,00 11.686,29

115 01/07/2009 01/07/2009 22.000,00 2.530.000,00 2,00 22.002,00 11.621,61

6,89% 4,46% 6,69% Usura 116 01/08/2009 01/08/2009 22.000,00 2.552.000,00 2,00 22.002,00 11.557,29

117 01/09/2009 01/09/2009 22.000,00 2.574.000,00 2,00 22.002,00 11.493,32

118 01/10/2009 01/10/2009 22.000,00 2.596.000,00 2,00 22.002,00 11.429,71

6,89% 5,19% 7,79%

119 01/11/2009 01/11/2009 22.000,00 2.618.000,00 2,00 22.002,00 11.366,44

120 01/12/2009 01/12/2009 22.000,00 2.640.000,00 2,00 22.002,00 11.303,53

121 01/01/2010 01/01/2010 22.000,00 2.662.000,00 2,00 22.002,00 11.240,97

6,89% 5,36% 8,04%

122 01/02/2010 01/02/2010 22.000,00 2.684.000,00 2,00 22.002,00 11.178,76

123 01/03/2010 01/03/2010 22.000,00 2.706.000,00 2,00 22.002,00 11.116,88

124 01/04/2010 01/04/2010 22.000,00 2.728.000,00 2,00 22.002,00 11.055,35 6,89% 5,17% 7,76%

125 01/05/2010 01/05/2010 22.000,00 2.750.000,00 2,00 22.002,00 10.994,16

(Segue)

218 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

126 01/06/2010 01/06/2010 22.000,00 2.772.000,00 2,00 22.002,00 10.933,31

127 01/07/2010 01/07/2010 22.000,00 2.794.000,00 2,00 22.002,00 10.872,80

6,89% 4,99% 7,49%

128 01/08/2010 01/08/2010 22.000,00 2.816.000,00 2,00 22.002,00 10.812,62

129 01/09/2010 01/09/2010 22.000,00 2.838.000,00 2,00 22.002,00 10.752,78

130 01/10/2010 01/10/2010 22.000,00 2.860.000,00 2,00 22.002,00 10.693,26

6,89% 4,51% 6,77% Usura 131 01/11/2010 01/11/2010 22.000,00 2.882.000,00 2,00 22.002,00 10.634,08

132 01/12/2010 01/12/2010 22.000,00 2.904.000,00 2,00 22.002,00 10.575,22

133 01/01/2011 01/01/2011 22.000,00 2.926.000,00 2,00 22.002,00 10.516,69

6,89% 4,19% 6,29% Usura 134 01/02/2011 01/02/2011 22.000,00 2.948.000,00 2,00 22.002,00 10.458,48

135 01/03/2011 01/03/2011 22.000,00 2.970.000,00 2,00 22.002,00 10.400,60

136 01/04/2011 01/04/2011 22.000,00 2.992.000,00 2,00 22.002,00 10.343,03

6,89% 4,68% 7,02%

137 01/05/2011 01/05/2011 22.000,00 3.014.000,00 2,00 22.002,00 10.285,79

138 01/06/2011 01/06/2011 22.000,00 3.036.000,00 2,00 22.002,00 10.228,86

139 01/07/2011 01/07/2011 22.000,00 3.058.000,00 2,00 22.002,00 10.172,24

6,89% 5,15% 10,44%

140 01/08/2011 01/08/2011 22.000,00 3.080.000,00 2,00 22.002,00 10.115,94

141 01/09/2011 01/09/2011 22.000,00 3.102.000,00 2,00 22.002,00 10.059,95

142 01/10/2011 01/10/2011 22.000,00 3.124.000,00 2,00 22.002,00 10.004,27

6,89% 5,12% 10,40%

143 01/11/2011 01/11/2011 22.000,00 3.146.000,00 2,00 22.002,00 9.948,90

144 01/12/2011 01/12/2011 22.000,00 3.168.000,00 2,00 22.002,00 9.893,83

145 01/01/2012 01/01/2012 22.000,00 3.190.000,00 2,00 22.002,00 9.839,07

6,89% 4,68% 9,85%

146 01/02/2012 01/02/2012 22.000,00 3.212.000,00 2,00 22.002,00 9.784,62

147 01/03/2012 01/03/2012 22.000,00 3.234.000,00 2,00 22.002,00 9.730,46

148 01/04/2012 01/04/2012 22.000,00 3.256.000,00 2,00 22.002,00 9.676,61

6,89% 4,75% 9,94%

149 01/05/2012 01/05/2012 22.000,00 3.278.000,00 2,00 22.002,00 9.623,05

150 01/06/2012 01/06/2012 22.000,00 3.300.000,00 2,00 22.002,00 9.569,79

151 01/07/2012 01/07/2012 22.000,00 3.322.000,00 2,00 22.002,00 9.516,82

6,89% 5,51% 10,89%

152 01/08/2012 01/08/2012 22.000,00 3.344.000,00 2,00 22.002,00 9.464,15

153 01/09/2012 01/09/2012 22.000,00 3.366.000,00 2,00 22.002,00 9.411,76

154 01/10/2012 01/10/2012 22.000,00 3.388.000,00 2,00 22.002,00 9.359,67

6,89% 5,34% 10,68%

155 01/11/2012 01/11/2012 22.000,00 3.410.000,00 2,00 22.002,00 9.307,87

156 01/12/2012 01/12/2012 22.000,00 3.432.000,00 2,00 22.002,00 9.256,35

157 01/01/2013 01/01/2013 22.000,00 3.454.000,00 2,00 22.002,00 9.205,12 6,89% 5,43% 10,79%

(Segue)

219 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

158 01/02/2013 01/02/2013 22.000,00 3.476.000,00 2,00 22.002,00 9.154,17

159 01/03/2013 01/03/2013 22.000,00 3.498.000,00 2,00 22.002,00 9.103,51

160 01/04/2013 01/04/2013 22.000,00 3.520.000,00 2,00 22.002,00 9.053,12

6,89% 5,42% 10,78%

161 01/05/2013 01/05/2013 22.000,00 3.542.000,00 2,00 22.002,00 9.003,01

162 01/06/2013 01/06/2013 22.000,00 3.564.000,00 2,00 22.002,00 8.953,18

163 01/07/2013 01/07/2013 22.000,00 3.586.000,00 2,00 22.002,00 8.903,63

6,89% 5,09% 10,36%

164 01/08/2013 01/08/2013 22.000,00 3.608.000,00 2,00 22.002,00 8.854,35

165 01/09/2013 01/09/2013 22.000,00 3.630.000,00 2,00 22.002,00 8.805,34

166 01/10/2013 01/10/2013 22.000,00 3.652.000,00 2,00 22.002,00 8.756,61

6,89% 5,11% 10,39%

167 01/11/2013 01/11/2013 22.000,00 3.674.000,00 2,00 22.002,00 8.708,14

168 01/12/2013 01/12/2013 22.000,00 3.696.000,00 2,00 22.002,00 8.659,94

169 01/01/2014 01/01/2014 22.000,00 3.718.000,00 2,00 22.002,00 8.612,01

6,89% 5,11% 10,39%

170 01/02/2014 01/02/2014 22.000,00 3.740.000,00 2,00 22.002,00 8.564,35

171 01/03/2014 01/03/2014 22.000,00 3.762.000,00 2,00 22.002,00 8.516,95

172 01/04/2014 01/04/2014 22.000,00 3.784.000,00 2,00 22.002,00 8.469,81

6,89% 5,17% 10,46%

173 01/05/2014 01/05/2014 22.000,00 3.806.000,00 2,00 22.002,00 8.422,93

174 01/06/2014 01/06/2014 22.000,00 3.828.000,00 2,00 22.002,00 8.376,31

175 01/07/2014 01/07/2014 22.000,00 3.850.000,00 2,00 22.002,00 8.329,95

6,89% 5,11% 10,39%

176 01/08/2014 01/08/2014 22.000,00 3.872.000,00 2,00 22.002,00 8.283,84

177 01/09/2014 01/09/2014 22.000,00 3.894.000,00 2,00 22.002,00 8.237,99

178 01/10/2014 01/10/2014 22.000,00 3.916.000,00 2,00 22.002,00 8.192,40

6,89% 4,85% 10,06%

179 01/11/2014 01/11/2014 22.000,00 3.938.000,00 2,00 22.002,00 8.147,06

180 01/12/2014 01/12/2014 22.000,00 3.960.000,00 2,00 22.002,00 8.101,96

2.497.500,00

In tale caso, la prescrizione penale – ferme restando le ipotesi richiamate –

non opererebbe; per contro, quella civile travolgerebbe le “dazioni” anteriori al decennio dall’atto interruttivo, ma soltanto ove si aderisca alla tesi della “frammentarietà” del rapporto.

4. La “sovrapposizione” fra prescrizione civile e prescrizione penale

L’art. 2947 c.c. (“Prescrizione del diritto al risarcimento del danno”) pre-vede quanto segue:

220 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

«Il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato.

Per il risarcimento del danno prodotto dalla circolazione dei veicoli di ogni specie il diritto si prescrive in due anni.

In ogni caso, se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all’azione civile. Tuttavia, se il reato è estinto per causa diversa dalla prescrizione o è interve-nuta sentenza irrevocabile nel giudizio penale, il diritto al risarcimento del danno si prescrive nei termini indicati dai primi due commi, con decorrenza dalla data di estinzione del reato o dalla data in cui la sentenza è divenuta irre-vocabile».

Al proposito, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite 12 ha affermato che «Nel caso in cui l’illecito civile sia considerato dalla legge come reato, ma il giudizio penale non sia stato promosso, anche se per mancata presentazione della querela, l’eventuale, più lunga prescrizione prevista per il reato, si appli-ca anche all’azione di risarcimento, a condizione che il giudice civile accerti, incidenter tantum, e con gli strumenti probatori ed i criteri propri del procedi-mento civile, la sussistenza di una fattispecie che integri gli estremi di un fat-to-reato in tutti i suoi elementi costitutivi, soggettivi ed oggettivi, e la prescri-zione stessa decorre dalla data del fatto, atteso che la chiara lettera dell’art. 2947, c. 3, c.c., a tenore della quale “se il fatto è considerato dalla legge come reato”, non consente la differente interpretazione, secondo cui tale maggiore termine sia da porre in relazione con la procedibilità del reato» 13.

A prima vista, sembrerebbe – quindi – esservi un’“espansione” del termine di prescrizione civile (per effetto della menzionata sovrapposizione di siste-ma), che patisce tuttavia di due limiti fondamentali:

• deve ricorrere l’ipotesi – anche non ancora accertata giudizialmente – di usura;

• l’espansione vale soltanto ai fini del risarcimento del danno.

In primo luogo, quindi, rimangono fuori tutte le ipotesi di illecito civile, che possono legittimare un’azione volta alla ripetizione dell’indebito, ma che non integrano il reato di usura: ad esempio, gli interessi ultralegali non pattuiti contrattualmente, gli interessi anatocistici illegittimi, le commissioni e le spese non previste contrattualmente o applicate in modo illegittimo.

12 Cass., sez. un., 18 novembre 2008, n. 27337, in www.altalex.com. 13 Lo stesso principio è stato ribadito da Cass. 25 novembre 2014, n. 24988, in www.persona

edanno.it.

221 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

In secondo luogo, quando sia già intervenuta la prescrizione civile, ma non ancora quella penale, l’azione civile può essere promossa soltanto ai fini del risarcimento del danno e non invece per la ripetizione dell’indebito.

Vi è un ulteriore limite intrinseco alla disciplina, dovuto al fatto che il maggior termine di prescrizione opera sotto il profilo della responsabilità ex-tracontrattaule e non invece sotto quello della responsabilità contrattuale. Oc-corre, quindi, chiedersi se la pattuizione o l’applicazione in concreto di inte-ressi usurari rilevi sotto il primo ovvero sotto il secondo profilo.

Se si muove dal presupposto che il danno contrattuale consegua all’ina-dempimento (del debitore), nel caso di pattuizione o applicazione di interessi usurari non vi sarebbe inadempimento, ma tutt’al più iperadempimento del debitore, cioè adempimento in misura superiore a quella lecita. Pare, quindi, ragionevole ritenere piuttosto che – nel caso di specie – si verta nell’ambito del danno di natura extracontrattuale.

Se tale ricostruzione è corretta, si determina effettivamente una sovrappo-sizione di sistema, pur con i limiti sopra delineati.

Ma occorre, quindi, chiedersi quale possa essere il danno lamentato per ef-fetto dell’applicazione di interessi usurari.

Anzitutto, vi potrebbe essere un danno oggettivo in re ipsa: il pagamento di interessi superiori a quelli mediamente applicati a soggetti che godano dello stesso rating.

Inoltre, gli ulteriori danni derivanti dal mancato investimento – o dal man-cato godimento – delle somme pagate in eccedenza.

Fin qui sul piano patrimoniale, ma potrebbe anche prospettarsi un danno non patrimoniale, derivante – ad esempio – dal declassamento dell’impresa in termini di redditività, di immagine, di reputazione sul mercato e così via.

Rimane, infine, il problema dell’individuazione del soggetto responsabile: infatti, se l’illecito penale deve essere riferito ad una persona fisica, si dovreb-be concludere che la stessa persona fisica è tenuta al risarcimento del danno. E l’eventuale intermediario finanziario cui facesse capo l’attore del delitto non potrebbe neppure subire una sanzione amministrativa per l’illecito commesso dal proprio dipendete, poiché l’usura non rientra fra i reati-presupposto di cui al d.lgs. n. 231/2001.

Pertanto, non vi sarebbe una coincidenza di “attori”: il gatto resterebbe comunque distinto dall’atomo.

In realtà, soccorrerebbe l’art. 83, comma 1, c.p.p. (“Citazione del responsa-bile civile”) che recita «Il responsabile civile per il fatto dell’imputato può es-sere citato nel processo penale a richiesta della parte civile e, nel caso previsto dall’articolo 77, comma 4, a richiesta del pubblico ministero»; cui fa da pen-dant l’art. 538, comma 3, c.p.p. (“Condanna per la responsabilità civile”), il

222 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

quale stabilisce che «Se il responsabile civile è stato citato o è intervenuto nel giudizio, la condanna alle restituzioni e al risarcimento del danno è pronuncia-ta anche contro di lui in solido, quando è riconosciuta la sua responsabilità». Ma tali norme sono previste nell’ambito del processo penale.

Nell’ambito dell’azione civile occorre fare riferimento all’art. 2049 c.c. (“Responsabilità dei padroni e dei committenti”), il quale prevede che «I pa-droni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti».

Al proposito, la Corte di Cassazione ha avuto modo di affermare che:

• la responsabilità indiretta di cui all’art. 2049 c.c. per il fatto dannoso commesso da un dipendente postula l’esistenza di un rapporto di lavoro ed un collegamento tra il fatto dannoso del dipendente e le mansioni da questi esple-tate, senza che sia all’uopo richiesta la prova di un vero e proprio nesso di causalità, risultando sufficiente viceversa l’esistenza di un rapporto di “occa-sionalità necessaria”, da intendersi nel senso che l’incombenza svolta abbia determinato una situazione tale da agevolare e rendere possibile il fatto illecito e l’evento dannoso; in effetti, l’art. 2049 c.c., prevedendo la responsabilità di padroni e committenti per i danni arrecati dal fatto illecito dei domestici e commessi nell’esercizio delle loro incombenze, richiede che domestici e commessi abbiano perseguito, col comportamento dannoso, finalità coerenti con le mansioni affidate e non estranee all’interesse del padrone o committen-te. Il nesso di occasionalità necessaria fra mansioni e danno comporta che l’esercizio delle prime, anche al di là della competenza, abbia almeno agevola-to la produzione del secondo (Cass. 18 ottobre 2006, n. 22343);

• la responsabilità indiretta del committente di cui all’art. 2049 c.c. per il fatto dannoso commesso da un dipendente postula l’esistenza di un nesso di “occasionalità necessaria” tra l’illecito e il rapporto di lavoro che vincola i due soggetti, nel senso che le mansioni affidate al dipendente abbiano reso possibi-le o comunque agevolato il comportamento produttivo del danno al terzo (Cass. 12 marzo 2008, n. 6632 14);

• il nesso di occasionalità necessaria occorrente ad avvincere l’illecito commesso dal dipendente all’esercizio delle mansioni svolte alle dipendenze del datore, presupposto indefettibile della responsabilità oggettiva del datore ai sensi dell’art. 2049 c.c., non viene reciso dalla circostanza che il dipendente abbia operato oltre i limiti delle sue incombenze, o persino trasgredendo gli ordini ricevuti, purché sempre entro l’ambito delle proprie mansioni. In alcuni casi la giurisprudenza è giunta ad affermare la responsabilità del datore anche

14 Cass. 12 marzo 2008, n. 6632, in www.personaedanno.it.

223 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

nell’ipotesi di illecito commesso dal dipendente con dolo (Cass. 7 gennaio 2002, n. 89 15);

• ai fini della sussistenza della presunzione di responsabilità del datore, è sufficiente che l’incombenza svolta dal dipendente abbia determinato una si-tuazione tale da agevolare o rendere possibile il fatto illecito ed il conseguente evento dannoso (Cass. 6 aprile 2002, n. 4951);

• a contrariis, deve ritenersi insussistente il nesso di occasionalità necessa-ria – con conseguente esclusione della responsabilità del datore – laddove il dipendente non abbia perseguito finalità coerenti con le mansioni che gli furo-no affidate, ma finalità proprie, alle quali il committente non sia neppure me-diatamente interessato o compartecipe (Cass. 17 maggio 1990 n. 2226; Cass. 13 novembre 2001, n. 14096);

• ogni qualvolta la condotta abusiva del funzionario sia stata resa possibile dalla posizione rivestita all’interno della banca, nonché dalla mancanza di controlli effettuati dalla banca sull’operato del funzionario, viene in conside-razione la responsabilità civile della banca stessa ai sensi dell’art. 2049 c.c. (Cass. 9 agosto 1994, n. 7348 16; Cass. 20 marzo 1999, n. 2574);

• per affermare la responsabilità solidale dell’intermediario finanziario, non occorre neppure provare o indagare lo stato soggettivo di dolo o colpa in capo all’intermediario, in quanto – per l’appunto – si tratta di una responsabilità oggettiva. Non rileverebbe neppure che la condotta truffaldina del promotore abbia avuto inizio anche prima del sorgere del rapporto di preposizione tra lo stesso e l’intermediario abilitato, nell’estensione della responsabilità addossata ex lege all’intermediario (Cass. 19 luglio 2012, n. 12448 17).

In definitiva, si determinerebbe una perfetta sovrapposizione di sistema, con buona pace di Schrödinger, del gatto e dell’atomo.

15 Cass. 7 gennaio 2002, n. 89, in www.eius.it. 16 Cass. 9 agosto 1994, n. 7348, in Foro it., 1999, 685. 17 Cass. 19 luglio 2012, n. 12448, in Giust. civ., 2012, 10, I, 2297.

224 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

La valutazione dell’eventuale usurarietà delle operazioni finanziarie complesse: T.I.R. e T.I.R.M. a confronto Luciano M. Quattrocchio-Valentina Bellando-Roberta Monchiero

SOMMARIO

1. Premessa. – 2. Una passeggiata tra tassi, coefficienti e indici. – 2.1. La nozione di interesse e di tasso di interesse. – 2.2. I parametri “ufficiali”. – 3. Segue. La nozione di sinallagma finan-ziario. Definizione di “operazione finanziaria”. – 3.1. Premessa. – 3.2. Il Tasso Interno di Ren-dimento (T.I.R.). – 3.3. I limiti del Tasso Interno di Rendimento (T.I.R.) e la maggiore espres-sività del Tasso Interno di Renedimento Modificato (T.I.R.M.). – 3.3.1. La curva dei tassi. Tas-si spot e tassi forward. – 3.3.2. L’applicazione all’esempio prospettato. – 4. Conclusione.

1. Premessa

L’art. 644 c.p., come sostituito dall’art. 1 della legge 7 marzo 1996, n. 108, stabilisce che «Chiunque … si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, in-teressi o altri vantaggi usurari, è punito con la reclusione da due a dieci anni e con la multa da euro 5.000 a euro 30.000».

Il successivo comma 2 prevede che: «alla stessa pena soggiace chi, fuori del caso di concorso nel delitto previsto dal primo comma, procura a taluno una somma di denaro o altra utilità facendo dare o promettere, a sé o ad altri, per la mediazione, un compenso usurario».

Il comma 3 del citato art. 644 c.p. dispone che: «la legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari. Sono altresì usurari gli interes-si, anche se inferiori a tale limite, e gli altri vantaggi o compensi che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per opera-zioni similari, risultano comunque sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero all’opera di mediazione, quando chi li ha dati o promessi si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria».

L’art. 2 della legge n. 108/1996 attribuisce al Ministero del Tesoro (ora Ministero dell’Economia e delle Finanze) il compito di rilevare trimestralmen-

225 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

te, sentiti la Banca d’Italia e l’ormai soppresso Ufficio Italiano Cambi, il tasso effettivo globale medio degli interessi applicati dalle banche e dagli interme-diari, stabilendo che i valori medi così rilevati siano pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale. I tassi medi così rilevati e pubblicati, opportunamente maggiorati, costituiscono, ai sensi dell’ultimo comma del citato art. 2, il limite oltre il qua-le i tassi applicati si considerano sempre usurari, ai sensi del comma 3 dell’art. 644 c.p.

Nelle operazioni finanziarie (rapporti di conto corrente, mutui, leasing, fi-nanziamenti contro cessioni del quinto, ecc.) occorre, quindi, verificare l’e-ventuale superamento del limite usurario mediante il raffronto tra il tasso ef-fettivamente applicato e le soglie stabilite con periodicità trimestrale dal Mini-stero del Tesoro.

Affinché non si configuri l’ipotesi di usura, il costo del denaro deve essere contenuto entro il limite del tasso soglia, che il legislatore identifica nel T.E.G.M. (Tasso Effettivo Globale Medio), rilevato trimestralmente dal Mini-stero del Tesoro e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, opportunamente mag-giorato.

Nella verifica dell’eventuale usurarietà delle operazioni finanziarie com-plesse (per tali intendendosi – ai fini del presente scritto – quelle con rimborso rateale: i mutui, i leasing, i finanziamenti contro cessioni del quinto, ecc.) 1, occorre valutare se il Tasso Interno di Rendimento (T.I.R.) assunto a riferi-mento dalle Istruzioni della Banca d’Italia esprima correttamente l’onerosità effettiva (per l’utilizzatore) e la rimuneratività effettiva (per il finanziatore).

Un’affrettata lettura di sistema potrebbe, infatti, indurre a trascurare il limi-te intrinseco nel Tasso Interno di Rendimento, dovuto all’inverosimile ipotesi di base che i flussi di cassa vengano reinvestiti al medesimo tasso T.I.R. e non al costo del capitale; questa limitazione – come si avrà modo di illustrare – viene superata con la formula del T.I.R. modificato, che prevede il reinvesti-mento dei flussi di cassa annuali al tasso effettivo e, cioè, al tasso descritto dalla curva dei tassi.

1 A stretto rigore, anche il rapporto di conto corrente rientrerebbe fra le operazioni finanzia-rie complesse: infatti, nella matematica finanziaria l’operazione finanziaria è un’operazione che dà origine allo scambio tra 2 o più somme di denaro in epoche diverse; in particolare, si dice semplice se ci sono solo 2 date e 2 importi; complessa se ci sono più date e più importi (ma v. infra). Il rapporto di conto corrente, infatti, è normalmente caratterizzato da numerosi flussi di cassa in epoche diverse; tuttavia, nelle istruzioni della Banca d’Italia è previsto l’uti-lizzo di una formula di calcolo del T.E.G. basata su grandezze riferite a singoli trimestri, tratta-te in modo unitario.

226 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

2. Una passeggiata tra tassi, coefficienti e indici

2.1. La nozione di interesse e di tasso di interesse L’interesse è un valore assoluto e costituisce il “costo finanziario” del capi-

tale; esso è calcolato in funzione del capitale, del tasso di interesse e del pe-riodo di maturazione.

Il tasso di interesse è una misura relativa e corrisponde all’incidenza del-l’interesse – “costo finanziario” del capitale – sul capitale medesimo, esso viene normalmente espresso in misura percentuale.

La matematica finanziaria fornisce varie nozioni di tasso di interesse – qua-li, tra le altre, il “Tasso Annuo”, il “Tasso Periodico”, il “Tasso Effettivo”, il “Tasso Nominale”, il “Tasso Reale”, ecc. – con significati profondamente di-versi.

Il “Tasso Annuo” è il tasso di interesse rapportato all’anno; esso può essere capitalizzato n volte l’anno, con n che può assumere valori da zero a +∞ (ten-dente ad infinito) 2. La capitalizzazione degli interessi n volte all’anno deter-mina la “trasformazione” in capitale degli interessi maturati alla fine di cia-scun periodo (ad esempio, il trimestre); con la conseguenza che, nel periodo successivo, gli interessi maturati nel periodo precedente – e oggetto di capita-lizzazione – perdono la loro natura di interessi e assumono quella di capitale. Nei rapporti di conto corrente bancario, la capitalizzazione degli interessi av-viene trimestralmente (n = 4) 3.

Il “Tasso Periodale” è il tasso di interesse rapportato a un periodo in-frannuale; esso è pari al “Tasso Annuale” diviso per il numero di periodi. Nei rapporti di conto corrente bancario, il “Tasso Periodale” è un “Tasso Trimestrale”; pertanto, esso è pari a: Tasso Annuale / 4. E così, se – ad

2 Il T.A.E.G., secondo l’art. 19 della legge n. 142/1992 che lo ha introdotto nel nostro Ordi-namento, è: «il costo totale del credito per il consumatore espresso in percentuale annua del credito concesso e comprensivo degli interessi e degli oneri da sostenere per utilizzarlo, calco-lato conformemente alla formula matematica che figura nell’allegato II alla direttiva del Con-siglio 90/88/CEE».

Il Provvedimento della Banca d’Italia del 28 marzo 2013, in attuazione della Direttiva 2011/90/UE, all’Allegato 5B, ha poi stabilito che: «L’equazione di base, da cui risulta il TAEG, esprime su base annua l’eguaglianza fra la somma dei valori attualizzati di tutti i prelievi e la somma dei valori attualizzati dei rimborsi e dei pagamenti delle spese».

3 Come osservato dal Trib. Torino 20 aprile 2012 (Est. Dott. Bruno CONCA), «… la liqui-dazione degli interessi viene fatta dalla banca trimestralmente e, quindi, gli interessi maturati nei trimestri concorrono alla determinazione del capitale di riferimento per il trimestre succes-sivo».

227 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

esempio – il “Tasso Annuale” è pari al 10%, il “Tasso Periodale” è pari al 2,5% = 10% / 4.

Il “Tasso Effettivo” è il tasso di interesse annuo, equivalente al “Tasso Pe-riodale” di periodo n, capitalizzato n volte all’anno. Il Tasso Effettivo è nor-malmente maggiore del Tasso Annuo, giacché risente dell’effetto di capitaliz-zazione degli interessi; il Tasso Effettivo coincide con il Tasso Annuo soltanto nel caso in cui n = zero, ovvero n = 1, e cioè, nell’ipotesi in cui la capitalizza-zione non intervenga nel corso dell’anno (assenza di capitalizzazione o capita-lizzazione annuale).

A titolo esemplificativo, si consideri il caso seguente, in cui dato i (“Tasso Annuale”, pari al 10%) e n (periodicità della capitalizzazione), si voglia determinare il “Tasso Effettivo”; ne conseguirebbero i risultati di seguito riportati:

n = Periodicità della capitalizzazione

i = 10% Tasso annuo

Tasso Effettivo

n = 1 10,00%

n = 2 10,25%

n = 4 10,38%

n = 12 10,47%

n tendente ad infinito

10,52%

Dalla tabella qui rappresentata, emerge come il “Tasso Effettivo” diverga progressivamente dal “Tasso Annuale” all’aumentare della periodicità di capi-talizzazione.

Da tale relazione derivano le seguenti conseguenze:

• il “Tasso Effettivo” coincide con il “Tasso Annuale” soltanto in completa assenza di capitalizzazione nel corso dell’anno o nel caso di capitalizzazione alla fine dell’anno;

• il “Tasso Effettivo” costituisce l’unico tasso rappresentativo dell’onerosità del finanziamento in presenza di capitalizzazione infrannuale.

Al fine di apprezzare l’effetto della capitalizzazione in un intervallo di tempo ultrannuale, si riporta di seguito un esempio in cui – assunto in misura pari a 100 il capitale inizialmente investito – si determinano gli effetti della

228 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

capitalizzazione infrannuale su un intervallo di tempo che si estende sino a 10 anni (t = 1, t = 5, t = 10).

CAPITALE 100,00

MONTANTE t = 1 t = 5 t = 10

n = 0 110,00 150,00 200,00

n = 1 110,00 161,05 259,37

n = 2 110,25 162,89 265,33

n = 4 110,38 163,86 268,51

n = 12 110,47 164,53 270,70

n tendente ad infinito 110,52 164,87 271,83

Come è agevole rilevare, il montante (cioè il capitale comprensivo degli

interessi) aumenta progressivamente al crescere sia della durata del finan-ziamento (t), sia della periodicità della capitalizzazione (n); ma con un risul-tato che, anche nell’ipotesi di capitalizzazione continua (n tendente all’infi-nito), non è – per così dire – “esplosivo” (il montante passa da 200,00, in as-senza di capitalizzazione, a 271,83, nell’ipotesi di capitalizzazione conti-nua).

2.2. I parametri “ufficiali” La normativa primaria e quella secondaria assumono a riferimento pa-

rametri – quali il Tasso Annuo Nominale (c.d. “T.A.N.”), il Tasso Annuo Effettivo Globale (c.d. “T.A.E.G.”) e il Tasso Effettivo Globale (c.d. “T.E.G.”) – non sempre coincidenti con quelli formalizzati dalla matemati-ca finanziaria.

Per quanto di interesse in questa sede, occorre osservare che il Tasso An-nuo Nominale (“T.A.N.”) – corrisponde al “Tasso Annuo” (v. supra) – in pre-senza di capitalizzazione infrannuale non fornisce un’informazione significa-tiva del “costo del credito”.

Al contrario, il “Tasso Effettivo” (ibidem) dà un’indicazione del “costo del credito” generato dalla sola componente finanziaria; in sintesi, esprime – per così dire – l’‟onerosità finanziaria annua” del credito.

Tuttavia, come è noto, l’‟onerosità complessiva annua” del credito risente anche delle componenti “non finanziarie” del “costo del credito” (es. spese di

229 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

incasso). La misura dell’‟onerosità complessiva annua” del credito è corret-tamente espressa dal Tasso Annuo Effettivo Globale (T.A.E.G.). La formula di calcolo di tale grandezza è la seguente 4:

La formula di calcolo del T.E.G. è perfettamente analoga:

Ma con la precisazione che sono escluse alcune componenti di costo (a ti-

tolo esemplificativo, le imposte e le tasse). La determinazione del Tasso Effettivo Globale Medio (T.E.G.M.) da parte

del Ministero del Tesoro – ai sensi dell’art. 2, comma 1, legge n. 108/1996 – prende le mosse dai Tassi Effettivi Globali (T.E.G.) comunicati dalle banche sulla base delle Istruzioni della Banca d’Italia. Esso, come si avrà modo di specificare meglio nel prosieguo, assume rilevanza nella determinazione del c.d. “Tasso Soglia” usurario.

Pare opportuno sottolineare che sia il T.A.E.G. sia il T.E.G. non sono tassi di interesse, poiché tengono conto – anche – delle componenti “non finanzia-rie” del “costo del credito” (il T.A.E.G. di tutte le componenti, mentre il T.E.G. esclude le spese per imposte e tasse); pare, quindi, preferibile qualifica-re gli stessi in termini di “tassi di onerosità (complessiva)”. E, come si avrà modo di ribadire, anche la giurisprudenza è concorde nel ritenere che la misu-ra corretta da prendere in considerazione per la verifica dell’usurarietà è il tas-so di onerosità complessiva e non, invece, l’incidenza delle singole “dazioni”.

4 Dove:

• X è il TAEG, • m è il numero d’ordine dell’ultimo utilizzo, • k è il numero d’ordine di un utilizzo, sicché 1 ≤ k ≤ m, • Ck è l’importo dell’utilizzo k, • tk è l’intervallo di tempo, espresso in anni e frazioni di anno, compreso tra la data del

primo utilizzo e la data di ciascun utilizzo successivo, sicché tl = 0, • m′ è il numero dell’ultimo rimborso o pagamento di spese, • l è il numero di un rimborso o pagamento di spese, • Dl è l’importo di un rimborso o pagamento di spese, • sl è l’intervallo di tempo, espresso in anni e frazioni di anno, compreso tra la data del

primo utilizzo e la data di ciascun rimborso o pagamento di spese.

230 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

3. Segue. La nozione di sinallagma finanziario. Definizione di “opera-zione finanziaria”

3.1. Premessa Un’operazione finanziaria consiste nello scambio di somme scadenti in

epoche diverse, certe nella loro manifestazione e fisse o variabili (in funzione di parametri di natura finanziaria) nel loro importo.

Nelle operazioni finanziarie deve essere verificato il rispetto della condi-zione di “equivalenza finanziaria”; cioè, di indifferenza (finanziaria) fra le somme – come si è detto certe nella loro manifestazione – scadenti in epoca diversa. Come illustrato nei punti precedenti, l’indifferenza è valutata sulla ba-se di un procedimento finanziario indicato con l’espressione “capitalizzazio-ne” – attraverso il quale si trasferisce una somma in avanti nel tempo – ovvero “attualizzazione” – mediante il quale si trasferisce una somma in indietro nel tempo –; a tale fine si utilizza un tasso di interesse detto, a seconda della “di-rezione”, “tasso di capitalizzazione” o “tasso di attualizzazione”.

L’operazione finanziaria più semplice è costituita dallo scambio di una somma scadente in una certa epoca, con un’altra somma scadente in epoca diversa.

1

0

In tale caso, il rispetto della condizione di equivalenza finanziaria presup-

pone l’esistenza di un tasso di interesse sottostante, di capitalizzazione o di at-tualizzazione – detto tasso interno di rendimento – che rende indifferente le due somme scadenti in epoche diverse. Ovviamente, in tale caso, il tasso di in-teresse – pur costituendo il “costo finanziario” dell’operazione – viene calco-lato attraverso un procedimento complesso.

Un’operazione finanziaria più articolata – che, per semplicità, indichiamo con l’espressione “operazione finanziaria complessa” – è quella costituita dallo scambio di una somma scadente in una certa epoca con una serie di somme scadenti in epoche diverse, che si realizza – ad esempio – nel caso di finanzia-mento con rimborso rateale, ovvero nell’ipotesi di costituzione di un capitale.

Il finanziamento con rimborso rateale può essere come di seguito rappre-sentato:

231 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

0

1 2 10

La costituzione immediata di un capitale, a fronte di una rendita periodica

limitata nel tempo, può avere la seguente rappresentazione:

1 2 10

0

Il concetto di equivalenza finanziaria, nelle operazioni finanziarie più com-

plesse sopra rappresentate, non muta: si tratta sempre di indifferenza (finan-ziaria) fra somme – in questo caso più numerose – scadenti in epoca diversa.

3.2. Il Tasso Interno di Rendimento (T.I.R.) Il Tasso Interno di Rendimento è il tasso che garantisce l’equivalenza fi-

nanziaria fra flussi con scadenza in epoche diverse e, dal punto di vista mate-matico, è una “media funzionale” 5.

La formula di calcolo è la seguente:

Dove:

Uk = Flussi in entrata Eh = Flussi in uscita.

5 Sul punto si veda G. CASTELLANI, M. DE FELICE, F. MORICONI, Manuale di finanza. I. Tassi d’interesse. Mutui obbligazioni, Il Mulino, Bologna, 2005, 184.

232 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

Nel caso di operazione finanziaria semplice (v. supra), esso esprime corret-tamente il rendimento per il finanziatore e il costo per l’utilizzatore; pertanto, costituisce una misura corretta del “corrispettivo” di una prestazione di dena-ro, calcolato in misura percentuale e, cioè, sotto forma di tasso di interesse.

Per contro, nel caso di operazione finanziaria complessa, il Tasso Interno di Rendimento esprime il rendimento per il finanziatore e il costo per l’utilizza-tore – e, dunque, il “corrispettivo” –, soltanto ove sia soddisfatta la condizione che i flussi di cassa vengano reinvestiti dal finanziatore – o vengano pagati dall’utilizzatore attingendo a fonti di finanziamento – al medesimo Tasso In-terno di Rendimento (v. infra): ciò discende dal fatto che l’operazione finan-ziaria complessa non si esaurisce in un’unica datio da parte del finanziatore e da parte dell’utilizzatore, ma in una serie di dationes che riducono via via il capitale di riferimento.

3.3. I limiti del Tasso Interno di Rendimento (T.I.R.) e la maggiore espressività del Tasso Interno di Rendimento Modificato (T.I.R.M.) Come si è detto, il T.I.R. ha un limite fondamentale di utilizzo: si basa

sull’ipotesi inverosimile che i flussi di cassa vengano reinvestiti al medesimo tasso T.I.R. e non al costo del capitale. Questo limite viene superato con la formula di calcolo del T.I.R. modificato (di seguito, T.I.R.M.), che prevede il reinvestimento dei flussi di cassa annuali al costo del capitale nell’intero pe-riodo di riferimento: il T.I.R.M. è il tasso che rende pari a zero l’ammontare globale di tutti i flussi (compreso quello iniziale).

La fondatezza di tale ricostruzione è facilmente intuibile ove si osservi l’o-perazione finanziaria complessa dal punto di vista del finanziatore: que-st’ultimo ritrarrà dall’investimento un “corrispettivo” coincidente con il T.I.R. soltanto nell’ipotesi in cui i flussi positivi derivanti dalla restituzione del fi-nanziamento siano reinvestiti allo stesso T.I.R.; diversamente, ritrarrà un ren-dimento che si collocherà al di sotto o al di sopra del T.I.R., a seconda dell’an-damento dei tassi.

Lo stesso ragionamento vale nel caso in cui si osservi l’operazione finan-ziaria complessa dal punto di vista dell’utilizzatore: egli sosterrà un costo del finanziamento coincidente con il T.I.R. soltanto nell’ipotesi in cui il tasso ri-manga costante; in caso contrario, il costo del finanziamento sarà inferiore o superiore al T.I.R., a seconda dell’andamento dei tassi. Infatti, nell’ipotesi in cui i tassi decrescano, l’utilizzatore potrà attingere le risorse per onorare il fi-nanziamento originario a un tasso di interesse più basso, sostenendo un costo complessivo inferiore al T.I.R.

233 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

In definitiva, il T.I.R.M. coincide con il T.I.R. soltanto nell’ipotesi di curva piatta (“flat”) dei tassi, mentre vi si discosta in presenza di una curva crescente o decrescente: in particolare, in caso di curva crescente il T.I.R.M. assumerà valore più alto del T.I.R. e viceversa, nel caso di curva decrescente, assumerà valore più basso.

Di seguito, si riporta un esempio numerico nelle tre ipotesi:

• Ipotesi 1: tasso di interesse costante nel tempo; • Ipotesi 2: tasso di interesse decrescente nel tempo; • Ipotesi 3: tasso di interesse crescente nel tempo.

A tale fine, preliminarmente, vengono riportate le grandezze assunte a rife-rimento, con l’obiettivo di “isolare” le conseguenze sopra descritte:

GRANDEZZE VALORI

Capitale finanziato 300.000,00

Data di sottoscrizione 15/12/2008

Durata in mesi 60

Euribor 3,42%

Spread 4,00%

Tasso nominale annuale 7,42%

Tasso nominale mensile 0,62%

Rata 6.000,00

234 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

Ipotesi 1. – Tasso di interesse costante nel tempo

N. Canone

Data Debito Residuo

Debito Estinto

Quota Capitale

Quota Interessi

Rata Valore attuale Rata

Tasso d’interesse

mensile prospettico

Flussi capi-talizzati

Flussi finali

0 15/12/2008 300.000,00 - - - - 0,62% -300.000,00

1 15/1/2009 295.855,02 4.144,98 4.144,98 1.855,02 6.000,00 5.963,13 0,62% 6.000,00

2 15/2/2009 291.684,42 8.315,58 4.170,61 1.829,39 6.000,00 5.926,48 0,62% 12.037,10

3 15/3/2009 287.488,02 12.511,98 4.196,39 1.803,61 6.000,00 5.890,06 0,62% 18.111,53

4 15/4/2009 283.265,68 16.734,32 4.222,34 1.777,66 6.000,00 5.853,86 0,62% 24.223,52

5 15/5/2009 279.017,23 20.982,77 4.248,45 1.751,55 6.000,00 5.817,89 0,62% 30.373,31

6 15/6/2009 274.742,51 25.257,49 4.274,72 1.725,28 6.000,00 5.782,14 0,62% 36.561,12

7 15/7/2009 270.441,35 29.558,65 4.301,15 1.698,85 6.000,00 5.746,60 0,62% 42.787,19

8 15/8/2009 266.113,60 33.886,40 4.327,75 1.672,25 6.000,00 5.711,29 0,62% 49.051,76

9 15/9/2009 261.759,10 38.240,90 4.354,51 1.645,49 6.000,00 5.676,19 0,62% 55.355,07

10 15/10/2009 257.377,66 42.622,34 4.381,44 1.618,56 6.000,00 5.641,31 0,62% 61.697,35

11 15/11/2009 252.969,13 47.030,87 4.408,53 1.591,47 6.000,00 5.606,64 0,62% 68.078,85

12 15/12/2009 248.533,34 51.466,66 4.435,79 1.564,21 6.000,00 5.572,18 0,62% 74.499,81

13 15/1/2010 244.070,13 55.929,87 4.463,22 1.536,78 6.000,00 5.537,94 0,62% 80.960,47

14 15/2/2010 239.579,32 60.420,68 4.490,81 1.509,19 6.000,00 5.503,91 0,62% 87.461,09

15 15/3/2010 235.060,73 64.939,27 4.518,58 1.481,42 6.000,00 5.470,08 0,62% 94.001,89

16 15/4/2010 230.514,21 69.485,79 4.546,52 1.453,48 6.000,00 5.436,47 0,62% 100.583,15

17 15/5/2010 225.939,58 74.060,42 4.574,64 1.425,36 6.000,00 5.403,06 0,62% 107.205,09

18 15/6/2010 221.336,65 78.663,35 4.602,92 1.397,08 6.000,00 5.369,85 0,62% 113.867,99

19 15/7/2010 216.705,27 83.294,73 4.631,38 1.368,62 6.000,00 5.336,85 0,62% 120.572,08

20 15/8/2010 212.045,25 87.954,75 4.660,02 1.339,98 6.000,00 5.304,06 0,62% 127.317,63

21 15/9/2010 207.356,41 92.643,59 4.688,84 1.311,16 6.000,00 5.271,46 0,62% 134.104,88

22 15/10/2010 202.638,58 97.361,42 4.717,83 1.282,17 6.000,00 5.239,07 0,62% 140.934,11

23 15/11/2010 197.891,58 102.108,42 4.747,00 1.253,00 6.000,00 5.206,87 0,62% 147.805,56

24 15/12/2010 193.115,23 106.884,77 4.776,35 1.223,65 6.000,00 5.174,87 0,62% 154.719,51

25 15/1/2011 188.309,34 111.690,66 4.805,89 1.194,11 6.000,00 5.143,07 0,62% 161.676,20

26 15/2/2011 183.473,73 116.526,27 4.835,61 1.164,39 6.000,00 5.111,46 0,62% 168.675,91

27 15/3/2011 178.608,22 121.391,78 4.865,51 1.134,49 6.000,00 5.080,05 0,62% 175.718,90

(Segue)

235 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

28 15/4/2011 173.712,63 126.287,37 4.895,59 1.104,41 6.000,00 5.048,83 0,62% 182.805,45

29 15/5/2011 168.786,77 131.213,23 4.925,86 1.074,14 6.000,00 5.017,81 0,62% 189.935,81

30 15/6/2011 163.830,45 136.169,55 4.956,32 1.043,68 6.000,00 4.986,97 0,62% 197.110,26

31 15/7/2011 158.843,48 141.156,52 4.986,97 1.013,03 6.000,00 4.956,32 0,62% 204.329,07

32 15/8/2011 153.825,67 146.174,33 5.017,81 982,19 6.000,00 4.925,86 0,62% 211.592,53

33 15/9/2011 148.776,84 151.223,16 5.048,83 951,17 6.000,00 4.895,59 0,62% 218.900,89

34 15/10/2011 143.696,79 156.303,21 5.080,05 919,95 6.000,00 4.865,51 0,62% 226.254,44

35 15/11/2011 138.585,33 161.414,67 5.111,46 888,54 6.000,00 4.835,61 0,62% 233.653,47

36 15/12/2011 133.442,26 166.557,74 5.143,07 856,93 6.000,00 4.805,89 0,62% 241.098,25

37 15/1/2012 128.267,39 171.732,61 5.174,87 825,13 6.000,00 4.776,35 0,62% 248.589,06

38 15/2/2012 123.060,52 176.939,48 5.206,87 793,13 6.000,00 4.747,00 0,62% 256.126,18

39 15/3/2012 117.821,45 182.178,55 5.239,07 760,93 6.000,00 4.717,83 0,62% 263.709,92

40 15/4/2012 112.549,99 187.450,01 5.271,46 728,54 6.000,00 4.688,84 0,62% 271.340,55

41 15/5/2012 107.245,93 192.754,07 5.304,06 695,94 6.000,00 4.660,02 0,62% 279.018,36

42 15/6/2012 101.909,08 198.090,92 5.336,85 663,15 6.000,00 4.631,38 0,62% 286.743,64

43 15/7/2012 96.539,22 203.460,78 5.369,85 630,15 6.000,00 4.602,92 0,62% 294.516,70

44 15/8/2012 91.136,17 208.863,83 5.403,06 596,94 6.000,00 4.574,64 0,62% 302.337,81

45 15/9/2012 85.699,70 214.300,30 5.436,47 563,53 6.000,00 4.546,52 0,62% 310.207,29

46 15/10/2012 80.229,62 219.770,38 5.470,08 529,92 6.000,00 4.518,58 0,62% 318.125,43

47 15/11/2012 74.725,71 225.274,29 5.503,91 496,09 6.000,00 4.490,81 0,62% 326.092,54

48 15/12/2012 69.187,77 230.812,23 5.537,94 462,06 6.000,00 4.463,22 0,62% 334.108,90

49 15/1/2013 63.615,58 236.384,42 5.572,18 427,82 6.000,00 4.435,79 0,62% 342.174,83

50 15/2/2013 58.008,95 241.991,05 5.606,64 393,36 6.000,00 4.408,53 0,62% 350.290,64

51 15/3/2013 52.367,64 247.632,36 5.641,31 358,69 6.000,00 4.381,44 0,62% 358.456,63

52 15/4/2013 46.691,45 253.308,55 5.676,19 323,81 6.000,00 4.354,51 0,62% 366.673,12

53 15/5/2013 40.980,16 259.019,84 5.711,29 288,71 6.000,00 4.327,75 0,62% 374.940,41

54 15/6/2013 35.233,56 264.766,44 5.746,60 253,40 6.000,00 4.301,15 0,62% 383.258,82

55 15/7/2013 29.451,42 270.548,58 5.782,14 217,86 6.000,00 4.274,72 0,62% 391.628,67

56 15/8/2013 23.633,53 276.366,47 5.817,89 182,11 6.000,00 4.248,45 0,62% 400.050,27

57 15/9/2013 17.779,67 282.220,33 5.853,86 146,14 6.000,00 4.222,34 0,62% 408.523,95

58 15/10/2013 11.889,61 288.110,39 5.890,06 109,94 6.000,00 4.196,39 0,62% 417.050,02

59 15/11/2013 5.963,13 294.036,87 5.926,48 73,52 6.000,00 4.170,61 0,62% 425.628,81

(Segue)

236 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

60 15/12/2013 – 0,00 300.000,00 5.963,13 36,87 6.000,00 4.144,98 0,62% 434.260,65 434.260,65

TOTALE 300.000,00 60.000,00 360.000,00 300.000,00

T.I.R. 7,68%

T.I.R.M. 7,68%

Ipotesi 2: tasso di interesse decrescente nel tempo

N. Canone Data Debito

Residuo Debito Estinto

Quota Capitale

Quota Interessi Rata

Valore attuale Rata

Tasso d’interesse

mensile prospettico

Flussi capitalizzati

Flussi finali

0 15/12/2008 300.000,00 - - - - 0,62% – 300.000,00

1 15/1/2009 295.855,02 4.144,98 4.144,98 1.855,02 6.000,00 5.963,13 0,61% 6.000,00

2 15/2/2009 291.684,42 8.315,58 4.170,61 1.829,39 6.000,00 5.926,48 0,60% 12.035,90

3 15/3/2009 287.488,02 12.511,98 4.196,39 1.803,61 6.000,00 5.890,06 0,59% 18.106,71

4 15/4/2009 283.265,68 16.734,32 4.222,34 1.777,66 6.000,00 5.853,86 0,58% 24.211,43

5 15/5/2009 279.017,23 20.982,77 4.248,45 1.751,55 6.000,00 5.817,89 0,57% 30.349,03

6 15/6/2009 274.742,51 25.257,49 4.274,72 1.725,28 6.000,00 5.782,14 0,56% 36.518,49

7 15/7/2009 270.441,35 29.558,65 4.301,15 1.698,85 6.000,00 5.746,60 0,55% 42.718,73

8 15/8/2009 266.113,60 33.886,40 4.327,75 1.672,25 6.000,00 5.711,29 0,54% 48.948,70

9 15/9/2009 261.759,10 38.240,90 4.354,51 1.645,49 6.000,00 5.676,19 0,53% 55.207,32

10 15/10/2009 257.377,66 42.622,34 4.381,44 1.618,56 6.000,00 5.641,31 0,52% 61.493,48

11 15/11/2009 252.969,13 47.030,87 4.408,53 1.591,47 6.000,00 5.606,64 0,51% 67.806,08

12 15/12/2009 248.533,34 51.466,66 4.435,79 1.564,21 6.000,00 5.572,18 0,50% 74.143,99

13 15/1/2010 244.070,13 55.929,87 4.463,22 1.536,78 6.000,00 5.537,94 0,49% 80.506,06

14 15/2/2010 239.579,32 60.420,68 4.490,81 1.509,19 6.000,00 5.503,91 0,48% 86.891,16

15 15/3/2010 235.060,73 64.939,27 4.518,58 1.481,42 6.000,00 5.470,08 0,47% 93.298,10

16 15/4/2010 230.514,21 69.485,79 4.546,52 1.453,48 6.000,00 5.436,47 0,46% 99.725,73

17 15/5/2010 225.939,58 74.060,42 4.574,64 1.425,36 6.000,00 5.403,06 0,45% 106.172,84

18 15/6/2010 221.336,65 78.663,35 4.602,92 1.397,08 6.000,00 5.369,85 0,44% 112.638,24

19 15/7/2010 216.705,27 83.294,73 4.631,38 1.368,62 6.000,00 5.336,85 0,43% 119.120,71

20 15/8/2010 212.045,25 87.954,75 4.660,02 1.339,98 6.000,00 5.304,06 0,42% 125.619,04

(Segue)

237 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

21 15/9/2010 207.356,41 92.643,59 4.688,84 1.311,16 6.000,00 5.271,46 0,41% 132.132,00

22 15/10/2010 202.638,58 97.361,42 4.717,83 1.282,17 6.000,00 5.239,07 0,40% 138.658,34

23 15/11/2010 197.891,58 102.108,42 4.747,00 1.253,00 6.000,00 5.206,87 0,39% 145.196,80

24 15/12/2010 193.115,23 106.884,77 4.776,35 1.223,65 6.000,00 5.174,87 0,38% 151.746,14

25 15/1/2011 188.309,34 111.690,66 4.805,89 1.194,11 6.000,00 5.143,07 0,37% 158.305,09

26 15/2/2011 183.473,73 116.526,27 4.835,61 1.164,39 6.000,00 5.111,46 0,36% 164.872,36

27 15/3/2011 178.608,22 121.391,78 4.865,51 1.134,49 6.000,00 5.080,05 0,35% 171.446,68

28 15/4/2011 173.712,63 126.287,37 4.895,59 1.104,41 6.000,00 5.048,83 0,34% 178.026,75

29 15/5/2011 168.786,77 131.213,23 4.925,86 1.074,14 6.000,00 5.017,81 0,33% 184.611,29

30 15/6/2011 163.830,45 136.169,55 4.956,32 1.043,68 6.000,00 4.986,97 0,32% 191.198,98

31 15/7/2011 158.843,48 141.156,52 4.986,97 1.013,03 6.000,00 4.956,32 0,31% 197.788,53

32 15/8/2011 153.825,67 146.174,33 5.017,81 982,19 6.000,00 4.925,86 0,30% 204.378,61

33 15/9/2011 148.776,84 151.223,16 5.048,83 951,17 6.000,00 4.895,59 0,29% 210.967,92

34 15/10/2011 143.696,79 156.303,21 5.080,05 919,95 6.000,00 4.865,51 0,28% 217.555,13

35 15/11/2011 138.585,33 161.414,67 5.111,46 888,54 6.000,00 4.835,61 0,27% 224.138,92

36 15/12/2011 133.442,26 166.557,74 5.143,07 856,93 6.000,00 4.805,89 0,26% 230.717,96

37 15/1/2012 128.267,39 171.732,61 5.174,87 825,13 6.000,00 4.776,35 0,25% 237.290,93

38 15/2/2012 123.060,52 176.939,48 5.206,87 793,13 6.000,00 4.747,00 0,24% 243.856,49

39 15/3/2012 117.821,45 182.178,55 5.239,07 760,93 6.000,00 4.717,83 0,23% 250.413,32

40 15/4/2012 112.549,99 187.450,01 5.271,46 728,54 6.000,00 4.688,84 0,22% 256.960,08

41 15/5/2012 107.245,93 192.754,07 5.304,06 695,94 6.000,00 4.660,02 0,21% 263.495,43

42 15/6/2012 101.909,08 198.090,92 5.336,85 663,15 6.000,00 4.631,38 0,20% 270.018,05

43 15/7/2012 96.539,22 203.460,78 5.369,85 630,15 6.000,00 4.602,92 0,19% 276.526,61

44 15/8/2012 91.136,17 208.863,83 5.403,06 596,94 6.000,00 4.574,64 0,18% 283.019,77

45 15/9/2012 85.699,70 214.300,30 5.436,47 563,53 6.000,00 4.546,52 0,17% 289.496,21

46 15/10/2012 80.229,62 219.770,38 5.470,08 529,92 6.000,00 4.518,58 0,16% 295.954,60

47 15/11/2012 74.725,71 225.274,29 5.503,91 496,09 6.000,00 4.490,81 0,15% 302.393,62

48 15/12/2012 69.187,77 230.812,23 5.537,94 462,06 6.000,00 4.463,22 0,14% 308.811,96

49 15/1/2013 63.615,58 236.384,42 5.572,18 427,82 6.000,00 4.435,79 0,13% 315.208,29

50 15/2/2013 58.008,95 241.991,05 5.606,64 393,36 6.000,00 4.408,53 0,12% 321.581,31

51 15/3/2013 52.367,64 247.632,36 5.641,31 358,69 6.000,00 4.381,44 0,11% 327.929,72

52 15/4/2013 46.691,45 253.308,55 5.676,19 323,81 6.000,00 4.354,51 0,10% 334.252,21

(Segue)

238 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

53 15/5/2013 40.980,16 259.019,84 5.711,29 288,71 6.000,00 4.327,75 0,09% 340.547,49

54 15/6/2013 35.233,56 264.766,44 5.746,60 253,40 6.000,00 4.301,15 0,08% 346.814,28

55 15/7/2013 29.451,42 270.548,58 5.782,14 217,86 6.000,00 4.274,72 0,07% 353.051,30

56 15/8/2013 23.633,53 276.366,47 5.817,89 182,11 6.000,00 4.248,45 0,06% 359.257,27

57 15/9/2013 17.779,67 282.220,33 5.853,86 146,14 6.000,00 4.222,34 0,05% 365.430,94

58 15/10/2013 11.889,61 288.110,39 5.890,06 109,94 6.000,00 4.196,39 0,04% 371.571,05

59 15/11/2013 5.963,13 294.036,87 5.926,48 73,52 6.000,00 4.170,61 0,03% 377.676,36

60 15/12/2013 – 0,00 300.000,00 5.963,13 36,87 6.000,00 4.144,98 0,02% 383.745,63 383.745,63

TOTALE 300.000,00 60.000,00 360.000,00 300.000,00

T.I.R. 7,68%

T.I.R.M. 5,05%

Ipotesi 3: tasso di interesse crescente nel tempo

N. Canone Data Debito Re-

siduo Debito Estinto

Quota Ca-pitale

Quota Interessi Rata Valore at-

tuale Rata

Tasso d’interesse

mensile pro-spettico

Flussi ca-pitalizzati Flussi finali

0 15/12/2008 300.000,00 - - - -

0,62%

– 300.000,00

1 15/1/2009 295.855,02 4.144,98 4.144,98 1.855,02 6.000,00 5.963,13 0,63% 6.000,00

2 15/2/2009 291.684,42 8.315,58 4.170,61 1.829,39 6.000,00 5.926,48 0,64% 12.038,30

3 15/3/2009 287.488,02 12.511,98 4.196,39 1.803,61 6.000,00 5.890,06 0,65% 18.116,35

4 15/4/2009 283.265,68 16.734,32 4.222,34 1.777,66 6.000,00 5.853,86 0,66% 24.235,62

5 15/5/2009 279.017,23 20.982,77 4.248,45 1.751,55 6.000,00 5.817,89 0,67% 30.397,59

6 15/6/2009 274.742,51 25.257,49 4.274,72 1.725,28 6.000,00 5.782,14 0,68% 36.603,79

7 15/7/2009 270.441,35 29.558,65 4.301,15 1.698,85 6.000,00 5.746,60 0,69% 42.855,75

8 15/8/2009 266.113,60 33.886,40 4.327,75 1.672,25 6.000,00 5.711,29 0,70% 49.155,03

9 15/9/2009 261.759,10 38.240,90 4.354,51 1.645,49 6.000,00 5.676,19 0,71% 55.503,22

10 15/10/2009 257.377,66 42.622,34 4.381,44 1.618,56 6.000,00 5.641,31 0,72% 61.901,92

11 15/11/2009 252.969,13 47.030,87 4.408,53 1.591,47 6.000,00 5.606,64 0,73% 68.352,78

12 15/12/2009 248.533,34 51.466,66 4.435,79 1.564,21 6.000,00 5.572,18 0,74% 74.857,45

(Segue)

239 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

13 15/1/2010 244.070,13 55.929,87 4.463,22 1.536,78 6.000,00 5.537,94 0,75% 81.417,64

14 15/2/2010 239.579,32 60.420,68 4.490,81 1.509,19 6.000,00 5.503,91 0,76% 88.035,07

15 15/3/2010 235.060,73 64.939,27 4.518,58 1.481,42 6.000,00 5.470,08 0,77% 94.711,48

16 15/4/2010 230.514,21 69.485,79 4.546,52 1.453,48 6.000,00 5.436,47 0,78% 101.448,65

17 15/5/2010 225.939,58 74.060,42 4.574,64 1.425,36 6.000,00 5.403,06 0,79% 108.248,42

18 15/6/2010 221.336,65 78.663,35 4.602,92 1.397,08 6.000,00 5.369,85 0,80% 115.112,61

19 15/7/2010 216.705,27 83.294,73 4.631,38 1.368,62 6.000,00 5.336,85 0,81% 122.043,11

20 15/8/2010 212.045,25 87.954,75 4.660,02 1.339,98 6.000,00 5.304,06 0,82% 129.041,84

21 15/9/2010 207.356,41 92.643,59 4.688,84 1.311,16 6.000,00 5.271,46 0,83% 136.110,75

22 15/10/2010 202.638,58 97.361,42 4.717,83 1.282,17 6.000,00 5.239,07 0,84% 143.251,82

23 15/11/2010 197.891,58 102.108,42 4.747,00 1.253,00 6.000,00 5.206,87 0,85% 150.467,08

24 15/12/2010 193.115,23 106.884,77 4.776,35 1.223,65 6.000,00 5.174,87 0,86% 157.758,61

25 15/1/2011 188.309,34 111.690,66 4.805,89 1.194,11 6.000,00 5.143,07 0,87% 165.128,49

26 15/2/2011 183.473,73 116.526,27 4.835,61 1.164,39 6.000,00 5.111,46 0,88% 172.578,88

27 15/3/2011 178.608,22 121.391,78 4.865,51 1.134,49 6.000,00 5.080,05 0,89% 180.111,97

28 15/4/2011 173.712,63 126.287,37 4.895,59 1.104,41 6.000,00 5.048,83 0,90% 187.729,99

29 15/5/2011 168.786,77 131.213,23 4.925,86 1.074,14 6.000,00 5.017,81 0,91% 195.435,22

30 15/6/2011 163.830,45 136.169,55 4.956,32 1.043,68 6.000,00 4.986,97 0,92% 203.229,98

31 15/7/2011 158.843,48 141.156,52 4.986,97 1.013,03 6.000,00 4.956,32 0,93% 211.116,65

32 15/8/2011 153.825,67 146.174,33 5.017,81 982,19 6.000,00 4.925,86 0,94% 219.097,64

33 15/9/2011 148.776,84 151.223,16 5.048,83 951,17 6.000,00 4.895,59 0,95% 227.175,44

34 15/10/2011 143.696,79 156.303,21 5.080,05 919,95 6.000,00 4.865,51 0,96% 235.352,55

35 15/11/2011 138.585,33 161.414,67 5.111,46 888,54 6.000,00 4.835,61 0,97% 243.631,57

36 15/12/2011 133.442,26 166.557,74 5.143,07 856,93 6.000,00 4.805,89 0,98% 252.015,12

37 15/1/2012 128.267,39 171.732,61 5.174,87 825,13 6.000,00 4.776,35 0,99% 260.505,89

38 15/2/2012 123.060,52 176.939,48 5.206,87 793,13 6.000,00 4.747,00 1,00% 269.106,63

39 15/3/2012 117.821,45 182.178,55 5.239,07 760,93 6.000,00 4.717,83 1,01% 277.820,14

40 15/4/2012 112.549,99 187.450,01 5.271,46 728,54 6.000,00 4.688,84 1,02% 286.649,30

41 15/5/2012 107.245,93 192.754,07 5.304,06 695,94 6.000,00 4.660,02 1,03% 295.597,03

42 15/6/2012 101.909,08 198.090,92 5.336,85 663,15 6.000,00 4.631,38 1,04% 304.666,34

43 15/7/2012 96.539,22 203.460,78 5.369,85 630,15 6.000,00 4.602,92 1,05% 313.860,28

44 15/8/2012 91.136,17 208.863,83 5.403,06 596,94 6.000,00 4.574,64 1,06% 323.181,99

(Segue)

240 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

45 15/9/2012 85.699,70 214.300,30 5.436,47 563,53 6.000,00 4.546,52 1,07% 332.634,68

46 15/10/2012 80.229,62 219.770,38 5.470,08 529,92 6.000,00 4.518,58 1,08% 342.221,62

47 15/11/2012 74.725,71 225.274,29 5.503,91 496,09 6.000,00 4.490,81 1,09% 351.946,15

48 15/12/2012 69.187,77 230.812,23 5.537,94 462,06 6.000,00 4.463,22 1,10% 361.811,72

49 15/1/2013 63.615,58 236.384,42 5.572,18 427,82 6.000,00 4.435,79 1,11% 371.821,83

50 15/2/2013 58.008,95 241.991,05 5.606,64 393,36 6.000,00 4.408,53 1,12% 381.980,07

51 15/3/2013 52.367,64 247.632,36 5.641,31 358,69 6.000,00 4.381,44 1,13% 392.290,11

52 15/4/2013 46.691,45 253.308,55 5.676,19 323,81 6.000,00 4.354,51 1,14% 402.755,71

53 15/5/2013 40.980,16 259.019,84 5.711,29 288,71 6.000,00 4.327,75 1,15% 413.380,72

54 15/6/2013 35.233,56 264.766,44 5.746,60 253,40 6.000,00 4.301,15 1,16% 424.169,08

55 15/7/2013 29.451,42 270.548,58 5.782,14 217,86 6.000,00 4.274,72 1,17% 435.124,82

56 15/8/2013 23.633,53 276.366,47 5.817,89 182,11 6.000,00 4.248,45 1,18% 446.252,08

57 15/9/2013 17.779,67 282.220,33 5.853,86 146,14 6.000,00 4.222,34 1,19% 457.555,08

58 15/10/2013 11.889,61 288.110,39 5.890,06 109,94 6.000,00 4.196,39 1,20% 469.038,15

59 15/11/2013 5.963,13 294.036,87 5.926,48 73,52 6.000,00 4.170,61 1,21% 480.705,73

60 15/12/2013 – 0,00 300.000,00 5.963,13 36,87 6.000,00 4.144,98 1,22% 492.562,37 492.562,37

TOTALE 300.000,00 60.000,00 360.000,00 300.000,00

T.I.R. 7,68%

T.I.R.M. 10,43%

Dalle considerazioni sopra svolte e dall’esempio riportato, discende che

soltanto il T.I.R.M. costituisce l’esatta misura del rendimento (o “corrispetti-vo”) per il finanziatore e del costo del finanziamento per l’utilizzatore.

Ci si deve, quindi, interrogare se – nelle operazioni finanziarie complesse – per la verifica dell’eventuale usurarietà il tasso da porre a confronto con il tas-so soglia sia il T.I.R. ovvero, in alternativa, il T.I.R.M.

Al proposito, occorre rammentare che l’art. 644, comma 1, c.p., recita te-stualmente: «Chiunque, fuori dei casi preveduti dall’articolo 643, si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una pre-stazione di denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari, è punito con la reclusione da due a dieci anni e con la multa da euro 5.000 a euro

241 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

30.000». Ciò che rileva è, quindi, il “corrispettivo” della prestazione di dena-ro, che – trattandosi di grandezza di natura finanziaria – deve essere determi-nato secondo una metodologia finanziariamente corretta.

Poiché la prima parte della norma considera gli “interessi”, sembrerebbe ragionevole ritenere che la misura corretta da assumere a riferimento sia il T.I.R., che – come si è visto – garantisce l’equivalenza finanziaria fra flussi con scadenza in epoche diverse e, quindi, esprime correttamente il tasso di in-teresse implicito dell’operazione finanziaria complessa.

Alla stessa conclusione si dovrebbe giungere anche tenendo conto della se-conda parte della norma – che si riferisce da “altri vantaggi usurari” –, poiché i frutti aggiuntivi generati, per effetto del pagamento delle rate, dalla disponi-bilità delle somme via via acquisite dal finanziatore a dal loro reperimento da parte dell’utilizzatore, costituiscono utilità esogene al rapporto sinallagmatico e, quindi, non possono essere prese in considerazione.

In definitiva, si deve ritenere che la misura congiunta del “corrispettivo” e delle altre “utilità” fornita soltanto dal T.I.R.M. costituisca una corretta e-spressione dell’onerosità – o della rimuneratività – del finanziamento, ma sol-tanto ai fini della valutazione della convenienza dell’operazione; mentre la mi-sura corretta da assumere a riferimento per la valutazione dell’eventuale usu-rarietà dell’operazione finanziaria complessa non può che essere il T.I.R., che – come si è detto – costituisce una “media funzionale” (sul piano cronologico) degli interessi e delle altre componenti di costo.

3.3.1. La curva dei tassi. Tassi spot e tassi forward

Ferme restando le conclusioni alla quali si è giunti nel paragrafo preceden-te, riveste notevole utilità pratica stabilire quale sia – in una prospettiva ex an-te – il T.I.R.M.

Per raggiungere tale obiettivo, occorre prendere le mosse dalla curva dei tassi – nota al momento della valutazione – e ricavare i tassi impliciti.

In tale prospettiva, è opportuno precisare la nozione di tasso spot e di tasso forward ed esplicitare il concetto di curva dei tassi.

Il tasso d’interesse a pronti, detto anche tasso spot a n anni, è il tasso di in-teresse relativo a un investimento che inizia al tempo zero e dura n anni (la da-ta di riferimento coincide con la data di inizio dell’operazione finanziaria): un esempio di tasso spot è l’EURIRS quotato (oggi) a 1 anno, 2 anni, 3 anni, 4 anni, 5 anni e così via.

Il tasso di interesse a termine, detto anche tasso forward, invece, è il tasso d’interesse relativo a un intervallo di tempo futuro (ad esempio il tasso di inte-resse fra t-1 e t): un esempio di tasso forward è il tasso EURIBOR quotato (fra

242 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

2 anni) e relativo al periodo fra t-1 e t (ad esempio 1 anno). L’EURIRS è il tasso interbancario di riferimento utilizzato come parametro

di quotazione dei mutui ipotecari a tasso fisso. È diffuso giornalmente dalla Federazione Bancaria Europea ed è pari a una media ponderata delle quota-zioni alle quali le banche operanti nell’Unione Europea quotano l’interest rate swap; è detto anche IRS.

L’EURIBOR, invece, è il tasso interbancario di riferimento diffuso gior-nalmente dalla Federazione Bancaria Europea come media ponderata dei tassi di interesse ai quali le Banche operanti nell’Unione Europea cedono i depositi in prestito. È utilizzato come parametro di indicizzazione dei mutui ipotecari a tasso variabile.

Se, ad esempio, la quotazione dell’EURIRS a 1 anno è pari al 6%, quella a 2 anni pari al 8%, e quella a 3 anni pari al 12%, significa che un investitore si attende un rendimento costante del 6% annuo, se la durata del suo investimen-to è pari ad 1 anno, un rendimento dell’8%, se la durata del suo investimento è pari a 2 anni, e un rendimento del 12%, se la durata del suo investimento è pa-ri a 3 anni.

In tale ipotesi, è agevole constatare come vi siano aspettative di rialzo dei tassi: infatti, il rendimento medio nell’arco di 1 anno è pari al 6%, il rendimen-to medio nell’arco di 2 anni è pari all’8% e il rendimento medio nell’arco di 3 anni è pari al 12%. Tuttavia, non è assolutamente detto che i tassi forward su-biscano variazioni della stessa intensità rispetto ai tassi spot.

Infatti, poiché i tassi EURIBOR a termine (o “forward”) si ricavano impli-citamente dalla curva dai tassi EURIRS a pronti (o “spot”), è evidente che l’effetto complessivamente prodotto da un unico investimento per 3 anni (12%) deve essere pari a quello generato da un investimento “spezzato” in 3 parti; tuttavia, vi sono scostamenti significativi fra il tasso EURIRS a pronti (o “spot”) – che si mantiene costante al 12% – e i tassi EURIBOR a termine (o “forward ”) – che partono dal 6% ma che devono condurre allo stesso risultato complessivo –. Nel caso di specie, infatti, i tassi EURIBOR a termine (o “for-ward ”) devono subire una forte “accelerazione” per garantire il raggiungi-mento del risultato medio complessivo del 12%, con variazioni più che pro-porzionali nel secondo e nel terzo anno.

3.3.2. L’applicazione all’esempio prospettato

Alla luce delle considerazioni sopra svolte, viene di seguito riprodotto il ri-sultato cui si perviene in termini di T.I.R.M. nell’esempio descritto.

243 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

GRANDEZZE VALORI

Capitale finanziato 300.000,00

Data di sottoscrizione 15/12/2008

Durata in mesi 60

Euribor 3,42%

Spread 4,00%

Tasso nominale annuale 7,42%

Tasso nominale mensile 0,62%

Rata 6.000,00

Al fine di ricavare i tassi EURIBOR forward, occorre – come sopra illu-

strato – prendere le mosse dai tassi EURIRS spot, i quali – tenuto conto del fatto che l’operazione finanziaria complessa prevede rate con cadenza mensile – devono essere trasformati da annuali a mensili.

N. Canone Data Tassi Eurirs spot annuali

Tassi Eurirs spot mensili

0 15/12/2008 3,42% 0,29%

1 15/1/2009 0,28%

2 15/2/2009 0,28%

3 15/3/2009 0,28%

4 15/4/2009 0,28%

5 15/5/2009 0,27%

6 15/6/2009 0,27%

7 15/7/2009 0,27%

8 15/8/2009 0,27%

9 15/9/2009 0,26%

10 15/10/2009 0,26%

11 15/11/2009 0,26%

12 15/12/2009 3,07% 0,26%

13 15/1/2010 0,26%

14 15/2/2010 0,26%

15 15/3/2010 0,26%

16 15/4/2010 0,26%

17 15/5/2010 0,26%

(Segue)

244 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

18 15/6/2010 0,26%

19 15/7/2010 0,25%

20 15/8/2010 0,25%

21 15/9/2010 0,25%

22 15/10/2010 0,25%

23 15/11/2010 0,25%

24 15/12/2010 3,05% 0,25%

25 15/1/2011 0,26%

26 15/2/2011 0,26%

27 15/3/2011 0,26%

28 15/4/2011 0,26%

29 15/5/2011 0,26%

30 15/6/2011 0,26%

31 15/7/2011 0,26%

32 15/8/2011 0,26%

33 15/9/2011 0,26%

34 15/10/2011 0,26%

35 15/11/2011 0,27%

36 15/12/2011 3,20% 0,27%

37 15/1/2012 0,27%

38 15/2/2012 0,27%

39 15/3/2012 0,27%

40 15/4/2012 0,27%

41 15/5/2012 0,27%

42 15/6/2012 0,27%

43 15/7/2012 0,27%

44 15/8/2012 0,28%

45 15/9/2012 0,28%

46 15/10/2012 0,28%

47 15/11/2012 0,28%

48 15/12/2012 3,35% 0,28%

49 15/1/2013 0,28%

50 15/2/2013 0,28%

51 15/3/2013 0,28%

52 15/4/2013 0,28%

(Segue)

245 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

53 15/5/2013 0,28%

54 15/6/2013 0,28%

55 15/7/2013 0,28%

56 15/8/2013 0,29%

57 15/9/2013 0,29%

58 15/10/2013 0,29%

59 15/11/2013 0,29%

60 15/12/2013 3,46% 0,29%

Il T.I.R.M. si ottiene ponendo la condizione del rispetto dell’equivalenza

finanziaria fra flussi in entrata (finanziamento o investimento iniziale) e flussi in uscita (rate via via pagate), come risulta dalla tabella di seguito riportata.

N. C

anon

e

Dat

a

Deb

ito R

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Quo

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apita

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le

pros

petti

co

Flus

si c

apita

lizza

ti

Flus

si fi

nali

0 15/12/2008 300.000,00 - - - 0,29% 1,0000 0,29% 0,62% – 300.000,00

1 15/1/2009 295.855,02 4.144,98 1.855,02 6.000,00 5.963,13 0,28% 1,0028 0,28% 0,62% 6.000,00

2 15/2/2009 291.684,42 4.170,61 1.829,39 6.000,00 5.926,48 0,28% 1,0056 0,28% 0,61% 12.036,66

3 15/3/2009 287.488,02 4.196,39 1.803,61 6.000,00 5.890,06 0,28% 1,0084 0,27% 0,61% 18.109,63

4 15/4/2009 283.265,68 4.222,34 1.777,66 6.000,00 5.853,86 0,28% 1,0111 0,27% 0,60% 24.218,53

5 15/5/2009 279.017,23 4.248,45 1.751,55 6.000,00 5.817,89 0,27% 1,0137 0,26% 0,60% 30.362,98

6 15/6/2009 274.742,51 4.274,72 1.725,28 6.000,00 5.782,14 0,27% 1,0163 0,26% 0,59% 36.542,61

7 15/7/2009 270.441,35 4.301,15 1.698,85 6.000,00 5.746,60 0,27% 1,0189 0,25% 0,59% 42.757,02

8 15/8/2009 266.113,60 4.327,75 1.672,25 6.000,00 5.711,29 0,27% 1,0214 0,25% 0,58% 49.005,82

9 15/9/2009 261.759,10 4.354,51 1.645,49 6.000,00 5.676,19 0,26% 1,0239 0,24% 0,58% 55.288,59

10 15/10/2009 257.377,66 4.381,44 1.618,56 6.000,00 5.641,31 0,26% 1,0264 0,24% 0,57% 61.604,94

11 15/11/2009 252.969,13 4.408,53 1.591,47 6.000,00 5.606,64 0,26% 1,0288 0,23% 0,57% 67.954,42

12 15/12/2009 248.533,34 4.435,79 1.564,21 6.000,00 5.572,18 0,26% 1,0311 0,23% 0,56% 74.336,63

13 15/1/2010 244.070,13 4.463,22 1.536,78 6.000,00 5.537,94 0,26% 1,0338 0,25% 0,59% 80.773,26

14 15/2/2010 239.579,32 4.490,81 1.509,19 6.000,00 5.503,91 0,26% 1,0364 0,25% 0,59% 87.247,47

(Segue)

246 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

15 15/3/2010 235.060,73 4.518,58 1.481,42 6.000,00 5.470,08 0,26% 1,0390 0,25% 0,59% 93.759,45

16 15/4/2010 230.514,21 4.546,52 1.453,48 6.000,00 5.436,47 0,26% 1,0416 0,25% 0,59% 100.309,38

17 15/5/2010 225.939,58 4.574,64 1.425,36 6.000,00 5.403,06 0,26% 1,0443 0,25% 0,59% 106.897,45

18 15/6/2010 221.336,65 4.602,92 1.397,08 6.000,00 5.369,85 0,26% 1,0469 0,25% 0,59% 113.523,85

19 15/7/2010 216.705,27 4.631,38 1.368,62 6.000,00 5.336,85 0,25% 1,0496 0,25% 0,59% 120.188,76

20 15/8/2010 212.045,25 4.660,02 1.339,98 6.000,00 5.304,06 0,25% 1,0522 0,25% 0,59% 126.892,38

21 15/9/2010 207.356,41 4.688,84 1.311,16 6.000,00 5.271,46 0,25% 1,0548 0,25% 0,59% 133.634,89

22 15/10/2010 202.638,58 4.717,83 1.282,17 6.000,00 5.239,07 0,25% 1,0575 0,25% 0,58% 140.416,48

23 15/11/2010 197.891,58 4.747,00 1.253,00 6.000,00 5.206,87 0,25% 1,0602 0,25% 0,58% 147.237,34

24 15/12/2010 193.115,23 4.776,35 1.223,65 6.000,00 5.174,87 0,25% 1,0628 0,25% 0,58% 154.097,67

25 15/1/2011 188.309,34 4.805,89 1.194,11 6.000,00 5.143,07 0,26% 1,0658 0,28% 0,61% 161.043,14

26 15/2/2011 183.473,73 4.835,61 1.164,39 6.000,00 5.111,46 0,26% 1,0688 0,28% 0,62% 168.034,58

27 15/3/2011 178.608,22 4.865,51 1.134,49 6.000,00 5.080,05 0,26% 1,0718 0,28% 0,62% 175.072,56

28 15/4/2011 173.712,63 4.895,59 1.104,41 6.000,00 5.048,83 0,26% 1,0749 0,29% 0,62% 182.157,67

29 15/5/2011 168.786,77 4.925,86 1.074,14 6.000,00 5.017,81 0,26% 1,0780 0,29% 0,62% 189.290,48

30 15/6/2011 163.830,45 4.956,32 1.043,68 6.000,00 4.986,97 0,26% 1,0811 0,29% 0,62% 196.471,60

31 15/7/2011 158.843,48 4.986,97 1.013,03 6.000,00 4.956,32 0,26% 1,0843 0,29% 0,63% 203.701,62

32 15/8/2011 153.825,67 5.017,81 982,19 6.000,00 4.925,86 0,26% 1,0875 0,29% 0,63% 210.981,15

33 15/9/2011 148.776,84 5.048,83 951,17 6.000,00 4.895,59 0,26% 1,0907 0,30% 0,63% 218.310,80

34 15/10/2011 143.696,79 5.080,05 919,95 6.000,00 4.865,51 0,26% 1,0940 0,30% 0,63% 225.691,19

35 15/11/2011 138.585,33 5.111,46 888,54 6.000,00 4.835,61 0,27% 1,0973 0,30% 0,63% 233.122,95

36 15/12/2011 133.442,26 5.143,07 856,93 6.000,00 4.805,89 0,27% 1,1006 0,30% 0,64% 240.606,71

37 15/1/2012 128.267,39 5.174,87 825,13 6.000,00 4.776,35 0,27% 1,1040 0,31% 0,64% 248.143,13

38 15/2/2012 123.060,52 5.206,87 793,13 6.000,00 4.747,00 0,27% 1,1074 0,31% 0,64% 255.732,83

39 15/3/2012 117.821,45 5.239,07 760,93 6.000,00 4.717,83 0,27% 1,1108 0,31% 0,64% 263.376,49

40 15/4/2012 112.549,99 5.271,46 728,54 6.000,00 4.688,84 0,27% 1,1143 0,31% 0,64% 271.074,76

41 15/5/2012 107.245,93 5.304,06 695,94 6.000,00 4.660,02 0,27% 1,1177 0,31% 0,65% 278.828,32

42 15/6/2012 101.909,08 5.336,85 663,15 6.000,00 4.631,38 0,27% 1,1213 0,32% 0,65% 286.637,85

43 15/7/2012 96.539,22 5.369,85 630,15 6.000,00 4.602,92 0,27% 1,1248 0,32% 0,65% 294.504,03

44 15/8/2012 91.136,17 5.403,06 596,94 6.000,00 4.574,64 0,28% 1,1284 0,32% 0,65% 302.427,57

45 15/9/2012 85.699,70 5.436,47 563,53 6.000,00 4.546,52 0,28% 1,1321 0,32% 0,66% 310.409,15

46 15/10/2012 80.229,62 5.470,08 529,92 6.000,00 4.518,58 0,28% 1,1357 0,32% 0,66% 318.449,51

47 15/11/2012 74.725,71 5.503,91 496,09 6.000,00 4.490,81 0,28% 1,1394 0,33% 0,66% 326.549,34

48 15/12/2012 69.187,77 5.537,94 462,06 6.000,00 4.463,22 0,28% 1,1432 0,33% 0,66% 334.709,40

49 15/1/2013 63.615,58 5.572,18 427,82 6.000,00 4.435,79 0,28% 1,1468 0,32% 0,65% 342.884,83

(Segue)

247 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

50 15/2/2013 58.008,95 5.606,64 393,36 6.000,00 4.408,53 0,28% 1,1504 0,32% 0,65% 351.118,63

51 15/3/2013 52.367,64 5.641,31 358,69 6.000,00 4.381,44 0,28% 1,1541 0,32% 0,65% 359.411,44

52 15/4/2013 46.691,45 5.676,19 323,81 6.000,00 4.354,51 0,28% 1,1578 0,32% 0,65% 367.763,89

53 15/5/2013 40.980,16 5.711,29 288,71 6.000,00 4.327,75 0,28% 1,1616 0,32% 0,66% 376.176,64

54 15/6/2013 35.233,56 5.746,60 253,40 6.000,00 4.301,15 0,28% 1,1653 0,32% 0,66% 384.650,32

55 15/7/2013 29.451,42 5.782,14 217,86 6.000,00 4.274,72 0,28% 1,1691 0,33% 0,66% 393.185,61

56 15/8/2013 23.633,53 5.817,89 182,11 6.000,00 4.248,45 0,29% 1,1730 0,33% 0,66% 401.783,15

57 15/9/2013 17.779,67 5.853,86 146,14 6.000,00 4.222,34 0,29% 1,1768 0,33% 0,66% 410.443,64

58 15/10/2013 11.889,61 5.890,06 109,94 6.000,00 4.196,39 0,29% 1,1807 0,33% 0,66% 419.167,75

59 15/11/2013 5.963,13 5.926,48 73,52 6.000,00 4.170,61 0,29% 1,1846 0,33% 0,67% 427.956,16

60 15/12/2013 – 0,00 5.963,13 36,87 6.000,00 4.144,98 0,29% 1,1886 0,33% 0,67% 436.809,58 436.809,58

TOTALE 300.000 60.000 360.000 300.000

T.I.R. 7,68%

T.I.R.M. 7,80%

Nel caso di specie, il T.I.R.M. risulta superiore rispetto al T.I.R.: ciò è do-

vuto al fatto che la curva dei tassi ha un andamento crescente nel tempo.

4. Conclusioni

Le considerazioni sopra svolte conducono a ritenere che, nelle operazioni finanziarie complesse, il limite intrinseco nel T.I.R. sia superabile attraverso l’utilizzo del T.I.R.M., il quale consente – come si ha avuto modo di constata-re – la determinazione dell’effettiva misura dell’onerosità del finanziamento per l’utilizzatore e della rimuneratività dell’investimento per il finanziatore. Infatti, il T.I.R.M. tiene conto dell’investimento dei canoni (o delle rate) ai tassi effettivi, e cioè ai tassi forward che si ricavano implicitamente dai tassi spot.

Si deve, quindi, ritenere che la misura congiunta del “corrispettivo” e delle altre “utilità” fornita soltanto dal T.I.R.M. costituisca una corretta espressione dell’onerosità – o della rimuneratività – del finanziamento, ma soltanto ai fini della valutazione della convenienza dell’operazione del finanziamento (o del-l’investimento) per l’utilizzatore (o per il finanziatore); per contro, la misura corretta da assumere a riferimento per la valutazione dell’eventuale usurarietà

248 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

dell’operazione finanziaria complessa non può che essere il T.I.R., che – come si è detto – costituisce una “media funzionale” (sul piano cronologico) degli interessi e delle altre componenti di costo.

E la conferma che la misura corretta da prendere in considerazione per la verifica dell’usurarietà è il T.I.R. – e non, invece, le singole “dazioni” dell’o-perazione finanziaria complessa – è stata data dalla Suprema Corte 6, la quale ha affermato che la verifica dell’usurarietà del saggio di interessi richiede un’indagine complessa: occorre, anzitutto, accertare il valore totale delle som-me riscosse dal mutuante; poi, sottraendo da tale importo la sorte capitale (os-sia il denaro dato in prestito), si ricava il profitto; quest’ultimo deve essere, in-fine, rapportato all’intera durata del prestito, in modo da accertare in via de-duttiva l’incidenza percentuale del profitto stesso nel corso del tempo, cioè il saggio di interessi in concreto riscosso.

6 Cass. 22 settembre 2016, n. 39334, in www.dirittobancario.it.

249 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

Crowdfunding. Il finanziamento della folla, o dei “folli”? Gianluca Quaranta

SOMMARIO

1. Introduzione. – 2. Che cos’è il crowdfunding? – 2.1. Le caratteristiche del crowdfunding. – 2.2. Le diverse forme di crowdfunding. – 2.3. I vantaggi e i limiti del crowdfunding. – 2.3.1. I principali rischi dell’equity based crowdfunding e del social lending. – 3. Fonti normative e legislazione. – 3.1. La disciplina ad hoc dell’equity based crowdfunding. – 3.2. La disciplina degli altri modelli di crowdfunding. – 4. La storia e i dati italiani. – 4.1. L’voluzione del crowdfunding in Italia. – 4.2. I dati del crowdfunding italiano nel 2015. – 5. Conclusioni. – Bi-bliografia. – Principali provvedimenti normativi. – Sitografia.

1. Introduzione

In un mondo sempre più digitale e social, sta emergendo una nuova op-portunità per il finanziamento delle organizzazioni e dei privati: il crowd-funding. Letteralmente, si tratta del “finanziamento della folla”. È un feno-meno che ha buone chance per diventare virale, soprattutto se il modello c.d. delle 3F (family, friends e fools) 1, in base al quale si dice che i finanziatori di un progetto siano in primis i familiari e gli amici del progettista e poi i “folli”, si dimostrerà valido anche per il crowdfunding. Infatti se dai primi “folli” si passerà ad un vero e proprio finanziamento della “folla”, che po-pola il mondo online, il fenomeno non potrà che esplodere. Questo perché «la “folla” rappresenta la chiave di lettura per avviare campagne di crowd-funding di successo» 2.

Alla base delle potenzialità attuali e future del crowdfunding ci sono una se-

1 Per un approfondimento sul tema si veda: A.A., Diventare imprenditori innovativi, in Le Guide di Corriere Imprese, 2015, 210 ss.

2 COMMISSIONE DI STUDIO UNGDCEC FINANZA – SOTTOGRUPPO “START UP E CROWDFUN-

DING” (a cura di), Start up innovative e i nuovi strumenti di sviluppo e crescita: il crowdfun-ding, 2016, 17.

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rie di ragioni 3. Anzitutto la crisi del 2008 che ha comportato il noto credit crunch, riducendo le possibilità di finanziamento di molti operatori, soprattutto di quelli di dimensioni minori. Altri influssi positivi al fenomeno sono arrivati anche dal propagarsi di Internet e dei social network, soprattutto in questa so-cietà che passa sempre più tempo connessa alla Rete. Non da meno è l’affermar-si sui mercati della c.d. Long Tail 4 di C. Anderson, ossia il fenomeno della “co-da lunga”, secondo il quale: “il futuro del business sarà vendere meno del più”. Il motivo alla base di questa affermazione è piuttosto semplice. Quando non è necessario mostrare i prodotti, i costi di esposizione, basati sulla selezione, spa-riscono: essenzialmente quello che avviene grazie ad Internet. In aggiunta, visto che i consumatori sono portati ad apprezzare maggiormente ciò che gli si addice di più, ovvero tutto quello che è disponibile nella Long Tail, allora essi tendono a “sparpapagliarsi” da tendenze omologate (i c.d. bestseller) a infinite nicchie – che, appunto, rappresentano la suddetta “coda lunga”. Per gli sviluppi del fe-nomeno hanno altresì contribuito positivamente anche i media, che hanno ini-ziato a parlare del crowdfunding rendendolo noto al grande pubblico. Un ultimo fattore degno di nota è il basso di costo d’utilizzo delle piattaforme di crowd-funding per gli utenti, il che è possibile perché (come si vedrà) non vi è una re-golamentazione stringente 5 – al contrario dei mercati regolamentati e non rego-lamentati dove la molta giurisprudenza fa lievitare i costi.

La combinazione di tutti questi elementi ha contribuito, significativamente, alla diffusione delle piattaforme di crowdfunding, dapprima negli Stati Uniti e poi in tutto il resto del mondo 6.

Negli ultimi anni è altresì andata crescendo l’importanza delle associazioni che si occupano dello studio del crowdfunding. Una delle principali è l’Euro-pean Crowdfunding Network, che ha definito il fenomeno come: «l’accumulo di piccoli investimenti in singoli progetti da parte di un gran numero di individui (la “folla”) tramite o con l’aiuto di Internet e dei social network» 7.

3 Fra gli altri, si veda: I. PAIS, P. PERETTI, C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditorialità, cit., 29.

4 Per una lettura più approfondita sul tema si consiglia la consultazione di: A. ELBERSE, Should you invest in the Long Tail, in Harward Business Review, 2008 e C. ANDERSON, The Long Tail: Why the Future of Business is Selling Less of More, Hyperion, New York, 2006.

5 Si veda: COMMISSIONE DI STUDIO UNGDCEC FINANZA – SOTTOGRUPPO “START UP E

CROWDFUNDING” (a cura di), Start up innovative e i nuovi strumenti di sviluppo e crescita: il crowdfunding, cit., 17 ss.

6 Anche se, come si vedrà in seguito, c’erano fenomeni simili al crowdfunding anche prima della crisi e al di fuori degli Stati Uniti d’America.

7 I. PAIS, P. PERETTI, C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditorialità, cit., 7.

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Ma come avviene questo “accumulo”? Facile, attraverso una campagna di raccolta di denaro online, con cui chi ha un’idea o un progetto lo propone alla folla di Internet. In genere, le campagne sono costituite da una serie di passag-gi. Il primo step consiste nella redazione di un business plan dell’idea e/o del progetto. Dopodiché, o anche contestualmente, vi è la scelta della piattaforma e la contestuale iscrizione (che spesso richiede il rispetto di requisiti specifici, che variano in base alla tipologia di crowdfunding ed alla piattaforma prescel-ta). Infine vi è il lancio della campagna, che deve – poi – essere accompagnato da una forte promozione sui social network 8.

Relativamente ai dati 9 del crowdfunding in tutto il mondo, sulla base di una ricerca di Massolution, nel 2014 il fenomeno è cresciuto – in termini di raccolta – del 167% (su un campione di 1.250 piattaforme oggetto dello stu-dio), pari ad un valore di 16,2 miliardi di Dollari. Il boom è stato trainato – soprattutto – dal mercato asiatico e dal settore dei presiti online.

Infine, si vuole ricordare al Lettore che l’obiettivo dei paragrafi seguenti sarà quello di descrivere, sulla base della letteratura esistente, il fenomeno del crowdfunding.

2. Che cos’è il crowdfunding?

«Per crowdfunding (finanziamento collettivo) si intende generalmente un invito pubblico a raccogliere fondi per un progetto specifico» 10. Tuttavia non è così semplice darne una definizione 11, infatti autorevoli autori 12 descrivono tale fenomeno come «una forma di partecipazione (finanziaria, ma non solo)

8 Non si tratterà questa materia più a fondo, in quanto il presente articolo è di natura divulgativa delle caratteristiche generali del crowdfunding e non delle specificità delle singole offerte.

9 COMMISSIONE DI STUDIO UNGDCEC FINANZA – SOTTOGRUPPO “START UP E CROWDFUN-

DING” (a cura di), Start up innovative e i nuovi strumenti di sviluppo e crescita: il crowdfun-ding, cit., 18 ss.

10 La citazione fa riferimento all’introduzione alla Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni in merito alla possibilità di Sfruttare il potenziale del crowdfunding nell’Unione europea (COM/2014/0172 final).

11 I. PAIS, P. PERETTI, C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditoria-lità, cit., 5 ss.

12 I. PAIS, P. PERETTI, C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditoria-lità, cit., 10.

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della rete (sociale) e attraverso la rete (Internet) a un progetto che si caratteriz-za per: progettualità a termine; libertà di scelta del progetto e del progettista, veicolata attraverso meccanismi reputazionali; trasparenza dei finanziamenti raccolti» 13.

2.1. Le caratteristiche del crowdfunding Il crowdfunding si basa su una serie di elementi principali 14 divisibili in

due sottocategorie. La prima contiene i pilastri 15, ossia le caratteristiche che descrivono l’essenza del fenomeno:

• La raccolta fondi: vale a dire la ricerca delle risorse per finanziarie il pro-prio progetto;

• La folla: il c.d. “crowd”, ossia i datori dei potenziali fondi per supportare le idee di chi lancia una campagna crowdfunding;

• Internet: il “veicolo” con il quale si perfeziona la transazione che porta il denaro dai datori ai prenditori di fondi.

Ad essi va senz’altro aggiunta anche la piattaforma di crowdfunding, ossia il luogo di incontro tra domanda (finanziatori) e offerta (progetti) di idee onli-ne. Insomma, una sorta di “borsa valori semplificata”.

Il secondo gruppo è, invece, costituito da vari fattori che determinano le modalità di esplicazione del crowdfunding. Si tratta essenzialmente di 16:

• Apertura: chiunque può diventare un investitore o un prenditore di fondi, salvo alcune eccezioni che si verificano in certe piattaforme particolari;

• Progettualità a termine: ogni campagna ha una durata e può essere del ti-po all-or-nothing – solo chi raggiunge la soglia minima richiesta ottiene effet-tivamente il denaro – ovvero keep-it-all – si riceve la somma raccolta alla data di chiusura della campagna;

• Partecipazione attiva: chi finanzia, spesso, ha un ruolo determinante nel stabilire le caratteristiche del futuro prodotto/servizio;

13 I. PAIS, P. PERETTI, C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditoria-lità, cit., 10.

14 I. PAIS, P. PERETTI, C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditoria-lità, cit., 8 ss.

15 I. PAIS, P. PERETTI, C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditoria-lità, cit., 6 ss.

16 L’elenco qui riportato ripropone la trattazione presente in I. PAIS-P. PERETTI-C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditorialità, cit., 8 ss.

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• Azione connettiva: senza la creazione di un network, ossia di una rete tra i vari finanziatori e non solo, è difficile che il progetto vada a buon fine;

• Azione e relazione digitale: il successo di una campagna è spesso legato alla capacità di creare consenso sui social network, non a caso una ricerca di E. Mollik 17 su Kickstarter (la più grande piattaforma di crowdfunding al mon-do) ha dimostrato un legame, direttamente proporzionale, tra la probabilità di successo di un progetto di crowdfunding e il numero di amici su Facebook;

• Reputazione e fiducia: rappresenta l’essenziale meccanismo di feedback su Internet che, negli ultimi tempi, sta diventando una discriminante importan-tissima per la determinazione della validità ed affidabilità di quello che si tro-va online;

• Caduta dei confini tra produzione e consumo: aumentano i prodotti di nicchia, sulla base della teoria della Long Tail di C. Anderson;

• Nuove forme di ricompensa: non sempre i finanziatori si aspettano un ri-torno economico, spesso si tratta solamente di una “ricompensa” morale;

• Trasparenza: legata, in parte, al meccanismo di feedback ed anche al fatto che le piattaforme consentono di vedere le somme versate e, talvolta, anche i nomi dei finanziatori.

2.2. Le diverse forme di crowdfunding «E pluribus unum»

Motto sullo stemma degli Stati Uniti d’America a indicare lo statuto federativo

La combinazione di tutti gli elementi, di cui si è detto nel paragrafo prece-dente, ha dato origine a quattro principali modelli di crowdfunding 18, che han-no creato anche vari ibridi.

La prima forma “classica” di crowdfunding è il donation-based, ossia un modello tipico di donazione, in cui il proponente la campagna di raccolta fon-di riceve il denaro e, al massimo, offre – in cambio – ricompense simboliche. È molto utilizzato dalle organizzazioni no-profit.

17 Il riferimento è I. PAIS, P. PERETTI, C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditorialità, cit., 9, in cui viene descritta la ricerca di E. Mollik. Per maggiori in-formazioni si veda: E. MOLLIK, The Dynamics of Crowdfunding: Determinants of Success and Failure, Working Paper, 2013.

18 Le quattro forme sono state codificate per la prima volta da un rapporto Massolution del 2012, come ricordato in I. PAIS, P. PERETTI, C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditorialità, cit., 10 ss. In merito ai modelli di crowdfunding, si veda anche: COMMIS-

SIONE DI STUDIO UNGDCEC FINANZA – SOTTOGRUPPO “START UP E CROWDFUNDING” (a cura di), Start up innovative e i nuovi strumenti di sviluppo e crescita: il crowdfunding, cit.

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Il secondo tipo è il reward-based 19, in cui si riceve una ricompensa, sulla base dell’importo che si è investito nella campagna di crowdfunding. Spesso diventa una pre-vendita e, dunque, si parla di pre-selling crowdfunding; anche se, a differenza di una vera e propria vendita anticipata dei prodotti, i finanzia-tori, sovente, sono molto coinvolti nella determinazione delle caratteristiche del bene. Oltre a copie del prodotto/servizio, in questo modello di crowdfun-ding è altresì possibile riconoscere altri tipi di “ricompense”, come 20: collabo-razioni o partecipazioni al progetto, esperienze creative o ricordi e riconosci-menti. Per chi lancia una campagna di reward crowdfunding è molto impor-tante «mantenere l’impegno di far pervenire quanto promesso a ogni singolo sostenitore» 21, prestando molta attenzione anche agli eventuali costi di transa-zione e di spedizione delle “ricompense” o dei prodotti/servizi. Onde evitare inconvenienti, «le piattaforme non sono responsabili per l’adempimento totale o parziale dell’obbligazione da parte del progettista: il contratto è stabilito in-teramente tra quest’ultimo e i sostenitori» 22.

C’è, poi, l’equity-based crowdfunding. Si tratta di un classico finanziamento da parte di soggetti che investono le proprie risorse nel capitale proprio di una società. Vi sono, però, due differenze sostanziali. La prima è che il meccanismo è estremamente più semplice rispetto ai mercati regolamentati e non regolamen-tati delle borse valori. In secondo luogo, la procedura ha dei costi che sono mol-to più contenuti. Infatti, in genere, i gestori delle piattaforme chiedono una per-centuale (4-7%) sul capitale raccolto 23. Inoltre, il modello equity-based «può fornire credenziali per il prestito bancario e per i finanziamenti pubblici» 24, consentendo – in questo modo – un primo passo verso l’ottenimento di finan-ziamenti da parte di enti quali società di venture capital e/o business angel 25,

19 Si veda anche: A.A., Diventare imprenditori innovativi, in Le Guide di Corriere Imprese, 2015, 205 ss.

20 COMMISSIONE DI STUDIO UNGDCEC FINANZA – SOTTOGRUPPO “START UP E CROWDFUN-

DING” (a cura di), Start up innovative e i nuovi strumenti di sviluppo e crescita: il crowdfun-ding, cit., 34 ss.

21 COMMISSIONE DI STUDIO UNGDCEC FINANZA – SOTTOGRUPPO “START UP E CROWDFUN-

DING” (a cura di), Start up innovative e i nuovi strumenti di sviluppo e crescita: il crowdfun-ding, cit., 34.

22 COMMISSIONE DI STUDIO UNGDCEC FINANZA – SOTTOGRUPPO “START UP E CROWDFUNDING” (a cura di), Start up innovative e i nuovi strumenti di sviluppo e crescita: il crowdfunding, cit., 34.

23 A.A., Diventare imprenditori innovativi, in Le Guide di Corriere Imprese, cit., 205 ss. 24 I. PAIS, P. PERETTI, C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditoria-

lità, cit., 26. 25 G. TARDIVO, R. SCHIESARI, N. MIGLIETTA, Corporate finance, Isedi, Torino, 2012, 135 ss.

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oltreché aprire la strada per l’ingresso nei mercati regolamentati e non regola-mentati tramite IPO (“Initial Public Offering”), ossia un’offerta pubblica inizia-le. Questo tipo di finanziamento non è del tutto nuovo. Difatti, come detto, le sue caratteristiche lo accomunano ad un normale investimento in azioni su una borsa valori. Tuttavia l’equity crowdfunding risulta maggiormente accessibile a più persone grazie ad una regolamentazione più leggera, una disintermediazione maggiore e ad una filiera burocratica un po’ più corta. Sembrerebbe, quindi, che tale fenomeno ricordi le origini delle prime borse valori europee, quelle olandesi nel XVI secolo. In quel periodo, infatti, il finanziamento delle Compagine delle Indie, che esploravano i mercati ad Est e ad Ovest del Vecchio Continente, tro-vavano le risorse finanziare da tutti gli strati sociali. Non a caso la celebre VOC, ossia la compagnia delle Indie Orientali olandese, disponeva di un capitale ini-ziale di circa 6.500.000 fiorini, sottoscritto da circa 1.200 persone, di cui quasi un terzo erano individui appartenenti alle classi più basse 26. Dunque, in questo potrebbero rivedersi le potenzialità di un vero finanziamento di tutta la folla, at-traverso – appunto – l’equity crowdfunding.

Va, inoltre, sottolineato che un modello ricondotto all’equity-based è il royalty-based, un tipo di crowdfunding che si verifica quando «il progettista offre una quota dei guadagni del singolo prodotto o servizio in finanziamen-to» 27.

L’ultimo dei modelli “classici” è il social lending. Si tratta del prestito di denaro cd. peer-to-peer. In particolare si fa riferimento, per il crowdfunding, alle «forme di disintermediazione del prestito che consentono la scelta del progetto a cui prestare denaro» 28, in cambio di un tasso di interesse 29 (per questo a volte si parla anche di “crowdlending” 30). Essenzialmente è un’alter-nativa ad un prestito bancario, con la differenza che i richiedenti il finanzia-

26 Per un approfondimento sul tema della VOC, si vedano: P. MASSA, G. BRACCO, A. GUENZI, J.A. DAVIS, G.L. FONTANA, A. CARRERAS, Dall’espansione allo sviluppo. Una storia economica d’Europa, III ed., Giappichelli, Torino, 2011, 107 ss. e M. FORNASARI, Finanza d’impresa e sistemi finanziari. Un profilo storico, II ed., Giappichelli, Torino, 2008, 32 ss.

27 I. PAIS, P. PERETTI, C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprendi-torialità, cit., 11.

28 I. PAIS, P. PERETTI, C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprendi-torialità, cit., 11

29 Si veda anche: A.A., Diventare imprenditori innovativi, in Le Guide di Corriere Imprese, 2015, 205 ss.

30 COMMISSIONE EUROPEA, Il crowdfunding. Che cosa è? – Una guida per le piccole e me-die imprese, Ufficio delle pubblicazione dell’Unione Europea, 2015, 14 ss.

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mento possono ricevere denaro da più persone 31. Ad ogni soggetto che richie-de un prestito viene assegnato un rating, basato sui dati presenti nelle centrali rischi (come avviene nel mercato creditizio normale). Più il rating sarà basso, maggiore sarà il tasso di interesse richiesto in base al rapporto rischio-ren-dimento. Alcune piattaforme offrono anche la possibilità di rivendere i propri crediti a terzi, in modo da rientrare più in fretta dell’investimento; creando, dunque, in questo modo, un mercato secondario 32.

Esiste, poi, una particolare forma di social lending, il microlending, ossia «l’offerta di servizi finanziari a soggetti a basso reddito considerati non ban-cabili» 33, in cui «il denaro è raccolto da una folla di persone ed è gestito da un intermediario locale» 34.

In generale i modelli equity-based, reward-based e social lending sono più conformi all’attività aziendale; mentre il donation-based si presta di più alle realtà no-profit. Per quanto attiene ai privati, invece, è loro preclusa la possibi-lità di ricorrere all’equity crowdfunding se non attraverso una società; al con-trario i progetti reward-based (soprattutto nella modalità di pre-selling) ed i prestiti peer-to-peer sono molto in voga, per lo meno al di fuori dell’Italia.

Negli ultimi anni, accanto alle forme “classiche” si stanno affiancando tre nuovi modelli di crowdfunding 35. Il primo è il do-it-yourself che consente l’u-tilizzazione del crowdfunding all’interno del sito stesso dell’organizzazione che lancia la campagna, senza dover passare su di un altro sito Internet 36. Il secondo è il corporate crowdfunding, il quale, partendo dal concetto di CRS (Corporate Social Responsability), può aiutare le aziende nella progettazione di prodotti/servizi, coinvolgendo direttamente i clienti in quella fase. L’ultimo è il civic crowdfunding. Si tratta dell’utilizzo del crowdfunding per il finan-

31 COMMISSIONE EUROPEA, Il crowdfunding. Che cosa è? – Una guida per le piccole e medie imprese, Ufficio delle pubblicazione dell’Unione Europea, 2015, 14 ss.

32 Si veda: www.borsaitaliana.it/notizie/sotto-la-lente/p2plending-224.htm. 33 COMMISSIONE DI STUDIO UNGDCEC FINANZA – SOTTOGRUPPO “START UP E CROWDFUN-

DING” (a cura di), Start up innovative e i nuovi strumenti di sviluppo e crescita: il crowdfun-ding, cit., 35 ss.

34 COMMISSIONE DI STUDIO UNGDCEC FINANZA – SOTTOGRUPPO “START UP E CROWDFUN-

DING” (a cura di), Start up innovative e i nuovi strumenti di sviluppo e crescita: il crowdfun-ding, cit., 35 ss.

35 I. PAIS, P. PERETTI, C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditoria-lità, cit., 10 ss.

36 COMMISSIONE DI STUDIO UNGDCEC FINANZA – SOTTOGRUPPO “START UP E CROWDFUN-

DING” (a cura di), Start up innovative e i nuovi strumenti di sviluppo e crescita: il crowdfun-ding, cit., 33 ss.

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ziamento di opere e progetti pubblici da parte dei cittadini stessi. Questo mo-dello potrebbe generare degli interrogativi dal momento che, solitamente, tali progetti dovrebbero essere finanziati con le tasse. Tuttavia chi ha lanciato compagne di questo tipo sostiene che «dare la possibilità ai cittadini, su pro-getti per loro rilevanti – culturali, sociali o ambientali – di scegliere dove met-tere le proprie risorse è un punto interessante» 37.

2.3. I vantaggi e i limiti del crowdfunding Nel 2014 la Commissione Europea, visto il diffondersi del fenomeno, intrave-

deva la possibilità – circostanza che si è, poi, trasformata in dato di fatto – di inte-grare, ancora di più, il crowdfunding con «le tradizionali fonti di finanziamento per contribuire a finanziare l’economia reale» 38. Infatti, si prospettava già allora l’opportunità di sfruttare questo nuovo tipo di raccolta collettiva per finanziare va-rie tipologie di «progetti innovativi, creativi e culturali, o attività di imprenditori sociali, che hanno difficoltà di accesso alle altre forme di finanziamento» 39.

Alla luce di questa ipotesi è, però, necessario riflettere sui principali van-taggi e svantaggi del crowdfunding.

Innanzitutto, come viene sottolineato nella Comunicazione della Commis-sione Europea (a cui si è accennato in precedenza), il crowdfunding possiede tre caratteristiche principali che – assieme – lo differenziano da altri tipi di fi-nanziamento: flessibilità, coinvolgimento delle comunità e varietà delle sue forme 40. Oltre a questi vantaggi, ne esistono anche altri. Infatti, il crowdfun-ding 41, in ognuno dei suoi modelli, può consentire di testare la validità dei

37 La citazione fa riferimento all’intervista a Matteo Lepore del Comune di Bologna per la campagna “Un passo per San Luca”. L’esempio è tratto da I. PAIS, P. PERETTI, C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditorialità, cit., 12 ss.

38 La citazione fa riferimento all’introduzione alla Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni in merito alla possibilità di Sfruttare il potenziale del crowdfunding nell’Unione europea (COM/2014/0172 final).

39 La citazione fa, nuovamente, riferimento all’introduzione alla Comunicazione della Com-missione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni in merito alla possibilità di Sfruttare il potenziale del crowdfunding nell’Unione europea (COM/2014/0172 final).

40 Si veda il paragrafo 2 della Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni in merito alla possibilità di Sfruttare il potenziale del crowdfunding nell’Unione europea (COM/2014/0172 final).

41 Si veda anche: COMMISSIONE EUROPEA, Il crowdfunding. Che cosa è? – Una guida

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propri progetti, esponendoli al giudizio della folla di Internet e, dunque, ad una moltitudine di persone difficilmente raggiungibile in altri modi. Inoltre, nel caso in cui l’idea sia ben accolta dal web, una campagna di crowdfunding può trasformarsi in un potente strumento di marketing – aumentando, altresì, la possibilità di ricevere altre forme di finanziamento.

A fronte di questi vantaggi non mancano, però, delle controindicazioni, os-sia dei potenziali rischi e limiti 42. In primo luogo non è detto che si raggiunga l’obiettivo fissato nella campagna e, dunque, non sempre il progetto porta al successo. Sulla base delle c.d. 3F (family, friends and fools), il coinvolgimen-to iniziale della propria famiglia e dei propri amici, soprattutto sui social net-work (ricordando lo studio di E. Mollik sul rapporto diretto tra amici su Fa-cebook e probabilità di raggiungere il target della campagna di crowdfunding), può aumentare la possibilità di raggiungere l’obiettivo, spingendo i “folli” e, dunque, la folla a finanziare la propria idea. Tuttavia, in caso di insuccesso non è da escludersi la possibilità di un potenziale danno alla reputazione; so-prattutto in Italia dove la “cultura” del fallimento è molto diversa dal mondo anglosassone. Va, poi, sottolineato che presentando un progetto creativo su un sito online ci si espone alla possibilità che qualcuno si impossessi liberamente dei diritti di proprietà intellettuale dell’idea. È vero che una tutela, in Italia, è comunque garantita dalla legge 22 aprile 1941, n. 633 sul diritto di autore; ma chi conosce il web sa bene che online è molto difficile proteggere ciò che si diffonde in Rete. Non è da escludersi neppure la possibilità di sottostimare i costi o, addirittura, violare la legge senza nemmeno esserne a conoscenza. Po-trebbero altresì emergere problemi con la piattaforma e/o con i finanziatori. Infine, soprattutto in Italia, la bassissima alfabetizzazione digitale, la scarsa conoscenza dei sistemi di pagamento online e la «mancanza di sensibilizza-zione e di conoscenze» 43 potrebbero far emergere la paura che il progetto lan-ciato sia una truffa 44. La situazione è più delicata, rispetto ad altri Paesi, come gli Stati Uniti, in cui la Rete sa scovare le truffe. In tal senso «il vantaggio del

per le piccole e medie imprese, Ufficio delle pubblicazione dell’Unione Europea, 2015, 9 ss.

42 Si veda in particolar modo: COMMISSIONE EUROPEA, Il crowdfunding. Che cosa è? – Una guida per le piccole e medie imprese, Ufficio delle pubblicazione dell’Unione Europea, 2015, 10 ss.

43 La citazione fa sempre riferimento all’introduzione alla Comunicazione della Commis-sione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni in merito alla possibilità di Sfruttare il potenziale del crowdfunding nell’Unione europea (COM/2014/0172 final).

44 I. PAIS, P. PERETTI, C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditoria-lità, cit., 16 ss.

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crowdfunding è che aggrega le proposte e […] le mette in competizione tra lo-ro. […] Negli Stati Uniti le campagne di crowdfunding non hanno quasi mai conseguenze negative in termini di truffe o imbrogli, perché la rete ha una grandissima capacità di autoregolamentarsi e scoprire l’inganno» 45. In Italia, invece, per le donazioni e la beneficienza a controllare è la polizia giudiziaria e le verifiche vengono effettuate solo in caso di segnalazioni – non c’è quindi una tutela preventiva come negli investimenti 46. In ogni caso, la «mancanza di sensibilizzazione e di conoscenze», la difficile protezione dei diritti di proprie-tà intellettuale, la possibilità del verificarsi di frodi a danno dei consumatori, l’incertezza giuridica e, non ultimi, gli adempimenti normativi onerosi sono elementi non insoliti anche per altri tipi di finanziamento 47.

2.3.1. I principali rischi dell’equity-based crowdfunding e del social lending

L’investimento nel capitale proprio di un’azienda tramite un portale di equity-based crowdfunding espone i finanziatori a tre principali problemi 48. Il primo è la perdita dei propri capitali, caratteristica – però – tipica di ogni in-vestimento. Tuttavia, il rischio potrebbe essere maggiore, in quanto, come si vedrà in seguito, solo le start-up innovative e le PMI innovative possono lan-ciare una campagna di questo genere. Trattandosi, spesso, di realtà costituite da poco tempo e senza un track record di risultati, il rischio è, quindi, più ele-vato. Il secondo problema riguarda l’impossibilità di ricevere dividendi, in quanto start-up/PMI innovative non possono distribuire utili «per un massimo di 4 anni» 49 in linea con la normativa vigente. C’è, poi, il rischio di illiquidità, «in quanto per gli strumenti finanziari emessi dalle start-up innovative e sotto-scritti tramite portali online» 50, l’attuale disciplina «ne impone la non nego-

45 I. PAIS, P. PERETTI, C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditoria-lità, cit., 17 ss.

46 I. PAIS, P. PERETTI, C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditoria-lità, cit., 17.

47 La citazione fa sempre riferimento all’introduzione alla Comunicazione della Commis-sione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni in merito alla possibilità di Sfruttare il potenziale del crowdfunding nell’Unione europea (COM/2014/0172 final).

48 COMMISSIONE DI STUDIO UNGDCEC FINANZA – SOTTOGRUPPO “START UP E CROWDFUN-

DING” (a cura di), Start up innovative e i nuovi strumenti di sviluppo e crescita: il crowdfun-ding, cit., 37 ss.

49 COMMISSIONE DI STUDIO UNGDCEC FINANZA – SOTTOGRUPPO “START UP E CROWDFUNDING” (a cura di), Start up innovative e i nuovi strumenti di sviluppo e crescita: il crowdfunding, cit., 37.

50 COMMISSIONE DI STUDIO UNGDCEC FINANZA – SOTTOGRUPPO “START UP E CROWDFUN-

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ziazione nei mercati organizzati per tutto il periodo in cui la società può essere considerata una start-up» 51.

Passando al caso specifico del social lending, non vi sono garanzie a difesa del fallimento del debitore; a fronte di questo – però – i prestatori, in genere, ottengono un rendimento più alto rispetto ad altri tipi di investimento. Va an-che detto che il prenditore «paga un tasso di interesse leggermente più alto ri-spetto ai finanziamenti a medio termine per l’acquisto di macchinari, impianti, ecc., ma notevolmente più basso rispetto ai tassi del normale credito al con-sumo: questo è possibile grazie alla riduzione ai minimi termini dei costi di intermediazione, in quanto il prestatore e il richiedente (il contraente il presti-to, cioè il debitore) vengono messi in relazione diretta e le imprese o gli enti intermediari, operando sul web con servizi altamente automatizzati, hanno co-sti operativi molto bassi» 52.

3. Fonti normative e legislazione

«Un “far west interpretativo”» I. PAIS-P. PERETTI-C. SPINELLI, Crowdfunding. La via

collaborativa all’imprenditorialità, cit., 85.

Il crowdfunding non è disciplinato nella maggior parte dei Paesi in cui esi-stono portali per utilizzarne i servizi 53. Generalmente, in quegli Stati, la nor-mativa di questo particolare fenomeno viene dedotta dalla regolamentazione già esistente per modalità di finanziamento simili, come – ad esempio – l’ap-pello al pubblico risparmio, i servizi di pagamento e così via.

DING” (a cura di), Start up innovative e i nuovi strumenti di sviluppo e crescita: il crowdfun-ding, cit., 37.

51 COMMISSIONE DI STUDIO UNGDCEC FINANZA – SOTTOGRUPPO “START UP E CROWDFUN-

DING” (a cura di), Start up innovative e i nuovi strumenti di sviluppo e crescita: il crowdfun-ding, cit., 38.

52 La citazione è tratta dal paragrafo Vantaggi e limiti del prestito peer-to-peer nel seguente link: www.borsaitaliana.it/notizie/sotto-la-lente/p2plending-224.htm.

53 Il riferimento è il sito ufficiale della CONSOB: www.consob.it/main/trasversale/rispa miatori/investor/crowdfunding/index.html#c2.

261 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

3.1. La disciplina ad hoc dell’equity-based crowdfunding L’Italia è stato il primo Paese ad introdurre una disciplina specifica

dell’equity-based crowdfunding 54, ossia del sistema che «consente alle im-prese di raccogliere capitale finanziario attraverso Internet, offrendo in cam-bio quote della proprietà dell’impresa e quindi la possibilità di comparteci-pare agli utili e alla creazione di valore nel lungo termine» 55. Esiste, infatti, una normativa organica ad hoc, solo per la regolamentazione del fenomeno dell’equity crowdfunding, introdotta 56 «in deroga alla disciplina sulle offerte pubbliche di sottoscrizione, dal d.lgs. n. 179/2012 (“Decreto Sviluppo”)» 57 che, inizialmente, apriva il ricorso al finanziamento tramite crowdfunding solo alle imprese con la qualifica di “start-up innovative” 58. Successivamen-te, il d.lgs. 24 gennaio 2015, n. 3 («Decreto Investment Impact») ha consen-tito l’accesso al crowdfunding anche alle aziende qualificate come “PMI in-

54 I. PAIS, P. PERETTI, C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditoria-lità, cit., 22.

55 A.A., Diventare imprenditori innovativi, in Le Guide di Corriere Imprese, 2015, 205.

56 A.A., Diventare imprenditori innovativi, in Le Guide di Corriere Imprese, cit., 207 ss. 57 A.A., Diventare imprenditori innovativi, in Le Guide di Corriere Imprese, cit.,

207. 58 In base al «Decreto Crescita 2.0» (d.lgs. 18 ottobre 2012, n. 179) per “start-up innovati-

va” si intende un’azienda che opera nel campo dell’innovazione tecnologica e che possiede determinati requisiti, così riassumibili: • di nuova costituzione o attiva da non più di cinque anni; • con sede principale sul territorio italiano, dell’Unione Europea o di un Paese aderente allo

spazio Economico Europeo a patto che abbia una sede produttiva o una sussidiaria in Italia; • fatturato annuo inferiore a 5 milioni di Euro; • utili non distribuiti; • non sia nata a seguito di fusioni, scissioni societarie o di cessioni di (rami di) azienda; • oggetto sociale prevalente: sviluppo, produzione e commercializzazione di prodotti o servizi

innovativi ad alto contenuto tecnologico; • il contenuto innovativo dell’impresa deriva dal possesso di almeno uno dei seguenti requisiti:

– almeno il 15% del maggiore tra fatturato e costi annuali sia imputabile alla ricerca e dello sviluppo;

– la forza lavoro complessiva sia costituita da almeno 1/3 di dottorandi, dottori di ricerca o ri-cercatori, oppure da 2/3 dei soci o da collaboratori a qualsiasi titolo che siano in possesso di laurea magistrale;

– l’impresa sia titolare, depositaria o licenziataria di una privativa industriale o di un pro-gramma per elaboratore originario registrato. Il riferimento per i requisiti della start-up innovativa è: A.A., Diventare imprenditori inno-

vativi, in Le Guide di Corriere Imprese, cit., 113 ss.

262 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

novative” 59. Ad oggi, inoltre, le norme in vigore prevedono il ricorso al crowdfunding solo per finanziamenti in capitale proprio per le aziende, men-tre resta esclusa la possibilità di emissione di titoli di debito 60.

In generale, come anticipato, l’equity crowdfunding presenta alcune ana-logie con un’Offerta Pubblica Iniziale – un’IPO (Initial Pubblic Offernig) – e in tal senso, l’accesso di un’impresa ai finanziamenti tramite tale fenome-no potrebbe spianare la strada (come si è detto) per ricevere capitali futuri anche sui mercati regolamentati di maggiore importanza – come, su Borsa Italiana, sul Mercato Telematico Azionario o sull’Alternative Investment Market Italia 61.

Nell’ordinamento italiano, rivestono particolare rilevanza, per l’equity-ba-sed crowdfunding, l’art. 50-quinquies e l’art. 100-ter del Testo unico delle di-

59 Per “PMI innovative” si intendono aziende attive nel campo dell’innovazione tecnologi-ca, indipendentemente dalla data di costituzione, dall’oggetto sociale e del livello di matura-zione (A.A., Diventare imprenditori innovativi, in Le Guide di Corriere Imprese, cit., 124 ss.). I requisiti, simili a quelli delle start-up innovative, sono così sintetizzabili: • Impegno di meno di 250 persone; • Fatturato inferiore ai 50 milioni di Euro; • Costituite in forma di società di capitali o in forma cooperativa; • Con sede principale sul territorio italiano, dell’Unione Europea o di un Paese aderente allo Spa-

zio Economico Europeo a patto che abbiano una sede produttiva o una sussidiaria in Italia; • ultimo bilancio d’esercizio certificato (e dell’eventuale bilancio consolidato redatto ad opera

di un revisore contabile o da una società di revisione); • titoli azionari non quotati su di un mercato regolamentato; • non iscritte alla sezione speciale del Registro Imprese per le start-up innovative; • contenuto innovativo dell’impresa deriva dal possesso di almeno due dei tre seguenti requisiti:

– volume di spesa in R&S ed innovazione in misura almeno pari al 3% della maggiore entità fra costo e fatturato;

– impiego come dipendenti o collaboratori per almeno 1/5 della forza lavoro totale di perso-nale in possesso di titolo di dottorato di ricerca o in possesso di laurea e che abbia svolto (da almeno tre anni) attività di ricerca certificata presso istituti di ricerca, oppure di perso-nale in possesso di laurea magistrale per almeno 1/3 della forza lavoro complessiva;

– l’impresa sia titolare, depositaria o licenziataria si una privativa industriale o di un pro-gramma per elaboratore originario registrato. Il riferimento per i requisiti della start-up innovativa è: A.A., Diventare imprenditori inno-

vativi, in Le Guide di Corriere Imprese, cit., 126 ss. 60 CONSOB-CNDCEC, L’equity-crowdfunding. Analisi sintetica della normativa e aspetti

operativi, Position Papers n. 6, 2016, 12. 61 Si vedano: CONSOB-CNDCEC, L’equity-crowdfunding. Analisi sintetica della normati-

va e aspetti operativi, cit. e I. PAIS, P. PERETTI, C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborati-va all’imprenditorialità, cit.

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sposizioni in materia di intermediazione finanziaria 62 (Testo Unico sulla Fi-nanza, t.u.f.), oltreché il Regolamento CONSOB n. 18592/2013.

L’art. 50-quinquies t.u.f., che fa riferimento alla della disciplina degli in-termediari finanziari (Parte II) e, in quanto tale, è inserito all’interno titolo terzo che riguarda la gestione collettiva del risparmio, è l’unico del Capo III-quarter, volto a disciplinare la gestione di portali per la raccolta di capitali per le start-up innovative e le PMI innovative. Il primo comma introduce la definizione di gestore di portali, ossia di colui il quale «esercita professio-nalmente il servizio di gestione di portali per la raccolta di capitali per le start-up innovative, per le PMI innovative, per gli organismi di investimento collettivo del risparmio e per le società di capitali che investono prevalente-mente in start-up innovative e in PMI innovative ed è iscritto» 63 in un appo-sito registro che viene tenuto dalla CONSOB (comma 2). A proposito di tale registro, una regolamentazione più dettagliata è inserita nel Regolamento Consob sulla raccolta di capitali di rischio tramite portali on-line, adottato con la delibera n. 18592 del 26 giugno 2013 e, successivamente, aggiornato con le modifiche apportate dalla delibera n. 19520 del 24 febbraio 2016. Per quanto concerne i gestori dei portali, nel Regolamento CONSOB n. 18592/ 2013, vengono anzitutto stabilite le caratteristiche, la formazione ed il con-tenuto, nonché la pubblicità da effettuarsi per l’istituzione del registro (artt. 4, 5 e 6). La Commissione Nazionale per le Società e la Borsa – sulla base dell’art. 50-quinquies, comma 6 – esercita altresì il compito di vigilanza sui gestori di portali ed, esattamente come avviene per i soggetti che operano sulle borse valori 64, può anche richiedere «la comunicazione di dati e di no-tizie e la trasmissione di atti e di documenti, fissando i relativi termini, non-ché effettuare ispezioni» 65. Il terzo comma dell’art. 50-quinquies, elenca – poi – i requisiti per i quali è necessario che un soggetto sia inserito o escluso da suddetto registro. In particolare, l’iscrizione è subordinata al sussistere delle seguenti condizioni:

a) «forma di società per azioni, di società in accomandita per azioni, di so-cietà a responsabilità limitata o di società cooperativa;

62 In particolare, si farà riferimento all’ultimo aggiornamento del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (t.u.f.) con il d.lgs. 18 aprile 2016, n. 71.

63 La citazione riprende parte del primo comma dell’art. 50-quinquies t.u.f. 64 Per una lettura più approfondita sul tema si veda L.M. QUATTROCCHIO (a cura di), Di-

spensa di Diritto dei Mercati Finanziari, Scuola di Management ed Economia dell’Università degli Studi di Torino, 2016.

65 La citazione riporta in parte il comma 6 dell’art. 50-quinquies t.u.f.

264 Diritto ed economia dell’impresaFascicolo 5|2016

b) sede legale e amministrativa o, per i soggetti comunitari, stabile organiz-zazione nel territorio della Repubblica;

c) oggetto sociale conforme con quanto previsto dal comma 1; d) possesso da parte di coloro che detengono il controllo e dei soggetti che

svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo dei requisiti di onorabilità stabiliti dalla Consob;

e) possesso da parte dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo, di requisiti di professionalità stabiliti dalla Consob» 66.

I soggetti iscritti a tale registro non possono – però – «detenere somme di denaro o strumenti finanziari di pertinenza di terzi» 67 (comma 4). Il settimo ed ultimo comma dell’art. 50-quinquies ricorda, poi, quali sono le sanzioni da mettere in atto per i soggetti che non si attengono alle disposizioni previste.

Tornando ai gestori di portali di equity crowdfunding, la normativa prevede che tale attività possa essere svolta da due tipi di soggetti. In primo luogo dai c.d. “gestori di diritto”, ossia le banche e le imprese di investimento che non hanno bisogno di un’autorizzazione particole, ma vengono iscritti nella sezio-ne speciale del registro CONSOB. In secondo luogo dai c.d. gestori “autoriz-zati”, la cui disciplina si torva prevalentemente all’interno dell’art. 50-quin-quies t.u.f. e negli artt. 24-25 del Regolamento CONSOB n. 18592/2013, che vengono iscritti nella sezione ordinaria del registro CONSOB 68.

In aggiunta a queste disposizioni, adempiendo alle previsioni dell’art. 50-quinquies del t.u.f., la CONSOB – nel suddetto Regolamento n. 18592/2013 – è andata a regolamentare anche: il procedimento di autorizzazione per l’iscrizione (art. 7), i requisiti di onorabilità dei soggetti che detengono il controllo (art. 8) e quelli di onorabilità e professionalità dei soggetti che svolgono funzioni di am-ministrazione, la direzione ed il controllo (art. 9), oltreché gli effetti conseguenti alla perdita dei requisiti (art. 10), alla sospensione dalla carica dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo (art. 11), alla deca-denza dall’autorizzazione (art. 11-bis) ed alla cancellazione dal registro (art. 12).

Passando, poi, all’art. 110-ter – che appartiene alla quarta parte del t.u.f., quella relativa agli emittenti, e, proprio per questo, si inserisce all’interno dell’appello al pubblico risparmio (Titolo II), precisamente nella terza sezione relativa all’offerta al pubblico di sottoscrizione e di vendita (Capo I) – va sot-tolineato come tale norma, attraverso le sue disposizioni, sia volta a disciplina-

66 Si è citato il terzo comma dell’art. 50-quinquies t.u.f. 67 La citazione riprende parte del quarto comma dell’art. 50-quinquies t.u.f. 68 CONSOB-CNDCEC, L’equity-crowdfunding. Analisi sintetica della normativa e aspetti

operativi, cit., 14 ss.

265 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

re le offerte attraverso portali per la raccolta di capitali. Il suo primo comma statuisce che le offerte sui portali di crowdfunding «possono avere ad oggetto soltanto la sottoscrizione di strumenti finanziari emessi dalle start-up innova-tive, dalle PMI innovative, dagli organismi di investimento collettivo del ri-sparmio o altre società di capitali che investono prevalentemente in start-up innovative e in PMI innovative e devono avere un corrispettivo totale inferiore a quello determinato dalla Consob» 69. In base alla normativa vigente, in meri-to alle regole speciali delle offerte on-line di strumenti finanziari emessi da start-up innovative, è stato stabilito che l’ammontare massimo di un’offerta è pari a 5 milioni di Euro 70 – «soglia prevista dalla Direttiva Prospetto e dal-l’art. 34-ter, comma 1, lettera c), Reg. Emittenti Consob» 71 – e che, per essere valida 72, una campagna di crowdfunding deve essere sottoscritta per almeno il 5% dell’importo da parte di investitori istituzionali (banche, fondi di investi-mento, fondazioni, incubatori e simili). Inoltre 73 – per favorire l’investimento in start-up innovative – è stata prevista «una esenzione dall’applicazione della disciplina sui servizi di investimento» 74 (sulla base dalla Direttiva Markets in Financial Instruments Directive, MIFiD) per:

a) Le persone fisiche che investono al massimo:

• € 500,00 in una singola operazione; • € 999,00 ogni anno;

b) Le persone giuridiche impegnano denaro per un massimo di:

• € 5.000,00 per ogni singola transazione; • € 10.000,00 all’anno.

Tuttavia, «per poter applicare l’esenzione, è necessario che gli investitori

69 La citazione riprende parte del quarto comma dell’art. 50-quinquies t.u.f. 70 La fonte di tale informazione è: www.consob.it/web/investor-education/crowdfunding-

approfondimento-9. 71 CONSOB-CNDCEC, L’equity-crowdfunding. Analisi sintetica della normativa e aspetti

operativi, cit., 14. 72 Si vedano: il comma 2 dell’art. 24 del Regolamento CONSOB n. 18592/2013, nonché

A.A., Diventare imprenditori innovativi, in Le Guide di Corriere Imprese, cit., 207 ss. ed an-che www.consob.it/web/investor-education/crowdfunding-approfondimento-9.

73 Si vedano: A.A., Diventare imprenditori innovativi, in Le Guide di Corriere Imprese, cit., 207 ss. ed anche www.consob.it/web/investor-education/crowdfunding#c5.

74 La citazione fa riferimento al seguente link sul sito della CONSOB: www.consob.it/web/ investor-education/crowdfunding#c5.

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dichiarino di non avere superato le soglie (prendendo in considerazione, per la soglia annuale, anche gli investimenti effettuati presso altri portali nell’anno solare di riferimento)» 75. I finanziatori di operazioni di crowdfunding benefi-ciano altresì degli sgravi fiscali in vigore per i soggetti che investono nel capi-tale proprio delle start-up/PMI innovative attraverso una detrazione fiscale per le persone fisiche ed un credito di imposta per le persone giuridiche 76. Dun-que, in definitiva, la disciplina che si applica all’investimento e all’emissione di partecipazioni in start-up e PMI innovative, tramite portali di crowdfunding, è la stessa di chi finanzia tali aziende con i canali classici senza passare da un portale online 77.

Tornando all’art. 100-ter, il comma 2-bis ed i seguenti disciplinano il regime alternativo di trasferimento delle quote, che offre delle altre possibilità, rispetto «a quanto stabilito dall’articolo 2470, secondo comma, del codice civile e dall’arti-colo 36, comma 1-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133» 78, per la sottoscrizione, l’ac-quisto o la successiva alienazione di quote del capitale di start-up/PMI innovative a responsabilità limitata. Nel caso in cui questa previsione si verifichi, il comma 2-ter ricorda la necessità del gestore del portare di cominciarlo in modo chiaro.

Importante è anche la disclosure che, sulla base del Regolamento CON-SOB n. 19520/2016 – quello che ha modificato il precedente Regolamento n. 18592/2013 –, le start-up e le PMI innovative, relativamente alle loro offerte, devono produrre una documentazione – plasmata su un apposito modello stan-dard previsto dalla CONSOB – che racchiuda, fra le altre cose, il business plan dell’offerente, il curriculum vitae dei promotori, i rischi specifici dell’of-ferta, l’informativa contabile e così via 79. Si tratta di una documentazione che ricorda quella da presentare agli organi di Borsa Italiana in fase di IPO e che, ancora una volta, sottolinea come l’equity crowdfunding possa rappresentare un primo passo verso la quotazione in borsa. Tuttavia, come ricorda l’allegato 3 al Regolamento n. 19520/2016, «le informazioni sull’offerta non sono sotto-

75 La citazione fa sempre riferimento al seguente link sul sito della CONSOB: www.consob. it/web/investor-education/crowdfunding#c5.

76 A.A., Diventare imprenditori innovativi, in Le Guide di Corriere Imprese, cit., 207 ss. 77 Per maggiori informazioni è consigliata la consultazione dei seguenti testi: CONSOB-

CNDCEC, L’equity-crowdfunding. Analisi sintetica della normativa e aspetti operativi, Posi-tion Papers n. 6, cit., 51 ss. e A.A., Diventare imprenditori innovativi, in Le Guide di Corriere Imprese, cit., 183 ss.

78 La citazione è tratta dal comma 2-bis dell’art. 100-ter t.u.f. 79 CONSOB-CNDCEC, L’equity-crowdfunding. Analisi sintetica della normativa e aspetti

operativi, Position Papers n. 6, cit., 15.

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poste ad approvazione da parte della Consob» 80: ciò semplifica notevolmente la redazione ed i costi per la stesura di tale documentazione.

Per quanto riguarda gli investitori va anche sottolineato che, prima di poter sottoscrivere un ordine su una piattaforma di equity crowdfunding, «devono effettuare un “percorso di investimento consapevole” da cui risulti la presa vi-sione delle informazioni e la comprensione delle caratteristiche e dei rischi dell’investimento» 81. Ulteriori informazioni sono altresì inserite all’interno del Regolamento CONSOB n. 18592/2013 – modificato con il Regolamento n. 19520/2016 – dove vengono dettate nello specifico le regole di condotta, come gli obblighi del gestore (art. 13) e quelli volti – in particolar modo – alla tutela dei consumatori (artt. 17, 18, 19 e 20), alle informazioni da fornire (artt. 14, 15 e 16), nonché le comunicazioni alla CONSOB stessa (art. 21) ed infine i provvedimenti sanzionatori e cautelari (artt. 22 e 23).

Particolare attenzione è, infine, rivolta agli investitori non professionali che, oltre alla tutela delle propria eventuale posizione di soci di minoranza, all’obbligo di comunicazione di eventuali patti parasociali da parte della so-cietà che richiede i fondi ed alla possibilità di exit (art. 24 del Regolamento CONSOB n. 18592/2013), hanno «il diritto di recesso, immotivato e senza spesa, entro 7 giorni dall’ordine di adesione (ad nutum) ed il diritto di revoca dell’investimento se, durante l’offerta, intervengono fatti nuovi o errori ma-teriali» 82.

Alla luce di tutta questa regolamentazione potrebbe essere consigliato ai soggetti che intendono lanciare una campagna di equity crowdfunding, così come quelli che intendono investire le proprie risorse in un simile progetto, l’affiancamento di una figura professionale molto competente sulla materia, in modo da evitare inconvenienti futuri. Infatti, come ricordato nella figura se-guente, i soggetti coinvolti in un’operazione del genere non sono pochi.

80 La citazione fa riferimento all’Allegato n. 3 del Regolamento n. 19520/2016. 81 CONSOB-CNDCEC, L’equity-crowdfunding. Analisi sintetica della normativa e aspetti

operativi, Position Papers n. 6, cit., 15. 82 CONSOB-CNDCEC, L’equity-crowdfunding. Analisi sintetica della normativa e aspetti

operativi, cit., 16.

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Figura 1 – I soggetti coinvolti in un operazione di equity-based crowdfunding

Fonte: CONSOB-CNDCEC, L’equity-crowdfunding. Analisi sintetica della normativa e aspetti ope-rativi, Position Papers n. 6, 2016, 15.

Una procedura “semplice” che, però, richiede “l’affiancamento di un pro-fessionista” sembra un po’ un controsenso. Non a caso alcuni autori, nel 2014, sentenziavano così sulla legislazione italiana di questo fenomeno: sul crowd-funding «pesano: eccesso di vincoli nell’equity […] e mancanza di chiarezza nel reward (fino a produrre l’impressione di un “far west interpretativo”)» 83. L’affermazione è senz’altro forte, ma la giurisprudenza non sempre chiarissi-ma in materia potrebbe essere uno dei motivi per cui il crowdfunding non è ancora decollato in Italia.

3.2. La disciplina degli altri modelli di crowdfunding Per quanto riguarda le altre forme di crowdfunding 84 non esiste una disci-

plina ad hoc, ma ci sono vari rimandi a norme che si riferiscono ad altri tipi di finanziamento simili. Infatti, «quando parliamo di reward e non di donazione pura di tipo solidaristico, […] abbiamo tre categorie giuridiche che possiamo usare per definire e disciplinare il crowdfunding» 85:

83 I. PAIS, P. PERETTI, C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditoria-lità, cit., 85.

84 L’approfondimento qui descritto fa riferimento all’intervista all’Avv. A.M. Lerro dello Studio Lerro & Partners presente in I. PAIS, P. PERETTI, C. SPINELLI, Crowdfunding. La via col-laborativa all’imprenditorialità, cit., 15 ss.

85 I. PAIS, P. PERETTI, C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditoria-lità, cit.,15.

269 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

a) Pre-ordine: operazione che il codice civile definisce di e-commerce, che riguarda una compravendita futura che si perfeziona con la realizzazione del bene, alla quale si applica l’IVA e si emette fattura;

b) Crowdfunding reward-based: si tratta, sulla base del codice civile, di una donazione modale in cui viene data una ricompensa (il “reward”) non di valore monetario e di importo inferiore alla somma donata; pertanto, nel caso di inadempimento del donatario (ossia, di chi riceve denaro), il donante ha tempo 10 anni per richiedere l’annullamento della donazione – in aggiunta quando riguarda valori ingenti richiede l’intervento di un atto notarile;

c) Crowdfunding royalty-based: viene regolamentato con le norme sull’as-sociazione in partecipazione nella quale «chi finanzia partecipa in quota agli utili generati» 86;

d) Social lending: la norma alla base di questa attività è il contratto di mu-tuo «definito dall’art. 1813 del Codice Civile come “il contratto nel quale una parte consegna all’altra una quantità determinata di denaro o di altre cose fungibili e l’altra si obbliga a restituire altrettante cose della stessa specie o qualità” con l’aggiunta, ai sensi dell’art. 1815 c.c., degli interessi, se espres-samente previsti dal contratto» 87.

4. La storia e i dati italiani

4.1. L’evoluzione del crowdfunding in Italia In Italia, il crowdfunding ha iniziato a diffondersi molto presto, tuttavia – so-

prattutto a causa delle peculiarità interne – il Paese non ha sfruttato i vantaggi tipici del first mover 88. Infatti, mentre in altre realtà economiche il fenomeno iniziava a prosperare, nel Bel Paese incontrava gli svantaggi tipici di chi effettua la prima mossa e non ne sa approfittare. Non a caso le caratteristiche del tessuto imprenditoriale, la lunga filiera burocratica, assieme all’elevato tasso di analfa-betismo digitale e alla scarsa diffusione dei sistemi di pagamento online (ac-compagnata molto spesso da una grande diffidenza per i pagamenti su Internet) hanno rallentato di molto gli sviluppi del fenomeno sulla penisola.

86 I. PAIS, P. PERETTI, C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditoria-lità, cit., 16.

87 La citazione è tratta dal paragrafo La disciplina giuridica del social lending nel seguente link: www.borsaitaliana.it/notizie/sotto-la-lente/p2plending-224.htm.

88 I. PAIS, P. PERETTI, C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditoria-lità, cit., 57 ss.

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La storia del crowdfunding 89, seppur breve nella sua intera durata, presenta – comunque – alcuni passaggi principali. I primi segni di tale fenomeno in Italia ri-salgono a prima della crisi del 2008, quando Produzioni dal basso nel 2005 – addi-rittura in anticipo rispetto a realtà come Kickstarter – ha lanciato un servizio online per finanziare progetti sul web. In seguito, nella seconda metà del primo decennio degli anni Duemila, i successi delle piattaforme d’oltreoceano sono giunti anche nel continente europeo e, così, tra il 2010 ed il 2011 si sono diffuse alcune piatta-forme di crowdfunding anche in Italia – oltre al già citato first mover. Nel 2012, invece, ha avuto inizio un fenomeno nuovo: la diversificazione settoriale dei porta-li. Tuttavia è “solo” nel 2013 che si è verificata una vera e propria svolta. Infatti è avvenuto un boom nella creazione di piattaforme di crowdfunding e sono altresì iniziati a nascere portali del tipo do-it-yourself. Il 2013 rappresenta la svolta nel settore anche perché è l’anno in cui è stato emanato il provvedimento con il quale è stata introdotta una normativa ad hoc per l’equity-based crowdfuding nell’or-dinamento italiano. A un anno di distanza – invece – la tendenza predominante è stata la proliferazione di portali sempre più locali, ossia rivolti ad una specifica area geografica italiana e, spesso, anche ad un settore preciso. Il fenomeno, come detto, non è, tuttavia, ancora esploso perché, seppur dal lato dell’offerta il mercato è piuttosto fiorente, al contrario la domanda stenta a decollare. In aggiunta, in Ita-lia, non esiste neppure un disegno dominante di piattaforme di crowdfunding, ossia un modello standard conosciuto e riconosciuto da tutti, che tracci le evoluzioni del settore 90 – cosa che, invece, si sta verificando negli Stati Uniti con Kickstarter 91 e Indiegogo 92. Questo significa che si è ancora in una fase di sperimentazione in cui i vari competitor cercano di affermare il proprio modello di business.

4.2. I dati del crowdfunding italiano nel 2015 L’ analisi dei dati del crowdfunding italiano può aiutare a comprendere al

meglio questo fenomeno. I numeri del 2015 parlano chiaro: «è quasi raddop-piata la cifra complessiva raccolta dalle campagne di crowdfunding: [...] 56,8 milioni di Euro, ma è in calo il tasso di successo» 93, che si è ridotto del 7%.

89 Per la trattazione dell’evoluzione storica del fenomeno in Italia il riferimento è I. PAIS, P. PERETTI, C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditorialità, cit., 57 ss.

90 Un approfondimento su questi temi si può riscontrare in M.A. SCHILLING, Gestione dell’innovazione, Edizione italiana a cura di Francesco Izzo, McGraw Hill, New York, 2008.

91 Per maggiori informazioni si veda: www.kickstarter.com. 92 Per maggiori informazioni si veda: www.indiegogo.com. 93 L. FONTANA, Finanziamenti dal basso, ecco tutti i numeri del crowdfunding in Italia, in

Corriere Innovazione (Corriere della Sera), 11 giugno 2016.

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Lo studio di I. Pais et al. 94 è stato condotto su 82 piattaforme 95 di crowdfun-ding in Italia, di cui 69 attive e 13 in fase di lancio. Le proposte di progetti di crowdfunding sono aumentate del 108% rispetto al 2014, con un aumento del-la raccolta pari ad un +85%. La ricerca ha anche mostrato che il settore del crowdfunding italiano è in continua crescita e – a differenza di quello anglo-sassone – «è prevalentemente a vocazione culturale e sociale» 96. L’analisi ha, altresì, sottolineato che una delle motivazioni principali dell’alto tasso di fal-limento dei progetti è legato all’assenza di un adeguato business plan e di una comunicazione efficace sia online che offline.

Alcuni degli altri dati rilevati dallo studio di I. Pais et al. sul crowdfunding italiano nel 2015 sono riportati nel grafico seguente.

Figura 2 – Alcuni dati sul crowdfunding in Italia nel 2015

Fonte: I. PAIS (coordinatrice), Il Crowdfunding in Italia. Report 2015, cit.

94 I. PAIS (coordinatrice), Il Crowdfunding in Italia. Report 2015, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, 2015.

95 Si osservi che nel maggio 2014 i portali italiani erano solo 41. Il riferimento è I. PAIS (coordinatrice), Il Crowdfunding in Italia. Report 2015, cit., 3 ss.

96 I. PAIS (coordinatrice), Il Crowdfunding in Italia. Report 2015, cit., 74.

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A fronte di questi risultati, tuttavia va ribadito che «la scarsa conoscenza del settore finanziario e la mancata digitalizzazione sono un forte limite all’ascesa del crowdfunding nel nostro Paese. Le persone non sanno cosa sia e, pertanto, temono di essere truffati» 97.

5. Conclusioni

«Nella caverna sotterranea uomini imprigionati scorgono riflesse le ombre di statue portate da altri uomini, che però non vedono, scam-

biando così le ombre per la sola esistente realtà. […] Chi fosse riuscito a liberarsi dai legami ed evadere dalla caverna avrebbe potuto scorgere […] la realtà nella sua compiutezza. Ma se avesse deciso poi di tornare dagli sventurati compagni per riferire su ciò che è reale, sarebbe stato

schernito, accusato di essere un impostore [...]». Descrizione del Mito della Caverna di Platone in G. FABRIS, La so-cietà post-crescita. Consumi e stili di vita, Egea, Milano, 2010, 269.

«Le nuove Regole Europee, previste per Paesi con economie in generale più “regolari” di quella italiana, rendono molto più difficile per le banche ero-gare il credito alle fasce di operatori sottocapitalizzati, con scarsa redditività, con rapporti bancari irregolari, anche se non dipendenti solo da loro. Non si tratta più, quindi, di un problema tecnico, ma di un problema politico, a livello italiano ed europeo» 98. Si potrebbe, quindi, pensare che il «crowdfunding pos-sa supplire al venire meno dei canali di finanziamento tradizionali» 99. Tutta-via questo fenomeno – come ricordano autori illustri 100 – «funziona bene pro-prio nei Paesi dove sono già presenti altre opportunità di finanziamento» 101

97 Così sentenzia la giornalista V. FERRARA nel suo articolo Perché l’Italia non si fida del crowdfunding, in Diario del Web – Innovazione, 16 settembre 2016.

98 La citazione fa riferimento all’intervista di G. Quaranta al Dott. C. Venesio (Amministratore Delegato e Direttore Generale di Banca del Piemonte) del 17 giugno 2015. L’intervista è stata riporta-ta in G. QUARANTA, Nuove strategie territoriali nel settore bancario. Il caso Banca del Piemonte, Tesi di Laurea Magistrale, Scuola di Management ed Economia dell’Università degli Studi di Torino, relatore Prof.ssa A.C. Pellicelli, correlatori Prof.ssa E. Giacosa e Dott.ssa T. Giolitto, 2015, 144 ss.

99 I. PAIS, P. PERETTI, C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditoria-lità, cit., 22.

100 I. PAIS, P. PERETTI, C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditoria-lità, cit., 22.

101 I. PAIS, P. PERETTI, C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditoria-lità, cit., 22.

273 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 5|2016

perché «può avere successo solo se inserito in una filiera più lunga» 102. Non è facile, quindi, ipotizzare quali possano essere gli scenari futuri per il

crowdfunding, così come non è semplice definire il fenomeno nel suo com-plesso. In base alla disamina presentata, si può – però – provare con la descri-zione seguente. Il crowdfundig è un particolare tipo di finanziamento colletti-vo che, sfruttando le potenzialità di Internet, consente a coloro che hanno idee o delle necessità, ma – rispettivamente – non i tutti i fondi per realizzarle o soddisfarle, di provare ad accedere a risorse economiche di terzi, partendo da quelle di parenti e amici (family and friends) nella speranza di attrarre anche quelle – molto più ingenti – della folla (crowd) che popola il mondo online, la quale (fools), fidandosi dei meccanismi di feedback che si generano tra gli utenti – come discriminante per la validità e la fattibilità di un progetto –, è di-sposta a finanziare un numero crescente di idee (bisogni), in quanto la tenden-za – trainata da World Wide Web – è quella di vendere sempre più unità di prodotti e/o servizi specifici per piccole nicchie. In questo modo, chiunque può, potenzialmente, accedere ad un vero e proprio “finanziamento della fol-la”. La strada, però, non è facile e non è priva rischi.

Il crowdfunding si tratta, quindi, di un fenomeno nuovo, ma di cui – proba-bilmente – si sentirà parlare sempre di più nei prossimi anni, soprattutto al di fuori dell’Italia. Se diventerà una realtà di successo ed un’alternativa ai merca-ti regolamentati e non regolamentati è probabile, visto il significativo ritardo nella diffusione del crowdfunding in Italia, che – come è già avvenuto per Piazza Affari –, quando ci sarà il consolidamento dei player del settore, ad af-fermarsi come leader (e monopolista) del mercato italiano sia un’azienda stra-niera, di uno di quei Paesi in cui il crowdfunding è già molto diffuso e in vo-ga. L’esistenza comprovata della Long Tail dovrebbe portare al proliferazione di sempre più prodotti/servizi in stock ridotti, un elemento ottimale – soprat-tutto – per il reward crowdfunding, ma non solo. Infatti l’evoluzione del setto-re sta portando alla diffusione crescente di piattaforme generiche. Il social lending e l’equity crowdfunding potrebbero sopperire, forse, in misura sempre maggiore, alle conseguenze del credit crunch; tuttavia fintanto che in Italia non si vincerà la “paura” del mondo online è difficile che il fenomeno diventi virale. Stessa sorte vale per i modelli donation-based e do-it-yourself, che ri-sentono negativamente del timore delle truffe online – un fenomeno che, spes-so, il web americano sa, invece, affrontare e schivare. In aggiunta l’assenza di una buona cultura della donazione rallenta il diffondersi del crowdfunding in Italia, assieme anche al limitato utilizzo dei sistemi di pagamento online. Inol-

102 I. PAIS, P. PERETTI, C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditoria-lità, cit., 22.

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tre il track record storico di scandali politici e di sprechi in Italia, limita note-volmente le potenzialità del civic crowdfunding – anche perché i risparmi ed i guadagni dei cittadini sono già estremamente ridotti dalle tasse e non troppi sarebbero disposti a “donare” ulteriore denaro allo Stato. Insomma, forse, è proprio il sistema-paese italiano che non è ancora pronto ad abbracciare il crowdfunding.

La scarsa conoscenza del fenomeno, unitamente alla bassa alfabetizzazione digitale ed al limitato utilizzo dei sistemi di pagamento online, continueranno – sicuramente – a ritardarne la diffusione. In fondo, come ricorda la dottrina manageriale ed economica, il first mover (come l’Italia) che non sa affermarsi perde molto, moltissimo, terreno dagli altri player early leader. In aggiunta, l’esistenza di una normativa alquanto variegata e riferibile a molti provvedi-menti slegati parrebbe frenare l’esplosione del fenomeno. Forse una regola-mentazione chiara, univoca e uniforme o, quantomeno, un testo che unisca tut-te le varie fattispecie di crowdfunding, descrivendolo chiaramente e togliendo molti dubbi sulla materia, potrebbe essere auspicabile.

In ogni caso, gli sviluppi futuri del crowdfunding sono piuttosto incerti nei Paesi in cui il fenomeno è già ben avviato e, dunque, lo sono ancor di più in Italia. Alla luce di quanto esposto, non si può, quindi, dire che il crowdfunding italiano corrisponda al finanziamento della folla, visto che il fenomeno è anco-ra estremamente circoscritto a pochi innovatori e primi adottanti, oltre ad esse-re, spesso, concentrato localmente in aree specifiche. Per chi conosce poco le potenzialità di Internet, forse, si tratta davvero di un finanziamento dei “folli”; ma in fondo non era proprio Steve Jobs ad esaltare lo stay foolish per avere successo? E, dunque, non potrebbero essere questi primi “folli” i trascinatori del crowdfunding verso il finanziamento di tutta la “folla” italiana che sta su Internet? Come diceva Manzoni, ai posteri l’ardua sentenza.

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Principali provvedimenti normativi

D.lgs. n. 3/2015 («Decreto Investment Impact») D.lgs. n. 179/2012 («Decreto Sviluppo» anche detto «Decreto Crescita 2.0») D.lgs. n. 58/1998 (t.u.f.) Direttiva 2004/39/CE (Direttiva Markets in Financial Instruments Directive, MIFiD) Direttiva Prospetto Regolamento CONSOB n. 18592/2013 Regolamento CONSOB n. 19520/2016 Regolamento Emittenti CONSOB n. 11971/1999

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