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Miracoli Testi Laboratorio didattico R. Davies Quarto sottoperiodo a.a. 2011-12 San Tommaso d’Aquino, Somma teologica qu. 105, artt. 6-8 2 Galileo Galilei, due lettere 5 Thomas Hobbes, Leviatano cap. XXXVII 6 Benedetto Spinoza, Trattato teologico-politico cap. 6 11 John Locke, La ragionevolezza del cristianesimo §§ 141-3 15 Gottfried Wilhelm Leibniz, Discorso di metafisica, §§6-7 17 Joseph Butler, Analogia della religione, II, ii, 3 18 David Hume, Ricerca sull’intendimento umano, sez. X 20

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Miracoli

Testi

Laboratorio didattico R. Davies Quarto sottoperiodo a.a. 2011-12

San Tommaso d’Aquino, Somma teologica qu. 105, artt. 6-8 2 Galileo Galilei, due lettere 5 Thomas Hobbes, Leviatano cap. XXXVII 6 Benedetto Spinoza, Trattato teologico-politico cap. 6 11 John Locke, La ragionevolezza del cristianesimo §§ 141-3 15 Gottfried Wilhelm Leibniz, Discorso di metafisica, §§6-7 17 Joseph Butler, Analogia della religione, II, ii, 3 18 David Hume, Ricerca sull’intendimento umano, sez. X 20

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S. Tommaso d’Aquino (1225-74) Somma teologica (1265-73)

lingua originale: latino edizione di riferimento: ‘Leonina’ emendata dalle Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1988

tr. it., i padri domenicani italiani (34 voll.), ESD, Bologna, 1984 Parte I, Questione 105 Articolo 6: Se [Dio] possa compiere qualche cosa al di fuori dall’ordine impresso alle cose SEMBRA che Dio non possa compiere nulla fuori dell’ordine stabilito nel creato. Infatti:�1. Dice S. Agostino: ‘Dio, fondatore e creatore di tutte le nature, non fa niente contro la natura’. Ora, ciò che è al di fuori dell’ordine stabilito naturalmente nel creato, sembra essere contro la natura. Dunque Dio non può far nulla fuori dell’ordine stabilito nel creato.

2. L’ordine di natura procede da Dio come l’ordine di giustizia. Ma Dio non può far nulla fuori dell’ordine della giustizia: perché, nel caso, commetterebbe ingiustizia. Quindi neppure può fare qualche cosa fuori dell’ordine della natura.

3. L’ordine della natura l’ha stabilito Dio. Ora, se Dio facesse qualche cosa fuori di quest’ordine, egli si mostrerebbe mutabile. E ciò è inammissibile.

IN CONTRARIO: S. Agostino insegna che ‘Dio talvolta opera contro il consueto corso della natura’.

RISPONDO: Ogni causa determina un certo ordine nei suoi effetti: poiché ogni causa ha ragione di principio. Perciò, ci saranno tanti ordini, quante sono le cause: e un ordine sarà contenuto nell’altro, come una causa è all’altra subordinata. Per conseguenza, una causa superiore non rientra nell’ordine di una causa inferiore, ma accadrà invece il contrario. E di ciò abbiamo un esempio evidente nei rapporti umani: infatti dal capo di famiglia dipende l’ordinamento della casa, questo è contenuto sotto l’ordinamento della città che dipende dal governatore, che a sua volta ricade sotto l’ordine del re, dal quale deriva l’ordinamento di tutto il regno.� Se si considera perciò l’ordine delle cose in quanto dipende dalla prima causa, allora Dio non può far nulla fuori di esso: poiché, se così agisse, andrebbe contro la sua prescienza, volontà e bontà. – Se si considera invece l’ordine delle cose come dipendente da una qualsiasi causa seconda, allora Dio può operare fuori dell’ordine stabilito. Perché lui non è soggetto all’ordine delle cause seconde, ma tale ordine è a lui soggetto, essendo derivato da lui non per necessità di natura, ma per libera volontà: Dio infatti avrebbe potuto benissimo stabilire anche un altro ordine del creato. Per conseguenza egli può operare, quando vuole, fuori di esso, o producendo gli effetti delle cause seconde senza di esse, o producendone altri che sorpassano le loro capacità. In questo senso S. Agostino scrive che ‘Dio opera contro il consueto corso della natura; ma non fa assolutamente niente contro la legge suprema, come non fa niente contro se stesso’.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Un fatto può verificarsi nelle cose fuori della loro natura in due modi. Primo, per opera di una causa dalla quale non dipende l’inclinazione naturale dell’essere sul quale agisce, come quando un uomo spinge verso l’alto un corpo grave, che da altre cause ha ricevuto l’inclinazione verso il basso: e allora abbiamo un fatto contro natura. Secondo, per influsso della causa da cui dipende l’azione naturale della cosa. E in

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questo caso il fatto non è contro natura: come appare chiaramente nel flusso e riflusso del mare, movimento, che, sebbene sia estraneo all’inclinazione dell’acqua, cui è connaturale il muoversi verso il basso, non si può dire affatto contro natura; perché esso proviene dall’influsso di un corpo celeste, dal quale dipende l’inclinazione naturale dei corpi inferiori. - Ora, siccome l’ordine naturale è stato posto da Dio nelle cose, quello che egli opera fuori di quest’ordine non è contro natura. ‘Per ogni essere’, dice perciò S. Agostino ‘è naturale tutto ciò che è fatto da colui dal quale deriva ogni specie, numero e ordine della natura’.

2. L’ordine di giustizia dice [immediata] relazione alla causa prima, che è la regola di ogni giustizia. Perciò Dio non può fare niente contro tale ordine.

3. Dio ha impresso un ordine stabile nelle creature, in modo però da riservarsi una motivata libertà di agire altrimenti. Egli perciò non muta quando opera qualche cosa al di fuori di esso.

Articolo 7: Se tutte le opere compiute da Dio fuori dell’ordine naturale siano miracoli

SEMBRA che non tutte le opere, compiute da Dio fuori dell’ordine naturale delle cose, siano miracoli. Infatti:� 1. La creazione del mondo, e quella delle anime, come la giustificazione del peccatore, sono opere compiute da Dio al di fuori dell’ordine naturale: poiché non vi è, in esse, intervento di cause naturali. E tuttavia non sono chiamate miracoli. Quindi non tutte le opere compiute da Dio fuori dell’ordine naturale sono miracoli. 2. Si dice miracolo ‘un fatto arduo e insolito che si verifica oltre le forze della natura e oltre l’aspettativa o speranza degli uomini, e che genera, perciò, meraviglia’. Ora vi sono dei fatti che escono sì dall’ordine, della natura, ma che non sono affatto ardui: perché avvengono in cose minime, come il rifiorimento delle gemme, o la guarigione dei malati. - E neppure sono insoliti: perché avvengono con frequenza, come accadeva con i malati che venivano collocati nelle piazze per essere risanati dall’ombra di Pietro. - Non superano le forze della natura: come le guarigioni dalle febbri. - E neppure superano l’aspettativa: tutti, p. es., speriamo nella resurrezione dei morti, sebbene debba avvenire fuori dell’ordine della natura. Quindi non tutti i fatti che superano l’ordine della natura sono miracoli.

3. La parola miracolo deriva da meraviglia. Ora la meraviglia deriva da fatti sensibili. Invece talvolta capitano dei fatti che, pur accadendo al di fuori dell’ordine della natura, non sono tuttavia sensibili: come quando gli Apostoli divennero dotti all’istante, senza studio e senza insegnamento. Dunque non tutti i fatti che sorpassano i limiti delle forze naturali, sono miracoli.

IN CONTRARIO: Afferma S. Agostino che ‘quando Dio opera contro il corso consueto della natura a noi noto, i fatti cosi prodotti vengono chiamati fatti sorprendenti, o meraviglie’.

RISPONDO: La parola miracolo deriva da meraviglia. E la meraviglia sorge dinanzi a effetti evidenti, le cui cause rimangono occulte; così capita di meravigliarsi a chi vede un’eclisse di sole e ne ignora la causa, come fa osservare Aristotele. Può darsi però che la causa di un fatto sia nota a qualcuno, pur rimanendo occulta per altri.� Allora il fatto può riuscire meraviglioso per alcuni, ma non per tutti; appunto come di un’eclisse di sole resta meravigliato l’ignorante, ma non l’astronomo. Il miracolo è, invece, un fatto totalmente meraviglioso, perché ha una causa veramente occulta per tutti. E tale causa è Dio. Perciò, le opere compiute da Dio, fuori dell’ordine delle cause da noi conosciute, si chiamano miracoli.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Sebbene la creazione e la giustificazione del peccatore siano opere compiute da Dio soltanto, tuttavia, a rigore di termini, non si chiamano miracoli. Esse infatti per natura non possono avere altre cause; quindi non avvengono mai fuori dell’ordine della

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natura, appunto perché non vi appartengono.

2. Il miracolo si dice arduo, non per l’importanza della cosa in cui avviene, ma perché supera le forze della natura. - Si dice insolito, non perché non avvenga di frequente, ma perché è fuori del consueto ordine di natura. - Si dice inoltre che un’opera sorpassa le forze della natura, non soltanto per la sostanza del fatto; ma anche per il modo e l’ordine della sua produzione. - Si dice poi che il miracolo supera la speranza, ma quella della natura, non quella della grazia; perché questa scaturisce dalla fede, per la quale noi crediamo nella futura resurrezione. 3. Sebbene la scienza degli Apostoli non fosse cosa evidente in se stessa, lo era tuttavia nei suoi effetti, mediante i quali destava meraviglia.

Articolo 8: Se i miracoli siano uno maggiore dell’altro SEMBRA che i miracoli non siano uno maggiore dell’altro. Infatti:�1. Scrive S. Agostino: ‘Nel portento tutta la ragione del fatto è la potenza di chi lo compie’. Ora i miracoli si devono tutti alla sola potenza di Dio. Perciò non v’è gradazione tra essi.

2. La potenza di Dio è infinita. Ma l’infinito supera tutto ciò che è finito senza misura. Quindi non v’è ragione di ammirare un effetto più di un altro. Dunque un miracolo non è maggiore di un altro.

IN CONTRARIO: Parlando il Signore delle opere miracolose, dice: ‘Anch’egli [chi crede in me] farà le opere che faccio io, anzi ne farà anche di maggiori’.

RISPONDO: In rapporto alla potenza divina, niente può chiamarsi miracolo: poiché, in rapporto alla potenza divina, ogni fatto non è che minima cosa, secondo quel detto di Isaia: ‘Ecco che le nazioni sono come la goccia d’una secchia e contano quanto un pulviscolo nella bilancia’. Ma un fatto viene detto miracolo in rapporto alle capacità della natura che esso supera. E si dice maggiore di un altro, a seconda del grado in cui supera le capacità della natura.�Ora un fatto può superare le forze della natura in tre modi. Primo, nella sostanza stessa del fatto, che la natura non può assolutamente compiere: fare, p. es., che due corpi occupino uno stesso luogo nello stesso tempo, o che il sole torni indietro nella sua corsa, o che il corpo umano diventi glorioso. E tali fatti tengono il primo posto tra i miracoli. - Secondo, un fatto può superare le forze della natura, non per la cosa prodotta, ma per il soggetto in cui viene prodotta: come, p. es., la risurrezione dei morti, la guarigione dei ciechi, e simili. Infatti la natura può causare la vita ma non in un cadavere; può dare la vista, ma non a un cieco. E questi fatti occupano il secondo posto tra i miracoli. - Terzo, un fatto può superare le forze della natura [soltanto] per il modo e per il procedimento con cui è prodotto: quando p. es., uno guarisce istantaneamente dalla febbre per virtù divina, senza cure e fuori del decorso normale della malattia in casi simili; oppure quando l’atmosfera, con tempo sereno, si addensi e precipiti in piogge all’istante, per sola virtù divina e senza intervento di cause naturali, come avvenne alle preghiere di Samuele e di Elia. Fatti di questo genere occupano l’ultimo posto tra i miracoli. - Tuttavia, ciascuna di queste serie di miracoli ammette diversi gradi, a seconda del grado diverso in cui vengono superate le forze della natura.

2. E così si è risposto anche alle difficoltà che considerano il miracolo solo da parte della potenza divina.

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Galileo Galilei (1564-1642)

edizione di riferimento: Opere Edizione nazionale in 20 volumi a cura di A.Favaro, Barbero, Firenze, 1890-1909

Lettera ‘privata’ a Don Benedetto Castelli (21 dicembre 1613, in Ed. naz., V, pp. 282-3) […] procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio; ed essendo, di più, convenuto nelle Scritture, per accomodarsi all’intendimento dell’universale, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto al significato delle parole, dal vero assoluto; ma all’incontro, essendo la natura inesorabile e immutabile e noncurante che le sue recondite ragioni e modi d’operare sieno o non sieno esposti alla capacità de gli uomini, per lo che ella non trasgredisce mai i termini delle leggi imposteli […]

Lettera ‘pubblica’ alla Granduchessa Madre madama Cristina di Lorena (1615, in Ed. naz., V, p. 317) […] procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio; ed essendo, di più, convenuto nelle Scritture, per accommodarsi all’intendimento dell’universale, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto al nudo significato delle parole, dal vero assoluto; ma all’incontro, essendo la natura inesorabile e immutabile e mai non trascendente i termini delle leggi imposteli, come quella che nulla cura che le sue recondite ragioni e modi d’operare sieno o non sieno esposti alla capacità de gli uomini; […]

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Thomas Hobbes (1588-1679) Leviatano (1651)

lingua originale: inglese

edizione di riferimento: R. Tuck, Cambridge University Press, Cambridge, 1991 tr. it. R. Santi, Bompiani, Milano, 2001

Parte III, Capitolo xxxvii: I miracoli e il loro uso 1. Un miracolo è un’opera che causa ammirazione Per ‘miracoli’ s’intendono le ammirevoli opere di Dio, per cui si chiamano anche ‘meraviglie’. E poiché per la maggior parte vengono fatti per significare il Suo comando nelle occasioni in cui gli uomini, senza di essi (seguendo il loro ragionamento naturale) sono portati a mettere in dubbio quello che Egli ha comandato e quello che non ha comandato; nella Sacra Scrittura, vengono comunemente chiamati ‘segni’, nello stesso senso in cui i latini li chiamano ‘ostenta’ e ‘portenta’, perché mostrano e pre-significano ciò che l’Onnipotente sta per far accadere. 2. Deve quindi essere raro e riguardare fenomeni di cui non si conosca la causa naturale Quindi, per capire che cosa sono i miracoli, dobbiamo in primo luogo capire che tipo di opere sono quelle di cui gli uomini si meravigliano e che chiamano ammirevoli. Esistono soltanto due cose che fanno meravigliare gli uomini ogni volta che si verificano : le cose strane, vale a dire quelle che non si sono mia prodotte o che si sono prodotte molto raramente, e quelle che, quando si producono, non si può immaginare che siano state fatte con mezzi naturali, ma solo immediatamente per mano di Dio. Ma quando di una cosa vediamo una possibile causa naturale, allora, per quanto raramente ne siano state compiute di simili o, se ne sono state compiute spesso di simili, per quanto impossibile immaginare un mezzo naturale, non ci meravigliamo più, né stimiamo un miracolo. 3. [Due esempi] 1 Dunque se un cavallo o una mucca parlassero, sarebbe un miracolo, perché entrambe le cose sono strane e la causa naturale è difficile da immaginare, come lo sarebbe anche se vedessimo una strana deviazione della natura nella produzione di qualche nuova forma di creatura vivente. Ma quando un uomo o un altro animale danno vita ad un loro simile, anche se non sappiamo come questo avvenga più di quanto ne sappiamo per i casi strani, tuttavia non si tratta di un miracolo, perché è qualcosa di usuale. In maniera simile, se un uomo subisce una metamorfosi trasformandosi in una pietra o in una colonna, si tratta di un miracolo perché è qualcosa di strano; ma se è un pezzo di legno a cambiare in questo modo, non si tratta di un miracolo, perché è una cosa che vediamo spesso e tuttavia non sappiamo attraverso quale operazione Dio lo faccia accadere, non più di quanto ne sappiamo per il primo caso. 4. [Un altro esempio] Il primo arcobaleno che si vide nel mondo costituì un miracolo, perché fu il primo e, di conseguenza, fu strano e servì come un segno posto nel cielo da Dio per assicurare al suo popolo che non ci sarebbe più stata una distruzione universale del mondo con l’acqua. Ma oggi, poiché sono frequenti, non sono miracoli né per quelli che conoscono le loro cause

1 [I titoletti di sezioni tra parentesi quadre non sono nel testo originale di Hobbes – nota di Davies.]

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naturali né per quelli che non le conoscono. Ancora, ci sono molte opere rare, prodotte dall’arte dell’uomo e tuttavia quando conosciamo come sono state fatte, dato che così conosciamo anche i mezzi con cui sono state fatte, non le consideriamo come miracoli, perché non vengono prodotte immediatamente dalla mano di Dio, bensì con la mediazione dell’operosità umana. 5. Ciò che a qualcuno sembra un miracolo può non sembrarlo ad un altro Inoltre, visto che l’ammirazione e la meraviglia sono una conseguenza della conoscenza e dell’esperienza, di cui gli uomini sono più o meno dotati, ne segue che una stessa cosa può essere un miracolo per uno e non per un altro. Accade quindi che gli uomini ignoranti e superstiziosi si meravigliano molto per opere che altri uomini, sapendo che derivano dalla natura (che non è l’opera immediata bensì ordinaria di Dio), non ammirano affatto. Così è accaduto quando le eclissi di sole e di luna sono state prese per opere sovrannaturali dalla gente comune, mentre c’erano altri che, da cause naturali, avevano potuto predire l’ora precisa in cui si sarebbero verificate. Così quando qualcuno, complottando e informandosi in segreto, riesce a conoscere le azioni private di un uomo ignorante e sprovveduto e gli dice ciò che ha fatto in passato, a quest’ultimo sembra una cosa miracolosa. Ma tra uomini saggi e cauti non si possono compiere facilmente miracoli come questi. 6. Il fine dei miracoli Ancora, appartiene alla natura del miracolo che esso si compia per procurare credito ai messaggeri, ai ministri e ai profeti di Dio, perché così gli uomini possano sapere che essi sono chiamati, inviati ed impiegati da Dio e con ciò siano meglio inclini ad obbedire loro. Quindi, anche se la creazione del mondo e poi la distruzione di tutte le creature viventi nel diluvio universale sono state opere ammirevoli, tuttavia non si usa chiamarli miracoli, perché non furono fatte per procurare credito a qualche profeta o qualche altro ministro di Dio. Infatti, per quanto ammirevole possa essere un’opera, l’ammirazione non consiste nel fatto che essa poteva essere compiuta, poiché gli uomini credono naturalmente che l’Onnipotente possa fare ogni cosa, bensì nel fatto che Egli la fa come risposta alla preghiera o alla parola di un uomo. Ma le opere di Dio svolte in Egitto per mano di Mosè furono miracoli veri e propri, perché furono fatte con l’intento di far credere al popolo di Israele che Mosè non si era presentato per qualche piano legato al suo interesse personale, bensì in quanto inviato da Dio. Quindi, dopo che Dio gli ebbe comandato di liberare gli Israeliti dalla schiavitù egiziana, quando egli disse (Esodo, 4,1): Essi non mi crederanno, ma diranno che il Signore non mi è apparso, Dio gli diede il potere di trasformare il bastone che aveva in mano in un serpente e poi di ritrasformarlo in un bastone e di rendere lebbrosa la sua mano portandola al seno e di risanarla togliendola da esso, per far credere ai figli di Israele (come è nel versetto 5) che il Dio dei loro padri gli era apparso ; e se ciò non fosse stato sufficiente, gli diede il potere di trasformare le acque in sangue. Quando ebbe compiuto questi miracoli davanti al popolo, si dice (versetto 41) che essi gli credettero. Nondimeno, per paura del Faraone, osarono non obbedirgli. Dunque, le altre opere che furono fatte per tormentare il Faraone e gli Egiziani, tendevano tutte a fare in modo che gli Israeliti credessero in Mosè ed erano miracoli veri e propri. In maniera simile, se consideriamo tutti i miracoli fatti per mano di Mosè e di tutti gli altri profeti fino alla cattività, e poi quelli del nostro Salvatore e dei suoi apostoli, troveremo che il loro fine fu sempre quello di generare o di riconfermare la credenza che essi non furono mossi da scopi personali, ma furono stati inviati da Dio. Possiamo inoltre osservare che nella Scrittura il fine dei miracoli era quello di generare la credenza non universalmente in tutti gli uomini, eletti e reprobi, ma soltanto negli eletti, vale a dire in quelli che Dio aveva stabilito che dovessero diventare suoi sudditi. Infatti, quelle miracolose piaghe d’Egitto non avevano

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come loro scopo la conversione del Faraone, poiché prima Dio aveva detto a Mosè che avrebbe indurito il cuore del Faraone perché non lasciasse andare il popolo ; e quando infine egli lo lasciò andare, non fu persuaso dai miracoli, ma furono le piaghe a spingerlo. Così anche del nostro Salvatore è scritto (Matteo, 13,58) che non compì molti miracoli nel suo Paese a causa della loro incredulità, e (Marco, 6,5) invece di ‘Egli non ne compì molti’ c’è scritto ‘Egli non potè operarne nessuno’. Questo non perché gli mancasse il potere – che sarebbe una bestemmia contro Dio – o perché il fine dei miracoli non fosse quello di convertire al Cristo gli increduli – perché il fine di tutti i miracoli di Mosè, dei profeti, del nostro Salvatore e dei suoi apostoli fu quello di aggiungere uomini alla Chiesa – ma perché il fine dei loro miracoli fu quello di aggiungere alla Chiesa (non tutti gli uomini, ma) quelli che dovevano essere salvati, vale a dire quelli che Dio aveva eletto. Dunque, visto che il nostro Salvatore era stato mandato da suo Padre, non poteva usare il suo potere per convertire quelli che suo Padre aveva rifiutato. Quelli che, esponendo questo passo di San Marco, dicono che la parola ‘non poté’ sta per ‘non volle’ lo fanno senza esempi nella lingua greca (dove ‘non volle’ talvolta sta per ‘non poté’ nelle cose inanimate che non hanno volontà, ma mai ‘non poté’ er ‘non volle’), ponendo così un ostacolo davanti ai cristiani deboli, come se Cristo non potesse fare miracoli fra i credenti. 7. La definizione di miracolo Da quello che ho appena detto sulla natura e sull’uso del miracolo, possiamo trarre quest definizione : ‘UN MIRACOLO è un’opera di Dio (che va oltre il suo operato secondo le modalità naturali predisposte nella creazione), fatta per rendere manifesta ai suoi eletti la missione di un ministro straordinario inviato per la loro salvezza’. 8. [I miracoli sono opera di Dio] Da questa definizione possiamo in primo luogo desumere che in tutti i miracoli l’opera compiuta non è l’effetto di una qualche virtù del profeta, perché è l’effetto immediato della mano di Dio, vale a dire, che Dio l’ha compiuta senza utilizzare il profeta come causa subordinata. 9. [Nessuno spirito creato può compiere miracoli] Secondariamente, che nessun demonio, angelo o altro spirito creato può fare un miracolo, perché questo deve essere fatto o in virtù di qualche scienza naturale o per incanto, cioè in virtù delle parole. Infatti, se gli incantatori lo fanno per qualche loro potere indipendente, allora esiste qualche potere che non proviene da Dio, cosa che tutti gli uomini negano, o se lo fanno per un potere dato loro, allora non si tratta di un’opera immediata della mano di Dio, ma di un’opera naturale e, di conseguenza, non è un miracolo. 10 [Gli incantesimi e le magie non sono miracoli] Ci sono alcuni testi della Scrittura che sembrano attribuire a certe arti magiche e incantatorie il potere di operare meraviglie (uguali ad alcuni di quei miracoli operati immediatamente da Dio stesso). Così, ad esempio, quando si legge che, il bastone di Mosè, una volta gettato a terra, diventò un serpente, ‘i maghi d’Egitto fecero una cosa simile con i loro incantesimi’ (Esodo, 7,11) e che, dopo che Mosè aveva trasformato in sangue le acque dei ruscelli, dei fiumi, degli stagni e della pozze d’acqua d’Egitto, ‘i maghi agirono in modo simile con i loro incantesimi’ (Esodo, 7,22) e che, dopo che Mosè, con il potere di Dio, aveva portato le rane sulla terra, ‘anche i maghi fecero così con il loro incantesimi e portarono le rane sulla terra d’Egitto (Esodo, 8,7) ; quando si legge tutto ciò, non si sarà disposti ad attribuire i miracoli agli incantesimi, vale a dire all’efficacia del suon delle parole, e a pensare che la stessa cosa

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sia molto ben provata da questo e da altri passi simili? Eppure non c’è alcun passo della Scrittura che ci dica che cos’è un incantesimo. Se, dunque, un incantesimo non è, come credono molti, la produzione di strani effetti attraverso sortilegi e parole, ma un impostura e un’illusione compiuta con mezzi ordinari e così distante dall’essere sovrannaturale, che gli impostori, per farlo, non hanno tanto bisogno di studiare le cause naturali, quanto l’ordinara ignoranza, la stupidità e la superstizione del genere umano, allora quei testi che sembrano confermare il potere della magia, della stregoneria e dell’incantesimo devono avere necessariamente un senso diverso da quello che sembrano avere a prima vista. 11. [Sono piuttosto inganni] Infatti, è abbastanza evidente che le parole non hanno effetto se non su chi le comprende e allora non ne hanno un altro oltre a quello di significare le intenzioni o le passioni di chi parla e perciò producono speranza, paura o altre passioni o concezioni in chi ascolta. Dunque, quando un bastone sembra un serpente o le acque sangue oppure qualche altro miracolo sembra fatto per incantesimo, se non è fatto per l’edificazione del popolo di Dio, nè il bastone né l’acqua né qualsiasi altra cosa, tranne lo spettatore, sono incantati, vale a dire raggirati con le parole. Cosicché tutto il miracolo consiste in questo, che l’incantatore ha ingannato un uomo, il che non è un miracolo, bensì una cosa molto facile da fare. 12 Gli uomini sono disposti a farsi ingannare dai falsi miracoli Infatti tale è l’ignoranza e la disposizione all’errore in generale in tutti gli uomini, ed in special modo in quelli che non hanno molta conoscenza delle cause naturali e della natura e degli interessi degli uomini, che essi vengono ingannati con innumerevoli e facili trucchi. E che fama di possessore di poteri miracolosi avrebbe potuto farsi un uomo che, prima che si conoscesse l’esistenza di una scienza del corso delle stelle, avesse detto al popolo che in questa ora o in questo giorno il Sole si sarebbe oscurato? E si potrebbe pensare che un prestigatore che maneggia coppette e altri ninnoli faccia le sue meraviglie per mezzo di un potere quantomeno diabolico, se la sua non fosse ormai una pratica ordinaria. Un uomo che abbia fatto pratica nel parlare trattenendo il respiro (nei tempi antichi uomini di tal genere venivano chiamati ‘ventriloqui’) e nel fare in modo che la sua voce debole sembri provenire non da un debole impulso degli organi vocali, bensì da un luogo distante, è in grado di far credere a moltissimi uomini che è una voce che viene dal Cielo, qualunque cosa egli vorrà raccontare loro. E per un uomo astuto che si sia informato sui segrete e sulle confessioni confidenziali che un uomo fa di solito ad un altro circa le sue azioni e le sue avventure passate, raccontargliele di nuovo non è cosa difficile; eppure ci sono molti che, servendosi di mezzi simili, ottengono la reputazione di essere maghi. Ma sarebbe una faccenda troppo lunga fare il calcolo delle diverse specie di quegli uomini che i Greci chiamavano ‘thaumaturgoi’, vale a dire operatori di cose meravigliose; eppure fanno tutto ciò che fanno con la loro destrezza. Ma se guardiamo alle imposture operate in combutta, non c’è nulla, per quanto impossibile a farsi, che sia impossibile da credere. Infatti, due uomini che cospirano perché uno sembri storpio e l’altro sembri curarlo con un incantesimo, inganneranno molti; ma molti che cospirano perché uno sembri storpio, un altro sembri curarlo e tutti gli altri lo testimonino, ne inganneranno molti di più. 13. Cautele contro l’impostura dei miracoli In questa disposizione del genere umano a credere frettolosamente a pretesi miracoli, non può essere cautela migliore né, credo, alternativa, se non quella che Dio ha prescritto in primo

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luogo tramite Mosè (come ho già detto nel capitolo precedente2), all’inizio del tredicesimo e alla fine del diciottesimo capitolo del Deuteronomio : di non prendere come profeti quelli che insegnano una religione diversa da quella che il luogotenente di Dio (che a quel tempo era Mosè) ha stabilito né quelli (anche se insegnano la stessa religione) di cui non vediamo verificarsi la predizioni. Quindi, primadi dare credito a un preteso miracolo o profeta, bisogna consultare Mosè nel suo tempo, Aronne e i suoi successori nei loro tempi e il governatore sovrano del popolo di Dio, immediatamente subordinato a Dio stesso, vale a dire al capo della Chiesa in tutti i tempi, per vedere quale dottrina abbia stabilito. E quando la cosa che si pretende sia un miracolo è stata fatta, dobbiamo sia vederla fatta sia usare tutti i mezzi possibili per caprire se sia stata fatta realmente e non solo questo, ma anche se è tale che nessuno può farne una simile con il proprio potere naturale e tale invece che richieda immediatamente la mano di Dio. Anche per questo dobbiamo ricorrere al luogotenente di Dio, al quale abbiamo sottomesso i nostri giudizi privati, relativamente a tutti i casi dubbi. Ad esempio, se qualcuno afferma che Dio, sentendogli pronunciare certe parole sopra un pezzo di pane, faccia subito in modo che quel pane non sia più pane, ma un dio o un uomo o entrambe le cose, nonostante esso sembri il pane che è sempre stato, non c’è ragione perché qualcuno creda che ciò sia accaduto realmente né, di conseguenza, perché abbia paura di lui, finché non abbia chiesto a Dio tramite il suo vicario o luogotenente, se ciò sia accaduto o meno. Se questi dice di no, allor segue ciò che dice Mosè (Deuteronomio, 18,22) : ‘Egli ha parlato presuntuosamente, tu non ne avrai paura’. Se dice che è accaduto, allora non bisogna contraddirlo. Così, anche se non vediamo un miracolo, ma ne sentiamo solo parlare, dobbiamo consultare la Chiesa legittima, vale a dire il suo capo legittimo, su quanto credito dobbiamo dare a chi ce ne parla. Questo è soprattutto il caso degli uomini che nei nostri giorni vivono sotto i sovrani cristiani. Infatti non conosco nessuno che nei nostri tempi abbia mai visto un’opera così meravigliosa, fatta con l’incantesimo o per la parola o la preghiera di un uomo, tale che anche un uomo dotato di un’intelligenza mediocre possa ritenerla sovrannaturale ; e la questione non è più se ciò che vediamo accadere sia un miracolo o se i miracolo di cui sentiamo parlare o crediamo sia un’opera reale e non l’atto di una lingua o di una penna, bensì, per dirla chiaramente, se il resoconto sia veritiero o se si tratti invece di una menzongna. In tale questione, nessuno di noi deve rendere giudice la propria ragione privata o coscienza, ma la ragione pubblica, cioè la ragione del supremo luogotenente di Dio ; e in realtà, lo abbiamo già reso giudice, se gli abbiamo dato un potere sovrano per fare tutto ciò che è necessario per la nostra pace e per la nostra difesa. Un privato ha sempre la libertà (dato che il pensiero è libero) di credere o di non credere in cuor suo a quegli atti che sono stati annunciati come miracoli, a seconda del beneficio che può derivare dal credere a coloro che pretendono siano reali o che li appoggiano come tali, e alla luce di queste considerazioni, di congetturare se siano miracoli o menzogne. Ma quando accade di confessare quella fede, la ragione privata deve sottomettersi a quella pubblica, vale a dire al luogotenente di Dio. Ma chi sia questo luogotenente di Dio e capo della Chiesa, sarà considerato in seguito, nel luogo opportuno.

2 [Leviatano, III cap. 36 discute ‘la parola di Dio e dei profeti’ – nota di Davies]

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Benedetto Spinoza (1632-1677) Trattato teologico-politico (1670)

lingua originale: latino edizione di riferimento: C. Gerhardt, Opera, Heidelberg, 1925

tr. it. A. Dini, Mondadori, Milano, 2001 CAPITOLO VI: Dei miracoli (parte) [p. 86] Così come si sono abituati a chiamare divina quella scienza che supera la capacità umana, allo stesso modo gli uomini si sono abituati a chiamare divino, cioè opera di Dio, un fatto la cui causa è sconosciuta al volgo.

Il volgo, infatti, ritiene che la potenza e la provvidenza di Dio risultino nella maniera più chiara quando vede accadere in natura qualcosa di insolito e in contrasto con l’opinione che egli per consuetudine ha della natura, soprattutto se ciò sia riuscito a suo guadagno o vantaggio. E da nessuna cosa gli uomini del volgo ritengono si possa dimostrare più chiaramente l’esistenza di Dio se non da questo: che la natura, come ritengono, non conservi il proprio ordine. E perciò il volgo crede che tolgano di mezzo Dio, o almeno la sua provvidenza, tutti coloro i quali spiegano, o cercano di intendere, le cose e i miracoli per mezzo di cause naturali: il volgo ritiene cioè che Dio non faccia niente fintantoché la natura agisce secondo il solito ordine, e, al contrario, che la potenza della natura e le cause naturali restino oziose fintantoché Dio agisce.

Gli uomini immaginano dunque due potenze numericamente distinte l’una dall’altra, cioè la potenza di Dio e la potenza delle cose naturali, sebbene questa sia in un certo modo determinata o (come oggi la maggior parte preferisce ritenere) creata da Dio. Che cosa poi intendano per l’una e l’altra potenza, e che cosa per Dio e natura, lo ignorano del tutto, a meno che non immaginino la potenza di Dio come il potere di qualche maestà regia e quella della natura come forza e impulso.

Il volgo, dunque, chiama ‘miracoli’, ossia opere di Dio, i fatti insoliti della natura, e, un po’ per devozione, un po’ per la voglia di contrastare coloro che coltivano le scienze naturali, desidera non conoscere le cause naturali delle cose, e arde dal desiderio di sentir parlare soltanto di quelle cose che soprattutto ignora e che, perciò, soprattutto ammira. Ciò è evidente, perché in nessun altro modo, se non togliendo le cause naturali e immaginando le cose fuori dell’ordine naturale, il volgo può adorare Dio e riferire tutte le cose al suo potere e alla sua volontà, e non ammira la potenza di Dio se non in quanto immagina la potenza della natura come sottomessa a Dio.

Ciò sembra abbia tratto origine dai primi giudei, i quali, per convincere i pagani del loro tempo che adoravano divinità visibili – vale a dire il sole, la luna, la terra, l’acqua, l’aria ecc. –, e per mostrare loro che quelle divinità [p. 82] erano deboli e instabili, ossia mutevoli, e soggette al potere del Dio invisibile, raccontavano i propri miracoli, con i quali si sforzavano inoltre di mostrare che tutta la natura era diretta dal potere del Dio che essi adoravano a loro esclusivo vantaggio. E ciò riuscì tanto gradito agli uomini che fino ai nostri giorni costoro non hanno cessato di fingere miracoli per farsi credere più graditi a Dio degli altri e causa finale per la quale Dio ha creato e continua a dirigere tutte le cose.

Che cosa il volgo, nella sua stoltezza, non attribuisce a sé, dato che non ha un retto concetto né di Dio né della natura, confonde i voleri di Dio con i voleri degli uomini e, infine, immagina la natura limitata fino al punto di credere che l’uomo sia la parte più importante di essa!

Con queste cose ho esposto abbastanza ampiamente le opinioni e i pregiudizi del volgo riguardo alla natura e ai miracoli. Tuttavia, per trattare con ordine l’argomento, mostrerò che:

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1. Niente accade contro la natura, ma questa conserva in eterno un ordine fisso e immutabile; e, insieme, mostrerò che cosa si debba intendere per ‘miracolo’.

2. Per mezzo dei miracoli noi non possiamo conoscere né l’essenza né l’esistenza di Dio e, di conseguenza, nemmeno la sua provvidenza, ma tutte queste cose possono essere percepite assai meglio dall’ordine fisso e immutabile della natura.

3. Sulla base di alcuni esempi tratti dalla Scrittura, mostrerò che la stessa Scrittura per ‘decreti e volizioni’ di Dio, e di conseguenza per ‘provvidenza’, non intende altro che l’ordine stesso della natura, il quale segue necessariamente dalle leggi eterne di Dio.

4. Infine, tratterò del modo di interpretare i miracoli della Scrittura e delle cose che principalmente devono essere notate circa le narrazioni dei miracoli.

Queste sono le cose principali che esporrò nel presente capitolo, e che ritengo siano di non poca utilità per l’obiettivo a cui mira quest’opera nel suo complesso.

Quanto al primo punto, esso si dimostra facilmente da ciò che abbiamo esposto nel capitolo IV riguardo alla legge divina, vale a dire: tutto ciò che Dio vuole — ovvero determina – implica eterna verità e necessità.

Dal fatto che l’intelletto di Dio non si distingue dalla sua volontà, infatti, abbiamo mostrato che dire: Dio vuole qualcosa, e dire: Dio intende questa stessa cosa, sono due affermazioni identiche. Perciò, con la stessa necessità con la quale dalla natura e dalla perfezione divina segue che Dio intende una cosa come essa è, da quella medesima natura e perfezione segue che Dio vuole quella stessa cosa come essa è. E poiché niente è necessariamente vero se non per il solo decreto divino, ne segue nella maniera più chiara che le leggi universali della natura I non sono se non decreti di [p. 83] Dio che seguono dalla necessità e dalla perfezione della natura divina.

Se dunque in natura avvenisse qualcosa che ripugna alle sue leggi universali, ciò ripugnerebbe necessariamente al decreto, all’intelletto e alla natura di Dio; ovvero, se qualcuno affermasse che Dio opera qualcosa contro le leggi della natura, costui sarebbe, insieme, costretto ad affermare pure che Dio agisce contro la propria natura, – cosa della quale niente è più assurdo. La medesima cosa potrebbe essere facilmente dimostrata anche dal fatto che la potenza della natura è la stessa potenza e virtù di Dio, e che la potenza divina, d’altra parte, coincide con l’essenza stessa di Dio; ma per ora preferisco tralasciare questo argomento.

Niente accade dunque in natura che ripugni alle sue leggi universali; ma neppure niente che non convenga con quelle leggi o non segua da esse: tutto ciò che avviene, infatti, avviene per la volontà e l’eterno decreto di Dio, ossia, come abbiamo già mostrato, avviene secondo leggi e regole che implicano eterna necessità e verità. La natura, pertanto, osserva sempre leggi e regole che implicano eterna necessità e verità, anche quando non ci siano tutte quante note, e osserva perciò un ordine fisso e immutabile.

E non c’è nessuna buona ragione per attribuire alla natura una potenza e una virtù limitata, e per affermare che le sue leggi sono idonee a certe cose e non a tutte. Infatti, poiché la virtù e la potenza della natura sono la stessa virtù e potenza di Dio, e poiché le leggi e le regole della natura sono gli stessi decreti di Dio, si deve senz’altro ritenere che la potenza della natura sia infinita e che le sue leggi siano talmente ampie da estendersi a tutte le cose concepite dallo stesso intelletto di Dio; se così non è, infatti, non si stabilisce nient’altro se non che Dio ha creato una natura così impotente e le ha dato leggi e regole così sterili da essere costretto a soccorrerla di nuovo più volte, se vuole che essa sia conservata, e per fare in modo che le cose succedano come è desiderabile, – cosa che giudico del tutto estranea alla ragione.

Perciò da queste cose – cioè, in natura non accade niente che non segua dalle sue leggi; le sue leggi si estendono a tutte le cose concepite dallo stesso intelletto di Dio; infine, la natura conserva un ordine fisso e immutabile –, segue chiarissimamente che il nome ‘miracolo’ non

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può essere inteso se non rispetto alle opinioni degli uomini, e non significa [p. 84] nient’altro che un fatto del quale non possiamo spiegare la causa naturale sull’esempio di un’altra cosa consueta, o almeno non può spiegarla colui che scrive o racconta il miracolo.

Potrei dire, invero, che miracolo è ciò la cui causa non può essere spiegata sulla base dei princìpi delle cose naturali noti con il lume naturale. Ma, poiché i miracoli avvennero rispetto alla capacità del volgo, il quale ignorava completamente i principi delle cose naturali, è certo che gli antichi ritennero miracolo ciò che non potevano spiegare nel modo in cui il volgo è solito spiegare le cose naturali, ricorrendo cioè alla memoria, al fine di ricordarsi di un altro fatto simile che è solito immaginare senza ammirazione; il volgo ritiene infatti di intendere sufficientemente qualcosa solo quando non la ammira. Gli antichi quindi, e quasi tutti fino ad oggi, non hanno avuto altra norma del miracolo all’infuori di questa. Perciò non c’è dubbio che nella Sacra Scrittura siano narrati come miracoli molti fatti le cui cause possono essere facilmente spiegate sulla base dei principi noti delle cose naturali, come già accennato nel capitolo II, quando abbiamo parlato dell’arresto del sole al tempo di Giosuè e della sua retrocessione al tempo di Achaz. Ma di questo tratterò più a lungo tra poco, cioè quando mi occuperò dell’interpretazione dei miracoli, che ho promesso di trattare nel presente capitolo.

Qui è ormai tempo che io passi al secondo punto, cioè a mostrare che dai miracoli noi non possiamo intendere né l’essenza né l’esistenza né la provvidenza di Dio, ma, al contrario, queste cose possono essere percepite assai meglio dall’ordine fisso e immutabile della natura. Per dimostrarlo, procedo nel modo seguente.

Poiché l’esistenza di Dio non è nota per sé, essa deve essere conclusa necessariamente da nozioni la cui verità è così salda e indiscutibile da non potersi dare né concepire alcuna potenza dalla quale possano essere mutate. Così devono apparirci tali nozioni, almeno dal momento in cui da esse abbiamo concluso l’esistenza di Dio, se da esse stesse vogliamo concludere tale esistenza all’infuori di ogni rischio di dubbio: infatti, se potessimo concepire che quelle stesse nozioni possono essere mutate da una potenza, qualunque essa sia, allora dubiteremmo della loro verità e, di conseguenza, anche della nostra conclusione, cioè dell’esistenza di Dio, e non potremo essere più certi di nulla.

Inoltre, sappiamo che niente conviene con la natura o ripugna ad essa se non ciò che conviene con questi principi o ripugna ad essi. Perciò, se potessimo concepire che in natura da [p. 85] una potenza (qualunque essa sia) può essere fatto qualcosa che ripugni alla natura, ciò ripugnerà altresì a queste prime nozioni, e quindi deve essere respinto come assurdo, oppure si deve dubitare delle prime nozioni (come abbiamo or ora mostrato) e, di conseguenza, di Dio e di tutte le cose percepite in qualsiasi modo. Dunque, i miracoli, in quanto per essi intendiamo fatti che ripugnano all’ordine della natura, sono ben lontani dal mostrarci l’esistenza di Dio, e ci fanno invece dubitare di essa, mentre senza i miracoli possiamo esserne certi in assoluto, una volta saputo che tutte le cose della natura seguono un ordine fisso e immutabile.

Ma poniamo che sia miracolo ciò che non può essere spiegato per mezzo di cause naturali. Cíò lo si può intendere in due modi: o che esso ha cause naturali, le quali tuttavia non possono essere ricercate dall’intelletto umano; oppure che non ammette nessuna causa all’infuori di Dio, ossia della volontà di Dio. Ora, poiché tutte le cose che avvengono per cause naturali avvengono pure per la sola potenza e volontà di Dio, bisogna infine necessariamente giungere a questo: il miracolo, abbia o no cause naturali, è un fatto che non può essere spiegato per mezzo della causa, cioè un fatto che supera la capacità umana; ma da un fatto, e in assoluto da ciò che supera la nostra capacità, noi non possiamo intendere nulla.

Tutto ciò che intendiamo in maniera chiara e distinta, infatti, deve essere a noi noto per sé oppure per qualcos’altro che è inteso per sé in maniera chiara e distinta. Per la qual cosa, dal miracolo, ossia da un fatto che supera la nostra capacità, noi non possiamo intendere né

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l’essenza né l’esistenza di Dio, né in assoluto alcunché di Dio e della natura; mentre al contrario, sapendo che tutte le cose sono determinate e stabilite da Dio, che le operazioni della natura seguono dall’essenza di Dio, e che le leggi della natura sono decreti eterni e volizioni di Dio, bisogna senz’altro concludere che noi tanto più conosciamo Dio e la sua volontà, quanto più conosciamo le cose naturali e intendiamo chiaramente in che modo esse dipendono dalla loro prima causa e operano secondo le leggi eterne della natura.

Perciò, in rapporto al nostro intelletto, i fatti che intendiamo in maniera chiara e distinta hanno di gran lunga più diritto ad essere chiamati opere di Dio, e ad essere riferiti alla sua volontà, di quei fatti che ignoriamo del tutto (per quanto questi riempiano completamente l’immaginazione e attirino su di sé l’ammirazione rapita degli uomini), dal momento che soltanto quelle operazioni della natura che [p. 86] intendiamo in maniera chiara e distinta danno una più elevata conoscenza di Dio e mostrano nella maniera più chiara la volontà e i decreti di Dio. Vogliono dunque proprio scherzare coloro che, quando ignorano qualcosa, ricorrono alla volontà di Dio: un modo senz’altro ridicolo di riconoscere la propria ignoranza.

D’altra parte, anche se potessimo trarre qualche conclusione dai miracoli, in nessun modo potremmo concluderne l’esistenza di Dio. Infatti, poiché il miracolo è un fatto limitato e non esprime mai se non una certa e limitata potenza, è certo che noi da tale effetto non possiamo concludere l’esistenza di una causa la cui potenza sia infinita, ma al massimo l’esistenza di una causa la cui potenza sia maggiore; – dico ‘al massimo’ poiché da molte cause che concorrono insieme può anche conseguire un fatto la cui forza e la cui potenza siano minori della potenza di tutte le cause messe insieme, ma di gran lunga maggiore della potenza di ciascuna causa.

Invece le leggi della natura, poiché (come abbiamo già mostrato) si estendono a infinite cose e sono da noi concepite sotto una certa specie di eternità, e poiché la natura, in conformità ad esse, procede secondo un ordine certo ed immutabile, ci mostrano in qualche modo perfino l’infinità, l’eternità e l’immutabilità di Dio.

Concludiamo dunque dicendo che noi, per mezzo dei miracoli, non possiamo conoscere l’esistenza e la provvidenza di Dio, ma le concludiamo molto meglio dall’ordine fisso e immutabile della natura.

In questa conclusione parlo del miracolo in quanto per esso non s’intende altro se non un fatto che supera la capacità umana o si crede che la superi. Infatti, se si ammettesse che esso distrugge o interrompe l’ordine della natura, oppure che ripugna alle sue leggi, allora non solo non potrebbe darci alcuna conoscenza di Dio, ma ci toglierebbe addirittura quella che abbiamo naturalmente e ci farebbe dubitare di Dio e di tutto.

Né io qui riconosco una qualche differenza tra un fatto contro la natura e un fatto sopra la natura (il quale, come dicono alcuni, sarebbe un fatto che non ripugna alla natura, e che tuttavia non può essere prodotto o reso effettivo da essa). Infatti, poiché il miracolo non avviene fuori della natura, ma nella stessa natura, allora, per quanto lo sigiudichi sopra la natura, è tuttavia necessario che interrompa l’ordine della natura, che invece concepiamo fisso ed immutabile sulla base dei decreti di Dio.

Se dunque in natura avvenisse qualcosa che non segue dalle sue leggi, ciò ripugnerebbe necessariamente all’ordine che Dio ha stabilito [p. 87] in eterno per mezzo delle leggi universali della natura, e sarebbe perciò contro la natura e le sue leggi, e, di conseguenza, ci farebbe dubitare di tutto e ci porterebbe all’ateismo.

E con questo ritengo di aver dimostrato con ragioni abbastanza valide ciò che mi proponevo al secondo punto, per cui possiamo concludere di nuovo che il miracolo, sia esso contro la natura sia esso sopra la natura, è una pura assurdità. E proprio per questo nella Sacra Scrittura per ‘miracolo’ non può essere inteso altro che un’opera della natura che, come abbiamo detto, supera o si crede superi la capacità umana.

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John Locke (1632-1704) La ragionevolezza del cristianesimo (1695)

lingua originale: inglese

edizione di riferimento: G. Ewing, Regnery Publishing, Washington (DC), 1965 tr. it. R. Davies

141. A questo scopo e metodo di pubblicare il Vangelo1 la scelta degli Apostoli era esattamente aggiustata – una compagnia di uomini poveri, ignoranti e analfabeti che, come dice il Cristo stesso Matt. 11:25 e Luca 10:21, non erano dei ‘saggi e prudenti’ uomini del mondo; erano, sotto questo aspetto, meri bambini. Questi, convinti dai miracoli che vedevano ogni giorno e dalla vita irreprensibile che conduceva, potevano essere disposti a credere che fosse il Messia; e nonostante loro e altri aspettassero un regno temporale sulla terra, potevano rimanere soddisfatti della verità del loro Maestro (che li aveva onorati con la vicinanza del suo corpo) che esso sarebbe venuto, senza indagare troppo il tempo, la maniera o la sede del suo regno, a differenza di uomini letterati, più istruiti nelle scritture, o di uomini di affari, più pratici del mondo, che sarebbero stati più pronti a fare. Uomini grandi o saggi di conoscenza o delle vicende mondane non si sarebbero trattenuto dal curiosare più particolarmente nel suo piano e nella sua condotta, né dal interrogarlo sui modi e i mezzi per ascendere al trono, e le misure da adottare per questo, e i tempi per agire sul serio a questo scopo. Uomini più esperti, di stirpe o di pensiero più alto non sarebbero stati ostacolati dal mormorare, almeno ai loro amici e parenti, che il loro Maestro era il Messia e, nonostante si nascondesse in attesa dell’occasione giusta e del momento opportuno, comunque dovevano tra non molto vederlo uscire dalla sua oscurità, liberarsi dal suo nuvolo e dichiararsi, com’era, il Re di Israele. Viceversa l’ignoranza e l’umiltà di questi uomini buoni e poveri conferivano loro un’altra disposizione. Lo seguivano con una fiducia implicita in lui, puntualmente eseguendo i suoi ordini e non eccedendo alla sua commissione. Quando li mandava a predicare il vangelo, richiedeva loro di predicare la vicinanza del ‘regno di Dio’; ed è questo che facevano, senza essere più dettagliati di quanto non avesse ordinato e senza mescolare la propria prudenza con i suoi comandi, per promuovere il regno del Messia. Lo predicavano senza dichiarare, e nemmeno intimare, che il loro Maestro fosse Colui, cosa che uomini di un’altra condizione, o di più alta istruzione, avrebbero a malapena omesso di fare. Quando chiedeva loro chi credevano che egli fosse, e Pietro rispose ‘il Messia, il Figlio di Dio’, Matt. 16:16, mostra chiaramente nelle parole seguenti che egli stesso non l’aveva detto questo, e allo stesso tempo, versetto 20, vieta loro scoprire questa loro opinione a chiunque. Possiamo desumere la loro obbedienza in questo non solo dal silenzio degli Evangelisti riguardante un’eventuale loro dichiarazione in tal senso, ma anche dalla esatta ottemperanza di tre di loro a un suo comando a riguardo. Porta Pietro, Giacomo e Giovanni su una montagna e lì, apparsi Mosè e Elia, egli viene trasfigurato davanti a loro, Matt. 17:9. Egli dà loro quest’ordine: ‘Non parlate a nessuno di questa visione, finché il Figlio dell'uomo non sia risuscitato dai morti’. E Luca 9:36 ci dice quanto erano osservanti puntuali dei suoi ordini in questo caso: ‘essi tacquero, e in quei giorni non raccontarono nulla a nessuno di ciò che avevano visto’. 142. Lascio ad altri considerare se altri dodici uomini, di maggiori capacità o di classe o stirpe che poteva dare loro una stima di se stessi e delle loro abilità, sarebbero stati così facilmente trattenuti dall’interferire oltre a quanto prescritto loro in una vicenda in cui erano così interessati e non avrebbero detto niente di ciò che, adoperando la prudenza umana, avrebbero 1 [Ossia di preparare gli Ebrei ‘per gradi’ al messaggio che ‘Gesù è il Messia’ – nota di Davies]

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potuto pensare contribuisse alla reputazione del loro Maestro e aprisse la strada all’avanzamento del suo regno. E potrebbe essere oggetto di meditazione se San Paolo non fosse, in virtù della sua erudizione, del suo genio e del suo temperamento caloroso, meglio adatto ad essere un apostolo dopo anziché durante il ministero del nostro Salvatore, e perciò (benché uno strumento scelto) non fosse chiamato dalla saggezza divina solo dopo la resurrezione di Cristo. 143. Offro questo solo come argomento per enfatizzare il disegno ammirevole della saggezza divina in tutta l’opera della nostra redenzione, nella misura in cui siamo in grado di tracciarla nelle orme che Dio ha reso visibili alla ragione umana. Poiché, sebbene sia tanto facile per l’Onnipotente di fare tutte le cose con un’immediata volontà prevalente [overruling] e così di far funzionare qualunque strumento, anche contro la propria natura, in subordinazione ai Suoi scopi, cionondimeno la Sua saggezza non sostiene generalmente il costo (se posso dire così) di miracoli, ma solo in casi che li richiedono per evidenziare che una determinata rivelazione o missione sia partita da Lui. Egli costantemente compie i suoi scopi per mezzi operanti in sintonia con le loro nature (tranne in casi in cui la conferma di qualche verità richieda il contrario). Se non fosse così, il corso e l’evidenza delle cose sarebbe confuso; i miracoli perderebbero il loro nome e la loro forza; e non potrebbe essere nessuna distinzione tra naturale e sovrannaturale.

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Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) Discorso di metafisica (1686)

lingua originale: francese edizione di riferimento: C.I. Gerhardt, Philosophischen Schriften (7 voll.) Berlino, 1875-90

tr. it. M. Mugnai, Laterza, Bari-Roma, 1986 6. Le volontà, o azioni, di Dio si sogliono dividere in ordinarie e straordinarie: ma è bene tener presente che Dio non fa nulla fuori dell’ordine [ordre]. Ciò che passa per straordinario, è tale solo rispetto a qualche ordine particolare stabilito tra le creature; quanto all’ordine universale, tutto è conforme ad esso. Ciò è tanto vero che, non soltanto nel mondo non capita nulla che sia assolutamente irregolare, ma neppure ci si riesce a fingere qualcosa di simile. Supponiamo, ad esempio, che qualcuno segni una quantità di punti sulla carta, del tutto a caso, come fanno coloro che esercitano la ridicola arte della geomantica: affermo che è possibile trovare una linea geometrica, la cui nozione [notion] sia costante e uniforme secondo una certa regola [règle], in modo che detta linea passi attraverso tutti quei punti, e nello stesso ordine in cui la mano li ha segnati. Se qualcuno tracciasse una linea continua che sia ora dritta, ora curva, ora d’un’altra natura, è ancora possibile trovare una nozione o regola, o equazione [équation] comune a tutti i punti di detta linea, in base alla quale proprio quei mutamenti si debbono verificare. E non c’è volto il cui contorno non faccia parte di una linea geometrica, e non possa essere tracciato d’un sol tratto con un certo movimento secondo una regola. Ma quando una regola è molto complessa, ciò che le è conforme è creduto irregolare. Così possiamo dire che in qualsiasi modo Dio avesse creato il mondo, questo sarebbe sempre stato regolare, e racchiuso in un certo ordine generale. Ma Dio ha scelto il più perfetto, cioè quello che è, al tempo stesso, più semplice quanto a ipotesi, e più ricco dí fenomeni: come potrebbe essere una linea geometrica la cui costruzione sia facile, e le cui proprietà ed effetti molto interessanti ed estesi. Mi servo di questi paragoni per dare uno schizzo imperfetto della saggezza divina, tale che possa almeno elevare il nostro spirito a concepire in qualche modo ciò che non si può esprimere sufficientemente: ma con ciò non pretendo di spiegare questo grande mistero da cui dipende tutto l’universo. 7. Poiché dunque non si può fare nulla che non sia nell’ordine, possiamo dire che anche i miracoli non sono meno nell’ordine che le operazioni naturali, chiamate cosi perché conformi a talune regole subordinate, che chiamiamo natura delle cose. Di questa natura si può dire che non è altro che un’abitudine di Dio, di cui egli si può dispensare in vista di una ragione più forte di quella che l’ha spinto a servirsi di quelle regole. Quanto al carattere generale o particolare della volontà, si può dire, a seconda di come consideri la cosa, che Dio fa tutto secondo la sua volontà più generale, che è conforme all’ordine perfettissimo da Lui scelto, oppure anche che Egli ha volontà particolari, che sono eccezioni a quelle regole subordinate di cui si è detto: perché la più generale de leggi di Dio, che regola il tutto dell’universo, non soffre eccezioni. Sí può dire, anche, che Dio vuole tutto ciò che è oggetto della sua volontà particolare, quanto invece agli oggetti della sua volontà generale quali le azioni delle altre creature, e particolarmente, di quelle ragionevoli, a cui Dio vuole cooperare, occorre distinguere: se l’azione è buona in se stessa, si può dire che Dio la vuole e la comanda comunque, che quando essa non si verifichi; ma se essa è cattiva in se stessa, e non diviene buona che per accidente (perché il seguito degli avvenimenti, e in particolare, il castigo e il premio, correggono la sua malvagità e ne compensano il male a usura, per cui alla fine si trova maggiore perfezione nell’insieme che se tutto quel male non fosse accaduto) allora si deve dire che Dio la permette, non che la vuole, nonostante che vi cooperi attraverso le leggi di natura che ha stabilite, e in quanto sa trarne un bene maggiore.

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Joseph Butler (1692-1752) Analogia della religione (1736)

lingua originale: inglese

edizione di riferimento: D.E. White, Rochester UP (NY) 2006 tr. it. R. Davies

Parte II (‘Della religione rivelata’) cap. ii (‘Del presunto onere di prova contro una rivelazione considerata come miracolosa’) III. Ma si potrebbe ancora obiettare che sussista un particolare onere [presumption], basato sull’analogia, contro i miracoli, e in particolare contro la rivelazione dopo lo stabilimento e la continuazione del corso della natura [course of nature]. Per quanto riguarda questo presunto onere, bisogna osservare in generale che, prima di avere motivo per suscitare un ragionamento propriamente detto dall’analogia a favore di o contrario ad una rivelazione considerata come qualcosa di miracoloso, dobbiamo essere a conoscenza di un caso similare o parallelo. Ma la storia di qualche altro mondo, apparentemente simile al nostro, non è altro che un caso parallelo; e quindi niente di più forte può essere adotto. Eppure, se potessimo arrivare a una prova probabile a favore di o contrario ad una rivelazione a partire da informazioni riguardanti la presenza di una in tale mondo, una prova simile, essendo basata su un caso solo, sarebbe infinitamente precaria. Più nel particolare: In primo luogo, sussiste un onere forte contro le verità speculative comuni e contro la maggior parte dei fatti ordinari, prima di prove al loro favore; ma quasi qualsiasi prova riesce a superarlo. Sussiste un onere di milioni a uno contro la storia di Cesare o di qualsiasi uomo. Se infatti supponiamo che ci viene in mente una serie di fatti comuni in queste e quest’altre circostanze ma di cui non abbiamo nessun tipo di prova, tutti concluderebbero senza dubbio che fossero falsi. E la stessa cosa dicasi di un fatto comune preso da solo. Da qui appare che la questione dell’importanza della vicenda che stiamo indagando riguardi più il grado del presunto onere particolare contro i miracoli che la sussistenza di un onere particolare a loro sfavore. Questo perché, se sussiste un onere di milioni a uno contro i fatti più comuni, a cosa può ammontare un piccolo onere aggiunto, pur particolare? Esso non può essere calcolato ed è come inesistente. L’unica questione importante è la sussistenza o meno di un tale onere contro i miracoli tale da renderli in ogni caso incredibili. In secondo luogo, se lasciamo la Religione fuori dalle nostre considerazioni, rimaniamo in un buio così totale sulle cause, occasioni, ragioni e circostanze sulle quali dipende l’attuale corso della natura, che non sembra sussistere nessuna improbabilità nella supposizione che cinque o sei mila anni potevano fornire possibilità per cause, occasioni, ragioni o circostanze a partire dalle quali potevano sorgere interposizioni miracolose. E da qui, congiunta all’osservazione precedente, consegue che deve sussistere un onere incomparabilmente più grande contro i comuni fatti particolari appena menzionati di quanto non sussista contro i miracoli in generale, prima della raccolta di prove a favore degli uni e degli altri. Ma, in terzo luogo, se prendiamo in considerazione la Religione o il sistema morale del mondo, allora vediamo ragioni distinte e particolari per i miracoli, ossia di fornire al genere umano istruzione aggiunta a quella della natura e di attestarne la verità. Poi, in ultimo luogo, i miracoli non devono essere paragonati a comuni avvenimenti naturali, o ad avvenimenti che, pur essendo poco comuni, sono simili alla nostra esperienza quotidiana; vanno invece paragonati ai fenomeni straordinari della natura. In quel caso, il paragone sarà tra l’onere contro i miracoli e l’onere contro tali apparenze poco comuni, come per esempio le

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comete, e contro la presenza in natura di poteri come il magnetismo e l’elettricità che sono tanto contrari alle proprietà di altri corpi che non sono dotati di questi poteri. E prima di poter determinare se sussista o meno un onere peculiare contro i miracoli, più forte di quello contro altre cose straordinarie, dobbiamo considerare quello che sarebbe l’onere contro queste ultime apparenze e poteri al primo incontro di una persona a conoscenza solo del quotidiano, mensile e annuale corso della natura, e dei poteri comuni della materia che vediamo ogni giorno. Da tutto questo concludo: che certamente non sussista nessun onere particolare contro i miracoli tale da renderli in nessun modo incredibili; che, al contrario, la nostra capacità di discernerne le ragioni fornisca alla loro storia una credibilità positiva nei casi in cui sussistono quelle ragioni; e che non sia affatto certo che sussista nessun, neanche minimo, onere particolare derivante dall’analogia contro i miracoli distinto da quello contro altri fenomeni straordinari. Ciononostante non vale la pena confondere chi legge con indagini sulla natura astratta delle prove per decidere una questione che, in assenza di tali indagini, vediamo essere di nessuna importanza.

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David Hume (1711-76) Ricerca sull’intendimento umano (1748)

lingua originale: inglese edizione di riferimento: P.H. Nidditch, Clarendon, Oxford 1975

tr. it. M. Doni, Medusa, Milano 2005 Sezione X: Sui miracoli Parte I 86 C’è, negli scritti del Dr. Tillotson, un argomento contro la vera presenza, che è quanto di più conciso, elegante e forte possa essere un argomento contro una dottrina così poco degna di una seria confutazione. È d’ogni parte ammesso, dice il dotto prelato, che l’autorità della Scrittura o della tradizione sia fondata meramente sulla testimonianza degli apostoli, che furono testimoni oculari dei miracoli del Salvatore mediante i quali egli diede prova della sua divina missione. Dunque l’evidenza di cui disponiamo circa la verità della religione Cristiana è inferiore rispetto a quella che riguarda la verità dei nostri sensi, dato che non fu maggiore neppure nei primi autori della nostra religione; ed è evidente che debba diminuire nel passaggio da essi ai loro discepoli: ecco che nessuno può confidare nella loro testimonianza come nell’oggetto immediato dei propri sensi. Ma un’evidenza più debole non può mai distruggerne una più forte, pertanto anche se la dottrina della vera presenza fosse stata così chiaramente rivelata nella Scrittura, sarebbe del tutto contrario alle leggi di un ragionamento corretto dare il nostro assenso ad essa. Essa contraddice i sensi, perché tanto la Scrittura quanto la tradizione, su cui si suppone sia stata costruita, non costituiscono un’evidenza paragonabile ai sensi, quando le si consideri meramente come evidenze esteriori, e non siano riposte nel cuore di ciascuno dall’intervento immediato dello Spirito Santo. Niente è così opportuno come un argomento decisivo di questo tipo, in grado finalmente di zittire le bigotterie e le superstizioni più arroganti, e di liberarci dalle loro impertinenti insistenze. Mi compiaccio di aver scoperto un argomento di tal fatta che, se corretto, sarà, per i savi e i dotti, un eterno freno a tutti i generi di illusione superstiziosa, e, di conseguenza, sarà sempre di grande utilità, finché reggerà il mondo; per tanto tempo infatti, presumo, i racconti di miracoli e prodigi si troveranno in ogni storia, sacra e profana. 87 Benché l’esperienza sia la nostra sola guida nel ragionare sui dati di fatto, occorre riconoscere che non è del tutto infallibile, anzi in qualche caso tende ad indurci in errore. Uno che nel nostro clima si aspettasse un tempo migliore in una settimana di giugno piuttosto che in una di dicembre, ragionerebbe in modo giusto e conforme all’esperienza; ma ovviamente gli può capitare di sbagliarsi. Come che sia, possiamo osservare che in un caso simile egli non avrebbe motivo di prendersela con l’esperienza, perché essa solitamente ci informa in anticipo dell’incertezza per via del contrasto degli eventi che possiamo apprendere da un’attenta osservazione. Non tutti gli effetti derivano linearmente dalle loro presunte cause. Alcuni eventi, in ogni paese ed epoca, sembrano essere collegati insieme; altri paiono variare maggiormente, e talvolta tradiscono le nostre aspettative, così che nei nostri ragionamenti sui dati di fatto ci sono tutti i gradi immaginabili di sicurezza, dalla più alta certezza alle specie più basse di evidenza morale. Un uomo saggio, pertanto, mette in proporzione la sua credenza con l’evidenza. Quando le conclusioni sono tali da essere fondate su un’esperienza infallibile, egli si attende l’evento con l’estremo grado di sicurezza, e guarda la sua esperienza passata come una perfetta prova dell’esistenza futura di quell’evento. In altri casi, egli procede con più cautela: soppesa le esperienze contrarie, considera quale parte sia supportata dal maggior numero di esperienze, propende per quella parte con dubbio ed esitazione, e quando alla fine prende una decisione, l’evidenza non oltrepassa ciò che propriamente chiamiamo probabilità. Ogni probabilità, poi,

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suppone una contrapposizione di esperienze e di osservazioni, nelle quali una parte appare preponderante rispetto all’altra, producendo un grado di evidenza proporzionato al grado di superiorità. Cento esempi o esperienze da una parte e cinquanta dall’altra, comportano un’aspettativa dubbiosa di un evento; ovvio che cento esperienze uniformi, a fronte di una sola che fosse contraddittoria, genererebbero ragionevolmente un grado ben alto di sicurezza. In ogni caso dobbiamo bilanciare le esperienze contrapposte, là dove sono contrapposte, e sottrarre il numero minore dal maggiore, per conoscere la forza esatta dell’evidenza superiore. 88 Applicando questi principi a un caso particolare, possiamo osservare che non c’è specie di ragionamento più comune, più utile e finanche necessaria alla vita umana, di quella che derivi dalla testimonianza degli uomini e dai rapporti tra testimoni oculari e spettatori. Si può forse negare che questa specie di ragionamento sia fondata sulla relazione di causa ed effetto. Non intendo cavillare. Sarà sufficiente osservare che il solo principio da cui derivi la nostra sicurezza riguardo a qualsiasi argomento di tal fatta è la nostra osservazione della veridicità della testimonianza umana, e la costante conformità dei fatti rispetto ai resoconti dei testimoni. Essendo universale la regola secondo la quale nessun oggetto può avere un legame evidente con un altro, e che tutte le inferenze che si possono trarre dall’uno all’altro sono meramente fondate sul nostro esperire la loro costante e regolare correlazione, è chiaro che non possiamo fare un’eccezione a questa regola per quanto concerne la testimonianza umana, il cui legame con un evento sembra, in sé stesso, tanto poco necessario quanto qualunque altro. Se la memoria non avesse una certa misura di tenuta, se gli uomini non fossero per natura inclini alla verità e a un principio di probità, se non fossero sensibili alla vergogna, quando colti in fallo, e se le virtù non fossero, dico, qualità scoperte per esperienza inerenti alla natura umana, non dovremmo mai riporre la minima fiducia nella testimonianza umana. Un uomo delirante, o noto per la sua falsità e scelleratezza, non esercita alcuna autorità su di noi. E come l’evidenza derivata dalla testimonianza umana e dai testimoni è colta dall’esperienza passata, così essa varia con l’esperienza, e la si può considerare come una prova o come una probabilità, a seconda che il legame tra un particolare resoconto e un oggetto sia stato considerato costante o variabile. Ci sono moltissime circostanze da prendere in considerazione in ogni giudizio di questo tipo e il modello ultimo con il quale decidiamo ogni disputa che sorga riguardo a questioni del genere, è sempre tratto dall’esperienza e dall’osservazione. Là dove tale esperienza non sia interamente uniforme in ogni sua parte, ciò comporta un’inevitabile contraddittorietà dei nostri giudizi, e con la stessa contrapposizione e mutua distruzione degli argomenti che si verifica in ogni altro genere di evidenza. Di frequente esitiamo di fronte ai resoconti altrui. Bilanciamo le opposte circostanze che cagionano dubbi o incertezze; e quando avvertiamo il prevalere di una parte, propendiamo per questa, ma ancora con un grado di sicurezza debole, proporzionato alla forza della parte avversa. 89 Questa contraddittorietà di evidenza, nel presente caso, può essere derivata da parecchie cause differenti: dal susseguirsi di testimonianze contraddittorie, dalla maniera in cui tali testimonianze sono riportate o dall’insieme di tutte queste circostanze. I nostri sospetti riguardo a qualunque dato di fatto si attivano quando i testimoni si contraddicano l’un l’altro, quando essi siano una ristretta minoranza, o la loro indole sia di dubbia credibilità, quando essi tradiscano un interesse in ciò che affermano, quando pronuncino la loro testimonianza con esitazione, o al contrario con modalità eccessivamente concitate. Ci sono molti altri casi particolari del medesimo genere in grado di sminuire o distruggere la forza di un argomento derivato dalla testimonianza umana. Supponiamo, per esempio, che il fatto che la testimonianza si sforza di avvalorare abbia a che fare con lo straordinario o il meraviglioso; in tal caso, l’evidenza risultante dalla

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testimonianza risulterà sminuita, in grado maggiore o minore a seconda che il fatto sia più o meno inusuale. Il motivo per cui noi diamo credito ai testimoni e agli storici non è derivato da un qualche legame, che noi percepiamo a priori, tra la testimonianza e la realtà, ma perché siamo abituati a trovare, tra queste ultime, una conformità. E però quando il fatto attestato è tale da capitare raramente al cospetto della nostra osservazione, si apre un divario tra due esperienze contrapposte, delle quali una distrugge l’altra, nella misura in cui glie lo consente la sua forza, e solo la superiore può agire sulla mente con la forza che le resta. L’identico principio di esperienza che ci dà un certo grado di sicurezza nel resoconto di testimoni, ci dà anche, in questo caso, un altro grado di sicurezza contro il fatto che si sforza di avvalorare, dalla cui contraddizione non può che sorgere un disequilibrio, nonché la reciproca distruzione di credenza e autorità.. Non crederei a una storia simile neppure se mi venisse raccontata da Catone, era un proverbio che si diceva a Roma, anche al tempo in cui quel patriota filosofo era in vita1. L’incredibilità di un fatto, si pensava, poteva invalidare una così grande autorità. Il principe indiano che si rifiutava di credere ai primi resoconti sugli effetti del gelo, ragionava correttamente; il che ovviamente richiese una testimonianza molto forte per motivare il suo assenso nei confronti di fatti che provenivano da uno stato di natura di cui egli non era al corrente e tanto dissimile agli eventi di cui aveva esperienza costante ed uniforme. Benché non si trattasse di storie contrarie alla sua esperienza, non erano comunque conformi ad essa2. 90 Ma per accrescere la probabilità di contro alle dichiarazioni dei testimoni, poniamo che il fatto che essi affermano, anziché essere solo meraviglioso, sia anche miracoloso; e supponiamo anche che la testimonianza in sé valga come una prova completa; in quel caso, c’è una prova contro una prova, la più forte delle quali deve prevalere, seppure con una diminuzione della sua forza, proporzionata a quella della sua parte avversa. Un miracolo è una violazione delle leggi della natura; e se queste leggi sono state fissate da un’esperienza stabile e inalterabile, la prova contro un miracolo, tratta dalla natura stessa dei fatti, è tanto esaustiva quanto qualsiasi argomento che si possa immaginare tratto dall’esperienza. Per quale motivo è più che probabile che tutti gli uomini debbano morire, che il piombo non possa, da solo, restare sospeso per aria, che il fuoco bruci la legna e che si spenga con l’acqua, se non perché questi eventi si trovano in accordo con le leggi di natura? E non è dunque necessaria una violazione di queste leggi, o in altre parole un miracolo, per negarli? Niente è stimato un miracolo se accade nel comune corso della natura. Se capita che un uomo, apparentemente in buon salute, muoia all’improvviso, non siamo di fronte a un miracolo: perché si è già visto molte volte che questo tipo di morte, benché più insolita di ogni altra, è stato frequentemente osservato. È invece un miracolo che un morto torni in vita,

1 Plutarco, Vita di Catone. 2Nessun Indiano, è evidente, poteva avere esperienza che l’acqua non gela nei climi freddi; si tratta di eventi naturali che accadono in una situazione del tutto ignota per lui, ed è impossibile trarne a priori le conseguenze. In un esperimento nuovo, gli esiti sono sempre incerti. Si può talvolta congetturare per analogia riguardo a ciò che seguirà; ma anche questo altro non è che congettura. E si deve ammettere, nel caso del congelamento dell’acqua, che l’evento contraddice l’analogia, ed è tale che un Indiano, per quanto munito di raziocinio, non potrebbe dedurlo. L’azione del freddo sull’acqua non è graduale secondo i gradi del freddo: al momento in cui giunge al punto di congelamento, l’acqua passa all’istante dall’estrema liquidità alla perfetta solidità. Un simile evento, pertanto, può essere considerato straordinario, e richiede una testimonianza decisamente forte affinché sia reso credibile alle persone che abitano in climi caldi: ma ancora non si tratta di un fatto miracoloso, né contrario all’esperienza uniforme del corso della natura in casi in cui tutte le circostanze sono le stesse. Gli abitanti di Sumatra hanno sempre visto l’acqua liquida nel loro clima, e il congelamento dei loro fiumi sarebbe considerato da essi un prodigio: non hanno mai visto le acque della Moscovia in inverno, e pertanto non possono ragionevolmente ipotizzare una conseguenza.

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perché questo non si è mai visto in nessun’epoca e paese. Ci deve essere, pertanto, un’esperienza uniforme contro ogni evento miracoloso, altrimenti l’evento non meriterebbe quell’appellativo. E siccome un’esperienza uniforme vale come una prova, abbiamo una prova diretta e completa, tratta dalla natura dei fatti, contro l’esistenza di qualunque miracolo; una tale prova non può essere distrutta, né il miracolo può essere reso credibile, a meno che non si dia una prova contraria che sia superiore3. 91 La conseguenza palese (e si tratta di una massima generale degna della nostra attenzione) è che ‘Nessuna testimonianza è sufficiente a stabilire un miracolo, a meno che la testimonianza sia di un genere tale da rendere la sua falsità più miracolosa del fatto che tenta di avvalorare; e anche in quel caso c’è una reciproca distruzione degli argomenti, e solo la parte superiore ci dà una sicurezza pari a quel grado di forza che resta dopo aver soppiantato l’inferiore’. Quando qualcuno mi dice di aver visto un morto restituito alla vita, mi chiedo immediatamente se questa persona sia ingannatrice o sia stata ingannata, oppure se il fatto che essa riporta sia realmente accaduto. Peso un miracolo contro l’altro, e secondo la superiorità che scopro, pronuncio la mia decisione e rigetto sempre il miracolo maggiore. Se la falsità di questa testimonianza fosse più miracolosa dell’evento che essa riporta, allora e solo allora egli potrebbe pretendere di influenzare la mia credenza o la mia opinione. Parte II 92 Nel precedente ragionamento abbiamo supposto che la testimonianza su cui è fondato un miracolo, possa valere come una prova completa, e abbiamo posto il caso che la falsità di tale testimonianza comporti un vero prodigio: ma è facile notare che siamo stati eccessivamente indulgenti nella nostra concessione, e che non ci fu mai un evento miracoloso fondato su una evidenza così piena. Innanzitutto in tutta la storia non si è trovato un miracolo attestato da un numero di individui di indiscutibile buon senso, educazione e istruzione, che bastasse ad assicurarci contro ogni inganno; individui di tale indubbia integrità da porli al di là di ogni sospetto di mira fraudolenta; di tale credito e reputazione agli occhi del genere umano, da avere molto da perdere nel caso fossero colti in flagrante falsità; e allo stesso tempo, attestanti fatti compiuti in una maniera talmente pubblica e in una parte del mondo così nota, da rendere inevitabile il controllo: tutte queste circostanze sono i requisiti necessari per una dare completo assenso alla testimonianza umana. 93 In secondo luogo. Possiamo osservare nella natura umana un principio che, se strettamente esaminato, sarà trovato sminuire enormemente la sicurezza che potremmo trarre dalla testimonianza umana riguardo ad ogni genere di prodigio. La regola con la quale ci

3 Talvolta un evento può, in sé stesso, sembrare non contrario alle leggi di natura, e tuttavia, se fosse reale, potrebbe, a motivo di qualche circostanza, essere considerato un miracolo, perché, di fatto, è contrario a quelle leggi. Per esempio se una persona, vantando un’autorità divina, comandasse a un malato di guarire, alle nuvole di piovere, ai venti di soffiare – in breve, se ordinasse che svariati eventi naturali si sottomettano immediatamente al suo comando – si potrebbe a ragione gridare al miracolo, perché in questo caso saremmo di fronte realmente a eventi contrari alle leggi di natura. Infatti se sussiste un sospetto che la coincidenza tra l’evento e il comando sia stata casuale, non c’è nessun miracolo e nessuna trasgressione delle leggi di natura. Se tale sospetto viene rimosso, c’è evidentemente un miracolo e una trasgressione di queste leggi, dato che nulla può essere più contrario alla natura del fatto che la voce e l’ordine di un uomo abbiano un simile potere. Un miracolo può essere accuratamente definito una trasgressione di una legge di natura da parte di una particolare volontà del Divino, o per l’interposizione di qualche agente invisibile. Un miracolo può essere scoperto dagli uomini oppure no. Ciò non altera la sua natura ed essenza. L’innalzarsi di una casa o di una barca per aria è un evidente miracolo. L’innalzarsi di una piuma, quando il vento non soffi nemmeno per quel minimo che basti a per sollevarla, è parimenti un miracolo, benché non così sensibile ai nostri occhi.

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orientiamo comunemente nei nostri ragionamenti è che gli oggetti di cui non abbiamo esperienza assomigliano a quelli di cui invece ne abbiamo; che ciò che abbiamo trovato assolutamente usuale è sempre assolutamente probabile; e che dove c’è una contrapposizione di argomenti, dobbiamo dare la preferenza a quelli che sono fondati sul maggior numero di osservazioni passate. Ma benché, seguendo questa regola, rifiutiamo prontamente qualunque fatto che sia inusuale e incredibile in un grado ordinario, tuttavia proseguendo, la mente non sempre osserva la stessa regola: quando è di fronte a una cosa del tutto assurda e miracolosa, essa è disposta ad ammettere ancora più prontamente un tale fatto, sulla base del valore di quella stessa circostanza che dovrebbe distruggere tutta la sua autorità. La passione per la sorpresa e la meraviglia che scaturiscono dai miracoli, è un’emozione gradevole e comporta una sensibile tendenza a credere a quegli eventi dai quali è derivata. E questo in una misura così ampia che anche coloro che non riescono a condividere questo piacere immediatamente, né possono credere a quegli eventi miracolosi di cui essi vengono messi al corrente, tuttavia non disdegnano di partecipare a una soddisfazione di seconda mano o di rimbalzo, e si riempiono di orgoglio e di diletto nell’eccitare l’ammirazione altrui. Con quale avidità si assiste ai racconti miracolosi dei viaggiatori, alle loro descrizioni di mostri di terra e di mare, alle loro storie di avventure meravigliose, di strani uomini e di maniere rozze! Ma se lo spirito della religione si accompagna all’amore del meraviglioso, è la fine del senso comune, e la testimonianza umana, in queste circostanze, perde ogni pretesa di autorità. Un religioso può essere un entusiasta ed immaginare di vedere ciò che non è reale: può sapere quanto sia falsa la sua storia, e tuttavia perseverare in essa con le migliori intenzioni del mondo, in nome della promozione di una causa tanto santa; o anche a prescindere da una tale illusione, la vanità eccitata da una tentazione così forte, opererebbe su di lui più potentemente che sul resto dell’umanità in qualunque altra circostanza; e con la stessa forza agisce su di lui l’interesse personale. I suoi uditori non possono avere, e comunemente non hanno, sufficiente giudizio per mettere alla prova la sua evidenza: quale che sia il loro giudizio, essi vi rinunciano per principio, trattandosi di questioni che toccano il sublime e il misterioso; e anche se fossero disposti ad giudicare, interverrebbero la passione e l’immaginazione surriscaldata a disturbare la regolarità dell’operazione. La loro credulità accresce la sua impudenza – e la sua impudenza soggioga la loro credulità. L’eloquenza, quando è al massimo grado, lascia poco spazio alla ragione o alla riflessione; indirizzando se stessa interamente sulla fantasia o sugli affetti, attrae gli astanti e sottomette il loro intelletto. Per fortuna è raro che si giunga a tanto. Ma ciò che un Tullio o un Demostene avrebbero potuto ottenere con gran fatica da un uditorio romano o greco, qualunque frate cappuccino, qualunque predicatore fisso o ambulante è in grado di farlo con tutti gli uomini e in una misura maggiore, facendo leva su passioni rozze e volgari. I molti esempi di profezie false e di eventi soprannaturali che, in ogni epoca, sono stati smentiti da prove contrarie o si sono smentiti da soli per la loro assurdità, sono prova sufficiente della forte propensione del genere umano allo straordinario e al meraviglioso, e devono far sorgere ragionevolmente un sospetto contro tutte le storie di tal genere. Questa è la via di pensiero che seguiamo secondo natura, anche rispetto agli eventi più comuni e più credibili. Per esempio: non c’è genere di storie che nasca più facilmente, e si diffonda più rapidamente, specialmente nelle campagne e nelle piccoli centri, di quella che riguarda i matrimoni, al punto che due giovani di eguale condizione non si possono far vedere insieme un paio di volte, che l’intero vicinato immediatamente li mette insieme. Il piacere di raccontare una notizia così interessante, di propagarla e di esserne il primo latore, diffonde la notizia stessa. E ciò è talmente risaputo che nessun uomo di buon senso dà credito a simili dicerie, finché non le trovi confermate da qualche maggiore evidenza. Non sono le stesse

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passioni, ed altre più forti, che spingono il genere umano a credere a tutti i miracoli religiosi e a riferirli con la massima veemenza e sicurezza? 94 In terzo luogo. Costituisce un forte presupposto contro ogni resoconto che tratti di eventi sovrannaturali e miracolosi il fatto che a quanto pare questi abbondino principalmente nelle nazioni ignoranti e barbare, o quand’anche un popolo civilizzato ne abbia mai ammesso qualcuno, sarà facile mostrare come quel popolo l’abbia ricevuto da antenati ignoranti e barbari, che lo trasmisero con quella sanzione e quell’autorità inviolabile che sempre si trovano nelle idee invalse. Quando leggiamo attentamente le prime storie di tutte le nazioni, tendiamo a figurarci trasportati in un nuovo mondo, dove la struttura stessa della natura è scombinata e ogni elemento compie le sue operazioni in un modo diverso da quello reale. Battaglie, rivoluzioni, pestilenze, carestie e morte non sono mai l’effetto delle cause naturali di cui abbiamo esperienza. Prodigi, presagi, oracoli, sentenze, oscurano del tutto i pochi eventi naturali che sono mescolati in essi. Ma man mano che, leggendo queste storie, ci avviciniamo alle epoche illuminate, apprendiamo sempre meglio come non vi sia nulla di misterioso o di soprannaturale nel caso, come tutto derivi dalla solita tendenza del genere umano verso il meraviglioso e come questa tendenza, benché di tanto in tanto possa essere messa alla prova dai sensi e dagli insegnamenti, non potrà mai essere definitivamente estirpata dalla natura umana. È strano, potrebbe dire un lettore giudizioso, alle prese con questi storici del meraviglioso, che simili eventi prodigiosi non accadano mai al giorno d’oggi. Ma non c’è nulla di strano, spero, nel fatto che in ogni epoca gli uomini mentano. Ne dovrete aver visti di esempi di questa debolezza! Avrete sentito voi stessi simili storie meravigliose che, trattate con derisione da tutti i saggi e i giudiziosi, sono state infine abbandonate anche dal volgo. Siate certi che quelle rinomate menzogne, che sono sorte e sviluppate fino a un tale culmine di mostruosità, nascono dagli stessi inizi; ma una volta seminate in un terreno più adatto, crebbero fino a diventare prodigi quasi uguali a quelli che riportano. Il falso profeta Alessandro, oggi dimenticato, ma un tempo assai famoso, adottò una politica saggia, ponendo la prima scena delle sue imposture in Paflagonia, dove, come ci dice Luciano, la gente era estremamente ignorante e stupida e pronta a bersi qualunque frottola, per grande che fosse. Un popolo distante, debole e rozzo quanto basta per pensare di poter sottoporre a controllo questi fatti, non ha opportunità di ricevere migliori informazioni. Le storie gli giungono ingrandite da centinaia di aneddoti. Gli stolti si industriano a propagare l’impostura; mentre i saggi e i dotti si accontentano di deriderne l’assurdità, senza dar conto dei fatti particolari con i quali la si potrebbe puntualmente smentire. E così a partire dalla credulità dei Paflagoniani, l’impostore summenzionato si guadagnò del credito perfino tra i filosofi greci e tra uomini del più alto rango e onore in Roma: anzi, poté attrarre l’attenzione di quel saggio imperatore che fu Marco Aurelio, al punto da fargli credere che il successo di una spedizione militare fosse dovuto alle sue vane profezie. I vantaggi di diffondere un’impostura presso un popolo ignorante sono così grandi che, anche se la frottola fosse troppo grossolana per imporsi a tutti i suoi membri (il che, benché raramente, talvolta accade), essa detiene molte più possibilità di successo in paesi lontani che non se dovesse principiare in città famose per le arti e le scienze. Il più ignorante e barbaro di questi barbari fa girare la notizia fuori dal paese. Nessuno dei suoi concittadini ha una gran prontezza, o sufficiente credito e autorità per contraddire e svelare la frottola. La tendenza degli uomini al meraviglioso ha buon gioco nel diffondersi. E così una storia che è stata universalmente rigettata nel posto in cui aveva attecchito per la prima volta, passerà per certa a un centinaio di miglia di distanza. Ma se Alessandro avesse fissato la sua residenza ad Atene, i filosofi di quella rinomata piazza di dottrine avrebbero immediatamente diffuso in tutto l’impero romano il loro parere sulla questione, che, essendo supportato da siffatta

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autorità, ed argomentato con tutta la forza della ragione e dell’eloquenza, avrebbe affatto aperto gli occhi dell’umanità; Luciano, passando per caso in Paflagonia, ebbe una buona opportunità di compiere questa buona azione. Ma per quanto lo si desideri non sempre accade che un Alessandro incontri un Luciano pronto a smascherare e a sconfessare le sue imposture. 95 Posso aggiungere come quarto motivo che sminuisce l’autorità dei prodigi, che non c’è alcuna testimonianza, anche tra quelle che non sono state espressamente smascherate, che non sia contraddetta da un numero infinito di testimoni; così che non solo il miracolo distrugge il credito della testimonianza, ma la testimonianza si distrugge da sé. Per meglio comprendere, si consideri che nel campo della religione un argomento diverso diventa immediatamente contrario; e dunque pare impossibile che le religioni dell’antica Roma, della Turchia, del Siam e della Cina abbiano, ciascuna di esse, un fondamento solido. Ogni miracolo, pertanto, che si pretendeva compiuto in una di queste religioni (e tutte abbondano di miracoli) come aveva per scopo immediato quello di fissare il sistema particolare a cui era legato, così esercitava la stessa forza, benché meno immediata, nel contraddire ogni altro sistema. Nel distruggere un sistema rivale, egualmente distrugge il credito verso i miracoli su cui quel sistema era fondato; ecco che tutti i prodigi delle diverse religioni sono da considerarsi fatti contraddittori, e le evidenze di questi prodigi, siano esse deboli o forti, contrapposte l’una all’altra. Secondo questo metodo di ragionamento, quando crediamo a un miracolo di Maometto o dei suoi successori, abbiamo per garanzia la testimonianza di qualche barbaro dell’Arabia: e d’altro canto dobbiamo tenere presente l’autorità di Tito Livio, Plutarco, Tacito e, in breve, di tutti gli autori e i testimoni greci, cinesi e cattolici romani che hanno riportato qualche miracolo nella loro specifica religione; io dico che dobbiamo considerare la loro testimonianza come se essi avessero citato un miracolo maomettano e lo avessero espressamente contraddetto con la stessa certezza che attribuiscono al miracolo di cui parlano. Questo argomento può sembrare troppo sottile e raffinato; ma in realtà non è diverso dal ragionamento di un giudice che suppone che il credito di due testimoni accusatori di un preseunto criminale sia distrutto dalla testimonianza di altri due che affermano di aver visto l’accusato a duecento leghe di distanza nel medesimo istante in cui si dice che il crimine sia stato commesso. 96 Uno dei miracoli meglio attestati in tutta la storia profana è quello che Tacito riporta riguardo a Vespasiano che ad Alessandria guarì un cieco con la sua saliva, e uno storpio semplicemente toccandolo con il piede; pare che il dio Serapide avesse ingiunto agli sventurati di invocare il soccorso dell’imperatore per ottenere cure miracolose. La vicenda è argutamente raccontata dallo storico4, in modo tale che ogni aneddoto sembra aggiungere peso alla testimonianza, e potrebbe essere inscenata e diffusa con tutta la forza dell’argomentazione e dell’eloquenza, se qualcuno oggi si preoccupasse di fare valere l’evidenza di quella superstizione sciocca e idolatra. Si tratta infatti di un imperatore noto per la solidità del suo carattere, severo, di età avanzata e saggio, uso alla franca conversazione con amici e uomini della corte, senza cedere mai alla tentazione di assumere arie di sacra divinità come Alessandro o Demetrio; e si tratta pure di uno storico famoso per la sua correttezza e veracità, per il suo acume penetrante, un genio forse tra i più grandi di tutta l’antichità, per di più così scevro da ogni tendenza alla credulità da meritare perfino l’accusa inversa, quella di ateismo e blasfemia; inoltre le autorità da cui egli attinge per riferire del miracolo sembrano avere provate caratteristiche di giustizia e sincerità, trattandosi di testimoni oculari del fatto, che confermarono la loro testimonianza dopo che la famiglia dei Flavii fu spogliata dell’impero e non poteva dare alcun compenso come prezzo di una menzogna. Utrumque, qui interfuere, nunc quoque memorant, postquam nullum mendacium

4 Tacito, Storia, IV, 81. Svetonio fornisce un racconto simile nella sua Vita di Vespasiano.

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pretium5 Se poi aggiungiamo la natura pubblica dei fatti, come ci viene raccontato, sembrerà che nessuna prova si possa supporre più forte di una tale grossolana e palpabile falsità. C’è anche una storia memorabile raccontata dal cardinale de Retz che può ben descrivere la nostra prospettiva. Quando quell’intrigante politico scappò in Spagna per sfuggire alla persecuzione dei suoi nemici, passò per Saragozza, la capitale dell’Aragona, e a quel punto si imbatté, nella cattedrale, in un uomo che aveva prestato l’incarico di portiere per sette anni e che era ben conosciuto in città a coloro che andavano a pregare in quella chiesa. Per tutto quel tempo lo si era visto senza una gamba; ma gli venne frizionato dell’olio santo sul moncherino, e il cardinale ci assicura che lo vide con due gambe. Questo miracolo fu esaminato secondo tutti i crismi della chiesa e l’intera comunità della città fu chiamata per una conferma del fatto; il cardinale trovò che ciascuno nella sua zelante devozione credeva profondamente nel miracolo. Qui anche il narratore, dall’indole tanto incredula e libertina quanto geniale, fu contemporaneo al presunto prodigio, un miracolo di tipo così singolare da consentire a malapena l’ipotesi di contraffazione; e vi furono tanti testimoni, ognuno dei quali, in qualche modo, spettatore del fatto di cui rendeva testimonianza. E ciò che aggiunge ulteriore forza all’evidenza, e che può raddoppiare la nostra sorpresa in questa occasione, è che il cardinale stesso, nel riferire la storia, sembra non darvi alcun credito, e di conseguenza non può essere sospettato di aver concorso alla pia frode. Egli considerò giustamente che non c’era modo, al fine di rifiutare un fatto di questa natura, di sconfessare la testimonianza e smascherarne la falsità, nonostante tutte le circostanze di furfanteria e credulità che produsse. Egli sapeva che, se un tal smascheramento era comunemente del tutto impossibile a brevi distanze di tempo e di spazio, a maggior ragione era estremamente difficile, anche nell’immediato presente, a motivo della bigotteria, dell’ignoranza, della furberia e della furfanteria di una gran parte del genere umano. Egli pertanto concluse, da ragionatore attento qual’era, che una tale evidenza era carica di falsità da qualunque lato la si guardasse, e che un miracolo supportato da una testimonianza umana era materia più propriamente di derisione che di argomentazione. Non ci fu mai certamente un numero maggiore di miracoli attribuiti a un singolo individuo di quelli che ultimamente si dice furono compiuti in Francia nei pressi della tomba dell’Abbé Paris, il famoso giansenista, con la cui santità il popolo per molto tempo si era fatto illusioni. La guarigione dei malati, la restituzione dell’udito ai sordi e della vista ai ciechi furono ovunque descritti come effetti di quella santa sepoltura. Ma ciò che più colpisce è che molti dei miracoli furono immediatamente provati sul posto, sotto gli occhi di giudici di incontestabile integrità, attestati da testimoni di credito e di rango, in un’epoca tutt’altro che barbara e nel palcoscenico più eminente che ci sia attualmente al mondo. E non è tutto: una relazione di essi fu pubblicata e diffusa ovunque; né i Gesuiti, benché siano un ordine dotto, sostenuti dal magistrato civile e decisi nemici delle opinioni che si schieravano a favore dei miracoli giansenisti, furono in grado di rifiutarli o confutarli6. Dove troveremo un tal numero

5 [Tacito, loc. cit., ‘quelli allora presenti ricordano entrambe le versioni, anche oggi quando una bugia non guadagna niente’ – nota di Davies] 6 Questo libro fu scritto da mons. Montgeron, consigliere o giudice del parlamento di Parigi, un uomo di autorità e carattere, che fu anche un martire della causa, visto che a quanto pare ora sarebbe da qualche parte in una cella sotterranea per via di questo libro. C’è un altro libro in tre volumi (intitolato Recueil des Miracles de l’Abbé Paris) che riporta molti di questi miracoli ed è accompagnato da una serie di prefazioni molto ben scritte. Letto nell’insieme, tuttavia, si trova un ridicolo paragone tra i miracoli di nostro Signore e quelli dell’Abbé; si afferma infatti che l’evidenza di questi ultimi sarebbe uguale a quella dei primi: come se la testimonianza degli uomini potesse mai essere messa sulla stessa bilancia di quella di Dio stesso, che guidò lo stilo degli scrittori ispirati. Se questi scrittori invero li si debba considerare meramente come umana testimonianza, l’autore francese è nicchia ed espone con molta prudenza il suo paragone, dal momento che egli potrebbe, non senza una qualche parvenza di ragione, far sì che i

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miracoli giansenisti sorpassino di gran lunga gli altri in evidenza e autorità. Gli aneddoti seguenti provengono da interventi autentici, inseriti nel summenzionato libro. Molti dei miracoli dell’Abbé Paris furono immediatamente comprovati da testimoni, alla presenza di pubblici ufficiali o della corte vescovile di Parigi, sotto gli occhi del cardinal Noailles, la cui integrità morale e capacità intellettuale non fu mai messa in dubbio, neppure dai suoi nemici. Il suo successore nell’arcivescovado era un nemico dei giansenisti e per questa ragione fu promosso alla diocesi dalla corte. Ben ventidue parroci o curés di Parigi, con infinite insistenze, fecero pressione affinché esaminasse quei miracoli che essi affermavano essere noti a tutti e indiscutibilmente certi: ma egli saggiamente si astenne. Il partito molinista aveva provato a screditare questi miracoli in un caso, quello di Mademoiselle le Franc. Ma, oltre al fatto che le loro procedure furono da molti punti di vista assolutamente irregolari, in particolare nel citare solo i pochi testimoni giansenisti che avevano corrotto, a parte questo, dico, essi presto si trovarono travolti da un nugolo di nuovi testimoni, centoventi per la precisione, la maggior parte dei quali parigini rispettabili e benestanti, disposti a giurare sul miracolo. A ciò seguì un solenne e assai pressante appello al parlamento. Ma l’autorità proibì al parlamento di immischiarsi nella faccenda. Fu infine osservato che dove gli uomini sono scaldati da zelo ed entusiasmo, non c’è grado di testimonianza umana così forte da non poter essere messa al servizio della più grande assurdità: e coloro che vogliono essere così sciocchi da esaminare la faccenda in tal modo, cercando particolari difetti nella testimonianza e da cercare pecche particolari nella testimonianza sono quasi sicuri di essere sconfitti. Se non fosse prevalsa in quel contesto, in verità, sarebbe stata una ben misera impostura. Tutti coloro che sono stati in Francia in quel tempo hanno udito della reputazione del mons. Heraut, il lieutenant de Police, della cui vigilanza, attenzione, iniziativa e vasta intelligenza si è molto parlato. Questo magistrato, che già per natura del suo ufficio ha un potere quasi assoluto, fu investito da pieni poteri allo scopo di sopprimere o screditare questi miracoli; ed egli iniziò immediatamente a radunare i testimoni e i protagonisti e ad interrogarli: ma non riuscì mai a concludere alcunché di significativo contro di essi. Il caso di Mademoiselle Thibaut fu assai curioso, ed egli mandò il famoso De Sylva a interrogarla: la sua testimonianza è assai curiosa. Il medico dichiarò che era impossibile che la sua malattia potesse essere tanto grave come sostenevano i testimoni, perché la sua guarigione fu troppo repentina e perfetta per essere credibile. Egli ragionava, da uomo di buon senso, a partire dalle cause naturali, ma il partito opposto gli disse si trattava di un miracolo e che la sua affermazione ne era la miglior prova. I molinisti erano in un ben triste dilemma. Non osavano affermare l’assoluta inconsistenza dell’evidenza umana per provare un miracolo, erano obbligati a dire che questi miracoli erano compiuti per stregoneria e dal diavolo. Per tutta risposta si ricordava loro che questa era stata la reazione degli antichi ebrei. Nessun giansenista fu mai imbarazzato nel render conto della cessazione dei miracoli, quando il cimitero fu chiuso per editto del re. Era il tocco della tomba che produceva questi effetti prodigiosi, e quando nessuno poté avvicinarsi alla tomba, non si poteva più sperare in alcun effetto. Dio, invero, avrebbe potuto abbattere le mura in un istante, ma egli è il padrone delle sue stesse grazie ed opere e non è in nostro potere render conto di esse. Egli non abbatté le mura di tutte le città, come fece con quelle di Gerico, al suono dei corni d’ariete, né liberò dalla prigione tutti gli apostoli, come accadde a San Paolo. Niente meno che il Duc de Chantillon, un duca e un pari di Francia, del più alto rango e della più nobile famiglia, diede testimonianza di una guarigione miracolosa, compiuta su uno dei suoi servitori che aveva vissuto diversi anni nella sua casa con una visibile e palpabile infermità. Concluderò osservando che nessun clero è più celebrato per la sua rigorosità di vita e di costumi che il clero di Francia, in particolare i parroci o curés di Parigi, che resero testimonianza a queste imposture. La dottrina, il genio, la probità dei signori e l’austerità delle monache di Port-Royal sono state assai celebrate in tutta Europa. Tuttavia essi tutti testimoniano di un miracolo, compiuto sulla nipote del famoso Pascal, la cui santità di vita e la straordinaria intelligenza sono ben note. Il famoso Racine dà un resoconto di questo miracolo nella sua famosa storia di Port-Royal, e lo rafforza con tutte le prove che una moltitudine di monache, preti, medici e uomini di mondo, tutti dall’indiscutibile integrità, poté accordare a riguardo. Diversi uomini di lettere, in particolare il vescovo di Tourany pensarono che questo miracolo fosse così certo da impiegarlo nella condanna degli atei e dei liberi pensatori. La regina di Francia, che nutriva forti pregiudizi contro Port-Royal, mandò un suo medico personale ad esaminare il miracolo, per vederselo ritornare completamente ‘convertito’. In breve, la guarigione soprannaturale fu così incontestabile che salvò, per un po’ di tempo, quel famoso monastero dalla rovina minacciata dai gesuiti. Se fosse stato un imbroglio, sarebbe stato certamente scoperto da antagonisti tanto sagaci e potenti e avrebbe affrettato la rovina dei responsabili. I nostri teologi, che saprebbero costruire un formidabile castello da tali deprecabili materiali, quale impresa prodigiosa avrebbero potuto innalzare da queste e molte altre circostanze che io non ho menzionato! Quanto spesso avrebbero fatto risuonare ai nostri orecchi i nomi di Pascal, Racine, Arnaud, Nicole? Ma se essi fossero stati saggi, avrebbero scelto il miracolo che è mille volte più degno di tutta la loro collezione. Oltretutto, può servire molto di più ai loro scopi. Perché quel miracolo

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di circostanze, in accordo per la corroborazione di un fatto? E che cosa dovremo opporre a un simile nugulo di testimoni, se non l’alternativa tra l’impossibilità assoluta e la natura miracolosa degli eventi di cui parlano? E questo sicuramente agli occhi di tutte le persone ragionevoli basterà come confutazione. 97 La conseguenza dunque è che, dal momento che qualche umana testimonianza ha estrema forza e autorità in qualche caso, quando riporta per esempio la battaglia di Filippi o di Farsalia, allora tutti i generi di testimonianza devono avere, in tutti i casi, eguale forza e autorità? Supponiamo che le fazioni di Cesare e di Pompeo avessero, ciascuna, preteso la vittoria di queste battaglie, e che gli storici di ciascun partito avessero uniformemente attribuito il primato alla propria parte; come avrebbe potuto essere in grado l’umanità, da questa distanza, decidere tra le due? La contraddittorietà è egualmente forte tra i miracoli riportati da Erodoto o da Plutarco e tra quelli consegnatici da Mariana, Beda, o qualche monaco storico. Il saggio presta una fede molto accademica ad ogni resoconto che susciti la passione del narratore; sia che si tratti di magnificare il suo paese, la sua famiglia o se stesso, sia che in qualunque altro modo lo colga nelle sue naturali inclinazioni e propensioni. Ma quale maggiore tentazione di fungere da missionario, da profeta, da ambasciatore del cielo? O mettiamo che, per mezzo della vanità e di un’immaginazione surriscaldata, un uomo converta se stesso per primo, e si inoltri per davvero nell’illusione… chi mai si farebbe scrupoli di far uso di pie frodi in supporto di una causa così sacra e meritoria? La più piccola scintilla può scatenare un incendio. Perché la materia è sempre pronta. L’avidum genus auricularum7 il volgo attonito, riceve volentieri, senza controprova, qualunque superstizione che rassicuri, e che cagiona meraviglia. Quante storie di questa natura sono state scovate e smascherate nella loro fase iniziale? Quante ancora di più sono state celebrate per un certo periodo, per poi essere gettate nel discredito e obliate? Dove svolazzano tali racconti, dunque, la soluzione del fenomeno è ovvia; e giudichiamo in conformità all’esperienza e all’osservazione regolare, quando ci regoliamo con i principi noti e naturali della credulità e dell’illusione. E dovremmo, piuttosto che far ricorso a una tale soluzione naturale, seguire una miracolosa violazione delle più fondamentali leggi della natura? Non ho bisogno di menzionare la difficoltà di smascherare una qualunque falsità in ogni storia pubblica o privata, nel luogo in cui si dice fosse accaduta; a maggior ragione quando la scena è tanto prossima. Perfino una corte giudiziaria, con tutta l’autorità, l’accortezza e il giudizio che può impiegare, si trova sovente nell’incapacità di distinguere tra il vero e il falso nelle azioni più recenti. Ma la materia non giunge mai ad alcuno sbocco, se trattata con il metodo comune dell’alterco, della discussione e delle chiacchiere effimere; specie quando le passioni degli uomini hanno la meglio in entrambi gli schieramenti. Nel periodo iniziale delle nuove religioni il saggio e il dotto comunemente stimano la materia troppo trascurabile per soffermarvisi con attenzione o riguardo. E quando successivamente sarebbero disposti di buon grado a smascherare l’imbroglio, per aprire gli occhi della moltitudine illusa, l’occasione è ormai perduta, e i documenti e i testimoni che avrebbero potuto far luce sulla questione, sono irrimediabilmente perduti. Non resta alcun mezzo di smascheramento se non ciò che si può ricavare proprio dalla testimonianza stessa dei relatori: e costoro, benché sempre carenti di giudizio e di sapere, sono comunemente troppo raffinati per essere colti in fallo dalla gente semplice.

fu realmente compiuto dal tocco di un’autentica spina sacra del sacro roveto da cui fu tratta la sacra corona che eccetera eccetera. 7 Lucrezio, Sulla natura delle cose, IV, 594: ‘la gente è avida di favole accattivanti’.

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98 Tutto sommato, sembra che nessuna testimonianza di qualunque genere di miracolo sia mai valsa come probabilità, tanto meno come prova; e che, anche supponendo che valga come prova, sarebbe contrapposta a un’altra prova derivata dalla vera natura del fatto che vorrebbe avvalorare. È solamente l’esperienza che dà autorità alla testimonianza umana, ed è la medesima esperienza che ci assicura delle leggi della natura. Quando, dunque, questi due generi di esperienza sono contraddittori, non ci resta che sottrarre l’uno dall’altro ed aderire a un’opinione, a favore di una parte o a favore dell’altra, con la sicurezza che sorge da ciò che resta dalla sottrazione. Ma secondo il principio qui esposto, questa sottrazione, che coinvolge tutte le religioni popolari, comporta un annullamento totale e pertanto noi possiamo trarre una massima secondo la quale nessuna testimonianza umana può avere una forza tale da provare un miracolo e renderlo un reale fondamento di un qualunque sistema di religione. 99 Vorrei che si tenesse conto delle limitazioni qui fatte, quando dico che un miracolo non può mai essere provato, né essere il fondamento di un sistema di religione. Infatti io altrimenti accetto che ci possano essere dei miracoli, o violazioni del corso usuale della natura, di un genere tale da consentire come prova la testimonianza umana, benché, forse, sarà impossibile trovarne ti tal fatta in tutti i documenti storici. Così, supponiamo che tutti gli autori di tutte le lingue concordino che dal primo gennaio del 1600, per otto giorni, ci sia stata una totale oscurità su tutta la terra: supponiamo che la tradizione di questo evento straordinario sia ancora forte e viva tra la gente, che tutti i viaggiatori di ritorno da terre straniere ci riportino identiche versioni della stessa tradizione, senza la minima variante o contraddizione; è evidente che i nostri attuali filosofi, anziché dubitare del fatto, dovrebbero accoglierlo come certo, e dovrebbero cercarne le cause dalle quali lo si possa far derivare. La decadenza, la corruzione e la dissoluzione delle natura è un evento reso probabile da così tante analogie che ogni fenomeno che sembri avere una tendenza catastrofica giunge alla portata della testimonianza umana, ammesso che quella testimonianza sia molto estesa ed uniforme. Ma supponiamo che tutti gli storici che si occupano dell’Inghilterra fossero concordi nel dire che il primo gennaio del 1600 morì regina Elisabetta, che sia prima che dopo la sua morte essa fu vista dai medici e da tutta la corte come è usuale per persone del suo rango, che il suo successore fu riconosciuto e proclamato dal parlamento e che, dopo essere rimasta sepolta per un mese, essa ricomparve, abbia ripreso il trono e abbia governato l’Inghilterra per altri tre anni: devo confessare che sarei sorpreso al presentarsi di una tale successione di strambe circostanze, ma non avrei la minima inclinazione a credere a un così miracoloso evento. Non dubiterei della sua finta morte e di quelle altre circostanze pubbliche che seguirono: affermerei semplicemente che si trattò di una finzione e che non si trattò di un evento reale, né avrebbe mai potuto essere tale. Mi obiettereste invano la difficoltà e quasi l’impossibilità di ingannare il mondo su una faccenda di tali conseguenze, la saggezza e il solido giudizio di quella rinomata regina e il piccolo o nullo profitto che avrebbe potuto trarre da un così misero artificio: tutto ciò potrebbe stupirmi; ma potrei ancora replicare che la furfanteria e la stoltezza degli uomini sono fenomeni talmente comuni che crederei piuttosto agli eventi più straordinari che si debbono alla loro occorrenza, che ammettere una tanto cospicua violazione delle leggi naturali. Ma nel caso che questo miracolo fosse attribuito a qualche nuovo sistema di religione, va detto che gli uomini in ogni epoca sono stati così tanto turlupinati da ridicole storie di tal genere che appunto questa circostanza sarebbe la prova esauriente di un imbroglio e basterebbe, per tutti gli uomini assennati, non solo a far loro rifiutare il fatto, ma anche a rifiutarlo senza ulteriore disanima. Benché l’Essere a cui il miracolo è attribuito sia, in questo caso, onnipotente, non per questo quel resoconto diventa più probabile, dal momento che è impossibile per noi conoscere gli attributi o le azioni di un simile Essere, a parte l’esperienza che ne abbiamo dai suoi prodotti, nel corso abituale della natura. Ciò ci riporta ancora alla

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considerazione precedente e ci obbliga a paragonare gli esempi di violazione della verità nell’umana testimonianza con quelli della violazione delle leggi della natura attraverso i miracoli, al fine di giudicare quale di essi sia più plausibile e probabile. E le violazioni della verità sono più comuni nella testimonianza che concerne i miracoli religiosi che in quella che concerne ogni altro fatto; ciò non può che diminuire di gran lunga l’autorità della testimonianza ‘miracolosa’ e renderci risoluti a non prestarvi attenzione, qualunque sia lo specioso pretesto con cui si riveste. Lord Bacon sembra aver aderito agli stessi principi di ragionamento. ‘Noi dobbiamo’, egli dice, ‘fare una raccolta o una storia particolare di tutti i mostri e le nascite prodigiose e le creature, e in una parola di ogni cosa nuova, rara e straordinaria della natura. Ma ciò va fatto con l’indagine più rigorosa, per timore che ci si distolga dal vero. Soprattutto, ogni resoconto, che a qualunque livello dipenda dalla religione, deve essere considerato sospetto come i prodigi di Livio: e non meno riguardo ad ogni cosa che si trovi negli scrittori di magia naturale o alchimia o quegli autori che sembrano, tutti, avere un insaziabile appetito per la falsità e la frottola’8. 100 Sono assai più soddisfatto del metodo di ragionamento qui esposto, perché penso che possa servire a confondere quei perniciosi amici (o nemici mascherati) della Religione Cristiana, i quali hanno tentato di difenderla mediante i principi della ragione umana. La nostra santissima religione è fondata sulla Fede, non sulla ragione; e un modo sicuro per scompaginarla è sottoporla a un processo a cui essa non sia in grado in nessun modo resistere. Per chiarire ulteriormente, prendiamo come esempio i miracoli riportati dalle Scritture, e per non perderci in un campo troppo vasto, limitiamoci a quelli che troviamo nel Pentateuco, che esamineremo, secondo i principi di questi finti Cristiani, non come la parola e la testimonianza di Dio stesso, ma come il prodotto di uno scrittore e storico semplicemente umano. Qui dunque dobbiamo prima di tutto considerare un libro che proviene da un popolo barbaro e ignorante, scritto in un’epoca in cui era ancora più barbaro, e con ogni probabilità in un tempo di molto successivo rispetto ai fatti che riporta, non corroborati da alcuna testimonianza diretta, e molto simili a quei racconti fantastici che ogni nazione dà delle sue origini. Leggendo questo libro lo troviamo pieno di prodigi e di miracoli. Narra di uno stato del mondo e della natura umana completamente diverso dall’attuale, della nostra caduta da quello stato, dell’età dell’uomo che si avvicina a quasi mille anni, della distruzione del mondo per via di un diluvio, della scelta arbitraria di un popolo come l’eletto dal cielo (ed è il popolo da cui proviene l’autore), della sua liberazione dalla schiavitù per mezzo dei più stupefacenti prodigi che si possano immaginare: voglio che ciascuno si ponga una mano sul cuore e dopo una seria considerazione dichiari se egli pensa che la falsità di un tale libro, supportata da una simile testimonianza, sarebbe più straordinaria e miracolosa di tutti i miracoli che essa riporta; il che è, in ogni caso, la condizione affinché possa essere accettata, secondo le misure della probabilità in precedenza stabilite. 101 Ciò che abbiamo detto dei miracoli può essere applicato in maniera identica alle profezie, e in effetti tutte le profezie sono veri miracoli e solo come tali possono essere ammesse come prove di una rivelazione. Sarebbe assurdo impiegare una qualche profezia come argomento a favore di una missione divina o di un’autorità celeste, se essa non eccedesse la capacità della natura umana di predire gli eventi futuri. Così, infine, possiamo concludere che la Religione Cristiana non solo fu accompagnata da miracoli, ma anche al giorno d’oggi senza di essi non può essere accolta da nessuna persona ragionevole. La mera ragione è insufficiente a convincerci della sua veracità: e chiunque sia mosso da Fede nell’abbracciare tale religione, è consapevole di un miracolo continuo che avviene nella sua stessa persona, che sovverte tutti i

8 Nuovo Organon, II, 29.

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principi del suo intendimento, e gli conferisce una determinazione nel credere ciò che vi è di più contrario alla consuetudine e all’esperienza.