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2. Aristotele: la natura, il divenire, la scienza, il cosmo (Fisica) L’opera principale di riferimento: Fisica Aristotele, Fisica, ed. Mimesis, Milano 2007 (e il contributo del curatore Luigi Ruggiu in Saggio introduttivo, La fisica come ontologia del divenire; Quadro generale dei contenuti e Sommari analitici, Parole chiave.) 1. Fare scienza del divenire: le questioni, i problemi, le proposte 2. La “Fisica” e il fare scienza: le cause e il loro intreccio 3. La “Fisica”: l’oggetto della phýsis e la definizione scientifica del divenire 4. La “Fisica” e i settori di studio in programma e costruzione: le relazioni 5. Una doverosa appendice: Aristotele tràdito e tradìto «Tutti gli uomini sono protesi per natura alla conoscenza: ne è un segno evidente la gioia che essi provano per le sensazioni, giacché queste, anche se si metta da parte l’utilità che ne deriva, sono amate di per sé, e più di tutte le altre è amata quella che si esercita mediante gli occhi.» (Metafisica I, incipit) «disprezzare la conoscenza sensibile, è una debolezza del pensiero» (Fisica, 253 a 33) «Ritenere in generale che sia principio sufficiente affermare che «così è sempre», oppure che «accade così», non è assunto corretto… (Fisica, 252 a 32) Su questi temi le opere di Aristotele sembrano richiamare e rendere presente una sfida in corso per l’uomo: - da una parte la constatazione di una fragilità «… la causa della difficoltà della ricerca della verità non sta nelle cose, ma in noi. Infatti, come gli occhi delle nottole si comportano nei confronti della luce del giorno, così anche l’intelligenza che è nella nostra anima si comporta nei confronti delle cose che, per natura loro, sono le più evidenti di tutte.» (Metafisica II, 993 b 8- 11); 1

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2. Aristotele: la natura, il divenire, la scienza, il cosmo (Fisica)

L’opera principale di riferimento: Fisica Aristotele, Fisica, ed. Mimesis, Milano 2007 (e il contributo del curatore Luigi Ruggiu inSaggio introduttivo, La fisica come ontologia del divenire; Quadro generale dei contenuti e Sommari analitici, Parole chiave.)

1. Fare scienza del divenire: le questioni, i problemi, le proposte2. La “Fisica” e il fare scienza: le cause e il loro intreccio 3. La “Fisica”: l’oggetto della phýsis e la definizione scientifica del divenire 4. La “Fisica” e i settori di studio in programma e costruzione: le relazioni5. Una doverosa appendice: Aristotele tràdito e tradìto

«Tutti gli uomini sono protesi per natura alla conoscenza: ne è un segno evidente la gioia che essi provano per le sensazioni, giacché queste, anche se si metta da parte l’utilità che ne deriva, sono amate di per sé, e più di tutte le altre è amata quella che si esercita mediante gli occhi.» (Metafisica I, incipit)«disprezzare la conoscenza sensibile, è una debolezza del pensiero» (Fisica, 253 a 33)«Ritenere in generale che sia principio sufficiente affermare che «così è sempre», oppure che «accade così», non è assunto corretto…(Fisica, 252 a 32)Su questi temi le opere di Aristotele sembrano richiamare e rendere presente una sfida in corso per l’uomo:- da una parte la constatazione di una fragilità «… la causa della difficoltà della ricerca della verità non sta nelle cose, ma in noi. Infatti, come gli occhi delle nottole si comportano nei confronti della luce del giorno, così anche l’intelligenza che è nella nostra anima si comporta nei confronti delle cose che, per natura loro, sono le più evidenti di tutte.» (Metafisica II, 993 b 8-11);- dall’altra la constatazione di una enorme possibilità: «Se dunque in confronto alla natura dell’uomo l’intelletto è qualcosa di divino, anche la vita conforme a esso sarà divina in confronto alla vita umana. Non bisogna perciò seguire quelli che consigliano che, essendo uomini, si attenda a cose umane ed, essendo mortali, a cose mortali, bensì, per quanto è possibile, bisogna farsi immortali e far di tutto per vivere secondo la parte più elevata di quelle che sono in noi; se pur infatti essa è piccola per estensione, tuttavia eccelle di molto su tutte le altre per potenza e valore.» (Etica Nicom. 1177b3)

1. Fare scienza del divenire: le questioni, i problemi, le proposte1.1. principi e cause come specifico della scienza e di una scienza della natura (Fisica)Il conoscere e il sapere trovano realizzazione nella varietà dei metodi che si basano su principi, cause ed elementi; «noi diciamo infatti di conoscere una cosa, solo allorché possediamo la conoscenza delle cause prime e dei principi primi, fino agli elementi semplici». «[184a10] Poiché in ogni ricerca vi sono principi, cause o elementi, e il conoscere e il sapere consistono nella conoscenza di questi — noi diciamo infatti di conoscere una cosa, solo allorché possediamo la conoscenza delle cause prime e dei principi primi, fino agli elementi semplici —, è allora evidente che, anche in relazione alla scienza [15] che ha per oggetto la natura, si deve innanzitutto cercare di determinare quanto ha riferimento con i principi.» (Aristotele, Fisica)1.2. dall’evidenza per noi all’evidenza per natura: il cammino della conoscenza in parallelo al cammino della scienza: dal globale all’analitico.

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«[184 a 16] Per natura, infatti, il processo della conoscenza procede dalle cose che sono più conoscibili e più manifeste per noi, fino alle cose che sono più chiare e conoscibili per natura. Infatti non sono le stesse le cose che sono più conoscibili per noi e quelle che lo sono in senso assoluto. Dobbiamo pertanto procedere necessariamente in questo modo, assumendo cioè come punto di partenza le cose che sono meno note per natura, ma più chiare per noi, per giungere alle cose che sono più chiare [20] e più conoscibili per natura. In un primo tempo, infatti, per noi sono più chiare e maggiormente note quelle cose che si presentano come un insieme indistinto. Mentre solo successivamente, e a partire da questo insieme, vengono portati alla conoscenza i singoli elementi e determinati analiticamente i principi. Perciò occorre procedere da ciò che si prospetta in generale verso gli aspetti particolari: quanto si offre come un insieme, infatti, è più conoscibile per la sensazione, e ciò che abbiamo chiamato «generale» è appunto una sorta di intero: [25] ciò che è generale racchiude infatti in sé una molteplicità di cose come sue parti.» 1.2.1. le tappe verso la conoscenza e la scienza in una distinzione che ne mette in luce il ruolo e la necessità. «“Primo per noi” e “primo per natura” o in sé, infatti, non coincidono: ciò che per noi è immediatamente accessibile, e che perciò costituisce l’inizio necessario della conoscenza, è quanto è più noto per la conoscenza sensibile. Dobbiamo pertanto assumere come punto di partenza della conoscenza la realtà che ci si offre immediatamente in questi termini generali e indistinti. Dunque, il sapere si dà come conclusione di un processo che «deve» di necessità partire dal sensibile (il primo per noi), per giungere a ciò che è l’intelligibile (il primo per natura, cioè i principi primi). Restare al sensibile significa mantenersi nello stato di fanciullezza, quando non si sa distinguere un qualsiasi uomo dal proprio padre, o una qualsiasi donna dalla propria madre.» (L. Ruggiu, Sommari analitici, in Aristotele, Fisica, p. 439) 1.2.2. dalla distinzione “primo per noi” e “primo per natura” il passaggio alle cause e ai principi. Per noi dunque le cose maggiormente conoscibili sono quelle che vengono colte con l’evidenza della sensazione; per natura invece le cose maggiormente conoscibili sono i principi; questi per noi sono i più difficili da raggiungere o gli ultimi di cui veniamo a conoscenza; conosciuti questi, tuttavia, la nostra conoscenza sensibile assume la forma e la natura di scienza, poiché ciò che all’inizio è conosciuto attraverso i sensi e per evidenza, ora, attraverso un rapporto di causa ed effetto, è fondato su principi primi ed è dunque conosciuto in quanto dimostrato in modo assoluto o definitivo, oggettivo o reale, fisico e metafisico. «Ogni forma di sapere consiste nella conoscenza della cause prime e dei principi primi, fino ai suoi componenti elementari ultimi. Dunque anche la fisica, in quanto scienza, deve avere come scopo la conoscenza dei primi principi. Questa conoscenza non è data, ma è un processo. Questo processo ha un punto di partenza necessario, costituito dalle cose che sono più conoscibili e chiare «per noi», e deve svilupparsi fino a giungere infine alla conoscenza delle cose che sono più conoscibili e più chiare «per natura», cioè appunto ai «principi» e alle «cause» prime, ai quali compete la conoscibilità in senso assoluto; tutte le altre cose, infatti, possono essere conosciute solo in forza dei primi. E dunque, senza la conoscenza dei principi, nulla è conoscibile.» (L. Ruggiu, Sommari analitici, 439)

1.3. i principi per una scienza del divenire in un confronto di carattere storicoe il suo fondamento metafisico ontologico: il dibattito sui principi e l’essere plurivoco.«La fisica, come la geometria, infatti, assume come dati i propri principi costitutivi (nel caso della fisica: che la realtà è molteplice e nel divenire). Una tale indagine è perciò compito o di una scienza diversa, oppure di una scienza comune a tutte le scienze. Di contro, la ricerca fisica deve porre come tesi di fondo che le cose naturali, o tutte o in parte, sono in movimento, come l’esperienza attesta.» (L. Ruggiu, Sommari analitici, 439) «[185 a 12] … Per quanto ci riguarda, invece, noi poniamo come assunto di base della nostra indagine che le cose che esistono per natura, o tutte o alcune, sono in movimento: questo è attestato dall’esperienza.» (Aristotele, Fisica) «Sulla base di questa premessa, occorre affrontare e risolvere tutte le difficoltà, ovviamente quelle pertinenti alla fisica.» (L. Ruggiu, Sommari analitici, 439)

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1.3.1. Un unico principio. Parmenide e la sua tradizione: un principio unico e totale, l’Essere.Con il termine Essere, Parmenide e la tradizione che a lui si ispira, indica la realtà nella sua unità e totalità. In quanto punto di partenza unico e globale l’Essere diventa sia principio che oggetto della riflessione filosofica. Nessuna distinzione è possibile in esso se non facendo ricorso a principi che diversi dall’essere, si collocano nella sfera del non-essere e quindi si negano. Ad evitare questa contraddizione e conservare il rigore logico proprio della filosofia occorre negare ogni pluralità di principi e collocare tutto ciò che l’esperienza fornisce come realtà del divenire, della molteplicità, delle differenze nel campo dell’apparenza, luogo di opinioni (ingannevoli) ma non di verità e realtà. Tra visione e mente si crea una distanza incolmabile, pari a quella che segna la distanza tra essere e non-essere. 1.3.1.1. la posizione di Aristotele. «[185 a 12] … Per quanto ci riguarda, invece, noi poniamo come assunto di base della nostra indagine che le cose che esistono per natura, o tutte o alcune, sono in movimento: questo è attestato dall’esperienza.» (Aristotele, Fisica) E la confutazione «[186 a 22] …Anche contro Parmenide s’impongono le medesime argomentazioni, mentre altre sono peculiari alle sue tesi. E la confutazione consiste nel mostrare che, da un lato le premesse sono false e dall’altro che non trae conclusioni corrette. La premessa di fondo è falsa, in quanto egli assume che «essere» si dice in senso assoluto, [25] mentre invece esso si dice in molti modi. Ma anche la conclusione del ragionamento non è corretta, perché, anche se si concede che esistono solamente cose bianche e che «essere» significa «bianco», nondimeno le cose bianche saranno molteplici e non uno. Infatti «ciò che è bianco» non sarà «uno» né secondo il continuo né secondo la definizione. L’essenza di ciò che è bianco, infatti, sarà diversa dal suo sostrato; e non vi sarà nulla [30] che possa esistere come realtà separata, al di fuori di ciò che è bianco. ln effetti «il bianco» differisce non in quanto realtà che ha un’esistenza separata, ma perché la sua essenza è altra dalla «cosa bianca». Ma Parmenide questa differenza non l’aveva ancora intravista.» (Aristotele, Fisica) Parmenide non evidenzia, cioè, la separazione tra l’essenza (il bianco, universale e unico e astratto dall’oggetto bianco) e la sostanza (la cosa bianca, determinata, particolare, molteplice di cui si predica il bianco). 1.3.1.2. si tratta di un errore ricorrente prodotto e denunciato nel lungo corso della storia della filosofia. «[187 a 8] … Chi infatti è in grado di comprendere che l’essere in se stesso [to òn] è qualcosa, se esso non è propriamente qualcosa di determinato [to òn tì]?» (Aristotele, Fisica)In altri termini. Uno dei difetti “logici” (o filosofici o metafisici) ricorrenti è la entificazione dei concetti universali, la sostanzializzazione di quei concetti che, in quanto comuni e universali si predicano di soggetti / oggetti (e si predicano anche in modo essenziale, quindi non solo come attributi accidentali, ma come modi di essere essenziali, metafisicamente fondanti o, si può dire, sostanziali) ma non sono soggetti di predicazione, o sostanze (ousìa, essere sostanziale) cui ineriscono modi di essere dell’essere. In questo destino di sostanzializzazione cadono termini centrali della metafisica e della fisica come essere, uno, infinito, spazio, tempo, continuo… quando vengono intesi come se esistessero di per sé (come dei tode ti). Il fatto che diventino oggetti di uno studio specifico non giustifica la convinzione o il presupposto che siano realtà esistenti di per sé. Anzi la loro trasformazione in sostanza coincide con la loro negazione o con la negazione di una loro valenza universale. Se l’essere (e così gli altri concetti: tempo, spazio…bianco) è sostanza, una entità individuale, come può diventare una dimensione, una caratteristica e un attributo di tutte le sostanze naturali che, evidentemente, si caratterizzano per il fatto di esistere? L’essere (il tempo lo spazio, l’uno, l’infinito…) non esiste per se stesso ma come tratto delle realtà fisiche esistenti. Dunque occorre distinguere: il bianco non è la cosa bianca, l’essere non è questa cosa che esiste… al bianco e all’essere spetta la connotazione di realtà in quanto si predicano della sostanza, cioè di una entità particolare individuale e determinata. 1.3.1.3. A evidenziare e smantellare questo errore è la dottrina dell’essere in quanto essere presentata da Aristotele soprattutto nel testi indicati con l’espressione “filosofia prima” (192 a 35 Fisica, testi che la tradizione, creata da Andronico da Rodi, indica con il termine Metafisica). Dottrina che poggia su due enunciati fondamentali: 1. L’essere è originariamente (e non

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accidentalmente) plurivoco (e si predica in dieci modi, dieci categorie); 2. I vari modi originari di essere dell’essere (le dieci categorie) sono in una relazione interna: il primo modo di essere dell’essere, la sostanza, l’ente in quanto determinato, è punto di riferimento (predicazione, sostegno) unitario (òn, èn) degli altri modi di essere. 1.3.1.4. «Porre l’originarietà del divenire equivale ad affermare che l’essere si dice in molti modi (cfr. I, 2, 185 a 20), non in un sol modo, come pensano Melisso e Parmenide. Questi nei loro ragionamenti partono da premesse false (l’essere è uno e immobile), e comunque procedono e traggono conclusioni scorrette dalle loro premesse. La critica immanente delle tesi eleatiche ha appunto l’obiettivo di evidenziare l’originarietà del divenire come un originario dirsi dell’essere in molti modi. Questo significa anche che l’essere non è altro che predicato di cose, e quindi non sussiste senza le cose delle quali esso si predica, per costituirsi come significato determinato (capp. 3-4). Esso non può esistere come separato e a se stante». (L. Ruggiu , Quadro generale dei contenuti, 417)

1.3.2. Infiniti principi (o l’infinito come principio) come nelle tesi di Anassagora (omeomerie) e di Democrito (atomi) e dei cosiddetti “pluralisti” e della lunga eredità storica che ne deriva. A queste teorie Aristotele oppone una doppia obiezione di metodo: 1.3.2.1. è impossibile conoscere la realtà poiché non si conoscono gli elementi di cui si compone essendo essi di numero infinito «[187 b 10] E dal momento che i principi sono infiniti sia secondo il numero che secondo la specie, non è possibile conoscere ciò che è composto da essi: infatti noi riteniamo di conoscere un composto quando conosciamo da quali e da quanti elementi è composto.» (Aristotele, Fisica)1.3.2.2. è impossibile fornire una spiegazione del reale secondo cause visto il numero infinito degli elementi che vi accorrono; bisognerà quindi affidarsi al caso. In questa impostazione cioè, il divenire non viene spiegato nelle sue forme ed esiti ma affidato al caso (pesa qui la non chiara distinzione tra causa materiale e causa formale (efficiente e finale)); in questa situazione ogni cosa potrebbe generare qualsiasi cosa o derivare da qualunque cosa in modo del tutto accidentale; su questo secondo caso afferma Aristotele: «[188 a 32] È dunque necessario, per prima cosa, ammettere che, per natura, nessun ente né agisce né patisce a caso da ciò che capita [ciò che capita in quanto capita, tò tychòn upò tou tychònton], né che qualunque cosa si genera da qualunque cosa, a meno che questa non avvenga in modo del tutto accidentale.» (Aristotele, Fisica) 1.3.3. Due principi tra loro contrari (i contrari come principi). Aristotele osserva come, in qualche modo, tutti, per affrontare il problema del divenire, fanno ricorso e fanno intervenire principi contrari (la situazione di enantìa, tanantìa); si tratta di analizzare la tesi e mostrane la possibile validità. «[188 a 19] In conclusione, tutti i pensatori pongono come principi primi i contrari, sia quanti affermano [20] che «tutto è uno», privo di movimento (anche Parmenide infatti introduce come principi il caldo e il freddo, sotto i nomi di fuoco e terra, sia quanti parlano di raro e di denso. Lo stesso vale per Democrito con il pieno e il vuoto, l’uno posto come essere, l’altro come non-essere; egli inoltre sostiene che gli atomi differiscono per posizione, per figura e per ordine. Tutte queste cose sono i generi, mentre le specie sono i contrari: della posizione, alto [25] e basso, prima e dopo; della forma angolato o meno, retto o circolare. [188 a 30] …in quanto sono contrari, non possono derivare l’uno dall’altro.» (Aristotele, Fisica) 1.3.3.1. l’obiezione di Aristotele: «[189 a 20] Da queste argomentazioni risulta perciò che i principi non sono né uno né indefiniti. E dal momento che sono in numero finito, ha un qualche fondamento non ridurre i principi a due soli. In effetti si sarebbe in difficoltà a dire o come la densità per natura agisce sulla rarità, oppure questa sulla densità. Lo stesso vale per ogni altra coppia di contrari. Infatti l’Amore non rende unitario l’Odio, [25] né può operare qualcosa a partire da questo, né l’Odio dall’Amore, ma occorre una terza cosa diversa da entrambi. E alcuni assumono più termini per costituire la natura delle cose. Inoltre si potrebbero aggiungere ulteriori difficoltà, se non si

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introduce nella spiegazione una realtà diversa rispetto alla coppia di contrari. In effetti, noi non vediamo nessuna cosa la cui sostanza sia costituita da contrari.» «[190 b 32] … dal momento che è impossibile che i contrari possano subire affezioni l’uno dall’altro.» «[192 a 21] … gli elementi contrari si distruggono a vicenda.» (Aristotele, Fisica)1.3.3.2. la proposta e la tesi di Aristotele: «[190 a 13] Fatte queste distinzioni, è da porre quest’assunto, e cioè che in tutto ciò che è sottoposto al divenire, come s’è detto, vi deve essere qualcosa che [15] sempre fa da sostrato a ciò che diviene; e questo deve essere uno numericamente, ma non uno specificamente. (E dico che «per specie» e «per concetto» sono la stessa cosa). [uno di numero, ma non di forma arithmó estin én, all’édei ghe ouk én]» (Aristotele, Fisica)I contrari che si “incontrano” si annullano reciprocamente annullando così il divenire. Il movimento tra gli estremi indicati dai contrari può accadere quando essi esistono come caratteristiche di un sostrato, in quanto dunque una realtà passa da uno stato all’altro; i contrari non esistono dunque di per sé ma come caratteristiche di una sostanza che fa da sostrato e diventa sede e soggetto del divenire: il freddo non diventa caldo se non annullandosi, ma un corpo da freddo diventa caldo. [Sul tema le considerazioni di Fisica I,6]«[190 b 3] Sempre infatti deve sussistere qualcosa che fa da sostrato, e a partire dal quale diviene ciò che viene ad essere, come ad esempio le piante e gli animali [5] dal seme.» (Aristotele, Fisica)1.3.3.3. il sostrato o la materia (ýle): «[191 a 12] Dunque la materia è principio, ma senza essere unico e senza esserlo nello stesso modo in cui lo è l’individuo [ouk oùto mìa oùsa oudé oùtos òn os tò tóde ti], bensì la materia è una quanto al concetto; e vi è anche il suo contrario, la privazione. [mìa dè es o lógos, éti dè enantìon toùto, e stéresis]» (Aristotele, Fisica) [spunta forse una specie di antimateria?!]«[192 a 25] E la materia in un certo senso si corrompe e si genera, in altro senso no. In effetti, considerata come ciò in cui è la privazione, essa per sé si corrompe, giacché ciò che si distrugge, la privazione, è contenuta in essa. Ma in quanto potenza, la materia per sé non viene meno, ma è necessariamente incorruttibile e ingenerabile» (Aristotele, Fisica) [come se avesse tratti divini] «La materia, come se fosse una madre, assieme alla forma, genera le cose. E la materia permane. E poiché la privazione si distrugge nel processo del divenire sembra che essa non esista del tutto [antimateria !?]. La materia inoltre tende verso la forma [nel testo di Aristotele 192 a 22: “l’elemento che desidera è la materia”]. E non si genera né si corrompe, ma permane ingenerabile e incorruttibile [cfr Timeo, Platone]; ciò che invece si corrompe, è la privazione. Dunque la materia fa da sostrato primo.» (L. Ruggiu, Sommari analitici, 445-446 ad esclusione in quanto tra [])

2. La “Fisica” e il fare scienza: le cause e il loro intreccio Premessa al termine fisica: occorre ricordare la forma grammaticale del termine e il suo significato: tà physiká, le cose fisiche o la realtà denominata phýsis; così, di conseguenza, il temine della disciplina che studia le realtà fisiche: physiké. Premessa e richiamo sull’ambito della fisica: «[199 b 15] In effetti sono da natura [phýsei, per natura, appartengono alla natura, sono naturali] tutte quelle cose che, mosse in modo continuo in se stesse da un qualche principio immanente, giungono ad un fine: e da ciascuna cosa non è conseguito il medesimo fine, né ciò che capita [tò týchon], ma la tendenza di ogni cosa è costante, a meno che non vi sia qualche ostacolo.»Il mutamento storico (nella storia della filosofia e della scienza) in atto. 2.01. Con la cosiddetta tradizione “pre-socratica”, i filosofi naturalisti: «… con la sua Fisica si afferma una novità e si consuma insieme la rottura con la phýsis della filosofia presocratica. Infatti, in quest’ultima la phýsis costituisce l’intero, cioè la totalità del reale nella sua completezza, senza rinviare ad altro da sé. In Aristotele, al contrario, la phýsis diviene solo un momento dell’essere, quindi un suo aspetto particolare, precisamente quello che assume come proprio oggetto di studio il divenire. Si costituisce quindi una differenza tra l’ontologia, cioè lo studio dell’essere in quanto essere, e le filosofie seconde, in qualche modo declassate a scienze della parte, tra le quali egli annovera appunto la fisica in quanto tratta del divenire.

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«Ora anche la scienza fisica tratta di un genere particolare dell’essere; tratta precisamente di quel genere di sostanza che contiene in se medesima il principio del movimento e della quiete... Pertanto, se ogni conoscenza razionale è o pratica o poietica o teoretica, la fisica dovrà essere conoscenza teoretica, ma conoscenza teoretica di quel genere di essere che ha potenza di muoversi e della sostanza intesa secondo la forma, ma prevalentemente considerata come non separabile dalla materia...» (Metafisica VI, 1, 1025 b 20ss)» (L. Ruggiu, Saggio introduttivo, XXIII-XXIV) 2.02. Con la tradizione platonica: « Il ruolo della fisica in Platone, infatti, non solamente è privo di consistenza e di autonomia, ma soprattutto viene collocato al di fuori della possibilità di una indagine scientifica. Del divenire non si dà scienza. La scienza ha per oggetto l’immutabile e il permanente, cioè l’essere. Dunque, il divenire non può essere detto "essere" in senso proprio.» (L. Ruggiu, Saggio introduttivo, XXV)

2.1. fare scienza o: delle cause e dei principi.Il tema e la funzione delle cause allo scopo di costruire uno statuto scientifico o allo scopo di portare la conoscenza sensibile a sapere di carattere scientifico.2.1.1. fare scienza. «[194 b 17] Poiché la nostra ricerca ha per fine la conoscenza, e noi non conosciamo nessuna cosa prima di aver scoperto il «perché» di ogni cosa (e questo consiste [20] appunto nell’impadronirsi della causa prima), è chiaro allora che dobbiamo fare la stessa cosa nella nostra ricerca sulla generazione e corruzione e sopra ogni mutamento naturale, in modo tale che, conoscendo i loro principi, noi possiamo ricondurre a questi principi ciascuno dei problemi oggetto della ricerca.» (Aristotele, Fisica) 2.1.1. le cause: la plurivocità del termine causa: materia, forma, motore, fine (causa materiale, formale, efficiente, finale) e l’ipotesi (prima) di una relazione tra le tipologie di cause. «[198 a 14] È ormai del tutto chiaro che esistono delle cause, e che sono tante di numero quante noi [15] diciamo. Il numero della cause è infatti identico a quello compreso nel «perché» [tò dià tí]. Il «che cos’è» [tò tí] si riconduce infine, nelle cose immobili, come ad esempio negli enti matematici, al «perché» [tò dià tí] (alla definizione della retta o alla commensurabilità o a qualcosa di questo tipo); […] O in riferimento alle cose che si sono generate, la causa si riconduce alla materia (ýle).[…] [198 a 21] E dal momento che le cause sono quattro, compete al fisico indagare su tutte e, considerandole tutte assieme, ricercare da fisico il «perché», cioè la materia, la forma, il motore, il fine. Le ultime tre spesso [25] sono ricondotte ad una sola. In effetti il «che cos’è» e «ciò in vista di cui» sono una cosa sola, mentre «ciò da cui» originariamente deriva il movimento, è identico a queste per la specie.» (Aristotele, Fisica)

2.2. la relazione tra le quattro tipologie di cause e l’intreccio dinamico del divenire della natura ricostruito attraverso la loro relazione (o l’endofinalismo della natura)2.2.1. la rilevanza di materia e forma: «[193 a 28] In un senso, dunque «natura» si dice in questo modo – cioè la materia che fa da sostrato primo alle cose che hanno in se stesse il principio [30] di movimento e di cambiamento –, mentre in altro senso «natura» è la forma e la specie di ciò che è conforme alla definizione [tò katà ton lògon].» (Aristotele, Fisica)Sullo sfondo si delineano due visioni complessive della natura, quella che verrà definita meccanicistica, costruita sulla base della priorità data alla materia (intesa per lo più secondo modelli atomistici), quella finalistica, costruita sella priorità della forma, in forza della relazione che intercorre tra forma e fine, tra causa formale e causa finale.2.2.2. «[194 a 28] La natura è infatti fine e causa finale.» (Aristotele, Fisica)2.2.2.1. a ben intendere la causa finale e l’esito di endofinalismo che essa determina per l’intera fisica e per le singole sostanze in essa: «[194 a 32] Non ogni termine finale, infatti, è fine, ma solo ciò che è il meglio.» (Aristotele, Fisica) E, con una precisazione, successiva nel testo, di grande rilievo, Aristotele afferma: «[198 b 5] E si deve dimostrare il «perché» in tutti i sensi, come ad esempio… [seguono esempi delle quattro cause e, per la causa finale, si individua mostrando o

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dimostrando] perché «questo è il meglio» - non in senso assoluto, ma in rapporto alla sostanza di ciascuna cosa.» (Aristotele, Fisica) Dunque non un finalismo riguardante la totalità o l’intera natura, che è endofinalistica proprio in quanto non finalizzata ad altro, ma di un finalismo proprio di ogni sostanza, creato cioè dalla relazione interna verso quella forma (essenziale o qualitativa) che per ogni sostanza rappresenta il meglio, e questo è il fine o la causa finale di ciascuna cosa; sulla natura ribadisce Aristotele: «[199 a 32] essa è fine, mentre le altre cose sono in vista del fine».(Aristotele, Fisica)

2.3. «il numero di queste cause è infinito» o la consapevolezza di una situazione indeterminata (se non infinita) nel campo delle cause: se le tipologie di cause risultano essere quattro, il numero delle cause è infinito; e accade di sentir parlare anche di caso e fortuna. «[198 a 4] Infatti la causa è sempre o qualcosa di naturale, o qualcosa che dipende dal pensiero: [5] ma il numero di queste cause è infinito.» (Aristotele, Fisica) Nello specifico (e andando all’estremo): si parla spesso, per ciò che accade in natura, anche di caso, fortuna, destino, fato, sorte, accidentalità, incidente, imprevedibile… e molti altri termini declinati con tratti coloriti nel linguaggio quotidiano. A tali parole si dà il valore di causa o si ritiene, perlomeno, con esse di aver fornito una spiegazione o di rendere superflua una qualsiasi ricerca di spiegazione, dichiarandola, più o meno direttamente, impossibile e quindi inutile. Il punto di Aristotele su questa situazione linguistica quotidiana che trova riscontro e spazio anche in quelle teorie fisiche, “nobili” per la loro storia (come per Democrito), che parlano di caso per spiegare eventi naturali. 2.3.1. «[195 b 31] Anche fortuna e caso [e týche kai tò autómaton] sono annoverate tra le cause: molte cose esistono e si generano per fortuna o per caso. In qualche modo dunque anche fortuna e caso sono fra le cause.» (Aristotele, Fisica)Al tema fortuna e caso Aristotele dedica i capitoli (o §§) 4,5,6 del II libro. All’interno dell’ipotesi dell’infinito riferito ai principi o alle cause si colloca (probabilmente) la citazione della fortuna e del caso (a poi la distinzione tra i due termini); e spesso forse è meglio parlare di fortuna e di caso, e i termini sono meno ingannevoli di quando la causa viene indicata con parole che rimandano a enti o a processi inesistenti come fato, destino, miracolo… Sempre in tema di termini, una delle espressioni usate da Aristotele per indicare in termini più filosofici la natura causale (o chiarire in termini di causa) della fortuna e del caso è “causa accidentale” (katà symbebekòs ghénetai). Alcuni passaggi dalla Fisica di Aristotele. «[198 a 4] Infatti la causa è sempre o qualcosa di naturale, o qualcosa che dipende dal pensiero: [5] ma il numero di queste cause è infinito. E poiché il caso e la fortuna sono causa delle cose che l’intelligenza o la natura potrebbero produrre, queste sono state prodotte accidentalmente [katà symbebekòs] da qualcosa. È infatti evidente che nessuna delle cose che accadono accidentalmente è prima delle cose che si producono per sé, come neppure la causa accidentale è prima della causa per sé. [10] Il caso e la fortuna sono dunque successivi e all’intelletto e alla natura. Sicché, se anche si dice che causa del cielo è soprattutto il caso, è necessario tuttavia che l’intelligenza e la natura siano cause primarie di quest’universo e di molte altre cose.» (Aristotele, Fisica) La tesi di Aristotele e gli esempi da lui forniti, tratti dal vivere quotidiano: «[196 b 27] Dunque, la causa per sé è determinata, mentre la causa per accidente è indeterminata, dal momento che sono infinite le cose che possono attribuirsi ad un individuo. Perciò abbiamo detto che, quando accade una cosa di questo genere in quelle cose che sono fatte [30] in vista di un fine, si dice che è «per fortuna» o «per caso». (Quale sia la differenza che intercorre tra essi, lo si esaminerà successivamente. Per ora, questo risulta chiaro, che entrambi — fortuna e caso — sono compresi nell’ambito delle cose che sono in vista del fine). Ad esempio: uno sarebbe potuto venire, qualora lo avesse saputo, a riscuotere del denaro, mentre il suo debitore raccoglieva dei contributi per la festa. [35] Egli venne, ma non a tal fine, e gli capitò accidentalmente di sopraggiungere e di conseguire il suo obiettivo, cioè quello di riavere il denaro. E ciò non fu dovuto al fatto che per lo più, in modo regolare o necessariamente, egli si reca [197a] questo luogo. E il fine — cioè il riavere la

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restituzione dei quattrini —, non è fra le cause presenti in lui — si tratta infatti di cause che derivano da scelte e da ragionamento. In un caso di tal genere, si dice che costui è andato spinto dalla fortuna. Se invece vi si è recato per scelta e in vista di questo obiettivo, — egli sempre o per lo più vi si reca per ritirare del denaro —, allora non si dice che questo [5] «dipende dalla fortuna». È dunque evidente che la fortuna è causa accidentale nell’ambito delle cose che, per scelta, sono fatte in vista di qualcosa. Perciò pensiero [diánoia] e fortuna fanno parte del medesimo ambito, poiché non si dà scelta senza pensiero. Sono dunque necessariamente indeterminate le cause dalle quali potrebbe capitare quanto avviene per fortuna. Donde la fortuna [10] sembra essere propria dell’ambito delle cose indeterminate e oscure per l’uomo; e si potrebbe ritenere che nulla avviene «per fortuna». E tutto questo è detto correttamente, in quanto ben fondato. In effetti esiste qualcosa che si produce «per fortuna», poiché avviene accidentalmente, e la fortuna è causa in quanto accidente. Ma essa, in senso assoluto, non è causa di nulla.» (Aristotele, Fisica) 2.3.2. L’ammissibilità o no dei termini fortuna e caso. «[197 a 19] Ed è giusto dire che la fortuna è qualcosa che va contro ogni ragionamento. Infatti, il ragionamento è sempre in riferimento alle cose che sono sempre o che avvengono per lo più, mentre [20] la fortuna è in rapporto alle cose che avvengono al di fuori di questi casi. E poiché le cause di questo tipo sono indeterminate, anche la fortuna è indeterminata.» (Aristotele, Fisica)La fortuna «è qualcosa che va contro il ragionamento», così vale per il caso; i termini rappresentano infatti, in un certo senso, l’incapacità della ragione a produrre cause certe, in assoluto o “per lo più”, per spiegare ciò di cui si intende mostrare la ragione d’essere. Questa situazione acquista particolare rilevanza in un contesto in cui si difende il progetto di scienza della natura in grado di spiegare i fatti che accadono in quanto se ne mostrano le cause. Fortuna e caso richiamano una prima evidenza di notevole rilievo epistemologico: «il numero di queste cause è infinito»; si impongono poi con l’evidenza del linguaggio quotidiano, vi ricorrono infatti sovente e quotidianamente e Aristotele, in tutte le sue opere tende al confronto anche con il linguaggio comune e non lo considera irrilevante ai fini della costruzione di un comportamento scientifico. La via di uscita dal problema è affidata a due mosse: 1. occorre distinguere tra fortuna e caso; 2. fortuna e caso di fatto sono riconducibili, per nozione e funzione, alla tipologia delle quattro cause già delineata. In sintesi prima: “La fortuna… ha a che fare con la scelta, quindi si riferisce solo agli enti che hanno la capacità di agire. Il caso, invece, vale per tutti gli altri esseri.” (L.Ruggiu da sintesi II, 6, p. 71)2.3.3. la distinzione tra fortuna e caso.«[197 a 36] Il caso differisce in quanto più esteso rispetto alla fortuna. Tutto ciò che è dalla fortuna, infatti, è anche dal caso, ma non tutto ciò che è dal caso, è anche dalla fortuna, infatti, è anche dal caso, ma non tutto ciò che è dal caso, è anche [197b] dalla fortuna. Infatti la fortuna e le cose che derivano dalla fortuna, sono fra quelle alle quali si può attribuire la possibilità di avere una buona fortuna [eutychésai, eutychìa] e, in generale, di agire. Perciò è necessaria anche fortuna nella attività pratiche.»«[197 b 18] Cosicché è evidente che le cose che sono, in generale, prodotte in vista di qualcosa, quando esse si generano non in vista del risultato, ma la causa [20] è esterna ad esse, diciamo che sono «per caso». Mentre diciamo che sono «per fortuna», quando ci riferiamo all’insieme di quelle cose che, potendo essere oggetto di scelta, accadono a coloro che sono capaci di scelta.» (Aristotele, Fisica) «[197 b 29] Così il caso, come dice il suo nome, si dà quando [30] qualcosa accade invano. La pietra che colpì l’uomo, non cadde per colpire qualcuno. Dunque la pietra cadde a caso, in quanto avrebbe potuto cadere altrimenti, se fosse stata spinta da qualcuno e in vista del colpire. La separazione del caso dalle cose che avvengono per fortuna, è massima fra le cose che si generano per natura. Quando infatti qualcosa avviene contro natura, allora non diciamo che essa avvenne «per fortuna», [35] ma piuttosto «per caso». E ciò è cosa diversa dal caso, dal momento che la causa del secondo è esterna, mentre quella del primo è interna.» (Aristotele, Fisica)

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2.3.4. un quadro di quasi sintesi sulla fortuna e sul caso costruito secondo le riflessioni di Aristotele (richiamate in passi sintetici).[1.] il dato comune (del linguaggio comune) il suo insistente ricorrere e l’ammissione o convinzione dello stesso Aristotele (in generale il rapporto di rispetto e di considerazione che Aristotele conserva nei confronti del linguaggio comune, che spesso cita a conferma di proprie tesi, che, ove necessario, riprende e analiticamente riporta a teoria, e che talora confuta). «[195 b 31] Anche fortuna e caso [e týche kai tò autómaton] sono annoverate tra le cause: molte cose esistono e si generano per fortuna o per caso. In qualche modo dunque anche fortuna e caso sono fra le cause.»[2.] la distinzione tra i due termini e la loro (possibile) inclusione:[2.1.] fortuna: “La fortuna… ha a che fare con la scelta, quindi si riferisce solo agli enti che hanno la capacità di agire.” (Ruggiu sintesi del paragrafo 6); si colloca dunque all’interno di una impostazione di carattere finalistico. [2.2.] caso: “Il caso, invece, vale per tutti gli altri esseri.” (Ruggiu sintesi del paragrafo 6); si colloca all’interno di una impostazione di carattere meccanicistico ma con riferimento ad un numero infinito, o meglio indefinito, di cause ed elementi.[2.3.] la relazione di inclusione ed esclusione tra fortuna e caso: «[197 a 36] tutto ciò che è dalla fortuna, infatti, è anche dal caso, ma non tutto ciò che è dal caso, è anche dalla fortuna, infatti, è anche dal caso, ma non tutto ciò che è dal caso, è anche dalla fortuna» (Aristotele, Fisica)(esempio: è per caso che cade un sasso proprio in quel momento, è fortuna – un caso di fortuna, un caso fortunato – essere riusciti ad evitarlo; una slavina in una area remota e disabitata è evento naturale prevedibile ma casuale nel suo accadere, diventa un fatto di fortuna o sfortuna – con tratti di responsabilità – se in un’area frequentata da umani, o da orsi…, non si è o si è travolti)[3.]. il contesto comune dei termini fortuna e caso: la pluralità indefinita (numero infinito) dei principi, delle cause, degli elementi. «[198 a 4] Infatti la causa è sempre o qualcosa di naturale, o qualcosa che dipende dal pensiero: [5] ma il numero di queste cause è infinito.» (Aristotele, Fisica)[4.] la riconduzione dei termini fortuna e caso rispettivamente alla finalità (finalismo) e alla necessità (meccanicismo): «[200 a 14] La necessità è infatti nella materia, mentre il fine è nel concetto (en tõ lógo).» (Aristotele, Fisica)[4.1.] fortuna e finalismo: il legame è plurimo (con relazione interna tra i vari significati)[4.1.1.] presuppone un ente e un contesto che rende possibile una conoscenza e una scelta: «[197 b 1] Infatti la fortuna e le cose che derivano dalla fortuna, sono fra quelle alle quali si può attribuire la possibilità di avere una buona fortuna [eutychésai, eutychìa] e, in generale, di agire. Perciò è necessaria anche fortuna nella attività pratiche.» (Aristotele, Fisica)[4.1.2.] si definisce come tale (fortuna) ciò che si inserisce all’interno di un percorso tendente (in modo esplicito o implicito, consapevole o inconsapevole) a un fine; e questo fine costituisce il raggiungimento di una forma (essenziale o qualitativa) naturale, prevista e desiderata (o prevedibile e optabile); infatti si parla di buona o cattiva fortuna (sorte), «[197 b 4] eutuchìa»[4.1.3.] anzi, nel contesto dell’agire umano (come conoscenza e come scelta) il concetto di fortuna svolge un ruolo morale e conoscitivo di un certo peso: richiama alla consapevolezza di chi sceglie la impossibilità a dominare il sistema delle cause che accorrono al divenire, poiché esse sono se non definite, indeterminate. Afferma Aristotele appunto: «[197 b 2] Perciò è necessaria anche fortuna nella attività pratiche.» (Aristotele, Fisica) [4.1.4.] la fortuna è concetto che «va contro ogni ragionamento» perché è del tutto indeterminato. Ma la causa della sua indeterminatezza si trova nella situazione in cui essa nasce, cioè l’indeterminatezza o la non prevedibilità delle cause. «[197 a 19] Ed è giusto dire che la fortuna è qualcosa che va contro ogni ragionamento. Infatti, il ragionamento è sempre in riferimento alle cose che sono sempre o che avvengono per lo più, mentre [20] la fortuna è in rapporto alle cose che avvengono al di fuori di questi casi. E poiché le cause di questo tipo sono indeterminate, anche la fortuna è indeterminata.» (Aristotele, Fisica)

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[4.2.] caso e meccanicismo, caso e necessità: la relazione di caso presuppone, per accadere (se accade), un rapporto di causalità di tipo meccanico, nel quale gli eventi accadono secondo una inesorabile necessità (è un caso che la tegola sia caduta in quel momento, ma ciò è potuto accadere in quanto all’interno di un sistema fisico regolato da leggi necessario: i gravi inesorabilmente cadono, cioè se non impediti, tendono cioè al loro luogo naturale «[255 b 13] le cose leggere e quelle pesanti muovono verso il proprio luogo» Aristotele, Fisica). Per le stesse teorie atomistiche e per la fisica che ne deriva i due concetti di caso e necessità sono intrinsecamente legati e necessari: ciò che accade è casuale, ma accade secondo leggi necessarie (naturali).[4.2.1.] caso, meccanicismo, necessità e centralità della causa materiale: «[200 a 30] il necessario è, nelle cose naturali, ciò che chiamiamo materia e i mutamenti in essa.» (Aristotele, Fisica)[5.] il bilancio finale: la traduzione di fortuna e caso in termini di causa (nel modello causale) [5.1.] Aristotele riconduce le diverse modalità di relazione causale ai quattro generi fondamentali: materia, forma, motore, fine.[5.2.] fortuna e fato sono termini che vengono impostati secondo uno schema di tipo causale (è colpa del destino, è un colpo di fortuna, è per caso che…) ma in quanto si riconducono a modelli generali e fondati di causa (in particolare: materiale, formale-efficiente-finale). [5.3.] la formula che li include nel contesto dell’analisi e della natura di causalità, ma li ridimensiona nell’effetto di causalità diretta che spesso viene loro riferito, ma che resta indimostrabile, è quella di “causalità accidentale” (katà sumbebekòs) «[198 a 5] E poiché il caso e la fortuna sono causa delle cose che l’intelligenza o la natura potrebbero produrre, queste sono state prodotte accidentalmente da qualcosa.» (Aristotele, Fisica) E vi è una relazione, naturale e conoscitiva (scientifica) tra cause accidentali e cause per sé: le cause accidentali accadono sul terreno delle cause per sé a partire dal loro numero indeterminato (indeterminato per la complessità della natura, indeterminato con riferimento alle nostre capacità conoscitive) «[198 a 8] È infatti evidente che nessuna delle cose che accadono accidentalmente è prima delle cose che si producono per sé, come neppure la causa accidentale è prima della causa per sé.» (Aristotele, Fisica)

2.4. nozioni per una teologia fisica: l’endofinalismo della natura e il motore immobileLa presentazione di Aristotele della nozione e del tema del “motore immobile” (principio del movimento non soggetto al movimento) nel campo della ricerca scientifica riguardante la natura e, in essa, il divenire come sua specifica essenza.Il postulato “fisico”. «[241 b 34] Tutto ciò che è in movimento, necessariamente è mosso da qualcosa; se [35] non ha infatti in se stesso il principio del movimento, è evidente che esso è mosso da altro (infatti sarà diverso il motore). […] [242 a 49] Ma poiché tutto ciò [50] che è in movimento necessariamente è mosso da qualcosa, nel caso in cui una cosa sia in movimento e sia mossa nello spazio da qualcosa, che è a sua volta in movimento, e che di nuovo è mossa a sua volta da qualcosa che è in movimento, e quella da un’altra e così all’infinito: vi deve essere allora necessariamente qualcosa come «primo motore», e non si deve procedere all’infinito.» «[242 b 71] Sicché necessariamente occorre arrestarsi e porre l’esistenza di un primo motore e di un primo mosso. Non fa infatti nessuna differenza che l’impossibile scaturisca da un’ipotesi, [243a] [30] in quanto l’ipotesi è stata assunta come possibile, e dal momento che è stata posta come possibile, non consegue affatto che per questo si produca l’impossibile.» (Aristotele, Fisica) La convinzione ricorda un passaggio del dialogo Timeo di Platone: «che vi sia una cosa mossa senza un motore, o un motore senza una cosa mossa, è difficile o piuttosto impossibile.» (Platone, Timeo 57e)Il postulato scientifico. «[198 a 31] Sicché al «perché» si offre una risposta quando lo si riconduce alla materia, alla forma, e al primo motore. In riferimento alla generazione, infatti, è soprattutto in questo modo che si fa ricerca delle cause — «che cosa viene dopo?», e «che cosa [35] è ciò che è agente per primo e ciò che è paziente?», e così di seguito. Duplici sono infatti i principi che muovono naturalmente, e l’uno è naturale, l’altro no, [198b] giacché non ha in se stesso il principio del movimento. Ed è tale se esso muove senza essere mosso, come ciò che è assolutamente

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immobile e il primo di tutti, e l’essenza e la forma. Infatti esso è il fine e «ciò in vista di cui». Sicché, se la natura è «ciò in vista di cui», allora dobbiamo conoscere anche questa causa. [5] E si deve dimostrare il «perché» [tò dià tí] in tutti i sensi, come ad esempio: «da questo scaturirà necessariamente questo» («da questo» inteso o in senso assoluto o per lo più); e «questo sarà così, se quello deve essere tale» (come dalle premesse segue la conclusione), e che «questa era l’essenza», e perché «questo era il meglio» - non in senso assoluto, ma in rapporto alla sostanza di ciascuna cosa.» (Aristotele, Fisica)Sono qui in azione almeno due processi contemporanei: 1. L’esigenza di fornire una chiusura logica alla catena delle cause, ad evitare di “andare all’infinito” e rendere così inattuato il progetto di spiegazione scientifica della natura attraverso l’indicazione delle cause e dei principi (in tal caso, con questa assenza, la spiegazione assumerebbe la forma della irrazionalità o comunque del fallimento nella spiegazione causale); 2. l’intenzione più generale di dar forma razionale alle tradizioni mitiche e convinzioni comuni nel campo delle tradizioni religiose, soprattutto perché (come accade ai concetti di caso e fortuna) il divino è spesso chiamato in causa, nel mito, nella tradizione, nelle ufficialità della religione (da allora e ancora oggi), per la spiegazione e la gestione delle vicende naturali e storiche.2.4.1. È infatti in termini causali che viene spesso introdotto il divino nelle vicende cosmiche per eventi di carattere naturale e per le vicende umane (il volere degli dei, Dio vuole…); e, come per la fortuna e per il caso (e loro correlati, destino, fato, sorte…), è impossibile empiricamente mostrare la fondatezza di questo legame e dunque sostenere un tipo di causalità diretta del divino (fato, destino) nelle vicende naturali; si tratta di termini indicanti soggetti fisicamente assenti, non mostrabili, razionalmente non dimostrabili e spesso presentati o ritenuti come assolutamente inesistenti. Aristotele affronta il tema del divino in rapporto al mondo a partire dalla dottrina delle cause (della polivalenza del termine causa) e riconduce il divino al modello della causalità attraverso la nozione di “motore immobile”.2.4.2. la definizione di “motore immobile” (ripresa): «[198 a 35] Duplici sono infatti i principi che muovono naturalmente, e l’uno è naturale, l’altro no, [198b] giacché non ha in se stesso il principio del movimento. Ed è tale se esso muove senza essere mosso, come ciò che è assolutamente immobile e il primo di tutti, e l’essenza e la forma. Infatti esso è il fine e «ciò in vista di cui». Sicché, se la natura è «ciò in vista di cui», allora dobbiamo conoscere anche questa causa.» (Aristotele, Fisica) Occorre chiarire subito che in prima e fondamentale istanza, la nozione di “motore immobile” permette di sostenere la tesi del carattere eterno della natura e del suo divenire (come del resto il divino: muove senza essere mosso, quindi senza un inizio di esistenza; un atto “creativo” contraddice il suo carattere “immobile”). 2.4.3. il legame divenire naturale e “motore immobile” è realizzato attraverso la nozione di causa finale: il motore immobile si presenta come causa in relazione al divenire del mondo dal punto di vista finale. Allo scopo occorrono due passaggi:2.4.3.1. va richiamata la relazione tra causa formale, causa efficiente e causa finale: il divenire rimanda ad una causa efficiente in quanto questa è definita a sua volta dall’obiettivo (causa finale) di giungere ad una forma (essenziale o qualitativa) (cfr 198 a 21ss); senza un fine, non vi è nozione alcuna di forma da raggiungere e dunque non c’è direzione né inizio del movimento, non c’è principio motore; il principio motore di una realtà eterna non è quello che la pone in esistenza (essendo appunto eterno come motore immobile) ma è quel principio che costitutivamente la attira verso il fine, che rappresenta (idealmente e formalmente) il meglio di ciascuno, cioè di ogni realtà naturale nel suo divenire essenziale e qualitativo. Il fondamento generale di tale tesi si trova nella dottrina stessa delle cause: la stessa dottrina delle cause impone una visione finalistica della natura (a livello sia metafisico che scientifico; anzi, secondo Aristotele, è dall’impostazione finalistica della realtà fisica che deriva l’impostazione scientifica finalistica), e anche una presentazione del rapporto tra motore immobile e natura in termini di causa finalistica; richiede cioè un motore immobile efficiente (motore) in quanto causa

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finale. «[198 a 30] E dal momento che la natura è duplice, da un lato materia e dall’altro forma – essa è fine, mentre le altre cose sono in vista del fine –, la forma allora sarà causa in quanto causa finale.» (Aristotele, Fisica) «[199 b 32] È dunque evidente che la natura è causa, proprio come causa finale.» (Aristotele, Fisica) In altri termini ancora, se non si dà un fine allora non si dà un inizio, perciò l’inizio si dà come causa efficiente in quanto causa finale: «[200 a 20] se il fine o sarà oppure è, allora anche ciò che precede o sarà, o è.» (Aristotele, Fisica) 2.4.3.2. il motore immobile è causa finale del mondo in quanto nella propria definizione contiene l’idea della completezza nella relazione delle cause e quindi l’idea di una perfetta forma del mondo; da questo punto di vista il motore immobile non è natura ed è, in qualche modo, natura. 1. Non è natura, perché è immobile «[198b] giacché non ha in se stesso il principio del movimento.», (mentre la natura per definizione è divenire). 2. È natura perché è il principio motore formale finalistico (quasi ideale per una compiuta cosmologia), e per la coincidenza più volte espressa da Aristotele tra principio motore e processo mobile (cfr. 3.1.5.3): «[202 a 15] l’atto del motore non è, infatti, diverso dall’atto del mobile, giacché questo deve essere atto di entrambi.» (Aristotele, Fisica), «[243 a 33] il primo motore è insieme con la cosa mossa» (Aristotele, Fisica), «[244 a 14] Ma è impossibile [15] che una cosa muova senza essere in contatto, sia da sé verso altro, sia da altro verso sé; [244b] cosicché è evidente che non v’è niente di intermedio tra ciò che è mosso e ciò che muove secondo il luogo.» (Aristotele, Fisica). Aristotele con insistenza riflette sui casi di relazione richiesti dal divenire, allo scopo di escludere enti intermedi tra causa ed effetto e segnalarne l’inutilità (ad esempio “tra ciò che è accresciuto e ciò che accresce”, lo stesso per il decrescere e soprattutto “tra ciò che è mosso e ciò che muove” Aristotele, Fisica 245 a 11); la negazione di enti intermedi, oltra a porre in crisi dottrine platoniche presenti nell’Accademia, attacca il variegato mondo della tradizione mitica e la miriade di enti intercorrenti tra terra e cielo, con l’effetto generale di ribadire, di nuovo, il motivo centrale della fisica di Aristotele: la piena autonomia della natura nei suoi stati di movimento. 3. Ma ancora, non è natura perché la piena realizzazione delle relazioni causali nella forma perfetto e ideale di ciascuna realtà è anche (sempre idealmente) l’estinguersi del divenire e quindi della natura. Perciò il motore immobile non agisce come causa efficiente esterna, come accade al Demiurgo platonico, ma come causa finale interna ed è efficiente in questo suo ruolo; se è momento della natura in quanto motore, non vi appartiene tuttavia in quanto immobile, poiché «[199 b 15] sono da natura [phýsei, per natura, appartengono alla natura, sono naturali] tutte quelle cose che, mosse in modo continuo in se stesse da un qualche principio immanente, giungono ad un fine» (Aristotele, Fisica); non appartiene con completezza a ciò che si definisce per natura; forse si può dire, ossimoricamente (se non contraddittoriamente) che resta in una situazione di immanenza trascendente (tratto forse già riscontrabile nelle narrazioni mitiche sul comportamento delle divinità olimpiche). 4. Argomentando al contrario: se il motore immobile non fosse coincidente in modo totale (e quindi universalmente diffuso, come affermano gli Stoici) con ciò che è in movimento, la Natura, allora non sarebbe immobile: estraneo ed esterno ad essa compirebbe il movimento o l’atto del muovere (del creare). È invece motore immobile interno come fine e perfezione del mosso.

3. La “Fisica”: l’oggetto della phýsis e la definizione scientifica del divenire «[200 b 12] Poiché la natura è principio di movimento e di cambiamento, e la nostra ricerca ha per oggetto la natura, non dobbiamo ignorare che cos’è il movimento. Se ignoriamo questo, infatti, [15] anche la natura rimarrà per noi necessariamente sconosciuta. Dopo aver determinato l’essenza del movimento, occorre indagare allo stesso modo tutte le proprietà che ne scaturiscono in successione. Il movimento sembra far parte delle cose continue, e l’infinito compare innanzitutto nel continuo. Perciò, a quanti definiscono il continuo, capita di utilizzare spesso la nozione di infinito, [20] dal momento che il continuo è ciò che è divisibile all’infinito. Oltre a ciò, senza il luogo, il vuoto e il tempo, anche il movimento risulta impossibile.» (Aristotele, Fisica)

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Il tema del movimento trova la propria presentazione nel libro III della Fisica e la sua analisi si sviluppa fino al libro VI, quindi occupa la parte centrale e più estesa dell’opera di Aristotele. L’esposizione ruota attorno a due passaggi: 1. La definizione del divenire (kínesis); il significato del termine e la sua essenza ontologica (qui 3.1.); 2. Gli elementi strutturali o costituenti e, conseguentemente, i predicati comuni del movimento (infinito, luogo, spazio, vuoto, tempo, continuo) (qui 3.2.).3.1. la definizione del divenire, del movimento (kínesis)Nota preliminare: il termine «movimento» (kìnesis): viene considerato come riassumente in se stesso la totalità dei fenomeni del divenire (movimenti di traslazione, di alterazione, di crescita e diminuzione, di generazione e corruzione) (L. Ruggiu, Sommari sintesi, 422)La definizione ricorrente ed essenziale, fondamentale, di movimento: il movimento è «[201 a 10] l’atto di ciò che esiste in potenza, in quanto tale.» [é tú dynàmei òntos entelécheia, é toiúton, kìnesìs estin; (costruendo: kìnesìs estin é entelécheia tú òntos dynàmei, é toiúton); nella traduzione “l’atto di ciò che esiste in potenza, in quanto tale, è movimento” (oppure: il divenire è la potenza in atto in quanto tale, cioè in atto in quanto potenza, in atto nel suo essere potenza) e segue “: ad esempio, l’atto di ciò che è alterabile, è alterazione; l’atto di ciò che si accresce e di ciò che, al contrario, diminuisce (…) crescita e diminuzione; e l’atto di ciò che si genera e che si corrompe, generazione e corruzione.] «[201 b 4] l’atto di ciò che è in potenza, in quanto potenza» (cioè, la potenza in quanto tale considerata per se stessa); «[201 b 4] è chiaro che [5] l’atto di ciò che è in potenza, in quanto potenza, è il divenire.» (Aristotele, Fisica); [«202a13 atto di questa potenza».Alcuni passi di presentazione analitica da parte di Aristotele.«[201 a 9] E poiché abbiamo distinto, [10] nell’ambito di ciascun genere, ogni cosa secondo l’atto o la potenza, l’atto di ciò che esiste in potenza, in quanto tale [ê toioýton], è movimento: ad esempio, l’atto di ciò che è alterabile, in quanto alterabile, è alterazione; l’atto di ciò che si accresce e di ciò che, al contrario, diminuisce (non esiste infatti un nome comune ad entrambi), crescita e diminuzione; e l’atto di ciò che si genera e di ciò che si corrompe, generazione e [15] corruzione; l’atto di ciò che si muove localmente, locomozione. Che il movimento sia questo, è chiaro da ciò che segue. Quando infatti ciò che è costruibile, in quanto questo lo diciamo essere tale, è in atto, allora è nel processo di costruzione, e questa è la costruzione. Similmente avviene anche per l’apprendimento, la guarigione, la rotazione, il salto, la crescita e l’invecchiamento.» (Aristotele, Fisica)3.1.1. solitamente o spesso il divenire teorizzato da Aristotele è presentato e consegnato alla formula riassuntiva «passaggio dalla potenza all’atto». Al di là dell’ovvietà (e forse inutilità) della formula, in tal modo il divenire è descritto nel suo togliersi, nel suo non essere, se ne indica solo l’inizio (quando non c’è) e la fine (quando si è estinto nella quiete della forma). La definizione fornita, e più volte, da Aristotele, esplicitamente quindi, si concentra invece sul concetto di potenza; il divenire è «l’atto di ciò che è in potenza, in quanto potenza». 3.1.2. esplicitamente Aristotele torna sull’espressione «in quanto tale», «in quanto potenza»: «[201 a 29] E dico «in quanto tale» in questo senso: il bronzo è [30] potenzialmente una statua; ma non è l’atto del bronzo, in quanto bronzo, che è il movimento. Non è infatti la stessa cosa l’«essere bronzo» e l’«essere in potenza» in quanto mobile; se essi, infatti, fossero la stessa cosa in senso assoluto, cioè nella definizione, allora l’atto del bronzo, in quanto bronzo, sarebbe movimento. Ma, come s’è avuto modo di dire, essi non sono la stessa cosa.» (Aristotele, Fisica)Dunque il movimento è l’essere in atto della potenza in quanto potenza, non in quanto forma; e non è nemmeno l’assenza di atto (come quando si dice che una cosa è in potenza, quindi non in atto), né per la forma verso cui tende (che peraltro giustifica il termine stesso potenza in quanto essa è in riferimento a una forma), ma è l’atto della potenza in quanto tale. Con questa formula è presentato non solo il divenire, ma, in quanto il divenire è essenza della natura, l’essenza stessa della natura indicata come atto della potenza in quanto potenza. Il suo esistere consiste nel «generarsi come realtà sempre diverse» (tõ aei állo kai állo ghígnesthai) [206 a 22].

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3.1.2.1. «Quando perciò Aristotele determina il movimento come «l’atto di ciò che esiste in potenza, in quanto tale» (III,1, 201 a 10ss.), con ciò non definisce il movimento attraverso il riferimento ai concetti di potenza e di atto, quanto non fa altro che esprimere il movimento nella sua struttura concettuale.» (sintesi Ruggiu p.423) Non spiega cioè il movimento attraverso concetti che rimandano ad altro da esso, all’esterno di esso, ma con concetti che lo descrivono strutturalmente e intrinsecamente. «…potenza e atto sono lo stesso movimento nella sua armatura concettuale, mentre il movimento è l’immediata connessione di potenza e atto in quanto espressione della realtà determinata che è nel divenire.» (sintesi Ruggiu p. 423)3.1.2.2. «Il chiarimento del senso del significato del movimento si incentra sulla caratterizzazione dell’«in quanto», che evidenzia come l’atto qui richiamato si riferisce non al sostrato, né alla forma, ma al processo che porta dall’uno all’altro. Quindi non semplicemente atto, né semplice potenza. Pertanto, la realtà nel divenire, indica l’essere che esiste in quanto è in atto nel processo. Che non consiste affatto nell’annullamento della potenza nell’atto compiuto della forma — in tal caso il movimento è visto solo al passato, è stato, non è —, né nell’atto della materia — che come tale è, ma non diviene —, bensì nell’atto di una potenza che rimane sempre nello stato di potenzialità, in quanto l’attuazione si costituisce insieme come nuova apertura alla potenza. Per questi motivi, il divenire è un processo che non ha né un inizio assoluto, né una fine, ma rimane essenzialmente nell’incompiutezza (III, 2, 201 b 32). Aristotele è ben consapevole della grande difficoltà che esiste nel comprendere questa determinazione del movimento: «difficile da comprendere, e tuttavia perfettamente ammissibile» (III, 2, 202 a 2 ss.).» (sintesi Ruggiu p. 423-424)3.1.2.3. «Non accenna, come il concetto di potenza sembra richiamare, ad una capacità latente che può divenire atto, purché non esista niente che lo impedisca. La potenza alla quale si fa riferimento nel divenire non rinvia ad un atto, ad una realtà realizzata che ha raggiunto il fine e la forma della propria compiutezza. Al contrario, «l’atto di una potenza in quanto tale» non scinde i due concetti, cioè potenza e atto, ma li mantiene in inestricabile unità. Il divenire non è realtà in atto senza potenza, giacché in tal caso esso è e non diviene. Né pura potenza, che può anche non attualizzarsi mai. L’«in quanto» [é toiúton] che compare nella definizione — e sul quale termine Aristotele richiama l’attenzione — indica la particolare prospettiva dalla quale la potenza va vista: si tratta di una potenza che rimane ed è atto, "in quanto" potenza. Il divenire va dunque inteso rifacendosi agli esempi che Aristotele adduce, nello stesso modo nel quale si dice che una lotta «è», o che una giornata «è». Cioè si ha a che fare con delle realtà che esistono essenzialmente nel e come divenire e processualità. La potenzialità propria del divenire è in atto come potenzialità. La processualità quindi costituisce non un carattere transeunte, ma permanente, delle cose che sono dette “essere nel divenire”.» (L Ruggiu, Saggio introduttivo, p. XLIII) 3.1.3. ancora spiegando analiticamente: «[201 b 28] esso [movimento] non è collocabile né fra le realtà che sono in potenza, né tra quelle che sono in atto: infatti, [30] né la «quantità», considerata in potenza, di necessità si muove, né la «quantità» considerata in atto. E invece il movimento sembra essere un certo atto, benché incompiuto. La ragione di ciò dipende dal fatto che ciò che è in potenza — e di cui il movimento costituisce l’atto —, è incompiuto. E proprio per questo risulta difficile cogliere che cosa sia il movimento. In effetti non sembra assolutamente possibile collocare il movimento tra le realtà che sono necessariamente o nella privazione, o nella potenza o nell’atto, considerati [35] in senso assoluto. Non resta dunque che considerare il movimento [202a] nel senso sopra detto, e cioè che esso è un certo atto, ma atto quale prima abbiamo detto che, sebbene difficile da intendere, tuttavia è qualcosa di realmente esistente.» (Aristotele, Fisica)3.1.4. l’essenza e la definizione del movimento, del divenire, come «l’atto di ciò che è in potenza, in quanto potenza» compare significativamente nella presentazione di una sua ulteriore caratteristica essenziale, l’infinito, cui Aristotele riserva una trattazione analitica a partire dal capitolo 4 del libro III. «[206 a 19] Ma non si deve assumere l’esistenza potenziale come equivalente alla espressione «questo è [20] in potenza statua», nel senso che sarà in seguito una statua; sicché, analogamente, l’infinito è qualcosa in potenza che, in seguito, potrà essere in atto. Ma poiché l’essere si dice in

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molti modi, l’infinito esiste al modo in cui diciamo che esiste una giornata o una lotta, per il loro generarsi come realtà sempre diverse. (E in effetti, in questi esempi, le realtà di tale tipo hanno un’esistenza sia in potenza che in atto. Quando affermiamo, infatti, che «vi sono i giochi olimpici», questo va inteso sia nel senso che «la lotta esiste in potenza», [25] sia nel senso che «essa è effettivamente realizzata»).» (Aristotele, Fisica) Dunque, e di nuovo, ciò che viene posto in risalto della natura, quando si presenta il movimento come sua essenza e quando si definisce il movimento come «l’atto di ciò che è in potenza, in quanto potenza», è il fatto che le realtà che si dicono naturali, o che appartengono alla natura, si caratterizzano «[206 a 22] per il loro generarsi come realtà sempre diverse»; questo dato afferma e spiega l’assunto generale di partenza della definizione di natura nella Fisica di Aristotele: «[192 b 13] È manifesto, infatti, che tutte le cose che sono da natura , hanno il principio del movimento e del riposo in se stesse» (Aristotele, Fisica), e questo autonomia accade perché la natura, a differenza di altri ambiti (quali quelli di enti ideali e astratti come la matematica, o divini, in cui domina la forma per se stessa) è sede della potenza in atto in quanto tale. 3.1.4.1. Specificando: «il significato del movimento come «atto di ciò che esiste in potenza, in quanto tale» […] vale analogamente in rapporto ad ogni specie di movimento (locale, crescita o diminuzione, generazione o corruzione). […] Il chiarimento del significato generale del divenire, fa perno sull’espressione «in quanto», che entra come parte della definizione sopra esposta del movimento. L’espressione pone l’accento sul fatto che l’atto fa riferimento non alla cosa che nel movimento fa da sostrato — ad esempio al bronzo —, ma alla potenzialità del processo che porta il bronzo ad essere da statua in potenza, a atto del processo che realizza infine la statua. Dunque, il riferimento è non all’atto del sostrato, né all’atto della statua realizzata, ma all’atto del processo che porta dall’uno all’altro. Quindi, il divenire è atto del processo, cioè è l’atto di ciò che è in potenza che, in quanto mobile, è movimento.» (analisi Ruggiu, 451) 3.1.5. l’espressione «l’atto di ciò che è in potenza, in quanto potenza» contiene, ed è innegabile, una forzatura di carattere ontologico e si presenta se non come una contraddizione per lo meno come un ossimoro: atto e potenza sono, nella metafisica di Aristotele, concetti contrari; non riportabili all’opposizione essere e non-essere, ma certo tra loro estremi; ciò che è in potenza non è in atto e ciò che è in atto non è in potenza; resta sorprendente quindi l’espressione «l’atto di ciò che è in potenza, in quanto potenza». Questo tratto di vicinanza alla contraddizione spiega forse le sottolineature continue, le precisazioni di Aristotele in proposito e la constatazione esplicita che si tratta di una spiegazione ««difficile da comprendere»; ma, per completezza, Aristotele ribadisce: «[202 a 2] difficile da comprendere, e tuttavia perfettamente ammissibile» (Aristotele, Fisica) L’uscita dalle difficoltà è fornita da Aristotele con una doppia indicazione.3.1.5.1. la prima: avverte che si tratta di un processo, di un divenire in corso, segnato quindi da una naturale e inesorabile incompletezza; non è né potenza, né atto, ma atto della potenza o potenza in atto. «[201 b 31] E invece il movimento sembra essere un certo atto, benché incompiuto. La ragione di ciò dipende dal fatto che ciò che è in potenza — e di cui il movimento costituisce l’atto —, è incompiuto. E proprio per questo risulta difficile cogliere che cosa sia il movimento. In effetti non sembra assolutamente possibile collocare il movimento tra le realtà che sono necessariamente o nella privazione, o nella potenza o nell’atto, considerati [35] in senso assoluto.» (Aristotele, Fisica)3.1.5.2. la seconda: sottolinea, più volte e in più ambiti, la necessaria coincidenza di agente e paziente, di motore e mobile. «Il cap. 3 [del libro III] costituisce un’analisi delle aporie del movimento, e il chiarimento che l’atto del motore e l’atto del mobile è identico e uno, differente soltanto per specie, l’uno è agente, l’altro paziente. E questi due momenti sono nel medesimo soggetto, in quanto l’atto è il medesimo e si riferisce a due cose distinte, una in atto, l’altra in potenza. Agire e patire non sono i due movimenti, ma soltanto due aspetti del medesimo processo.» (sintesi Ruggiu, p. 424).Si tratta di osservazioni fondamentali per ribadire la tesi centrale di Aristotele circa l’autonomia della natura dal punto di vista del movimento («appartengono alla natura, tutte quelle cose che,

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mosse in modo continuo in se stesse da un qualche principio immanente, giungono ad un fine.» [199 b 15]). 3.1.5.3. Le tesi direttamente da Aristotele: «[202 a 13] La soluzione della difficoltà è manifesta: il movimento è in ciò che è mobile. Infatti, esso è atto di questa potenza, determinato dall’agire di ciò che ha la capacità di produrre il movimento; [15] l’atto del motore non è, infatti, diverso dall’atto del mobile, giacché questo deve essere atto di entrambi. Una cosa è capace di muovere in quanto può muovere, mentre quando essa è in atto, è motore. Ma motore è ciò che può operare su ciò che è mobile. Si dà infatti un unico atto per entrambi allo stesso modo, così come la distanza è la medesima sia che si consideri il rapporto di uno a due, sia quello di due a uno; similmente è una stessa via quella che va in su e [20] quella che va in giù — giacché sono un’unica e identica cosa, mentre invece la loro definizione non è unica. Lo stesso vale per la considerazione del motore e di ciò che è mosso.» (Aristotele, Fisica)3.1.5.3.1. Dunque: “L’atto del motore e l’atto del mobile sono identici e uno, differenti per specie.” (Così sintesi Ruggiu al paragrafo). Alcune precisazioni analitiche. 1. L’autonomia della natura, in quanto segnata dal movimento come suo dato essenziale e originario, implica la coincidenza tra motore e movimento (come la strada all’insù è la strada all’ingiù; come la distanza tra Atene e Tebe è la distanza tra Tebe e Atene; la citazione di Eraclito e l’esempio sono di Aristotele). 2. Motore e movimento, distinti concettualmente (sono infatti per nozione e definizione distinti), hanno la stessa sede nel soggetto naturale (nel vivente) e nella natura come condizione di movimento e, segnatamente, di automovimento; pur non escludendo nel soggetto movimenti determinati da cause esterne. 3. Poiché il soggetto naturale (vivente) in cui il movimento accade è individuale, l’incontro tra motore e movimento avviene in forma assolutamente singolare, ma non in modo che il principio motore (e solo quello, cioè l’attività) appartenga ad un soggetto e il movimento (e solo quello, cioè la passività) appartenga ad un altro; in tal caso il soggetto non sarebbe vivente (come accade agli oggetti tecnici) e in generale la natura non sarebbe autonoma. In natura se vi è movimento è perché vi è un motore in atto, e se vi è un motore in atto vi è movimento; si può forse pensare ad un motore in atto che non produce movimento, ma è contraddittorio affermarne l’esistenza fisica. 4. Gli esempi di Aristotele indicano l’applicabilità di questa coincidenza fisica in molti campi e con esisti sorprendenti: un insegnamento che non produce apprendimento, che non è contemporaneamente apprendimento, nega se stesso, non è insegnamento; i due elementi devono essere entrambi presenti nello spesso soggetto e coincidono. In ogni soggetto, per la individualità che li caratterizza, la loro coincidenza si presenta con forme e contenuti diversi, ma deve naturalmente accadere; il docente insegnando apprende, il discente apprendendo insegna: dà a se stesso elementi per apprendere, elementi che si traducono realmente in apprendimento solo se è lui stesso a produrli in forma personale, se e in quanto, in certo modo, è docente di se stesso; «[202 a 32] così l’insegnamento e l’apprendimento, sebbene siano due, sono in colui che apprende». I passi da Aristotele sul tema: «[202 a 31] Ma se entrambi sono nel soggetto – appunto ciò che muove e ciò che subisce la sua azione –, allora saranno assieme azione e passione (così l’insegnamento e l’apprendimento, sebbene siano due, sono in colui che apprende.)[202 a 36] Però, si dirà, è [202b] assurdo che, per due cose che sono differenti per la forma, l’atto sia il medesimo e unico. E lo sarà, qualora insegnamento e apprendimento siano identici, e siano ugualmente la stessa cosa azione e passione. [5] Insegnare sarà la stessa cosa che imparare, e agire la stessa cosa che subire l’azione — l’insegnante perciò necessariamente imparerà ciò che egli insegna, e così colui che agisce subirà la propria azione.» (Aristotele, Fisica) Quindi, concettualmente distinti, fisicamente coincidenti, cioè appartengono allo stesso soggetto.«[202 b 19] E quest’affermazione vale in senso generale: l’insegnamento non è la stessa cosa che [20] l’apprendimento, così come neppure l’azione, in senso rigoroso, è la stessa cosa che la passione, benché esse appartengano allo stesso soggetto, il movimento appunto. Infatti l’atto di questa in quello, e l’atto di quella con l’azione di questa, sono differenti per il concetto.» (Aristotele, Fisica)

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3.1.5.3.2. Effetti della coincidenza operativa di azione e passione sulla dottrina del motore immobile in relazione alle questioni di una sua immanenza e trascendenza nei confronti della natura. «[202 a 15] l’atto del motore non è, infatti, diverso dall’atto del mobile, giacché questo deve essere atto di entrambi. Una cosa è capace di muovere in quanto può muovere, mentre quando essa è in atto, è motore.» (Aristotele, Fisica)

3.2. Gli elementi strutturali o costituenti e, conseguentemente, i predicati comuni del movimento (infinito, luogo, spazio, vuoto, tempo, continuo)«Di questa realtà "difficile da comprendere", occorre ora determinare gli aspetti strutturali che la costituiscono. Si tratta di quegli aspetti che Aristotele chiama "generali" o comuni ad ogni ente che diviene, e cioè: infinito, spazio, vuoto, tempo e continuo. All’analisi di questi aspetti strutturali Aristotele dedica alcuni libri della Fisica, con lo sviluppo di un’indagine che per profondità, analiticità ed estensione non solo non ha uguali nel mondo antico, ma che anche costituisce il luogo di origine e nello stesso tempo l’orizzonte di gran parte del pensiero occidentale. […] Questo significa che ciascuna delle strutture che si prendono in esame si intreccia strettamente con tutte le altre, proprio perché solo assieme costituiscono il fenomeno della cosa che diviene. Questo rimarca che nessuna delle strutture prese in esame esiste da sola, e quindi non costituisce un ente a sé stante, ma essa esiste sempre e solo nella relazione con altro: lo spazio con il tempo, e il tempo con lo spazio, ad esempio. Inoltre, da nessuna di queste singolarmente considerata, si potrà costruire quel fenomeno complesso che è il divenire. Da questo deriva che la ricerca assume sempre come punto di partenza il divenire come complesso, dato come fenomeno originario, che viene quindi analizzato e distinto nei suoi elementi semplici costitutivi. La considerazione del divenire richiede che vi sia questa sorta di "ricostruzione" mentale del fenomeno nella sua complessità, nella quale ciascun aspetto implica necessariamente tutti gli altri, all’interno di una medesima omogenea struttura. Né si deve dimenticare che la struttura concettuale del divenire come «atto della potenza in quanto tale» costituisce lo sfondo dell’analisi di ogni singolo momento. E che dunque il concetto di "potenza" gioca un ruolo primario e decisivo.» (L. Ruggiu, Saggio introduttivo, p. XLIII-XLV)3.2.1. Indagine sull’infinito: infinito (àpeiron) predicato che inerisce a tutte le determinazioni strutturali richiamate nel movimento, in quanto sono continue (synechés) (L. III capp. 4-8).[nota al termine ápeiron, á-peiron infinito o indefinito?; senza limite, senza definizione? «… il divenire considerato in quanto tale… si pone come infinito, cioè, in termini aristotelici, indefinito»(L. Ruggiu, Saggio introduttivo, p. LXI); vi si affianca il termine aòriston, indeterminato… non riconducibile a una realtà definita o determinata]3.2.1.1. L’infinito per tutti i primi pensatori appare come «principio e divino, inizio e fondamento di tutte le cose. Una sostanza eterna e separata. Ma non esiste un infinito come sostanza, bensì esso è attributo delle cose, ed esiste soltanto in esse e con esse, come accade al movimento. Ma questo non vuol dire che l’infinito sia inesistente. L’affermazione dell’esistenza dell’infinito è attestata dal tempo, dalla grandezza, dal continuo e dall’infinità delle generazioni, dall’infinità del pensare, dal numero e dalle grandezze matematiche. Senza il ricorso all’infinito, tutte queste realtà, e quindi innanzitutto e principalmente il movimento, neppure potrebbero essere pensate. [… ] Inoltre, si mostra l’impossibilità che esso esista come realtà in atto, come sostanza o come principio. Né può esistere un corpo infinito in grandezza. […] Dunque, la soluzione aristotelica afferma che l’infinito in qualche modo è, cioè come potenza, in qualche modo non è, in quanto considerato in atto. In potenza, esso è presente nel tempo, nel continuo e nella grandezza, nella generazione degli uomini. Inoltre, l’infinito si dà sia per composizione che per divisione. Se vogliamo dare realtà e attualità all’infinito, esso esiste solo al modo di una giornata o di una lotta: queste sono realtà costituite dall’essere nel divenire, che stanno sempre nel processo. L’infinito va quindi considerato negativamente, come una essenziale incompiutezza, come ciò al di fuori del quale esiste sempre qualcosa. Mentre invece ciò al di fuori del quale non c’è nulla, è l’intero ed è compiuto, non infinito. Quindi l’infinito è come la materia dell’intero, e quindi, inconoscibile in questo suo carattere di costitutiva incompiutezza. La conoscenza si costituisce solo in quanto determina ed ha a

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che fare con il limitato. » (L. Ruggiu, sintesi, p. 424-425) E, l’infinito, non esiste in atto; molte sarebbero le aporie, che Aristotele analiticamente mette in evidenza, ma è potenza, e, alla stregua del movimento, è l’atto di una potenza come potenza. Viene indicata, questa potenza, con il termine infinito in quanto, nel suo essere in atto come potenza, apre ogni realtà continua ad una sua ulteriore vicenda, ad un suo altro accadere; come nella sequenza del numerare, del generare, del pensare… Nella affermazioni di Aristotele: «[206 a 25] È chiaro che l’infinito esiste, in diversi modi, nel tempo, nelle generazioni degli uomini, nella divisione delle grandezze. In senso generale, infatti, l’infinito esiste in questo modo: lo possiamo prendere in considerazione in quanto ogni parte è sempre diversa dall’altra. Ciascuna parte che viene assunta è però sempre qualcosa di finito, ma sempre nuova e diversa. [E poiché «essere» si dice in molti modi, [30] l’infinito non lo si deve assumere come una realtà individua, come se si trattasse di un uomo o di a casa, ma si dice che esso esiste, nello stesso modo in cui esiste una giornata o una lotta: in queste realtà l’esistenza non si dà come una certa sostanza, ma si presenta come realtà che esiste in quanto è sempre nella generazione e nella corruzione: ogni suo momento è finito, ma sempre diverso].» (Aristotele, Fisica) 3.2.1.2. Viene qui applicata all’infinito la definizione e la concezione ontologica del divenire e quindi la struttura ontologica della natura stessa considerata come sede del movimento: l’infinito non è sostanza ma proprietà; non esiste in atto (si tratterebbe di una contraddizione, come dire che esiste un infinito finito); in se stesso è in potenza e poiché questo suo essere in potenza si attua nella natura, dunque una potenza cui compete lo statuto proprio della natura: la sua esistenza è l’atto della potenza in quanto tale (in quanto potenza o come potenza); esiste nella potenza del suo processo, come nel numerare, come nelle generazioni, come nei pensieri… in tutto ciò che, in quanto continuo, è sempre possibile un processo in altro. Il suo esistere, afferma Aristotele, consiste nel «generarsi come realtà sempre diverse» (tô aei állo kai állo ghígnesthai) [206 a 22]. 3.2.1.3. In modo più analitico: «La strategia argomentativa aristotelica consiste nell’ammettere l’infinito, ma nello stesso tempo nel ricondurne la sua natura alla potenza, e quindi nell’escludere che esista un infinito in atto. […] Dunque l’infinito non può essere in atto, bensì esso è una “certa” potenza. Ma non si tratta di una potenza che potrà giungere all’atto, bensì di potenza che si caratterizza per il fatto che essa non può mai passare all’atto verso il quale essa tende. Essa è la potenza che non ha mai finito d’essere in potenza e in cui l’atto — o piuttosto il sostituto dell’atto —, non può dunque essere altro che la reiterazione indefinita di questa potenza. Ma ciò significa che, alla pari del movimento, abbiamo a che fare, anche in relazione all’infinito, con «l’atto di una potenza in quanto tale», cioè con una potenza che è in atto nel suo carattere di potenzialità. Ora così come il divenire è tale solo in quanto si mantiene nel processo, cioè nell’essere continuamente altro da sé, lo stesso accade all’infinito. L’infinito si caratterizza per il fatto che non ha mai finito di divenire altro, tô aei állo kaì állo gígnesthai, o ancora di essere sempre diverso, aei gar éteron kai éteron. Questa natura, comune al divenire e all’infinito, fa sì che l’infinito non sia una cosa determinata, cioè una realtà sostanziale compiuta e quindi solo atto, un tode ti. Per caratterizzarne l’essenza Aristotele assume come realtà di riferimento una lotta o una giornata. Anche in questo caso abbiamo a che fare con qualcosa di essente, il cui essere consiste in un rinnovamento perpetuo, una ripetizione indefinita in un caso dell’istante, nell’altro dello sforzo. In entrambi, si tratta di realtà il cui essere consiste nel divenire, cioè nell’essere continuamente altro da sé. Si delinea allora una stretta parentela fra infinito e movimento. Anzi, per dir meglio, l’infinito si presenta come momento costitutivo del divenire, in questa sua natura di incompiutezza, atéleia. La presenza dell’infinito nel divenire è espressione di costitutiva incompiutezza.» (L. Ruggiu, Saggio introduttivo, p. XLIV, XLV)3.2.1.4. L’infinito (àpeiron) è predicato che inerisce a tutte le determinazioni strutturali richiamate nel movimento, in quanto sono continue (synechés): luogo, spazio, vuoto, tempo. L’infinito trasferisce la propria natura a tutti gli elementi continui che sono richiesti strutturalmente (e non accidentalmente) perché vi sia il movimento; in essi l’infinito si caratterizza come proprio di tutte le realtà continue che, per la loro continuità e per il divenire naturale di cui sono essenzialmente connotati, esprimono sempre altro da ciò che sono. Poiché l’infinito esprime la natura del

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movimento e ne caratterizza gli elementi strutturali (spazio, tempo, continuo), e poiché il movimento definisce gli enti naturali, l’infinito stesso quindi esprime la dinamica della natura; in particolare, è bene ribadirlo, essa consiste nel «generarsi come realtà sempre diverse». La Fisica di Aristotele diventa l’opera in cui la natura mette in esistenza non una ontologia delle sostanze, ma una ontologia dei fatti, dell’accadere e di una continua alterità richiesta dal movimento nella sua valenza autenticamente ontologica. Vanno qui sottolineate di nuovo le parole di Aristotele: «[206 a 29] E poiché «essere» si dice in molti modi, [30] l’infinito non lo si deve assumere come una realtà individua, come se si trattasse di un uomo o di a casa, ma si dice che esso esiste, nello stesso modo in cui esiste una giornata o una lotta: in queste realtà l’esistenza non si dà come una certa sostanza, ma si presenta come realtà che esiste in quanto è sempre nella generazione e nella corruzione: ogni suo momento è finito, ma sempre diverso.» (Aristotele, Fisica)«[207 a 7] Infinita è dunque quella grandezza della quale, rispetto alla quantità data, è possibile continuare a prendere una parte sempre nuova.» (Aristotele, Fisica) Ciò vale per l’intera natura delle realtà continue e, nell’uomo, per la generazione e, segnatamente, per il pensare. «Il suo essere è espressione di una realtà la cui essenza è tale da poter procedere in modo indefinito nella sua attività. Questa realtà è quella del pensare. È appunto il pensare che costituisce non la metafora dell’infinito, ma l’attività indefinita che fa emergere la struttura del continuo.» (L. Ruggiu, Saggio introduttivo, p. XLVII)3.2.2. Indagine sul luogo, sullo spazio, sul vuoto. La complessità del tema è espressa dalla varietà di termini già a disposizione sul tema e a cui lo stesso Aristotele ricorre per rispondere al proposito: «[208 a 27] Necessariamente chi si occupa della natura deve occuparsi anche del luogo, per stabilire, come in precedenza a proposito dell’infinito, se esso esiste oppure no, in che modo e in che cosa è.» (Aristotele, Fisica Libro IV) Di nuovo l’analisi diventa confronto con la tradizione filosofia e con il linguaggio a disposizione sul tema per affrontarlo nella direzione della sua chiarificazione scientifica.3.2.2.1. i termini: tópos (luogo, spazio), chóra (spazio), kenón (vuoto) … e avverbi di luogo (pou).tópos: indifferentemente tradotto con luogo e con spazio; 1. è lo spazio dei corpi «[208 b 27] ogni corpo sensibile esiste nello spazio», di conseguenza non c’è luogo / spazio senza corpi; di conseguenza fuori dal mondo, universo (ouranós) non esistono luoghi; lo spazio o è cosmico o non è; 2. ma assume anche il concetto e la funzione di limite, in quanto è inteso come spazio occupato da un corpo, che è quindi il suo luogo e il suo spazio finito, delimitato «Il limite è la determinazione nella quale corpo e luogo sono vincolati.» L. Ruggiu, Saggio introduttivo, p. XLVIII); 3. lo spazio è il luogo dei corpi, ma è «[208 b 27] qualcosa di ulteriore rispetto ai corpi»; sia perché quello spazio/luogo può essere occupato da altri corpi, sia in relazione al movimento; dunque, se il luogo è lo spazio dei corpi, lo spazio non coincide con i corpi né i corpi con lo spazio, non ci sarebbero altrimenti né differenze né movimento. « Ogni corpo è in un luogo, in quanto nello stesso tempo ogni luogo è luogo di un corpo. Esiste quindi insieme una distinzione logica tra luogo e corpo, e nello stesso tempo un rapporto di reciproca implicazione, sicché l’uno non si dà senza l’altro.» (L. Ruggiu, Saggio introduttivo, p. XLIX); 4. il luogo come spazio diventa la condizione di movimento dei corpi: infatti Aristotele sottolinea più volte la non coincidenza tra corpo e lo spazio o il luogo in cui si trova o che lo delimita, infatti lo stesso spazio può essere occupato da corpi diversi (e l’esempio è del vaso che può essere occupato ora dall’acqua, ora dall’aria). Senza lo spazio che delimita e accoglie non esistono i corpi e il loro movimento, senza i corpi non esiste lo spazio e la sua funzione dinamica, vi sarebbe il vuoto; 5. e indica anche il luogo (alto / basso) degli elementi naturali primi (fuoco, aria, acqua, terra) e, di conseguenza il luogo verso cui naturalmente i corpi fisici tendono in base alla propria natura o alle proprie qualità fisiche (leggerezza, pesantezza); quindi diventa concetto di formulazione della legge fondamentale della fisica terrestre per Aristotele (tema che verrà ripreso), infatti qui allo spazio/luogo (luogo naturale) viene attribuita una forma o una certa dýnamis (lo spazio: échei tinà dýnamin); al tendere del corpo al proprio luogo naturale corrisponde una certa potenza (o, forse, forza di attrazione) esercitata sui corpi dai luoghi naturali degli elementi.

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chóra: tradotto con spazio, - spesso in abbinamento, quasi come sinonimo, di tópos; - in Platone il sostrato materiale indeterminato nutrice di forme; - è la materia – potenza e privazione secondo Aristotele (ma non non-essere); - si avvicina al concetto di infinito se inteso come potenza: «[206 b 15] In potenza, l’infinito esiste con le stesse modalità della materia, e non come una cosa finita che ha un’esistenza per sé.» (Aristotele, Fisica) Non è la materia a costituire l’assetto della natura nel suo dinamismo ma le essenze che la costituiscono in forma di legami possibili tra i quattro elementi noti (terra, acqua, aria, fuoco). Osserva Samuel Kuhn: «... la materia (nella Fisica, non nella Metafisica), proprio per la sua onnipresenza e neutralità qualitativa, è un concetto fisicamente non necessario. Ciò che popola l’universo aristotelico, che spiega sia la sua diversità sia la sua regolarità, è costituito dalle “nature” immateriali o “essenze”; il corrispondente appropriato dell’odierna tavola periodica non è costituito dai quattro elementi aristotelici, ma dal quadrangolo delle quattro forme fondamentali.» Thomas S. Kuhn, Riflessioni sui miei critici 1970 (in Lakatos Imre, Musgrave Alan (a cura di) 1970 Critica e crescita della conoscenza, Feltrinelli, Milano 1986, 355)«Ai quattro vertici di un quadrangolo vanno assegnate, nell’ordine, le quattro qualità elementari, caldo, secco, freddo, umido; i quattro lati rappresentano allora i quattro elementi, nell’ordine fuoco, terra, acqua, aria. …il passo aristotelico (De generatione et corruptione, Lib. II, 3:330a30-330b5): “Poiché [...] le qualità elementari sono quattro, e le coppie che si possono formare da quattro termini sono sei, ma i contrari per natura non si accoppiano [...] è evidente che le coppie di qualità elementari saranno quattro: caldo e secco, caldo e umido, freddo e umido, freddo e secco. E logicamente queste coppie si attribuiscono […] ai corpi che ci appaiono semplici, fuoco, aria, acqua e terra. Infatti il fuoco è caldo e secco, l’aria è calda e umida [...], l'acqua fredda e umida, la terra fredda e secca.”» (ivi, N.d.C.i.] kenòn: vuoto; abbinato a spazio e ad essi viene attribuito il concetto di infinito, se spazio non indica il luogo occupato da un corpo, perché il vuoto è assenza di corpi; ma la sua funzione è plurima:- definito come assenza di corpi («[213 b 30] … che cosa significa il termine «vuoto» (tò kenòn). Il vuoto, infatti, sembra essere un luogo nel quale non c’è nulla (en õ medén esti).»), in realtà il vuoto non può essere un luogo, in quanto il luogo è lo spazio di un corpo e dei corpi; - introdotto in quanto condizione di movimento ne è invece impedimento e negazione: in quanto assenza di corpi il vuoto non può diventare il luogo (contenitore) del loro movimento; inoltre, nel vuoto non vi è né alto né basso… nessuna dimensione spaziale; in quanto tale è privo di direzioni e non può essere luogo o sede di movimento. Il moto dei corpi si spiega con riferimento a alternanza, rimpiazzamento, cambiamenti di luogo (a tale scopo si sottolineava la distinzione tra corpo e spazio e anche tra luogo [limite del corpo] e spazio), contrazione, condensazione, rarefazione dei corpi; il principio è esplicito: «[214 a 28] poiché il pieno può essere alterato», la natura è un intero che è sede del movimento ed è l’insieme dei corpi nella varietà locale, quantitativa e qualitativa dei loro moti. «[214 b 28] E a quanti affermano che il vuoto esiste necessariamente, dato che esiste il movimento, [30] se si fa attenzione, capita piuttosto il contrario di quanto essi affermano, e cioè che non è possibile che alcuna cosa sia mossa, se esiste il vuoto. In effetti, allo stesso modo di quanti sostengono che la terra è in riposo a causa della sua perfetta omogeneità, così anche nel vuoto necessariamente le cose saranno in riposo. Non vi è infatti un luogo in cui le cose possano essere mosse di più o di meno; in effetti, in quanto vuoto, esso non contiene [215a] nessun elemento di differenza.» (Aristotele, Fisica) «[215 a 8] Infatti, in quanto è infinito, non vi sarà né alto, né basso, né centro, mentre in quanto vuoto, l’alto non differisce in nulla dal basso. Come [10] infatti non esiste alcuna differenza nel nulla, così non ne esiste neppure nel vuoto.» (Aristotele, Fisica)- segnala la situazione di assenza di corpi e in quanto assenza di corpi il vuoto è un concetto con una propria definizione ma non una realtà fisica; dunque non esiste (è contraddizione affermarne l’esistenza in atto). 3.2.2.2. la legge naturale o fisica: il tendere degli elementi (e di conseguenza dei corpi composti da quegli elementi: fuoco, aria, acqua, terra ed etere) verso il proprio luogo naturale: « [216 a 30] E sempre, in ogni corpo suscettibile di cambiamento di luogo, questo cambiamento avverrà di

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necessità nella direzione conforme alla natura del corpo e, a meno che esso non venga compresso, cambierà di luogo sempre o verso il basso, se il moto è verso il basso, come nel caso della terra, o verso l’alto, se si tratta di fuoco, o in entrambi i sensi, oppure secondo il corpo in esso introdotto.» Ma il luogo naturale mostra e ospita la natura dinamica dello spazio; afferma Aristotele: «esso ha una certa capacità» (échei tinà dýnamin); se per noi mutano le collocazioni (alto e basso, destra e sinistra, davanti e dietro) al variare della nostra posizione, esse sono stabili in natura perché i luoghi naturali hanno una loro dýnamis, una “forza” che si esplica in tutta la realtà di cui essi sono principi materiali o elementi (stoichéia). «[208 b 8] Inoltre i movimenti locali dei corpi naturali semplici, come fuoco, terra e altri elementi simili, [10] mostrano non solo che lo spazio è qualcosa, ma anche che esso ha una certa capacità (échei tinà dýnamin). Infatti ogni cosa è trasportata verso il proprio luogo, se niente l’ostacola, l’una in alto, l’altra in basso. E queste determinazioni sono parti e specie dello spazio: alto, basso e le altre sei direzioni. Queste differenze, infatti, — alto e basso, [15] destra e sinistra — non esistono solo in rapporto a noi. Esse non si presentano a noi sempre nello stesso modo ma, a seconda di come siamo rivolti, mutano posizione; perciò la stessa cosa è destra e sinistra, alto e basso, davanti o dietro. Mentre in natura ciascuna di queste determinazioni esiste separatamente. Non capita perciò a qualunque cosa di essere in alto, [20] ma questo è il luogo dove viene trasportato il fuoco e ciò che è leggero; analogamente, il basso non è il luogo per qualunque cosa a caso, ma è il luogo delle cose che sono pesanti e composte di terra. I luoghi non differiscono dunque solo per la posizione, ma anche per le forze che essi hanno.»3.2.3. Indagine sul tempo. Ed è da subito necessario constatare la stretta relazione tra spazio e tempo nella fisica aristotelica, la loro interdipendenza e il loro essere associati nel divenire; ad entrambi (come all’infinito) si negano i tratti di una statica sostanza e si attribuiscono le condizioni di un processo; si tratta di individuarne la specifica base. Aspetti in analisi. 3.2.3.1. alcuni suoi tratti costituenti portano a pensare che non esista, che non abbia una realtà propria: il passato non c’è più, il futuro non c’è ancora, esiste solo il presente (l’“ora”, l’adesso). Delle tre componenti del tempo l’unica esistente sembra essere l’“ora”, l’istante. In realtà le cose si danno in modo diverso e ciò è posto in risalto dal legame tra tempo e continuo.3.2.3.1.1. L’istante è un elemento temporale, ma esso blocca il tempo nella sua continuità; in quanto elemento indivisibile, quindi discontinuo, interrompe il tempo che, come il movimento e la grandezza, costituiscono dei continui. L’istante è solo il limite tra passato e futuro; nella sua funzione di limite e in quanto destinato a consegnarsi ad altro (proprio perché è istante, segnato dalla inesorabile e certa fugacità), la sua natura è negarsi. Se si considera vera la tesi secondo cui «il tempo è composto da istanti» [239 b 31], allora il tempo diventa una realtà composta di non-enti, cioè viene negato; tesi che Aristotele confuta, utilizzando il concetto di continuo, la nozione di retta (grandezza) e il richiamo al movimento di cui il tempo è numerazione: «[241 a 2] … il tempo non è composto da istanti, né la linea da punti, né il movimento da movimenti elementari.» (Aristotele, Fisica). L’istante è dunque, come afferma Aristotele, solo il limite tra due dimensioni del tempo: passato e futuro. «[233 b 33] È necessario anche che l’istante, considerato non per altro, ma per se stesso e in senso originario, sia indivisibile, e che, [35] come tale, esso sia presente in ogni tempo. Esso è infatti un estremo del passato, [234a] nel quale non v’è niente del futuro, e inversamente, è un estremo del futuro, nel quale non v’è nulla del passato: e questo è appunto quanto diciamo essere «limite» (péras) di entrambi. Una volta che si sarà mostrato che l’istante ha questa natura per sé, ed è identico, allora sarà insieme evidente che esso è indivisibile.» (Aristotele, Fisica)Dunque la relazione tra tempo e istante: il tempo non è l’insieme di istanti, quindi di indivisibili, ma è un continuo infinito (e «[233 b 17] in termini generali nulla di ciò che è continuo sarà indivisibile» e nessun continuo è composto da indivisibili, altrimenti la contraddizione); l’istante interrompe il tempo come corso e percorso ponendosi a limite tra passato e futuro o consegnando il tempo alle dimensioni “personali” (attuali e variabili) di passato e futuro.3.2.3.1.2. Ma, contemporaneamente, l’istante è alla radice (“involontariamente” ma per natura) del carattere infinito del tempo. L’istante, non costituente come elemento materiale il tempo, ne segna tuttavia la dinamica in quanto limite tra passato e futuro (è colui che consegna il tempo alle

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dimensioni del passato e del futuro), e ne segna anche la natura di infinito. Se si ponesse infatti come istante ultimo, cade pur sempre nel tempo e ne costituisce un tratto intermedio o di passaggio per la natura del suo stesso scomparire (è infatti istante); del resto anche lo scomparire è una forma del tempo o richiede il concetto di tempo… e così all’infinito. «[251 b 19] E dal momento che è possibile che esista e possa essere [20] pensato il tempo senza l’istante, mentre l’istante è qualcosa d’intermedio, nello stesso tempo principio e fine — principio del futuro e fine del passato —, di necessità allora il tempo esisterà sempre; infatti l’estremità dell’ultimo tempo considerato, sarà nell’istante: non è infatti possibile assumere nel tempo null’altro che [25] l’istante. Cosicché, poiché l’istante è principio e fine, allora necessariamente da una parte e dall’altra vi sarà del tempo. Ma se ciò vale per il tempo, è evidente che anche il movimento esiste necessariamente, dal momento che il tempo è una certa affezione del movimento.» (Aristotele, Fisica) 3.2.3.2. la chiave di comprensione del tempo è data dall’infinito e dalla sua specifica caratteristica: non è in atto, non è solo in potenza, è in atto come potenza e, in particolare, in natura, per infinito si intende la possibilità continua di «passare ad altro». «[206 a 21]…l’infinito esiste al modo in cui diciamo che esiste una giornata o una lotta, per il loro generarsi come realtà sempre diverse. […] È chiaro che l’infinito esiste, in diversi modi, nel tempo, nelle generazioni degli uomini, nella divisione delle grandezze.» (Aristotele, Fisica)3.2.3.3. il rapporto tra tempo e movimento: le tre affermazioni. a. non è movimento, b. non esiste senza movimento, c. è numero del movimento secondo il prima e il poi. L’analisi di si svolge considerando la differenziazione degli elementi del prima e del dopo in tre specifiche situazioni naturali, contrassegnate dalla continuità (cioè: «[220 b 26] in quanto tutte queste sono quantità continue e divisibili»): nella grandezza (nello spazio, prima e dopo in rapporto alla posizione), nel movimento (in rapporto alla loro corrispondenza perché vi sia movimento), nel tempo (in rapporto alla successione); situazioni che hanno una propria autonomia ma che si legano naturalmente. 3.2.3.4. la conseguente definizione del tempo: «[219 a 33] Mentre quando percepiamo «ciò che è prima» e [219b] «ciò che è dopo», allora parliamo di «tempo». In effetti il tempo è questo: il numero del movimento secondo «prima» e «poi» (arithmòs kinéseos katà tò próteron kai ýsteron). Il tempo non è dunque movimento, ma è tale in quanto il movimento ha un numero. C’è una prova di questo: noi infatti giudichiamo il «più» e il «meno» mediante il numero, e determiniamo il [5] «più» e il «meno» del movimento mediante il tempo. Dunque il tempo è una specie di numero. E dal momento che il numero è duplice — noi parliamo infatti di numero sia in riferimento a ciò che è numerato o numerabile, sia in rapporto al mezzo con il quale noi numeriamo —, il tempo è allora ciò che è numerato, e non il mezzo mediante il quale numeriamo: è infatti differente «ciò per mezzo del quale» numeriamo e «ciò che» è numerato. E come il movimento è sempre differente, così [10] lo è anche il tempo…» (Aristotele, Fisica)A richiamo e commento della definizione: «tempo (chrónos): il numero del movimento secondo il primo e il poi. Numero, in quanto numerato e numerabile, non come mezzo di numerare o numero matematico.» (L. Ruggiu, parole chiave 532) 3.2.3.5. «[223 a 19] È giusto anche esaminare in che modo il tempo si rapporta all’anima. […] …qualcuno potrebbe sollevare questa difficoltà: il tempo esisterebbe o meno se non esistesse l’anima? Se non esiste infatti ciò che può numerare, è impossibile che vi sia qualcosa che può essere numerato; sicché è evidente che neppure il numero può esistere.» (Aristotele, Fisica)«Il concetto di numero, che costituisce dunque l’elemento essenziale caratterizzante l’essenza del tempo, richiama necessariamente l’anima che sola può numerare, dal momento che il numero non sussiste come realtà oggettiva per se stante. Il numero è sempre numero-di cose, e richiede pertanto da un lato l’attività numerante della coscienza, e dall’altro il contenuto che è numerato. Ma l’uno non sussiste realmente senza l’altro. […] Il tempo, quindi, non è né una pura affezione soggettiva, né una realtà che si colloca semplicemente dal lato dell’oggetto, ma significa il punto d’incontro di soggetto e oggetto.» (L. Ruggiu, Saggio introduttivo, LIII, LIV)Il movimento è misurato dal tempo e in generale, essere nel tempo è essere misurati dal tempo, e poiché il tempo è misura che richiede la capacità di numerare dell’anima, essere nel tempo è essere

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misurati dall’anima (dalla psyché); il tempo, sempre diverso, dei nostri movimenti (mutamenti, divenire) ci è reso noto dall’anima. Del resto è l’“ora”, l’istante percepito e vissuto a costituire sia la continuità del tempo, il suo scorrere, sia la divisione del tempo, che l’istante consegna alle due opposte dimensioni del passato e del futuro. «[222 a 10] L’“ora” è, come si è affermato, la continuità del tempo. Infatti esso unisce il tempo passato e quello futuro, ed è il limite del tempo, giacché è principio dell’uno e fine dell’altro.» (Aristotele, Fisica)In conclusione: «Senza la coscienza della processualità temporale, la stessa esperienza del tempo sembra annullarsi. […] Quando infatti non percepiamo alcun movimento e non abbiamo coscienza che un certo movimento è avvenuto, neppure abbiamo notizia dello svolgimento temporale. Quindi l’uno non si dà senza l’altro, pur non essendo l’uno assimilabile all’altro. L’individuazione di "che cosa" il tempo sia del movimento, è strettamente collegata con l’atto di determinazione della coscienza del prima e del dopo.» (L. Ruggiu, Saggio introduttivo, LI)3.2.3.6. il tempo cosmico: il moto circolare del cielo. Il tempo del moto del cielo e la perfezione del moto circolare e della sua conoscibilità ne fanno un tempo unico (una circolarità “naturale” che si pone all’origine della convinzione che tutto abbia inizio e fine; all’origine della nozione vissuta del tempo generale) 3.2.3.6.1. Si tratta di un tempo unico per la definizione del tempo e della sua misurazione, per la condivisione di uno stesso movimento cosmico: «[223 b 3] In effetti, il tempo è uno e medesimo in quanto assunto come uguale e simultaneo; mentre anche quelli che non sono simultanei, uno per la forma. Se [5] infatti vi fossero dei cani e dei cavalli, entrambi in numero di sette, il numero sarebbe lo stesso» (Aristotele, Fisica)3.2.3.6.2. Si tratta di un tempo condiviso in quanto primario, per la sua evidenza, conoscibilità e perfezione propria del moto locale circolare. «[223 b 15] E, come abbiamo detto, il tempo è misurato mediante il movimento e il movimento mediante il tempo. (E questo in quanto è sulla base di un movimento determinato dal tempo che viene misurata sia la quantità del movimento che quella del tempo). Se dunque ciò che è primo, è misura di tutte le cose dello stesso genere, il moto circolare uniforme è misura in senso primario, in quanto [20] il suo numero è ciò che v’è di maggiormente conoscibile. Dunque né il movimento di alterazione né quello di accrescimento o di generazione sono uniformi, mentre il moto locale lo è. Per questo motivo sembra anche che il tempo sia il moto della sfera celeste, in quanto mediante questo movimento noi misuriamo e gli altri movimenti e il tempo. E a causa di ciò si comprende anche la convinzione corrente che afferma che [25] gli affari umani sono un circolo, e questa convinzione la si estende alle altre cose che hanno movimento naturale, generazione e corruzione. E questo in quanto tutte le cose sono caratterizzate dal tempo, e hanno fine e principio come fossero in circolo.» (Aristotele, Fisica) 3.2.3.7. Una domanda ricorrente e non proponibile. Quando ha avuto inizio il mondo (la natura, l’universo)? 3.2.3.7.1. Il tempo come struttura interna al movimento è quindi interna al mondo inteso come insieme delle cose che esistono in forza della loro immanente capacità al movimento / cambiamento / divenire. Non può dunque essere termine e dimensione che, definendo il mondo nella sua struttura interna, possa essere considerato esterno ad esso, come un “tempo in sé” separato da qualsiasi movimento e quindi incomprensibile e (perché) inesistente. La nozione di tempo non può quindi dar luogo a domande sulla temporalità (inizio o fine) che riguardino l’interezza del mondo concepito come uno, poiché in tal modo si considererebbe il tempo come una realtà esterna; una specie di contenitore dell’intero che, nell’apparente spiegazione, rilancia la domanda circa il suo ulteriore contenitore e il suo specifico inizio e così all’infinito. 3.2.3.7.2. In quanto insieme delle realtà che posseggono il principio dell’automovimento («mosse in modo continuo in se stesse da un qualche principio immanente»), la natura è per definizione eterna. La domanda ricorrente, spontanea e apparentemente ovvia su quando abbia avuto inizio, trasferisce un quesito, che risulta sensato quando riferito ad un qualsiasi movimento determinato naturale, all’intera natura come sede del movimento, ma con esiti paradossali.

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3.2.3.7.3. Collocata in questo nuovo contesto quella domanda perde di senso e di ammissibilità, è destinata perciò a restare senza risposta per diversi motivi. 1. Annulla la definizione di natura come realtà segnata da un principio immanente di movimento e dalla conseguente coincidenza, posta in risalto da Aristotele, di motore e mobile. 2. Ammette il tempo come precedente e esterno al movimento, mentre il tempo è numerazione e misura del movimento ed è quindi un tratto interno alla natura stessa. 3. Presuppone così, perché possa essere formulata come domanda, l’esistenza di ciò di cui chiede l’inizio e le condizioni di formulabilità (il tempo eventuale, ipotizzato per paradosso o per assurdo, che era prima del mondo da quale movimento era scandito o di quale movimento era espressione e, a sua volta, quando ha avuto inizio?). Nella l’affermazione di Aristotele: «[221 b 3] Sicché è evidente che «le cose che sono sempre», proprio in quanto sono sempre, non sono nel tempo, perché non sono comprese [5] nel tempo, né il loro esistere è misurato dal tempo. Prova ne è il fatto che queste cose non subiscono nessuna affezione da parte del tempo, proprio perché esse non sono nel tempo.» (Aristotele, Fisica)3.2.3.7.4. Come ulteriore componente alla radice della domanda non formulabile in esame (quando ha inizio il mondo) è la ricorrente tentazione di dare vita sostanziale agli strumenti e ai concetti, rendendoli entità esterne al loro stesso divenire e alla loro sede naturale; anche per il tempo ricorre infatti la tendenza a pensarlo come ente, come realtà a sé. «Anche la ricerca sul tempo, chrónos, che viene sviluppata nei capitoli 10-14 del libro IV della Fisica, si costituisce come analisi dell’esperienza del tempo quale essa appare solidificata nel linguaggio, nel mito e nella riflessione filosofica. […] Ora tutte le aporie del tempo, analogamente a quanto abbiamo visto anche a proposito delle aporie del luogo, sorgono in quanto si fa del tempo una realtà che ha una propria consistenza ed autonomia, al pari di un qualunque ente. Esso sembra affidarsi alla "presenza" per essere. Ma l’essere del tempo è un essere nella successione. Sicché la concezione volgare che sostanzializza il tempo, necessariamente ne pone in questione la sua esistenza, quando ne riduce l’essere al modello dell’ousìa, dell’essere sostanziale. Pertanto l’analisi del tempo deve necessariamente negare del tempo lo status dell’esistenza dell’ente naturale, e quindi occorre che il suo essere nella successione non venga interpretato a partire dall’istante. Il divenire è quindi modalità dell’essere che necessariamente si svincola da un’ontologia della presenza naturale.» (L. Ruggiu, Saggio introduttivo L, LI)3.2.4. il concetto di continuo «[258 a 21] ciò che è in movimento è necessariamente continuo» (Aristotele, Fisica)«[231 a 21] Se «continuo», «contatto» e «consecutivo» esistono nel modo in cui sono stati definiti in precedenza — «continuo è ciò i cui estremi sono uno»; «contatto è ciò i cui estremi sono insieme», «consecutivo è ciò in cui non esiste come intermedio nulla che abbia la medesima natura» —, risulta impossibile che qualcosa di continuo sia costituito da indivisibili, come ad esempio la linea [25] da punti, se la linea è continua e il punto è indivisibile. Le estremità dei punti non sono infatti «uno», dal momento che non esiste un estremo che sia qualcosa di diverso dalla parte della cosa indivisibile; né gli estremi sono assieme, poiché non esiste un estremo di ciò che non ha assolutamente parti: l’estremità è infatti altro da ciò di cui essa è estremità.» (Aristotele, Fisica) [nota: «continuo è ciò i cui estremi sono uno» come ogni punto di una circonferenza]Il movimento si dà come continuo; il continuo è cioè un elemento di definizione essenziale del movimento e in qualche modo ne condivide la definizione: atto della potenza in quanto potenza.3.2.4.1. note al passo e all’enunciato: « risulta impossibile che qualcosa di continuo sia costituito da indivisibili, come ad esempio la linea [25] da punti, se la linea è continua e il punto è indivisibile»La tesi è sorretta dal concetto di continuo, definito per se stesso, escludendo quindi che possa essere ricondotto a parti indivisibili di cui sarebbe la somma o il contatto o la contiguità; in tal caso infatti verrebbe negato come continuo sia in termini di divisibilità, sia in termini di caratteri strutturali ed essenziali specifici. «[231 b 13] Ma nessun continuo è divisibile in componenti che non ammettono parti.»; «[231 b 15] Risulta pertanto evidente che ciò che è continuo è divisibile in parti sempre divisibili.» (Aristotele, Fisica); se un continuo è divisibile lo è come continuo e quindi le parti in cui è diviso sono a loro volta divisibili, cioè sono un continuo; un continuo infatti può essere

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determinato nella sua dimensione dai suoi estremi, ma non pensato come riducibile a ciò che esso non è. È dalla presentazione del concetto di continuità che Aristotele costruisce la dinamica del movimento, ne delinea complessivamente i caratteri propri, sia del movimento che delle sue componenti concettuali: spazio, tempo e lettori geometrici di quelle realtà (come retta, circonferenza…) «[241 a 2] … il tempo non è composto da istanti, né la linea da punti, né il movimento da movimenti elementari.» (Aristotele, Fisica) Con la nozione di continuo confuta le teorie di coloro negavano la realtà fisica ed ontologica del movimento catalogandolo come illusione o apparenza, come accade alla tradizione che deriva da Parmenide e come è, in particolare, formulata da Zenone e dai sui paradossi: della freccia, di Achille, dello stadio…la continuità del percorso rende possibile il movimento che si attua su di esso. La divisibilità è un elemento che definisce la continuità e rende possibile la percorribilità secondo forme e velocità diverse da parte di corpi mobili, come Achille e la tartaruga; un continuo non è un insieme infinito di momenti discontinui, come la linea non è un insieme infinito di punti; la tradizione geometrica che proviene dagli Elementi di Euclide evidenza la diversa natura del punto e della linea, quello privo di dimensioni, questa con una dimensione, e non è possibile che ciò che è privo di dimensioni possa diventare elemento costituente di una realtà ideale definita da una dimensione.La tesi, analiticamente, rimanda ai seguenti aspetti: 1. Il punto è privo di dimensioni e indivisibile, la retta ha una dimensione, la lunghezza, ed è divisibile. 2. Se il punto fosse parte della retta ha una sua identica natura: la divisibilità. 3. La retta in quanto continuo (e perciò divisibile) non è composta da punti (indivisibili) (perciò è percorribile vs Zenone). «[233 b 15] Risulta dunque evidente… che né la linea, né la superficie, né in termini generali nulla di ciò che è continuo, sarà indivisibile» 4. « Questo vale anche per grandezza, tempo e movimento» (Ruggiu sintesi al capitolo 1) e per tutti gli ambiti in cui l’oggetto considerato ha i tratti della continuità: lo spazio, il tempo, la grandezza e altri come il vivente e i suoi atti, la società… e ciò anche oltre le esplicite tesi di Aristotele, ma in loro applicazione).In altro modo possono essere presentati i passaggi del ragionamento di Aristotele (soprattutto quelli rivolti a chi nega il movimento naturale o lo riduce a un fatti di apparenza e di illusioni): 1. Il movimento è continuo. 2. La continuità implica la divisibilità all’infinito e la divisibilità attesta la continuità. 3. La divisibilità esclude la discontinuità e quindi il continuo non può comporsi di parti indivisibili, non è un aggregato di discontinui. 4. Il continuo è percorribile nel movimento (che è continuo) e nelle diverse forme continue e numerabili del movimento. 3.2.4.1.1. Allargando l’area di utilizzo del concetto, sembra applicabile anche alla società che va intesa come un continuo e non si può considerare come costituita da unità autonome e indivisibili sociali per se stesse; in quanto società gli individui in essa sono presenti nella loro dimensione sociale, non nella loro dimensione di indivisibilità e irrelazione individuale.3.2.4.2. altro tratto del continuo: in esso non si dà un primo. «[236 b 8] … in tutte le cose che si dicono divisibili per sé e non per accidente, in nessuna di esse si dà un «primo», come ad esempio nelle grandezze.» (Aristotele, Fisica) Un tratto che si applica a enti geometrici, come la retta, la circonferenza e assimilati e, nel campo fisico, alle realtà infinite (spazio, tempo) e in particolare, a partire dalla circonferenza, al cielo come luogo del moto continuo, uno, infinito e… perfetto. Si tratta di realtà per le quali, quindi, una domanda circa il primo o l’inizio (in senso temporale e spaziale) risulta non formulabile in quanto priva di senso.3.2.4.3. il continuo (tempo, spazio, grandezza) non può essere costituito da indivisibili: l’arresto del percorso in momenti (istanti o punti) considerati come luoghi di passaggio fisico annulla la continuità stessa, sia perché trasforma l’infinito potenziale, presente nel continuo, in un infinito in atto, sia perché considera il continuo come fermo e composto da infiniti punti di arresto come accade, per esempio, nelle aporie presentate da Zenone, seguace di Parmenide. Si tratta di aporie che si basano su errate nozioni del movimento e degli elementi strutturali che lo costituiscono e, in particolare, manca la nozione di continuo come componente essenziale del movimento e di ogni movimento, viene interpretata in modo inammissibile la nozione di infinito;

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nozioni errate o mancanti che impediscono a coloro che negano il movimento, di vedere la realtà nell’evidenza della sua esperienza sensibile.«[239 b 5] Zenone invece commette degli errori nel dire che tutto sta, o sempre in riposo, o in movimento; ma una cosa sta in riposo quando occupa uno spazio che è uguale a se stessa e ciò che si muove è sempre nell’istante; dunque, la freccia in movimento è immobile. Ma questo è falso; il tempo, infatti, non è composto di istanti indivisibili, così come nessun altra grandezza lo è. Vi sono [10] quattro argomenti di Zenone che fanno difficoltà a coloro che vogliono risolverli. Il primo è quello sull’impossibilità del movimento, in quanto ciò che si muove deve raggiungere la metà prima del termine: di questo si è avuto modo di parlare in precedenza. Il secondo argomento è quello chiamato «Achille». Consiste in [15] questo: che il più lento non sarà mai raggiunto nella corsa dal più veloce; questo perché è necessario che l’inseguitore, prima raggiunga il punto dal quale colui che è inseguito è partito; sicché il più lento necessariamente avrà un qualche vantaggio sull’inseguitore. Lo stesso argomento vale per la dicotomia: se ne differenzia nel fatto che, nella divisione della grandezza, non viene divisa in due anche la grandezza [20] aggiunta successivamente. Pertanto, il più lento, stando alle conclusioni del ragionamento, non sarà raggiunto dal più veloce; e questo risultato si produce seguendo le stesse argomentazioni del ragionamento sulla dicotomia. (In entrambi i casi, infatti, il limite non può essere raggiunto, poiché la grandezza è divisa in certo modo; ma in questo argomento si aggiunge che neppure chi è reputato il più veloce può raggiungere, nell’inseguimento, quello che è più lento). Cosicché anche la soluzione del problema sarà la stessa. Ma è falso ritenere che colui che sta avanti non possa essere raggiunto; [25] infatti, quando esso sta avanti, non è raggiunto, mentre sarà raggiunto, purché si sia d’accordo che quella da percorrere è una linea finita. Questi sono i due primi [30] argomenti. Il terzo, citato prima, afferma che la freccia scagliata è immobile; ma questo risultato è conseguenza della tesi che il tempo è composto da istanti; se non si concede questa premessa, l’argomentazione non starà in piedi.» (Aristotele, Fisica)3.2.4.3.1. le ragioni di Zenone, qui preso come emblema storico di chi nega il divenire e la molteplicità non negandone l’evidenza, ma denunciandone l’irrealtà, l’apparenza e l’illusorietà. Si tratta di ragioni che indirettamente lo stesso Aristotele rispetta e ha ben presenti. Nel movimento vi è sempre una passività, una potenzialità che si accompagna a contingenza, accidentalità, imprevedibilità, precarietà, mancata realizzazione, tensione mai raggiunta, assenza di un chiaro fine attuato e quindi di un senso complessivo per l’intera vicenda, per l’intero percorso, cammino, movimento… ; è presente, insomma, tutto ciò che può turbare i concetti relativi ad una realtà di forme perfette, definite e permanenti e il nostro desiderio di stabilità e quiete e magari di felicità. Ma, secondo Aristotele, quella precarietà e potenzialità è ben più reale (e avvincente) del desiderio di quiete e stabilità; anzi, per chiarezza, questi ultimi desideri di perfezione si definiscono e si nutrono in forza di quella potenzialità e contingenza. La stessa felicità è, per Aristotele, attività e movimento, non quiete come in un sonno. «Avendo dunque trattato delle virtù, delle amicizie e dei piaceri, resta che parliamo in abbozzo generale della felicità, giacché la consideriamo come il fine delle azioni umane. E se ci riferiamo a ciò che s’è detto prima, il nostro ragionamento potrà essere più breve. Abbiamo detto che essa non è una disposizione: in tal caso infatti essa si troverebbe anche in chi dormisse tutta la vita, vivendo così una vita puramente vegetativa e in chi subisse le più grandi disgrazie. Se dunque questo non può ammettersi, bensì piuttosto dobbiamo porre la felicità in un’attività, come s’è detto precedentemente, e se delle attività alcune sono necessarie ed eleggibili in vista d’altro, altre invece sono scelte per se stesse, è evidente che bisogna porre la felicità tra le attività scelte per esse stesse e non tra quelle scelte in vista di altro; infatti la felicità non è manchevole di null’altro, bensì è autosufficiente. Sono eleggibili per se stesse quelle attività dalle quali non ci si attende altro all’infuori dell’attività stessa.» (Aristotele, Etica Nicomachea)3.2.4.4. il continuo, il finito, l’infinito Più in generale, conclude Aristotele: «[238 b 17] E poiché in un tempo finito il finito non potrà percorrere l’infinito, né l’infinito il finito, né l’infinito percorrere l’infinito, è allora evidente che non sarà neppure possibile un movimento infinito in un tempo finito» (Aristotele, Fisica) (si

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ipotizzava infatti l’impossibilità di Achille di raggiungere la tartaruga, cui aveva concesso un margine di vantaggio iniziale, perché, in teoria, si trovava a dover percorrere uno spazio finito in uno spazio infinito, vista la sua divisibilità infinita, e in un tempo infinito; ma questo vale anche per la tartaruga, quindi nessuno dei due, contro l’evidenza, né avanza, né l’uno supera l’altro; la gara non si avvia; non è mai partita e non parte finché non si accetta la continuità, varia, di un tempo finito).In conclusione: «[241 a 26] Non esiste nessun cambiamento che sia infinito, giacché ogni cambiamento è da un certo punto ad un certo punto, sia che il cambiamento avvenga secondo la contraddizione, sia che avvenga secondo i contrari. […] E questo lo sarà anche di ogni alterazione, in quanto l’alterazione deriva da certi contrari. Parimenti accade anche alla crescita e alla diminuzione, dal momento che il limite della crescita [241b] è costituito dalla grandezza perfetta secondo la natura propria dell’oggetto, mentre il limite della diminuzione è dato dalla perdita di tale grandezza. […] Se dunque ciò che si muove sta per mutare in qualcosa, sarà anche possibile che esso muti. Sicché [10] il suo movimento non è infinito, né potrebbe esservi uno spostamento infinito, in quanto non è possibile percorrere l’infinito. È dunque manifesto che non vi è cambiamento infinito che quindi non abbia limiti che lo determinino. […] Ma se si produce un movimento che è uno, non è possibile che sia infinito in forza del tempo, a meno che non si tratti di un movimento uno, quello circolare.» (Aristotele, Fisica) Come accade al moto dei cieli.

4. La “Fisica” e i settori di studio in programma e costruzione: le relazioni4.1. Fisica e ontologia4.1.1. L’impostazione ontologica della fisica di Aristotele a partire dalla complessità del termine “movimento” presentato come essenza prima di ciò che deve considerarsi natura. «Infatti, ciò che indichiamo con il termine «movimento» e che traduce i due significati che Aristotele spesso usa in modo indifferenziato e quasi come sinonimi, e cioè kìnesis e metabolé, ricomprende in sé tutte le diverse forme di movimento — generazione e corruzione, alterazione, crescita e diminuzione, traslazione — e cioè rispettivamente — adottando le categorie come schema di riferimento —, il movimento secondo la sostanza, quello secondo la quantità o la qualità o il luogo. La riduzione di queste forme al moto locale non viene dunque operata mediante la costituzione dei movimenti secondo schemi matematicamente quantificabili e quindi sottoponibili ad oggetto di misura, come avviene nello schema della fisica-matematica della scienza moderna. Dunque, oggetto primario della «fisica» aristotelica è il divenire in quanto tale. Anzi e più precisamente: tema primario della fisica aristotelica è l’essere nel divenire. Si tratta pertanto di un’ontologia del divenire, cioè insieme di una trattazione del divenire come essere e dell’essere visto in quanto esso si determina «nel» e «come» divenire. Non solo il divenire viene considerato in quanto tale, analizzato nel suo contenuto strutturale, e quindi costituito come «significato», cioè come espressione di intelligibilità, ma insieme è scomposto e analizzato nelle sue condizioni strutturali costitutive, nelle quali esso si dà come realtà esistente, cioè come essere e come realtà che esiste nella processualità. […] Quindi con la Fisica abbiamo a che fare non tanto o principalmente con un trattato di epistemologia, quanto con una indagine di ontologia, che pone come proprio oggetto un aspetto essenziale dell’essere: il divenire.» (L. Ruggiu, Saggio introduttivo, XVI- XVII, XVIII)La fisica, come base ontologica del movimento così ampiamente inteso, vincola dunque tutte le altre ricerche naturali specifiche, dall’astronomia, alla biologia, all’antropologia ai concetti fondanti delle scienza naturali espressi nella Fisica. In ogni ricerca occorre partire dall’enunciato fondamentale che ciò che esiste in natura diviene (in più modi) poiché, strutturalmente, possiede un principio intrinseco del movimento ed è “in atto la propria potenza in quanto potenza”. 4.1.2. La fisica e la sua impostazione ontologica alla base (a sostegno e guida) dei settori di ricerca naturalistica. Lo sguardo va al piano complessivo, e complesso o vasto, dell’opera o del progetto aristotelico, e nel piano, al ruolo specifico della Fisica e del suo oggetto di trattazione.

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«I vari trattati che hanno per argomento le diverse parti della scienza della natura, e che sono stati composti lungo diversi decenni di lavoro, costituiscono i momenti di un disegno unitario di enciclopedia delle scienze della natura. [Osserva Aristotele:] «Si è trattato dunque precedentemente delle cause prime della natura e di ogni movimento naturale; ancora, degli astri ordinati nella traslazione superiore e degli elementi corporei, quali e quanti siano, e dei loro reciproci mutamenti, infine della generazione e corruzione in generale. Rimane ancora da esaminare la parte di questa ricerca che tutti i predecessori chiamavano meteorologia; ed essa include tutti i fenomeni che avvengono per natura, ma non con la regolarità che caratterizza l’elemento primo dei corpi, nel luogo che è più vicino alla traslazione degli astri: come la via lattea, le comete, le stelle ardenti e cadenti, e quelli che possiamo considerare processi comuni dell’aria e dell’acqua; inoltre le diverse forme e parti della terra e i processi cui sono soggette queste parti; e muovendo da queste ricerche potremo quindi studiare le cause dei venti, dei terremoti e tutto ciò che si verifica in relazione ai loro movimenti: in alcuni casi non giungeremo a delle conclusioni, di altri fenomeni potremo comprendere alcune caratteristiche. Ci occuperemo ancora della caduta dei fulmini, dei tifoni, dei turbini e degli altri ricorrenti fenomeni, che accadono per condensazione di questi stessi corpi.» (Meteorologici, [tr. L. Pepe] I, 1, 338 a 20 - 339 a 9.) L’ordine di questo programma di ricerca, riferito all’attuale ordinamento delle diverse opere, è dunque questo: 1. Fisica, opera che viene indicata come una trattazione dei principi in generale dell’essere che è nel divenire; questa indagine viene caratterizzata come ricerca delle «cause prime della natura e di ogni movimento naturale»; 2. De Coelo, cioè l’universo nel suo insieme, i corpi celesti, gli elementi corporei; 3. De generatione et corruptione; 4. Meteorologici. Vengono quindi le opere di zoologia e di botanica, e quelle che trattano in generale degli esseri viventi. Fra queste è compreso anche il De anima. […] … se consideriamo non solo l’enorme estensione delle ricerche fisiche, ma riflettiamo sul fatto che anche i trattati De Anima e Parva Naturalia, che sono indagini di psicologia e di fisiologia, e che le ricerche di embriologia sviluppate in De generatione Animalium fanno parte del progetto di indagine aristotelica sulla phýsis, si potrà avere immediatamente un’idea del rilievo immenso assunto da queste indagini in Aristotele. L’insieme dei trattati fisici copre, come è noto, circa 600 pagine doppie dell’edizione di Berlino, cioè molto più della somma delle pagine degli scritti di logica, metafisica, morale e politica. Già questi dati sono sufficienti per comprendere l’importanza storica della svolta impressa da Aristotele. In questo modo, egli recupera all’indagine scientifica il mondo, che rischiava di rimanere inesplorato e frutto di conoscenza solo approssimativa. In questo preciso senso si deve parlare di continuità di fondo che Aristotele conserva con la tradizione della fisica ionica (Kahn), nel momento in cui la oltrepassa declassandola ad indagine particolare.» (L. Ruggiu, saggio introduttivo, XX, XXVI)

4.2. Fisica e matematica: distinzione (autonomia) e relazione (intreccio).4.2.1. la separazione e la specificità della matematica: lo studio delle forme geometriche matematiche considerate come separate dal movimento e dai corpi fisici. «[193 b 31] Di queste cose, dunque, tratta anche il matematico — ma non in quanto ciascuna di esse costituisca un limite del corpo fisico —, né egli esamina gli attributi in quanto questi si predicano di queste realtà. Ed è per questo motivo che egli li separa, perché essi sono, sul piano conoscitivo, separabili dal movimento né, se vengono separati, questo fa alcuna differenza [35] né si produce errore.» (Aristotele, Fisica)La citazione, tratta dal libro II (cap. 2), è inserita in un ragionamento più ampio: «[193 b 22 – 194 a 15] Dopo aver definito in quanti modi si dice «natura», dobbiamo prendere in esame in che cosa il matematico differisce dal fisico. In effetti i corpi fisici posseggono superfici e volumi, [25] linee e punti, sui quali indaga il matematico. Inoltre, l’astronomia o è diversa dalla scienza della natura, oppure ne è parte. Sarebbe infatti assurdo se compito del fisico fosse conoscere cos’è il sole o la luna, mentre invece non fosse di sua competenza lo studio dei loro attributi essenziali. Mentre

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invece coloro che studiano la natura e fanno oggetto di indagine la forma della luna e del sole, [30] ricercano anche se la terra e l’universo siano sferici o meno. Di queste cose, dunque, tratta anche il matematico — ma non in quanto ciascuna di esse costituisca un limite del corpo fisico —, né egli esamina gli attributi in quanto questi si predicano di queste realtà. Ed è per questo motivo che egli li separa, perché essi sono, sul piano conoscitivo, separabili dal movimento né, se vengono separati, questo fa alcuna differenza [35] né si produce errore. Anche quelli che sostengono la dottrina delle idee fanno la stessa cosa, ma senza rendersene conto. Essi infatti separano gli oggetti fisici, [194a] che pure sono meno separabili di quanto non lo siano gli enti matematici. Questo diviene subito chiaro, non appena uno si sforza di dire le definizioni di entrambi, ossia quelle delle cose stesse e dei loro attributi. Da un lato, infatti, dispari e pari, retta e curva, e d’altro lato numero, [5] linea e figura esistono senza movimento; mentre carne, ossa e uomo, non sono mai tali, ma queste ultime si dicono come quando parliamo di «naso camuso», non di «linea curva».E ciò appare anche dalle scienze che più sono fisiche fra quelle delle matematiche, come ad esempio ottica, armonica e astronomia: queste scienze, infatti, sono l’inverso della geometria. [10] La geometria indaga sulle linee fisiche, ma non in quanto fisiche; l’ottica, invece, fa oggetto d’indagine le linee matematiche, ma non in quanto matematiche, bensì in quanto fisiche.E poiché «natura» si dice in duplice senso, sia come forma che come materia, dovremmo indagare su di essa allo stesso modo in cui studiamo il concetto di camuso, proprio perché queste cose non sono né senza materia, né esclusivamente [15] in riferimento alla materia.» (Aristotele, Fisica) 4.2.2. l’incontro concettuale operativo produttivo tra fisica e matematica: alcuni temi.4.2.2.1. il concetto di infinito e gli aspetti strutturali del movimento che l’infinito caratterizza, in particolare lo spazio e il tempo, implicano il concetto di grandezza continua, quindi la sua perenne divisibilità. Lo schema (in senso kantiano) che sorregge il concetto di infinito e il correlato della continuità, è dato da due concetti matematici/geometrici: il numero e la retta. Al numero, e in particolare al numerare, Aristotele fa riferimento per presentare la natura dell’infinito: «[206 a 27ss] … l’infinito esiste in questo modo: lo possiamo prendere in considerazione in quanto ogni parte è sempre diversa dall’altra […] L’infinito si caratterizza per il fatto che non ha mai finito di divenire altro […] ogni suo momento è finito, ma sempre diverso»; e per presentare la grandezza nella sua natura e nel suo incremento, come quando afferma che il due è il numero minimo; intendendo con la parola numero, arithmòs, una quantità e come tale dotata di una sua specificità, che non le deriva dall’essere somma di entità individuali (come a dire, restando nella tradizione pitagorica, che l’uno genera i numeri, il due è la grandezza minima). «[220 a 27] Il numero minimo, in senso assoluto, è due.» (Aristotele, Fisica) 4.2.2.2. alla retta, per gli aspetti che la definiscono nella sua continuità, Aristotele fa esplicito riferimento assumendola a fondamento di metodo per più di un percorso. 1. Per fornire una corretta definizione della retta come un continuo infinitamente divisibile e quindi non interpretabile come insieme di punti indivisibili. («[231 a 21] Se «continuo», «contatto» e «consecutivo» esistono nel modo in cui sono stati definiti in precedenza — «continuo è ciò i cui estremi sono uno»; «contatto è ciò i cui estremi sono insieme», «consecutivo è ciò in cui non esiste come intermedio nulla che abbia la medesima natura» —, risulta impossibile che qualcosa di continuo sia costituito da indivisibili, come ad esempio la linea [25] da punti, se la linea è continua e il punto è indivisibile.» ; e ancora, per un altro aspetto, «[236 b 8] … in tutte le cose che si dicono divisibili per sé e non per accidente, in nessuna di esse si dà un «primo», come ad esempio nelle grandezze.» (Aristotele, Fisica) 2. Per smontare, di conseguenza, le aporie messe in campo da Zenone, a difesa delle tesi di Parmenide, volte a negare la realtà del movimento. 3. Per presentare la corretta definizione del continuo stesso, in generale, e quindi, dell’infinito, dello spazio e del tempo. 4. Per presentare il moto del cielo come moto perfetto e infinito; pur contrapponendo la retta al moto circolare, quest’ultimo conserva della retta la continuità e ciò che ne consegue: continuo, unico, infinito e fonte ultima o prima di regolarità cosmica. 5. Lo stesso concetto di motore immobile è definito con ricorso all’impostazione che viene utilizzata per trattare della matematica, dei numeri e delle forme

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geometriche: come accade al numero, del motore immobile si mettono in luce gli opposti tratti della separatezza dai corpi fisici e della relazione causale di definizione del loro modo di essere naturale. 4.2.2.3. Concludi con un utilizzo direzionale della ricostruzione delle tesi e dei metodi che richiamano quelli di Platone (di ascendenza matematico-pitagorica) e di Aristotele (i piani di ricerca). Detto forse secondo vecchi luoghi comuni e un po’ semplicisticamente, prendono qui forma e avvio due impostazioni ancora attive e non necessariamente conciliate o tra loro traducibili: una tradizione matematica e una tradizione sperimentale. Le due espressioni fanno uso molto generico dei termini matematica e sperimentale, in quanto il senso attribuito ai due termini è interessato da un continuo e non marginale mutamento, ma si tratta di espressioni che possono richiamare l’attenzione sulla natura complessa e aperta del fare scienza nel tempo e rappresentano una costante in questo sviluppo. (Le due espressioni compaiono in un saggio di Thomas Kuhn, 1976 Tradizioni matematiche e tradizioni sperimentali nello sviluppo delle scienze fisiche [Mathematical vs. Experimental Tradition in the Development of Physical Science], in Khun S. Thomas, La tensione essenziale e altri saggi, Einaudi, Torino, 2006 )

4.3. Fisica e tecnicaIn questa relazione la scienza e la natura (la realtà) vengono esplorate su di un doppio crinale: 1. quello di una antinomica oscillazione propria della logica modale: tra impossibilità e possibilità, «[241 b 4] «impossibile» [5] si dice infatti in molti modi», 2. quello del sottile e mai risolto passaggio dall’ipotesi alla verità (qui evidenziato a proposito della tesi di un “motore immobile”, «[242 b 71] Sicché necessariamente occorre arrestarsi e porre l’esistenza di un primo motore e di un primo mosso. Non fa infatti nessuna differenza che l’impossibile scaturisca da un’ipotesi, [243a] [30] in quanto l’ipotesi è stata assunta come possibile, e dal momento che è stata posta come possibile, non consegue affatto che per questo si produca1’impossibile.» (Aristotele, Fisica) 4.3.1. la separazione tra tecnica e natura sulla base di una corretta concezione del movimento naturale: gli enti naturali: hanno in se stessi il principio del mutamento, gli enti artificiali (fatti dalla tecnica) esistono e mutano in forza di cause esterne ad essi; o se mutano apparentemente per se stessi mutano in quanto si altera la materia (quindi elemento naturale) di cui sono composti (come quando un letto di legno marcisce: non marcisce in quanto letto, ma in quanto materialmente fatto di legno).«[192 b 12] «E tutte le cose sopra richiamate è chiaro che sono differenti rispetto alle cose che non esistono da natura. È manifesto, infatti, che tutte le cose che sono da natura , hanno il principio del movimento e del riposo in se stesse, le une secondo lo spazio, [15] le altre secondo crescita e diminuzione, altre ancora secondo l’alterazione. Invece un letto o un mantello, e ogni altro oggetti di questo genere, in quanto a ciascuno di essi compete questa denominazione — e cioè in quanto essi sono prodotti da tecnica —, non possiede in se stesso nessuna tendenza innata al cambiamento; ma essi hanno un tale impulso e tanto esteso, solo in quanto sono di pietra o [20] di legno, o di qualcosa di misto; allora la natura è principio e causa dell’essere in movimento e dello stare in riposo di ciò cui essa appartiene originariamente, per se stessa e non in modo accidentale.» (Aristotele, Fisica) 4.3.2. l’incontro tra tecnica e natura: un incontro nella loro comune materialità (oggetti tecnici e naturali fanno riferimento agli stessi elementi esistenti in natura), ma anche un incontro nei loro processi formali: la tecnica aiuta e completa la natura se la asseconda. 4.3.2.1. Il terreno di incontro e un postulato per ciò che si intende per natura: «[193 a 28] In un senso, dunque «natura» si dice in questo modo – cioè la materia che fa da sostrato primo alle cose che hanno in se stesse il principio [30] di movimento e di cambiamento –, mentre in altro senso «natura» è la forma e la specie di ciò che è conforme alla definizione [tò katà ton lògon].»; «[193 b 6] E la forma, piuttosto che la materia, è «natura». Ogni cosa infatti viene detta «natura» quando è in atto, piuttosto che la materia, è «natura». Ogni cosa infatti vien detta «natura» quando è in atto, piuttosto che quando è tale solo in potenza.» (Aristotele, Fisica)

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4.3.2.2. Le condizioni e i modi dell’incontro, un incontro che possa risultare di vantaggio reciproco dal punto di vista del fine e del meglio, in un processo di imitazione, emulazione tra tecnica e natura nella comune e condivisa tensione verso il meglio. «[194 a 28] La natura è infatti fine e causa finale.»; «[194 a 32] Non ogni termine finale, infatti, è fine, ma solo ciò che è il meglio.» (Aristotele, Fisica). Nel parallelo arte e natura ci si muove già all’interno di una visione finalistica della natura (più in generale, e forse con eccessi di reinterpretazione, si può dire che qui il tema della spiegazione meccanicistica e spiegazione finalistica, destinate a costituire una antinomia a volte tragica dell’età moderna, trovano incontro e armonia, una composizione che avviene sulla base del fine, impostazione cioè che accomuna tecnica (meccanicismo) e natura (finalismo). «[199 b 32] È dunque evidente che la natura è causa, proprio come causa finale.»… poiché «[199 b 15] sono da natura [phýsei, per natura, appartengono alla natura, sono naturali] tutte quelle cose che, mosse in modo continuo in se stesse da un qualche principio immanente, giungono ad un fine» (Aristotele, Fisica)Perciò la tesi: «[199 a 13] E se le cose che sono da natura, fossero fatte non solo da natura, ma anche fossero prodotte con la tecnica, sarebbero prodotte in quello stesso modo nel quale esse sono prodotte per natura. [15] Dunque l’uno è in vista dell’altro. In generale, talvolta l’arte porta a compimento quanto la natura è impossibilitata a fare, talaltra imita la natura. Se dunque le cose che sono secondo arte sono fatte in vista di un fine, è chiaro che anche le cose che sono secondo natura lo sono.» (Aristotele, Fisica)In sintesi: «Un altro punto di contatto obbligato è quello tra natura e tecnica: anche quest’ultima, infatti, si costituisce come principio di movimento, e quindi rappresenta una diversa modalità di divenire da parte delle cose che non sono "da natura". Queste ultime perciò avranno un movimento "artificiale", prodotto di una fonte esterna, non immanente. Natura e arte sono cause produttrici, seppure a diverso titolo operanti nell’ambito del divenire. Noi intendiamo in modo analogo il divenire naturale e quello artificiale, come testimoniano le diverse forme linguistiche delle quali facciamo uso. La produzione artificiale sembra costituire il modello di conoscenza della natura. Ma l’arte, che in sé procede in modo conforme ad uno scopo, si limita ad imitare la natura. Dunque, è soprattutto e prioritariamente quest’ultima che rivela in sé la conformità ad uno scopo: e tale dev’essere l’ordine della natura. Pertanto, l’arte ottiene dalla natura che i suoi prodotti siano conformi ad uno scopo, e non viceversa. La tecnica si muove e opera all’interno dell’orizzonte costituito dalla natura. Contro la visione mitico-religiosa che spesso contrappone arte e natura, l’arte diviene per Aristotele complementare alla natura, sia in quanto opera seguendo il procedimento naturale, sia in quanto interviene in modo sussidiario rispetto alla natura.» (L. Ruggiu, Saggio introduttivo, XLI)

4.4. Fisica e cosmologiaLa cosmologia. La natura e il sistema del mondo (cosmologia), il cosmo e l’armonia: armonia e ordine ospitati nella parola cosmo, a partire dalla tradizione pitagorica: «21. AËT. II 1, 1 [Dox. 327]. Pitagora fu il primo a chiamare cosmo la sfera delle cose tutte, per l’ordine che esiste in essa.» Il piano complessivo, dall’inizio del Libro VIII: «La questione dell’eternità del movimento. I fisici precedenti ammettono l’esistenza del divenire, ma sono in disaccordo sulla sua eternità. Dimostrazione dell’eternità del movimento, a partire dalla sua definizione, dalla considerazione del motore, dall’eternità del tempo. Incorruttibilità del divenire. La natura è principio d’ordine.» (L. Ruggiu, sintesi capitolo) La convinzione di partenza, o di base, per la costruzione di una cosmologia o di una scienza complessiva della natura espressa da Aristotele: «[252 a 10] Può essere anche che quanti sostengono che esiste un unico principio come Anassagora, avrebbero potuto affermare una tesi di tale tipo. Ma, in effetti, non v’è niente di disordinato tra le cose che sono per natura e secondo natura: la natura è infatti per ogni cosa causa di ordine. Mentre non v’è nessun rapporto nella relazione tra l’infinito e l’infinito, mentre ogni rapporto è ordine. E che in un tempo infinito vi sia quiete e quindi, ad un certo momento, movimento, [15] e che non vi sia alcuna differenza fra il fatto

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che esso si produca in questo momento piuttosto che prima, e che il mondo non abbia inoltre alcun ordine: tutto questo non è più opera della natura. Ciò che è infatti per natura, esiste in modo assoluto, e non ora in un modo, ora in un altro (ad esempio il fuoco è portato in alto per natura, e non talvolta accade così e talvolta altrimenti), oppure la cosa ha una ragione nel suo non essere semplice. Perciò sarebbe preferibile quanto [20] dice Empedocle o chiunque altro abbia proposto una tesi simile, che il tutto, a vicenda, talora è in quiete e talora in movimento, proprio perché questo ordinamento ha una certa forma di ordine.» (Aristotele, Fisica) Non è solo l’ipotesi di principi primi e di un primo motore (uno o più d’uno) a sorreggere l’idea di una natura cosmo, quindi di una realtà ordinata, ma è anche il ruolo svolto in essa dalla causa finale, o meglio dalla causa formale come causa finale; la natura è infatti endofinalistica. Concezione che esercita la propria forza anche o soprattutto quando ricompare nella definizione del motore immobile che è principio motore e causa efficiente in quanto causa finale. «La visione dell’operare della natura secondo il fine rivela anche il senso che il movimento ha per Aristotele: un percorso orientato e diretto verso uno scopo determinato. Lungi dall’essere l’espressione dell’irrazionalità, il divenire manifesta nel suo tendere al raggiungimento dello scopo, la sua intelligibilità.» (L. Ruggiu, Saggio introduttivo, XLI)4.4.1. Il principio cosmologico nel primo movimento«[261 b 27] Affermiamo ora che è possibile che esista un certo movimento infinito, uno e continuo, e che questo è il movimento circolare.»; «[267 b 16] Dunque, continuo è soltanto il movimento che produce il motore immobile; poiché esso sta sempre in modo uguale e, anche in riferimento a quanto muove, resta in modo uguale e continuo.» (Aristotele, Fisica)«Ora il movimento circolare è il primo dei movimenti locali: esso ha priorità rispetto al movimento rettilineo, in quanto questo si distrugge, mentre il primo è eterno (cap. 9). Invece si dà continuità e unità del moto circolare». Questo moto assume anche un ruolo di misura, in quanto moto circolare, e si nota qui, in particolare: 1. la persistenza della cosmologia “mitica” nel principio dell’anima specie per gli astri; 2. l’uscita dalla lettura mitica (anche) nell’incontro tra cosmologia scienza e matematica nel “moto celeste”: il moto celeste: circolare, uniforme, eterno, perfetto, senza inizio né fine, quindi luogo di regolarità di carattere geometrico con i tratti della necessità. 4.4.2. la doppia fisica della cosmologia aristotelica: celeste e terrestre.L’intero quadro delle nozioni riguardanti il divenire si compone, nelle opere più strettamente cosmologiche (Cielo, Meteorologici, Generazione e corruzione) in una visione ordinata e unitaria dell’universo, considerato da Aristotele eterno e ingenerato. In esso la materia prima, sostrato privo di forma, si determina nei quattro elementi della regione terrestre: terra, fuoco, acqua, aria; gli stati di questi quattro elementi (rispettivamente freddo-secco, caldo-secco, freddo-umido, caldo-umido) ne spiegano il moto rettilineo, diretto verso il luogo naturale ideale loro proprio; solo un moto violento, e quindi non naturale, può infatti impedire alla terra e all’acqua di tendere verso il basso, al fuoco e all’aria di tendere verso l’alto come al proprio luogo naturale. Un quinto elemento, l’etere, costituisce la materia specifica della regione celeste; elemento, questo, che attribuisce al cielo le caratteristiche della perfezione divina: esso è eterno, incorruttibile, dotato di movimento circolare e quindi perfetto e idealmente immobile (in quanto senza inizio né fine). Una sfera esterna, chiamata primo mobile o cielo delle stelle fisse trasmette in forma decrescente il movimento alle altre 55 sfere interne concentriche che sorreggono il moto degli astri attorno alla terra; tutto l’universo celeste ruota così attorno alla terra, suo centro immobile. 4.4.2.1. fisica celeste: le questioni a tema: «Nessun cambiamento è infinito. È possibile che esista un infinito che è identico e uno per il tempo? Ma un movimento che è uno, non è infinito per il tempo. Questo è possibile solo per il movimento circolare.» (Ruggiu sintesi al capitolo 10 libro V) E si tratta del moto del cielo. La complessità del tema è espressa da antinomie: il “luogo non-luogo”, il “tempo non-tempo”, la “fisica non-fisica” della perfezione celeste.«Perciò gli enti di lassù non son fatti per essere nel luogo, né li fa invecchiare il tempo, né si dà alcun mutamento in nessuno degli enti posti al di là dell’orbita più esterna, ma, inalterabili e sottratti ad ogni affezione, trascorrono essi tutta l’eternità in una vita che di tutte è la migliore e la più

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bastante a se medesima. Anche questo nome di aion si direbbe pronunciato dagli antichi quasi per divina ispirazione: si dice infatti aion di ciascuno l’ultimo termine che circoscrive il tempo di ogni singola vita, al di fuori del quale non c’è più nulla secondo natura. Parimenti, anche il termine perfetto di tutto il cielo, che contiene ed abbraccia la totalità del tempo e l’infinità di esso, anche questo si dice aion, e prende questo nome da aei einai [essere sempre], immortale e divino.» (Aristotele, De Caelo, I,9, 279 a [citato da L. Ruggiu, saggio introduttivo a Aristotele, Fisica, ed. Mimesis, Milano 2007, LXIV]) 4.4.2.1.1. la distanza tra cielo e terra: «La ragione di questo asserto risiede nel fatto che "corruttibile" e "incorruttibile" sono diversi in modo essenziale e dunque si collocano in due diversi generi dell’essere e della sostanza, senza contatto reciproco. I principi che determinano l’essere di talune sostanze come corruttibile, e di altre come incorruttibile, sono radicalmente opposti e, come si diceva, diversi per genere.» (L. Ruggiu, Saggio introduttivo, LXIV; vi si cita il seguente passo dalla Metafisica di Aristotele) «Senonché, alcuni dei contrari appartengono ad alcune cose per accidente, come ad esempio quelli sopra menzionati e molti altri; altri contrari, invece, non possono appartenere alle cose in tale modo, e fra questi sono appunto il corruttibile e l’incorruttibile, perché nulla è corruttibile per accidente. Infatti l’accidente può anche non essere, mentre il corruttibile è una proprietà che appartiene necessariamente alle cose cui appartiene; altrimenti una medesima ed unica cosa sarebbe corruttibile e incorruttibile, se il corruttibile fosse una proprietà che potrebbe anche non appartenerle. Dunque il corruttibile necessariamente o è la sostanza, ovvero è nella sostanza di ciascuna delle cose corruttibili. Lo stesso ragionamento vale anche per le cose incorruttibili, perché tanto il corruttibile quanto l’incorruttibile rientrano fra quei caratteri che appartengono di necessità alle cose. Allora, ciò per cui e in virtù di cui una cosa è corruttibile e il principio per cui un’altra è incorruttibile sono opposti, e, pertanto, è necessario che le cose corruttibili e le cose incorruttibili siano diverse per genere.» (Aristotele, Metafisica, X,10, 1058 b 36 ss.)4.4.2.2. fisica terrestre: gli elementi, i luoghi naturali, i movimenti, i motori (automoventesi relativamente immobili, mossi per accidente e in forza d’altro) segnano le caratteristiche formali e materiale e l’urgenza di distinguere tra una fisica terrestre e una fisica celeste. Alla fisica terrestre si attribuisce tuttavia una sorta di priorità sia per la concezione geocentrica che pone appunto la terra al centro dell’universo, sia per la centralità che il divenire occupa nella definizione della natura (ma la priorità del moto locale trova la sua perfezione nel moto perfetto circolare, infinito, continuo e eterno del cielo), sia per la relazione che comunque, nella differenza, Aristotele instaura tra cielo e terra. 4.4.2.2.1. il geocentrismo (la tesi è formulata in un contesto terminologico di astronomia “terrestre” e all’interno dei ragionamenti sull’infinito). «[205 b 10] La terra non si muove con un moto di traslazione, neppure se essa fosse infinita, dal momento che ne è impedita dal suo centro. La terra starà ferma al centro, non in quanto non esiste null’altro in cui essa possa essere mossa, ma in quanto è tale per natura. E certo si potrebbe dire che essa sostiene se stessa. Se dunque questa non è la causa — posto che la terra sia [15] infinita —, ma la ragione è data dal fatto che essa è pesante, e che ciò che è pesante sta nel centro, e la terra è al centro, anche l’infinito può restare in sé, analogamente, per un’altra causa, e non in quanto esso è infinito e fissa se stesso.» (Aristotele, Fisica Libro III) 4.4.2.2.2. una partecipazione; un modo di vivere l’infinito e l’eterno (il permanere e l’indistruttibile) nel divenire. L’essenza della natura, come presentata da Aristotele, contiene in sé tuttavia una forma mondana di “partecipazione” alla immutabilità della realtà celeste; essa va riscontrata negli aspetti strutturali del movimento, in particolare nell’infinito e nel continuo, cioè in quella forma naturale o fisica dell’infinito che è la persistenza eterna nel divenire: persiste «rendendo ininterrotta la generazione» (De generatione et corruptione, II, 10, 336 b 25); ed è l’infinito terrestre. Si tratta di una dialettica insopprimibile e feconda di lontananza e partecipazione. «… la lontananza dal principio immutabile degli enti divenienti, manifesta nel mondo sublunare un suo surrogato, quello della continua e permanente generazione (e corruzione) delle cose. All’essere che è ingenerabile e

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incorruttibile, fa dunque da pendant, nel mondo assoggettato al divenire distruttivo, un atto di essere che si approssima solo all’essere vero, senza tuttavia raggiungerlo o identificarsi con esso. Questo essere, platonicamente, imita la permanenza e immutabilità della sostanza sovrasensibile, solo mediante il permanere ininterrotto del divenire…» (L. Ruggiu, Saggio introduttivo, LXIII) La generazione si presenta dunque come un modo di vivere l’infinito e l’eterno (il permanere e l’indistruttibile) nel divenire.

4.5. Fisica e teologia: una teologia in contesto logico e cosmologico4.5.1. In contesto logico: per scongiurare la contraddizione dell’andare all’infinito. «Con la posizione del Primo Motore, che costituisce, come è stato detto da I. Düring «un postulato logico senza di cui non si può spiegare il nesso cosmico del movimento», si conclude quindi il disegno dell’intera fisica» (Ruggiu, sintesi, p. 436)4.5.1.1. sulla contraddizione logica dell’andare all’infinito: si crea un rimando che di fatto distrugge il concetto di causa prima come principio, quindi di fatto annulla quel movimento che si dichiara di voler spiegare: non ha mai avuto inizio, è fuori dal tempo o senza tempo, non è accaduto.4.5.2. Per coerenza con la definizione del movimento come continuo e tratto riguardante la natura come sua specifica essenza. (cfr. quanto al punto 2.4.) 4.5.3. Per la definitiva costruzione di una compiuta e scientifica cosmologia. I passaggi sul tema: motore primo e motore immobile, motore primo relativamente immobile e quindi motore primo immobile plurimo e l’ipotesi poi di un unico motore immobile primo. 4.5.3.1. la tesi di base: «[256 a 13] Se dunque tutto ciò che è in movimento, è mosso da qualcosa — sia o meno quest’ultimo mosso a sua volta da qualcosa mosso [15] o meno da altro —, di necessità allora vi è un motore primo che non è mosso da altro. Se il primo motore è tale, infatti, non è necessario che ve ne sia un altro (è impossibile che si estenda all’infinito la serie dei motori che muovono e insieme sono mossi da altro; di un’infinita serie, infatti, non esiste un termine che sia primo). Se dunque tutto ciò che è in movimento, è mosso da qualcosa, [20] allora il primo motore muove senza essere mosso da altro, ma è necessariamente mosso da se stesso.» (Aristotele, Fisica) Ogni movimento se non è primo per automovimento rimanda ad un primo motore e non vi può essere un rimando all’infinito, ciò infatti impedirebbe o negherebbe il movimento osservato; il motore primo di cui qui si parla è primo non relativamente alla natura come luogo totale del movimento, ma relativamente a un movimento particolare indicato o studiato (esempio il lancio di un sasso partito da un uomo), nei confronti del quale il motore (colui che lancia) oltre a essere motore è anche immobile (non fa parte della traiettoria del sasso lanciato).4.5.3.2. Se però si fa riferimento alla natura (all’universo) come luogo globale del movimento allora il quadro si compone, cosmologicamente, dal concorso di svariate componenti. 1. il movimento che definisce la natura è eterno come lo è la natura: «[256 b 12] Ma è impossibile che il movimento non esista: si è infatti dimostrato in precedenza che è necessario che il movimento sia eterno» (Aristotele, Fisica). 2. il movimento in quanto eterno implica un primo motore che a sua volta risulti eterno. 3. il motore primo del movimento-natura è immobile «[256 b 24] muove, essendo esso stesso immobile (ó kinéi akíneton ón)». 4. è più verosimile e giusto che il motore immobile primo sia unico e non più di uno. 5. il motore primo immobile è separato (distinto) e unito (connesso e immanente) con la natura in un legame dalle molte funzioni. 4.5.3.2.1. Il legame tra natura, sede del movimento, e motore immobile è complesso e di carattere quasi antinomico sia di separazione e trascendenza, che di connessione e immanenza. «[258 a 18] È necessario pertanto che ciò che muove se stesso, sia motore, essendo immobile, e che il mosso non [20] muova affatto di necessità, dal momento che entrambi gli elementi sono o in contatto reciproco, o l’uno con l’altro.» (Aristotele, Fisica) Separato in quanto immobile (non partecipa del moto che provoca), unito perché motore, in contatto reciproco continuo (non consecutivo e discontinuo), e motore in forma perenne: «[259 b 25]… infatti essendo permanente il principio, necessariamente anche l’universo sarà permanente, in quanto esso è continuo con il principio.» (Aristotele, Fisica) Accompagna causalmente l’intera continuità del movimento globale della natura

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(non certo dei suoi movimenti interni e di parti automoventesi o fonti di movimento in quanto motori primi relativi di movimenti accidentali); «il primo motore è insieme con la cosa mossa. Ma il motore è principio del movimento.» (sintesi Ruggiu, 432)4.5.4. Motore e mosso nella loro relazione partecipano e giustificano la comune infinità e eternità; «[259 a 6] Se dunque il movimento è eterno, allora sarà eterno anche il primo motore, se esso è uno; mentre se sono più, allora le cose eterne saranno più.» (Aristotele, Fisica). 4.5.5. Il motore immobile (come più volte ribadito) è perciò causa efficiente in quanto causa finale o in senso finalistico, non è principio che si pone al momento iniziale restando poi esterno alla vicenda eterna del movimento. 4.5.6. Le regolarità del moto unico e comune eterno del mondo (come il moto del cielo e in generale la logica del movimento in relazione al proprio luogo naturale «[260 a 15] poiché esse mutano sempre allo stesso modo») sono da porre in relazione al loro legame di causa continua con il primo motore immobile unico eterno continuo e permanente. «[260 a 14] La causa di ciò è ora chiara, e cioè che le une sono mosse da una realtà immobile e eterna [15] — poiché esse mutano sempre allo stesso modo —, mentre altre sono mosse da un motore che è a sua volta in movimento, cosicché necessariamente anche queste mutano. Mentre ciò che è immobile, come si è detto, in quanto permane semplice, identico e nello stesso luogo, produrrà un movimento unico e semplice.»; «[261 b 27] Affermiamo ora che è possibile che esista un certo movimento infinito, uno e continuo, e che questo è il movimento circolare.» (Aristotele, Fisica) Dunque: «Quale movimento imprime il primo motore. Il movimento che è primo e continuo.» (sintesi Ruggiu libro VIII, capitolo 7)E in sintesi, la ricostruzione dei passaggi nel testo di Aristotele (libro VIII): «Dunque, (cap. 6), in questa catena che congiunge motore e mosso, si deve infine pervenire ad un principio primo e assoluto del movimento, che deve essere eterno e non mosso. Inoltre, ciò che è mosso da questo principio eterno, deve essere eternamente in movimento, in quanto effetto di una causa eterna. Ma a questi requisiti un solo movimento risponde, cioè il moto locale (cap. 7), e fra i diversi moti locali, soltanto il moto circolare ha i requisiti dell’eternità, dell’uniformità e dell’identità. Dunque il movimento locale è il primo di tutti i movimenti. Ma (cap. 10), questo moto circolare eterno, richiede un principio a sua volta eterno, a sua volta non mosso e incorporeo. Quindi v’è un primo Motore immobile, collocato nella sfera più esterna dell’universo. Quindi, la fisica conclude nella posizione di un principio di carattere metafisico, analogamente a quanto avviene nel XII libro della Metafisica, un principio primo che è eterno, immobile, incorporeo, cioè una realtà che trascende la totalità del divenire, anche se a questo è strettamente legato, in quanto sua condizione incondizionata.» (sintesi Ruggiu, 434 come introduzione al libro VIII) «[267 b 24] Il primo motore dunque muove di un movimento eterno [25] e in un tempo infinito; è evidente pertanto che esso è indivisibile, senza parti, e non ha nessuna grandezza.» (Aristotele, Fisica)

4.6. Fisica, biologia e antropologia. Della natura fa parte, ovviamente (ma non sempre si tiene conto di questa ovvia appartenenza), l’uomo; le forme, le leggi dei movimenti naturali interessano dunque anche l’uomo e, come per ogni realtà naturale determinata, si definiscono secondo modi specifici e propri. La fisica, la biologia e l’antropologia, articolate nelle direzioni di studio che riguardano sia l’uomo considerato come individuo, sia la società come suo contesto naturale di costituzione, generazione e corruzione, si collocano dunque anch’esse, fondamentalmente, sul terreno della natura, della fisica, di quella scienza cioè che studia la realtà in quanto intrinsecamente caratterizzata dal divenire o per la quale il divenire (nelle sue svariate forme) costituisce il tratto essenziale. È questo divenire, nei suoi modi e nelle sue forme, che diventa oggetto di studio delle opere a carattere “antropologico”, ma i concetti e gli esiti cui giunge la ricerca di Aristotele nel campo dello studio sull’uomo non sono comprensibili né interpretati correttamente se non vengono conservati e intesi nel loro riferimento alla scienze della natura in cui sono collocati e in cui l’uomo stesso si trova per esistere e operare secondo specifiche abilità o virtù, illustrate nei trattati di logica, psicologia, etica e politica.

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Dunque, in generale e preliminarmente, nel campo della natura, della fisica, caratterizzata dal divenire perenne secondo un principio interno, prende forma e possibilità il discorso sul cosa sia l’uomo, quale la sua essenza, la sua identità e la sua sorte. «Il divenire si differenzia dalle cose particolari che sono nel tempo per l’esclusione di qualunque limite all’atto d’essere del divenire considerato in quanto tale. Esso si pone come infinito, cioè, in termini aristotelici, indefinito… […] L’identità si determina semplicemente come permanenza nella successione, non come permanenza simpliciter. Questo è il carattere dell’ousia in quanto ente che è nel tempo. L’essere sussiste solo come dispersione quantitativa, l’esistenza stessa ne viene caratterizzata nella sua essenza. […] L’ente è quindi per essenza un possibile, dynámenon: si pone come essere che può essere o non essere. Dunque necessariamente talora è, e talora non è. L’esistenza delle cose nella loro singolarità si costituisce perciò sempre e solo come essere "di fatto", che può, di fatto, in altro tempo non essere. Solo l’essere che non è soggetto al tempo si sottrae alla generazione e alla corruzione e quindi alla fattualità del "talvolta".» (L. Ruggiu, Saggio introduttivo, LXI-LXIII) L’identità nel divenire viene vissuta dunque non nella staticità immutabile di un’essenza, ma nel permanere nella successione; una successione che non è tuttavia priva di una trama unitaria, quella che proviene dalla natura del movimento e del divenire definito dalla causa formale come potenzialità operante nel fine: “il divenire è la potenza in atto in quanto potenza”, e il fine è il meglio per ciascuno.Conseguentemente e coerentemente, l’anima, come principio del vivente, e il divenire dell’uomo trovano il proprio contesto nella collocazione dell’uomo nella phýsis; in questa sede prende forma la terminologia fisica per le virtù e i vizi dell’anima in campo etico/sociale e in campo dianoetico/conoscitivo e si esprimono, in quanto divenire nella fisica, in termini di alterazione, perfezione e degenerazione.4.6.1. una precisazione preliminare e fondamentale sui movimenti che “fisicamente” interessano l’uomo, nel corpo e nell’anima: tutto ciò che è alterato è alterato dai sensibili e l’alterazione, intesa nel suo senso autentico (l’incontro con ciò che a noi è esterno e pro noi altro), avviene soltanto nel campo della sensibilità; solo in essa si verifica come fatto nuovo una “relazione con” e quindi un mutamento in termini di “alterazione” (allòiosis) cioè di rapporto con altro. «Tutto ciò che è alterato, lo è dai sensibili. Generazione e corruzione non sono forme di alterazione, salvo in senso accidentale. Ma neppure gli stati, né quelli del corpo né quelli dell’anima, sono alterazione. Né lo sono gli enti in relazione, e neppure gli stati della parte poietica dell’anima. Di essi, come dell’atto conoscitivo, non v’è generazione. Dunque, l’alterazione avviene solo nella parte sensibile dell’anima.» (L. Ruggiu, sintesi al cap. 3 del libro VII) 4.6.2. ciò che accade negli altri “stati” (forme, schemi, processi, modi di operare e di essere) del corpo o dell’anima non sono per se stesse alterazioni del soggetto; quelle capacità e il loro modo di operare infatti esistono già (in potenza o in atto) in loro e non sono prodotte o create da alterazioni sensibili (il fatto di vedere non genera l’organo della vista, anche se, in un certo senso ne genera le forme e i processi d’uso in un cammino di perfezione o di degenerazione; così come il fatto di pensare alcuni contenuti non genera ma presuppone e attua la facoltà di pensare); ciò che si verifica si definisce in termini o di perfezione (virtù) o di degenerazione (vizi) di questi stati o facoltà sulla base del loro modo naturale di operare. Si tratta di processi (quelli delle abilità conoscitive razionali, deliberative etiche ecc.) che si collocano certamente nell’ambito di ciò che è relativo, cioè nello spazio della relazione, tuttavia non per una relazione che accada loro direttamente per se stessi, ma che si producono e determinano come conseguenza di una alterazione che accade nella sensibilità, luogo primo della relazione con altro, e per la loro stretta e materiale connessione con essa. Afferma Aristotele: «[245 b 3] Che tutto ciò che è alterato sia alterato dai sensibili, e che l’alterazione esista solamente in quelle cose [5] delle quali si dice che patiscono per sé dai sensibili, può essere messo in chiaro con questi argomenti. Tra le altre cose si potrebbe supporre che l’alterazione sussista soprattutto nelle forme, nelle figure e negli stati e nel processo di acquisizione o di perdita di questi. Invece non è così in entrambi i casi.»; «[246 a 10] Ma neppure gli stati sono alterazioni, né quelli del corpo né quelli dell’anima. Gli uni infatti sono virtù, gli altri vizi; ora né la

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virtù né i vizi sono alterazioni, ma la virtù costituisce una certa perfezione (quando una cosa infatti consegue la propria virtù, allora la si dice perfetta; è allora che essa [15] è «naturale» nel massimo grado, come un cerchio lo si dice perfetto quando è divenuto cerchio nel massimo grado e quando è ottimo); invece i vizi sono corruzione e degenerazione di questo stato.»; «[246 b 17] Ciascuno stato viene detto, infatti, vizio o virtù in rapporto a queste cose, per il fatto che colui che li possiede è alterato per natura da queste, dal momento che la virtù rende o insensibili alle passioni, oppure sensibili nel modo conveniente, [20] mentre il vizio rende sensibili oppure insensibili in modo contrario. E similmente accade anche [247a] per quanto concerne gli stati dell’anima: infatti anche tutti questi consistono in un certo essere relativo: i primi, le virtù, sono delle perfezioni, mentre i vizi sono delle degenerazioni. Inoltre, la virtù dispone bene in rapporto alle affezioni appropriate, mentre i vizi dispongono male. Sicché neppure questi stati saranno alterazioni, [5] come non lo sono neppure la loro perdita o acquisizione, ma essi si generano necessariamente per l’alterarsi delle parti sensibili. Ogni «virtù etica», infatti, ha a che fare con piacere o dolori corporei, e questi derivano o dall’agire o dal ricordarsi oppure dallo sperare. Le une dunque, quelle che consistono nell’azione, sono in riferimento alla sensazione, [10] poiché esse sono mosse da qualcosa di sensibile; le altre, quelle che consistono nella memoria e nella speranza, dipendono da queste: infatti gli uomini provano piacere o ricordando le cose che hanno provato, oppure sperando in quelle che proveranno. Sicché necessariamente ogni piacere di tale tipo è generato da cose sensibili. Ma dal momento che col prodursi in noi di piacere e dolore [15] si producono anche vizi e virtù — che infatti hanno a che fare con questi — , e piacere e dolore sono alterazioni della parte sensitiva, è evidente che, quando si altera qualcosa, di necessità si vengono a perdere oppure ad acquisire anche questi stati. Sebbene la generazione di questi stati sia successiva a un’alterazione, tuttavia questi non sono alterazioni.» (Aristotele, Fisica)4.6.3. Tra le reazioni alle alterazioni sensibili si collocano quindi le virtù, sia quelle etiche, quelle cioè che costruiscono la fisionomia dell’uomo nel mondo delle proprie relazioni sociali, che quelle dianoetiche, quelle che definiscono l’uomo nel modo specifico con cui raggiunge esiti conoscitivi.Cosa si intende per virtù in generale: «[246 a 14] la virtù costituisce una certa perfezione (quando una cosa infatti consegue la propria virtù, allora la si dice perfetta; è allora che essa [15] è «naturale» nel massimo grado, come un cerchio lo si dice perfetto quando è divenuto cerchio nel massimo grado e quando è ottimo); invece i vizi sono corruzione e degenerazione di questo stato.» (Aristotele, Fisica) Le virtù etiche sono infinite (non possono essere definite una volta per tutte) in quanto la società è complessa e in divenire e impone abilità diverse e particolari perché ogni individuo entri in relazione efficace con essa. Le virtù dianoetiche sono riportate da Aristotele a cinque abilità fondamentali: sophìa, epistéme, nous, phrònesis, tèchne:- sapienza (sophìa, la capacità culturale generale): l’amore per il sapere e per la ricerca- scienza (epistème, virtù scientifica): la capacità di dimostrare a partire da principi e per ambiti specifici- intelletto (nous, intelligenza noetica): la capacità di cogliere i principi- saggezza (phrònesis, prudenza): la capacità di deliberare con efficacia nel momento giusto i mezzi necessari per raggiungere un fine buono (con competenze sull’universale e sul particolare)- tecnica (téchne, intelligenza produttiva): capacità di fare e produrre secondo progetto.Sono i modi diversificati e plurali con cui la mente, l’anima, costruisce attraverso le idee il rapporto tra le forme della mente e le forme della realtà, secondo obiettivi teoretici, pratici e poietici; e ciò sempre a partire dalle “alterazioni” sensibili, unico reale evento per la mente.«[247b] Ma neppure gli stati della parte noetica sono alterazioni, né vi è di essi generazione. E infatti noi, in certo modo, chiamiamo soprattutto ciò che è oggetto di scienza, un «essere in relazione a qualcosa». È inoltre evidente che non vi è generazione di questi stati; infatti neppure ciò che è conoscibile [5] in potenza, diviene conoscibile per l’essere esso stesso mosso, ma in quanto è presente in lui qualcosa di altro; quando infatti si produce una conoscenza del particolare, in certo modo si conosce l’universale per il tramite di ciò che è particolare.

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Ancora, non v’è generazione dell’uso e dell’atto conoscitivo, a meno che qualcuno non pensi che vi sia generazione della vista e del tatto e che l’uso e l’attività in oggetto siano simili a queste cose. [10] La stessa acquisizione originaria della scienza, non è una generazione; infatti noi diciamo che la ragione conosce e pensa «per l’arrestarsi e lo stare fermo» [del pensiero], e non v’è una generazione dello stare in quiete; in generale, per il fatto che non v’è una generazione di nessun cambiamento, come è stato già affermato in precedenza. Inoltre, come quando uno cambia negli stati contrari dall’essere ebbro o assonnato o ammalato [15], non diciamo che «uno è divenuto di nuovo possessore di conoscenza» — benché fosse impossibile che si esercitasse in precedenza la scienza —, non è così neppure all’inizio, quando si acquisisce tale stato: è per il sostare dell’anima, infatti, dopo uno stato di agitazione naturale, che qualcuno diviene «uomo saggio» e «uomo di scienza». Perciò anche i fanciulli non possono apprendere né parimenti giudicare in riferimento alle proprie sensazioni, [248a] alla pari di coloro che sono più anziani, in quanto grande è in essi l’agitazione e il movimento. Ma la natura stessa, in taluni casi induce l’anima ad arrestarsi e a porsi in riposo, mentre in altri casi operano così altre cose; ma in entrambe le situazioni, ciò avviene per l’alterazione di qualcosa che è nei corpi; come [5] in occasione del risveglio e della ripresa dell’attività, quando si diviene consapevoli e si è in piena coscienza.» (Aristotele, Fisica) A richiamare la rilevanza del sensibile come unica sede di alterazione, di relazione innovativa ad altro, e quindi unica fonte di conoscenza in termini materiali, si pone l’affermazione nel libro VIII contro coloro che, opponendosi e svalutando l’evidenza sensibile, negano il movimento, non ne sanno dare ragione o non ritengono opportuno che in questo consista la conoscenza:«[253 a 28] Affermare che «tutto è in quiete» e tentare di dare una giustificazione razionale di quest’asserto, disprezzando la conoscenza sensibile, è una debolezza del pensiero; e ciò comporta il mettere in dubbio tutto, non semplicemente una parte; [35] e non solo chiamando in causa l’ambito della natura, per dir meglio coinvolgendo nel dubbio tutte [253b] le scienze e tutte le opinioni, per il fatto appunto che tutte queste si servono del movimento.» (Aristotele, Fisica) 4.6.4. La scienza dunque si colloca tra le virtù dianoetiche; è cioè uno dei modi con cui l’uomo, in quanto dotato di anima intellettiva, reagisce e gestisce la propria continua alterazione sensibile. Una definizione preliminare: «scienza (epistéme): è la conoscenza delle cause e dei principi primi, necessaria e perciò stesso in grado di imporsi e di stare. Sulla base della sua etimologia, per Aristotele essa è una certa assenza di turbamento e stato di quiete.» (L. Ruggiu, parole chiave 531). Aristotele parte dall’etimologia della parola epistéme: «[247 b 10] La stessa acquisizione originaria della scienza, non è una generazione; infatti noi diciamo che la ragione conosce e pensa «per l’arrestarsi e lo stare fermo» [del pensiero] (tõ gar ermenêsai kai stênai tèn diánoian epístasthai kai phronéin)…» (Aristotele, Fisica). A rafforzarne l’inserimento nei processi naturali vale l’osservazione storiografica: «“spiegazione scientifica”, cioè un prolungamento della verità nel mondo.» (L. Ruggiu, saggio introduttivo, XXIII) 4.6.5. Le componenti classiche della scienza come virtù (abilità) dianoetica: 4.6.5.1. i principi e le deduzioni: in un processo dimostrativo che sviluppa e trasferisce la verità delle premesse ad enunciati conclusivi ricavati nel rispetto di regole formali di deduzione analiticamente e preliminarmente definite. La prassi del dedurre è esplorata e definita secondo forme e regole nelle opere di “logica” (note sotto il titolo di Organon, lo strumento) che Aristotele dedica al tema: Categorie, Interpretazione, Analitici, Topici, Confutazioni sofistiche. 4.6.5.2. le ipotesi: che si pongono all’origine di un processo deduttivo di natura dialettica. Il termine dialettica indica quella prassi argomentativa o dimostrativa che parte da ipotesi condivise per la loro autorevolezza riconosciuta ma che, per la complessità del tema, non possono essere (o non sono) accompagnate da certezza di verità, e che conclude con enunciati validi “per lo più” ma non necessariamente. «[242 b 72] Sicché necessariamente occorre arrestarsi e porre l’esistenza di un primo motore e di un primo mosso. Non fa infatti nessuna differenza che l’impossibile scaturisca da un’ipotesi, [243a] [30] in quanto l’ipotesi è stata assunta come possibile, e dal momento che è stata

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posta come possibile, non consegue affatto che per questo si produca l’impossibile.» (Aristotele, Fisica) 4.6.5.3. il “triangolo” epistemologico nelle diverse discipline: oggetto, metodo, concetti. Nelle convinzioni di Aristotele, di impostazione fortemente realistica (su basi empiriche ed ontologiche), è l’oggetto e il suo manifestarsi che impone alla nostra mente il ricorso ad un metodo adatto alla realtà studiata e la definizione di concetti in grado di cogliere la realtà secondo la sua essenza. È la sostanza, perno e sostegno dei diversi modi di essere dell’essere; la diversità di sostanze: ideali, naturali, artificiali e la loro definizione. La definizione (orismós) è la «determinazione dell’essenza della cosa, che si esprime nel concetto» (L. Ruggiu, parole chiave, 524); «l’essenza (tí estin, tó ti ên èinai, tò èinai tiní), in senso ontologico e concettuale, è la risposta alla domanda «che cos’è», ed indica ciò che caratterizza la natura di una certa cosa come quella, e non altra. Corrisponde alla forma e al concetto.» (L. Ruggiu, parole chiave, 525)

5. Una doverosa appendice: Aristotele tràdito e tradìto (una lunga storia di passioni, sangue e tragedie… con poche risurrezioni). Le forme ricorrenti e plurime del tradimento.5.1. sulle ragioni e i metodi: sostituiti dalla convinzione di metodo unico. Nei suoi piani di studio, esplicitamente Aristotele propone e adotta diverse procedure razionali, da porre in connessione (in quanto vi dipendono) con la plurivocità dei modi di intendere i concetti fondamentali della filosofia e della scienza (ad esempio essere e non-essere, finito e infinito, materia e forma, sostanza e attributi, possibile e impossibile, movimento e quiete, virtù e vizi…), con la corrispettiva varietà dei modi di essere della realtà, con la pluralità delle facoltà della mente. Risaltano in particolare tre forme di razionalità: 1. la ragione apodittica o dimostrativa, che da principi noti, con processo sillogistico, arriva a spiegare la realtà delineandola secondo forme razionali; 2. la ragione intellettiva (nous, intelletto), che coglie i principi primi a cui ricondurre e da cui partire per i processi dimostrativi; 3. la ragione dialettica, che argomenta a partire da premesse che non sono veri e propri principi ma opinioni accreditate e autorevoli; qui in particolare si sviluppa la capacità di confronto tra posizioni diverse allo scopo di metterne in luce le opportunità e l’ammissibilità; è una forma di ragione che trova applicazione in particolare nel campo della fisica e dell’etica: i fatti e i dati del mondo naturale (e tra essi quelli del mondo umano) sono dotati di una imprevedibile varietà per cui, fatta eccezione di contesti comuni universali imprescindibili (come il moto del cielo e la dimensione sociale perché vi sia ciò che è umano), si manifestano in forme la cui regolarità può essere formulata dalla mente umana “per lo più ma non necessariamente”.

5.2. sul progetto piani di studio: sostituiti dal sistema globale e unico del mondo. La filosofia e la ricerca, nella scuola di Aristotele, il Liceo, sono impostate in modalità tra loro diverse, e le opere di Aristotele ne danno chiara testimonianza. Il lavoro scientifico e filosofico della scuola aristotelica si organizza per aree autonome di ricerca rispettando la divisione della realtà in generi; l’indagine aristotelica tende perciò a individuare i principi e i metodi appropriati ai diversi settori della realtà e a dar vita a una pluralità di discipline. La loro autonomia, dovuta alla diversità dei contenuti e del metodo, e il rispetto delle regole generali di razionalità impongono al testo filosofico la nuova forma del trattato. Ma i trattati di Aristotele, le sue opere, sono strettamente legati alla sua attività di maestro e di guida dei lavori del Liceo; essi raccolgono infatti i corsi e le lezioni da lui tenute allo scopo di disciplinare e orientare la ricerca e di fornirne un bilancio sistematico finale. In quanto trascrizione di cicli di lezioni proposti ai discepoli e ai collaboratori del Liceo allo scopo di guidarne l’attività, i testi aristotelici, nel corso della lettura, sono sottoposti a correzioni, riprese e nuove impostazioni degli argomenti; questi aspetti permettono di cogliere con evidenza la natura aperta e continua della ricerca aristotelica.

5.3. sulla natura “potenza in atto”: sostituita da una sua statica definizione formale.

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5.3.1. Platone, e chi eredita la gestione dell’Accademia e delle sue dottrine filosofiche, coloro che ironicamente Aristotele chiama “gli amici delle forme”, privilegiano lo studio delle idee e dei principi formali che ne consentono la gestione a scopi sia analitici che dimostrativi (come è testimoniato già nei dialoghi platonici manualisticamente chiamati “dialettici”, considerati gli ultimi scritti da Platone, come Parmenide, Sofista, Filebo…) e legano sia la scienza che la struttura della realtà alla loro conoscenza per definizioni e alla loro capacità di indicare di ogni cosa la forma metafisica, cioè l’essenza. Il mondo reale è il mondo ideale e ontologico delle idee/essenze. 5.3.2. Se è vero che anche per Aristotele la forma indica l’essenza della sostanza, cioè delle realtà determinate che concretamente esistono, però tale impostazione è considerata valida solo quando si decide di fare astrazione dal concreto divenire di ciò che è naturale e reale. Ciò che è in atto nella realtà naturale non è la forma, in tal caso ci troveremmo in un mondo di forme pure senza movimento, ma la potenza della forma. Ed è l’atto di questa potenza a definire il divenire continuo e infinito della natura. «Ma il divenire è a pieno titolo nell’essere, è essere. […] Non basta tuttavia affermare che il divenire è essere, bensì occorre porre concretamente la sua intelligibilità e concepibilità. […]…la determinazione di forma, che costituisce il punto di arrivo del processo del divenire, rinvia ad un’altra determinazione di forma; e ciò, anche se quest’ultima sussiste nella forma "negativa". Ma questa sorta di non-essere, al quale la forma rinvia, non significa il nulla, bensì costituisce solamente la privazione della forma o il suo essere in potenza. […] … la physis, caratterizzata come ciò che ha in se stessa il principio del movimento […] della potenza originativa. […] In esso, non solo si origina la cosa che è, ma anche si conserva nella potenza originativa. Quindi questa potenza appartiene alle cose caratterizzate per sé dalla motilità, cioè dalla capacità di automovimento.» (L. Ruggiu, Saggio introduttivo, XXXIII- XXXIV, XXXVIII-XXXIX) Va sottolineata la rilevanza, che è poi l’essenza della fisica, della potenza che nella phýsis si conserva come potenza originativa, come potenza in atto o meglio, «l’atto di una potenza in quanto tale» (L. Ruggiu, XLIII), sopra richiamato. In conclusione, la forma in quanto fine è nella natura come atto, enérgheia, entelécheia di una potenza, di una forma in atto come potenza.

5.4. Una opportuna precisazione sull’atteggiamento di attenzione e meraviglia, provato nei confronti della realtà e di ciò che accade nel tempo delle cose e degli uomini; atteggiamento più volte richiamato e apprezzato da Aristotele e spesso interpretato e sostituito, nella interpretazione, da tesi che attribuiscono ad Aristotele la convinzione che le sue dottrine siano registrazione della realtà e quindi espressione di definitiva verità. Due osservazioni.5.4.1. Esplicitamente Aristotele ricostruisce l’origine del sapere, della conoscenza e della scienza, amati anche senza fare i conti sulla produttività e l’utilità di tali conoscenze, a partire da una situazione di meraviglia. «Che essa non sia una scienza produttiva risulta con chiarezza anche da qualche considerazione su quelli che diedero inizio alla riflessione filosofica; infatti gli uomini, sia nel nostro tempo sia dapprincipio, hanno preso dalla meraviglia lo spunto per filosofare, poiché dapprincipio essi si stupivano dei fenomeni che erano a portata di mano e di cui essi non sapevano rendersi conto, e in un secondo momento, a poco a poco, procedendo in questo stesso modo, si trovarono di fronte a maggiori difficoltà, quali le affezioni della luna e del sole e delle stelle e l’origine dell’universo.» (Aristotele, Metafisica I) Il meravigliarsi come termine greco, thaumàzein, ha un significato denso, più denso del termine italiano meravigliarsi; è insieme la disposizione intellettuale dello «stupore» e quella più emotiva dello «sgomento». 5.4.2. Una disposizione di meraviglia come stupore e sgomento che segna lo stile di Aristotele. Il testo di Aristotele, fin dalla sua struttura formale caratterizzata da continue riprese analitiche e quasi in circolo, o con un ritmo di avanzata e ripresa, è segnato e sorretto infatti da un simile atteggiamento di attenzione meravigliata, stupita e sgomenta; da questo atteggiamento nasce l’irrinunciabile volontà di confronto con molti altri soggetti, anche quelli solitamente considerati estranei al sapere scientifico e filosofico («Questa riduzione del linguaggio ontologico al linguaggio ordinario vuole indicare non una liquidazione dell’ontologia, quanto un recupero dell’ontologia

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presente nel linguaggio ordinario.» L. Ruggiu, Saggio introduttivo XXXVI). Per richiamarne alcuni: le opinioni di coloro che si sono a vario titolo occupati del tema in oggetto; i detti e le convinzioni comuni in proposito, anche quelle consegnate a forme popolari linguistiche della tradizione come detti, proverbi, racconti e storie; il confronto con le diverse possibilità conoscitive della mente umana (dell’anima intellettiva in particolare); la consapevolezza che la natura viene perennemente incontrata nel suo manifestarsi alla sensibilità; le competenze tecniche dell’operatività umana e il rapporto che esse conservano con la natura; le attese e i progetti finalistici che sorreggono le iniziative dell’uomo, compreso il cammino della conoscenza scientifica.

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