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64. QUESTO POPOLO MI ONORA CON LE LABBRA, MA IL LORO CUORE È LONTANO DA ME. 15,1-20 15,1 Allora vengono a Gesù da Gerusalemme alcuni farisei e scribi, dicendo: 2 Perché i tuoi discepoli trasgrediscono la tradizione degli antichi? Infatti non si lavano le mani quando mangiano pane. 3 Ora, rispondendo, disse loro: Perché voi invece trasgredite il comando di Dio per la vostra tradizione? 4 Dio infatti disse: Onora il padre e la madre, e: Chi maledice padre e madre, sia ucciso. 5 Ma voi dite: Chi dice al padre o alla madre: È dono sacro ciò che da parte mia ti potrebbe aiutare, 6 non onorerà suo padre; e vanificaste la parola di Dio a causa della vostra tradizione. 7 Ipocriti! Bene profetò di voi Isaia, dicendo: 8 Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me; 9 invano mi venerano insegnando insegnamenti che sono precetti di uomini. 10 E, chiamata la folla, disse loro: Ascoltate e comprendete! 11 Non ciò che entra nella bocca contamina l’uomo, ma ciò che esce dalla bocca, questo contamina l’uomo.

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64. QUESTO POPOLO MI ONORA CON LE LABBRA, MA IL LORO

CUORE È LONTANO DA ME.15,1-20

15,1 Allora vengono a Gesù da Gerusalemme alcuni farisei e scribi, dicendo:

2 Perché i tuoi discepoli trasgredisconola tradizione degli antichi? Infatti non si lavano le maniquando mangiano pane.

3 Ora, rispondendo, disse loro:Perché voi invece trasgrediteil comando di Dioper la vostra tradizione?

4 Dio infatti disse:Onora il padre e la madre,

e:Chi maledice padre e madre,sia ucciso.

5 Ma voi dite:Chi dice al padre o alla madre:

È dono sacro ciò che da parte mia ti potrebbe aiutare,6 non onorerà suo padre;

e vanificaste la parola di Dioa causa della vostra tradizione.

7 Ipocriti!Bene profetò di voi Isaia,dicendo:

8 Questo popolo mi onora con le labbra,ma il suo cuore è lontano da me;

9 invano mi veneranoinsegnando insegnamentiche sono precetti di uomini.

10 E, chiamata la folla,disse loro:

Ascoltate e comprendete!11 Non ciò che entra nella bocca

contamina l’uomo,ma ciò che esce dalla bocca,questo contamina l’uomo.

12 Allora vengono i discepolie gli dicono:

Sai che i Fariseiudendo la parolafurono scandalizzati?

13 Ora egli, rispondendo, disse:Ogni pianta che non piantòil Padre mio celeste,sarà sradicata.

14 Lasciateli;sono cieche guide di ciechi:ora se uno cieco guida un cieco,

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ambedue cadranno nella fossa.15 Ora, rispondendo,

Pietro gli disse:Spiegaci questa parabola!

16 Ora egli disse:Anche voi siete ancora senza intelletto?

17 Non sapete che tutto ciò che entra nella bocca, va nel ventre

ed è espulso nella fogna?18 Invece ciò che esce dalla bocca

proviene dal cuore,e questo contamina l’uomo.

19 Dal cuore infatti esconocattivi pensieri,omicidi, adulteri,fornicazioni, furti,false testimonianze, bestemmie.

20 Queste sono le cose che contaminano l’uomo;ma il mangiarecon mani non lavatenon contamina l’uomo.

1. Messaggio nel contesto

“Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me”, dice Gesù subito dopo l’avventura in barca coi discepoli.

Riconoscere il Signore nel pane senza scambiarlo per fantasma non è problema di occhi, ma di cuore (vv. 8.19). Il cuore è il centro della persona, che ri-corda ed esprime ciò che gli interessa (inter-esse = essere-dentro!). Al credente interessa il “pane”, il suo corpo dato per noi, o altre cose? Il suo cuore è con il Signore o lontano da lui?

Il brano inizia e finisce con i discepoli che mangiano senza lavarsi le mani (vv. 2.20), trascurando le norme date dagli antichi. Hanno un’altra tradizione: quella del suo corpo dato nelle nostre mani di peccatori. Il fatto dà occasione a una polemica contro le norme religiose che non rispettano la parola di Dio (vv. 3-9), e ad un chiarimento fondamentale su ciò che è bene o male, puro o impuro (vv.10-19). Al centro sta “il cuore”: se è lontano dal Signore, vanifica la sua parola e rende tutto immondo (v. 8s.19s), se è con il Signore, ne vive la parola e mangia.

In questo brano si toccano i temi fondamentali di ogni religione: la tradizione, il lecito e l’illecito, il bene e il male.

L’uomo vive di tradizioni, di ciò che riceve e scambia con gli altri. A differenza dell’animale, non è regolato dall’istinto, ma dal cuore, dai desideri e da ciò che in una lenta e lunga acquisizione ha messo dentro: vive di ri-cordo, di memoria amata e custodita che lo apre al suo futuro e gli suggerisce che fare qui e ora. Conosce co-mandamenti (co-mandare = mandare insieme) e interdetti (interdetto = detto-tra), frutto di esperienza precedente, che gli offrono orizzonti comuni su cosa fare e cosa non fare per raggiungere la pro-messa di felicità che tiene viva la sua esistenza. L’uomo è cultura. Non deve ogni volta inventare il da farsi; lo trova già nella memoria, nella tradizione. Il problema è quello di capirla e usarla. Infatti può ridursi a erudizione sterile che ingessa la persona. Allora c’è un tradizionalismo che butta via l’anima della tradizione: dimentica il

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senso di ciò che trasmette - la volontà di Dio significata dalla sua parola – e riduce la pratica religiosa a ritualismo.

In questo caso la tradizione diventa strumento di oppressione e di morte: un cumulo di formule vuote, con un cuore lontano da Dio e dagli uomini.

Il puro e l’impuro, il lecito e l’illecito, il bene e il male, ciò che mette in comunione o divide dalla vita, ciò che dà felicità o infelicità, dipende in ultima istanza non dalla tradizione o da regole che classificano cose o azioni, ma dal cuore stesso: tutto è buono nella misura in cui è vissuto con un cuore puro. Il cuore puro vede Dio (5,8): libero dall’egoismo, riflette la sua bontà, e fiorisce in ogni frutto buono. Un cuore impuro, lontano da Dio, produce opere di morte. Il bene viene da un cuore vivificato dallo Spirito d’amore; il male da un cuore posseduto dallo spirito immondo.

Non solo il mondo religioso, ma anche quello laico vive di tradizioni e riti, di comandi e divieti. Oggi più che mai siamo amministrati da infinite norme - tanto più subdole quanto meno dichiarate - che si impongono, in modo inavvertito e arbitrario, come “moda”. Il lavoro, le relazioni, lo stile di vita e, soprattutto, gli stessi valori - bevuti acriticamente da tutti i pori grazie ai mass-media - costituiscono un campo di leggi ferree, da osservare con rigore per non essere emarginati.

È necessario misurare tutto questo sulla Parola e sul Pane, sulla Parola che si fa Pane: aiutano o meno ad amare i fratelli, producono frutti velenosi o buoni?

Tutto il brano è sul cibo. L’uomo è ciò che mangia attraverso i canali dei suoi sensi e assimila attraverso le sue facoltà; o, meglio, è come mangia. Con che cuore, con che spirito mangia? È da verificare se mangiamo o meno secondo la tradizione che Gesù ci ha lasciato, se viviamo o meno della memoria di lui che ha dato il suo corpo per noi.

Gesù è la nostra tradizione fondamentale, misura di ogni altra.La Chiesa ha al suo centro l’eucarestia: sa che il vero culto

spirituale, gradito a Dio, è il nostro stesso corpo (Rm 12,1) che mangia e vive di questa tradizione, che è quella del Figlio.

1. Lettura del testo

v. 1: Allora alcuni farisei e scribi. I farisei sono quelli che osservano le tradizioni, gli scribi quelli che le conoscono. “Fariseo” significa “separato”: è un puro, diverso dagli altri. La sua “santità” è ben diversa da quella di Gesù, mangione e beone, amico di pubblicani e peccatori (11,19). Sono sempre nemici di Gesù.

“Scriba” significa “colui che scrive”: è l’esperto di Scrittura. È chiamato a scoprire il tesoro (cf. 8,19, 13,52). Farisei e scribi si scomodano a venire fin da Gerusalemme pur di dar fastidio ai discepoli che mangiano trascurando le loro prescrizioni (cf. Gal 2,4.12).

v. 2: perché i tuoi discepoli trasgrediscono la tradizione degli antichi? La tradizione è l’insieme delle interpretazioni della legge trasmesse dagli antichi, che sarà fissata nella Mishna e nel Talmud. La tradizione è ciò che si tramanda, di mano in mano, perché uno sappia come vivere, senza dover ogni volta inventare. È la sedimentazione dell’esperienza e della riflessione di chi ci ha preceduto nel cammino di ricerca della verità.

non si lavano le mani quando mangiano pane. I discepoli “mangiano pane” senza prima fare le tradizionali abluzioni. Per loro la tradizione

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nuova è quella del “pane”, il suo corpo dato nelle mani dei peccatori (cf. 17,22s). Per quanto ci si lavi le mani, non si è mai abbastanza puri per meritare quel pane, che invece è donato a chi tradisce, rinnega e fugge (cf. 26, 20-35).

v. 3: perché voi trasgredite il comando di Dio per la vostra tradizione? Gesù risponde contrattaccando. La nostra tradizione non ha valore assoluto; è ambigua, anzi può addirittura trasgredire “il comando di Dio” , che è l’amore verso il Padre e i fratelli (7,12; 22,37-40). È quanto Gesù ha realizzato con il suo pane: il suo corpo dato per noi.

v. 4: onora il padre e la madre. È la quarta delle dieci parole, il comandamento più ovvio. Rispondere con amore all’amore dei genitori è la radice stessa della vita, possibilità di riceverla e trasmetterla.

v. 5: è dono sacro ciò che da parte mia ti potrebbe aiutare, ecc. È la tradizione del Qorban. Consiste nel consacrare a Dio dei beni, che così diventano sacri, inalienabili. Non si possono destinare né ai genitori né ai figli; ne può usufruire solo l’interessato finché vive, e poi passano al tempio. Bellissima invenzione dell’egoismo, che si serve anche di Dio!

v.6: vanificaste la parola di Dio per la vostra tradizione. Questa tradizione è in netto contrasto con il comando di Dio. C’è quindi tradizione e tradizione: bisogna vedere se è conforme o no al comando dell’amore. Ogni legge, consuetudine o moda, va valutata con discernimento, e osservata solo se serve a ”mangiare pane”, a promuovere la vita. Diversamente è perversione istituzionalizzata, e va rifiutata. Anche tradizioni che all’origine erano giuste, possono diventare perverse in situazioni nuove.

v. 7: ipocriti. Ipocrita è colui che si serve di tutto, anche di Dio, per il proprio io.

v. 8: questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me (Is 29,13; Sal 78,36s). C’è una religiosità esteriore, fatta di parole, preghiere e riti – sempre più corretti e solenni! - ma che ignora la “tradizione del pane” e non vive in concreto l’amore del Signore, scambiando per realtà i fantasmi delle proprie devozioni. Non bisogna amare a parole, ma coi fatti e nella verità (1 Gv 3,18). Anche in campo non religioso rischiamo di osservare i protocolli sempre più esigenti del puro apparire! Ma che ne è del nostro cuore?

v. 9: invano mi venerano ecc. È un culto del vuoto. I precetti che ne derivano svuotano l’uomo, vanificando la parola di vita. Gran parte della predicazione profetica è contro questo culto (cf. Is 1,10-20; 58,1-12; Ger 7,1-15).

v. 10: ascoltate e comprendete. Gesù ora si rivolge alle folle, chiamate a comprendere ciò che dice.

v. 11: non ciò che entra nella bocca, ecc. Nella bocca entra il cibo, dalla bocca esce la parola. Tutto ciò che c’è, è buono, dono di Dio (cf. At 10,11-15). Questa affermazione di Gesù è principio di libertà da ogni tabù culturale. Di tutto l’uomo può liberamente disporre. È come lui ne dispone che lo fa morire o vivere. E ne dispone secondo ciò che esce dalla sua bocca, secondo la parola d’amore o d’egoismo che ha dentro. Qual è la parola che governa l’uso che faccio di ogni cosa? È parola di libertà o di dominio, di dono o di possesso, di comunione o di separazione?

v. 12: i farisei furono scandalizzati, ecc. I discepoli notano che i farisei si scandalizzano. Ma è uno scandalo positivo, che vuol toglierli dall’ipocrisia. Tutto al mondo è puro: solo un cuore immondo lo rende immondo.

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v. 13: ogni pianta, ecc. Il Padre ha piantato l’albero della vita, che porta il frutto dello Spirito (cf. Gal 5,22). Ogni albero che non porta questo frutto non è suo: è cattivo (7,15-20), e sarà sradicato (cf. 3,10).

v. 14: lasciateli. I discepoli sono chiamati a lasciare i farisei : non sono maestri da imitare, ma da evitare.

cieche guide di ciechi. Non sono guide illuminate, ma cieche. Il loro cuore impuro non vede Dio, ma solo il proprio io. Chi li segue cade nella fossa (cf. 23,16).

v. 15: Pietro disse. Nel brano ci sono progressivamente farisei, scribi, folle, discepoli e anche Pietro. Il problema riguarda tutti. In particolare Pietro, che ha un ruolo di guida. Che anche lui non sia cieco! E lo sarà ogni volta che non avrà lavato gli occhi nel pianto del proprio peccato riconosciuto (26,74s).

v. 16: anche voi siete ancora senza intelletto? Nonostante il loro: "Sì” (cf. 13,51), non hanno ancora capito (cf. 16,5-11). Anche in loro c’è il lievito dei farisei oltre che dei sadducei (16,12).

v. 17: ciò che entra nella bocca, ecc. Ciò che entra nella bocca serve per vivere - e ciò che non serve si elimina!

v. 18: invece ciò che esce dalla bocca, proviene dal cuore. La bocca parla dall’abbondanza del cuore (12,34). Un cuore che ha dentro la Parola di vita, rende tutto puro; un cuore che ha dentro parole di morte, rende tutto impuro.

Il bene e il male non sta nelle cose, ma nelle nostre azioni; e ancor prima nelle nostre intenzioni, nella parola di sapienza o di stoltezza che il nostro cuore ha sposato.

v. 19: dal cuore escono, ecc. È una lista di azioni malvagie, quelle che Paolo chiama opere della carne (Gal 5,19-21). Sono il veleno che esce da un cuore lontano da Dio, centrato su se stesso.

v. 20: cose che contaminano. Il male e la morte vengono dal cuore, dall’intenzione con cui si vive ogni realtà. Il mondo non è né da idolatrare né da demonizzare, né da adorare né da disprezzare. Il suo valore o meno dipende dalla parola non detta che esce dal cuore.

mangiare con mani non lavate non contamina l’uomo. Noi mangiamo il Pane, anche se indegni. Questo pane ci fa vivere il frutto dello Spirito (Gal 5,22).

3. Pregare il testo

a. entro in preghiera come al solito.b. mi raccolgo immaginando Gesù: attorniato da farisei e scribi, folla e

discepoli.c. chiedo ciò che voglio: non avere il cuore lontano da Dio, mangiare il

Pane, vivere con amore ogni realtà.d. traendone frutto, medito sulle parole di Gesù.

Da notare: farisei e scribi mangiare il pane con mani immonde trasgredire le tradizioni degli antichi trasgredire il comando di Dio annullare la parola di Dio con la nostra tradizione culto di labbra, con il cuore lontano da Dio ciò che entra e ciò che esce dalla bocca.

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4. Testi utili

Sal 78; Is 29,13-24; At 10,1ss; Mt 7,12; 22,34-40; Gal 5,19-22; 1Cor 13,1ss.

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65. O DONNA, GRANDE È LA TUA FEDE:SIA FATTO A TE COME VUOI15,21-28

15,21 E, uscito di là,Gesù si ritirò nelle parti di Tiro e Sidone.

22 Ed ecco una donna cananea,che usciva da quelle regioni,gridava dicendo:

Abbi pietà di me,Signore, Figlio di Davide!Mia figlia è malamente indemoniata.

23 Ora egli non le rispose parola.Ora avvicinatisi i suoi discepoligli chiedevano dicendo:

Mandala via,perché ci grida dietro.

24 Ora rispondendo disse:Non fui inviatose non per le pecore perdutedella casa d’Israele.

25 Ora quella venne e lo adorava dicendo:

Signore, aiutami!26 Ora egli rispondendo disse:

Non è belloprendere il pane dei figlie gettarlo ai cagnolini!

27 Ora quella disse:Sì, Signore;ma anche i cagnolini mangianodelle briciole che cadonodalla mensa dei loro signori!

28 Allora rispondendo Gesù le disse:O donna, grande è la tua fede:Sia fatto a te come vuoi!

E fu guarita sua figlia da quell’ora.

1. Messaggio nel contesto

“O donna, grande è la tua fede: sia fatto a te come vuoi”, è l’esclamazione di Gesù davanti alla donna pagana, che ottiene il “pane dei figli”!

Il racconto, parallelo a quello del centurione (8,5-13), fa da contrappunto alle rimostranze dei farisei e degli scribi (15,1ss), alla non fede dei suoi di Nazareth (13,58) e alla poca-fede dei discepoli (8,26; 14,31). Il dono del Signore è per chi lo chiede con fiducia, non per chi lo pretende o per chi, invece di aver fiducia, chiede segni (16,1).

Questa donna è immagine della nostra Chiesa, che proviene dal paganesimo: partecipa alla promessa di Abramo mediante la fede.

La fede agisce a distanza, anche in assenza di Gesù (cf. anche 8,1-13). È la condizione nostra: dopo la sua missione a Israele, lui è assente, ma la sua stessa forza opera in coloro che per primi hanno veduto e

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creduto, e continua anche in quanti, pur non avendo visto, credono (cf. Gv 20, 29).

Solo la fede dà accesso al “pane dei figli”, sia per Israele che per i pagani, sia per chi ha visto che per chi non ha visto.

Nel brano si sottolinea il limite della missione storica di Gesù, destinata a Israele, erede primo della promessa che attraverso lui passerà a tutte le genti. Questa donna, con il centurione, ne è l’anticipo profetico.

Il brano è un dialogo serrato e drammatico tra la donna e Gesù, con l’intervento dei discepoli. Si intravedono le difficoltà che anche in seguito incontrerà il passaggio della salvezza ai pagani, gli immondi. La fede dà il via libero all’intervento di Dio al di là di ogni barriera culturale e religiosa, allora come oggi. Dio stesso interviene dal cielo per vincere la resistenza della Chiesa primitiva nei confronti dei pagani (cf. At 10,9-48).

Tipici di Matteo sono l’intervento dei discepoli e la dichiarazione di Gesù circa la sua missione verso le pecore perdute d’Israele (vv.23.24).

Il dialogo tra Gesù e la donna riguarda “il pane dei figli”, e a chi spetta. Matteo scrive per i giudei cristiani, per aprirli alla missione verso i pagani (cf. 28,20). Inoltre vuol stimolare la gelosia di quei figli che ancora non accolgono quel pane del quale invece i cani (i pagani) per la loro fede si saziano (cf. Rm 11,14).

La distinzione cani/figli è quindi abbattuta dalla fede: già Abramo, padre di Israele, era pagano, e divenne erede della promessa e patriarca del nuovo popolo per la sua fede. “Quelli che hanno fede sono benedetti insieme ad Abramo che credette”; suoi figli “sono quelli che vengono dalla fede”, perché lui stesso fu il primo che “ebbe fede in Dio, e gli fu accreditato a giustizia” (Gal 3, 9.7.6).

Gesù è il Messia promesso e inviato a Israele. Dall’Israele che lo accoglie sorge la luce per tutte le genti (Lc 2,32): i suoi discepoli saranno dopo di lui inviati per tutto il mondo ( 28,20). La missione del Messia verso di loro è la loro stessa verso tutti.

La Chiesa è fatta innanzitutto da giudei e poi da quanti, per la loro fede, diventano figli di Abramo, il primo che dà credito a Dio e alla sua promessa.

2. Lettura del testo

v. 21: E, uscito di là, Gesù si ritirò, ecc. Gesù esce dal luogo dove i farisei e gli scribi onorano il Signore con le labbra, ma con il cuore lontano da lui. Si ritira in zona pagana, verso Tiro e Sidone.

È un’allusione al passaggio della salvezza ai pagani (At 13,46ss). Se il rifiuto di parte del popolo fu salvezza per tutte le genti, cosa sarà mai quando tutto Israele accoglierà il suo Messia? “Se infatti il loro rifiuto ha segnato la riconciliazione del mondo, quale potrà mai essere la loro riammissione, se non una risurrezione dai morti?”(Rm 11,15).

v. 22: ecco una donna cananea che usciva, ecc. La mancanza di fede fa uscire Gesù dalle sue regioni; la fede a sua volta fa uscire anche la pagana dalle sue regioni, per incontrarlo.

gridava dicendo. La sua preghiera ha la forza del grido, ma anche la sapienza di una parola precisa.

abbi pietà di me, Signore, Figlio di Davide. È la preghiera fondamentale. Abbi pietà significa: “Fammi grazia”. La cananea non pretende e non accampa diritti: chiede il dono a colui che è tutto e solo dono, riconoscendo in lui il Signore e il Messia (figlio di Davide).

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Questa pagana fa sua la professione di fede in Gesù: lo riconosce come figlio di Davide secondo la carne e come Signore, Figlio di Dio, secondo lo Spirito (1,1.18; cf. Rm 1,3s), e ne invoca la salvezza.

mia figlia è malamente indemoniata. La figlia della pagana rappresenta tutti i figli di Adamo: preda della diffidenza, sono invasati di menzogna, posseduti dal male.

v. 23: non le rispose una parola. Gesù, nella sua missione storica, rispose solo a Israele, che lo attendeva. Sarà questo poi a trasmettere il dono agli altri.

Forse meraviglia che Dio abbia parlato ad alcuni dei suoi figli e non ad altri. Certo che Dio parla nel cuore di tutti. Ma, per parlare umanamente, ha assunto le condizioni del parlare umano, nel quale si parla a qualcuno per il quale si è qualcuno. È lo “scandalo” dell’incarnazione, centro della fede (cf. 13,53ss).

i suoi discepoli gli chiedevano. Alla domanda della donna toccherà rispondere proprio ai discepoli, non a Gesù, quando saranno inviati a tutte le genti (28,19s). Sarà una risposta travagliata (cf. At 10,1ss; 15,1ss e la lettera ai Galati!). La difficoltà del rapporto tra giudei e pagani all’interno della Chiesa si rovescerà purtroppo nel peccato dei cristiani di origine pagana contro i giudei.

mandala via, ecc. Questa donna richiama i dieci pagani che cercheranno di afferrare il mantello di un Israelita (cf. Zc 8, 20-23). Ma la cosa non è senza difficoltà. “Mandala via”, dicono i discepoli (versione migliore di: “esaudiscila”). Nella loro missione verso i pagani, i missionari saranno tentati di essere dimissionari. Pietro stesso ad Antiochia si ritirerà dai fratelli pagani per ipocrisia, e ci vorrà un Paolo che gli resiste a viso aperto (cf. Gal 2,11s), con la stessa forza di questa donna. A Pietro non bastò né la prima né la seconda pentecoste (cf. At 2,1ss; 4, 23-31), né l’intervento diretto dal cielo, che gli impose di non chiamare immondo ciò che il Signore aveva purificato (At 10,15). È costante nella chiesa la tentazione di “confiscare” il Signore, sottraendolo alle attese di chi lo desidera. Ma escludere il fratello dall’eredità, è rinnegare il proprio essere figlio.

v. 24: non fui inviato se non per le pecore perdute, ecc. Gesù limitò la sua missione all’Israele perduto. Sarà l’Israele ritrovato dal suo Signore a diventare luce per tutte le genti (Lc 2,32; cf. Is 42,6; 49,6: Rm 15,8-12). La missione universale di salvezza passa attraverso la carne d’Israele e del suo Messia.

Quando Gesù, compiuta la sua missione, si assenterà sul monte, i suoi discepoli saranno inviati a continuarla verso tutte le genti. È la prospettiva con cui Matteo chiude il suo vangelo (28,16-20). Prima anche loro limiteranno come lui la propria missione (cf. 10,6).

Solo in Israele che riconosce il suo Messia, tutte le genti riconoscono le proprie sorgenti (Sal 87,5). La salvezza del Figlio è mediata dal fratello (maggiore) che si fa servo degli altri.

v. 25: lo adorava. Come i Magi, anch’essi pagani (2,2.11), questa donna adora il Signore.

Signore, aiutami. La donna chiede aiuto, nonostante il silenzio del Signore e la resistenza dei suoi discepoli.

v. 26: prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini. La risposta di Gesù è la più dura che possa aspettarsi un pagano. Gli ebrei chiamavano “cani” i pagani. Il pane dei figli sarà dato proprio a loro. Non per merito - è grazia e dono! - ma per la grande fede (v. 28).

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v. 27: Sì, Signore. Per la donna è tre volte Signore (vv. 22.25.27) proprio quel Gesù che, dopo il fatto dei pani, i discepoli avevano scambiato per fantasma (14,26).

anche i cagnolini mangiano, ecc. Il cane vive delle briciole che cadono dalla tavola del padrone, l’uomo del pane che viene a lui dalla mano del Signore.

v. 28: o donna, grande è la tua fede. La fede di questa donna è grande, a differenza di quella dei discepoli, che è poca (8,26; 14,31); è grande come quella del soldato pagano, che suscita la meraviglia di Gesù (8,10). Per questa fede molti verranno da oriente e da occidente, e sederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe (8,11), sazi della beatitudine di chi mangia il pane del regno (Lc 14,15).

sia fatto a te come vuoi. Il Signore è venuto in terra per fare la volontà di questa donna: è la stessa del Padre nei cieli (6,10s), che vuol dare il suo pane a tutti i suoi figli.

fu guarita sua figlia da quell’ora. L’ora della fede è la stessa della salvezza, come per il figlio del centurione (8,13).

3. Pregare il testo

a. entro in preghiera come al solito.b. mi raccolgo immaginando Gesù nei territori pagani di Tiro e Sidone.c. chiedo ciò che voglio: la fede della donna, che resiste a ogni avversità

e durezza.d. traendone frutto, contemplo le persone: chi sono, che dicono, che

fanno.

Da notare: Gesù si ritira in zona pagana la donna pagana pietà di me, Signore, figlio di David Gesù non risponde i discepoli dicono di mandarla via non fui inviato se non alle pecore perdute d’Israele Signore, aiutami il pane dei figli è per i cagnolini donna, grande è la tua fede la guarigione avviene in assenza di Gesù per la fede della donna.

2. Testi utili

Sal 67; 87; Is 56,1.6-7; Mt 8,1-13; 28,16-20; Lc 14,15-24; Gal 3,6-9. Rm 15,8-12; At 19,1ss.

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66. HO COMPASSIONE DELLA FOLLA15,29-39

15,29 E, trasferitosi di là,Gesù venne presso il mare di Galilea,e, salito sul monte,stava lì seduto.

30 E vennero da lui molte folleportando con sézoppi, ciechi, storpi, sordie molti altri,e li gettarono ai suoi piedie li curò,

31 così che la folla si meravigliavavedendo muti che parlano,storpi guariti,zoppi che camminanoe ciechi che vedono,e glorificarono il Dio d’Israele.

32 Ora Gesù, chiamati innanzi i suoi discepoli,disse:

Ho compassione della folla,perché già da tre giornidimorano presso di mee non hanno che mangiare,e non voglio rimandarli digiuni,perché non vengano meno per strada.

33 E gli dicono i discepoli:Da dove per noi nel desertotanti pani da saziare tanta folla?

34 E dice loro Gesù:Quanti pani avete?

Ora essi dissero:Sette e pochi pesciolini.

35 E, ordinato alla folla di sdraiarsi per terra,36 prese i sette pani e i pesci

e, rendendo grazie,li spezzòe li dava ai discepolie i discepoli alle folle.

37 E mangiarono tuttie furono saziati.E levarono sette ceste pienedai pezzi che sovrabbondarono.

38 Ora quanti mangiaronoerano quattromila uomini,senza donne e bambini.

39 E, congedate le folle, salì sulla barcae venne nei confini di Magadan.

1. Messaggio nel contesto

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“Ho compassione della folla”, dice Gesù ai suoi discepoli, che dovranno ricevere e dare il suo pane. È una folla composta da zoppi, ciechi, storpi, sordi e malati di ogni tipo. Gesù si prende cura di loro, e comunica ai discepoli la sua compassione e il suo proposito di sfamarli, ripetendo il gesto di 14,13-21.

Il pastore riunisce attorno a sé le pecore oppresse e sfinite (9,35s; cf. 4,23s ); il popolo dei poveri riceve “il pane dei figli” di cui, per la fede, si erano saziati anche i cagnolini (15,27).

Il Signore torna in mezzo al suo popolo: “Io sarò il loro Dio, ed essi il mio popolo” (Ger 31,33). Per questo si aprono gli occhi dei ciechi, lo zoppo salta come un cervo, grida di gioia la lingua del muto (Is 35,5s). Tutti vedono il lavoro delle sue mani e glorificano il suo nome: gli spiriti traviati apprendono la sapienza e i brontoloni la lezione (Is 29,23s).

Siccome è una lezione difficile da imparare, il Maestro comincia daccapo, ripetendo con pazienza quanto già ha fatto. Del suo pane infatti abbiamo bisogno non una sola volta, ma sempre ancora una volta, ogni giorno. Questo pane è il cibo che sazia le nostre fami, la compassione che guarisce i nostri mali.

Per noi la vita è possibile nella ripetizione del respiro e del battito del cuore, della veglia e del sonno, del cibo e delle solite parole scambiate - le fondamentali sono sempre le stesse! Ma nessun giorno è come l’altro. Nel ritmo l’uomo cresce fino alla sua maturazione intellettuale e spirituale. Ripetere è la condizione per ricordare, portare al cuore. Uno vive dei suoi ricordi: la sedimentazione di esperienze successive e ripetute diventa la “memoria”, il programma di vita. Il credente fa memoria del corpo del Signore dato per lui, ricorda la sua compassione: mangia e rimangia di questo pane, fino a quando tutta la sua vita è eucaristia - donata dal Padre e ai fratelli.

Il brano ci presenta Gesù sul monte che realizza il regno per i poveri: le folle di malati accorrono a lui per essere curate (vv. 29-31) e ricevere il pane e la sazietà che viene dalla sua compassione (vv. 32-39).

La comunità che spezza il pane continua la sua opera, vivendo del banchetto della Sapienza. Non solo fa un rito, ma vive nella quotidianità ciò che celebra.

Questo racconto ha somiglianze e differenze con il precedente. Ogni ripetizione è una variazione sul tema: la realtà è una, ma ogni volta ne colgo un aspetto complementare e più profondo.

Qui si evidenzia maggiormente la compassione di Gesù e l’incomprensione dei discepoli direttamente interpellati, che pure dovrebbero aver capito qualcosa dall’esperienza precedente.

Nonostante che ripetiamo l’eucaristia, fatichiamo ad entrare nella compassione di Gesù. Per questo, direbbe Paolo, molti tra noi sono malati e infermi, e un buon numero morti. Perché mangiamo questo pane senza riconoscere il corpo del Signore (1Cor 11,30.29).

Ma proprio questa ripetizione, giorno dopo giorno, ci guarisce. Il Signore è paziente: sempre, ogni volta, riprende a dirci la sua parola e a darci il suo pane.

Gesù è il maestro che ricomincia sempre la sua lezione, e a sue spese; è il Signore che di continuo ci offre la sua eterna compassione.

La Chiesa, come i discepoli, non comprende: tuttavia esegue l’ordine del Signore, dando a tutti il pane che riceve. Chi capisce il dono, entra nel regno.

2. Lettura del testo

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v. 29: salito sul monte, Gesù stava lì seduto. È lo stesso scenario delle Beatitudini (5,1). Qui realizza quanto là ha detto: i poveri, gli affamati e gli afflitti hanno la sazietà e la consolazione del regno.

v. 30: vennero da lui molte folle. Là si avvicinano i discepoli (5,1), qui una folla oppressa da ogni tipo di male. È quasi un mare di sofferenza che si riversa addosso a lui, seduto sul monte.

zoppi, ciechi, storpi, sordi, ecc. Si nominano quattro forme di male. Sono le quattro “fami” dell’uomo, di cui il Signore ha compassione e si prende cura.

Quattro - numero dominante nel racconto con il tre e il sette - indica totalità: quattro sono gli elementi dell’universo, quattro i punti cardinali. Tutto il male si riversa su Gesù da ogni parte.

Zoppo è l’uomo che non cammina, incapace raggiungere la sua casa. Cieco è l’uomo che non vede, non ancora venuto alla luce della sua verità. Storpio è l’uomo ricurvo su di sé, che non riesce a stare dritto di fronte al volto dell’altro che gli dà la sua identità. Sordo è l’uomo che non può udire la parola, escluso dal dialogo con l’altro che lo fa essere se stesso.

li gettarono ai suoi piedi e li curò. L’umanità, diventata come i suoi idoli che hanno piedi e non camminano, occhi e non vedono, mani e non toccano, orecchi e non odono, bocca e non parlano (Sal 115,4-8), è gettata ai piedi di Gesù. Davanti a lui torna ad essere ciò che è, ricostituita a immagine del Vivente.

v. 31: la folla si meravigliava, ecc. È lo stupore di chi vede l’uomo restituito al suo splendore di immagine di Dio.

muti che parlano. Sono i sordi del v. 30: essendo sordi alla Parola, erano anche muti, incapaci di esprimerla.

storpi guariti. L’uomo recupera il suo star ritto, la sua posizione di interlocutore dell’altro.

ciechi che vedono. La vista è il miracolo definitivo: è l’illuminazione della fede, che ci fa nascere alla nostra vita di figli e di fratelli.

glorificavano il Dio d’Israele. Le folle riconoscono che non si è accorciato il braccio di Dio (Is 50,2), e gli rendono gloria.

v. 32: Gesù, chiamati innanzi i suoi discepoli, ecc. Nel primo racconto furono i discepoli a venirgli innanzi (14,15) per fargli la loro proposta. Ora si fa innanzi lui, per proporre loro la sua compassione.

ho compassione. La compassione è il principio di ogni sua azione: è l’amore, che sente l’altro come se stesso.

da tre giorni dimorano presso di me. È misterioso questo dimorare tre giorni, senza cibo, presso di lui. Anche lui ha dimorato nel digiuno tre giorni e tre notti nel cuore della terra (cf. 12,40), per essere presso tutti noi.

Nell’ascolto c’è un dimorare suo presso di noi e nostro presso di lui, nel mistero dell’unica Parola.

non hanno che mangiare. Si sottolinea la mancanza di cibo.perché non vengano meno per strada. È troppo lungo il cammino

(1Re 19,1-8). È necessario proprio quel pane che viene dal suo digiuno di tre giorni sotto terra. La sua stessa parola in noi è seme che diventa pane.

v. 33: da dove per noi nel deserto tanti pani? Nonostante la lezione precedente, ancora i discepoli non sanno da dove viene il pane.

v. 34: quanti pani avete? La soluzione non è da cercare fuori, ma dentro la comunità, nel modo di vivere il pane che già hanno.

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sette. È il numero perfetto. Richiama il settimo giorno della creazione, il compimento suo e il riposo di Dio. Questo pane infatti è il compimento della creazione: ci introduce nel settimo giorno, nel riposo di Dio.

v. 36: Gesù prese (cf. 14,19). Il Figlio “prende”: la sua vita è ciò che gli è dato.

i sette pani. Sudore e cibo, dolore e speranza, gioia e angustia, giustizia e ingiustizia, divisione e comunione, morte e vita: tutta la nostra esistenza è contenuta nel pane di cui viviamo. È tutto da “prendere”; ma non come Adamo, bensì come Gesù.

rese grazie. Significa: “fece eucaristia” (in 14,19 “levò gli occhi al cielo e benedisse”). È il modo di vivere del Figlio. Tutto ciò che è, è gioia, gratitudine ed amore verso il Padre. Anche noi siamo chiamati a fare in tutto e sempre eucarestia: questa è la volontà di Dio (1Ts 5,18), la nostra santità (1Ts 4,3) - il nostro modo “altro”, divino, di vivere.

li spezzò. Chi vive nella gioia del dono e dell’amore sa amare fino al dono di sé.

li dava. In 14,19 c’è: “li diede”; qui: “li dava”. L’imperfetto indica un’azione che non è ancora finita: Gesù continua sempre a dare ciò che allora diede, fino a quando Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,28).

ai discepoli. Discepolo è colui che riceve questo pane che lo fa come il suo Maestro.

e i discepoli alla folla. Il discepolo, in forza di questo pane, può fare come il suo Maestro: darlo a tutti, perché ciascuno diventi discepolo come il Maestro.

v. 37: tutti mangiarono e furono sazi. È la beatitudine di 5,6. Questo “pane dei figli” è per “tutti” i fratelli. E solo questo pane sazia la fame dell’uomo: contiene ogni delizia (Sap 16,20). Altri pani affamano.

levarono sette ceste piene. Nel primo racconto (14,20) erano dodici, una per ogni tribù d’Israele e per ogni mese. Ora sono sette, numero del compimento. Prima si sottolineava la quantità del pane: basta per tutti e per sempre. Ora la qualità: è il pane perfetto, che ci rende figli, perfetti come il Padre (5,48).

Qualcuno vede in questo numero l’allusione ai sette diaconi che presiedevano le mense dei cristiani di origine non giudaica (cf. At 6,1ss).

v. 38: quattromila uomini. In 14,21 erano cinquemila, con richiamo alla prima comunità di At 4,4. Qui sono quattro volte mille. Quattro significa totalità, mille quantità innumerevole: è la folla di tutta l’umanità, fatta di figli chiamata a vivere da fratelli. Le sette ceste piene sovrabbondanti sono a disposizione, perché tutti possano mangiare dei sette pani, che saziano la vera fame dell’uomo, il suo desiderio di essere come Dio (Gen 3,5s).

v. 39: congedate le folle, ecc. Con questo viatico Gesù ci consegna al nostro cammino: ormai possiamo “camminare come lui ha camminato”, senza venir meno per strada (v.32).

3. Pregare il testo.

a. entro in preghiera come al solito.b. mi raccolgo immaginando Gesù sul monte che cura e dà il suo pane.c. chiedo ciò che voglio: partecipare della sua compassione, ricevendola

e donandola.d. traendone frutto, contemplo le persone: chi sono, che dicono, che

fanno.

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Da notare: salito sul monte zoppi, ciechi, storpi, sordi li gettavano ai suoi piedi li curò ho compassione della folla da tre giorni dimorano presso di me da dove per noi nel deserto tanti pani da saziare tanta folla? quanti pani avete? sette prese i sette pani rese grazie li spezzò li dava ai discepoli e i discepoli alle folle mangiarono tutti e furono sazi sette ceste quattromila uomini.

4. Testi utili

Sal 23; Es 16,1ss; 2Re 4,42-44; Is 25,1ss; 35,1ss; Gv 6,26-66.

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67. GUARDATEVI DAL LIEVITO DEI FARISEI E DEI SADDUCEI

16,1-12

16,1 E i farisei e i sadducei avvicinatisi per tentarlo,e gli chiesero di mostrar loro un segno dal cielo.

2 Ora, rispondendo, disse loro:Venuta la sera, dite:

Bel tempo: il cielo rosseggia,3 e, al mattino:

Oggi tempesta: il cielo è rosso cupo.Sapete discernere l’aspetto del cielo,e non sapete discernere i segni dei tempi?

4 Una generazione perversa e adultera chiede un segno,

e segno non le sarà datose non il segno di Giona.

E, lasciatili, se ne andò.5 E, passando i discepoli all’altra riva,

dimenticarono di prendere pani.6 Ora Gesù disse loro:

Attenti a guardarvi dal lievito dei farisei e dei sadducei!7 Ora essi ragionavano tra loro dicendo:

Non abbiamo preso pane!8 Accortosene, Gesù disse:

O voi di poca fede,perché ragionate tra voidicendo di non aver pani?

9 Non avete ancora capito né ricordatei cinque pani per i cinquemilae quante ceste avete preso?

10 E neppure i sette pani per i quattromilae quante ceste avete preso?

11 Come mai non capiteche non vi ho parlato di pani?Guardatevi dal lievito dei farisei e dei sadducei!

12 Allora compresero che non dissedi guardarsi dal lievito dei pani, ma dall’insegnamento dei farisei e dei sadducei.

1. Messaggio nel contesto

“Guardatevi dal lievito dei farisei e dei sadducei”, ripete Gesù ai discepoli che si lamentano di non aver pane. Anche qui, come dopo il primo fatto dei pani, li chiama “voi di poca fede” (v.8; 14,31).

Il “pane” non è mai sufficiente (15,33; cf. 14,17). Eppure c’è, e in sovrabbondanza (cf. 14,20; 15,37; 16,9-10), se è vissuto secondo la parola di Gesù: è la vita stessa del Figlio offerta a tutti i fratelli. Ma c’è qualcosa che lo insidia: è il lievito dei farisei e dei sadducei, come qui si dice.

I farisei sono gli osservanti della legge; i sadducei sono i ricchi proprietari. Legge e danaro sono rispettivamente il mezzo per possedere

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Dio e le cose. Ma il possesso è un fermento micidiale, che distrugge l’essenza del vangelo: si oppone al dono.

Il pane - la vita del Figlio - non è salario del nostro sudore, frutto del nostro accumulare ricchezza religiosa o mondana: è dono gratuito del Padre. Legge e potere sono il lievito che impediscono di vivere da figli e da fratelli.

In barca i discepoli hanno sempre tempesta (8,23-27; 14,22-33). Questa terza volta la burrasca non è più esterna, ma interna. Si lamentano di non avere pane, mentre Gesù li rimprovera di avere lieviti diversi da quello del regno. Il problema reale del discepolo è sempre la “poca fede” in Gesù e nella sua parola (v.8; 8,26; 14,31).

Il brano è diviso in due parti. Nella prima Gesù risponde ai farisei e ai sadducei che chiedono un segno dal cielo, invitandoli a leggere i segni dei tempi e riproponendo loro il segno di Giona (vv.1-5; i vv. 2b-3, simili a Lc 12,54-56, mancano in importanti manoscritti). Nella seconda parte Gesù dice ai discepoli, preoccupati di non aver pane, di guardarsi dal lievito dei farisei e dei sadducei (vv.6-12): è questo che impedisce loro di capire e vivere il pane - il segno di Giona.

In questo brano si nomina sette volte il pane e tre volte il lievito; inoltre per quattro volte si parla di farisei e sadducei. Essi rappresentano quel lievito che mette alla prova il Signore, e impedisce al discepolo di vivere del suo pane.

Gesù richiama tutti, e in particolare i discepoli, a saper leggere il segno definitivo, quello di Giona, in cui si fa nostro pane.

La Chiesa capisce e vive questo segno nella misura in cui è libera dal lievito della legge e del potere: sono i due nemici che stanno sempre dentro le mura di ogni città e di ogni cuore, per quanto santi siano.

2. Lettura del testo

v. 1: I farisei e i sadducei. La stessa domanda è fatta anche in 12,38 da scribi e farisei. Se dopo il primo racconto dei pani entrano in campo farisei e scribi con le loro obiezioni (15,1), dopo il secondo si fanno avanti farisei e sadducei.

I farisei, che sono osservanti della legge, e i sadducei, che fanno parte dell’aristocrazia di Israele, esercitano un grande influsso nella vita religiosa e politica. I devoti e i potenti, per lo più in disaccordo tra di loro - ora sono alleati contro Gesù. Hanno qualcosa in comune: i primi si garantiscono Dio con la loro osservanza, i secondi si garantiscono la vita coi loro beni. Ambedue ricercano la sicurezza, rispettivamente eterna e temporale, al di fuori della fiducia nel Padre.

per tentarlo. Satana è il tentatore, che si è presentato a Gesù fin dall’inizio, nel deserto. La legge religiosa e il potere sono i mezzi con cui può scimmiottare Dio, la cui unica legge è il perdono e il cui unico potere è il servizio.

un segno dal cielo. È la stessa domanda di 12,38: chiedono un segno divino. Ma che segno si può dare a chi pretende segni e rifiuta di credere (cf. 12,22-32)? La diffidenza è il peccato che più irrita Dio: va direttamente contro il suo amore (cf. Es 17,1-7).

Dopo il dono del pane - il segno di Giona - il Signore non ha più segni. Con esso ha detto tutto: ha dato se stesso!

v. 2s: venuta la sera, dite, ecc. I segni delle cose che ci stanno a cuore, sappiamo discernerli bene, anche dai più piccoli indizi. Il segno del Figlio dell’uomo che entra nel cuore della terra non ci interessa, e non lo

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vogliamo comprendere. Eppure, se uno non mente a se stesso, da ciò che Gesù fa dovrebbe capire chi è.

Il discernimento nelle cose di Dio è difficile, perché cerchiamo segni che confermino le nostre attese, che sono opposte alle sue. I farisei vorrebbero un Messia zelante della legge, sterminatore degli empi e salvatore dei buoni; i sadducei vorrebbero un Messia potente e vittorioso che assicuri benessere e dominio. Il Signore invece è mite e umile di cuore (11,29).

v. 4: una generazione perversa e adultera, ecc. Come in 12,39, a chi non vuol leggere i suoi segni, il Signore darà “il suo” segno, quello di Giona: il suo corpo dato per noi. Questo sarà un lievito di vita, nascosto nella pasta del mondo (cf. 13,33).

lasciatili, se ne andò. Non li abbandona: li lascia con la promessa del “suo” segno.

v. 5: dimenticarono di prendere pani. Nessuna dimenticanza è mai a caso! Nel loro viaggio in barca i discepoli si trovano senza pane. Normalmente ne hanno (cf. 14,17; 15,34); anche se insufficiente per gli altri, è quanto basta per loro. Ora invece non basta neanche a loro stessi. L’unico pane che, secondo Mc 8,14 hanno, non è riconosciuto; è scambiato per fantasma (cf. 14,26). Infatti anche loro non sanno leggere il segno di Giona.

v. 6: attenti a guardarvi dal lievito dei farisei e dei sadducei. Invece di sadducei, Marco parla di Erode (8,14-21), più comprensibile ai suoi lettori non giudei. È ovviamente il lievito del v.1: vogliono un segno dal cielo che confermi le loro attese.

Il segno del pane, appena dato, può essere letto anche dai discepoli al contrario: può suscitare la pretesa di un intervento prodigioso, invece che la volontà di condivisione e di dono, fino al dono di sé. Il pane che dà vita filiale e fraterna è sempre insidiato dal lievito dei farisei e dei sadducei - e poco fermento lievita tutta la pasta (1Cor 5,6; Gal 5,9)! I discepoli “in barca”, nella loro traversata verso l’altra riva, possono ridurre l’eucaristia a un bel rito che non diventa concreta vita fraterna, senza riconoscere il corpo del Signore (cf. 1Cor 11,17-34) e scambiandolo per un fantasma (14,26). Gesù ha insegnato a prendere, benedire, spezzare e dare, condividendo la propria vita! Ha rifiutato di far delle pietre pane, come voleva il tentatore (4,3)!

v. 7: non abbiamo preso pani. Dopo il fatto dei pani, pensano di viaggiare senza provviste per provocare un segno dal cielo? Ma il suo pane non è un segno dal cielo, bensì dalla terra: è il Figlio dell’uomo che si consegna all’uomo, in una vita filiale e fraterna. Il problema non è provocare il Signore a darci altro pane, ma vivere quanto abbiamo e siamo in obbedienza a lui, che ha detto: “Date loro voi stessi da mangiare” (14,16). In questo modo il pane materiale diventa cibo spirituale, sazietà di figli e di fratelli.

v. 8: o voi di poca fede. È l’appellativo del discepolo (6,30; 8,26; 14,31; 17,20). La fede c’è, ma insufficiente e sempre malsicura. Anche il discepolo, invece di fidarsi, preferisce chiedere segni. Invece di dire: “Sia fatta la tua volontà” (6,10), vuole che il Signore soddisfi le sue brame (cf. Sal 78,18). Si lamenta di non aver pane, perché non mangia e non vive del suo pane. Non è che gli manchi il cibo, ma la fede che porta a condividere.

v. 9: ricordate i cinque pani, ecc. La via alla guarigione è il ricordo del fatto dei pani, che vince in noi il lievito dei farisei e dei sadducei. Esso ci insegna non a chiedere segni dal cielo, ma a vivere secondo la volontà del Padre celeste il nostro pane quotidiano.

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v. 10: i sette pani, ecc. Il ricordo del dono e il suo ripetersi – come facciamo nella celebrazione della cena del Signore - ci guarisce lentamente dal lievito dei farisei e dei sadducei. Il suo corpo dato per noi è antidoto al nostro egoismo e partecipazione al suo Spirito, anche se sempre rimane il pericolo di ridurre l’eucaristia a semplice rito.

v. 11: come mai non capite che non vi ho parlato di pani? Gesù sottolinea con sorpresa l’incomprensione. Non parla di pane materiale, ma del modo con cui si vive. Si può vivere con il lievito del regno, che porta al dono di sé o con il lievito dei farisei e dei sadducei, che porta a garantirsi il possesso di tutto, fino a mettere le mani sul Signore stesso.

v. 12: non disse di guardarsi dal lievito dei pani, ma dall’insegnamento, ecc. Non è problema di pane o lievito materiale, ma di Spirito: con quale spirito viviamo il “pane nostro quotidiano”? Che uso facciamo dei beni e della vita? Secondo la tradizione degli uomini, farisei o sadducei che siano, che annullano la parola di Dio (cf. 15,6), o secondo il comando del Signore? Cerchiamo di dar gloria a Dio o a noi stessi, di possedere o di condividere, di togliere o di dare ai fratelli? Abbiamo il lievito di vita o quello di morte, del dono o del possesso, spirituale o materiale che sia?

3. Pregare il testo

a. entro in preghiera come al solito.b. mi raccolgo immaginando Gesù in barca coi discepoli.c. chiedo ciò che voglio: guardarmi dal lievito dei farisei e dei sadducei.d. traendone frutto, medito le parole del Signore.

Da notare: gli chiesero di mostrare un segno dal cielo non sapete discernere i segni dei tempi? a questa generazione perversa non sarà dato alcun segno, se

non il segno di Giona i discepoli dimenticarono di prendere pane attenti a guardarvi dal lievito dei farisei e dei sadducei non abbiamo pane non avete ancora capito né ricordate i cinque pani per i

cinquemila? i sette pani per i quattromila? come mai non capite? guardarsi dall’insegnamento dei farisei e dei sadducei.

4. Testi utili

Sal 78; 95; Es 17,1-7; Mc 8,14-21; 1Cor 11,17-34; Fil 3,1ss. In particolare: il lievito dei farisei cf. Lc 7,36-50; 15,1ss; 18,9-14; il lievito dei sadducei: Lc 12,13-21; 16,1-13; 18,18-30; 19,1-10.

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68. MA VOI CHI DITE CHE IO SIA?16,13-20

16,13 Ora, venuto Gesù nelle parti di Cesarea di Filippo,interrogava i suoi discepoli dicendo:

Chi dicono gli uominiche sia il Figlio dell’uomo?

14 Ora essi dissero:Alcuni Giovanni Battista,altri Elia,altri Geremia,o uno dei profeti.

15 Dice loro:Ma voi,chi dite che io sia?

16 Rispondendo Simon Pietro disse:Tu sei il Cristo,il Figlio del Dio vivente!

17 Ora, rispondendo, Gesù gli disse:Beato te, Simone, figlio di Giona;poiché né carne né sangue ti rivelarono,ma il Padre mio che è nei cieli.

18 E io ti dicoche tu sei Pietroe su questa pietra edificherò la mia chiesae le porte degli inferinon prevarranno contro di essa.

19 Darò a te le chiavi del regno dei cieli, e ciò che legherai sulla terrasarà legato nei cieli,e ciò che scioglierai sulla terra.sarà sciolto nei cieli.

20 Allora ordinò ai discepolidi non dire a nessunoche lui è il Cristo.

1. Messaggio nel contesto

“Ma voi chi dite che io sia?” Io-Sono chiede con umiltà ai discepoli: “Chi sono io?”, per introdurli nel suo mistero. Non è una crisi di identità sua: è in gioco l’identità loro. Gesù rivolge loro la domanda con trepida attesa: essere riconosciuto è il desiderio fondamentale dell’amore che si rivela. La risposta personale a questa sua domanda costituisce il discepolo. Il cristianesimo non è un’ideologia, una dottrina o una morale, ma il mio rapporto con Gesù, il “mio” Signore che amo come lui mi ama (cf. Gal 2,20).

Ai discepoli si chiede prima cosa dicono gli uomini e poi cosa dicono loro, per suggerire che la loro risposta non deve essere come quella degli altri. Né la carne né il sangue, ma solo il Padre può rivelare chi è il Figlio.

Siamo alla svolta decisiva del vangelo: finalmente Pietro e quelli con lui lo riconoscono come il Messia e il Figlio di Dio. Avvinti a lui, d’ora in poi potranno ricevere il dono di quella conoscenza di lui che può essere fatta solo a chi lo ama.

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Il brano è un dialogo tra Gesù e i discepoli: i vv. 13-16 contengono le due domande sulla identità sua e le due risposte dei discepoli, la seconda delle quali è riservata a Pietro. Nei vv. 17-19 Gesù proclama beato Pietro perché ha accolto la rivelazione (v.17), e per questo gli dà la funzione di “pietra” per la Chiesa (v.18), insieme al suo stesso potere di legare e sciogliere (v.19). Il v. 20 conclude con l’ordine di tacere.

Il brano presenta il riconoscimento di Gesù e il conferimento del primato a Pietro. Riconoscere Gesù come il Cristo e il Figlio di Dio è il centro della fede. Il ruolo di Pietro è quello della “pietra” su cui si edifica la comunità che professa tale fede.

Il primato di Pietro fu occasione di tante separazioni, antiche e recenti, prima in Oriente e poi in Occidente. Il servizio dell’unità nella fede e nella carità è stato spesso “scandalo”, motivo di divisioni e odi. Non è sempre facile vedere in quale misura ciò sia dovuto al cattivo modo di servire, e in quale, invece, all’inevitabilità dello scandalo stesso della verità, che è sempre segno di contraddizione (cf. Lc 2,34). Anche l’identità di Gesù, vero uomo e vero Dio, è stata ed è occasione di tutte le eresie!

Questo brano è un contrappunto al precedente: al dialogo di incomprensione, succede il riconoscimento. Chi è libero dal lievito dei farisei e dei sadducei, vede nel pane il Cristo, il Figlio di Dio dono del Figlio dell’uomo a ogni uomo.

Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Questa è la fede cristiana che i discepoli hanno maturato e ci hanno trasmesso.

La Chiesa ha la beatitudine di vivere questa fede, direttamente rivelata dal Padre. Pietro ha la funzione di “pietra”, di fondamento su cui il Signore edifica la sua Chiesa; a lui inoltre è confidato il servizio delle chiavi del regno, la funzione di interpretare autenticamente ciò che è conforme a tale fede e ciò che è difforme da essa.

2. Lettura del testo

v. 13: nelle parti di Cesarea di Filippo. Siamo all’estremo nord, ai piedi dell’Hermon, nel punto più lontano da Gerusalemme, in zona pagana. Qui Gesù è riconosciuto dai suoi.

interrogava i suoi discepoli. Fin qui erano gli altri ad interrogarsi su di lui. Ora è lui che interroga. La fede inizia dove noi smettiamo di mettere in questione il Signore, e accettiamo di essere messi in questione da lui. L’interrogato si fa interrogante e viceversa.

Il problema non è interrogarci su Dio o interrogarlo, ma lasciarci interrogare da lui. Ogni domanda contiene la sua risposta. Ad ogni nostra domanda su di lui corrisponde una nostra risposta su di lui, che lo riduce appunto a misura delle nostre domande. La sua domanda a noi invece ci apre al suo mistero.

La fede è responsabilità, abilità-a-rispondere al Signore che interpella. Lui è e resta sempre per noi un mistero, su cui non abbiamo né risposte né immagini: l’unica risposta siamo noi stessi che diventiamo a sua immagine.

Lasciarsi interrogare da lui e rispondergli secondo lo Spirito è l’arte e l’avventura di essere uomo. Dio è l’eterna domanda; l’uomo ne è la risposta, nella misura in cui ne ascolta la Parola e la incarna nella propria vita.

chi dicono gli uomini che sia il Figlio dell’uomo? C’è un “si dice”, un parlare generico e irresponsabile che non corrisponde mai a verità. In

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esso ciò che è già noto, o si presume tale, diventa misura di tutto. L’ignoto è ridotto all’ovvio, che è come il letto di Procuste, che adatta tutto alle proprie dimensioni. Le nostre convinzioni ci velano la realtà del Figlio dell’uomo e dell’uomo stesso, che è sempre più grande di quanto possiamo già sapere.

Gesù con questa domanda fa uscire allo scoperto le risposte scontate che spontaneamente diamo.

v. 14: alcuni Giovanni Battista, altri Elia, ecc. Sono le figure religiose più eminenti del passato, con una storia di azione e di passione per la Parola. Hanno in comune il non essere state capite in vita e l’essere già morte.

Scambiare il Vivente per un morto è il modo più elegante per ucciderlo. Lo si riduce a un monumento funebre che non scomoda più che tanto; richiede solo un po' di venerazione.

v. 15: ma voi chi dite che io sia? La risposta dei discepoli è un “ma” rispetto a quella della gente, come il pensiero di Dio è un “ma” rispetto a quello dell’uomo: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri; le vostre vie non sono le mie vie” (Is 55,8). La risposta del discepolo alla domanda di Gesù è diversa, altra e santa: è suggerita dal Padre che il Figlio rivela. Il “voi” è la comunità di chi ascolta la domanda del Figlio, Parola del Padre.

v. 16: tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Pietro per primo risponde personalmente alla domanda. Lo riconosce come il Cristo e il Figlio del Dio vivente: è il salvatore atteso che compie ogni promessa del cielo e desiderio della terra, è l’inatteso Figlio di Dio, che in ogni promessa si compromette, dono oltre ogni desiderio.

Il mistero del Figlio dell’uomo è quello di essere il Figlio di Dio che si comunica ad ogni uomo. Gesù è venuto a portarci il dono del Padre, il Padre come dono, in modo che tutti siamo figli e fratelli.

Quella di Pietro è la professione di fede cristiana: Gesù è il Cristo, l’unico Cristo, è il Figlio, il Figlio unigenito del Padre della vita (cf. 14,33; 26.63; 27,40.43. 54; cf. 28,18s). Vedere nella carne di Gesù il Cristo il Figlio di Dio è il centro della rivelazione: è entrare nella conoscenza del mistero del rapporto Padre/Figlio, rivelato ai piccoli (cf. 11,25-27).

Da questa risposta Pietro è generato uomo nuovo, partecipe del segreto di Dio. Con ulteriore sorpresa dovrà capire in seguito che “il” Cristo non è quello che lui pensa, ma un Cristo che lui non si aspetta; scoprirà anche che “il” Figlio di Dio è un Figlio che lui neanche sospetta, e che il Dio vivente è altro da quello che lui immagina.

Spontaneamente riduciamo a “carne e sangue” anche la rivelazione di Dio (cf. vv. 21-23).

v. 17: beato te Simone, figlio di Giona. Quella di Pietro è la beatitudine suprema: accogliendo il Figlio, entra nel regno del Padre. Lui è il primo che riceve la rivelazione di ciò che è nascosto ai sapienti e agli intelligenti. A chi gli dice: “Tu sei”, lui risponde: “Beato te”, e comincia il dialogo tra i due.

né carne né sangue ti rivelarono, ma il Padre mio, ecc. Pietro vede quanto occhio umano mai non vide: ciò che Dio ha preparato per coloro che lo amano nella carne del Figlio (cf. 1Cor 2,9). Il figlio di Giona legge nel Figlio dell’uomo il segno di Giona - la rivelazione di Dio. Il cristianesimo è conoscere e amare la persona di Gesù. Credere al suo messaggio non è apprezzare o adottare la sua dottrina: è conoscere e amare lui come il Figlio di Dio, che si è fatto mio fratello per darmi il suo stesso rapporto col Padre. Se lui non fosse Dio, sarebbe il più grande

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mistificatore della storia. Chi lo conosce, sa che non è così: è il Signore, che mi ha amato e ha dato se stesso per me (Gal 2,20).

v. 18: tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa. Pietro diventa “pietra”, attributo di Dio (Dt 32,4; Is 17,10), come lo fu anche di Abramo, padre dei credenti (cf. Is 51,1s). La fede nel Figlio gli dona la prerogativa di Dio stesso. La chiesa si costruisce su questa pietra come la casa di coloro che sono ormai familiari di Dio (Ef 2,19-22).

le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. Ogni potere di morte si infrangerà contro il Dio vivente e quelli di casa sua. La sua fedeltà ha l’ultima parola su ogni nostra infedeltà, al di là di ogni nostra fragilità e peccato, che pure Pietro sperimenterà (14,29-31; 26,32-35.69-75; 28,7.10). Ciò che vale per Pietro, vale per tutta la Chiesa.

v. 19: darò a te le chiavi del regno dei cieli. La fede di Pietro è la chiave che apre il regno. “Darò” è al futuro: la promessa vale per il tempo che segue. La fedeltà di Dio garantisce la fede di Pietro, nella quale poi egli confermerà i fratelli (Lc 22,32).

ciò che legherai sulla terra. Legare e sciogliere significa proibire e permettere, interpretando autenticamente la Parola. Inoltre significa ammettere ed escludere dalla comunità. In base al dono della fede, a Pietro è dato il pegno/impegno di dire ciò che è conforme o meno ad essa e, di conseguenza, dichiarare chi appartiene o meno al regno.

In questo testo si fonda il “primato di Pietro”. Nel corso dei secoli è stato variamente esercitato e inteso, frainteso e malinteso, con o senza colpa. L’autorità nella chiesa non è certo come quella dei capi delle nazioni, ma la stessa del Signore, che è venuto per servire e dare la vita (Mt 20,24-28). Si tratta di un servizio nella fede e nell’amore, principio di unione e di vita.

Bisogna non dimenticare che ogni autorità può degenerare da servizio che fa crescere a potere che distrugge la verità e la libertà, l’amore e la comunione (cf. 20,24-28).

La fatica che tutti hanno nell’accettare l’autorità è la stessa che tutti hanno nell’accettare la diversità, da quella di Dio a quella dei genitori e di ogni altro, riflesso dell’Altro. La diversità può essere vissuta con amore; allora è principio di unione e di vita. Ma può anche essere vissuta con conflitto; allora è principio di divisione e di morte.

Il servizio di Pietro, come ogni altro, deve cambiare secondo le diverse situazioni storiche. Fa parte della legge dell’incarnazione assumere responsabilmente i condizionamenti della propria epoca. Occorre sempre chiedersi quale sia il modo più adatto di esercitare “oggi” tale servizio. Non bisogna dare nulla per scontato, ma tutto esaminare, e ritenere ciò che è buono (1Ts 5,21).

Si discute tra gli esperti il senso originale del testo, cosa intendesse Matteo e cosa intendesse Gesù. Certamente è importante saperlo, perché ciò che è stato “allora” è qualcosa di unico che vale sempre, anche “ora”: è normativo per la comunità che cerca di camminare ora, come lui ha camminato allora.

Non basta però riprodurre “il senso originale del testo”. Occorre anche vedere la “produzione di senso” che il testo ha originato nella vita dei discepoli, ai quali il Signore ha promesso di essere sempre vicino, sino alla fine del mondo (28,20). In situazioni nuove e inedite, lo stesso testo produce sensi nuovi e inediti. La parola di Dio non è un feticcio morto, ma vive e opera nella storia per la potenza dello Spirito.

La “domanda” che si pone a un testo è determinante per la risposta che se ne ottiene. Oggi, la nostra epoca, che è contrassegnata dal compimento della libertà, che domande pone all’esercizio del servizio di

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Pietro? La risposta che si dà è d’importanza decisiva non solo per l’ecumenismo, ma anche per il mondo intero, davanti al quale siamo posti come segno di unità, senza che ciò sia mai a discapito della verità e della libertà.

v. 20: non dire a nessuno che lui è il Cristo. Infatti il Figlio dell’uomo non è il Cristo che pensa Pietro, ma quello che si rivelerà subito dopo, e che Pietro non vorrà accettare (vv.21-23).

3. Pregare il testo

a. entro in preghiera come al solito.b. mi raccolgo immaginando Gesù con i suoi discepoli a Cesarea di

Filippo.c. chiedo ciò che voglio: chi è Gesù per me? È veramente il Cristo, il

Figlio del Dio vivente?d. traendone frutto, contemplo la scena.

Da notare: Gesù interroga chi dicono gli uomini che io sia? ma voi chi dite che io sia? tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente beato te, Simone tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa le porte degli inferi non prevarranno contro di essa a te darò le chiavi del regno ciò che legherai sulla terra, sarà legato in cielo ciò che scioglierai sulla terra, sarà sciolto in cielo.

4. Testi utili

Vedere il cammino di Pietro in Matteo: Mt 4,18-22; 8,23-27; 10,1-4; 14,22-33; 16,21-23; 17,1-8; 20,24-28; 26,30-35. 69-75.

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69. DIETRO DI ME16,21-28

16,21 Da allora cominciò Gesù a mostrare ai suoi discepoli che deve andare a Gerusalemmee molto patire dagli anziani e dai sommi sacerdoti e

dagli scribied essere uccisoe il terzo giorno risuscitare.

22 E, prendendolo in disparte,Pietro cominciò a rimproverarlo,dicendo:

Dio te ne scampi, Signore;questo non ti avverrà assolutamente!

23 Ora egli, voltatosi, disse a Pietro:Mettiti dietro di me, satana!Mi sei di scandaloperché non pensi come Dio, ma come gli uomini!

24 Allora Gesù disse ai suoi discepoli:Se uno vuole venire dietro a me, rinneghi se stessoporti la sua crocee segua me.

25 Infatti chi vorrà salvare la propria vita,la perderà;chi invece perderà la propria vita per me,la troverà.

26 Che gioverà infatti all’uomoguadagnare il mondo interoe rovinare la propria vita?O cosa darà l’uomo in cambio della propria vita?

27 Poiché il Figlio dell’uomo sta per venirenella gloria del Padre suocon i suoi angeli,e allora renderà a ciascuno secondo l’opera sua!

28 Amen vi dico che ci sono alcuni dei qui presentiche non gusteranno la mortefinché non vedranno il Figlio dell’uomoche viene nel suo regno.

1. Messaggio nel contesto

“Dietro di me”, dice Gesù a Pietro e a tutti i discepoli. Dopo essere stato riconosciuto, gioca a carte scoperte: mostra che il Cristo e il Figlio del Dio vivente non è quello che pensiamo noi. La sua salvezza non consiste nella soddisfazione delle nostre brame di avere, di potere e di apparire, ma nella povertà, nel servizio e nell’umiltà. Questa è la via di quel Dio che è amore, attraverso la quale “deve” passare il Figlio dell’uomo per vincere il male dell’uomo.

Siamo a una svolta decisiva del vangelo: Gesù fa il primo annuncio della sua morte-risurrezione. Per la prima volta parla della croce, e mostra

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l’abisso che c’è tra Dio e tutte le nostre immagini su di lui. Essa ci fa vedere chi è il Figlio a immagine del Padre, l’uomo pienamente realizzato.

Il brano presenta in un quadro sintetico l’identità di Gesù, il Crocifisso risorto (v. 21), e quella del discepolo, specchio della sua (vv. 24-26); al centro c’è la reazione di Pietro e la controreazione di Gesù (vv. 22-23) e, alla fine, troviamo il richiamo alla sua venuta nella gloria (vv. 27-28).

La croce è scandalo per tutti (1Cor 1,23). Davanti ad essa anche Pietro, la “pietra”, diventa scandalo, inciampo per il Signore stesso.

La reazione di Pietro è di capitale importanza: svela la nostra lontananza da Dio. Pietro vuol bene a Gesù: gli vuole il bene che vuole a se stesso. In questo è umano, molto umano, anzi diabolico: ritiene che il bene sia quello che pensa lui. Dovrà scoprire che il bene che il Signore gli vuole è ben altro. Lo scontro tra il pensiero di Dio e quello dell’uomo è ineludibile: fa uscire allo scoperto l’inganno che è nascosto nel nostro cuore. Il volto del Figlio dell’uomo illumina progressivamente le nostre oscurità, fino a farci riflesso della sua gloria. Andando dietro di lui, diventiamo come lui: il nostro non è più un cammino dalla vita alla morte, ma di vittoria sulla stessa morte, per giungere a quella pienezza di vita che da sempre desideriamo.

Pietro, pur avendo ricevuto la rivelazione del Padre sull’identità di Gesù, non per questo ha capito chi lui è: è vero che Gesù è il Cristo e il Figlio di Dio, ma la verità di Cristo e di Dio non è quello che lui intende. È costante il pericolo di ridurre a “ovvietà” umana anche la rivelazione di Dio - facendo di Gesù l’attaccapanni delle nostre fantasie religiose. Questo avviene ogni volta che la nudità della croce non ci scandalizza.

Il seguito del vangelo mostrerà chi veramente è il Cristo e il Figlio di Dio: il mistero di Gesù, che Pietro ha appena intuito, sarà proclamato senza equivoci solo sul Calvario (27,54).

Il Figlio dell’uomo deve andare a Gerusalemme: lì, con le sue ferite, sanerà le nostre ferite (cf. Is 53, 5.6; 1 Pt 2,25). Proprio così è il Cristo che salva, il Figlio di Dio che rivela il Padre della vita.

La “passione” del Signore manifesta la vera e profonda identità sua e nostra: lui è amore infinito per noi, e noi siamo amati infinitamente da lui. La sua gloria diventa la nostra stessa gloria.

La giustapposizione tra l’identità di Gesù e la nostra mostra come la cristologia è ecclesiologia: il discepolo è specchio del suo maestro e Signore. La rivelazione di chi è lui è anche rivelazione di chi siamo noi. Inoltre la “rivelazione” diventa “etica”: siamo chiamati a diventare ciò che siamo - fratelli che rispecchiano di gloria in gloria il volto del Figlio, trasfigurati a sua immagine per l’azione del suo Spirito (2Cor 3,18) .

Gesù, il Figlio dell’uomo, proprio in quanto crocifisso è il Risorto, il Cristo salvatore, il Figlio del Dio vivente, vero volto dell’uomo e di Dio.

La Chiesa è costituita non solo dalla professione di fede di Pietro, ma anche dal suo confronto con Gesù. Continuamente deve essere purificata dal suo modo satanico di intendere l’uomo e Dio attraverso l’incontro/scontro con la parola della croce.

2.Lettura del testo

v. 21: Cominciò Gesù a mostrare ai suoi discepoli. È l’inizio dell’istruzione ai discepoli non più in parabole, ma mediante la Parola (cf.

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Mc 8,32): la parola della croce. Ora che hanno riposto in lui la loro speranza e il loro affetto, può mostrarsi loro così com’è.

deve. Il Figlio dell’uomo ha un solo “dovere”: lo stesso di Dio, che è tutto e solo amore. Chi ama “deve” essere con l’amato, nella buona e nella cattiva sorte.

molto patire. L’amore è “passione”: fa patire, sentire come proprio il bene e il male dell’amato.

dagli anziani e dai sommi sacerdoti e dagli scribi. Sono rispettivamente i ricchi, i

potenti e i sapienti, coloro che puntano, e con successo, la propria esistenza sulla brama di avere, di potere e di apparire. Sono le tre maschere del male, sul quale si struttura l’ordinamento del mondo (1Gv 2,16). Rappresentano l’aspirazione di ciascuno di noi, che riteniamo bene ciò che in realtà è egoismo e morte. Gesù deve entrare in questo male in cui ci troviamo, per salvarci e mostrarci il vero volto dell’uomo che è lo stesso di Dio.

essere ucciso. Gesù non muore: è ucciso a motivo di ciò per cui vive. Con la sua morte diventa martire, testimone di un amore più forte della stessa morte.

e il terzo giorno risuscitare. La sua uccisione è vittoria sul potere della morte: è risurrezione.

v. 22: Pietro cominciò a rimproverarlo. Gesù comincia a rivelarsi apertamente, e Pietro a ribellarsi duramente. “Rimproverare” in greco è la stessa parola che indica quanto Gesù fa con i demoni. È quanto Pietro fa con Gesù. Chi evita questo scontro, non capirà mai il pensiero di Dio. Lo scontro può essere evitato in buona o in malafede, per dabbenaggine o per astuzia - o, più facilmente, per inavvertenza e cecità.

Pietro prende Gesù in disparte per rimproverarlo: gli vuole bene, e non vuole umiliarlo davanti agli altri! Si sente comunque in dovere, per il suo affetto, di riprenderlo. Certe cose non si dicono neanche per scherzo! Che ne è del Cristo e del Dio vivente se è un perdente? È bestemmiare contro (ciò che Pietro pensa essere) la Gloria.

Dio te ne scampi, ecc. Pietro è sicuro che Dio non vuole così! Per lui Dio è la realizzazione suprema delle aspirazioni dell’uomo: il sommamente ricco, onnipotente e glorioso. Se Dio fosse la proiezione dei nostri desideri, sarebbe il sommo male più che il sommo bene! La falsa immagine che abbiamo di lui corrisponde al falso ideale che abbiamo dell’uomo, sua immagine. E proprio per questo facciamo il male, con cecità ostinata nonostante i risultati.

v. 23: voltatosi. Pietro non stava parlando faccia a faccia con Gesù. Questi si gira, e gli mostra il suo volto. In lui c’è affetto per l’amico, ma durezza contro il nemico che si cela in lui.

mettiti dietro di me. Pietro si era messo “davanti” a Gesù per condurlo a fare la propria volontà, come satana. Gesù non lo respinge lontano. Lo rimette nella sua posizione giusta: “dietro” di lui. Noi chiediamo al Signore che lui ci faccia ciò che noi vogliamo (cf. Mc 10,35); la salvezza è invece chiedere che noi facciamo ciò che lui vuole. Lui vuole aprirci gli occhi sulla vera gloria, come ai ciechi di Gerico (20,32s), perché lo seguiamo nel suo cammino verso Gerusalemme.

La salvezza non è che lui segua noi - cosa che già ha fatto, a costo della sua vita! - ma che noi seguiamo lui, fino al dono della vita.

satana. Pietro, anche se con amore, e quindi in modo più accattivante, presenta in buona fede le stesse tentazioni di satana, che Gesù già ha incontrato nel deserto (4,1ss). Qui è più difficile riconoscerle!

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mi sei di scandalo. “A fin di bene”, la pietra della Chiesa si fa pietra d’inciampo, che vuol far cadere il Figlio dell’uomo.

non pensi come Dio, ma come gli uomini. “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non solo le mie vie”, dice il Signore (Is 55,8). Lui infatti è “santo”, diverso da noi: è amore. Noi, anche quando lo riconosciamo, proiettiamo sempre su di lui i nostri desideri, per noi sono più sicuri di qualunque verità. Anche per chi ha ricevuto la rivelazione di Dio, è costante il pericolo di ridurre questo a misura d’uomo (v.13). La nostra conoscenza secondo lo Spirito è sempre mischiata a tanta carne! Ce ne libera solo quell’incontro costante col vangelo che ha l’onestà di farsi scontro con Gesù. Pietro è “pietra” non solo in quanto riconosce Gesù, ma anche in quanto si misura drammaticamente con lui, riconoscendosi pietra d’inciampo.

La fede non è un pacchetto di certezze a buon mercato. È un’acquisizione progressiva, in un faticoso misurarsi con la parola della croce. Quelle certezze che non si sanno mettere in discussione, ci allontanano dalla verità.

Lo scandalo di Pietro davanti allo scandalo della croce - pietra contro pietra - è ineludibile, segno del divino.

v. 24: se uno vuole. Ciò che Gesù propone è un atto libero di volontà: la massima libertà dell’uomo è fare lo stesso cammino del Signore.

venire dietro a me. Andare dietro a lui è il cammino dell’esodo, la realizzazione piena dell’uomo, la vittoria sull’egoismo e sulla morte. Lui è la nube e il fuoco che ci guida verso la libertà (cf. Nm 9,15-23).

rinneghi se stesso. Rinnegare il falso io, deformato dalla menzogna e dalla paura, è far nascere il proprio vero io. La morte dell’egoismo è la nascita all’amore. Uno, se vuole essere se stesso, deve smettere di pensare a se stesso: solo allora ha il suo “volto”, rivolto all’altro.

porti la sua croce. La croce di ciascuno è lottare con il male che è in lui: è la lotta contro il proprio egoismo, che solo lui può fare.

segua me. In questa lotta però non è solo: è in compagnia del suo Signore, che lo ha preceduto e accompagna.

v. 25: chi vorrà salvare la propria vita. Scampare dalla minaccia incombente della morte è l’intento primo di ogni pensare e agire. Per questo diventiamo egoisti, e, invece di salvarci, ci perdiamo.

la perderà. Una vita ispirata all’egoismo è già morta, perduta per sempre.

chi invece perderà la propria vita per me. La vita è amare fino a dare la vita per colui che mi ha amato e ha dato se stesso per me (Gal 2,20). La vita è lo Spirito Santo, l’amore tra Padre e Figlio, dono reciproco dell’uno all’altro. Chi ama è passato dalla morte alla vita (1Gv 3,14): ha già ora la vita che non muore.

v. 26: che gioverà infatti all’uomo, ecc.? L’uomo vorrebbe possedere tutto per garantirsi la vita. Ma proprio così anticipa con l’affanno la morte fisica e con l’egoismo quella spirituale.

o cosa darà l’uomo in cambio della propria vita? La vita non si può comperare con denaro, né barattare con beni: è dono, e solo in quanto donata resta viva. A chi la vuole pagare, non resta che restituirla, dandosi la morte.

v. 27: il Figlio dell’uomo sta per venire. Il mondo è sotto il giudizio di Dio: la croce del Figlio dell’uomo che dà la vita per gli uomini. Ogni azione ha valore o meno secondo che è conforme al suo giudizio. La salvezza eterna è appesa alla mia decisione presente di vivere il giudizio di Dio.

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renderà a ciascuno secondo l’opera sua. Non chi dice: “Signore, Signore”, ma chi fa la Parola entra nel regno, diventa figlio e riceve la gloria del Padre (cf. 7,21-23): costruisce la sua casa che resiste ad ogni intemperia (7,24-27).

v. 28: alcuni dei qui presenti non gusteranno la morte, ecc. Ascoltare e fare le parole che Gesù ha appena detto è vivere, già qui in terra, da figlio di Dio: questa è ”la vita eterna”, che vince la morte.

La gloria del Figlio dell’uomo, che alla fine del tempo apparirà come è apparsa sulla croce (24,34; 26,64; 27,54), traspare già ora nella vita del discepolo. La trasfigurazione, che immediatamente segue (17,1-9), è l’anticipo terrestre della gloria celeste riservata al Figlio e a chi lo ascolta. Uno è più dove ama che dove abita! Chi ama Gesù, come già è unito a lui nella morte, così è consepolto e conseduto con lui nella gloria. La sua vita è ormai nascosta con lui in Dio (cf. Rm 6,4; Ef 2,6; Col 2,12; 3,3).

3. Pregare il testo

a. entro in preghiera come al solito.b. mi raccolgo immaginando Gesù con i suoi discepoli.c. chiedo ciò che voglio: non evitare lo scandalo della croce.d. traendone frutto, medito su ogni parola di Gesù.

4. Testi utili

Sal 1; 63; Is 52,13-53,12; Ger 20,7-9; Fil 1,21; 2,5-11; 3,7-14; Gal 2,20; Rm 6,1-11. Ef 2,1-10.

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70. ASCOLTATE LUI17,1-13

17,1 E dopo sei giorniGesù prende con séPietro e Giacomo e Giovanni suo fratello,e li porta su un alto monte in disparte.

2 E si trasformò davanti a loro,e brillò il suo volto come il solee le sue vesti divennero bianche come la luce.

3 Ed ecco fu visto da loroMosè ed Elia, che conversavano con lui.

4 Ora rispondendo Pietrodisse a Gesù:

Signore,è bello per noi essere qui.Se vuoi, farò tre tende,una per te, una per Mosè e una per Elia.

5 Mentre lui stava ancora parlando,ecco una nube luminosa li ricoprì;ed ecco una voce dalla nube che diceva:

Questi è il Figlio mio,l’amato,in cui mi compiacqui.Ascoltate lui!

6 E udendo i discepoli caddero sul loro voltoe temettero molto.

7 E si avvicinò Gesùe toccandoli disse:

Risvegliatevi,e non temete!

8 Ora, levati i loro occhi,non videro nessuno,se non lui, Gesù, solo.

9 E, scendendo dal monte,Gesù ordinò loro dicendo:

Non dite a nessuno questa visione,fino a quando il Figlio dell’uomonon sia risvegliato dai morti.

10 E lo interrogarono i discepolidicendo:

Perché dunque gli scribi diconoche prima deve venire Elia?

11 Egli rispondendo disse:

Sì, Elia viene,e ristabilirà ogni cosa.

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12 Ma vi dico che Elia già è venuto,e non lo riconobbero,ma gli fecero quello che vollero.Così anche il Figlio dell’uomosta per soffrire per opera loro.

13 Allora compresero i discepoliche aveva parlato loro di Giovanni il Battista.

1. Messaggio nel contesto

“Ascoltate lui!”, dice la voce dal cielo. Infatti “Questi è il Figlio mio, l’amato, in cui mi compiacqui!”

Il Padre parla solo due volte dicendo e ribadendo la stessa cosa: proclama Gesù come Figlio una prima volta dopo il battesimo (3,17) e una seconda qui (v. 5), dopo la predizione della sua morte e risurrezione (16,21). La trasfigurazione è la conferma della via intrapresa nel battesimo, anticipo della gloria di Pasqua. Alla sua luce “il Servo” inizia il cammino verso Gerusalemme.

Il racconto è carico di reminiscenze bibliche. Nel Nazoreo infatti si compie ogni profezia (2,23). La scena richiama Mosè che sale sul monte con Aronne, Nadab e Abiu, e che al settimo giorno è chiamato da Dio nella nuvola (Es 24,1.9.15s). Ancora ricorda Mosè che scende dal monte con il volto splendente (Es 39,29-35), e che promette alla fine un profeta del quale dice: “Ascoltate lui”! (Dt 18,15). Le parole della “voce” riecheggiano il Salmo 2,7, che parla dell’intronizzazione del Messia; alludono inoltre al sacrificio di Isacco (“il figlio amato”: Gen 22,2.12.16) e al primo canto del Servo (“in cui mi compiacqui”: Is 42,1). Proprio in quanto servo dei fratelli, il Figlio dell’uomo è il Figlio amato, la Parola stessa da ascoltare, l’irradiazione della gloria del Padre, il Messia che ci salva.

Il Padre conferma così quanto Gesù ha appena detto: riconosce colui che accetta di essere riconosciuto da Pietro come il Cristo e il Figlio di Dio (16,16), colui che afferma di essere il Servo sofferente che Pietro non accetta (16,21-23), colui che chiama al suo stesso cammino (16,24) e si dichiara il giudice del mondo (16,27). Davanti a tre uomini, il Figlio dell’uomo è proclamato dal Padre come suo Figlio. È la fine del dibattito su chi è Gesù, e l’inizio del suo cammino verso Gerusalemme.

Il Padre ha una sola Parola, che lo rivela pienamente: il Figlio. A noi dice di ascoltarlo, perché, ascoltando lui, diventiamo come lui, figli.

La trasfigurazione è l’esperienza fondamentale della vita di Gesù: la scelta fatta nel battesimo, che ora si concreta nella prospettiva della croce, è confermata come la via alla libertà e alla gloria di Dio. È una illuminazione interiore tanto forte che “trasforma” il suo stesso corpo in sole e luce. È importante anche per i discepoli averlo visto: quando sarà risorto, potranno capire che il Risorto è lo stesso Gesù che fu crocifisso.

La trasfigurazione del Figlio rappresenta anche l’anticipo di ciò che saremo. Il seme della nostra gloria divina è gettato quando decidiamo veramente di “ascoltare” lui e di fare la sua parola: questa è la “forma” che trasforma la nostra vita a immagine della sua, fino alla sua misura piena.

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Il brano presenta la salita sul monte dove avviene la trasfigurazione (vv.1-8) e la discesa dove la si interpreta come anticipo della risurrezione che passa attraverso la croce (vv.9-13).

Gesù, nella sua umanità, mostra la divinità: i discepoli vedono il suo corpo che riluce della gloria del Figlio nel quale il Padre si compiace, raggio anticipato della risurrezione.

La Chiesa è rappresentata dai tre apostoli che, a viso scoperto, riflettono come in uno specchio la gloria del Signore, e vengono trasformati in quella medesima immagine di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore (cf. 2Cor 3,18).

2. Lettura del testo

v. 1: E dopo sei giorni. È il settimo giorno, compimento della creazione che tutta geme e soffre le doglie del parto in attesa di essere liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella gloria dei figli di Dio (Rm 8,22.21). Questa indicazione di tempo dice che il fine della creazione non è la sua fine: essa non è destinata alla “sfigurazione” della morte, ma alla trasfigurazione. Nel Figlio dell’uomo, il creato è destinato ad assumere la forma del Figlio di Dio. La divinizzazione è il senso della creazione, fino a quando Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,28).

Gesù prende con sé Pietro e Giacomo e Giovanni. Mosè prese con sé Aronne, Nadab e Abiu, e salì sul monte, dove Dio rivelò la sua gloria (Es 24,9ss). Questi tre discepoli, che ora sentono il Padre che chiama il Figlio, nel Getsemani sentiranno il Figlio che chiama il Padre (26,37.39). Monte degli Ulivi e Tabor si richiamano a vicenda: qui l’umanità di Gesù rivela la sua divinità, là la divinità mostra la sua umanità.

v. 2: si trasformò davanti a loro. In greco c’è “metamorfosi”, che significa cambiar forma, trasformarsi. Nelle metamorfosi pagane la divinità assume corpo e sembianze umane. Qui l’umanità assume forma e splendore divino: lascia trasparire la Gloria del Figlio. Questa è la destinazione di ogni uomo nel Figlio dell’uomo.

brillò il suo volto come il sole, ecc. In Luca l’aspetto del suo volto si “alterò”: diventò altro, il volto dell’Altro (Lc 9,29). In Matteo diventa raggiante come il sole, che “de te, Altissimo, porta significatione”. Per Marco 9,3 le sue vesti diventano bianche in modo sovrumano, per Lc 9,29 risplendenti come folgore, per Matteo bianche come la luce. La luce è il simbolo più appropriato di Dio: principio di creazione e conoscenza, fa essere ogni cosa quello che è e la fa vedere per quello che è. Ma è anche sorgente di gioia, segno dell’amore che rende luminosi. Il Figlio brilla della luce stessa di Dio, primizia della creazione nuova: come tutto è fatto attraverso lui, in lui e per lui, così tutto partecipa della sua medesima sorte nella luce (cf. Col 1,16.12).

Noi pure siamo chiamati a vedere il Signore faccia a faccia (1Cor 13,12), e riflettere “a viso scoperto” la sua gloria, fino ad essere trasformati in lui (cf. 2Cor 3,18), configurati all’icona del Figlio, il primogenito tra molti fratelli (Rm 8,29). Siamo chiamati a rivestirci di luce e ad essere luce: “Sorgi, sii luce, perché viene la tua luce e la gloria del Signore brilla su di te” (Is 60,1).

L’amore si realizza nello scambio di ciò che si ha e si è, così che l’amato diventa la forma di chi lo ama. L’incarnazione, che porta alla croce (battesimo), rende Dio uguale a noi; la trasfigurazione, caparra della risurrezione, rende noi uguali a lui.

Non solo il nostro spirito, ma anche il nostro corpo è per il Signore,

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destinato alla risurrezione (1Cor 6,13s).v. 3: Mosè ed Elia che conversavano con lui. Il mediatore della legge

e il padre dei profeti conversavano con lui: anzi, parlano di lui, Parola stessa di Dio. Inoltre Mosè ed Elia non gustarono la morte: l’uno fu trasportato in cielo su un carro di fuoco (2Re 2,1ss); l’altro, che parlò con Dio faccia a faccia, secondo la tradizione fu rapito da un suo bacio sulla bocca.

v. 4: è bello per noi essere qui. Pietro ha capito che è bello! Sul volto del Figlio appare la bellezza originaria nella quale Dio ha creato il mondo. Qui è bello “essere”. Altrove è brutto e non possiamo stare, perché non siamo ciò che siamo. Per questo l’uomo è viator, pellegrino in cerca del Volto, davanti al quale solo sta di casa e può sostare, perché ritrova il proprio volto. Altrove si sente fuori posto, come un osso slogato.

farò tre tende. È un’allusione alla festa delle capanne, in cui si commemora il dono della Parola (cf. Lv 23,27-34; Dt 16,13).

una per te, una per Mosè e una per Elia. La legge, data tramite Mosè, è la prima tenda di Dio tra gli uomini. La parola “tenda” in greco si dice skenè, che richiama l’ebraico: shekinà, che è la gloria di Dio tra gli uomini. La profezia, iniziata con Elia, è la seconda tenda di Dio tra gli uomini. La carne di Gesù è la tenda definitiva di Dio in mezzo a noi (Gv 1,14). In lui vediamo la sua gloria, come di unigenito dal Padre (ivi). Infatti “chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9).

v. 5: una nube luminosa. Di Dio non conosciamo il volto, ma la Parola. Non bisogna farsi immagini né di lui né dell’uomo, perché l’unica sua immagine è l’uomo stesso che ne ascolta la Parola. Chi lo ascolta infatti diventa suo figlio, col suo medesimo volto. La nube luminosa richiama Dio stesso che guidò Israele nel deserto (Es 14,20) ed è segno della sua presenza (Es 19,16; 24,15s; 40,34s; 2Mac 2,7s; 1Re 8,10-12). La manifestazione di Dio è sempre oscura per eccesso di luce accecante - quasi che rivelandosi Dio si veli, e velandosi si riveli, come sulla croce.

La nube inoltre è principio di vita: la pioggia è benedizione e fecondità.

una voce dalla nube (cf. 3,17). Dio è voce: la sua Parola è nota a noi nel Verbo incarnato. Chi ascolta Gesù, trasforma il suo volto nel Volto, splendente come il sole (v. 2), “irradiazione della gloria” (Eb 1,3).

questi. È l’uomo Gesù, che Pietro ha riconosciuto come il Cristo e il Figlio di Dio, ma non ancora come il Figlio dell’uomo sofferente.

è il Figlio mio (cf. 3,17). Richiama il Salmo 2,7, che parla dell’intronizzazione regale. Gesù, che va a Gerusalemme e sarà crocifisso, è il Messia, il Figlio del Dio vivente.

l’amato. Richiama il sacrificio di Isacco (Gen 22,2.12.16). Gesù è il Figlio in quanto sarà sacrificato: conoscendo l’amore del Padre, darà la vita per i fratelli.

in cui mi compiacqui (cf. 3,17). Richiama il Servo di YHWH (Is 42,1). Il Padre riconosce Gesù come figlio, proprio perché si fa servo dei fratelli.

ascoltate lui! “Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me”, disse Mosè: “Ascoltate lui!” (Dt 18,15). Gesù è il nuovo Mosè, che dà la Parola definitiva. Anzi: è lui stesso la Parola fatta carne, volto del Padre rivolto ai fratelli. Chi ascolta lui diventa come lui, figlio.

Cosa sia la trasfigurazione, è difficile descriverlo, anche per i discepoli che l’hanno vista. Due cose però sono chiare: il fine e il principio. Il fine è dire: ”È bello per noi essere qui!”. Il principio è: “Ascoltate lui”. La Parola dà forma al nostro corpo. Chi ascolta Gesù, diventa come lui, l’albero bello che fa il frutto bello (7,18). L’ascolto della sua parola è l’accoglienza del

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seme, che cresce in noi e ci genera secondo la sua specie (cf. 1Pt 1,23), partecipi della natura divina (cf. 2Pt 1,4).

La trasfigurazione comincia quando, invece di pensare e ascoltare noi stessi, ascoltiamo lui e pensiamo a lui. È la morte dell’uomo vecchio e la nascita dell’uomo nuovo. Questo ascolto fa passare dalle opere della carne al frutto dello Spirito (cf. Gal 5,19-22).

Il Padre ha una sola Parola: il Figlio. Quanto lui ha detto e fatto è l’esegesi del Padre (Gv 1,18), il racconto nel tempo del suo amore eterno. La “carne “ di Gesù è il compimento della legge e dei profeti (7,12); la sua storia è la manifestazione sulla terra del Dio amore, che mai nessuno ha visto (Gv 1,18). Non possiamo e non dobbiamo conoscere nulla di più di lui, il Verbo del Padre.

v. 6: i discepoli caddero sul loro volto, ecc. È l’eccesso del divino.v. 7: risvegliatevi, e non temete. Sono le parole di Gesù ai discepoli.

Colui che hanno visto nella gloria, si avvicina a loro e li “risveglia”. Quanto hanno visto non è un sogno, ma ciò che li risveglia da una vita morta: è la promessa della risurrezione, come dopo capiranno (v. 9).

v. 8: non videro nessuno, se non lui, Gesù, solo. Colui che si è trasfigurato, il Figlio amato da ascoltare, è il “Gesù solo”, in cammino verso Gerusalemme, che invita a seguirlo. Il Padre conferma la sua scelta: è il Figlio in quanto non si vergogna di chiamarsi nostro fratello (Eb 2,11), e, reso perfetto dalle cose che patì, diventerà causa di eterna salvezza per tutti coloro che gli obbediscono (Eb 5,8s).

v. 9: non dite a nessuno questa visione, ecc. Prima che Gesù sia “risvegliato dai morti”, i discepoli non possono parlare della trasfigurazione. La Gloria infatti resta segreta prima della croce (16,28), che a sua volta è incomprensibile prima della risurrezione.

v. 10: prima deve venire Elia. L’AT si chiude con l’attesa di Elia che precede la venuta del Signore (Ml 3,23). Anche la vita di Gesù si chiude con l’attesa di Elia da parte di chi sta ai piedi della croce (27,49).

v. 11s: Elia viene e ristabilirà ogni cosa. Gesù conferma la venuta di Elia. Ma, come tutti i profeti, non è riconosciuto: ha la stessa sorte del Figlio dell’uomo che deve soffrire per opera degli uomini. Proprio di lui, il Nazoreo, parlano con la voce e la vita i profeti ( cf. 2,23).

v. 13: compresero i discepoli che aveva parlato loro di Giovanni il Battista. I discepoli capiscono che Elia, il profeta ultimo, è lo stesso Giovanni, che lancia l’appello definitivo alla conversione prima della venuta del Signore, di cui anticipa il destino di passione.

3. Pregare il testo

a. entro in preghiera come al solito.b. mi raccolgo immaginandomi sul monte con i tre apostoli.c. chiedo ciò che voglio: ascoltare il Gesù solo.d. traendone frutto, contemplo la scena.

Da notare: dopo sei giorni li porta su un monte alto in disparte brillò il suo volto come il sole, le sue vesti divennero bianche

come la luce Mosè ed Elia conversano con lui è bello per noi esser qui farò tre tende

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una nube, una voce questi è il Figlio mio, l’amato, in cui mi compiacqui ascoltate lui non videro nessuno, se non il Gesù solo Elia è già venuto Il Figlio dell’uomo sta per soffrire.

4. Testi utiliSal 34; 67; Gen 12,1-4;Es 34,29-35; Dn 7,9-14; Rm 8,18-39; 2Cor 3, 18; 2Pt 1,16-21.

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71. NIENTE VI SARÀ IMPOSSIBILE

17,14-21

17,14 E, venendo essi verso la folla,

gli si avvicinò un uomo,

gettandosi in ginocchio davanti a lui15 e dicendo:

Signore,

abbi pietà di mio figlio,

perché è lunatico

e soffre malamente.

Spesso infatti cade nel fuoco

e spesso nell’acqua.

16 E l’ho portato dai tuoi discepoli,

ma non hanno potuto curarlo.

17 Ora rispondendo Gesù disse:

O generazione senza fede e perversa,

fino a quando sarò con voi?

Fino a quando vi sopporterò?

Portatemelo qui!

18 E lo minacciò Gesù,

e uscì da lui il demonio

e fu curato il bambino

da quell’ora.

19 Allora avvicinatisi i discepoli a Gesù

in disparte gli dissero:Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo?

20 Ora dice loro:

Per la vostra poca fede!

Amen vi dico,

se avrete fede

come un chicco di senape,

direte a questo monte:

Spostati da qui a là,

ed esso si sposterà;

e niente vi sarà impossibile.

21 (Questo genere di demoni

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non esce che con la preghiera e il digiuno.)

1. Messaggio nel contesto

“Niente vi sarà impossibile”, dice Gesù ai discepoli che non avevano potuto scacciare il demonio. La fede è la possibilità dell’impossibile: dà all’uomo il potere del Figlio di Dio.

Mentre Gesù è sul monte con il Padre nella gloria, i discepoli sono al piano tra i fratelli nella fatica. Cercano di continuare la loro missione, che è la sua stessa. Ma inutilmente: non riescono ad averla vinta sul male.

Il brano risponde alla domanda fondamentale della Chiesa dopo Pasqua: come continuare la sua missione ora che lui è definitivamente assente?

Il brano ha come ritornello il non-potere (vv. 16.19.20) del discepolo, che non riesce ad esercitare quel potere sul male affidatogli dal suo Signore (cf. 10,1), che gli ha garantito di essere sempre con lui (28,20). Il tema è la “non-fede” e la “poca-fede”, causa di quest’impotenza; per la “fede” invece nulla è impossibile. Il problema è far sì che la nostra “poca-fede” davanti al male non ripieghi nella “non fede” che nulla può, ma diventi quella fede che tutto può.

In concreto la fede è obbedire al Padre che dice di ascoltare il Figlio sul monte (v. 5). Questa fede sposta ovunque “questo monte” (cf. v. 20), che è quello della trasfigurazione, della gloria di Dio sulla terra. Chi ascolta Gesù ha già vinto il male: la sua parola ha il potere di generarlo figlio di Dio (Gv 1,12).

Il racconto, come al solito più sintetico e meno pittoresco che negli altri sinottici, si articola in due parti: la richiesta del padre e la guarigione del figlio (vv. 14-18), la domanda dei discepoli sulla loro incapacità e la catechesi di Gesù sul potere della fede (vv. 19-21). L’accento è posto sulla fede, che conferisce all’uomo il potere stesso di Dio.

Nell’epoca della Chiesa, contrassegnata dall’assenza del Figlio, solo chi ha la fede vince il male. Essa rende presente l’Assente, e consiste nell’ascoltare e fare le sue parole (7,21.24).

Gesù sarà tolto dal mondo: la sua azione di Figlio continuerà in quella dei suoi fratelli (cf. 21,18-20).

La Chiesa mediante l’ascolto di Gesù diventa come lui, capace di vincere il male. Il discepolo è rappresentato sia dal padre che dal figlio: come il figlio non sa vincere il male perché ne è ancora posseduto; come il padre desidera la guarigione e invoca con fede il Signore. In Mc 9,21-24 si mostra come il padre, nel dialogo con Gesù, passi dalla poca-fede alla richiesta di una fede incondizionata.

2. Lettura del testo

v. 14s: Signore, abbi pietà di mio figlio, ecc. È la preghiera di un padre che esce dalla folla e si avvicina a Gesù che scende dal monte. Suo figlio è gravemente ammalato. Il suo male è descritto con dovizia di particolari e a più riprese in Mc 9,14-29. Matteo dice solo che è “lunatico” - è l’epilessia, che si riteneva in connessione con le fasi della luna -, soffre tremendamente e cade spesso nel fuoco e nell’acqua; alla fine aggiunge anche che è indemoniato (v. 18). Gli antichi vedevano in certi tipi di malattie l’influsso degli spiriti cattivi.

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v. 16: l’ho portato dai tuoi discepoli, ma non hanno potuto curarlo. Mentre lui è sul monte, in basso i discepoli hanno tentato di guarirlo, ma non hanno potuto. Eppure hanno ricevuto il potere di scacciare i demoni e di curare ogni malattia e infermità (10,1). Come mai non hanno potuto esercitarlo? Come faranno a continuare, senza di lui, la missione che lui ha loro affidata? È una esperienza di fallimento: non sanno fare ciò che sono chiamati a fare, non sanno compiere il loro lavoro. È in crisi la loro identità. Questa incapacità è la più grande afflizione. Le infinite e accurate analisi sulle cause non sono in grado di guarirla!

v. 17: o generazione senza-fede e perversa (cf. 12,39!). È la diagnosi di Gesù. L’impotenza è dovuta alla mancanza di fede e alla perversione che ne consegue. La fede è ascoltare Gesù (v. 5), il quale dice che chi ascolta e fa le sue parole fa la volontà di Dio, e chi fa la volontà del Padre è suo fratello, sorella e madre (cf. 7,24.21; 12,50). Chi lo ascolta diventa come lui, e può compiere le sue stesse opere, la prima delle quali è proprio vincere lo spirito di incredulità, radice di ogni perversione e male. Chi invece non si fida di Dio, si perverte volgendosi ai vari idoli: pone fiducia in ciò che non dà salvezza.

fino a quando sarò con voi? Verrà il momento in cui sarà tolto lo sposo, e allora digiuneranno (9,15). Gesù, sul monte della Galilea, li invierà in tutto il mondo, e lui sarà assente come lo è stato ora sul monte della trasfigurazione. Sarà sempre con loro (28,20) mediante la fede nella sua promessa, che sposterà ovunque il monte della sua gloria.

fino a quando vi sopporterò? La nostra incredulità fa soffrire il Signore. Alla nostra fatica nel combattere inutilmente il male corrisponde la sua nel sopportare la nostra mancanza di fede, che lo porterà in croce!

portatemelo qui! La fede è portare a Gesù il proprio male invincibile, anche la propria incredulità e perversione!

v. 18: lo minacciò Gesù e uscì da lui il demonio. Gesù è duro con il male, perché è misericordioso col malato. Cura il malato, non il male. Noi rischiamo spesso, per falsa bontà, di coccolare il male e maltrattare il malato.

Qui si parla di “demonio”, origine del male. Certamente il male dell’incredulità e della perversione è prodotto dallo spirito di menzogna e di schiavitù. Ma anche tanti mali non vengono da uno spirito cattivo? Non c’è il demonio della violenza e della depressione, dell’alcool e della droga, del cibo e dell’immagine, del danaro e del sesso? Tutto ciò che porta all’autodistruzione e toglie la libertà, ha certo a che fare con lo spirito del male.

v. 19: perché noi non abbiamo potuto scacciarlo? È il nostro problema: perché non riusciamo a vincere il male?

v. 20: per la vostra poca-fede. Se la folla è senza-fede (v. 17; 12,39), i discepoli sono di poca-fede. La poca-fede è insufficiente davanti a un grande male; se non diventa “grande-fede” (cf. 8,10; 15,28a), ripiega nella sfiducia e fa andare a fondo (8,26; 14,31). Il Signore agisce con noi secondo la nostra fede: questa è il semaforo verde che dà via libera alla sua potenza: “Sia fatto secondo la tua fede”, dice al centurione (8,13); “Ti sia fatto come desideri”, dice alla cananea (15,28b) ambedue pagani! La poca-fede, caratteristica del discepolo (6,30; 8,26; 14,31, 16,8; 17,20), è sempre in pericolo di cadere nell’incredulità.

se avrete fede come un chicco di senape, ecc. La senape è un seme piccolissimo, pressoché invisibile (cf. 13,32). Gesù non dice ai discepoli che basta pochissima fede; li ha appena rimproverati di poca-fede. Mediante il contrasto chicco/monte vuol mostrare la potenza infinita della fede, capace di spostare i monti.

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direte a questo monte, ecc. “Questo monte” è quello della trasfigurazione, dal quale è appena sceso incontro ai suoi (vv. 1.9). Sul monte Gesù dice la Parola (5,1), il Padre dice di ascoltarlo (17, 5) e alla fine il Risorto darà inizio alla Chiesa (28,18-20). La fede sposta ovunque “questo monte”: la gloria della trasfigurazione si trova ovunque c’è fede. Questa infatti consiste nel fare la volontà del Padre, che ha appena detto sul monte di ascoltare il Figlio. Questo è il grande miracolo: la fede stessa, che trasporta ovunque “questo monte” della trasfigurazione. La fede è proprio il miracolo che ci trasfigura in figli, ascoltatori della parola del Padre.

La parola del Signore, viva ed eterna, è un seme incorruttibile e immortale che ci rigenera a sua immagine (cf. 1Pt 1,23). Chi l’accoglie, è generato figlio di Dio (Gv 1,12), consanguineo di Gesù (12,50). Anche se avessi profetato, scacciato demoni e compiuto miracoli nel suo nome, se non ho questa fede che mi fa ascoltare e fare la sua parola, lui mi dirà: “Non ti conosco”(cf. 7,22ss).

niente vi sarà impossibile. La fede ci dona tutto: ci fa ascoltare e fare la parola di Dio, ci mette in comunione di intelletto e di volontà con lui.

Queste parole di Gesù non sono un invito a spostare monti o trapiantare alberi nel mare (cf. Lc 17,6), ma un appello a convertirci a lui, ad ascoltarlo e seguirlo nel suo cammino verso Gerusalemme, dove si consegnerà nelle nostre mani e pagherà dall’abisso il tributo che ci fa liberi (vv 22-27)! Questo è il miracolo che vince il male.

v. 21: questo genere di demoni non esce che con la preghiera. Questo versetto (cf. Mc 9,29) manca in molti manoscritti. Il demonio dell’incredulità si vince con la preghiera, che ci dà lo spirito del Figlio (Lc 11,13). Chi non crede, chieda con insistenza il dono della fede. E chi ne ha poca, come gli apostoli, ne chieda un aumento (cf. Lc 17,5) Alla preghiera del figlio è sempre accordato l’esaudimento del Padre (7,7-11; 18, 19s; cf. Mc 11,20-26; Lc 11, 9-13).

e il digiuno. Il digiuno è come la preghiera del corpo che accompagna quella dello spirito: riconosce che non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio.

3. Pregare il testo

a. entro in preghiera come al solito.b. mi raccolgo immaginando Gesù che scende dal monte.c. chiedo ciò che voglio: il dono della fede, che è ascoltare lui e non le

proprie paure.d. traendone frutto, contemplo le persone: chi sono, che dicono, che

fanno.

Da notare: Signore, abbi pietà di mio figlio i tuoi discepoli non hanno potuto curarlo generazione perversa e senza fede perché non abbiamo potuto scacciarlo? per la vostra poca-fede un briciolo di fede sposta le montagne alla fede nulla è impossibile questo genere di demoni non esce che con la preghiera e il

digiuno.

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4. Testi utili

Sal 91; Mt 8,5-13; 15,21-28 (la grande fede di due pagani); 8,23-27;14,22-33 (la poca-fede dei discepoli); 7,21-27;12,46-50 (cos’è la fede); 7,7-11 e par (potenza della preghiera).

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72. I FIGLI SONO LIBERI17,22-27

17,22 Ora, trovandosi essi in Galilea,

disse loro Gesù:

Il Figlio dell’uomo

sta per essere consegnato

nelle mani degli uomini,

23 e lo uccideranno,

e il terzo giorno

risusciterà.

E furono rattristati molto.

24 Venendo essi in Cafarnao,

si avvicinarono a Pietro

quelli che prendono la tassa del tempio,

e dissero:

Il vostro maestro

non paga la didracma?

25 Dice:

Sì!

E, mentre veniva in casa,

Gesù lo prevenne

dicendo:

Che ti pare, Simone?

I re della terra

da chi prendono tasse e tributi?

Dai loro figli o dagli estranei?

26 Rispose:

Dagli estranei.

E Gesù gli disse:

Quindi i figli sono liberi!

27 Ora, perché non li scandalizziamo,

va’ al mare,

getta l’amo

e prendi il primo pesce che viene,

aprigli la bocca,

e troverai uno statere.

Prendilo,e dàllo per te e per me.

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1. Messaggio nel contesto

“I figli sono liberi”, dice Gesù a Pietro. Liberi davanti a Dio e agli uomini. La libertà è il grande tema, mai abbastanza capito, del cristianesimo; è anche il punto d’onore della nostra epoca, più che mai proclamato e insidiato. Non c’è nulla di più bello: ci rende come Dio. I cristiani sono liberi: il loro unico tributo al tempio e al re è quello di un rapporto filiale con il Padre e fraterno verso tutti.

Tuttavia per non scandalizzare, si sentono liberi di pagare quei tributi che anche gli altri pagano. La loro libertà infatti è quella di amare: sono tanto liberi da saper rinunciare ai propri diritti, se questi vanno contro i fratelli.

Il danaro che essi usano per pagare il tributo viene dalla bocca di un pesce pescato dall’abisso! Dio stesso provvede ai suoi figli ciò di cui hanno bisogno; e in modo misterioso, attraverso l’acqua, simbolo della morte.

La seconda predizione della passione, che immediatamente precede senza alcun nesso, fa vedere da dove viene la libertà dei figli e il tributo che pagano: dal Figlio dell’uomo consegnato nelle mani degli uomini. È il prezzo che il Figlio offre liberamente per sé e per i fratelli. Seguirà il c.18 che parla della comunità: essa è il nuovo tempio in spirito e verità (Gv 4,24), costituito da quelle pietre vive (1 Pt 2,5) che sono i figli del Padre, perché fratelli tra di loro.

Nella comunità di Matteo, di origine giudaica, c’era la tentazione di osservare rigorosamente le leggi e le tradizioni, rischiando di dimenticare la verità del vangelo e la libertà dei figli. Nelle altre comunità, di origine pagana, c’era la tentazione di vivere la libertà propria senza rispettare quella altrui (cf. 1Cor 8,1ss). Qui troviamo una soluzione “cattolica”, aperta sia ai giudei cristiani della Chiesa di Matteo che ai cristiani di provenienza pagana delle chiese paoline.

I cristiani per sé sono liberi dal tributo al tempio, come dalle leggi giudaiche. Tuttavia, per non scandalizzare i fratelli giudei, limitano questa libertà per rispettare i loro correligionari. Allo stesso modo Paolo, che si sente libero di mangiare la carne immolata agli idoli, per non scandalizzare i fratelli pagani da poco convertiti, rinuncia a questa sua libertà, disposto a non mangiar carne in eterno (1Cor 8,13).

La libertà cristiana infatti non è né l’osservanza della legge, propria dei religiosi e degli stoici, né la sua trasgressione, propria dei libertini. È la libertà di amare il fratello, pieno compimento della legge (7,12; Rm 13,10): è la legge di libertà (Gc 2,12), che ha come criterio ciò che giova all’altro. Il vero tributo al tempio, che ci dà accesso a Dio, Gesù l’ha pagato con la sua libertà di Figlio che dà la vita per i fratelli.

I due brani, accostati senza apparente collegamento, si illuminano a vicenda: il consegnarsi del Figlio dell’uomo nella mani degli uomini è il riscatto di tutti gli uomini. Nella sua fraternità essi diventano figli di Dio. Liberati finalmente dal demonio invincibile della diffidenza (cf. brano precedente!), costituiscono una comunità di fratelli (cf. capitolo seguente), dove ognuno è debitore all’altro del perdono fraterno, vero tributo da pagare al Padre (cf. Rm 13,8).

I vv. 22-23 sono l’annuncio più sintetico della passione-risurrezione di Gesù, tributo che Dio stesso paga al suo amore per l’uomo; segue la reazione dei discepoli. I vv. 24-25a contengono la domanda degli esattori

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a Pietro e la sua risposta. I vv. 25b-27 presentano il dialogo tra Gesù e Pietro sulla libertà dei figli e su come trovare il tributo da pagare all’amore verso i fratelli, per non scandalizzarli. La libertà vera infatti è quella di edificare l’altro, non di farlo cadere. Il pagamento avviene in modo prodigioso, con una moneta pescata dal mare - allusione alla morte del Figlio dell’uomo, principio di libertà per ogni uomo.

Gesù è il Figlio. La sua libertà è la stessa di Dio: amare e dare la vita, consegnandosi nelle mani dei fratelli come in quelle del Padre. Questo è il tributo al tempio: fa dell’uomo il vero tempio di Dio.

La Chiesa, riscattata da questo tributo, libera come il Figlio, vive la fraternità. La sua libertà è quella di amare e servire il fratello. Questo è il suo tributo al Padre.

2. Lettura del testo

v. 22: Ora, trovandosi essi in Galilea. Prima era a Cesarea di Filippo (16,13); sei giorni dopo sul monte della trasfigurazione (17,1); presto sarà in cammino verso Gerusalemme (19,1). La Galilea per Matteo è il luogo dell’azione di Gesù (4,12), della chiamata dei discepoli (4,18) e dell’inizio della Chiesa (28,16).

il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini. Abbiamo qui la forma più breve dell’annuncio della passione-risurrezione. Nel primo Gesù dice che ciò “deve” avvenire (16,21): ora che “sta per” avvenire. Comincia infatti subito dopo il cammino verso Gerusalemme. Il Figlio dell’uomo è consegnato (da Giuda, dai capi, dal Padre) e si consegna lui stesso nelle mani degli uomini: tutti possono prendere il dono che il Signore fa di sé. Mettersi nelle mani dell’altro è l’atto di fiducia e amore più grande che uno possa fare. Il Figlio si consegna nelle mani dei fratelli con lo stesso amore con cui si consegna in quelle del Padre. Questa consegna di sé che lui fa a noi è la nostra salvezza. Anche se noi lo rifiutiamo e gli togliamo la vita, lui dà la vita per noi.

Il grande mistero di Dio è che lui ha fede nell’uomo: si fida di lui e si affida a lui, fino a mettersi nelle sue mani, qualunque cosa ne faccia.

v. 23: e lo uccideranno. Su di lui ricade la nostra violenza; e la sua morte sarà “martirio”, testimonianza di un amore senza riserve. Gli uomini uccidono il Figlio dell’uomo che si consegna nelle loro mani; e il Figlio dell’uomo si consegna volontariamente nelle mani degli uomini che lo uccidono, con un amore più grande di ogni male.

e il terzo giorno risusciterà. È la conferma divina che il dono della vita per amore è capace di dare la vita, vincendo la stessa morte. Per la comunità cristiana, dopo il primo momento, la sorpresa non fu il fatto che il Crocifisso fosse risorto, ma che il Risorto fosse il Crocifisso.

furono rattristati molto. In Mc 9,32 i discepoli neanche intendono ciò che Gesù dice; qui intendono, ma non comprendono. Capiranno solo dopo la risurrezione, e la loro tristezza si tramuterà in gioia.

v. 24: venendo essi in Cafarnao, ecc. Quelli che raccolgono la tassa del tempio si rivolgono a Pietro. Si tratta di un obolo annuale, prescritto per tutti i maschi sopra i venti anni (Ne 10,33; cf. Es 30,11-16). Serviva per le spese del culto, e doveva essere pagato in moneta giudaica. Per questo c’erano cambiavalute negli atri del tempio (21,12; Gv 2,15). L’ammontare era di una didracma - ossia due dracme, corrispondenti a due salari quotidiani.

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il vostro maestro non paga la didracma? La domanda, rivolta a Pietro, riguarda la comunità chiamata a comportarsi come il suo Maestro nei confronti delle autorità, sia religiose che civili.

v. 25: sì. Pietro è in genere conciliante tra le posizioni opposte, anche in modo addirittura ipocrita, come lo rimprovererà Paolo (cf. Gal 2,11-13). Pietro ha inteso che Gesù è il Figlio del Dio vivente (16,16), e quindi non sarebbe tenuto a pagare la tassa. Comunque pagherà, e il suo tributo al Padre sarà quello di consegnarsi nelle mani dei fratelli. È quanto Pietro non ha capito (cf. 16,22).

mentre veniva in casa, Gesù lo prevenne. Come ha previsto il suo futuro, Gesù legge con chiarezza anche il presente.

i re della terra da chi prendono tasse e tributi? Il tributo è segno di sudditanza.

dai figli o dagli estranei? Al figlio non si chiede, ma si dà! È il suddito che paga.

v. 26: quindi i figli sono liberi. Gesù è il Figlio, quindi è libero. E come lui diventano quelli che sono con lui. Ricevono infatti il suo stesso Spirito di Figlio che grida in loro: “Abbà” (cf. Rm 8,15). Sono chiamati a libertà, liberati per restare liberi (cf. Gal 5,13.1), proprio per il tributo che lui ha pagato col suo sangue.

v. 27: perché non li scandalizziamo. Chi ama sta attento a non scandalizzare i fratelli. Il massimo della libertà è sapervi rinunciare, se nuoce all’altro. La sovranità non è della libertà, ma dell’amore; solo questo è libero e rende liberi. È vero che la verità fa liberi (Gv 8,32), ma la verità ha come misura la carità (cf. Ef 4,15). Non basta sapere: bisogna anche “sapere come sapere”. La scienza da sola gonfia: è la carità che edifica (1Cor 8,2). L’amore sa limitare i propri diritti, perché ha un solo e preciso “dovere”: lo stesso del Figlio dell’uomo che “deve” consegnarsi nelle mani dei fratelli. Il debito dell’amore è il dono di sé all’altro.

Nella Chiesa di Matteo è importante non scandalizzare i giudei, come in ogni società è doveroso rispettarne gli ordinamenti (Rm 13,1-7). Nella Chiesa di Corinto Paolo starà attento a non scandalizzare i fratelli più deboli che vengono dal paganesimo (cf. 1Cor 8,1ss;10,23-30; Rm 14,1ss). In casi più complessi, come ad Antiochia, dove convivono cristiani di diversa provenienza, sarà importante non cadere nell’ipocrisia e non tradire comunque la “verità del vangelo” (cf. Gal 2,1-14).

va’ al mare, ecc. Il mare è l’abisso che minaccia i discepoli (8,23-27; 14,22-33), immagine della morte in cui si immerge il Figlio dell’uomo. Il suo consegnarsi nelle mani dei fratelli sarà la sorgente del nostro essere figli.

In modo prodigioso Pietro trova quell’unica moneta con cui il Signore paga il tributo per sé e per lui. La comunità trova sempre in Cristo morto e risorto, raffigurato dal pesce che vive nell’abisso, la sorgente della propria libertà di amare.

Il capitolo seguente mostrerà la comunità che è il nuovo tempio, al cui centro sta il bambino/servo, che è il Signore Gesù (18,3-5). Essa vivrà la libertà dei figli pagando al Padre il vero tributo, che è l’amore fraterno, pieno compimento della legge.

3. Pregare il testo

a. entro in preghiera come al solito.b. mi raccolgo immaginando Gesù che cammina ed entra in casa.

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c. chiedo ciò che voglio: comprendere il mistero del Figlio dell’uomo nelle mani degli uomini.

d. traendone frutto, medito e contemplo la scena.

Da notare: il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli

uomini il vostro maestro paga il tributo? i figli sono liberi perché non li scandalizziamo, ecc. la moneta in bocca al pesce.

4. Testi utili

Sal 103; At 15,1ss; Gal 5,1ss; Rm 14-15; 1Cor 8,1ss;10,23-30; Gal 2,1-14; Rm 13,1-7.

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73. SE NON VI CONVERTIRETE E NON DIVENTERETE COME I BAMBINI NON ENTRETE NEL REGNO DEI CIELI

18,1-5

18,1 In quell’ora si avvicinarono

i discepoli a Gesù

dicendo:

Chi dunque è il più grande

nel regno dei cieli?

2 E, chiamato innanzi un bambino,

lo pose in mezzo a loro

e disse:

3 Amen vi dico:

se non vi convertirete

e non diventerete come i bambini,

non entrerete nel regno dei cieli.

4 Chi dunque si farà piccolo

come questo bambino,

costui è il più grande

nel regno dei cieli.5 E chi accoglie

anche uno solo di questi bambini nel mio nome,

accoglie me.

1. Messaggio nel contesto

“Se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli”. Così esordisce il quarto discorso di Gesù, sulla comunità. La parola del Figlio, rivelata sul monte, proclamata nella missione e spiegata nelle parabole, si realizza nella comunità dei fratelli: il regno del Padre si compie nella fraternità tra i suoi figli. Nel rapporto con l’altro si vive quello con l’Altro, nel rapporto col fratello quello col Padre.

La comunità cristiana non è formata da persone esemplari o eccezionali, ma di piccoli (vv. 1-11) e perduti (vv. 12-14), da peccatori (vv. 15-18) perdonati che a loro volta perdonano (vv. 21-35). La sua forza è la preghiera rivolta al Padre nel nome di Gesù, sempre presente in mezzo ai suoi (vv. 19-20). Le parole chiave del cap. 18 sono: il bambino (vv.1-5) - il piccolo che si scandalizza, si disprezza, si smarrisce e non va perduto (vv.6-14) - e il fratello che pecca, che va ammonito e perdonato (vv.15-18.21-35).

Questa comunità, dove ci si accoglie come lui ci ha accolti, è il vero tributo che dobbiamo e possiamo rendere a Dio: è la fraternità, presenza del Figlio e del Padre nello Spirito, salvezza di ogni uomo.

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In questo c.18 ci sono i cardini dello stare insieme. Ciò che unisce non è la bravura reale o presunta, ma la “piccolezza” accolta nel Figlio. Ciò che mantiene l’unione non è l’accordo impeccabile e perfetto, ma il perdono costantemente ricevuto e accordato.

Il fine dell’azione del Figlio è la comunità, dove siamo fratelli perché figli e figli perché fratelli. Essa è il regno stesso di Dio in terra: la fraternità aperta a tutti mostra al mondo che Dio è Padre.

Nella comunità è impegnato cielo e terra. Da una parte c’è il Padre con i suoi angeli e il Figlio con il suo Spirito, dall’altra gli uomini, così come sono, con le loro piccolezze, scandali, smarrimenti e peccati. In essa c’è di tutto; non si presuppone né persone migliori né un mondo migliore. Il male non ostacola il bene; ne esplica anzi tutta la potenzialità: ogni miseria si fa luogo della misericordia.

I vv. 1-5 costituiscono il principio e fondamento del nuovo modo di stare insieme: l’obiettivo da perseguire è, paradossalmente, diventare bambini. Chi è piccolo ha bisogno di essere accolto per crescere, chi è grande deve farsi piccolo per accogliere - e il più piccolo è il più grande.

La comunità ha al suo centro, come valore assoluto, colui che si è fatto ultimo e servo di tutti: il Signore crocifisso, rivelazione del Dio amore che si è fatto piccolo per accogliere i piccoli.

I limiti propri e altrui, dove non sono accettati, diventano luogo di difesa e attacco, di violenza e divisione; dove vengono accettati, diventano invece luogo di gioia e di amore, di intesa e comunione. Tutto può essere vissuto con antagonismo e conflittualità o, al contrario, con rispetto e accettazione, a seconda che lo si vive con lo spirito di morte o con lo Spirito di Dio.

In ultima analisi possiamo dire che sempre l’altro mi fa da specchio. Per questo è l’inferno o la salvezza mia. Ma non posso farne a meno: “Non è bene che l’uomo sia solo” (Gen 2,18). Senza l’altro, non sono me stesso: sono infatti a immagine di Dio, che è trinità d’amore.

Gesù è il Figlio che vive verso i fratelli lo stesso amore del Padre.La Chiesa è fatta di piccoli, smarriti, perduti e peccatori, che in forza

della preghiera sono perdonati e perdonanti. Nel perdono è vinta la morte e si risorge alla vita di Dio. Nella fraternità brilla la gloria del Figlio: il volto del Padre.

2. Lettura del testo

v. 1: “Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?” Questa domanda dei discepoli dà occasione al discorso sulla comunità.

Lo stare insieme, necessario all’uomo per realizzarsi, è sempre sotteso dalla domanda: “Chi è il più grande?”. Si cresce nell’imitazione e nel confronto, nell’emulazione e nel tentativo di adeguarsi a un modello sempre più alto.

In Mc 9,33-37 la domanda è in un contesto di lotta tra i discepoli. Questi, come tutti, pensano che realizzarsi sia passare in testa, costruendo una gerarchia tra dominati e dominatori. Il risultato è che si sta insieme press’a poco come i polli, il cui ordine stabilito si vede bene la sera quando vanno sul trespolo a dormire: in alto sta il gallo maggiore e sotto, via via, l’altro pollame, ognuno al suo posto in ordine rigoroso, fino all’ultimo che sta sotto tutti… e riceve, a suo discapito, il dono di tutti! La competitività, teorizzata non solo da oggi, è vecchia quanto il mondo “animale”.

In Matteo la domanda riguarda semplicemente qual è il criterio di misura per dire chi è “più grande”. L’uomo ha questo desiderio proprio

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perché è a immagine di Dio, che è grande, sempre più grande. Per questo punta alla “maestà” (maius = più grande), sempre proteso a un di “più” (magis!), che rompe ogni limite e lo tiene aperto all’infinito. Ha bisogno di essere sempre “più” grande e di essere riconosciuto come tale. La comunità e la società nascono da questo bisogno di grandezza e di riconoscimento.

v. 2: chiamato innanzi un bambino. Il termine indica un piccolo, sotto i sette anni. Per noi il bambino evoca tenerezza, innocenza, semplicità e spontaneità - l’eterno bambino nascosto in ogni cuore, l’uomo paradisiaco, che poi l’educazione e la società avrebbe reso cattivo. Per i greci la stessa parola significa anche servo o schiavo. Il che fa capire in che considerazione era tenuto il bambino. Per gli ebrei di quell’epoca è un’appendice della donna, che è possesso del maschio: il bambino è niente e fa niente; è bisogno di tutto e diventa ciò che gli altri fanno di lui. Esiste solo se “è di” qualcuno: appartiene all’altro, vive della sua cura ed è ciò che riceve.

lo pose in mezzo a loro. La comunità ha al suo centro il limite, l’indigenza e il bisogno, la piccolezza, la fragilità e la vulnerabilità, l’insufficienza propria e il bisogno dell’altro - come al suo centro sta il Signore (v. 20!). C’è un’“autoinsufficienza” radicale che è divina: Non è bene che l’uomo sia solo (Gen 2,18), perché è troppo grande per bastare a se stesso (Pascal). Il bambino, a differenza dell’adulto, vive la sua insufficienza come la sua vera forza: è il suo essere figlio!

Tutto il discorso di Gesù si svolge con al centro questo bambino, con il quale lui stesso si identifica (v. 5).

v. 3: amen, vi dico. Gesù parla con autorità divina, stabilendo il criterio di realizzazione.

se non vi convertirete. C’è da invertire il modo di pensare e di vivere. Invece di guardare e agire secondo i grandi della terra, che soddisfano il loro bisogno in modo “diabolico”, opponendosi all’altro, siamo chiamati ad avere gli stessi sentimenti di Gesù, il Figlio (Fil 2, 5ss). Lui è il più grande, perché è il più piccolo tra tutti noi (Lc 9,48), e ciò che facciamo al più piccolo tra i fratelli, l’abbiamo fatto a lui, il Figlio (25,40.45).

diventerete come i bambini. Gesù non dice di essere bambini, ma di diventare come i bambini. Anche un vecchio può tornare in seno a sua madre e rinascere (Gv 3,1ss): è quel nascere alla propria verità di figli che è la nostra grandezza.

L’uomo adulto è quello che si riconosce figlio: è (stato) accolto, si accoglie e accoglie, sapendo che tutto quanto ha è ricevuto (1Cor 4,7). Non si è fatto da sé, né dice: “Sono mio, e mi gestisco io”, o: “La vita è mia”. La vita gli è stata data, e la perderà: suo sarà il modo di viverla e farla fruttare nell’amore dell’altro (cf. 25,14-30).

Il suo stesso io è il primo dono che l’Altro gli fa, e solo come dono dell’altro e all’altro è vivo.

Il Sal 131 parla del credente come di un bimbo “svezzato” in braccio a sua madre. Il bimbo svezzato non brama più il seno materno, ma la sicurezza dolce dell’abbraccio. Come il latte è il cibo del piccolo, così il cibo dell’adulto è potersi abbandonare con fiducia a un amore da cui si sente accolto e avvolto. Solo così vive in pace, e si realizza. Diversamente il suo cuore si inorgoglisce, il suo sguardo si leva con superbia, in cerca di cose sempre superiori alle sue forze, inquieto e angosciato come un vecchio pieno di desideri insoddisfatti in braccio alla morte, che dispera ora e sempre. Così, capovolgendo il Sal 131, si può descrivere la situazione di chi non è diventato come un bimbo svezzato!

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Bambini a questo modo non si nasce, ma si “diventa”, con una lenta maturazione psicologica e spirituale. Mentre il piccolo cresce, invecchia e muore, Gesù ci propone di crescere in piccolezza, di ringiovanire e rinascere alla vita di figli, nelle braccia del Padre che è Madre. Questo ci rende possibile essere fratelli.

L’illuminazione consiste nel “diventare bambini”: nel vedersi figli. Questo ci fa venire alla luce nella nostra verità. Chi si sente un padreterno, non è figlio né fratello di nessuno.

non entrerete nel regno dei cieli. Nel regno di Dio Padre entrano i figli. Questi sono quanti vivono da fratelli.

v. 4: chi dunque si farà piccolo, ecc. Piccolo qui in greco è “tapino”. Indica l’umiltà in senso etimologico: essere in basso, a terra. Chi si innalza sarà abbassato; chi si abbassa sarà innalzato (23,12). Il più grande è il più piccolo, perché la grandezza dell’uomo è quella del Figlio (cf. Fil 2,8s). Se uno si sente amato e accolto nella sua piccolezza, diventa capace di amare come il Padre.

Paradossalmente uno diventa adulto diventando piccolo. Diversamente invecchia insoddisfatto, restando eterno bambino in senso negativo. Cercherà di riempire il suo bisogno di amore col possesso di cose e persone; sarà sempre infelice e vuoto, come un sacco senza fondo che nulla può riempire. La sua vita sarà non un diventare bambino, ma un regredire allo stato di un bambino non accolto e frustrato, depresso e violento, che vuol avere tutto in mano perché ha paura che tutto gli venga meno.

costui è il più grande nel regno dei cieli. Gesù risponde alla domanda iniziale dei discepoli. Il più grande nel regno del Padre è quello che più somiglia a lui, il Figlio, che tutto riceve in dono e tutto dona, fino al dono di sé.

v. 5: chi accoglie. Il bambino è bisognoso di accoglienza, atto fondamentale dell’amore. È quanto fa la madre, che gli permette di vivere in sé. Dio è innanzitutto madre, e ciascuno di noi è chiamato a diventare come lui, “materno” nei confronti dell’altro (cf. Lc 6,36). Accogliere è “concepire” l’altro: è una vita in più che do a lui e che ho dentro di me. Uno è in quanto è accolto, e in quanto accolto diventa accogliente: esiste nella sua forma piena e divina in quanto fa vivere l’altro. Accogliere è la vera grandezza di chi si fa piccolo per lasciare in sé spazio all’altro: è un restringersi, che in realtà è un dilatarsi.

nel mio nome. Il Figlio è colui nel quale siamo ciò che siamo. Al di fuori di lui nulla c’è di quanto esiste (Gv 1,3b): c’è il nulla. La fraternità fuori del suo nome resta un’ideologia vuota.

accoglie me. Lui, il più grande, si è fatto il più piccolo di tutti in modo che, accogliendo l’ultimo, accogliamo lui, il Signore che ci salva. Il nostro accogliere i più piccoli è salvezza nostra perché accoglienza del Figlio.

3. Pregare il testo

a. entro in preghiera come al solito.b. mi raccolgo immaginandomi in casa a Cafarnao, con i discepoli e al

centro Gesù col bambino.c. chiedo ciò che voglio: convertirmi e diventare piccolo come un

bambino.d. traendone frutto, contemplo la scena.

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Da notare: chi è il più grande? Gesù pone un bambino in mezzo ai discepoli se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non

entrerete nel regno chi si farà piccolo, sarà il più grande chi accoglie uno di questi bambini accoglie me.

4. Testi utili

Sal 131; Mc 9,33-37, Mt 19,13-15 (cf. Mc 10,13-16); Mt 20,20-28; Gv 3,1-21; Fil 2,5-11.

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74. GUAI AL MONDO PER GLI SCANDALI18,6-9

18,6 Ma chi scandalizza

uno di questi piccoli

che credono in me,

è meglio per lui

che gli sia appesa al collo

una mola d’asino

e sia gettato in mare profondo.

7 Guai al mondo per gli scandali;

è inevitabile che avvengano gli scandali,

ma guai all’uomo

per colpa del quale avviene lo scandalo.

8 Se la tua mano o il tuo piede ti scandalizza,

taglialo e gettalo via da te:

è meglio per te entrare nella vita

monco o zoppo,

che con due mani o due piedi

essere gettato nel fuoco eterno.

9 E se il tuo occhio ti scandalizza,

cavalo e gettalo via da te:

è meglio per te entrare nella vita

con un solo occhio,

che con due occhi

essere gettato nella Geenna del fuoco.

1. Messaggio nel contesto

“Guai al mondo per gli scandali”. Chi scandalizza commette il peccato peggiore: induce l’altro a peccare. Lo scandalo è un contagio, un male che si diffonde per induzione. L’uomo spontaneamente si comporta secondo i modelli che ha davanti. Questi creano un “costume”, una moda, un consenso implicito che regola l’agire comune, sia nel bene che nel male. Oggi i mass-media fanno da cassa di risonanza immediata e di dimensione universale.

Originariamente “scandalo” indica una trappola per far cadere la preda. Scandalizzare è il contrario di accogliere: se questo è il miglior servizio, quello è il peggiore che si possa fare al prossimo.

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Il mondo è pieno di scandali, come il campo di zizzanie: è inevitabile che ci siano, anche all’interno della comunità. Il male che uno fa, pro-voca, chiama-fuori e fa uscire quello che c’è nell’altro.

Gli scandali, come le zizzanie, non si possono eliminare: sarebbe contro la misericordia. Guai a me però se li produco. Non posso estirpare il male dagli altri; devo però estirparlo in me. È questo il miglior servizio che posso rendere agli altri: mi fa capace di accoglierli e di non scandalizzarli.

Qui si passa dal tema del “bambino” a quello dei “piccoli”. I piccoli sono quelli immaturi nella fede: non sono ancora diventati “bambini”, e la loro fiducia facilmente si incrina; per questo corrono il pericolo di smarrirsi e perdersi.

I vv. 6-7 parlano della gravità degli scandali e della loro inevitabilità. Il fatto che siano inevitabili non toglie la responsabilità di chi li compie! L’uomo ha sempre la libertà di non fare il male, anche se tutti lo fanno.

I vv. 8-9 parlano della necessità di togliere ciò che è occasione di caduta non solo per l’altro, ma anche per se stessi. Bisogna togliere il male nella sua radice, tenendo presente che ogni caduta personale ha sempre anche una ricaduta sull’altro.

Gesù, con la sua croce, è scandalo. Ma scandalo di salvezza e non di perdizione: è sapienza e potenza del Dio amore che fa cadere la sapienza e la potenza dell’uomo.

La Chiesa vive dello scandalo della croce, che vince in sé ogni male.

2. Lettura del testo

v. 6: Ma chi scandalizza. Si può far cadere il fratello in tre modi.Il primo è quello di usare la propria libertà per andare contro la

verità e l’amore, dando cattivo esempio (cf. 1Cor 5,1-13; 6,4-11.12-20). Lo scandalo agisce come il lievito: ne basta poco per fermentare tutta la pasta (1Cor 5,6; Gal 5,9). La libertà alla quale il Signore ci ha chiamati non è quella del libertino, che segue gli impulsi del suo egoismo: non è per l’impurità e il libertinaggio, l’idolatria e le stregonerie, le inimicizie e le discordie, le chiusure e le invidie, le ubriachezze e le orge - tutte cose che escludono dal regno. È invece quella di chi ama e pone la propria vita a servizio degli altri, con amore e gioia, pace e pazienza, benevolenza e bontà, fedeltà, mitezza e dominio di sé (cf. Gal 5,13-23).

Il secondo modo di scandalizzare l’altro è quello di usare la propria libertà rispettando la verità senza però rispettare la carità. Si possono infatti compiere azioni in sé buone, che però fanno cadere il fratello perché le interpreta male. L’esempio tipico è quello delle carni sacrificate agli idoli (1Cor 8,1ss; 10,23-30; Rm 14-15). Chi sa che gli idoli non esistono, ne può mangiare tranquillamente. Uno però che si è convertito da poco tempo ed è debole nella fede, può intendere questo come idolatria e restarne scandalizzato. Anche con il bene si può provocare la caduta del fratello! Puntare i fari negli occhi a uno, non lo aiuta certo a vedere meglio la strada. Buttare addosso la verità a chi non è preparato ad accoglierla, è indurlo a respingerla. La libertà cristiana non consiste solo nel seguire la verità, ma nel fare la verità nella carità (Ef 4,15). La scienza da sola “gonfia”, mentre la carità “edifica”. Chi crede di sapere, non ha ancora imparato come sapere (1Cor 8,2)! La libertà ha come regola l’amore, unico sovrano a se stesso: e l’amore è sempre verso l’altro, il più debole. La libertà dell’amore è libera anche da se stessa: sa limitarsi, addirittura

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rinunciare ai propri diritti, per non ledere quelli dell’altro ed edificarlo. Paolo non vuole che per la sua scienza vada in rovina il fratello per il quale Cristo è morto (1Cor 8,11). Anche se lui, secondo la sua coscienza, può mangiare la carne sacrificata agli idoli, non ne mangia per rispetto della coscienza altrui, anche se errata (1Cor 10,28). Il rispetto della coscienza altrui è per lui un dovere di coscienza, per non trasgredire il comando dell’amore.

Il terzo modo di scandalizzare l’altro è quando, facendo una cosa in sé buona o indifferente, si scandalizza qualcuno, e, non facendola, si scandalizza altri. È quanto capitò ad Antiochia in una comunità composta di ex-pagani e di giudei convertiti, dove, dopo l’arrivo di giudaizzanti, Pietro si trova in imbarazzo: se va a mensa con gli ex-pagani, mangiando come loro cibi “impuri” per i giudei, scandalizza i giudaizzanti; se non ci va, costringe gli ex-pagani a “giudaizzare” (cf. Gal 2,1-14 e la soluzione in At 15,1ss). In questo caso ci vuole un discernimento molto accurato, sia per vedere qual è il male minore, sia per vedere se c’è qualche male maggiore che a prima vista non appare. In questo caso Paolo, a viso aperto, rimprovera Pietro di ipocrisia, denunciando il suo modo di agire come non corretto secondo la verità del vangelo. Infatti con il suo atteggiamento, data la sua influenza, può indurre a credere che la salvezza derivi non dalla grazia di Cristo, ma dalla osservanza delle leggi giudaiche. È in questione non l’ortodossia, ma l’ortoprassi o l’“ortodopedia” evangelica di Pietro, come si dice nel testo (cf. Gal 2,14), che mette in gioco l’ortodossia altrui.

Questo terzo caso è più comune di quanto pare, soprattutto per chi ha responsabilità pastorale: qualunque cosa faccia o non faccia, scandalizza inevitabilmente qualcuno. È innanzitutto da scartare ciò che compromette la verità del vangelo, scegliendo poi ciò che più giova ai deboli nella fede.

Pietro, per avere questa intelligenza della verità nella carità, dovrà sempre andare al mare e pescare nell’abisso: lì il Figlio dell’uomo, che si è consegnato nelle mani degli uomini, gli farà trovare il tributo da pagare alla carità fraterna senza scandalizzare nessuno (17,27).

Qui si parla dello scandalo in senso generale: riguarda tutto ciò che distoglie dal fare ciò che Gesù ha detto, e che costituisce la volontà del Padre. Scandalo è quindi ciò che impedisce a uno di agire secondo la propria coscienza di credente. La coscienza altrui, anche se erronea, va rispettata con carità, anche se va illuminata con la verità. È quanto fa Paolo in 1Cor 8,1ss: secondo carità si dichiara disposto a non mangiare carne per non scandalizzare i deboli, secondo verità dice che è libero di farlo, e non lo fa per amore verso il fratello. Come si fa la verità nella carità (Ef 4,15), così la carità resta sempre aperta alla verità. Il primato però è sempre della carità, fintanto che non è in gioco la verità del vangelo, che è la carità stessa di Dio per l’uomo.

uno di questi piccoli che credono in me. I “piccoli” sono i credenti chiamati a diventare come bambini (vv. 3-4). In particolare sono piccoli i più deboli nella fede, gli smarriti e i peccatori (cf. vv. 10-14.15-18).

è meglio per lui, ecc. Gesù non esorta a uccidere o a uccidersi. Mostra la gravità dello scandalo, che può passare inosservato a chi lo fa. In realtà scandalizzare è uccidere l’altro come fratello e se stesso come figlio.

v. 7: guai al mondo per gli scandali. Questo “guai al mondo”, come poi “guai all’uomo”, si può tradurre anche: “Ahimè per il mondo, ahimè per l’uomo”. Non è un modo di dire. Lo scandalo della croce è l’“ahimè” di Dio per il male del mondo: lui, che si è fatto ultimo di tutti, porta su di

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sé ogni male, fino a farsi maledizione e peccato per noi (Gal 3,13; 2Cor 5,21).

Il “mondo” è l’ambiente, con le sue strutture. Può indurre al male più di qualunque decisione personale. I mali più grossi non hanno mai “un” responsabile: è un fatto d’irresponsabilità generale, di condizionamento di massa. L’effetto gregge - tutti corrono dove corre uno - è tipico anche dell’agire umano. Nel male c’è una solidarietà negativa che induce al peggio, dove la gravità peggiore sta nel togliere la stessa coscienza del male.

è inevitabile che avvengano scandali, ma guai all’uomo, ecc. Il male del mondo deve venire a suppurazione. Lc 17,1 dice che “è inaccettabile che non ci siano scandali”: dobbiamo accettare che ci siano, come le zizzanie nel campo. Ma guai a provocarli. Non dobbiamo eliminarli negli altri, ma dobbiamo non darli noi stessi (“guai all’uomo” che li provoca), eliminando da noi ciò che fa cadere noi e gli altri. Dobbiamo usare tanta indulgenza verso gli altri quanta intransigenza verso di noi, per non cadere e far cadere nel male (vedi vv. 8-9).

Sradicare la zizzania è sradicare il grano (13,28-30). I peccati e gli scandali saranno tolti e bruciati solo alla fine, e solo da Dio (13,41), che lo farà in modo divino. Per ora dobbiamo lasciarli, con grande carità verso chi li compie. Fa però parte della carità anche il dire la verità e mostrarne la gravità, come qui Gesù fa. Fa parte della ricerca del fratello smarrito anche la correzione fraterna (vv 10-14.15-18).

v. 8: se la tua mano o il tuo piede ti scandalizza. L’uomo ha cento mani per prendere e nessuna per dare, mille piedi per le sue perversioni e nessun piede per camminare dietro al Signore. La mano ci serve per agire, il piede per raggiungere ciò su cui si vuol agire.

Se con l’altro devo essere tollerante, con me devo essere determinato nel togliere da me quanto fa cadere me e sarà occasione di caduta per l’altro. Non si tratta di automutilazione sacra, ma di eliminare ciò che è male per “entrare nella vita”, e non buttar via la mia esistenza nell’immondizia. È necessaria un’ascesi per essere liberi: bisogna sacrificare il proprio egoismo per amarsi ed amare veramente.

v. 9: se il tuo occhio ti scandalizza, ecc. L’occhio è il desiderio, che mi porta verso tutto e mi porta dentro tutto: è la finestra del cuore. Abbiamo mille occhi per vedere le nostre paure e nessun occhio per contemplare il Signore e la sua promessa. Dobbiamo cavarci i mille occhi che ci perdono, e restare con quell’unico che vede ciò che ci rende liberi per amare e servire.

Non solo dobbiamo padroneggiare le mani e i piedi: ci è necessaria anche la custodia degli occhi, per dominare i nostri impulsi. I puri di cuore vedranno Dio (5,8). L’ascesi non è una mutilazione, ma un diventare sempre più se stessi, simili a colui di cui siamo immagine.

3. Pregare il testo

a. entro in preghiera come al solito.b. mi raccolgo immaginando Gesù in casa a Cafarnao coi discepoli e il

“bambino” nel mezzo.c. chiedo ciò che voglio: non dare scandalo e togliere da me ciò che mi è

occasione di caduta.d. traendone frutto, medito sulle parole di Gesù.

Da notare:

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chi scandalizza uno di questi piccoli meglio per lui, ecc. guai al mondo per gli scandali è inevitabile che avvengano gli scandali guai all’uomo, ecc. se la tua mano, il tuo piede, il tuo occhio ti scandalizza, ecc. meglio entrare nella vita monchi, zoppi e orbi, ecc.

4. Testi utili

Sal 1; libertà Gal 5,1ss; libertà e libertinismo: 1Cor 5,1-13; 6,4-20; libertà e carità: 1Cor 8,1ss; 10,23-30; Rm 14-15; libertà e discernimento: Gal 2,1-14; At 15,1ss.

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75. NON È VOLONTÀ DAVANTI AL PADRE VOSTRO NEI CIELI CHE SI PERDA UNO SOLO DI QUESTI PICCOLI18,10-14

18,10 Guardate di non disprezzare

uno solo di questi piccoli.

Vi dico infatti che i loro angeli nei cieli

sempre guardano il volto

del Padre mio nei cieli.

11 (Venne infatti il Figlio dell’uomo

a salvare ciò che era perduto).

12 Che ve ne pare?

Se un uomo ha cento pecore

e una sola di esse si smarrisce,

non lascerà forse le novantanove sui monti,

e va a cercare quella smarrita?

13 E se capita di trovarla,

amen vi dico

che gioisce per essa

più che per le novantanove

che non si sono smarrite.

14 Così non è volontà

davanti al Padre vostro nei cieli

che si perda uno solo di questi piccoli.

1. Messaggio nel contesto

“Non è volontà davanti al Padre vostro nei cieli che si perda uno solo di questi piccoli”, dice Gesù. Lui stesso è venuto a salvare ciò che era perduto. Così mostra l’amore del Padre verso tutti i suoi figli, cominciando dagli ultimi, dai piccoli.

Il giusto non siede in compagnia dei peccatori (cf. Sal 1); si sente anzi in dovere di sterminare ogni mattina tutti gli empi del paese (Sal 101,8). Gesù, al contrario, si fa loro compagno e commensale. È chiamato “mangione e beone, amico di pubblicani e peccatori” (11,19), e sarà alla fine annoverato tra gli empi (Lc 22,37; Is 53,12).

In Luca questa parabola è diretta a scribi e farisei, perché, invece di brontolare contro di lui che accoglie i peccatori e mangia con loro, gioiscano con lui per il loro ritorno (Lc 15,1-7). In Matteo è posta all’interno del discorso sulla comunità, perché essa abbia verso i piccoli, i fratelli deboli e smarriti, lo stesso atteggiamento di Gesù che, invece di emarginarli, li pone al centro della sua attenzione. Dio non vuole che si

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perda nessuno dei suoi figli. La preoccupazione del Pastore supremo è regola prima di ogni sollecitudine pastorale.

Sullo sfondo della parabola c’è Ez 34,1ss. Contro i capi, che non fanno il loro dovere di pastori, il Signore dice: “Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata”(Ez 34,11.16).

La comunità è fatta di piccoli che facilmente si smarriscono: se nessuno li cerca, sono perduti. Il piccolo non è solo da accogliere; è anche da non scandalizzare se è debole, da cercare se è smarrito, da correggere se è deviato, da perdonare settanta volte sette se ha peccato. Questo significa accogliere veramente l’altro nella sua dignità di figlio. Cemento della comunità è vivere i limiti propri e altrui come luogo di comunione, di aiuto e di perdono reciproco.

L’ammonimento a non disprezzare il debole, perché prezioso agli occhi del Padre e del Figlio (vv. 10-11), introduce l’esortazione a cercarlo quando è smarrito, perché non si perda (vv. 12-14). Siamo chiamati ad avere verso di lui la stessa cura del Padre e del Figlio.

Gesù è il Figlio, che è “sceso dal monte della Trinità” e si è fatto nostro fratello per cercare i fratelli perduti.

La Chiesa non è una setta di giusti che si separano dai peccatori; è una comunità di giustificati che giustificano, di graziati che graziano, di perdonati che perdonano. Il centro di ogni cura pastorale è la ricerca del fratello smarrito.

2. Lettura del testo

v. 10: Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli. La comunità è sempre tentata di considerare come zavorra i suoi membri più fragili e instabili. Distingue tra quelli che contano, perché ricchi di doni, buoni ed esemplari, e quelli che non contano, perché sprovveduti, deboli ed esposti. Questi facilmente restano indietro e si smarriscono, proprio perché li mettiamo da parte e li lasciamo perdere. C’è una forma di competitività spirituale peggiore di quella economica! Noi apprezziamo i primi e facciamo leva su di loro, disprezzando gli ultimi. Il Signore invece mette al centro della comunità il più piccolo, con il quale si identifica (25,40.45)! È una tragedia stare insieme dove si vive la piccolezza come disprezzo subìto e la grandezza come disprezzo perpetrato.

Contraria al disprezzo è la stima, caratteristica dell’amore. Chi ama stima l’amato superiore a sé (cf. Fil 2,3), perché l’amato è la vita di chi ama. Se ci deve essere una competizione tra i cristiani, sia quella di gareggiare nello stimarsi a vicenda (Rm 12,10). Chi più stima l’altro, è più simile a Dio, che vide tutto buono, e l’uomo molto buono (Gen 1,31). L’ultimo degli uomini è oggetto di stima infinita da parte del Signore: l’ha riscattato a caro prezzo, a prezzo della sua stessa vita (1Cor 6,20).

Disprezzare il piccolo e il peccatore è disprezzare il Signore, che si è fatto per noi ultimo di tutti (Mc 9,35ss), diventando addirittura maledizione e peccato (Gal 3, 13; 2Cor 5,21).

i loro angeli nei cieli sempre guardano il volto, ecc. Il messaggero buono, che custodisce, ispira e incoraggia l’uomo al bene, è già presente nella tradizione più antica di Israele: è l’aiuto che Dio concede ai patriarchi, a Mosè, ai giudici e ai profeti. Nel NT gli angeli hanno un ruolo particolare, soprattutto nei vangeli dell’infanzia e della risurrezione, oltre che nell’Apocalisse.

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Questo testo, insieme ad At 12,15, è fondamentale per la fede cristiana nell’“angelo custode”, che si prende cura di ogni singola persona. Ogni terrestre ha un protettore celeste! Questa fede, scomparsa tra le brume del razionalismo, ricompare e torna di moda come credenza in forze positive, alate o meno. Cosa buona, se non sostituisce la fiducia nel Signore e non insidia il primato di Cristo e la nostra libertà di seguirlo.

v. 11: venne infatti il Figlio dell’uomo a salvare ciò che era perduto. Il versetto, mancante in molti manoscritti, proviene probabilmente da Lc 19,10. Ma si inserisce bene qui.

v. 12: che ve ne pare? Una domanda che ci interpella e introduce la parabola che vuol indurre in noi l’atteggiamento contrario al disprezzo.

se un uomo ha cento pecore. Il pastore porta il gregge dove c’è acqua e cibo; inoltre lo difende da fiere, briganti e intemperie. Tra gregge e pastore si stabilisce un rapporto di conoscenza e affetto reciproco: la vita dell’uno dipende dall’altro, e viceversa, soprattutto in zone desertiche.

Il pastore è immagine di Dio in rapporto al popolo che egli ama. Pastore è chiamato anche il re che lo rappresenta. Il Sal 23 è la presentazione classica del Signore come re-pastore. Motivo ispiratore di questa parabola è Ez 34,11-22, dove il Signore dice ciò che lui fa, a differenza dei capi del popolo.

Gesù si paragona al pastore (Lc 15,1-7; Gv 10,1ss) che sarà “percosso” nella sua passione (26,31) e sarà giudice nella sua gloria (25,32). Pastori sono anche quelli che, dopo di lui e come lui, avranno cura del gregge (cf. Gv 21,15-17). Ma ognuno è a suo modo pastore dell’altro, come ogni figlio è responsabile del fratello. Chi dice con Caino: “Sono forse io il guardiano di mio fratello ?” (Gen 4,9), l’ha già ucciso.

non lascerà le novantanove sui monti. Luca parla dei novantanove giusti abbandonati per cercare il peccatore (Lc 15,7). Per sé il pastore non abbandona il gregge, se non quando è al sicuro e custodito. Questo pastore invece ha come primo interesse la pecora smarrita, e per questa abbandona le altre sul monte. Solo quando si perde una cosa, si vede con chiarezza il suo valore, pari all’amore che si ha per essa. Come un membro dolorante richiama tutta l’attenzione, così l’amore di Dio è concentrato sul peccatore perduto. Gli fa un male da morire, da morire in croce!

I peccatori sono realmente più amati da Dio, perché ne hanno più bisogno.

va a cercare quella smarrita. Il Signore lascia tutto per cercare la pecora smarrita, quella che per noi non conta!

v. 13: se capita di trovarla, ecc. È la gioia di chi ha scoperto il tesoro, trovato la perla preziosa (13,44s). Il fatto di lasciare le altre per cercare la smarrita e di rallegrarsi per il suo ritrovamento più che per le altre, indica quanto essa vale agli occhi del pastore.

Il fratello che noi disprezziamo sta a cuore al Padre: è il centro dei suoi pensieri e delle sue cure. Dio è amore, la cui misericordia è proporzionale alla miseria dell’amato. Il Padre ama tutti i suoi figli. Il perduto da ritrovare è il suo stesso Figlio unigenito, che si è perduto perché in lui ogni perduto fosse ritrovato. In ogni smarrito il Padre vede il Figlio crocifisso e noi vediamo il Signore.

Per questo amiamo gli smarriti e i perduti, i peccatori e i nemici. C’è un divino in ogni creatura: l’amore del Padre per il Figlio. La più lontana da Dio è il Figlio stesso di Dio (27,46.54), che si è abbandonato in ogni abisso di male, perché nessun abbandono di Dio fosse più abbandonato da Dio.

L’amore per l’ultimo riscatta tutto il creato nel Figlio e costituisce la gioia di Dio, finalmente tutto in tutti (1Cor 15,28). Per questo il Figlio si è

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incarnato, ha lasciato la corte celeste, è sceso dal monte della Trinità ed è venuto sulla terra. In questo modo salva i peccatori - dei quali io sono il primo (1 Tm 1,15), dice Paolo. E lo stesso posso dire anch’io, di me e di qualunque altro. Infatti mi ha amato e ha dato se stesso per me (Gal 2,20).

più che per le novantanove che non si sono smarrite. La cura pastorale ha come obiettivo non i vicini, ma i lontani - soprattutto se i lontani sono novantanove! Solo così la Chiesa è quella del Figlio che ha lo stesso amore del Padre. La comunità, come al suo interno ha al centro il piccolo, così è tutta proiettata all’esterno verso il lontano (28,19).Per questo l'Apostolo si farà un punto d’onore di annunciare il vangelo dove non è ancora giunto il nome di Cristo (Rm 15,20). L’immagine più bella della Chiesa, inviata a tutte le nazioni, ci è offerta nel finale degli Atti: è una casa in affitto, a Roma, nel cuore della paganità, dove Paolo, prigioniero, accoglie tutti e con libertà e franchezza proclama il regno, insegnando chi è il Signore (At 28,30s).

v. 14: non è volontà davanti al Padre vostro nei cieli che si perda, ecc. È un’espressione di rispetto, per dire che il Padre non vuole che si perda nessuno degli smarriti. È la sua volontà in cielo, che noi siamo chiamati a compiere qui in terra.

Il modello del nostro agire è Gesù, il Figlio che compie la volontà del Padre cercando il fratello smarrito (v. 11). Noi lo destiniamo a perdersi se verso di lui nutriamo disprezzo invece di stima.

Anche il giusto del Sal 119 alla fine si riconosce come una pecora smarrita che va errando, bisognosa di essere ricercata dal suo Signore (Sal 119,176).

3. Pregare il testo

a. entro in preghiera come al solito.b. mi raccolgo immaginando la casa di Cafarnao: Gesù è al centro con un

bambino, attorniato dai discepoli.c. chiedo ciò che voglio: avere cura del più debole e cercare lo smarrito.d. traendone frutto, medito sulle parole di Gesù.

Da notare: non disprezzare uno solo di questi piccoli i loro angeli nei cieli sempre guardano il Volto il Figlio dell’uomo venne a salvare ciò che era perduto il pastore la pecora smarrita lascia le novantanove va a cercare quella smarrita se capita di trovarla gioisce per essa più che per le novantanove è volontà del Padre non perdere nessuno dei suoi piccoli.

4. Testi utili

Sal 23; 119,169-176; Ez 34,1ss; Gv 10,1ss; Lc 15,1ss; Gc 5,19s; 1Tm 2,4.

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76. AVRAI GUADAGNATO IL TUO FRATELLO18,15-20

18,15 Ora se pecca (contro di te) il tuo fratello,va’ e ammoniscilo fra te e lui solo;se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello.

16 Se non ti ascolterà,prendi con te uno o due,perché ogni cosa si dirimasulla bocca di due testimoni o tre.

17 Se non presterà loro ascolto,dillo alla Chiesa;e se non presterà ascolto neppure alla Chiesa,sia per te come il pagano e il pubblicano.

18 Amen vi dico:tutto quello che legherete sulla terra,sarà legato in cielo,e tutto ciò che scioglierete sulla terra,sarà sciolto in cielo.

19 Amen vi dico ancorache se due di voi uniranno la voce sulla terraper domandare qualunque cosa,il Padre mio che è nei cieli la concederà loro.

20 Dove infatti sono due o tre riuniti nel mio nome,lì io sono in mezzo a loro.

1. Messaggio nel contesto

“Avrai guadagnato il tuo fratello”, dice Gesù a chi è riuscito a ricondurre un peccatore a riconoscere il proprio errore. Infatti ha ristabilito la fraternità: non è più solo, e dove due fratelli sono insieme, il Padre si compiace e il Figlio è tra loro.

La verità va fatta nella carità (Ef 4,15); ma la carità non è mai disgiunta dalla verità. Il primato è sempre dell’amore; ma questo si manifesta sia nel cercare lo smarrito che nell’illuminarlo nel suo smarrimento - e alla fine nel perdonarlo comunque (vv. 21-35).

Quanto si dice sulla correzione fraterna sembra in contrasto con il non giudicare (7,1ss), con la ricerca della riconciliazione (5,23-26), con la parabola delle zizzanie (13,24-30.49). In realtà la correzione fraterna è segno di grande amore: è possibile in una comunità dove ognuno è accolto nei suoi limiti, non è giudicato se sbaglia, è assolto se è colpevole, è ricercato se si smarrisce, è perdonato se pecca. Senza accettazione incondizionata, non esiste correzione fraterna: c’è semplice contrapposizione tra critica malevola e indurimento difensivo. Una persona, solo se è accolta e nella misura in cui è accolta, è disposta ad accettare eventuali osservazioni senza avvertirle come aggressione.

La correzione fraterna è indispensabile perché il nostro stare insieme sia per il meglio, e non per il peggio (cf. 1Cor 11,17). Essa è un modo concreto per cercare chi è smarrito, perché non si perda: è l’espressione più alta della misericordia. La correzione fraterna è l’esatto contrario dello scandalo. Se questo trascura il fratello e lo induce al male, la correzione ha cura di lui e lo deduce dal male. Se lo scandalo perde, la correzione guadagna il fratello.

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Il peccato infatti rompe la fraternità. Se perdoni, la ristabilisci solo a metà: tu sei fratello, ma l’altro non ancora, fino a quando non riconosce l’errore e accetta il perdono. La correzione, quando riesce, ristabilisce la fraternità da ambo le parti.

Bisogna tentare tutte le vie per ricondurre lo smarrito a casa. Prima a tu per tu, poi con la mediazione di altri e, se necessario, della stessa comunità. Chi non vuol ricredersi, verrà ritenuto come pagano e peccatore. Non si tratta di eliminare la mela marcia per preservare le altre; è un rendere noto la situazione di fatto: il peccato ha rotto la fraternità. Non è giudizio o condanna, ma medicina perché lo smarrito riconosca il suo male e possa ravvedersi.

Solo se il bene è buono e il male è cattivo, si può parlare di riconciliazione e di perdono. Render nota la verità è grande servizio di carità. Trattare uno come pagano e pubblicano non significa escluderlo dal proprio amore: Gesù è amico di pubblicani e peccatori (11,19), è venuto a salvare ciò che è perduto (v. 11) e invierà i suoi discepoli verso tutti i pagani (28,19).

La comunità ha lo stesso potere di Pietro (16,19), che è il medesimo del suo Signore: rendere presente sulla terra il giudizio del Padre che è nei cieli, il quale non vuol perdere nessuno dei suoi piccoli (v. 14). Per avere questo spirito è necessaria la preghiera fraterna, rivolta al Padre che ci garantisce la presenza del Figlio.

Il testo contiene quattro detti di Gesù: i vv. 15-16 sulla correzione fraterna, i vv. 17-18 sul potere della comunità di legare e sciogliere, il v. 19 sull’efficacia sicura della preghiera fraterna e il v. 20 sulla presenza del Signore in mezzo ai suoi.

Gesù, come è il buon pastore, è anche il Figlio: guadagna i fratelli alla misericordia del Padre accogliendo i peccatori e convincendo di peccato quelli che si ritengono giusti.

La Chiesa ha ricevuto lo stesso potere di Gesù, e deve usarlo allo stesso modo. La preghiera comune, che le garantisce la presenza del Figlio, ottiene dal Padre la forza per vivere il dono di aiutarsi a stare insieme per il meglio. Una comunità cristiana è spiritualmente matura nella misura in cui è capace di esercitare la correzione fraterna. È utile tener presente che essa è proposta al centro del discorso sulla comunità, dopo ben diciotto capitoli di istruzione. Noi siamo tentati di porla all’inizio del capitolo primo!

2. Lettura del testo

v. 15: ora se pecca (contro di te) il tuo fratello. Il “contro di te” di alcuni manoscritti è preso da Lc 17,4, dove Gesù dice di perdonare senza condizione i torti subiti. Oggetto di correzione fraterna non è l’offesa personale - comunque sempre da perdonare e dimenticare (vv. 21ss) - ma il peccato in quanto nuoce a chi lo fa. A chi mi offende sono in debito del perdono. A chi pecca non ho nulla da perdonare; gli sono però in debito della correzione fraterna.

Nel testo si parla di quei peccati gravi che escludono dal regno (cf. Gal 5,19-21). Chi li commette è uno smarrito che, se non è riguadagnato alla fraternità, rischia di essere un perduto.

va’ e ammoniscilo fra te e lui solo. L’ammonimento è senza odio, spirito di critica, vendetta o rancore; anzi, amando il fratello come te stesso, lo rimproveri apertamente per non caricarti di un peccato di omissione nei suoi confronti (cf. Lv 19,17s.).

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Il fratello peccatore è come un tuo membro malato: sei in pericolo di perderlo. Tu ne senti il dolore, e cerchi di curarlo perché è parte del tuo corpo. Come primo passo, richiamalo in privato, per rispetto verso di lui - e non apertamente, come dice invece Levitico 19,17.

se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello. L’obiettivo della correzione fraterna non è il condannare, ma il “guadagnare il tuo fratello” che ha peccato. Non si tratta di riconciliarsi con lui (5,23-26!), ma qualcosa di più: portarlo a ravvedersi e riconciliarsi con gli altri, perché sia figlio e fratello.

Solo in spirito di riconciliazione (5,23s), di perdono (6,14s), di non giudizio (7,1-5), di tolleranza (13,24ss) e di cura per chi sbaglia (18,10-14), c’è correzione fraterna che può essere efficace.

“Fratelli miei, se uno di voi si allontana dalla verità e un altro ve lo riconduce, costui sappia che chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore, salverà la sua vita dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati” (Gc 5,19s).

v. 16: se non ti ascolterà, ecc. In Israele il procedimento giudiziario era fatto sulla parola di due o tre testimoni. Qui però non si tratta di un processo, ma di un tentativo per recuperare il fratello alla verità. Dove non riesci da solo, forse per limiti tuoi, puoi riuscire con la mediazione di altri.

v. 17: se non presterà loro ascolto, dillo alla Chiesa. Dopo aver tentato prima a quattr’occhi e poi con la mediazione di altri, lo si presenti all’assemblea, perché il suo amore per i fratelli lo stimoli a reagire positivamente. Ovviamente si tratta di un peccato grave e pubblico. Il fine, anche nella “scomunica”, è sempre e solo “guadagnare il fratello”.

se non presterà ascolto neppure alla Chiesa, sia per te come il pagano e il pubblicano. La comunità non “scomunica” il peccatore, ma gli fa capire che si è già posto fuori dalla comunione, in modo che possa ritornare. La “scomunica” ha sempre e solo valore illustrativo e pedagogico, mai punitivo. Mostra la gravità del male che uno fa, talora a cuor leggero, perché si ravveda (vedi come agisce Paolo in 1Cor 5,1-5 e 1Tm 1,20, e cosa consiglia in 2Ts 3,14s e Tit 3,19s).

Trattare uno da pagano e da peccatore non significa escluderlo: i nemici sono da amare, ed è possibile riguadagnarli solo dando loro un maggior amore (5,38-48). È tragico dare allo “scomunicato” l’impressione di essere escluso. Tende già lui stesso a escludersi. Deve invece conoscere una maggior cura da parte dei fratelli.

v. 18: tutto quello che legherete sulla terra, ecc. La comunità ha lo stesso potere di Pietro (16,16): quello del Figlio, che è venuto a cercare ciò che era perduto (v. 11). È il medesimo del Padre che non vuol perdere nessuno (v. 14). È grande la responsabilità della comunità, chiamata a continuare sulla terra la missione del Figlio dell’uomo. Non deve agire arbitrariamente, ma conformemente alla volontà del Padre. Uno avrà con il Padre quell’atteggiamento positivo o negativo che avrà prodotto in lui il nostro modo di essergli fratello: questo lo scioglie o lo lega nei confronti del Padre.

v. 19: se due di voi uniranno la voce, ecc. Si è già parlato dell’efficacia della preghiera (7,7-11), in un contesto analogo, tra il divieto di giudicare e il comando di amare (7,1-6.12).

I fratelli che uniscono la voce per pregare sono una dolce “sinfonia” (= unione di voce!) agli orecchi del Padre. Il contesto ci suggerisce cosa chiedere al Padre e cosa lui concede: vivere sulla terra il suo stesso potere, che è la capacità di accogliere e non scandalizzare i suoi piccoli (vv. 1-5. 6-11), di ricercare gli smarriti (vv. 12-14), di riguadagnare i perduti (vv. 15-20) e di perdonare tutti (vv. 21-35).

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v. 20: dove infatti sono due o tre riuniti nel mio nome, ecc. Così Gesù traduce un detto rabbinico che dice: “Se due si uniscono per applicarsi alla parola della legge, la Shekinà è nella loro adunanza”. Dove i fratelli si uniscono, è presente il Figlio. Per questo la preghiera dei fratelli rivolta al Padre nel nome del Figlio è infallibile: il Signore è “in mezzo a loro”, come il bambino che Gesù ha posto “in mezzo a loro” (v. 2).

Le lettere “polemiche” di Paolo sono un modello interessante di correzione fraterna, fatta con amore, verità e grande discernimento.

3. Pregare il testo

a. mi metto in preghiera come al solito.b. mi raccolgo immaginando la casa di Cafarnao, con i discepoli e Gesù

in mezzo a loro insieme con un bambino.c. chiedo ciò che voglio: la difficile arte di riguadagnare il mio fratello.d. traendone frutto, medito sulle parole di Gesù.

Da notare: ammonisci tuo fratello fra te e lui solo avrai guadagnato il tuo fratello prendi con te due o tre dillo alla Chiesa sia per te come il pagano e il pubblicano ciò che scioglierete nella terra, sarà sciolto in cielo se due di voi uniranno la voce, ecc. io sono in mezzo a loro.

4. Testi utili

Sal 95; 133; Ez 33,7-9; prima di correggere il fratello, vedi: Mt 5,23-26; 6,14s; 7,1-5; 13,24-30; 18,10-14; Gc 5,19s.

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77. NON BISOGNAVA CHE ANCHE TU AVESSI COMPASSIONE DEL TUO COMPAGNO

COME ANCH’IO HO AVUTO COMPASSIONE DI TE?18,21-35

18,21 Allora si fece innanzi Pietroe gli disse:

Signore,quante volte peccherà contro di me mio fratelloe gli perdonerò?Fino a sette volte?

22 Gli dice Gesù:Non ti dico fino a sette volte,ma settanta volte sette.

23 Per questo è simile il regno dei cieli a un reche volle fare i conti con i suoi ministri.

24 Ora, cominciando a fare i conti,gli si presentò un debitore di diecimila talenti.

25 Non avendo di che risarcire,il Signore ordinò che fosse venduto,lui e la donna e i figli e quanto aveva,per risarcire.

26 Gettatosi dunque a terra, il ministro lo adoravadicendo:

Abbi pazienza con me,e ti risarcirò di tutto.

27 Ora il Signore, mosso a compassione di quel ministro

lo liberò e gli rimise il debito.28 Ora uscito quel ministro

trovò uno dei suoi compagniil quale gli era debitore di cento danari,e, afferratolo, lo strozzavadicendo:

29 Rendimi ciò che mi devi!Allora, gettatosi a terra, il suo compagno lo

supplicavadicendo:

Abbi pazienza con me,e ti risarcirò!

30 Ora egli non voleva,e andò a gettarlo in prigione,finché non l’avesse risarcito del debito.

31 Vedendo dunque i suoi compagni l’accaduto,furono molto addoloratie andarono a riferire al loro signorequanto era accaduto.

32 Allora, chiamatolo innanzi,il suo signore gli dice:

Ministro cattivo,tutto quel debito ti ho rimesso

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perché mi hai supplicato.

33 Non bisognava che anche tuavessi compassione del tuo compagnocome anch’io ho avuto compassione di te?

34 E, adirato, il suo signorelo consegnò agli aguzzinifino a che non lo avesse risarcitodi tutto quanto gli era debitore.

35 Così anche il Padre mio nei cieli farà con voi,se non perdonerete al fratello dai vostri cuori.

1. Messaggio nel contesto

“Non bisognava che anche tu avessi compassione del tuo compagno come anch’io ho avuto compassione di te?” Il fondamento del mio rapporto con l’altro è l’imitazione del rapporto che l’Altro ha con me: quanto il Signore ha fatto con me è principio di quanto io faccio col fratello. Gesù dice di amarci a vicenda con lo stesso amore con il quale lui ci ha amati (Gv 13,34); e Paolo dice di graziarci l’un l’altro come il Padre ha graziato noi in Cristo (Ef 4,32).

La giustizia del Figlio, che introduce nel regno del Padre, non è quella che ristabilisce parità, secondo la regola: chi sbaglia paga. È una giustizia superiore, propria di chi ama, che è in debito verso tutti: all’avversario deve la riconciliazione, al piccolo l’accoglienza, allo smarrito la ricerca, al colpevole la correzione, al debitore il condono. È la disparità della giustizia divina, che è misericordia, dono e perdono.

Alla giustizia della legge che uccide, succede quella dello Spirito che dà la vita (cf. 2Cor 3,6). In quanto figlio sono chiamato ad avere verso i fratelli gli stessi sentimenti. Le colpe altrui nei miei confronti mi permettono di perdonare come sono perdonato: mi fanno figlio perfetto come il Padre (5,43-48)!

Ciò che mi dà tanto fastidio e mi fa dire: “Sarebbe bello se non ci fosse!”, è paradossalmente ciò che mi aiuta a diventare come Dio. Verrebbe da dire: “Meno male che c’è il male!”. Non per questo devo farlo (Rm 3,8; 6,1.15); tuttavia è vero che, dove abbonda il peccato, sovrabbonda la grazia (Rm 5,20). Il male che faccio è l’occasione che, facendomi sentire perdonato di più, mi farà amare di più il Signore (cf. Lc 7,42s); il male che subisco è, a sua volta, l’opportunità di perdonare e amare di più i fratelli, diventando sempre più simile al Signore. Il male mio diventa perdono di Dio, quello dell’altro perdono mio, che mi fa come Dio! Il perdono che ricevo e che accordo è il respiro stesso di Dio, lo Spirito Santo, che diventa mia vita. Il perdono è il cuore della vita cristiana: mi rende figlio del Padre e fratello dei miei simili, in comunione con Dio e con gli uomini. Il perdono non nega la realtà del male. Lo suppone; ma proprio in esso si celebra il trionfo dell’amore gratuito e incondizionato. Un amore che non perdona, non è amore.

Il brano si divide in due parti: i vv. 21-22 contengono il dialogo tra Pietro e Gesù sul perdono illimitato, i vv. 23-35 contengono una parabola che ne mostra il motivo. Essa è costruita sul contrappunto tra la magnanimità del Signore che perdona il debito incalcolabile di un servo (vv. 23-27), e la spietatezza di questo che non perdona a un suo compagno un piccolo debito (vv. 28-30). Conclude la dichiarazione che chi non perdona non è perdonato (vv. 31-35). Il perdono che accordo

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scaturisce dal perdono che ho ricevuto. Il ricordo di questo è non solo principio di tolleranza, ma sorgente della capacità di perdonare.

Questa parabola propria di Matteo, posta a conclusione del discorso sulla comunità, è un’esortazione al perdono. Si può stare insieme non perché non si sbaglia o non ci si offende, ma perché si è perdonati e si perdona. Il male, invece di dividere e isolare l’uno dall’altro, unisce e rinsalda nel perdono reciproco. Proprio nella comunità esce il male - e dove potrebbe uscire se non in essa, dal momento che tutta la legge si compendia nell’amore del fratello? Il perdono è la vittoria costante dell’amore.

È utile tener presente che si può perdonare all’altro solo se si sa perdonare a se stessi. E si perdona a se stessi se si accetta di essere perdonati da Dio.

Gesù è il Figlio che ama i fratelli come è amato dal Padre.La Chiesa riceve la vita dal perdono e la mantiene perdonando:

l’amore ricevuto e accordato, come la fa nascere, così la fa vivere.

2. Lettura del testo

v. 21: Allora si fece innanzi Pietro. Pietro è figura preminente nella Chiesa, testimone verso i fratelli dell’amore incondizionato del suo Signore che lui ha tradito (cf. Gv 21,15-17; Lc 22,32). È pastore perché pecora smarrita e ritrovata!

quante volte peccherà contro di me mio fratello, ecc. Pietro sa già che il Padre ci perdona come noi perdoniamo (6,12.14s). Per questo sa che deve perdonare sette volte, cioè sempre. La sua domanda serve per introdurre la parabola sul perdono.

v. 22: non ti dico fino a sette volte, ma a settanta volte sette. “Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette” (Gen 4,24). Gesù dice di perdonare non sette, non settantasette, ma settanta volte sette! Alla vendetta sproporzionata contrappone il perdono illimitato.

Luca 17,4, nel passo parallelo, parla di perdono “quotidiano”. Combinandolo con Matteo, risulterebbe che dobbiamo perdonarci settanta volte sette al giorno. Un fondamentalista direbbe che ci si perdona ogni tre minuti circa. Ed è vero! Il perdono è il respiro dell’uomo, che vive perché inspira ed espira, riceve e dà perdono. Chi solo inspira, esplode; chi solo espira, implode. La vita è proprio il circolare del perdono ricevuto e dato.

v. 23: un re volle fare i conti con i suoi ministri. Il re è chiaramente il Padre nei cieli (v. 35). Suoi ministri siamo noi, ai quali è affidato il suo tesoro, la sua vita: l’amore. Ognuno di noi è ministro del re, anzi suo figlio, nella misura in cui riceve e dà questo amore. Per noi la magnanimità è onorare la nostra origine.

v. 24: un debitore di diecimila talenti. Diecimila è la cifra più grossa in lingua greca, e il talento la misura più grande (36 Kg circa). È quanto ciascuno di noi ha da Dio. Da lui ci viene quanto siamo e abbiamo: ce l’ha donato all’inizio e ce l’ha perdonato quando gliel’abbiamo rapito. È impossibile restituirlo: se lo consideriamo un debito è impagabile. Per vivere è necessario passare dalla logica del debito a quella dell’amore gratuito.

Diecimila talenti è una cifra sproporzionata che solo un re può possedere. Per dare un’idea: un talento è pari a 6.000 giornate lavorative; 10.000 talenti è pari a 60.000.000 di salari quotidiani. Per pagare questo debito uno dovrebbe lavorare circa 200.000 anni senza mangiare. Ancora: se un talento è 36 Kg., 10.000 talenti è pari a 360 tonnellate di metallo

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prezioso; per trasportarlo occorrerebbero 360 furgoni - una fitta colonna di circa 3 Km.

La cifra, esagerata, è in realtà una pallida idea di ciò che Dio mi ha dato. Mi ha creato suo figlio, a sua immagine e somiglianza; quando gli ho rapito il dono, mi ha perdonato dandomi molto di più: il suo medesimo Figlio, nel quale mi condona se stesso!

Con Dio ho il debito di me stesso e di lui stesso! Solo che non è un debito ma un dono infinito che lui ha fatto, senza calcolare. Infatti l’unica misura dell’amore è il non aver misura. Noi al contrario continuiamo a calcolare con lui e con tutti!

v. 25: non avendo di che risarcire, il Signore ordinò, ecc. Chi stabilisce con Dio un rapporto di giustizia, resta sempre insolvente, chiuso nella gabbia dei suoi debiti. La legge, giusta, non fa altro che farlo sentire in colpa.

v. 26: abbi pazienza con me. È la preghiera del debitore. La legge, che ci accusa, ci porta a invocare la magnanimità di Dio.

ti risarcirò tutto. È l’illusione di chi crede di poter saldare il suo debito. Finché non scopre la grazia e il perdono, non c’è alternativa.

v. 27: mosso a compassione. La nostra condizione commuove il Signore: ne muove le viscere materne. Gli facciamo una pena infinita con i nostri sensi di colpa e di espiazione. La sua passione si fa compassione.

lo liberò e gli rimise il debito. Il Signore mi ha amato e ha dato se stesso per me (Gal 2,20), liberandomi da ogni colpa e peccato. Mi vuol far capire che il mio rapporto con lui non è di schiavo/padrone, ma di figlio/padre. Il credente si sa amato e perdonato gratuitamente da Dio, che lo considera figlio. Lo Spirito glielo testimonia , facendogli gridare: “Abbà!”. Non è in debito, ma in credito nei confronti di Dio; gli è Padre infatti, ed è con lui in debito del suo amore.

La fraternità scaturisce da questa esperienza filiale.v. 28: quel ministro trovò uno dei suoi compagni il quale gli era

debitore di cento danari. Cento danari sono altrettante giornate lavorative. Cifra discreta, ma trascurabile rispetto al debito appena condonato.

lo strozzava dicendo: Rendimi ciò che devi. Il Signore si commuove, lo libera e gli condona il debito; lui invece afferra il suo compagno, lo soffoca e vuole che lo paghi. Quanto Dio è magnanimo con noi, altrettanto noi siamo meschini con gli altri. Come pensiamo di dover restituire al Padre, così pensiamo che i fratelli devono restituire a noi. Con l’altro viviamo lo stesso rapporto che abbiamo con il primo Altro, e viceversa.

v. 29: abbi pazienza con me, e ti risarcirò. Il fratello gli fa la stessa preghiera che lui ha fatto al Signore. Lo chiama ad avere nei suoi confronti gli stessi sentimenti del suo Signore.

v. 30: egli non voleva, e andò a gettarlo in prigione. Fa al suo compagno il contrario di quanto il suo Signore ha fatto con lui.

v. 31: vedendo dunque i suoi compagni l’accaduto, furono molto addolorati. Anch’io resterei addolorato di questo atteggiamento. Mi immedesimo facilmente con il misero, perché mi può capitare la stessa sorte. Potrei essere io quel debitore. Quando però, per caso, sono creditore, allora mi sembra naturale far valere i miei diritti. Mi è facile essere tollerante con chi pesta i piedi al vicino, finché non li pesta a me!

v. 32: ministro cattivo. La sua malvagità non consiste nel debito che aveva, ma nel credito che realmente ha e fa valere! Il peccato più grave è sempre quello di non perdonare il fratello: è l’unico che esclude dal Padre, perché distrugge il mio essere figlio. Se non perdono, ritorno alla logica del debito: non accetto il perdono. Se caccio in prigione l’altro, caccio in prigione me.

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v. 33: non bisognava che anche tu avessi compassione, ecc. È l’apice della parabola. Ho pietà del mio simile perché il Signore ha pietà di me. Solo così ho gli stessi sentimenti del Padre e divento suo figlio. Se non perdono, muore in me il perdono che ho ricevuto: non ne vivo!

La comunità fraterna nasce dal perdono reciproco: ognuno perdona come è perdonato. L’unico debito che abbiamo gli uni verso gli altri è l’amore vicendevole (cf. Rm 13,8), Come il mio peccato mi fa conoscere il Padre e mi fa nascere come figlio, così il peccato del fratello, nel mio perdono, mi fa vivere da figlio simile al Padre! Se non vivo da figlio, sono morto. Per questo “perdonare è un miracolo più grande che risuscitare un morto”.

Pensare al proprio debito condonato, non solo rende tolleranti verso gli altri, ma addirittura magnanimi. In genere però non accettiamo davvero il perdono; infatti non perdoniamo a noi stessi, e abbiamo sempre stizza, rancore e vergogna dei nostri peccati.

v. 34: lo consegnò agli aguzzini ecc. Chi non perdona non è perdonato (6,15). Infatti il Padre ci perdona come noi perdoniamo. Per questo la riconciliazione col fratello è più importante di ogni culto (5,23s). Senza di essa finiamo in prigione noi stessi, pagando fino all’ultimo spicciolo (5,25s).

v. 35: così anche il Padre mio nei cieli farà con voi, ecc. La parabola è un’esortazione al perdono. Il peccato dei peccati è il non perdono: è uccidere in me l’amore del Padre.

Nel perdono salvo il fratello offrendogli l’amore del Padre, e salvo me stesso, vivendo di questo amore. Al di fuori di questo amore ricevuto e donato - che è lo Spirito Santo - non c’è che la morte.

Il discorso sulla comunità, cominciato con il piccolo, finisce col peccatore: il piccolo è accolto in ogni limite, il peccatore è perdonato di ogni debito. Da me, come dal Signore.

se non perdonerete ciascuno al fratello dai vostri cuori. Perdonare è un fatto di cuore. È non ri-cordare, non tenere nel cuore il male del fratello, ricordando invece l’amore che il Padre ha per me e per lui. Se continuamente ricordo all’altro il suo errore, il perdono è davvero la peggior vendetta. Se il Signore ricorda le colpe, chi potrebbe più respirare (Sal 130,3)?

Se non riesco a perdonare, cosa devo fare? Invece di prendermela con l’altro, considero che è un peccato mio di cui chiedo perdono a Dio. Sapere questo cambia già il mio atteggiamento con l’altro: penso ai miei 10.000 talenti di debito di cui Dio mi fa grazia, non ai 100 danari che l’altro mi deve.

3. Pregare il testo

a. entro in preghiera come al solito.b. mi raccolgo immaginando Gesù in casa, con il bambino, attorniato dai

discepoli.c. chiedo ciò che voglio: far grazia all’altro come il Signore fa grazia a

me.d. traendone frutto, contemplo la parabola.

Da notare: perdonare settanta volte sette il mio debito col Signore è di 10.000 talenti ma non è un debito: è un dono e un per-dono il mio credito col fratello è di 100 denari dammi ciò che devi lo gettò in prigione

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non bisognava che tu avessi compassione del tuo compagno, come io ho avuto compassione di te?

il perdono di cuore ai fratelli.

4. Testi utili

Sal 103; 130; Sir 27,33-28,9; Lc 6,36-38; Mt 5,23-26; 6,12. 14s; Rm 13,8-10; Ef 4,20-32.

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78. COLUI CHE CREÒ,DA PRINCIPIO MASCHIO E FEMMINA LI FECE

19,1-12

19,1 E, avendo Gesù compiute queste parole,

avvenne che si trasferì dalla Galilea

e venne nei confini della Giudea,

al di là del Giordano.

2 E lo seguirono molte folle,

e lì egli le guarì.

3 E gli si avvicinarono dei farisei per tentarlo,

dicendo:

È lecito a un uomo

ripudiare la sua donna

per qualsiasi causa?4 Ora, rispondendo, disse:

Non avete letto che colui che creò,

da principio maschio e femmina li fece?

5 E disse:

Per questo l’uomo abbandonerà il padre e la madre

e aderirà alla sua donna,

e i due saranno una carne sola.

6 Così che non sono più due, ma una carne sola.

Ciò che dunque Dio congiunse,

uomo non separi.7 Gli dicono:

Perché allora Mosè ordinò

di dare il libretto di ripudio

e di ripudiarla?8 Dice loro:

Mosè per la durezza del vostro cuore

vi permise di ripudiare le vostre donne;

ma da principio non fu così.

9 Vi dico che se uno ripudia la sua donna,

eccetto il caso di fornicazione,

e ne sposa un’altra,

commette adulterio.10 Gli dicono i discepoli:

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Se è questa la situazione dell’uomo con la donna,

non conviene sposarsi.11 Ora dice loro:

Non tutti capiscono questa parola,

ma coloro ai quali è dato.

12 Ci sono infatti eunuchi

che sono nati così dal ventre della madre,

ci sono eunuchi

che sono stati fatti eunuchi dagli uomini,

e ci sono eunuchi

che si sono resi eunuchi per il regno dei cieli.

Chi può capire,

capisca.

1. Messaggio nel contesto

“Colui che creò, da principio maschio e femmina li fece”. Il progetto originario della creazione contempla l’unione tra i due come immagine e somiglianza di Dio, che è distinzione e unità di amore.

Nel c.19 si tratta dei tre beni fondamentali della persona umana: il partner (vv. 1-12), i bambini (vv. 13-15) e i beni materiali (vv. 16-30). La comunità, fatta di piccoli, perduti e peccatori, perdonati e perdonanti - che ha al suo centro il bambino e Gesù (18,2.20) -, vive il rapporto con l’altro diverso da sé, con l’Altro in sé e con il resto non come rapina e possesso, ma come dono e comunione. Gesù ci offre ciò che “era da principio”, e che rende possibile vivere ora da figli e da fratelli, come descritto al c.18.

In questo brano si parla della sessualità umana. Essa non è per la semplice conservazione della specie, come per l’animale. Non è un istinto alla cui soddisfazione è connesso un piacere. È invece l’ambito della libera realizzazione della persona come relazione di amore e appartenenza vicendevole, che fa sì che uno diventi la vita dell’altro e si possa trasmettere una vita sensata ad altri.

La sessualità indica l’insufficienza radicale dell’uomo nei confronti della vita: il limite di un sesso è rimando all’altro, diverso. Questa alterità può essere vissuta come minaccia e aggressione, in difesa e in attacco, o come attrazione e cura, in comunione e dono reciproco. Nel primo caso c’è la distruzione della vita; nel secondo la divinizzazione dell’uomo. Nel rapporto con l’altro, diverso da sé, si riflette e concreta il rapporto stesso con il primo Altro e diverso, con il Santo.

Nella cultura antica la donna era considerata possesso dell’uomo. Così era di fatto anche in Israele, nonostante Gen 1,27 e Gen 2,18-25, che prospettano ben altra cosa. Infatti, se non “da principio”, subito dopo intervenne il peccato, che alterò il rapporto che ognuno ha con l’Altro, guastando ogni altro rapporto (cf. Gen 3,1ss). Tuttavia la coppia è sempre rimasta un’alleanza tra due che sta a principio della società e della trasmissione della vita.

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La coppia monogamica è frutto di evoluzione culturale, possibile come libera scelta d’amore: due estranei lasciano padre e madre per formare tra loro un’intimità più grande di ogni vincolo. L’amore, che riporta all’unità l’estraneità, è un “grande mistero” (Ef 5,32), un fatto divino! Ma proprio l’amore, sorgente di ogni desiderio e promessa di ogni gioia, sta all’origine di tante paure e pene. Constatiamo un’incapacità ereditaria di amare, che ci viene dal trauma di non essere stati adeguatamente amati dalla coppia di origine. La relazione di coppia è determinante per il bene e il male della società umana: nella famiglia vengono al pettine i nodi e le contraddizioni di tutti i tipi.

La fedeltà indissolubile nel matrimonio che Gesù propone non è da intendere come legge, ma come vangelo. Lui è il Dio che salva, e risana in radice il nostro male che è la chiusura egoistica in noi stessi e la non accettazione dell’altro.

La proibizione del divorzio e le affermazioni di principio non servono molto per vivere bene il matrimonio. È necessaria una formazione che ne faccia scoprire la bellezza e le difficoltà, unita a una determinazione nel creare condizioni adatte alla vita di coppia in una società sempre più complessa e frammentata, che tende a dividere più che a unire. Normalmente uno condivide più tempo, raggiungendo più familiarità, con altre persone di sesso diverso che con il proprio partner. Nessun divieto può tenere insieme una coppia; solo una libertà educata ad amare e affrontare le difficoltà è in grado di realizzare il disegno originario di Dio.

Il matrimonio, oggi, non è né migliore né peggiore di una volta - quando era tenuto assieme da leggi repressive e le notizie negative erano amplificate solo dal pettegolezzo e non dai mass-media. Oggi, con una maggior libertà, il matrimonio può diventare ciò che veramente è: dono d’amore reciproco e fedele tra uomo e donna, riflesso in terra del “mistero grande” di Dio (Ef 5,32). Ciò che più impressiona non è il numero di matrimoni che falliscono, quanto la sfiducia che il matrimonio possa riuscire. Si tende a mettersi insieme con la prospettiva di stare in compagnia fin che va e di lasciarsi quando non va più. Il che significa stravolgere l’amore nel suo contrario, riducendolo a convenienza propria. I limiti reciproci non sono più luogo di accettazione e comunione, ma di rifiuto e divisione.

La proposta di Gesù punta in alto. La relazione di coppia è rivelazione e partecipazione alla vita di Dio. Dal punto di vista pastorale è necessario oggi più che mai educare all’amore coniugale e cercare le condizioni concrete che lo favoriscono. In caso di fallimento - l’uomo è sempre peccatore !- con il perdono e la misericordia bisogna fare del male il luogo di conoscenza ed esperienza più profonda di Dio.

In questo testo, oltre il matrimonio, si considera anche il celibato per il regno, che è un’altra via per realizzare l’unico amore, che è Dio. È lui il nostro vero partner, la nostra altra parte. Il comandamento primo infatti è quello di amare il Signore con tutto ciò che abbiamo e siamo (22,37; cf. Dt 6,5ss).

Il celibato, come alternativa al matrimonio, è una via eccellente. Ma si tratta di un carisma, che è dato a qualcuno per testimoniare a tutti ciò che appaga il cuore di ciascuno: è l’anticipo della vita futura, dove non si prende né moglie né marito (22,30).

Dopo l’introduzione (vv. 1-2), c’è la discussione sul divorzio e la posizione di Gesù che restituisce il matrimonio al suo stato originario (vv. 3-9). Conclude la proposta del celibato, per coloro ai quali è dato (vv. 10-12).

Gesù è colui nel quale divinità e umanità sono indissolubilmente unite, in una sola carne. È il mistero stesso di Dio che si offre a ogni uomo. In lui è possibile vivere con fedeltà l’amore per l’Altro, sia direttamente sia per mezzo di un altro, secondo che a ciascuno è dato.

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La Chiesa è quella parte di umanità che, in Cristo, si riconosce come l’altra parte di Dio, il suo partner che l’ha amata e ha dato se stesso per lei, l’ha purificata e unita a sé, perché viva la sua stessa vita (cf. Ef 5,25-33).

2. Lettura del testo

v. 1: E, avendo Gesù compiute queste parole. In Matteo questa formula segna il finale di ogni discorso e l’inizio della parte narrativa, nella quale si racconta come Gesù realizza la parola appena detta.

si trasferì dalla Galilea, ecc. È l’inizio del cammino verso Gerusalemme. Per evitare la Samaria, va oltre il Giordano, per riattraversarlo a Gerico, prima della salita alla città santa.

v. 2: lo seguirono molte folle, ecc. Il suo cammino è seguito da molte folle, delle cui malattie si prende cura.

v. 3: gli si avvicinarono dei farisei per tentarlo. La loro domanda è mossa dallo spirito cattivo, non dalla ricerca della verità.

è lecito a un uomo ripudiare la sua donna per qualsiasi causa? Dt 24,1 concede il divorzio a un marito che non ama più la sua donna perché ha trovato in lei “qualcosa di vergognoso”. La formula è molto vaga, e lascia adito a interpretazioni diverse. Per Hillel, piuttosto lassista, si poteva divorziare per qualsiasi causa: bastava una mancanza di rispetto o di soggezione della moglie. Per Shammai, rigorista, si poteva divorziare solo in caso di adulterio. Con quale dei due si schiererà Gesù?

v. 4: colui che creò, da principio maschio e femmina li fece. Gesù pone la questione a un altro livello, quello del disegno originario di Dio sul matrimonio. Egli creò l’uomo maschio e femmina, a sua immagine e somiglianza (Gen 1,27). La sessualità è vista come relazione d’amore con l’altro diverso da sé, da cui uno riceve la propria identità.

Il rapporto maschio/femmina è segno del rapporto Dio/uomo. È interessante il racconto di Gen 2,18ss, dove Eva è tratta dal fianco di Adamo addormentato. Ad esso allude Gv 19,34 quando dal fianco squarciato del nuovo Adamo addormentato nasce l’umanità nuova, sua sposa. Come ogni animale nasce dalla femmina, così ogni persona nasce come tale dalla ferita del cuore che lo ama, lo concepisce, lo genera e lo fa vivere.

v. 5: l’uomo abbandonerà il padre e la madre, ecc. (Gen 2,24). È una traccia di matriarcato nella tradizione più antica di Israele: l’uomo lasciava la sua famiglia per aderire a quella della moglie. Nel rapporto di coppia una persona estranea diviene più intrinseca del padre e della madre. Da questi ci si distacca, al partner ci si attacca, come alla propria altra metà. Padre e madre sono all’origine di un’esistenza nuova, che viene da una coppia e va a formare un’altra coppia, capace di essere a sua volta madre o padre. Ogni persona viene da due che sono diventati “uno” ed è destinata a diventare “uno” col suo partner: la vita viene dall’amore e si mantiene per l’amore che fa di due uno.

v. 6: non sono più due, ma una carne sola (Gen 2,24). L’indissolubilità è un dato “fisico” dell’amore, che fa di due uno. E dividere è uccidere! Rompere l’unione d’amore è distruggere il principio e il fine della vita.

ciò che dunque Dio congiunse, uomo non separi. Nell’unione d’amore tra due di sesso diverso il Creatore pone il suo sigillo divino sulla creazione. Questa unità è la realizzazione dell’opera di Dio, che è amore e dono. La comunione è l’albero della vita; la separazione quello della morte. Ma quale unione è fatta da Dio e in Dio, e quale no? Sembra che

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molti matrimoni, per leggerezza o incapacità, intrinseca o “ambientale”, non siano congiunti da Dio!

v. 7: Mosè ordinò di dare, ecc. La prescrizione di Mosè (Dt 24,1ss) non rappresenta la volontà di Dio, ma una concessione. La legge non solo prescrive il bene; regola anche il male, per limitarne i danni a tutela del più debole. Una legislazione sul divorzio, come sull’aborto, non dice che il divorzio e l’aborto siano leciti, tantomeno buoni. La legge riconosce realisticamente che il male c’è, ed è buona nella misura in cui ne contiene gli effetti negativi.

v. 8: Mosè per la durezza del vostro cuore vi permise, ecc. Il divorzio non è una “missio”, ma una “per-missio”, una perversione della missione originaria, concessa a certe condizioni per limitarne i danni. La causa di questa “permissio” è la nostra durezza di cuore. La legge regola il male, ma non trasforma il male in bene.

Gesù si pone a un altro livello rispetto a Mosè. Va oltre la prospettiva della legge, per offrire il vangelo. Per lui il male diventa l’occasione per un bene maggiore, che è la misericordia e il perdono. Tutto il c.18, sulla comunità, parla di questo. Ciò vale a maggior ragione per la coppia, nucleo originario della comunità. Dopo il peccato, solo nella misericordia e nel perdono si può realizzare ciò che era “al principio”. Solo questa giustizia “eccessiva” dà accesso al regno (5,20).

v. 9: se uno ripudia la sua donna, eccetto il caso di fornicazione, e ne sposa un’altra, ecc. (cf. 5,32). Il testo di Matteo, come tutta la Bibbia, riflette la cultura maschilista della sua epoca. È chiaro che il discorso vale anche al femminile.

È un versetto difficile da interpretare. Cosa significa “fornicazione?”. Se, come nella Bibbia C.E.I., significa “concubinato”, tutto è chiaro e coerente. Così anche se indica quelle unioni fra consanguinei, usuali tra i pagani e illecite per Lv 18,6-18. Se fornicazione significa “adulterio”, Gesù sarebbe dell’opinione di Shannai e contro Hillel, e non si capirebbe il “Ma io vi dico” di 5,32, che contiene il detto parallelo, né la reazione immediata dei discepoli, che dicono che a queste condizioni non conviene sposarsi.

Gesù e la Chiesa primitiva proponevano la “santità” del matrimonio come era al principio, prima del peccato. Si può al massimo ripudiare la moglie adultera, perché ha profanato la santità del matrimonio, ma non si può passare a nuove nozze.

Il matrimonio è visto come l’alleanza tra Dio, sempre fedele, e il suo popolo. Chi tradisce il matrimonio, rompe la santità dell’alleanza. Ma Dio, anche se tradito, resta fedele oltre ogni tradimento. E noi siamo abilitati ad essere come lui.

Gesù ci toglie il cuore di pietra e ci dona un cuore nuovo: ci dà il suo Spirito, perché possiamo vivere la sua legge di amore (Ez 36,26s).

La condanna del divorzio è da intendere alla luce di tutto il messaggio evangelico, che fa di ogni male e fallimento umano il luogo della misericordia e del perdono. Se di fatto c’è una rottura del matrimonio, bisogna trovare soluzioni pratiche che non intacchino il principio, ma che aiutino l’uomo a viverlo come può, da peccatore com’è, senza spegnere il lucignolo fumigante.

Già nella Chiesa antica è attestato il permesso di divorziare dalla moglie adultera e di risposarsi, come ancora adesso fa la Chiesa d’oriente e fanno le chiese non cattoliche d’occidente. Inoltre i divorziati risposati, dopo congrua penitenza, erano riammessi alla comunione mantenendo il nuovo coniuge (cf. G. Cereti, Divorzio, nuove nozze e penitenza nella Chiesa primitiva, Bologna 1998). Ogni affermazione evangelica va letta

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nel contesto del Vangelo, e non come lettera che uccide; diversamente resta un velo che impedisce di comprenderla (cf. 2Cor 3,14-16).

Il “Privilegio paolino” di 1Cor 7,12ss (scioglimento di un matrimonio contratto prima del battesimo), il “Privilegio petrino” (scioglimento da parte del Papa di un matrimonio tra un battezzato e un non battezzato), come pure le varie cause per dichiarare nullo un matrimonio tra credenti, indicano come la pratica dell’indissolubilità del matrimonio non è un capestro. Anche se non si deve mettere in discussione ciò che era “da principio”, si deve tener presente che il principio di tutto è l’eterna misericordia di Dio per chi è fragile e peccatore.

L’indissolubilità del matrimonio è incomprensibile come legge - l’hanno capito anche i discepoli (cf. v. 10). È invece quel dono di un amore fedele che perdona, il quale costituisce l’essenza stessa del vangelo.

Nella nostra società complessa con tendenza “diabolica” (= che divide) e che rischia la “perdita di umanità”, è da chiedersi e ricercare con cura come vivere un matrimonio evangelicamente significativo e come ci si debba comportare nei numerosi casi di naufragio. È chiaro che chi ha sbagliato, e riconosce con umiltà il suo errore, non può essere escluso dalla comunità. È piuttosto questa che deve crescere per accogliere chiunque soffre.

v. 10: se è questa la situazione con la donna, non conviene sposarsi. I discepoli hanno capito che Gesù non ammette il divorzio. Non hanno però capito la proposta positiva che fa del matrimonio.

v. 11: non tutti capiscono questa parola. Capire (in greco: choréo) significa “fare spazio”. Non tutti hanno lo spazio, la libertà interiore necessaria per capire che può non valere la pena sposarsi. Ma non per il motivo inteso dai discepoli, bensì per uno più profondo e bello. È quello per cui Paolo vorrebbe che tutti fossero celibi come lui (1Cor 7,7ss): per occuparsi con cuore indiviso di piacere al Signore ed essere uniti a lui senza distrazioni (1Cor 7,32-35). In questo “breve tempo” siamo chiamati a testimoniare l’amore per lo sposo che viene: “Maranà tha: vieni, o Signore” (1Cor 16,22).

Lo stesso amore che uno testimonia mediante la fedeltà e l’appartenenza a un partner, si può vivere e testimoniare in modo diretto e assoluto nel celibato. Comunque, celibi o sposati, siamo chiamati tutti ad amare il Signore.

ma coloro ai quali è dato. Il celibato per il regno non è una legge, ma un dono - un carisma personale a servizio della comunità. È una scelta che può fare liberamente solo chi è stato liberamente scelto dal Signore: è una risposta a una proposta d’amore, e non deve essere imposto a nessuno, né direttamente né indirettamente.

v.12: ci sono eunuchi ecc. Origene, dopo aver applicato alla lettera questo versetto, capì meglio il valore dell’interpretazione allegorica! C’è chi non può sposarsi perché sessualmente incapace dalla nascita. C’è chi non potrà sposarsi perché condizionamenti profondi o circostanze avverse glielo impediscono (oggi capita sempre più spesso). C’è chi non si sposa per libera scelta d’amore. Questo “eunuco per il regno” mostra ad ogni eunuco che può vivere la sua situazione di povertà come rivelazione di grazia, di scelta per il Signore. Allo stesso modo mostra ad ogni sposato che è chiamato a scegliere anche lui il Signore.

Matrimonio e celibato testimoniano lo stesso amore, ma per due vie diverse: con o senza la mediazione di un partner, secondo il diverso dono di Dio. Infatti la vera altra parte dell’uomo è sempre e comunque l’Altro.

chi può capire, capisca. Lo “spazio” per comprendere il celibato non c’è in tutti: è la padronanza di sé e delle proprie passioni, di chi è arbitro della propria volontà (1Cor 7,37). Ognuno ha un dono diverso dall’altro.

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3. Pregare il testo

a. entro in preghiera come al solito.b. mi raccolgo immaginando Gesù che va dalla Galilea a Gerusalemme.c. chiedo ciò che voglio: capire il senso della fedeltà nel matrimonio e il

dono del celibato, se mi è dato.d. traendone frutto medito sul testo.

Da notare: è lecito a un uomo ripudiare la propria donna? colui che creò, da principio maschio e femmina li fece i due saranno una carne sola ciò che Dio congiunse, uomo non separi la durezza di cuore non vale la pena di sposarsi eunuchi per nascita, eunuchi per crescita (mancata), eunuchi per

il regno chi può, capisca.

4. Testi utili

Sal 45; Gen 1,27; 2,18-25; Os 1-2; Cantico dei Cantici; Ez 16; Is 62; Ef 5,25-33; 1Cor 7; Ap 21-22.

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79. DI QUESTI È IL REGNO DEI CIELI19,13-15

19,13 Allora furono portati a lui dei bambiniperché imponesse loro le manie pregasse.

Ma i discepoli li minacciarono.14 Ora Gesù disse:

Lasciate i bambinie non impedite lorodi venire a me;perché di questi è il regno dei cieli.

15 E, imposte loro le mani,andò via di là.

1. Messaggio nel contesto

“Di questi è il regno dei cieli”, dice Gesù dei bambini che vengono da lui. Tutto il c.18, che parla della comunità, si svolge nella casa dove lui sta con i suoi discepoli. Al centro ha posto lui stesso un bambino con il quale si identifica (18,1-5). Questo brano è un richiamo dell’episodio; ne è una ripetizione, fatta a poca distanza.

Si è tentati di sorvolarla con un “già visto”, “niente di nuovo”. La ripetizione invece è una sottolineatura, un sostare voluto sull’argomento, di particolare significato. Quanto è già detto deve penetrare, trapassare il cuore ed essere ribadito, perché non ne esca mai più.

Qui si ribadisce che il regno dei cieli è dei bambini: invece di impedirne l’accesso a Gesù, bisogna diventare come loro per accedere a lui.

Dopo aver parlato di matrimonio, si parla di bambini. Non solo perché dal matrimonio nascono i figli, ma anche perché il riconoscersi figli rende possibile diventare madre/padre. Infatti chi non accetta di essere figlio, non ha la propria identità, ed è incapace di relazioni.

In questo brano si dice del rapporto che l’uomo ha con il “primo Altro”, con Dio, e quindi con se stesso come suo figlio – presupposto di un corretto rapporto con gli altri e con le cose.

Il breve racconto ha fatto da supporto teologico alla pratica del battesimo dei bambini. Non è chiaro se già in Matteo fosse questo il senso del testo. Certamente è una suggestione sul significato profondo del battesimo che ci fa figli, e rende possibile la comunità di fratelli.

Questa scena ripropone la centralità del bambino all’interno della vita nuova del credente. Colui che nella tradizione giudaica ed ellenistica era considerato una semplice appendice della donna – a sua volta possesso del maschio – sta al centro della fede cristiana. È il Signore stesso. La sapienza del Figlio - il mistero che Dio è Padre!- è nascosta ai sapienti e agli intelligenti, ma è rivelata agli infanti. A questi il Figlio fa fiorire sulle labbra la Parola, il grido che esprime il Padre e genera il Figlio nell’unico amore: “Abbà” (cf. 11,25-27).

Nel bambino si manifesta l’essenza dell’uomo: egli esiste in quanto accolto e amato, e diventa adulto quando accetta di essere accolto e amato nella sua piccolezza. Solo allora sa accogliere ed amare i piccoli: è figlio e si fa fratello!

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Il brano, parallelo a Mc 10,13-16, è incorniciato dal gesto importante dell’“imporre le mani” da parte di Gesù sui piccoli.

Gesù è il più piccolo tra tutti: è il Figlio che acconsente al dono del Padre ed è dono ai fratelli. Egli è il “sì”, l’Amen di Dio rivolto agli uomini (2Cor 1,20).

La Chiesa è fatta dai suoi fratelli che, come lui, sono dei piccoli che amano e accolgono come sono amati e accolti.

2. Lettura del testo

v. 13: Allora furono portati a lui. Non si dice da chi. Ovviamente non dai discepoli, ma dalle madri. O forse addirittura dal Padre (passivo divino?), che desidera che i suoi figli siano con il Figlio?

dei bambini. Non si tratta di ragazzi (paîs) ma di piccoli (paidíon), sotto i sette anni. Non fanno parte della comunità, perché ancora non sono in grado di conoscere e osservare la Parola. Non avrebbero la facoltà di intendere e di volere, si dice. Sarebbero una “tabula rasa”, sulla quale si scriverà a tempo opportuno ciò che si deve. Il bambino nell’antichità non era al centro dell’attenzione come lo è per noi. Che contava era il maschio adulto, al cui servizio era la donna; il bambino ne avrebbe continuato il nome.

perché imponesse loro le mani. Si imponevano le mani sulla testa della vittima sacrificale (Lv 1,4); Mosè le impose su Giosuè per trasmettergli il suo spirito di saggezza e la sua autorità (Dt 34,9); Israele pose le mani su Efraim e Manasse per benedirli (Gen 48,14-19). La mano indica il potere: è simbolo regale, di colui che può! Imporre le mani è segno di trasmissione di ciò che si è: induce continuità e identificazione tra sé e l’altro.

Gesù trasmette ai bambini la sua benedizione di Figlio, il suo Spirito. Forse è un’allusione al battesimo. Certamente indica il diritto che i bambini hanno di partecipare all’assemblea dei figli di Dio, alla quale tutti apparteniamo per grazia e non per merito. Il battesimo dei bambini sottolinea l’aspetto di dono, quello degli adulti a sua volta ne evidenzia la responsabilità che ne consegue. La “confermazione” ha per noi questo senso: l’adulto conferma, coscientemente e liberamente, il suo impegno a vivere il pegno che nel battesimo ha ricevuto. Il diventare adulti non è altro che riconoscere la “grazia” del nostro essere piccoli: siamo figli che vivono dell’amore gratuito del Padre.

La “piccola via”, l’infanzia spirituale di S. Teresa di Gesù Bambino, dottoressa della Chiesa, è una intuizione potentemente evangelica in un’epoca di positivismo razionalistico.

e pregasse. Che preghiera avrà fatto con loro e per loro se non la sua stessa di Figlio, che dice sì al Padre e ai fratelli (cf. 11,25ss)?

i discepoli li minacciarono. Minacciare o sgridare è la stessa parola usata negli esorcismi per indicare ciò che Gesù fa con i demoni. Esce anche nello scontro con Pietro (16,22; cf. Mc 8,32.33). Secondo i discepoli i bambini non possono aver parte con loro, perché non solo disturbano, ma anche non possono né capire né osservare la Parola. Solamente a tredici

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anni, dopo un apprendistato riservato a loro, possono diventare “bar-mizwà”, figli del precetto.

v. 14: Gesù disse. Marco 10,14 sottolinea che Gesù “si adirò”. L’atteggiamento dei discepoli suscita in lui uno sdegno analogo a quello che provò davanti alla durezza di cuore di chi lo vuol uccidere (Mc 3,5s). Ciò che facciamo a uno di questi piccoli, in realtà lo facciamo a lui (25,40.45). Se i piccoli disturbano, sappiano i discepoli che a lui dà fastidio il loro atteggiamento, non quello dei bambini.

lasciate i bambini e non impedite loro. I bambini non vanno impediti. Queste parole di Gesù sono da intendere contro chi vuol “impedire” loro il battesimo (cf. At 8, 36; 10,47; 11,17)?

venire a me. “Venite a me” (11,28), dice Gesù a tutti, invitandoli al banchetto della sapienza del Figlio, riservato ai piccoli (11,25-27). Non solo non dobbiamo impedire ai piccoli l’accesso al Signore, ma dobbiamo diventare e fare come loro. Solo così accogliamo il suo giogo leggero e soave, siamo liberi dalle fatiche e dall’oppressione della legge, giungiamo all’eredità piena dei figli (11,28-30).

di questi è il regno dei cieli. In 11,25-27 Gesù dice che la sapienza del Figlio – la conoscenza del Padre – è rivelata agli infanti. In 18,3 dice di convertirsi e diventare come bambini per entrare nel regno. Ora dice che il regno è dei bambini. A differenza degli adulti, che sono anche sposi, padri e madri, e fanno tante cose, i bambini sono solo figli, e tutto ricevono. Il regno è loro, proprio perché il regno del Padre sono i figli, i suoi piccoli.

Il bambino vive in quanto riconosciuto, accolto ed amato. Non è vero che il bambino non può aver fede. Al contrario: vive di fiducia assoluta nell’amore di chi lo accoglie. Se resta deluso in questa, non può vivere, se non male. Ognuno di noi respira nella misura in cui la sua fiducia è corrisposta da un sorriso materno, che non delude. L’uomo è bisogno assoluto di fiducia, perché cosciente di essere “relativo”. E uno non può essere relativo al nulla, ma a Dio, suo partner: diversamente è dal nulla, per il nulla, ed è nulla! La coscienza di essere relativi è il nostro marchio divino: il desiderio di assoluto.

Si dice che il bambino non usa la ragione e quindi non può credere in Dio (la fede è assenso razionale!). Al contrario: ha sempre ragione, e vive di pura fede. L’uomo diventa adulto quando accoglie il bambino che è anche in lui, che è lui – che è il Figlio stesso. Allora conosce se stesso come è conosciuto (1Cor 13,12). Il figlio esiste in quanto termine di dono gratuito; solo così è se stesso, libero e capace di volersi bene e di voler bene. Chi è di nessuno, non amato né accettato, si sente in colpa di vivere; schiavo della mancata accettazione, è in lotta perenne con sé e con tutti. La dignità dell’uomo è quella di Gesù, il Figlio, che dice di ognuno di noi al Padre: “Li hai amati come hai amato me” (Gv 17,23).

Il bambino vive spontaneamente ciò che l’adulto dovrà realizzare liberamente.

Il nostro rapporto con l’altro e con il mondo dipende dal nostro rapporto con l’Altro e con noi stessi. Se l’Altro è Madre/Padre, noi abbiamo la nostra identità di figli. Se non accettiamo questa, rifiutiamo noi stessi, e avremo un rapporto di rapina con madre e padre, con il partner e col mondo intero. Da amore, dono e comunione, tutto diventa egoismo, possesso e morte.

v. 15: imposte loro le mani. I bambini hanno lo stesso potere di Gesù (cf. 18,59), che in loro si rispecchia nella propria realtà di Figlio.

andò via di là. Gesù sta andando dalla Galilea a Gerusalemme (19,1), dove compirà la sua missione di Figlio, facendosi ultimo e servo di tutti.

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3. Pregare il testo

a. entro in preghiera come al solito.b. mi raccolgo immaginando Gesù in cammino verso Gerusalemme.c. chiedo ciò che voglio: avere lo “Spirito del Figlio”, diventare bambino.d. traendone frutto, contemplo la scena.

Da notare: furono portati a lui dei bambini impose loro le mani i discepoli li minacciarono lasciate i bambini non impedite loro di venire a me di questi è il regno dei cieli.

4. Testi utili

Sal 8; 131; Mc 10,13-16; Mt 6, 25-34; 11,25-30; 18,1-7; Gv 3,1-17; Gal 4,1-7; Rm 8,14-17; 1 Pt 2,1-3.

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80. VA’, VENDI CIÒ CHE HAI E DA’ AI POVERIE AVRAI UN TESORO NEI CIELI,

E VIENI, SEGUI ME19,16-30

19,16 Ed ecco uno che, avvicinatosi, gli disse:Maestro,che farò di buonoper avere la vita eterna?

17 Ora disse a lui:Perché mi chiedi circa ciò che è buono?Uno solo è buono!Se vuoi entrare nella vita,osserva i comandamenti!

18 Gli dice:Quali?

Ora Gesù disse:Non uccidere,non commettere adulterio,non rubare,non testimoniare il falso,

19 onora il padre e la madree ama il tuo prossimo come te stesso.

20 Gli dice il giovane:Tutto queste cose le ho custodite. Cosa ancora mi manca?

21 Gli disse Gesù:Se vuoi essere perfetto,va’, vendi ciò che haie da’ ai poveri,e avrai un tesoro nei cieli;e vieni, segui me!

22 Ora il giovane, udita la parola,se ne andò triste;aveva infatti molti beni.

23 Ora Gesù disse ai suoi discepoli:Amen vi dico,che un ricco difficilmente entrerà nel regno dei

cieli.24 Di nuovo vi dico,

è più facile che un cammello passi per la cruna di un agoche un ricco entri nel regno di Dio.

25 Ora, udito, i discepoli furono molto scossi,dicendo:

Chi dunque può salvarsi? 26 Ora, guardando dentro,

Gesù disse loro:Presso gli uomini questo è impossibile,ma presso Dio tutto è possibile!

27 Allora, rispondendo, Pietro gli disse:Ecco, noi lasciammo ogni cosae ti seguimmo;

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che sarà dunque di noi? 28 Ora Gesù disse loro:

Amen, vi dico,voi che mi avete seguito,nella nuova creazione,quando il Figlio dell’uomo sederàsul trono della sua gloria,sederete anche voi su dodici troniper giudicare le dodici tribù d’Israele.

29 E chiunque avrà lasciatocase, fratelli e sorellee padre e madre e figli e campia causa del mio nome,riceverà il centuploed erediterà la vita eterna. Ora molti primi saranno ultimi,

30 e ultimi, primi.

1. Messaggio nel contesto

“Va’, vendi ciò che hai e da’ ai poveri, e avrai un tesoro nei cieli; e vieni, segui me!”. È la proposta di Gesù a chi gli chiede “che fare per avere la vita eterna”. È una proposta oltre la giustizia; realizza quella “giustizia eccessiva” che introduce nel regno (5,20). È rivolta a ogni uomo, chiamato ad essere discepolo di Gesù, Figlio perfetto come il Padre (5,48).

Per un figlio i beni sono dono del padre da condividere con i fratelli. Chi li accumula rende se stesso schiavo dell’egoismo e i fratelli schiavi della miseria. Libero è colui che è capace di usarli a servizio degli altri.

L’attaccamento ai beni è il grande inganno, la seduzione che soffoca la Parola (13,22). La brama di ricchezze è principio di tutti i mali (cf. 1Tm 6,10), vera idolatria (Ef 5,5; Col 3,5), che esclude dal regno, che è per i “poveri in spirito” (5,3).

Gesù ci offre di vivere come “da principio” non solo il rapporto con l’altro e con noi stessi, ma anche con i beni del mondo. Questi non sono il fine a cui sacrificare la vita propria e altrui, ma il mezzo da usare “tanto-quanto” serve per vivere da figli e da fratelli, con piena libertà, senza lasciarci condizionare. Ciò che teniamo in proprio, ci divide dagli altri; ciò che doniamo, ci unisce. I beni materiali sono quindi benedizione e vita se liberamente condivisi, maledizione e morte se compulsivamente accumulati.

Gesù ci dona di essere uomini liberi, che sanno servirsi di tutte le cose invece di servirle ed esserne asserviti come schiavi. Siamo figli, signori e non servi del creato, proprio in quanto con esso serviamo i fratelli.

“Da principio” tutto è dono. Possedere e accumulare è distruggere la radice stessa della creazione: la violenza per appropriarsi delle cose distrugge, non solo la fraternità, ma anche i beni stessi di cui viviamo. La cacciata dall’Eden, come l’esilio dalla terra promessa, è conseguenza amara del voler “rapire” ciò che è donato. Il senso dell’anno santo in Israele è ristabilire la condivisione dei beni (Lv 25, 8-17), che inevitabilmente tendono ad accumularsi nelle mani di pochi a svantaggio di tutti. Questa è la condizione “per abitare la terra” (Lv 25,18s).

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Diversamente la terra è inabitabile: diventa un deserto dove regna l’ingiustizia e la violenza dei potenti.

Nudi siamo usciti dal ventre materno; nudi torneremo alla terra (cf. Gb 1,20s). Ogni uomo, almeno alla fine, compirà il precetto del Signore di lasciare tutto e tornare bambino. Ciascuno porterà con sé il suo tesoro vero: non saranno le ricchezze possedute e accumulate, ma quelle vendute e condivise. Di queste nulla andrà perduto; tutto il resto sarà bruciato come paglia al fuoco (cf. 1Cor 3, 12-15).

Quanto Gesù dice al giovane ricco (v. 21) non è “un consiglio evangelico” per qualcuno che vuol essere più bravo: è la perfezione che il vangelo di libertà offre a tutti. Uomo perfetto, maturo e completo, è colui che concretamente vive tutto come dono ricevuto e donato. Così diventa figlio, e realizza il comando di amare gli altri con lo stesso amore con il quale Gesù lo ha amato (cf. Gv 13,34).

L’interpretazione di queste parole di Gesù ha una lunga e varia storia. L’evangelista Luca le prende alla lettera: Gesù realizza “oggi” l’anno santo (vedi il suo discorso programmatico in Lc 4,18-21). La Chiesa, dopo di lui, porta avanti la sua salvezza di Figlio, vivendo concretamente la fraternità (At 2,42-48; 4,32-35; cf. Lc 3,11; 5,11.28; 6,30; 7,5; 11,41; 12,33s; 14,13.33; 16,9; 18,22; 19,8). Ma è un gesto di libertà, al quale nessuno è costretto (cf. At 5,4!).

Origene dice ai ricchi di far parte dei beni materiali coi poveri per aver parte ai loro beni spirituali. S. Giovanni Crisostomo avvisa che la povertà interiore è necessaria, ma non sufficiente: occorre aiutare i poveri con le proprie ricchezze. S. Basilio richiama anche i padri di famiglia a disfarsi della ricchezza - intesa come il superfluo - per non andare contro il comando dell’amore, che esige una certa uguaglianza tra gli uomini. La sollecitudine per i figli non deve essere un pretesto per trascurare l’ordine del Signore!

I credenti hanno cercato di comprendere, interpretare e vivere secondo le diverse circostanze queste parole di Gesù con maggiore o minore difficoltà - sempre comunque rigettando, almeno a parole, l’amore per la ricchezza e il possesso che danneggia i fratelli.

Il “consiglio evangelico” - che diventa poi il voto di povertà dei religiosi - è valido solo nella misura in cui è inteso come segno profetico di ciò che tutti sono chiamati a vivere. I voti di povertà, castità e obbedienza sono una testimonianza radicale e visibile di quella libertà evangelica nei confronti delle cose, delle persone e di noi stessi, che tutti dobbiamo avere per amare Dio e servire i fratelli. La testimonianza radicale è però riservata a qualcuno come dono particolare. Ma non tutti capiscono questa parola: chi può capire, capisca (vv. 11s). Dio fa un dono diverso a ciascuno: “Ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro” (1Cor 7,7). Ma ogni dono è per il bene comune (1Cor 12,7), manifestazione dell’amore, che è per tutti e mai tramonterà. Non tutti faremo come Madre Teresa di Calcutta; ma nessuno di noi può trascurare di vivere, come può, quell’amore per gli ultimi che essa ha così mirabilmente testimoniato.

Per tutti la via della vita passa attraverso la povertà, l’umiltà e il servizio. Possesso e ricchezza, orgoglio e dominio sono le armi con le quali il nemico ci tiene in schiavitù. Il povero a sua volta stia attento a non avere il cuore del ricco. Oggi i mass-media propongono anche a lui un modello che gli aliena la sua vera ricchezza: quella povertà che apre al regno!

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Ciò che vale dei beni materiali, vale di ogni altro bene, intellettuale, morale e spirituale: è un dono da ricevere come figli e da donare ai fratelli, per il servizio comune.

Il brano si articola in tre parti: la necessità di essere liberi dai beni per realizzarsi (vv. 16-22); la ricchezza, reale o desiderata, non è aiuto, ma impedimento ad entrare nel regno (vv. 23-26); al discepolo è donato al presente questa libertà che gli dischiude il futuro (vv. 27-29). Per questo molti dei primi saranno ultimi e viceversa (v. 30).

Gesù è il povero, ultimo e servo di tutti, perché è il Figlio (Fil 2,6-11).

La Chiesa segue lui, diventando sale della terra e luce del mondo (5,13ss): conosce la grazia di colui che da ricco si fece povero per arricchirla con la sua povertà (2Cor 8,9).

2. Lettura del testo

v. 16: Maestro, che farò di buono per avere la vita eterna? Ogni uomo si chiede: "che fare” per ottenere la felicità che desidera? Si interroga da dove partono e dove portano le sue azioni, per indirizzarle liberamente all’obiettivo che coscientemente si propone come sua realizzazione. Non programmato dall’istinto, sa per esperienza che può fallire: la sua mente debole è facilmente ingannata, il suo cuore pavido è subito piegato alla schiavitù.

v. 17: perché mi chiedi circa ciò che è buono? Uno solo è buono! Gesù lo mette sulla strada: il suo Dio è Dio, l’unico buono, o mammona (6,24)? Dio è buono perché è amore umile e servizievole, che dà la vita. Mammona è l’idolo dell’egoismo, arrogante e schiavizzante, che dà la morte.

se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti. La vita nostra è la stessa di Dio: amare! E l’amore, più che nelle parole, sta nel condividere ciò che si ha e ciò che si è. L’amore del Padre si vive nell’amore dei fratelli, compimento della legge (cf. 22,37-40; 7,12; Rm 13,8-10).

v. 18s: non uccidere, non commettere adulterio, ecc. Gesù enumera i doveri verso il prossimo, dei quali però ha già detto che sono da vivere in modo nuovo, con il cuore del Figlio (cf. 5,21-48). Non parla dell’amore del Signore, perché ormai si realizza in pienezza nel seguire Gesù (v. 21).

v. 20: tutte queste cose le ho custodite. Questo giovane è “irreprensibile” nell’osservanza della legge, come Paolo (Fil 3,6).

cosa ancora mi manca? Per essere perfetto come il Padre, bisogna essere fratello e seguire il Figlio. Per questo gli manca la sublimità della conoscenza dell’amore del Figlio per lui (Fil 3,8). Non ha ancora il cuore nuovo, libero di amare come è amato: gli manca il passaggio dalla legge al vangelo.

v. 21: se vuoi essere perfetto. “Perfetto” significa “compiuto”. Ciò che non è compiuto non è ancora realizzato. Un’azione incompiuta, è “fallita”. La perfezione di cui parla Matteo non è quindi un consiglio, ma il passo necessario per essere davvero figli (cf. 5,48).

va’, vendi ciò che hai e da’ ai poveri I beni, fino a quando non sono condivisi coi fratelli, sono la nostra lontananza dal Padre e dal Figlio. Bisogna allontanare da sé ciò che allontana dal Dio della vita.

avrai un tesoro nei cieli. Solo così uno ha il suo cuore dove è il suo tesoro.

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e vieni, segui me! Chi si fa fratello, viene verso il Figlio e segue il suo cammino. Dare ai fratelli e seguire il Signore è il pieno compimento del comando dell’amore di Dio e del prossimo.

v. 22: il giovane se ne andò triste; aveva infatti molti beni. Per lui il suo bene sono ancora i suoi beni. Non li ha come benedizione: ne è maledettamente “avuto”. Non è ancora libero: è schiavo di mammona.

Il vangelo apocrifo degli Ebrei dice che il giovane comincia a grattarsi la testa, perché la proposta lo preoccupa. E Gesù gli dice: “Come puoi dire di osservare la legge e i profeti, se nella legge è scritto di amare il prossimo come te stesso, ed ecco, molti tuoi fratelli sono vestiti di sterco e morti di fame, mentre la tua casa è piena di molti beni, e non ne esce nulla per loro?”

v. 23: un ricco difficilmente entrerà nel regno dei cieli. Il regno è dei poveri in spirito (5,3). Per questo i ricchi difficilmente vi entrano: devono prima diventare poveri!

v. 24: è più facile che un cammello entri, ecc. Ciò che è appena stato dichiarato difficile, ora è detto impossibile. Può forse un cammello passare per la cruna di un ago?

v. 25: i discepoli furono molto scossi. Ritengono che le ricchezze siano un aiuto, non un impedimento. Sono ancora vittime dell’inganno della ricchezza (13,22): non sanno che il cuore, schiavo dell’egoismo, volge in male ogni bene. All’improvviso sono colpiti al vedere come sia impossibile la libertà che fa entrare nel regno.

chi dunque può salvarsi? Se la condizione per la felicità è questa libertà, chi la conseguirà?

v. 26: guardando dentro. Gesù entra con il suo sguardo nel cuore dei discepoli. È quell’occhio che li ha visti e sedotti fin dal principio (4,18).

presso gli uomini questo è impossibile. Gesù conferma che è vero quanto hanno capito. Nessuno è libero, nessuno può salvarsi!

ma presso Dio tutto è possibile. La liberazione della libertà dell’uomo è azione divina per eccellenza. È data a chi incontra lo sguardo del Signore Gesù, che gli risveglia nel cuore la sua verità che era fin dal principio - e che dall’inizio finì sepolta da menzogne e paure.

v. 27: allora, rispondendo, Pietro disse. Pietro scopre con sorpresa che ciò che è impossibile agli uomini, già è stato donato da Gesù ai suoi discepoli.

noi lasciammo ogni cosa e ti seguimmo (4,18-22). Come Paolo, i discepoli hanno visto in Gesù il loro Signore (Fil 3,8) il sommo bene, il tesoro nascosto della loro vita, la perla preziosa di cui andavano in ricerca (13,44ss).

che sarà a noi? Pietro è meravigliato per il dono ottenuto, e si chiede cosa mai sarà la felicità che ne consegue.

v. 28: voi che mi avete seguito, ecc. Nella nuova creazione (“palingenesi”), nel giorno senza tramonto che già ora è cominciato, i discepoli parteciperanno alla regalità, alla gloria, alla ricchezza del Figlio. I poveri regneranno per sempre con lui.

v. 29: chiunque avrà lasciato, ecc. Chi, per amore di Gesù (“nel mio nome”) ha lasciato tutto, non perde nulla: ottiene tutto, ed eredita la felicità senza fine. La pienezza del dono si manifesterà dopo; ma già ora il regno è suo (5,3). Per questo il suo futuro sarà diverso (cf. 5,4-12). Il presente rimane il luogo per decidere il passaggio dall’egoismo all’amore: è lo spazio della liberazione della nostra libertà.

v. 30: molti primi saranno ultimi, e ultimi, primi. I nostri modi di pensare e di agire sono capovolti. Il nostro giudizio è “perverso”: manca di verità. Primo non è il ricco, ma il povero, del quale è il regno (5,3).

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3. Pregare il testo

a. entro in preghiera come al solito.b. mi raccolgo immaginando Gesù che va verso Gerusalemme.c. chiedo ciò che voglio: la libertà dall’inganno della ricchezza.d. traendone frutto, contemplo la scena, immedesimandomi con il

giovane ricco e poi con Pietro.

Da notare: che farò per ereditare la vita eterna? uno solo è buono osserva i comandamenti tutto questo ho custodito, cosa ancora mi manca? va’, vendi ciò che hai e da’ ai poveri, e avrai un tesoro nei cieli e vieni, segui me se ne andò triste perché aveva molti beni un ricco difficilmente entrerà nel regno dei cieli è più facile per un cammello entrare per la cruna di un ago chi può salvarsi? presso gli uomini questo è impossibile; ma presso Dio tutto è

possibile lasciammo ogni cosa e ti seguimmo che sarà dunque di noi? i primi saranno gli ultimi, gli ultimi i primi.

4. Testi utili

Sal 49; Lv 25,8-17; Lc 12,13-21; 16,1-13; 19,1-10; At 2,42-48; 4,32-37; Fil 3,1ss; Gc 5,1-11.

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81. IL TUO OCCHIO È CATTIVOPERCHÉ IO SONO BUONO?20,1-16

20,1 Infatti il regno dei cieli è similea un uomo, un padrone di casa,che uscì all’albaper assoldare operaiper la propria vigna.

2 Accordatosi con gli operai per un denaro al giorno,li mandò alla sua vigna.

3 E, uscito all’ora terza,vide altri che stavano sulla piazza inoperosi.

4 E disse a costoro:Andate anche voi alla vigna,e vi darò ciò che sarà giusto.

5 Essi andarono. Di nuovo, uscito alla sesta e alla nona ora,fece altrettanto.

6 Uscito circa l’ora undicesima,trovò altri che stavano lì,e dice loro:

7 Gli dicono:Perché nessuno ci ha assoldati.

Dice loro:Andate anche voi nella vigna!

8 Ora, venuta la sera,dice il signore della vigna al suo procuratore:

Chiama gli operaie da’ loro la paga,cominciando dagli ultimi, fino ai primi.

9 E, venuti quelli dell’undicesima ora,ricevettero un danaro ciascuno.

10 E, venuti i primi,pensarono che avrebbero ricevuto di più,e ricevettero un denaro ciascuno anche loro.

11 Ora, ricevendolo,brontolavano contro il padrone di casa

12 dicendo:Questi ultimi fecero un’ora sola,e li facesti pari a noiche abbiamo portato il peso della giornata e la calura!

13 Ora egli, rispondendo a uno di loro,disse:

Amico, non ti faccio ingiustizia:non hai forse concordato con me per un danaro?

14 Prendi il tuo e vattene! Ora voglio dare a questo ultimocome anche a te.

15 Non mi è lecitofare ciò che voglio delle mie cose?O il tuo occhio è cattivo

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perché io sono buono? 16 Così gli ultimi saranno primi,

e i primi ultimi.

1. Messaggio nel contesto

“Il tuo occhio è cattivo perché io sono buono?”, chiede a quelli che vorrebbero essere primi, colui che presta attenzione agli ultimi.

I primi sono ultimi e gli ultimi primi anche nei beni spirituali. Chi lascia tutto per lavorare nella vigna, come Pietro e compagni, riceve una grande ricompensa, come appena detto (19,27-29). Questa parabola ci mostra che essa è un dono di grazia accordato a tutti, cominciando dagli ultimi arrivati. Il Signore, il solo buono (19,17), fa alla perfezione ciò che dice al giovane ricco: dà tutto ciò che è suo ai poveri (v. 21).

La vigna è il popolo, chiamato a portare i frutti del regno, che sono l’amore di Dio e del prossimo. Il Signore esce di continuo, a tutte le ore, per chiamarci e richiamarci. Tutta la nostra giornata - la storia di ogni singolo e di tutti - non è che una chiamata costante a fare frutto.

Questa parabola distrugge alla radice la logica del possesso e della pretesa: nessuno può vantare titoli di credito per ciò che è puro dono di grazia.

I primi chiamati, sia in Israele che nella Chiesa, sono come Giona: si incupiscono nel vedere che Dio è “misericordioso, clemente, longanime e di grande amore” (Gn 4,2). Sono attaccati ai loro beni spirituali, come il giovane ricco a quelli materiali. Sono simili a Paolo, che si gloriava della sua irreprensibilità nella giustizia della legge (Fil 3,3-6); sono come il fratello maggiore, che si adira nel vedere che il Padre è buono con il fratello minore (Lc 15,28).

Questa parabola è un vangelo “in nuce”, simile a Luca 15,1ss. È in contrasto con l’etica del capitalismo, materiale o spirituale che sia. Non è contro la legge o la giustizia - agli operai della prima ora è dato quanto è giusto -; accentua però la grazia. La legge e la giustizia di Dio è quella dell’amore e della liberalità; la sua retribuzione eccede ogni merito: è un premio, dato per misericordia a tutti.

I primi chiamati al lavoro nella vigna rischiano di rifiutare il Signore, perché è magnanimo verso gli ultimi. Per tutti la salvezza è l’amore gratuito del Padre. Non si può rapirlo con astuzia o guadagnarlo con sudore: è grazia.

La vita eterna, che il giovane ricco vuole avere (19,16), si può ottenere non facendo qualcosa di più, ma lasciando tutto. Bisogna lasciare, oltre i beni materiali, anche quelli spirituali. Il regno è dei poveri in spirito (5,3), di chi è diventato come un bambino e lo accoglie come dono del Padre ai figli nel Figlio. Il privilegio dei piccoli e degli ultimi è che, non meritandolo, capiscono che è un dono. Gli altri - i ricchi in spirito - lo accoglieranno solo se, a differenza del fratello maggiore, accetteranno il minore; solo se, a differenza di chi ha lavorato dall’alba, saranno contenti che i loro fratelli dell’ultima ora, abbiano il loro stesso stipendio di figli.

Questa parabola, insieme a quella dell’amministratore di Lc 16,1ss, è anche più irritante di Lc 15,1ss perché usa un linguaggio economico: è una stoccata al nostro modo mercantilistico di concepire l’amore.

Il brano si divide in due parti: ci sono cinque diverse chiamate dall’alba fino a un’ora prima del tramonto (vv. 1-7): al calar del sole c’è la ricompensa, cominciando dagli ultimi che ricevono lo stesso compenso pattuito con i primi, che, ovviamente, si lamentano (vv. 8-16). Il fulcro è il

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rimprovero a uno degli operai della prima ora, che non accetta che il Signore tratti come lui quelli dell’ultima ora.

Gesù riporta sulla terra ciò che era al “principio”: il modo di agire del Padre, che è benevolo con tutti i suoi figli, anche con chi non lo merita (cf. 5,45).

La Chiesa, se cerca salvezza dalle proprie opere, sa che non ha più nulla a che fare con Cristo: è decaduta dalla grazia (Gal 5,4). I cristiani, consci di essere stati salvati per grazia (cf. Ef 2,5), deponendo asprezza, sdegno, ira, clamore, maldicenza e ogni genere di malignità, sono benevoli gli uni con gli altri: si fanno vicendevolmente grazia come Dio li ha graziati in Cristo (Ef 4,31s).

2. Lettura del testo

v. 1: Il regno dei cieli è simile a un uomo, un padrone di casa, che uscì all’alba per assoldare operai per la propria vigna. La vigna è simbolo del popolo infedele all’alleanza, perché non dà il suo frutto (cf. Is 5,1-7; Ger 2,21; 5,10; 8,13; Ez 19,10-14). Anche nel cap. seguente ci saranno due parabole sulla vigna e sui lavoratori (21, 28-31. 33-41).

Destinatari della parabola sono gli operai della prima ora, assoldati all’alba: non devono incattivirsi se il padrone dà agli altri sopra i meriti. Gesù giustifica con queste parole la sua disponibilità con gli ultimi e i peccatori. Il Figlio dell’uomo è venuto a salvare ciò che ha perduto (18,11). La salvezza non è un pane di sudore, ma dono del Padre ai suoi figli (Sal 127,2); ne mangia chi, come lui, è contento che tutti i fratelli, cominciando dagli svantaggiati, siano salvati.

Chi, come il giovane ricco, ha da sempre osservato la legge, ha ancora una cosa da fare: sbarazzarsi della propria giustizia per godere della retribuzione di Dio, che è lui stesso, amore gratuito per tutti e per ciascuno.

v. 2: accordatosi con gli operai per un danaro, ecc. Solo con i primi c’è un patto, che comunque sarà rispettato. Il Signore rispetta le sue promesse fatte ad Israele, il primogenito, anche se per grazia le estende agli altri.

Cos’è che promette Dio all’uomo se non se stesso, “com-promesso” in ogni sua promessa? Un danaro è la paga quotidiana necessaria per vivere. Nel contesto richiama la ricompensa di cui si parla nel brano precedente. Che cosa è necessario per vivere una vita umana, da figlio di Dio (cf. 19,13s) - quella vita “perfetta” proposta al giovane ricco (19,21) –, se non amare Dio e il prossimo, compimento della legge e dei profeti (22,40)?

v. 3: uscito all’ora terza. Sono le nove del mattino. I primi operai hanno già lavorato tre ore con lena, al fresco del mattino, e cominciano a sentire la fatica.

vide altri che stavano sulla piazza inoperosi. Le varie ore della chiamata sono riferite da antichi commentatori alle varie età in cui ogni persona è chiamata o alle varie epoche del genere umano - da Adamo a Noè, da Noè ad Abramo, da Abramo a Mosè, da Mosè a Gesù. L’“ultima ora” è quella presente che comincia con Gesù e terminerà al suo ritorno. Poi ci sarà la fine del giorno e la ricompensa. La giornata, che termina con la sera e la retribuzione, è immagine della vita di ciascuno e della storia umana nel suo insieme.

v. 4: andate anche voi alla vigna. In ogni momento della vita personale, come in ogni epoca storica, c’è una chiamata del Signore. Ogni momento è l’“oggi” dell’ascolto di Dio, che ci invita a lavorare la vigna.

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Questo padrone sta probabilmente vendemmiando, e ha urgenza di raccogliere i frutti perché non si perdano. Il tempo è compiuto (Mc1,15): con Gesù è iniziato il tempo del raccolto. Il Padre ha urgenza di raccogliere tra i suoi figli il frutto dell’amore filiale e fraterno - a qualunque ora - perché è la loro stessa vita.

vi darò ciò che sarà giusto. Con i primi fu pattuito un danaro, stabilito come giusta paga quotidiana. Con questi si impegna, dicendo che darà ciò che è giusto, senza pattuire la cifra. E qual è la giustizia di Dio, se non quella “eccessiva” che introduce nel regno (5,20)?

v. 5: di nuovo, uscito alla sesta e alla nona ora, fece altrettanto. A mezzogiorno e alle tre del pomeriggio ci sono altre due chiamate di disoccupati, analoghe alla seconda.

v. 6: all’undicesima ora. Sono le cinque del pomeriggio: i primi lavorano già da undici ore. Manca un’ora alla sera.

perché state qui inoperosi? Con questi c’è un dialogo in forma diretta. Più che un rimprovero, è un incoraggiamento a lavorare, anche se ormai resta poco tempo. Non è mai troppo tardi per convertirsi e portare frutti. Proprio questi avranno la sorpresa di una grazia sovrabbondante.

v. 7: nessuno ci ha assoldati. Le circostanze (non si sa quali) hanno loro impedito di lavorare. La colpa non è loro; sembra addirittura del padrone della vigna, che non li ha chiamati prima. Certamente il Padre si sente in colpa verso i suoi figli che rischiano di fallire l’esistenza.

andate anche voi nella vigna. Con i primi è pattuito un salario preciso; con gli altri ciò che è giusto; con questi niente. Sono affidati alla pura benevolenza del vignaiolo.

v. 8: venuta la sera. È la fine della fatica, del giorno dell’uomo e della sua storia. Inizia il riposo e il godimento: la ricompensa.

chiama gli operai. Tutti insieme, alla sera, assistiamo all’ultima chiamata per la retribuzione del Signore.

da’ loro la paga, cominciando dagli ultimi, fino ai primi. Se avesse cominciato dai primi, questi non avrebbero visto la scena e non avrebbero ricevuto la lezione. Comincia invece dagli ultimi, che sono i primi a ricevere la paga. Cosa riceveranno?

v. 9: quelli dell’undicesima ora ricevettero un danaro ciascuno. Ecco la meraviglia. Il Signore è misericordioso: dà agli ultimi quella paga che è necessaria per vivere. Ma di cosa vive l’uomo, se non dell’amore del Padre? E cosa può dare lui di meno di se stesso, se è tutto amore? Ognuno ne riceve secondo la sua capacità. E la capacità di ricevere è proporzionale al bisogno – mani vuote stringono più che mani piene! Chi amerà di più, se non colui al quale è stato perdonato di più (Lc 7,42s)?

L’inferno del giusto è vedere che Dio è misericordia con gli ingiusti! La retribuzione è certamente giusta secondo la nostre opere - come è

chiaro per gli operai della prima ora. Ma è anche giusta secondo la giustizia eccessiva di Dio. E la ricompensa, giusta per lui e per noi, è farci conoscere lui come Padre di amore e noi come suoi figli amati.

Che vantaggio c’è allora per chi ha lavorato fin dal mattino? Chi si chiede questo, fa una grave offesa a Dio. “Duri sono i vostri discorsi contro di me”, dice il Signore: “Che vantaggio abbiamo ricevuto dall’aver osservato i suoi comandamenti, ecc.?” (Ml 3,13s). Il vantaggio dei primi è quello di aver amato il Signore, di essere sempre stati con lui (cf. Lc 15,31; Sal 73,23). Se non capiscono questo, amano ciò che il Signore dà più del Signore stesso. Si sono serviti di lui per raggiungere qualcosa che interessa più di lui. Lo amano non per amore di lui che è l’amore, ma per amore della propria ricompensa.

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Il privilegio degli ultimi fa capire chi è lui e chi siamo noi: lui è amore per tutti, e noi tutti siamo da lui gratuitamente amati. Le prostitute e i peccatori, che ci precedono nel regno (21,31), mostrano che siamo salvati dall’amore del Padre per noi. Questo non è da comperare o da meritare (= meretricio), ma da accogliere e vivere con gioia. Chi ne fa oggetto di guadagno e di pretesa, lo tramuta in ricchezza che allontana dal Signore. Per entrare nella vita gli manca, come al giovane ricco, una sola cosa: lasciare ciò che possiede (19,20s). Altrimenti il suo bene sono i suoi beni, anche spirituali, e non più il Signore. Come il fratello maggiore, non entra nel banchetto, perché vuol stare con i suoi meriti, non con il Padre (Lc 15,28ss). Come Giona, rifiuta il Signore stesso, che riconosce come amore gratuito (Gn 4,1ss).

v. 10: i primi pensarono che avrebbero ricevuto di più. Il Signore chiama prima gli ultimi, per sorprendere i primi. Questi ragionano in termini di merito. Se gli ultimi hanno ricevuto per grazia oltre ogni merito, essi vogliono ricevere più di loro, ma per merito e non per grazia. Riducono a merito anche la grazia! Vanno direttamente contro Dio: pretendono di comperare il suo amore. Il nostro stesso lavoro - l’amare Dio e il prossimo - è già dono di grazia: è premio a se stesso, “merito secondo le opere”.

ricevettero un danaro anche loro. Il Signore è giusto: dà secondo la promessa. E questo danaro è lui stesso, che dirà: “Entra nella gioia del tuo Signore” (25,21. 23). Lui non può però accettare che il dono sia rapina, la grazia merito, l’amore interesse.

v. 11: brontolavano. È il brontolio dei farisei e degli scribi contro Gesù che accoglie i peccatori e mangia con loro (Lc 15,1s), è il rancore di Giona contro il Signore che salva quelli di Ninive (Gn 4,1ss), è l’ira del fratello maggiore contro il Padre che fa festa per il minore (Lc 15,28), è la stizza di Marta contro Gesù che non la privilegia rispetto a Maria (Lc 10,40). Ma né Marta accoglie lo sposo, né il figlio maggiore il Padre, né Giona Dio, né i giusti il Figlio. Il fatto che il Signore sia buono con gli ultimi, fa incattivire contro di lui i primi.

v. 12: questi ultimi fecero un’ora sola e li facesti pari a noi, ecc. È il malumore dei giusti contro il Signore che è amore e grazia! Non accettano che Dio sia Dio! Lo vorrebbero a loro immagine e somiglianza, piedistallo del loro orgoglio.

v. 13: amico, non ti faccio ingiustizia, ecc. Infatti gli dà ciò che gli spetta. Non gli fa torto se dà lo stesso anche agli altri. Anzi, dovrebbe gioire al vedere quanto lui è buono con i suoi fratelli.

v. 14: prendi il tuo e vattene. Se uno vuole come ricompensa non il Signore, ma la propria giustizia, è perduto, fuori dalla grazia. Vuole il salario della propria fatica, non il pane della sua grazia. Solo se si libera da questa ricchezza, facendosi fratello degli ultimi, ai quali riconosce la sua stessa dignità di figlio, solo allora può gustare la ricompensa del Figlio.

voglio dare a questo ultimo, come a te. Ciò che tu pretendi come diritto, sono io stesso, che per amore mi voglio dare a tutti.

v. 15: non mi è lecito fare ciò che voglio delle mie cose? Il Signore vuol far parte dei suoi beni ai poveri - anzi dà loro il suo regno (5,3). Così mostra il suo amore. Chiama il giovane ricco a fare altrettanto. Anche gli apostoli devono considerare la loro ricompensa non come un bottino conquistato dai loro meriti, ma come un dono da condividere senza invidia con tutti, cominciando dagli ultimi. Diversamente rifiutano il Padre e il proprio essere figli suoi.

o il tuo occhio è cattivo perché io sono buono? L’occhio è la finestra del cuore, da cui procede il sentire e l’agire. Il nostro cuore è cattivo se non

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accetta l’amore gratuito di Dio verso tutti, in particolare verso gli ultimi. Ogni dono del Padre non è dato per distinguersi dai fratelli, ma per servirli e farli partecipi di esso. Questa parabola fa uscire dal nostro cuore il “segreto rancore” che il giusto cova contro Dio e gli uomini.

v. 16: così gli ultimi saranno i primi. Gli ultimi sono i primi a capire e accettare la “ricompensa” del regno: i poveri accolgono il dono, i bambini accettano di essere figli.

i primi ultimi. Anche i primi, diventati ultimi, parteciperanno della sorte di questi che sono i primi. Tutti saremo salvati per grazia!

3. Pregare il testo

a. entro in preghiera come al solito.b. mi raccolgo immaginando la scena.c. chiedo ciò che voglio: non essere cattivo perché il Signore è buono con

tutti.d. traendone frutto, contemplo la scena e le persone: chi sono, che dicono,

che fanno.

Da notare: uscì all’alba operai per la vigna il compenso pattuito: un danaro uscì alla terza, alla sesta e alla nona ora il compenso pattuito: ciò che sarà giusto uscì all’undicesima ora perché siete qui inoperosi? nessun compenso pattuito venuta la sera, c’è la paga, cominciando dagli ultimi gli ultimi ricevono lo stesso compenso pattuito con i primi la reazione dei primi il tuo occhio è cattivo perché io sono buono?

4. Testi utili

Sal 103; 145: Is 5,1-7; Gn 4,1ss; Is 55,6-9; Lc 15,1ss; Fil 3,1ss.

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82. SALIAMO A GERUSALEMME20, 17-28

20,17 E, salendo Gesù a Gerusalemme,prese i dodici discepoli in disparte,e, nel cammino, disse loro:

18 Ecco saliamo a Gerusalemmee il Figlio dell’uomo sarà consegnatoai sommi sacerdoti e agli scribi,e lo condanneranno a morte

19 e lo consegneranno ai paganiperché sia schernito e flagellato e crocefisso,e al terzo giorno risusciterà.

20 Allora gli si fece innanzi

la madre dei figli di Zebedeo con i suoi figli,

adorandolo e chiedendo da lui qualcosa.21 Egli le disse:

Che vuoi?Gli dice:

Di’ che questi miei due figli siedanouno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo

regno. 22 Ora rispondendo Gesù disse:

Non sapete che cosa chiedete!Potete bere il calice che io sto per bere?

Gli dicono:

Possiamo.23 Dice loro:

Il mio calice lo berrete;ma sedere alla mia destra e alla mia sinistranon sta a me concederlo,ma è per coloro per i quali è preparato dal Padre

mio.

24 E, ascoltando, i diecisi sdegnarono coi due fratelli.

25 Ora Gesù, chiamandoli innanzi, disse:Sapete che i capi dei paganispadroneggiano su di loroe che i grandi li opprimono.

26 Non così è tra voi;ma chi vuol diventare grande tra voi,sarà vostro servo;

27 e chi vorrà essere primo tra voi,sarà vostro schiavo;

28 come il Figlio dell’uomo non venneper essere servito,

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ma per serviree dare la sua vitain riscatto per tutti.

1. Messaggio nel contesto

“Ecco noi saliamo a Gerusalemme”, dice Gesù ai discepoli: lì si rivelerà lo splendore del Volto, suo e del Padre.

Il brano è un contrappunto tra due glorie: quella del Figlio dell’uomo e quella degli uomini. La prima sta nel consegnarsi, servire e dare la vita; la seconda sta nel possedere, asservire e dare la morte. È una lotta tra l’egoismo e l’amore, dove l’amore vince con la propria sconfitta, e l’egoismo perde con la propria vittoria.

L’uomo è desiderio di riconoscimento: è come è visto. Ma, ignorando come Dio lo ama, difetta di quel riconoscimento assoluto di cui è fame assoluta. Per questo cerca costantemente di essere visto dagli uomini, e riduce la propria esistenza a puro apparire, a idolatria (“culto dell’immagine”). La sua realizzazione non è più diventare conforme alla Gloria, di cui è riflesso, ma corrispondere all’immagine che gli altri debbono avere di lui.

Gli idoli non danno che morte, rendendo simile a sé chi li fabbrica (Sal 115,8). Invece della Gloria, danno vana-gloria: il vuoto di un’immagine, senza peso né consistenza.

Il racconto è un dialogo di equivoci tra Gesù e i discepoli che, come tutti, sono ciechi proprio davanti alla “Gloria”. Ciò che la madre dei figli di Zebedeo vuole da Gesù è la vana-gloria, che pure gli altri dieci desiderano.

Tutti dovranno capire di essere ciechi e invocare con i ciechi di Gerico che si aprano i loro occhi (v. 33), per vedere la gloria di Dio. Solo così verranno alla luce del Volto, ritrovando la salvezza del proprio volto. Saranno illuminati: nasceranno come uomini liberi, figli del Padre e fratelli degli altri.

Siamo al passo decisivo per l’illuminazione: riconoscere la propria cecità è la condizione per invocare la luce. Gesù è venuto per compiere un giudizio, in modo che coloro che non vedono vedano, e chi crede di vedere sappia di essere cieco. Il nostro male non è tanto essere ciechi, quanto credere di vedere (Gv 9,39ss).

Il racconto è un dialogo serrato, che si articola in tre parti: la vera gloria del Figlio dell’uomo (vv. 17-19), la cecità dei discepoli che la scambiano con la gloria degli uomini (vv. 20-24) e il confronto tra le due glorie (vv. 25-28).

Questo brano ci prepara al successivo, con il quale fa tutt’uno: l’illuminazione dei ciechi di Gerico sarà la caduta della vana-gloria, il muro che ci impedisce di ricevere la Gloria. È la conversione radicale, che ci introduce nella terra promessa della nostra identità: ci fa uscire dalle tenebre e venire alla luce come figli di Dio, sua immagine e somiglianza. Senza questa conversione non siamo ancora nati come uomini: restiamo nel sonno delirante della morte.

La rivelazione del Figlio dell’uomo che sale a Gerusalemme è luce che squarcia violentemente le nostre tenebre. Dopo la prima predizione della passione/risurrezione ci fu la reazione “satanica” di Pietro e la controreazione di Gesù (16,22-23). Dopo la seconda i discepoli reagirono con incomprensione e tristezza (17,22-23; in Mc 9,31-34, addirittura litigando su chi fosse il più grande); dopo questa terza lo scontro si fa

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generale e dichiarato. Siamo ormai prossimi a Gerusalemme, dove la “Gloria” si rivelerà dall’alto della croce.

Gesù è il Figlio dell’uomo che svela a ogni uomo la propria verità: il volto del Figlio uguale al Padre, la cui gloria è amare, servire e dare la vita.

La Chiesa di nient’altro si vanta, se non della croce (Gal 6,14): ha capito la “Gloria”, anche se sempre è insidiata dalla vana-gloria.

2. Lettura del testo

v. 17: E salendo Gesù a Gerusalemme, ecc. Gesù si trova vicino a Gerico (cf. brano seguente), da dove comincia la salita a Gerusalemme. Manca una giornata di cammino per giungere alla città santa, dove presto si rivelerà la gloria di Dio. Ora, in privato, ripete ai suoi discepoli, per la terza volta e in modo più dettagliato, il mistero del Figlio dell’uomo.

v. 18: Il Figlio dell’uomo sarà consegnato. Il Figlio dell’uomo non prende né possiede alcuno: è dato e consegnato per tutti. Il suo potere è lo stesso di Dio, che nulla possiede, ma tutto dà, anche se stesso.

ai sommi sacerdoti e agli scribi. Precedentemente ha detto che sarà consegnato nelle mani degli uomini (17,22). I sommi sacerdoti e gli scribi, rappresentanti del potere religioso e culturale, sono ciechi davanti alla “Gloria”, che pur dovrebbero conoscere.

lo condanneranno a morte. Chi dovrebbe riconoscere il Signore della vita, lo giudica reo di morte!

v.19: lo consegneranno ai pagani. La “Gloria” passa di mano in mano: dai capi di Israele ai pagani. È per tutti!

perché sia schernito. La sapienza di Dio è derisa come stoltezza dalla nostra stupidità.

flagellato. La forza di Dio è percossa come debolezza dalla nostra infermità.

crocifisso. La libertà di Dio è inchiodata come infamia dalla nostra schiavitù.

e il terzo giorno risusciterà. A ciò che fanno le mani degli uomini segue, in continuità, ciò che fa Dio. Egli, pur coordinandosi alla nostra azione, si riserva l’ultima parola, la sua: ne sovverte il risultato a nostro vantaggio. L’uomo è libero di fare ciò che vuole, anche contro il Figlio dell’uomo; Dio ne assume l’azione, dandole un compimento insospettato: il dono della vita oltre la morte. Anche Dio è libero!

v. 20: la madre dei figli di Zebedeo, ecc. La domanda viene dalla madre di Giacomo e Giovanni. In Marco sono i figli stessi che dicono a Gesù: “Noi vogliamo che tu ci faccia quello che noi ti chiederemo” (Mc 10,35). È il tenore normale delle nostre preghiere: vogliamo che Dio faccia ciò che noi gli chiediamo, invece di chiedergli di fare ciò che lui vuole. Se ci ascoltasse, poveri noi! Grazie a Dio, lui compie le sue promesse di amore, non i nostri desideri di egoismo.

Questa donna adora e chiede. Anche una preghiera devota e ossequiosa nella forma può essere perversa nel contenuto. L’involucro della religiosità può nascondere qualcosa di poco divino e molto umano, addirittura diabolico (cf. 16,23): un tentativo di ridurre Dio a mediatore dei nostri fini egoistici. Questo capita quando non siamo disposti a mettere in questione le nostre idee e le nostre attese, soprattutto religiose.

v. 21: che vuoi? Il Signore vuole che esprimiamo i nostri desideri, anche sbagliati, in modo che possiamo confrontarli con i suoi. Molte volte non conosciamo o non osiamo rivelare neppure a noi stessi le intenzioni malvagie che si nascondono anche nelle nostre buone azioni. Il Signore

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desidera che noi sappiamo ciò che vogliamo, perché alla fine possiamo volere ciò che lui stesso vuol darci, e che solo allora ci può dare.

questi miei due figli siedano uno alla tua destra, ecc. È cosa buona desiderare e chiedere di essere vicini al Signore nel suo regno. Ogni desiderio contiene un fondo di bontà. L’uomo non può desiderare che il bene, anche se poi si sbaglia nel valutarlo e nel conseguirlo. Questa donna però ignora, come tutti, qual è il “suo” regno, che si realizzerà sulla croce. Lì sarà intronizzato; ma con altri due suoi fratelli, uno a destra e l’altro a sinistra (27,38).

v. 22: non sapete ciò che chiedete. Sia la donna che gli altri ignorano che il suo regno è quello del Figlio perfetto come il Padre, che ama e serve i fratelli, e sa dare loro la vita.

potete bere il calice che io sto per bere? È il calice della passione, che Gesù stesso sarà tentato di non bere. Nel momento decisivo chiederà al Padre: “Non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (26,39). Gesù è il primo uomo che chiede a Dio di non fare ciò che la sua volontà umana desidera, ma ciò che la volontà del Padre nel suo amore desidera per lui. Per questo restituisce all’uomo il suo volto di figlio.

possiamo. I due apostoli desiderano stare con il Signore e regnare nella sua gloria. Gesù esaudirà la parte positiva della loro richiesta.

v. 23: il mio calice lo berrete. Anche se non sanno ancora che calice sia, lo berranno, ricevendo il suo stesso battesimo (cf. Mc 10,39). È consolante la promessa di Gesù: accetta il loro desiderio di essere con lui e come lui, anche se ignorano cosa significa. Di fatto Giacomo sederà alla sua destra: sarà il primo tra gli apostoli a bere il calice di Gesù, martirizzato nell’anno 42 (At 12,2)! Giovanni, a sua volta, sederà alla sua sinistra: secondo la tradizione, sarà l’ultimo a testimoniare il suo Signore.

sedere alla mia destra e alla mia sinistra non sta a me concederlo, ecc. Essere associato alla gloria del Figlio è dono del Padre, preparato fin dalla fondazione del mondo (25,34) per tutti gli uomini, creati appunto nel Figlio per essere figli.

Non è che Gesù sia inferiore al Padre. Dice infatti: “Io e il Padre, siamo uno” (Gv 10,30), e ancora: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14,9). Lui è l’unigenito del Padre (Gv 1,14), il Figlio al quale il Padre dà tutto (11,27). Ma l’essere figlio è e resta sempre dono del Padre.

v. 24: i dieci si sdegnarono. Quando si litiga, è perché si desidera la stessa cosa. Anche gli altri dieci apostoli intendono la gloria in modo umano. Sono mossi da rivalità contro i due, perché vogliono la stessa cosa. In Luca litigheranno sul primo posto proprio nell’ultima cena, mentre lui, come Figlio, si mette nelle loro mani, poco raccomandabili, di fratelli (Lc 22,24-27).

v. 25: chiamatili innanzi. È l’ultima chiamata del discepolo: conoscere la gloria del suo Signore, così diversa da quella che l’uomo suppone. Amare il mondo è odiare Dio (Gc 4,4) perché “il mondo”, per inganno, pensa di realizzarsi facendo ciò che lo distrugge. “La gloria di Dio è l’uomo vivente”, non quello che si perde dietro il proprio egoismo. “Vedere Dio è la vita dell’uomo”, perché, vedendo lui, riceve la realtà di cui è immagine.

sapete che i capi dei pagani. Anche i discepoli conoscono e vogliono la stessa gloria dei capi delle nazioni. In Israele non dovrebbe essere così, anche se fin dall’inizio ha voluto essere come tutti i pagani: avere un re che tiranneggi e schiavizzi (cf. 1Sam 8,1ss; Gdc 9,8-15).

i capi spadroneggiano, i grandi opprimono. Il potere dei potenti non è servizio e liberazione, ma dominio e schiavitù. Il loro modello di gloria, che tutti invidiano, è il contrario di quello di Dio,

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v. 26: non così è tra voi. È il monito costante del Signore, rivolto a quanti salgono con lui a Gerusalemme. Il vero potere, che sviluppa le possibilità dell’uomo e lo rende simile a Dio, è l’amore, che serve tutti e non opprime nessuno. È importante che l’autorità nella Chiesa non sia esercitata secondo i criteri, evangelicamente stupidi, della vanagloria.

chi vuol diventare grande tra voi, sarà vostro servo. La vera grandezza è quella di Dio, la cui gloria è servire (cf. Gv 13,1ss). Asservire gli altri è proprio dell’uomo fallito. È giusto essere grandi, anzi perfetti, come colui del quale siamo figli (5,48)! Servire, nel NT, esprime la concretezza dell’amore.

v. 27: chi vorrà essere primo tra voi, sarà vostro schiavo. Non solo dobbiamo essere grandi, ma anche primi. Il primo è colui che si è fatto ultimo per amore. Servo è uno il cui lavoro appartiene all’altro; schiavo è uno che appartiene lui stesso all’altro. La perfezione dell’amore consiste nell’“essere dell’altro”, come Dio.

È il capovolgimento della vana-gloria dell’uomo, che destina tutto al vuoto del nulla. La gloria non è servirsi dell’altro, ma servirlo; non è possederlo, ma appartenere a lui per amore. La libertà è essere nell’amore “schiavi” gli uni degli (Gal 5,13).

v. 28: come il Figlio dell’uomo non venne per essere servito, ma per servire. Il Figlio dell’uomo, il Signore stesso, sta in mezzo a noi come colui che serve (Lc 22,27; cf. Gv 13,1-17): è la più bella definizione del Signore.

dare la vita. Chi ama dà la vita: fa vivere l’altro, realizzando così pienamente se stesso a immagine di Dio, datore di vita.

in riscatto per tutti. Dal dono del Figlio dell’uomo viene il riscatto di ogni figlio d’uomo, che torna ad essere figlio di Dio.

3. Pregare il testo

a. entro in preghiera come al solito.b. mi raccolgo immaginando Gesù in cammino verso Gerusalemme.c. chiedo ciò che voglio: comprendere la sua gloria.d. traendone frutto, contemplo le persone: chi sono, che dicono.

Da notare: saliamo a Gerusalemme cosa capita al Figlio dell’uomo cosa chiede la madre di Giacomo e Giovanni non sapete ciò che chiedete il mio calice lo berrete gli altri si sdegnarono i capi dei pagani spadroneggiano e i grandi opprimono non così tra voi il grande sia servo il primo schiavo il Figlio dell’uomo è venuto per servire e dare la vita.

4. Testi utili

Sal 21; 32; Is 55; Gdc 9,8-15; 1Sam 8,10-22; Lc 22,24-27; Gv 13,1-17; Fil 2,5-11.

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83. COSA VOLETECHE IO FACCIA PER VOI ?20,29-34

20,29 E, uscendo essi da Gerico,lo seguì molta folla.

30 Ed ecco due ciechi, sedutifuori dal cammino,udendo che Gesù passa,gridarono dicendo:

Abbi pietà di noi,(Signore) figlio di Davide!

31 Ora la folla li minacciòperché tacessero.

Ma essi ancor più gridarono dicendo:Abbi pietà di noi,Signore, Figlio di Davide!

32 E, fermatosi, Gesù li chiamòe disse:

Cosa volete che io faccia per voi?33 Gli dicono:

Signore,che si aprano i nostri occhi!

34 Commosso, Gesù toccò i loro occhi,e subito guardarono in altoe lo seguirono.

1. Messaggio nel contesto

“Cosa volete che io faccia per voi?”, chiede Gesù ai due ciechi. Questi, a differenza di Giacomo e Giovanni, sanno di essere ciechi e sanno cosa chiedere: che si aprano i loro occhi.

Il vangelo è un’educazione dei desideri, perché arriviamo a chiedere ciò che lui ci vuole dare: vedere lui e seguirlo nel suo cammino.

È l’ultimo dei miracoli di Gesù, al quale seguirà il contro-miracolo del fico sterile. Chi non apre gli occhi sulla gloria del Signore, non viene alla luce: non è ancora nato alla propria identità, perché non vede il Volto, di cui è immagine e somiglianza. A lui avverrà come al fico: aprirà gli occhi sulla propria nudità (cf. 21,18ss).

Gesù è la luce non solo di Israele, ma anche del mondo: illumina ogni uomo (Gv 8,12; 1,4.9). Alla sua luce vediamo la luce (Sal 36,10); anzi ci accendiamo e diventiamo noi stessi luce (5,14).

L’illuminazione, punto di arrivo del vangelo, è vedere nel Figlio dell’uomo che sale a Gerusalemme la gloria del Figlio di Davide che, come la luna, giunge al suo pieno splendore; ma, ancor di più, vedere in lui il Signore stesso, il sole che la illumina.

Questo miracolo è il capolavoro di Gesù. La vista e la sequela costituiscono il dono della fede. Qui se ne tracciano le tappe: ascoltare Gesù che passa, gridare il Nome, invocare la luce, vedere il Signore e seguirlo fino a Gerusalemme. La fede coinvolge tutte le facoltà dell’uomo: è orecchio che ascolta, cuore che grida, bocca che invoca, occhio che vede e piede che segue il Signore.

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Il brano precedente evidenziava la cecità dell’uomo davanti al volto del Figlio dell’uomo, gloria di Dio e vita di ogni uomo. È una cecità invincibile, come le mura di Gerico. Nessuna forza umana è in grado di abbatterle. Anzi, tende a ricostruirle. Infatti, nonostante le parole di Giosuè: “Maledetto chi ricostruirà Gerico” (Gs 6,26), risulta che questa antichissima città fu riedificata sei volte. Solo il grido è capace di far crollare le mura delle tenebre e farci venire alla luce di Dio.

Dopo questo miracolo possiamo entrare a Gerusalemme con il figlio di Davide intronizzato sull’asinello e vedere il Volto che si rivela - riconosciuto addirittura dai pagani (27,54).

Gesù è la luce del mondo. La Chiesa è fatta di persone illuminate dalla sua luce, perché ne

ascoltano la parola, vedono la propria cecità, gridano a lui, invocano la sua misericordia, aprono gli occhi sul suo volto e lo seguono nel suo cammino.

2. Lettura del testo

v. 29: E, uscendo essi da Gerico. Da Gerico, situata a 400 metri sotto il livello del mare, comincia “la salita” a Gerusalemme. Questa città, posta sulle rive del Giordano, segna il termine dell’esodo: è la porta d’ingresso nella terra promessa. È una città “saldamente sbarrata agli Israeliti; nessuno ne usciva e nessuno vi entrava” (Gs 6,1). Inespugnabile come la nostra cecità davanti al Volto, crollerà solo per intervento divino dopo il grido ripetuto del popolo (Gs 6,5.10.16.20).

Il nome “Gerico” in ebraico ricorda la luna che, come l’uomo nasce, cresce, cala e muore per risorgere, riflettendo la luce del sole.

La Gerico inespugnabile può raffigurare, oltre la nostra cecità, anche l’umanità di “Gesù che passa” nella nostra condizione umana: l’illuminazione è vedere riflessa in essa la gloria divina che “sta in eterno”.

lo seguì molta folla. È tutta una folla di ciechi, che sono ancora all’oscuro sulla propria cecità a differenza dei due.

v. 30: due. Nei passi paralleli di Mc e Lc c’è un solo cieco, chiamato Bartimeo. Nei due ciechi la tradizione ha visto Israele e Giuda che attendono il figlio di Davide, oppure i giudei e i pagani che ricevono la luce del Signore; oppure Giacomo e Giovanni, che Gesù vuole illuminare della “sua” gloria; oppure gli apostoli e i discepoli tutti, che sono ancora nelle tenebre della vanagloria.

Il primo cieco guarito è Bartimeo; il secondo è il lettore, al quale è raccontata la sua stessa guarigione, se la desidera. Essa infatti avviene proprio mediante il racconto che gli fa riconoscere la sua cecità, ascoltare Gesù, invocarlo, vederlo e seguirlo. D’ora in poi nel vangelo il problema sarà vedere la Gloria. Infatti “Homo vivens gloria Dei”, perché “Visio Dei vita hominis” (l’uomo vivente è la gloria di Dio, perché vedere Dio è la vita dell’uomo).

ciechi. Cieco è chi non ha aperto gli occhi. Tutto è per lui senza luce e senza senso, imprevedibile ostacolo e inciampo. Il non-vedente spesso è un “veggente”, perché, non distratto da ciò che appare, coglie la realtà, che è invisibile agli occhi. Normalmente uno non vede che la proiezione delle proprie paure che si fanno desideri (distruttivi!).

La vera cecità è quella di chi non vede la “Gloria”, il Volto, e non è ancora venuto alla luce della propria verità. Solo chi “vede” l’amore infinito di Dio per lui, nasce alla propria identità di figlio e vede finalmente la realtà com’è, non come la teme o la suppone.

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La luce per vedere la nostra verità è Gesù, il Figlio dell’uomo consegnato nelle mani degli uomini. Il suo amore umile che si fa servizio e dono della vita, è il Volto, luce del nostro volto. Il bimbo viene alla luce quando vede il volto della madre; l’uomo viene alla luce del proprio volto di figlio quando vede il volto di Dio. Allora è illuminato: “Svegliati, o tu che dormi, destati dai morti, e Cristo ti illuminerà”(Ef 5,14).

ciechi, seduti, fuori dal cammino. Sono le qualità del discepolo. Anche se crede di essere ricco, è in realtà infelice, miserabile, povero, cieco e nudo - non cammina dietro al suo Signore e ignora la sua via che porta a Gerusalemme. Deve comperare da lui oro purificato dal fuoco per diventare ricco, vesti bianche per coprirsi e nascondere la sua nudità, collirio per ungersi gli occhi e recuperare la vista (Ap 3,17s).

Il discepolo, da presunto ricco, si scopre mendicante, invitato a chiedere ciò di cui ha bisogno. Principio della fede è il desiderio di luce, proprio di chi si conosce cieco.

gridarono. (cf. Es 2,23). Non è un suono inarticolato quello dei due ciechi. La loro invocazione ha la forza del grido e la sapienza della parola che esprime ciò di cui hanno bisogno.

abbi pietà di noi. Invocano pietà per la loro condizione di ciechi, seduti e fuori strada. La miseria chiama misericordia, la tenebra luce, la morte vita. Il nostro grido ha sempre un orecchio attento che lo ascolta.

Signore. Gesù che passa è riconosciuto come l’eterno che sta, il Signore, ricco di misericordia, padre della luce, datore di vita.

figlio di Davide. È il Messia (1,1; 9,27). Il grido, che si leva incessante nella notte, squarcia le tenebre della nostra cecità, aprendoci l’ingresso alla terra promessa.

v. 31: la folla li minacciò perché tacessero. La folla non si associa all’invocazione. Cerca anzi di spegnerla. Sono ciechi che credono di vedere, come i discepoli. I due, invece sanno di non vedere. Per questo gridano alla luce. Il verbo “minacciare” è lo stesso che esprime l’atteggiamento di Gesù contro i demoni. La tenebra si difende dalla luce: è la sua fine!

ancor più gridarono. Nella notte il grido si alza ripetuto e instancabile, nonostante le varie voci che vogliono zittirlo. L’ostilità ne accresce l’intensità. Una forma antica di preghiera - la preghiera del nome di Gesù - è modulata su questa richiesta. Si ripete l’invocazione non per stancare Dio che sempre ci ascolta, ma per abbattere il muro del nostro oblio: ogni invocazione è un colpo d’ariete che ne abbatte una pietra.

v. 32: fermatosi. Davanti alla miseria si arresta la misericordia, pronta ad intervenire. La luce non attende che una breccia per entrare con i suoi raggi nella tenebra. I due ciechi hanno udito di lui, il Signore e figlio di Davide: lo invocano e gli chiedono di vederlo con i loro occhi.

Gesù chiamò. Al grido di invocazione risponde la voce del Signore, potente sopra tutte le voci contrarie. Il rumore della folla non impedisce che il grido dell’uomo e la voce di Dio si incontrino.

cosa volete che io faccia per voi? (cf. v. 21) Al Signore devo chiedere ciò che voglio che lui mi faccia. Ma prima bisogna che io sappia ciò che è bene volere. Giacomo e Giovanni non lo sapevano (v. 22). Ciò che voglio è quanto lui stesso mi vuol dare: la luce del suo volto. Giacomo e Giovanni, senza saperlo, gli chiedevano esattamente il contrario: la vana-gloria.

v. 33: Signore, che si aprano i nostri occhi. I due sanno di essere ciechi, seduti e fuori strada. Per questo sanno finalmente cosa chiedere: che si aprano i loro occhi, per poterlo seguire nel suo cammino di Figlio dell’uomo che va a Gerusalemme.

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v. 34: commosso. Gesù è commosso non solo per la loro cecità, comune a tutti, ma anche perché, per la prima volta, qualcuno gli chiede ciò che lui desidera donare.

toccò i loro occhi. La guarigione avviene per contatto. È la comunione con lui che guarisce.

subito guardarono in alto. I due levano gli occhi verso il Figlio dell’uomo: con meraviglia vedono per la prima volta il suo viso e in esso il proprio. E per la prima, come Dio, vedono che è bello, “molto bello” (Gen 1,31). Escono dalla tenebra alla luce, nascono alla propria sorprendente verità. Riflettendo a viso scoperto, come in uno specchio, la gloria del Signore, sono trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore - che è libero e datore di libertà (cf. 2Cor 3,18. 17).

Ora sono “illuminati”; vedono ciò che occhio umano mai non vide, né mai entrò in cuore di uomo: il dono di sé che Dio aveva predestinato prima dei secoli per la nostra gloria (1Cor 2,9.7). I loro occhi sono nuovi: hanno lo stupore mattinale del primo giorno della creazione, quando tutte le cose fluiscono dalla mano e dal cuore di Dio. Hanno una visione diversa di sé e del mondo; ogni cosa e ogni avvenimento, tutto ha un’unica fonte ed è un’unica acqua di vita: l’eterna misericordia di Dio che è tutto in tutte le cose (cf. 1Cor 15,28).

L’occhio nuovo dà il cuore nuovo, e fa l’uomo nuovo - che conosce se stesso: sa da dove viene e dove va. Non solo sa perché vive, ma “per chi” vive: per colui che è tutto per lui in ogni cosa.

L’uomo non è più nella notte e della notte, ma è del giorno, figlio della luce (1Ts 5,4ss).

e lo seguirono. Su quelli che sedevano nelle tenebre e nell’ombra di morte, una luce si è levata (4,16; Is 9,1). Ora si alzano e camminano verso Gerusalemme, dove vedranno la Gloria.

3. Pregare il testo

a. mi metto in preghiera come al solito.b. chiedo ciò che voglio: Gesù, Signore, figlio di Davide, abbi pietà di

me! che io veda!c. mi raccolgo immaginando Gesù che esce da Gerico.d. traendone frutto, mi immedesimo col secondo cieco: ascolto, grido,

chiedo e vedo come lui.

Da notare: Gerico due ciechi seduti fuori dal cammino odono che Gesù passa gridano Signore, figlio di Davide, abbi pietà di noi la folla che zittisce e i ciechi che insistono Gesù si ferma e li chiama cosa vuoi che io faccia per te? Signore, che si aprano i miei occhi! commosso toccò gli occhi subito guardarono in alto

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lo seguirono.

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84. IL SIGNORE NE HA BISOGNO

ECCO IL TUO RE VIENE A TE

21,1-17

21,1 E quando si avvicinarono a Gerusalemmee giunsero a Betfageverso il monte degli Ulivi,allora Gesù inviò due discepoli

2 dicendo loro:

Andate nel villaggio che sta di fronte a voie subito trovereteun’asina legatae un puledro con essa;slegate e conducete da me.

3 E se qualcuno vi dice qualcosa,rispondete:

Il Signore ne ha bisogno;ma subito li invierà.

4 Ora questo avvenne perché si compisse ciò che fu dettodal profeta che dice:

5 Dite alla figlia di Sion:Ecco il tuo reviene a te,mite e seduto su un’asinae su un puledro, figlio di chi sta sotto il giogo.

6 Ora i discepoli, essendo andati ed avendo fattoquanto ordinò loro Gesù,

7 condussero l’asina e il puledro,e gettarono su di essi i mantelli,e vi si sedette sopra.

8 Ora le folle numerosissimestesero i loro mantelli sul cammino,altri tagliavano rami dagli alberie li stendevano sul cammino.

9 Ora le folle che lo precedevano e che seguivanogridavano dicendo:

Osanna al Figlio di Davide!Benedetto colui che viene nel nome del Signore!Osanna negli altissimi!

10 Ed entrato lui in Gerusalemme,si scosse tutta la città dicendo:

Chi è costui?11 Ora le folle dicevano:

Costui è il profeta Gesùda Nazareth di Galilea!

12 Ed entrò Gesù nel tempio

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e scacciò tutti quelli che vendevano e compravano nel tempioe rovesciò le tavole dei cambiavalutee le sedie dei venditori di colombe,

13 e dice loro:È scritto:la mia casa sarà chiamata casa di preghiera, ma voi ne fate una spelonca di ladri.

14 E si avvicinarono a lui ciechi e storpi nel tempio, e li curò.

15 Vedendo i sommi sacerdoti e gli scribi le meraviglie che fece e i fanciulli che gridavano nel tempio e dicevano:

Osanna al Figlio di Davide!si adirarono.

16 E gli dissero:Senti cosa dicono questi?

E Gesù dice loro:Sì. Non avete mai letto:Dalla bocca di infanti e lattantiti procurasti lode?

17 E, lasciatili, uscì dalla città verso Betania e pernottò lì all’aperto.

1. Messaggio nel contesto

“Il Signore ne ha bisogno”, dice Gesù dell’asina e del puledro; “Ecco il tuo re viene a te”, dice l’evangelista del Figlio di Davide, che con essi entra nella città santa.

L’ultima domanda dei discepoli al Maestro, immediatamente prima del suo ritorno al Padre, suona: “Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno d’Israele?” (At 1,6). Da sempre il credente si chiede: “Quando viene il regno di Dio?”, e invoca: “Maranà tha: vieni, o Signore!” (1Cor 16,22). È l’invocazione dello Spirito che, con la sposa, grida: “Vieni!” (Ap 22,17).

Questo brano risponde alla domanda; ma sposta il problema dal “quando” al “come”, dal tempo al modo in cui il Signore viene. Il tempo infatti è sempre “ora”, a condizione che lo si accolga così come lui è venuto allora e viene ogni ora, fino all’ultima: in umiltà e mitezza.

Il regno eterno di Dio è vivere con lo stesso Spirito del Figlio, che ha promesso di essere con noi fino al compimento del tempo (28,20). Di questo nuovo modo di vivere noi siamo testimoni davanti al mondo intero: la sorte del Figlio è affidata ai fratelli (At 1,8). Il corpo del Signore è ormai, per sempre, consegnato nelle mani degli uomini.

Protagonista del brano non è, come al solito, Gesù, bensì un’asina con il suo puledro. Sono “legati”, e Gesù “invia” i discepoli a “slegarli” perché “il Signore ne ha bisogno”.

L’asina è simbolo di Cristo e del suo messianismo. Lui non è come il re, che detiene il potere e va a cavallo; neppure è come chi aspira ad esso ed usa il carro da guerra. Viene su un’asina, umile animale da servizio. Ma proprio così fa scomparire carri e cavalli, potenti e prepotenti (Zc 9,9s)! Lui è venuto per servire e dare la vita (20,28), ponendo fine al dominio di chi schiavizza e dà la morte. Questa è la “sua” gloria, vittoriosa su ogni altra, che davanti a lui si rivela come vana-gloria. In lui

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si arresta il sistema di violenza sul quale si basano i rapporti umani. Da Caino in poi la città nasconde, sotto le mura, il cadavere del fratello più debole. Il Figlio dell’uomo, che offre la sua fraternità indifesa, fa la stessa fine. In questo modo viene alla luce il mistero nascosto fin dalla fondazione del mondo (13,35): la malvagità e prepotenza dell’uomo che costruisce Babele, incontra l’umiltà e la mitezza di Dio che fonda una città fatta di figli e di fratelli - il mondo nuovo, che fin da principio il Padre aveva creato nel Figlio. Il mysterium iniquitatis si trova faccia a faccia con il mysterium amoris, e la sua ultima vittoria ne è la sua sconfitta definitiva. Il brano descrive il viaggio di Gesù da Betfage a Gerusalemme, fin dentro il tempio: il Signore prende possesso della città santa e del tempio, come dice l’ultima pagina dell’AT (Ml 3,1ss). Viene per il “suo” giudizio, che si compirà sul Golgota. Malachia si chiede: “Chi resisterà al suo apparire?” (Ml 3,2).

Il “tremendo”, attribuito a Dio da ogni religione e ateismo, è distrutto definitivamente dalla rivelazione del Figlio dell’uomo mite ed umile di cuore (11,29). Con Gesù è per sempre distrutta la falsa immagine di uomo e di Dio che tutti abbiamo. Il vero re non ha nulla di arrogante e violento, non domina né opprime nessuno: libera e serve tutti con amore.

La scena dell’asina è narrata due volte, prima come predizione e poi come evento (cf. anche 26,17–19). Si sottolinea così l’importanza dell’episodio: quanto Gesù ha fatto è profezia di quanto il discepolo sarà chiamato a fare, perché anche per lui possa venire “colui che viene nel nome del Signore”. La missione costante dei discepoli è quella di “slegare” l’asina, liberando in ognuno la capacità di amare.

Il Messia fu ed è rifiutato per la sua scelta di essere servo. Il nostro rifiuto non ha però vanificato il suo piano; l’ha anzi rivelato e realizzato al grado estremo: egli ha posto a nostro servizio, oltre la sua vita, la sua stessa morte, facendo anche di essa un atto d’amore.

Il brano, che ha come sottofondo di contrappunto Ml 3,1ss, è molto articolato: la missione dei due a liberare l’asina con la citazione di Zc 9,9 sulla venuta del Signore (vv. 1-5); l’ingresso trionfale in Gerusalemme con la citazione del Sal 118 sulla fine dell’esodo e l’ingresso nella terra promessa (vv. 6-11); infine l’entrata del Signore nel suo tempio con altre due citazioni (vv. 12-17), la prima sulla sua restituzione a luogo di comunione con Dio (Is 56,7) e la seconda sui piccoli che riconoscono la grandezza di Dio (Sal 8,3).

Il racconto è posto subito dopo la guarigione del cieco: l’uomo finalmente viene alla luce e vede il Volto, salvezza del suo volto e suo Dio (Sal 43,5). Anche lui ora esclama: “È molto bello” (Gen 1,31). Guarito l’occhio (cf. 20,29ss), può vedere la luce, principio della creazione nuova. L’episodio segna il primo giorno della settimana santa, che ci mostrerà il Signore della gloria.

Gesù è il re promesso, il Messia che viene nel nome del Signore. La sua umiltà e mitezza purifica noi e Dio stesso: noi dall’arroganza e dalla violenza, e lui dalla cattiva immagine che ce ne siamo fatti. Muore il mondo vecchio e nasce quello nuovo: termina la schiavitù e inizia la libertà. Al dio fatto a immagine dell’uomo, succede l’uomo fatto a immagine di Dio.

La Chiesa riconosce Gesù sull’asina come Cristo e Signore, colui che ci libera dalla falsa immagine di uomo e di Dio, presentandoci colui la cui gloria è amare e il cui regnare è servire.

2. Lettura del testo

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v. 1: Giunsero a Betfage. Betfage significa “casa del fico immaturo”. Richiama il fico sterile (vv. 18ss), figura del tempio, che, come ogni uomo, non porta il frutto di cui il Signore “ha fame”. A Betfage i pellegrini si purificano per entrare nella città santa. Gesù prepara il suo ingresso regale purificando ogni nostra falsa attesa, destinata a rimanere sterile.verso il monte degli Ulivi. È un declivo ad oriente di Gerusalemme, dove Ezechiele vide fuggire la Gloria (Ez 11,23) e da dove il Signore verrà per la sua vittoria (Ez 43,1s; Zc 14,1-4).

Gesù inviò due. È la missione definitiva dei discepoli, inviati a due a due (Mc 6,7): trovare, in se stessi e negli altri, un’asina “legata” e “slegarla”, come Gesù fece e ordinò di fare.

v. 2: troverete un’asina legata e un puledro con essa. Quest’asina è una madre i cui figli sono come lei. In un graffito del Palatino c’è l’immagine di un crocifisso con la testa d’asino. Sotto c’è scritto: “Alessameno adora il suo Dio”. Anche se può essere l’irrisione di un pagano, è certamente significativa per un cristiano.

L’asina è un “somaro”: porta la soma. Ora la legge di Cristo è portare i pesi gli uni degli altri (Gal 6,2): è il comando dell’amore, compimento della legge e dei profeti, che ci rende perfetti come il Padre (7,12; 5,48). L’asina rappresenta la capacità di servire, nostra somiglianza con Dio. Essa, legata dalla menzogna originaria che ce l’ha fatto immaginare diverso, è finalmente liberata in noi dal Signore Gesù.Questa scena non ha avuto grandi interpretazioni teologiche, nonostante la sua posizione di rilievo nei vangeli. Forse perché c’è poco da dire: c’è solo da contemplare con amore, fino a lasciarsi cambiare il cuore.

Matteo qui parla di un’asina e del suo puledro, come è scritto nel testo che cita (Zc 9,9). C’è chi ha visto nei due, rispettivamente, la sinagoga e i pagani, Israele e la Chiesa, i due discepoli inviati o i due ciechi del brano precedente. La reduplicazione è cara a Matteo. Due è il principio del molteplice: ciò che è accaduto a uno, accade in seguito un altro – chi ascolta il racconto ripete l’esperienza di cui si parla. Per questo nel v. 7 si dice che Gesù sembra cavalcare su ambedue!

slegate. La libertà di servire fin dall’inizio fu legata. Da Adamo in poi, ignari dell’amore di Dio per noi, timorosi di lui e di tutto, siamo incapaci di amare. La missione di Gesù, che i discepoli sono invitati a continuare, è quella di liberare la libertà dell’uomo.

v. 3: se qualcuno vi dice qualcosa. Questo qualcuno siamo tutti noi, che ci chiediamo: a che pro slegare l’asina, a che serve servire? Cambia forse qualcosa? Tutta qui la libertà che Dio ci propone?

il Signore ne ha bisogno. In tutto il vangelo è l’unica cosa di cui il Signore abbia bisogno! In questo, e non in altro modo, lui entra nel mondo e fa dell’uomo il tempio della sua gloria.

ma subito li invierà. Questa cavalcatura, dopo essere servita al Signore, sarà inviata a noi. Sarà sempre a nostra disposizione: ogni giorno torneremo a legarla, e saremo chiamati a slegarla!

v. 4: perché si compisse ciò che fu detto. Matteo interpreta la scena come il compimento di Zc 9,9 (cf. Is 62,11), che parla del Signore che viene a regnare sul suo popolo.

v. 5: il tuo re viene a te, mite. Il re promesso è diverso da come ognuno l’attende: viene per servire e dare la vita, non per spadroneggiare e opprimere (20,24ss). Così porta il giudizio di Dio: non sono i violenti, ma i miti a ereditare la terra (5,5) e a godere di una grande pace (Sal 37,11). Quelli che prima soccombevano ai prepotenti e non avevano altra terra

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che quella che ricopriva il loro corpo martoriato, ora regnano, liberi come il loro Signore.

seduto su un’asina e su un puledro. Il trono del Signore è l’asina: regna dalla croce, dove porterà ogni nostro peso e offrirà la sua vita a servizio di tutti. Nessuno mai è salito né vuol salire su questa cavalcatura, tranne lui (Mc 11,2b).

v. 6: i discepoli, essendo andati, ecc. I discepoli vanno ad eseguire l’ordine di Gesù. Anche in seguito, ovunque andranno, troveranno l’asina legata, e la slegheranno.

v. 7: condussero l’asina e il puledro. Da sempre il Signore, che è amore e servizio, ha desiderato che noi fossimo come lui. L’incontro tra lui e l’asina segna l’inizio del regno di Dio in terra.

gettarono su di essi i mantelli. Il mantello è vestito, giaciglio, coperta e casa: per il povero è tutto! Per questo non si può trattenerlo in pegno (Dt 24,12). La folla lo getta sull’asina e sull’asinello: investe nel servizio ogni sua ricchezza.

e vi si sedette sopra. Il Signore è Signore in quanto è servo: sull’asina si manifesta tale e fa scomparire cavalli e carri (Zc 9,10)! È da notare che Gesù si siede su tutti e due gli asini, sulla madre e sul figlio. Infatti ovunque c’è amore, lui regna.

v. 8: le folle numerosissime. È l’anticipo di ciò che sarà alla fine, quando tutti, dalla croce riconosceremo chi è il Signore.

stesero i loro mantelli sul cammino. La via regale è tappezzata di mantelli gettati via. Su di essa viene il re, e cammina chiunque si libera dal mantello.

altri tagliavano rami. Richiama il salmo citato subito dopo: “Ordinate il corteo con rami frondosi fino ai lati dell’altare” (Sal 118,27). È l’inno della festa delle capanne.

v. 9: le folle che lo precedevano e che seguivano. Chi tra costoro lo seguirà sino alla fine (27,55s), e chi invece griderà: “Sia crocifisso!” (27,22s)?

gridavano. Ora tutti gridano, come i due ciechi (20,30s). Le parole sono dal Sal 118,15, che canta la fine dell’esodo, l’ingresso nella terra e il dono della legge. Chi accoglie il Messia povero e umile, vede compiuto il cammino di liberazione e gode del frutto della terra perché vive pienamente la parola del Signore.

osanna! Significa: “salva, prego!”. Originariamente è un grido di invocazione, che poi diventa di acclamazione.

Figlio di Davide. Le folle lo invocano come i due ciechi (20,23s). È il Messia promesso, che salva il popolo e regna in eterno.

benedetto colui che viene nel nome del Signore. Il Figlio di Davide è benedetto e viene a salvarci nel nome del Signore, proprio perché viene così. Chi viene sui carri e sui cavalli, non viene nel nome del Signore: è maledetto e non ci salva.

v. 10: si scosse tutta la città. Succede come all’arrivo dei Magi, che cercano il re dei giudei (2,3). Alla sua morte si scuoterà la stessa terra, e i sepolcri aperti restituiranno alla vita i loro morti (27,51s).

chi è costui? La domanda sulla identità di Gesù si pone davanti alla sua umiltà e mitezza. Infatti si rivelerà quando sarà condannato - sarà anzi condannato perché si rivela (26,60)! -, e sarà riconosciuto solo sulla croce (27,54).

v. 11: è il profeta Gesù da Nazareth. È il Nazoreo, come la gente chiama lui, e dopo di lui i suoi discepoli. In lui si compie ogni profezia (cf. 2,23).

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v. 12: entrò Gesù nel tempio. Il tempio è il centro della vita: è il luogo del rapporto con Dio, davanti al quale l’uomo ritrova se stesso. La Gloria prende possesso della sua abitazione e scaccia chi ne aveva usurpato la dimora (cf. Ml 3,1ss). Venendo sull’asina, Gesù distrugge il tempio - l’immagine di Dio che noi abbiamo - per mostrare il vero tempio: il corpo del Figlio dell’uomo, che dà la vita per ogni figlio d’uomo.scacciò tutti quelli che vendevano e comperavano. Il tempio è ridotto a mercato. Dio è diventato mezzo, se non addirittura oggetto, di compravendita, usato dai furbi per guadagnarci e dai pii per guadagnarlo! La croce è la Presenza, davanti alla quale crolla ogni idolo (cf. 1Sam 5,1ss): è la distanza infinita che il Dio della misericordia ha posto tra sé e ogni nostra idea su di lui. Sulla croce muore il dio oggetto e soggetto di rapina, e nasce sulla terra il vero Dio, mite e umile.

rovesciò le tavole dei cambiavalute, ecc. Nell’atrio del tempio c’erano i cambiavalute, perché le offerte e il prezzo per le vittime dovevano essere in moneta nazionale, non pagana - ottima fonte di guadagno! Con Gesù cessa la religione del sacrificio dell’uomo a Dio e della violenza che esso implica: misericordia io voglio, e non sacrificio (9,13; 12,7). La misericordia, essenza di Dio, porterà lui stesso ad essere preda dell’uomo - ultimo e definitivo sacrificio, che ci svela la mostruosità della nostra violenza.

v. 13: la mia casa sarà chiamata casa di preghiera (Is 56,7). Il tempio è ridotto a ricettacolo di chi, da Adamo in poi, vuol rapire la “Gloria”. L’azione di Gesù, chiamata giustamente “purificazione del tempio”, fu intesa come azione politica (il tempio è il centro del potere), segno profetico (il nuovo tempio sarà l’uomo libero di amare), restaurazione del vero culto (non più sacrifici, ma misericordia), distruzione del tempio (altrove si adora in spirito e verità!). Sono tutte interpretazioni vere nella misura in cui si tiene presente che Gesù compie tutto questo sull’asina. La violenza che qui usa, puramente simbolica, allude a quella che lui subirà sulla croce. Il suo corpo crocifisso sarà il nuovo tempio, nel quale Dio si offre a ogni uomo. Nell’uccisione dell’innocente che porta su di sé il peccato del mondo, è distrutto il vecchio tempio con i suoi padroni ed è creato l’uomo nuovo, tempio dello Spirito, in comunione con il Padre. Il nuovo culto sarà l’amore del Figlio verso i fratelli, pieno compimento della volontà del Padre.

ne fate una spelonca di ladri (Ger 7,11). Il tempio è diventato il luogo dove l’uomo è derubato della sua immagine di Dio, e Dio della sua realtà di amore.

v. 14: si avvicinarono a lui ciechi e storpi nel tempio. Gli esclusi hanno accesso al nuovo tempio; nessuno più dice: “Certo il Signore mi escluderà dal suo popolo” (Is 56,3). In esso Dio si prende cura di ogni debolezza dell’uomo.

v. 15: i sommi sacerdoti e gli scribi, ecc. I potenti e i sapienti si adirano nel vedere queste meraviglie; i fanciulli invece gridano l’osanna! Ciò che i grandi ignorano, è donato ai piccoli (cf. 11,25).

v. 16: dalla bocca di infanti e lattanti ti procurasti lode (Sal 8,3). A chi obietta, Gesù risponde che la grandezza di Dio e dell’uomo, suo figlio, è proclamata dai più piccoli. Solo questi accolgono l’amore del Padre, e colgono la grandezza del nome di Dio.

v. 17: lasciatili, uscì dalla città, ecc. Cala la sera su tutto. Calerà presto anche su Gesù. La Gloria abbandona il tempio e i suoi padroni.

3. Pregare il testo

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a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando il viaggio dal monte degli Ulivi al tempio.c. Chiedo ciò che voglio: vedere il mistero dell’umiltà di Dio che si fa servo.d. Traendone frutto, contemplo la scena, soprattutto l’asina e il puledro.

Da notare: inviò due discepoli troverete un’asina legata slegatela e conducetela da me ecco il tuo re viene, mite gettano i mantelli benedetto colui che viene nel nome del Signore chi è costui? entra nel tempio scaccia tutti quelli che comprano e vendono casa di preghiera/spelonca di ladri l’osanna dei piccoli e l’ira dei grandi la lode di Dio viene dalla bocca di infanti e lattanti.

4. Testi utili

Sal 118; 8; Zc 9,9s; Is 56,1ss; Ger 7,1ss; Gv 2,13-22; 13,1-17; Fil 2,5-11; 1Pt 2,4-10.

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85. NON NASCA MAI PIU’ DA TE

FRUTTO IN ETERNO

21, 18-22

21,18 Ora al mattino, rientrando in città, ebbe fame.

19 E, vedendo un fico sul cammino,gli si appressòe non vi trovò nientese non solo foglie,e gli dice:

Non nasca mai più da te frutto in eterno.

E si seccò all’istante il fico.

20 E, vedendo, i discepoli si meravigliaronodicendo:

Come mai all’istante si è seccato il fico?21 Ora, rispondendo, Gesù disse loro:

Amen, vi dico,se avete fede e non dubitate,non solo farete ciò che è accaduto al fico,ma anche se direte a questo monte:

Levati e gettati nel mare,ciò avverrà.

22 E tutto quanto chiederete nella preghiera con fede,

lo otterrete.

1. Messaggio nel contesto

“Non nasca mai più da te frutto in eterno”, dice Gesù al fico, pieno di foglie ma privo di frutti. Dopo averci istruito con l’asina, ora ci istruisce con una pianta (cf. anche 24,32 - 35!). Asina e fico sono due grandi maestri, come il Signore e la croce. L’asina ci insegna come è lui e dovremmo essere noi; il fico; come siamo noi e dovrà essere lui.

Dopo il dono della vista, l’ultimo miracolo è un contro-miracolo, l’unico del vangelo. Chi non viene alla luce, rimane nella morte; chi non accoglie la benedizione, resta nella maledizione.

La vigna è il popolo di Dio (cf. vv. 33ss); il fico è l’albero che produce quel frutto dolce e gustoso, di cui il Signore ha fame: l’amore di Dio e del prossimo. Questo si realizza pienamente nel Figlio dell’uomo che entra in Gerusalemme sull’asina per finire sull’“albero”.

Il fico è la prima pianta a fruttificare: di primavera, in anticipo sulle stesse foglie, dal legno germina i primi frutti, che tengono il posto dei fiori; e continua a produrne senza interruzione, dalla primavera

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all’autunno. Anche d’inverno, chi cerca tra i rami, trova almeno un fico secco. Il detto: ”Non c’è un fico secco” significa che non c’è proprio nulla, al di là di ogni legittima aspettativa.

Marco sottolinea che non era ancora la stagione dei frutti (Mc 11,12ss). Gesù li cerca ugualmente perché, come il fico ha sempre qualche frutto - e quello secco è ancor più saporito! -, così è sempre tempo di amare Dio e il prossimo. Il tempo infatti è compiuto (Mc 1,15): ogni istante è il momento opportuno, senza aspettarne uno migliore.

Questo fico sterile rappresenta l’antico e il nuovo popolo di Dio, come anche ciascuno di noi - il primogenito è il prototipo degli altri fratelli! La nostra infruttuosità deriva dalla mancanza di fede: chi non accoglie l’umiltà del Figlio dell’uomo, scopre la propria nudità di uomo.

Ma anche questo contro-miracolo è positivo: a chi crede di vedere e di essere vestito, fa vedere che è cieco e nudo, perché chieda luce per gli occhi e veste per la sua nudità (cf. Ap 3,17s).

Nel contesto immediato il fico è il tempio. In esso, invece dell’amore, fiorisce il commercio degli uomini tra loro e con Dio. Tante belle liturgie, ma nessun ascolto di Dio; tanto frascame, ma nessun frutto! Ognuno di noi, da Adamo in poi, è ricco di foglie, ma povero di comunione con il Padre e con i fratelli.

Ma perché Gesù se la prende con un albero? Sono forse le piante colpevoli come gli uomini? (cf. Dt 20,19). Stia tranquillo chi ama la natura: questa pianta maledetta si sentirà per sempre onorata: porterà frutti dodici mesi all’anno, e le sue foglie serviranno non a nascondere le vergogne, ma a guarire le nazioni (cf. Ap 22,2). È infatti figura dell’albero della croce, carico di ogni maledizione e peccato (cf. Gal 3,13; 2Cor 5,21). Da esso penderà colui nel quale la terra darà il suo frutto (Sal 67,7). Lui, legno sempre verde, avrà la sorte di noi, legno secco (Lc 23,31): bruciato e consumato dal nostro male, ci darà il fuoco del suo Spirito (27,50).

Il brano si divide in due parti: la fame del Signore e la maledizione del fico seccato all’istante (vv. 18-19), la sorpresa dei discepoli e la catechesi di Gesù sul potere della fede (vv. 20-22).

La fede serve non a seccare piante, ma a produrre il frutto di vita; non fa spostare montagne nel mare, ma a seguire il Signore fin sul Golgota, monte della sua gloria. Questa fede si ottiene “guardando” colui che viene sull’asina e finisce sull’albero.

Al posto di questo racconto, Lc 13,6-9 riporta una parabola sul dialogo tra giustizia e misericordia: ogni anno che viene è un ulteriore tempo accordatoci dalla pazienza di Dio, il quale attende la nostra conversione.

Gesù è il Figlio, pieno di fiducia nel Padre e carico di amore per i fratelli. Lui, albero fruttuoso, porterà su di sé la nostra sterilità e nudità. Sul monte Calvario si getterà nel mare della morte, per portare la luce del Padre in ogni perdizione.

La Chiesa, innestata sull’albero della croce, porta il suo stesso frutto (Gv 15,1-17). Quando non accoglie l’umiltà e la mitezza del suo Signore, sta ancora sotto la maledizione della sterilità.

2. Lettura del testo

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v. 18: Ora al mattino. È l’inizio di un giorno lungo: mancano due giorni alla pasqua (26,2)! In questa giornata, trascorsa presso il tempio, c’è prima una lunga sessione di dispute e parabole sul “potere” di Gesù (21,23-22,46); segue poi una denuncia della religiosità ipocrita (c. 23) e chiude infine un lungo discorso sulla fine del mondo (cc. 24-25).

rientrando in città, ebbe fame. Il Signore, entrando in città, come ha bisogno dell’asina e del puledro (v. 3), così ha fame del frutto del fico: come ama, così ha fame di essere amato. Se non è amato, muore: la sua fame sarà la croce.

v. 19: vedendo un fico sul cammino. L’albero, che congiunge il basso con l’alto e trasforma in vita i quattro elementi, è simbolo dell’uomo. Come lui ha radici nella madre terra, dalla quale esce per elevarsi diritto verso il cielo e produrre fiori, foglie e frutti, per poi spogliarsi e rifiorire di nuovo. Il fico, in particolare, è quella pianta della vigna che fa quel dolce frutto di cui tutti, Dio compreso, hanno fame: l’amore per il Padre e per i fratelli. L’uomo è fatto per questo (cf. 22,37-39). Nel suo cammino Gesù, come tutti i profeti, viene a vedere se c’è il frutto desiderato (cf. vv. 34ss).

non vi trovò niente, se non solo foglie. Da Adamo in poi, Dio non ha mai trovato risposta al suo amore: la sua fame rimase insoddisfatta. Da sempre l’uomo è valido produttore e vorace consumatore di foglie: vuole nascondere i propri limiti che più non accetta, celare la propria identità che più non conosce. La storia delle foglie di fico è la stessa dell’uomo e della sua cultura. Dio fin dal principio le sostituì con tuniche di pelle, per offrire alla fine le vesti del Figlio (Gen 3,21; Mt 27,35).

non nasca mai più da te frutto in eterno. La parola profetica di Gesù svela la maledizione, tremenda ma nascosta, dell’uomo: più si riveste di foglie, più è morto. Per mancanza di fede, la stessa religiosità si riduce a copertura di iniquità, come il tempio.

e si seccò all’istante. L’albero resta senza linfa, come la mano dell’uomo che Gesù aveva guarito di sabato (12,10). Si sottolinea l’istantaneità per indicare il mistero che tra poco sta per compiersi a Gerusalemme.

v. 20: i discepoli si meravigliarono. Sono meravigliati per il prodigio che hanno visto; ma non hanno capito cosa significa.

come mai all’istante si è seccato il fico? L’albero serve loro da specchio, perché vedano nel fico sterile se stessi, ancora vittime della vanagloria e ciechi davanti al Figlio dell’uomo.

v. 21: se avete fede e non dubitate. Gesù riprende la stessa lezione sulla fede data dopo la trasfigurazione (17,20). Là ne mostrava l’efficacia: un granellino di senape basta per spostare i monti. Qui ne mostra la qualità: è una fiducia alla quale tutto è possibile, perché riposta in colui al quale nulla è impossibile.

farete ciò che è accaduto al fico. La prima opera della fede è farci vedere la nostra condizione di poveri, ciechi e nudi, proprio per mancanza di fiducia: ci fa cadere le foglie come al fico sterile. La seconda è farci vedere la realtà del Signore: il fico è l’albero stesso della croce, sul quale vediamo la Gloria. L’albero seccato svela la verità nostra e di Dio: la maledizione del nostro peccato e la benedizione del suo amore che se ne fa carico.

se direte a questo monte, ecc. “Questo monte” è lo stesso della trasfigurazione (17,20), che deve camminare e cambiare posto, sino a finire nel mare. La fede infatti fa vedere la Gloria nell’abisso sul Calvario, il monte dove Dio sprofonda nel gorgo del male per incontrare ogni perduto.

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v. 22: quanto chiederete nella preghiera con fede, lo otterrete (cf. 7,7-11). “Con fede”, senza dubitare, chiediamo davanti all’albero della croce il dono della fede stessa, per uscire dai nostri dubbi: chiediamo di vedere Dio rivestito della nostra nudità e noi rivestiti della sua gloria. Questa è l’opera di Dio: la nostra fede in Gesù (Gv 6,29).

Pregare il testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando Gesù che entra in città.c. Chiedo ciò che voglio: vedere la mia sterilità e credere senza dubitare

nell’amore del Signore che per me va sull’albero della croce.d. Traendone frutto, medito sul testo.

Da notare: ebbe fame il fico è ricco di foglie ma senza frutti il fico resta spoglio come mai il fico è seccato all’istante? se avete fede e non dubitate farete ciò che è accaduto al fico e

sposterete questo monte nel mare! quanto chiedete con fede, lo otterrete!

4. Testi utili

Sal 65; 67; Is 1,10-31; Is 53,1-12; Ger 3,1ss; Ger 7,1-15; Mt 7, 7-11; 17,19ss; 18,19s; Rm 11,16-24; Gv 15,1-17.

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86. IL BATTESIMO DI GIOVANNI DA DOVE VENIVA:DAL CIELO O DAGLI UOMINI?

21, 23-27

21,23 Ed entrato lui nel tempio,mentre insegnava gli si avvicinaronoi sommi sacerdoti e gli anziani del popolo,dicendo:

Con quale potere fai queste cose?E chi ti ha dato questo potere?

24 Ora, rispondendo, Gesù disse loro:Anch’io vi chiederò una parola,e, se mi dite, anch’io vi diròcon quale potere faccio queste cose:

25 Il battesimo di Giovannida dove veniva?dal cielo o dagli uomini?

Ora essi ragionavano tra sé dicendo:Se diciamo: dal cielo,ci dirà: perché allora non gli credeste?

26 Se diciamo: dagli uomini,temiamo la folla,perché tutti ritengono Giovanni come profeta.

27 E, rispondendo a Gesù, dissero:Non sappiamo.

Anche lui disse loro:Neppure io vi dicocon quale potere faccio queste cose!

1. Messaggio nel contesto

“Il battesimo di Giovanni da dove veniva?”, chiede Gesù a chi lo interroga. Per conoscere il suo potere bisogna prima ascoltare il Battista. Giovanni, come tutti i profeti, annuncia la conversione (3,2). Riconoscere la malvagità delle proprie azioni, è la condizione per chiedere e ottenere il perdono. Questo arresta il potere di male, ed è il potere stesso del Figlio dell’uomo - dato agli uomini (9,6), perché si riconcilino e inizino una vita nuova.

Tutti gli uomini, con o senza legge, sono peccatori, privi della Gloria (cf. Rm 3,23). È necessario ammettere questo per conoscere il potere di Gesù. Il brano ripete quattro volte la parola “potere” (exousía, in ebraico shaltan, parola imparentata con “sultano”, che deriva dall’arabo). È un attributo di Dio in quanto creatore del cielo e della terra. Il “potere” è la possibilità di agire, propria a ciascuno secondo la sua natura: da ciò che uno fa, si capisce chi è. Il potere di Dio, misterioso come lui stesso, si rivela nel perdono, dove tutti, dal più piccolo al più grande, conosciamo chi lui è (Ger 31,34). Il suo potere, radicalmente diverso dal nostro, ha come simbolo l’asina, che fa vedere la nudità di ogni altro potere. Per

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capirlo è necessario rispondere al Battista. Proprio su questo il Signore ci interroga: ascoltiamo il suo appello a cambiar direzione al nostro pensare e agire?

Chi pone interrogativi senza lasciarsi interrogare, chi desidera sapere senza cambiar parere, chi cerca la verità senza rinunciare alle certezze, chi vuole la giustizia senza rinunciare ai privilegi, non otterrà risposta alla sua sete di conoscenza, di verità e di giustizia. Cercherà solo di salvar la propria faccia davanti agli uomini e la propria facciata davanti a Dio, senza ammettere che dietro c’è un vuoto di morte sempre maggiore; resterà “schiavo degli occhi altrui” (ophthalmodoulía: Ef 6,6; Col 3,22), “idolatra” allo stato puro, vittima del “culto dell’immagine” del proprio io, invece che adoratore di Dio. Il culto dell’immagine - oggi facilitato dai mass-media - è il principio di ogni perversità nei rapporti fra gli uomini. Rovina tutto ciò che c’è di buono: il sapere è in funzione del possedere, il possedere del distruggere, il distruggere dell’apparire…potente! In questa situazione la verità cede il posto alla prevaricazione, la giustizia alla difesa e all’attacco per soddisfare i propri, spesso inconfessati, interessi. La persona è ridotta a maschera funebre di se stessa, a sepolcro, imbiancato o abbronzato! E il Signore tace! L’uomo stesso, suo tempio, è ridotto a una spelonca di ladri, dove Dio è defraudato della paternità e l’altro della fraternità.

Il messianismo di Gesù sull’asina purifica la nostra idea di uomo e di Dio, restituendo l’uomo alla sua libertà e Dio alla sua verità. Ma per capire il suo “potere” è necessario convertirci. Davanti al Figlio dell’uomo che si mette nelle mani di tutti, il nostro tentativo di mettere le mani su tutto, si rivela come sommo male e somma di ogni male, nostro e altrui.

A quanti rifiutano di convertirsi, Gesù non risponde. Ma non li abbandona: li fa rispecchiare nella vicenda dei due fratelli (vv. 28-32), dei vignaioli omicidi (vv. 33-46), dell’invitato al banchetto privo di veste nuziale (22,1-14). Saranno racconti che, anche chi non vuol capire, capirà.

Gesù è la Parola. La capisce chi si stupisce e si converte. Davanti all’indurimento essa si fa silenzio. È il maestoso e misericordioso silenzio di Dio che rispetta la nostra libertà, riflesso della sua, e porta su di sé la condanna della nostra schiavitù.

La Chiesa, quando ascolta la Parola e si converte, sperimenta e testimonia il potere di perdono e di libertà; quando invece la considera ovvia e scontata, si indurisce. Allora la Parola tace: il Signore non le dice più nulla, e lei non dice più nulla al mondo.

2. Lettura del testo

v. 23: Entrato lui nel tempio. Il giorno prima era già entrato per “purificarlo”. Dai capi sarà interrogato proprio su questo gesto.

mentre insegnava. La Parola sta ora al centro del tempio purificato.i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo. Sono i detentori del

potere religioso, politico ed economico. Il popolo è dominato da essi. Sono suoi rappresentanti perché rappresentano ciò che ognuno vorrebbe essere!

L’ingresso di Gesù sull’asina li mette radicalmente in questione. Il potere di Dio è diverso da quello degli uomini: il Pastore, con il suo atteggiamento mite e umile, esautora i pastori prepotenti e arroganti (cf. Ez 34,1ss). Egli viene a strappare le pecore dalle loro mani: spezza le

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spranghe del loro giogo e le libera da chi le opprime, perché possano conoscere chi è il Signore (Ez 34,27b).

con quale potere. Il potere è attributo di Dio, che tutto può perché tutto è. Gesù sull’asina ci ha mostrato il suo potere: è santo, totalmente altro dal nostro.

fai queste cose. La domanda sul potere di “fare queste cose” sta all’inizio, al centro e alla fine della discussione (vv. 23. 24. 27). “Queste cose” sono l’ingresso messianico e la purificazione del tempio, di cui si è appena raccontato. I capi hanno intuito che è finito il loro dominio sul popolo e sul tempio.

chi ti ha dato questo potere? Se il potere di Gesù viene da Dio, il loro è falso e perverso!

v. 24: anch’io vi chiederò una parola, e, se mi dite, anch’io vi dirò, ecc.: Gesù risponde alla domanda con un’altra domanda. La sua non è la furbizia di chi non vuol esporsi! Una risposta può essere data solo a chi vuol intenderla - diversamente è inutile, comunque falsa perché fraintesa! Una domanda che non si lascia interrogare non avrà mai risposta. Un vero interrogare è sempre un farsi interrogare!

C’è un chiedere per carpire e possedere, un altro per capire ed accogliere. Il primo ha come risultato il prendere e uccidere, il secondo il concepire e generare.

v. 25: il battesimo di Giovanni da dove veniva? Il battesimo di Giovanni è il punto d’arrivo della predicazione profetica, che denuncia il male e annuncia il perdono. Solo così è possibile la “conversione”: conoscendo di andare, inconsapevolmente o meno, verso la morte, possiamo cambiare direzione al nostro cammino. Solo la vergogna di ciò di cui stoltamente ci vantiamo, ci toglie dal male. E il male peggiore è considerare onore ciò che in realtà è infamia!

dal cielo o dagli uomini? La domanda di Gesù è se Giovanni è vero o falso profeta, se la sua parola è da Dio oppure no.

ragionavano tra sé. Il loro è un monologo, aborto di dialogo. Cercano una via d’uscita da ciò che li condurrebbe alla verità. È un ragionare che sragiona: vuol giustificare dei privilegi. Non vogliono scoprire di avere torto. È quanto normalmente facciamo quando discutiamo.

se diciamo: dal cielo, ecc. Non possono dire che la parola di Giovanni è giusta, per non condannare se stessi come ingiusti. Crollerebbe il loro prestigio religioso: dovrebbero sfrondarsi di tutte le foglie e mostrare la loro sterile nudità.

Dal loro ragionare si capisce che non sono interessati a cercare la verità, ma a eluderne le conseguenze.

v. 26: se diciamo: dagli uomini, ecc. Non possono dire che Giovanni è un falso profeta: perderebbero il favore del popolo, che lo considera un uomo di Dio.

Il dilemma posto da Gesù è senza scampo. Proporre la verità in modo interrogativo e rispettoso, ma chiaro, è un grande atto di misericordia. È quanto il Signore fa perché possano scegliere; se non sono liberi di scegliere, possono almeno rendersene conto e, nonostante le resistenze contrarie, chiedere con insistenza: “Convertimi, Signore, e sarò convertito!”. Diversamente restano nel drammatico vicolo cieco che sarà descritto nella parabola successiva: si oppongono alla verità con una violenza pari all’evidenza con cui essa si propone.

v. 27: non sappiamo. Non è la risposta di chi ignora, ma di chi non vuol rispondere per non compromettersi. L’ultimo baluardo della menzogna davanti alla verità è aggiudicarsi la buona fede dell’ignorante.

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C’è una “dotta ignoranza”, propria di chi sa di non sapere e si apre all’ignoto. C’è una “sapienza stolta”, propria di chi sa, ma finge di non sapere, perché ciò che sa lo mette in questione. Non riconoscere la verità, che si conosce, è resistenza allo spirito, a quello di Dio e al proprio – anche se nessuno può veramente mentire al suo cuore!

neppure io vi dico. La risposta a chi non vuol rispondere è il silenzio di Dio, rispettoso della maestà sua e della dignità nostra. La sua maestà è misericordia che non vuol condannare; la nostra dignità è la libertà anche di rifiutare la verità. Questa situazione però è tremenda: mostra che usiamo la libertà contro la verità, distruggendo in noi ambedue.

Il silenzio di Dio è il dramma nostro. Ma anche il suo. La croce sarà la sua unica risposta al nostro silenzio. Infatti Dio è parola, e muore se non trova ascolto.

Il suo tacere non è una ripicca contro chi mente sapendo di mentire. Anche davanti alla sua condanna, lui tacerà (26,62s; 27,14). Così fa davanti a ogni shoà. Ma il suo silenzio è la massima rivelazione sua e interpellazione nostra. “Rispondimi, e io ti risponderò!”, ci dice lui.

Se lui tace, noi siamo come chi scende nella fossa (Sal 28,1). Il silenzio di Dio è anche la morte dell’uomo. Perché lui è il nostro interlocutore, e noi la risposta che a lui diamo. Cercare la parola di Dio e non trovarla, è la più grande maledizione (cf. Am 8,12), propria di chi soffoca la verità nell’ingiustizia (Rm 1,18).

3. Pregare il testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando Gesù nel tempio che dice la Parola.c. Chiedo ciò che voglio: il mondo nuovo, convertimi, e io mi convertirò!d. Contemplo la scena, identificandomi con i capi che pongono la

domanda a Gesù e ascoltano la sua rivolta a loro.

Da notare: Gesù nel tempio che insegna i sommi sacerdoti e gli anziani lo interrogano con quale potere fai queste cose? vi chiederò anch’io una parola, e, se mi dite, anch’io vi dirò il battesimo di Giovanni è da Dio o dagli uomini? se è da Dio, perché non ci crediamo? non sappiamo! neppure io vi dico qual è il mio potere.

4. Testi utili

Sal 28; 52; Am 8,4-12; Rm 1,18-32; Ez 16; Gv 9, 39-41.

87. VOI, PUR AVENDO VISTO,

NEPPURE VI PENTISTE PER CREDERGLI

21, 28-32

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21,28 Che ve ne pare?Un uomo aveva due figli,

e, andato dal primo, disse:Figlio,va’ oggia lavorare nella vigna.

29 Egli, rispondendo, disse:Non voglio!

Ma poi, pentitosi, andò.30 Ora, recatosi dal secondo,

gli disse lo stesso.Egli, rispondendo, disse:

Sì, signore!Ma non andò.

31 Chi dei duefece la volontà del padre?

Dicono:Il primo.

Dice loro Gesù:Amen, vi dico, che i pubblicani e le prostitutevi precedono nel regno di Dio.

32 Venne infatti Giovanni da voinella via della giustizia,e non gli credeste;mentre i pubblicani e le prostitutegli credettero.Voi, pur avendo visto, neppure vi pentiste per credergli.

1. Messaggio nel contesto

“Voi, pur avendo visto, neppure vi pentiste per credergli”, dice Gesù ai capi del popolo che gli chiedono qual è il suo potere. Non può rispondere alla loro domanda, perché non sono disposti a riconoscere il loro errore e tirarne le conseguenze.

Chi non vuol cambiare, non può capire chi gli propone il contrario di quanto lui fa. Gesù non è un dispettoso che si diverte a capovolgere le nostre idee: le capovolge solo per raddrizzarle: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” (Is 55,8).

Chi non vuol convertirsi non è però abbandonato a se stesso: il Signore gli parla in parabole, perché, vedendo di non vedere, si converta e sia guarito (cf. 13,13-16). Gesù si rivela con chiarezza a chi lo ama, anche se non lo capisce come Pietro; a chi lo capisce, ma non lo ama, parla prima con il suo silenzio, e poi con parabole. Si tratta di un modo di parlare che insieme tace e dice: esprime qualcosa di comprensibile, che allude a qualcos’altro che, quando uno vuole, può capire.

Questa parabola svela la situazione dell’ascoltatore che non vuol convertirsi: è come il fratello che dice sì, ma non fa. Quando è cosciente di questo, può diventare come l’altro, che dice no, ma poi cambia parere.

La parabola è costruita sul confronto tra due fratelli. Il confronto diventa paradossale, addirittura scandaloso, nella conclusione, dove si

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afferma che le persone palesemente ingiuste sono da preferire a quelle ritenute giuste. Queste infatti non sentono alcun bisogno di conversione.

I sacerdoti e i notabili del popolo sono come il fico, che ha tante foglie e nessun frutto; sono come il tempio, che è spelonca di ladri e non casa di preghiera. Ma non si convertiranno mai, fino a quando si credono giusti. I peccatori al contrario, almeno quelli pubblicamente indicati come tali, hanno un vantaggio. Ovviamente non fanno la volontà di Dio; ma non possono fingersi giusti, se non altro perché tutti ricordano loro ciò che sono.

“Fare la volontà del Padre” è il centro del vangelo di Matteo: significa riconoscersi figlio e vivere da fratello. Questo è possibile a chi si converte; ma si converte solo chi sente disagio del proprio male. Vero cieco è chi crede di vedere (cf. Gv 9,41), vero peccatore chi si crede giusto (cf. Lc 18, 9-14). E il suo peccato non ottiene perdono perché neppure lo vuole.

La parabola mette in evidenza questo grave peccato, perché non si consumi nell’inavvertenza di una sorda resistenza allo Spirito. Il racconto successivo mostrerà come esso agisce nella storia passata e presente.

Nel contesto “far la volontà di Dio” è conoscere e accogliere il giudizio compiuto sui capi e sul tempio dal Signore che viene sull’asina. La parabola (vv. 28-30), perché sia capita senza equivoci, è anche spiegata agli interlocutori, direttamente coinvolti (vv. 31-32).

Gesù è venuto per compiere un giudizio: perché chi è cieco veda e chi crede di vedere veda la propria cecità (cf. Gv 9,39).La Chiesa, come Israele, si riconosce in coloro che dicono: “Signore, Signore!”, ma non fanno la volontà del Padre (7,2ss). È la casta meretrix, meretrice che diventa casta sposa in quanto si riconosce prostituta; diventa “sì” ogni qualvolta riconosce il proprio “no” e si converte. La stessa lettura che fa della Parola può essere profetica o apologetica: la prima la dichiara ingiusta e la chiama a conversione, la seconda è un tentativo di autogiustificazione, che indurisce nella cecità.

2. Lettura del testo

v. 28: Che ve ne pare? Gesù interpella gli interlocutori, sperando di ottenere la risposta che prima gli hanno negato. Almeno non potranno negarla a se stessi! Infatti capiranno che la parabola è per loro (v.45).

un uomo aveva due figli (cf. Lc 15,11ss). Nella parabola ci sono spesso due figure contrastanti, che si illuminano a vicenda. Sono in realtà una sola persona: sono io che leggo, anche se penso sempre di essere una terza persona! Infatti sono il fratello minore di Luca 15,11ss che trasgredisce, ma invidia con nostalgia le sicurezze del maggiore; e sono anche il maggiore che obbedisce, ma invidia con rancore la libertà del minore. In realtà i due fratelli sono uguali: hanno la stessa immagine del Padre, ritenuto un padrone esigente al quale ribellarsi o piegarsi. Devo cambiare la mia idea su di lui. E questo è possibile solo se, oltre l’esperienza di ribellione e di schiavitù, scopro che lui è amore e libertà. In questa parabola io sono quello che dice sì a parole, ma non con i fatti: non voglio fare la volontà del Padre, proprio come quello che dice no. Ma solo se lo so, posso pentirmi e cambiare.

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andato dal primo disse. Il primo non è, come ci si aspetterebbe il “maggiore”, il “giusto”, ma l’altro. Infatti i primi sono gli ultimi e gli ultimi primi (20,16).

figlio. È in quanto figli, e non schiavi, che siamo costantemente invitati al lavoro nella vigna del Padre, a ogni ora (cf. 20, 1-16).

va’ oggi. “Oggi” è il giorno della nostra vita terrena, in cui siamo chiamati ad ascoltare la sua voce (Sal 95,8). Affrettiamoci ad entrare in quest’oggi, che è Dio stesso, nostro riposo (cf. Eb 4,11).

a lavorare nella vigna. La vigna è il popolo di Dio (cf. v. 33). Il lavoro nella vigna del Padre è il servizio dei fratelli, pieno compimento della legge (cf. 7,12; 22,40). Questo è il frutto della vigna - quello di cui è privo il fico carico di foglie (v. 19), come pure il tempio, pieno di briganti (v. 13).

v. 29: non voglio. In certi manoscritti, che noi seguiamo, è invertito l’ordine rispetto a quello che usualmente viene presentato. Fin dall’inizio Adamo ha detto di no al Padre: ingannato dal serpente, fa la volontà di questi, nell’illusione di agire per il proprio bene (cf. Gen 3,1ss). Uno è figlio di colui del quale ascolta la parola. L’uomo, che non ascolta Dio, perde la somiglianza con lui e si ingorga nello svuotamento progressivo della propria umanità, fino a distruggersi. Il veleno della parola cattiva, cui ha dato ascolto, lo rende “progenie di vipere” (3,7; 12,34; 23,33), figlio del serpente, menzognero e omicida fin dal principio (Gv 8,44). La menzogna è sempre omicida: uccide perché toglie all’uomo la Parola che lo fa tale.

poi, pentitosi. Non si racconta come avviene questo cambiamento. Da sempre i profeti hanno cercato di far vedere l’orrore di aver abbandonato il Signore, fonte di acqua viva, per scavarsi cisterne screpolate, che non tengono l’acqua (cf. Ger 2,13).

andò. Il frutto del pentimento è la “con-versione”: il ritorno a colui dal quale si è fuggiti.

Il fine di questa parabola, come di ogni parola profetica, è rivelare il nostro no perché passiamo al sì verso colui che da sempre è tutto e solo “sì” (cf. 2Cor 1,19s). Il nostro primo “sì” sarà dire innanzitutto: “Sì, è vero, dico no al sì!”.

v. 30: recatosi dal secondo, disse lo stesso. La proposta del Padre ai figli è identica: è il comando dell’amore, che li realizza rendendoli simili a lui!

sì, signore. Questo secondo figlio guarda il padre come un padrone al quale non può dire di no - anche se questo è il suo desiderio, che poi di fatto segue. La persona religiosa si sente in obbligo di compiacere a Dio: è un dovere! Ma per dovere nessuno mai saprà amare!

ma non andò. Anche questo figlio, come l’altro, non vuole ascoltare il Padre. Tuttavia, mentre chi dice no ci ripensa e cambia parere, chi dice sì per forza, necessariamente non fa. È diviso: dice sì perché non può dire no, ma non fa perché non può fare diversamente. La paura di mettersi contro il padre/padrone gli vieta di riconoscere il proprio no. Esprimere apertamente il proprio rifiuto è già un segno positivo: suppone che il padre rispetti la libertà del figlio. Dire sì per paura suppone invece che il padre non tolleri la libertà e schiacci chi si ribella. Un vero sì passa sempre attraverso il no. Il no è importante in ogni relazione. Anche il bambino passa al sì attraverso la fase ostinata del no: è la condizione necessaria per essere se stessi e riconoscersi altro dall’altro.

v. 31: chi dei due, ecc. Gesù esplicita la domanda iniziale: “Che ve ne pare?” (cf. v. 28), chiedendo il parere dei suoi ascoltatori.

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dicono: il primo. Gli ascoltatori capiscono e rispondono correttamente. Ma solo perché, come noi che leggiamo, pensano di identificarsi con un terzo fratello, che fa come il primo e parla come il secondo. Ma questo fantomatico fratello non esiste: chi dice sì, non fa; chi dice no, può convertirsi.

amen vi dico, che i pubblicani e le prostitute. È la parola più dura - e più consolante - che Gesù abbia detto direttamente ai suoi interlocutori, dopo aver loro fatto ammettere ciò che mai avrebbero ammesso (cf. anche v. 41). Ma questo è il “trucco” delle parabole: fanno capire, come detto di un altro, ciò che mai si vorrebbe capire di se stessi.

Noi, che siamo giusti e saggi, ovviamente benpensanti perché benestanti, davanti a Dio siamo molto più indietro dei furfanti e delle prostitute. Siamo noi i veri briganti, che derubano i fratelli e impongono loro balzelli insopportabili (cf. Mt 23,1ss), percependo la “tangente del pio”; siamo noi le vere prostitute che riducono l’amore di Dio a un rapporto di interesse, senza accorgerci che è in pura perdita (cf. Ez 16,33s). Pubblicani e prostitute hanno la patente di peccatori riconosciuti. Noi, fin che non ci identifichiamo con loro, non abbiamo neanche la dignità di sapere che siamo tali.

vi precedono nel regno di Dio. Noi li seguiamo a nostra volta, quando accettiamo di essere peggio di loro. Il figlio, che considera il padre come padrone, è certamente peggiore di quello che si ribella. Questi intuisce che almeno gli è concessa la libertà, l’altro no!

v. 32: venne infatti Giovanni da voi nella via della giustizia. Giovanni, come tutti i profeti, chiedeva la conversione (3,1-12).

non gli credeste. Anzi, l’hanno ritenuto un indemoniato (11,18!) Come osa mettere in questione i giusti?

i pubblicani e le prostitute gli credettero. Per questo il Figlio dell’uomo mangia e beve con loro (11,19): sono suoi fratelli, perché si convertono e fanno la volontà del Padre (7,21).

voi, pur avendo visto. I capi hanno visto non solo Giovanni, ma anche l’ingresso di Gesù a Gerusalemme e nel tempio. Lo vedranno tra pochi giorni in croce, dove sarà legno secco e tempio distrutto - lui, albero della vita e Figlio di Dio! Il segno definitivo con cui si rivelerà, a conversione di noi tutti, sarà il prodotto ultimo della nostra violenza cieca.

neppure vi pentiste per credergli. La fede è la grande conversione: è il passaggio dalla propria presunta giustizia alla giustificazione di Dio. Essa ci fa vedere - la fede è illuminazione! - sia la realtà del nostro no a Dio che quella del suo sì a noi. Quando vedremo il segno del Figlio dell’uomo, in cui si compie il sì di Dio all’uomo e dell’uomo a Dio, allora ci batteremo il petto (24,30).

Ma la salvezza del giusto sarà solo alla fine, o anche prima?… Sarà quando riconoscerà in sé il peccato che rimprovera agli altri. Allora, e non prima, gli sarà possibile convertirsi.

3. Pregare il testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando il tempio, dove Gesù parla ai capi del

popolo.c. Chiedo ciò che voglio: conoscere e riconoscere che sono “no” davanti

al “sì” di Dio per me.

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d. Traendone frutto, medito sulla parabola, immedesimandomi con i vari personaggi che non sono Gesù.

Da notare: che ve ne pare? un uomo aveva due figli figlio, va’ oggi a lavorare nella vigna non voglio poi, pentitosi, andò sì, Signore non andò chi dei due fece la volontà del Padre? i pubblicani e le prostitute vi precederanno nel regno di Dio i giusti non capiscono il loro peccato i peccatori si convertono.

4. Testi utili

Sal 14; Ez 16,1ss; Mt 7, 21-27; 23,1ss; Lc 7,36-50; Lc 15; Lc 18,9-14; 2Cor 1,19s.

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88. LA PIETRA CHE I COSTRUTTORI HANNO SCARTATO,

QUESTA È DIVENTATA TESTATA D’ANGOLO

21, 33-46

21,33 Un’altra parabola ascoltate!C’era un uomo, un proprietario,

che piantò una vignae la circondò con una siepee vi scavò un torchioe costruì una torree l’affidò a dei coltivatoried emigrò.

34 Quando si avvicinò il tempo dei frutti,inviò i suoi servi dai coltivatoriper prenderne i frutti.

35 E i coltivatori,presi i suoi servi,percossero uno,uccisero un altro,un altro ancora lapidarono.

36 Di nuovo inviò altri servi,più numerosi dei primi,e fecero con loro lo stesso.

37 Alla fine inviò loro il Figlio suo,dicendo:

Rispetteranno il Figlio mio!38 I coltivatori, visto il Figlio,

dissero tra sé:Costui è l’erede:venite, uccidiamolo,e avremo la sua eredità!

39 E, presolo, lo cacciarono fuori dalla vignae lo uccisero.

40Quando dunque verràil Signore della vignacosa farà a quei coltivatori?

41 Gli dicono:Sterminerà malamente quei malvagie affiderà la vigna ad altri coltivatoriche gli daranno i fruttinei loro tempi.

42 Dice loro Gesù:Non avete letto nelle Scritture:

La pietra che i costruttori hanno scartato,questa è diventatatestata d’angolo;

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dal Signore venne questo,ed è una meraviglia ai nostri occhi?

43 Per questo vi dico

che sarà levato loro il regno di Dioe sarà dato a un popolo (pagano)che ne faccia i frutti.

44 E chi cade su questa pietrasarà sfracellato,e colui sul quale cadràsarà stritolato.

45 E i sommi sacerdoti e i farisei,

ascoltando la sua parabola,capirono che parlava di loro.

46 E, cercando di impadronirsi di lui,temettero la folla,perché lo ritenevano un profeta.

1. Messaggio nel contesto

“La pietra che i costruttori hanno scartato, questa è diventata testata d’angolo”, dice Gesù ai capi del popolo. Dichiara così qual è il suo potere e da dove gli viene: è quello della “pietra scartata” diventata “testata d’angolo”, quello del Figlio crocifisso e risorto. La croce, stoltezza e debolezza per sapienti e potenti, è sapienza e potenza di Dio che salva l’uomo, distruggendo i suoi deliri di morte.

Gesù è il Messia che viene nel nome del Signore (v. 9), perché viene sull’asina. Ciò per cui è scartato, è il potere stesso di Dio, che alla fine sarà riconosciuto proprio da chi lo crocifigge (27,54).

Questo potere, che da sempre il Figlio ha in cielo, gli viene conferito in terra da coloro che lo rifiutano – dai signori del tempio e del popolo, che non conoscono il Signore della gloria (1Cor 2,6-8). Questi scatenano ciecamente contro di lui la loro violenza di morte. E lui si fa loro salvatore e Signore, perché assorbe in sé il loro male senza restituirlo, rivelando così chi è Dio e chi è l’uomo a sua immagine.

Senza soluzione di continuità con la parabola precedente, questo brano è un’allegoria della storia d’Israele, che nella parabola successiva sarà estesa alla Chiesa. Espone una “teologia della storia” in senso forte: dice come Dio vede la nostra realtà, rivelando le “cose nascoste fin dalla fondazione del mondo” (13,35). Dal punto di vista di Dio il mistero che sta all’origine del mondo è il suo amore di Padre verso i figli nel Figlio: tutto è fatto per lui e in vista di lui, e tutto in lui sussiste (Col 1,16s). Ma noi, per ignoranza, strutturiamo tutto sul nostro egoismo, che ci uccide come figli e come fratelli.

Due cose occulte stanno quindi ora all’origine del mondo: il Corpo del Figlio e il cadavere del fratello. E Dio ne fa una sola: il fratello, al quale togliamo la vita, è il Figlio che dà la vita per noi. La storia è un libro sigillato che solo l’Agnello immolato è in grado di aprire e leggere (Ap 5,9). Dio ha voluto fin dall’inizio un mondo bello, riflesso della sua gloria; ma noi ne abbiamo fatto un mondo brutto, pieno di violenza, che uccide il fratello. Al Signore, che rispetta la nostra libertà, non rimane che diventare lui stesso il fratello su cui si scarica la nostra violenza, per restituirci nel suo amore la nostra verità di figli. È una soluzione

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veramente divina: anche chi si oppone a lui, non fa che eseguire il suo disegno. La storia è una progressiva manifestazione del mistero di un Dio che vince il nostro male portandolo su di sé, e fa del nostro sommo misfatto la sua mirabile opera di salvezza per tutti.

Il racconto narra l’intreccio tra la nostra infedeltà e la sua fedeltà. Il suo venirci incontro e il nostro rifiuto. È una passione infelice, senza sbocco. La nostra è una provocazione sorda e continua, con una perversità latente che solo alla fine si esprime. Il brano presenta il braccio di ferro tra il potere dell’uomo, che è violenza distruttiva e autodistruttiva, e quello di Dio, che è amore più forte della morte.

Nell’uccisione del Figlio si compie tutto, sia la nostra perversità sia la sua bontà. Il nostro male esaurisce la sua carica negativa, togliendo la vita all’autore della vita; e Dio si manifesta tale, donando la sua vita a noi che gliela rubiamo. Nell’uccisione del Figlio otteniamo davvero la sua eredità: abbiamo tra le mani il frutto che ci fa simili a Dio (Gen 3,5)! Il Figlio, che nella sua mitezza si fa oggetto di prepotenza, eredita da noi la nostra nudità, e noi da lui la sua veste di figlio (27,35).

Il racconto inizia descrivendo la cura che Dio ha per la sua vigna: manifesta il suo amore con i fatti, perché lo comprendiamo e possiamo fare quel frutto che ci rende simile a lui (vv. 33-34).

Al moltiplicarsi dei suoi gesti di bontà corrisponde un crescendo della nostra cattiveria: percuotiamo e uccidiamo sistematicamente i profeti che ci richiamano a produrre il frutto desiderato (vv. 35-36). La nostra risposta alle sue premure è un’automatica e monotona reazione. Non c’è via d’uscita. All’ostinazione del suo amore, corrisponde il muro sempre più spesso del nostro rifiuto!

Alla fine il Padre manda “il” Figlio. Proprio davanti a lui esce allo scoperto l’intenzione che covavamo nei suoi confronti: ucciderlo per rapirne l’eredità (vv. 37-39). Gli ascoltatori, interpellati da Gesù, rispondono dicendo che il delitto è degno della più severa condanna (vv. 40-41). Ma il Signore dà un’altra interpretazione: il rifiuto dei capi sarà l’inizio di un nuovo popolo, e la pietra scartata sarà testata d’angolo del nuovo tempio (vv. 42-44). I capi del popolo capiscono finalmente che si parla di loro, e si accingono a fare ciò che Gesù ha appena detto (vv. 45-46).

Si dice giustamente che la storia è rivelazione. In essa infatti la violenza toglie sempre più la maschera del suo potere mortifero. Non è un caso, se proprio oggi qualcuno scrive un “Elogio della mitezza” e un “Elogio della solidarietà”. Sarebbe però fuori luogo un “Elogio del nostro tempo”, se non si fa prima un elogio dell’asina e del fico, per ridare all’uomo la sua umanità e a Dio la sua realtà.

Gesù, il Figlio dell’uomo disprezzato e ucciso fuori le mura, è la pietra scartata che diventa pietra angolare: è il Figlio che ci dà l’eredità, è il Pontefice che unisce il Padre ai fratelli e questi tra di loro. La sua croce svela la distruttività della nostra violenza e la forza del suo amore. Questa è l’opera meravigliosa di Dio: la nostra miseria fa uscire la sua misericordia.

La Chiesa riconosce in Gesù l’Agnello, immolato e vittorioso (Ap 5,6.13), che vince il male con il bene (Rm 12,21), spegnendo in sé la nostra potenza di morte. Uniti a lui, israeliti e pagani, siamo figli nel Figlio, albero fruttifero e tempio dello Spirito.

2. Lettura del testo

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v. 33: C’era un uomo, un proprietario. È il Signore, del quale è la terra e quanto contiene, l’universo e i suoi abitanti (Sal 24,1). Lui però non è un padrone. Non si appropria di nulla e di nessuno; al contrario dona tutto a tutti, fino a dare se stesso. Il nostro errore, fin dall’inizio, fu pensarlo diverso da quello che è; noi poi, essendo figli e volendo diventare simili a lui (Gen 3,5), ci siamo efficacemente dati da fare per diventare come l’avevamo immaginato.

piantò una vigna. La vigna è Israele (Is 5,1-7), il primogenito, scelto da Dio tra tutti i popoli come sua proprietà (Es 19,5). Non perché è il più numeroso o forte; è anzi il più piccolo tra tutti i popoli (cf. Dt 7,7). In lui ha voluto far brillare il suo amore di Padre per i suoi figli, in modo che diventi luce per i fratelli.

“Piantare la vigna” è un lavoro paziente e intelligente, che esige impegno e fatica. Bisogna cercare il terreno giusto, adeguatamente solatio, scavarlo profondamente e drenarlo, scegliere e piantare ogni vitigno. Il contadino fa questo con gioia, pensando al frutto. “Piantare la vigna” sintetizza l’azione di Dio per il popolo eletto, dai patriarchi ai Giudici, dalla promessa all’eredità della terra, attraverso la liberazione dall’Egitto e il dono della Parola.

Questa vigna è fatta per rispondere all’amore del Padre con l’amore verso i fratelli (7,12; 22,36-40; Dt 4,6s e Lv 19,18). Se non lo fa, è come il fico sterile.

la circondò con una siepe. La siepe delimita e protegge la proprietà da ciò che la danneggia, ladri o bestie. È simbolo della legge, che caratterizza il popolo nella sua diversità: lo rende simile a Dio, indicandogli il bene e proteggendolo dal male.

vi scavò un torchio. Il torchio, posto al centro della torre per spremere il frutto della vigna, è l’altare da cui sale quel sacrificio gradito a Dio che è la misericordia dell’uomo (9,13; 12,7). Se non c’è questo, le foglie, anche se rigogliose, sono segno di sterilità e maledizione (vedi le critiche profetiche al culto del tempio, ad es.: Is 1,10-20; 58,1ss; Ger 7,1ss; Am 5,21-27; Ml 3,1-5).

costruì una torre. La torre richiama il tempio, che serve a custodia della vigna e deposito dei frutti. Non dovrebbe essere pieno di mercanti e briganti, ma casa di comunione con il Padre e con i fratelli, aperta a tutte le genti.

la affidò a dei coltivatori. Sono gli ascoltatori di Gesù, i capi del popolo, e quanti con loro si identificano. Dovrebbero, come Adamo, collaborare all’azione di Dio coltivando e custodendo il giardino (Gen 2,15), e non distruggerlo per possederlo.

emigrò. Dio non è impiccione. All’uomo fa dono di tutto. Soprattutto della libertà di agire come lui! Fatto al sesto giorno, ha il compito di portare la creazione al settimo, al riposo di Dio. Per questo lui è assente: la sua presenza di Padre è affidata alla responsabilità di figli adulti, che vivono da fratelli. Addirittura emigra all’estero: si fa estraneo, e lo incontriamo in ogni straniero che cerca accoglienza (cf. 25,31-46).

In questo versetto si sottolinea, con verbi di azione, la fatica di quel Dio che con la semplice parola ha creato tutto: è la cura del suo amore per formarsi un figlio adulto, il primogenito. Non è un padrone che fa lavorare altri per rapirne i frutti - come fanno i padroni di questo mondo. Lavora personalmente, a sue spese, e senza vantaggio; l’unica ricompensa per il padre è la felicità del figlio. “Pianta” con cura la vigna, vitigno per vitigno, perché ognuno fruttifichi secondo il suo cuore; la “cinge” di una siepe , che la protegga come le sue braccia; vi “scava” un torchio nella roccia, perché possa godere del proprio frutto; “costruisce”

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una torre, perché vegli su di lei e la custodisca; “emigra” altrove, per darle la libertà di essere come lui.

v. 34: il tempo dei frutti. La vigna è coltivata in vista di quel frutto che rallegra Dio e l’uomo (Gdc 9,13; cf. Sal 104,15): è l’amore per i fratelli, di cui ha fame tanto il Figlio quanto il Padre.

inviò i suoi servi. Invece di “servo”, in greco c’è “schiavo”. Lo schiavo è proprietà del suo signore. Schiavi sono i profeti, che appartengono a Dio, come Dio appartiene a loro (cf. Ct 2,16; 6,3; 7,11). Essere l’uno dell’altro per amore, è la vita stessa del Padre e del Figlio, e di chiunque ha il suo Spirito. I profeti vivono il medesimo dramma del loro Signore che li manda. Vedi in particolare Elia, Geremia e il Battista (cf. 16,14). Sono inviati ai fratelli come testimoni, martiri dell’amore che chiama a conversione.

Oltre l’istituzione del tempio e della monarchia, comune a tutti i popoli - il re rappresenta Dio in terra e il tempio gli garantisce la protezione di Dio - in Israele c’è un’anti-istituzione: il profetismo. Il profeta è contro ogni sacralizzazione e assolutizzazione del tempio e della legge, e, a maggior ragione, del re, che dovrebbe rispettarla. Egli è contro la violenza religiosa e politica: richiama alla fraternità, ricordando al re l’osservanza della legge, e agli osservanti della legge l’amore di Dio e del prossimo.

per prenderne i frutti. Il Signore ha “fame” del frutto della vigna (21,18), come ha “bisogno” dell’asina (21,3). Egli desidera che l’uomo, suo figlio, si realizzi nell’amore e nella libertà di servire, come lui.

v. 35: presi i suoi servi, ecc. È la sorte dei profeti (cf. 23,29-32): portando la mitezza del Padre, sono preda della violenza dei fratelli. Sono martiri, testimoni insieme del nostro male e del suo amore: sono i giusti, prefigurazione del Giusto, sul quale ricade l’ingiustizia (cf. Sap 2,12-20). Nelle loro ferite si spurga la virulenza della nostra cattiveria (cf. Is 53,1-12); nel loro silenzio si spegne la nostra menzogna. Chi opera il bene - può parere scandaloso - non resta mai impunito!

Noi, invece di ascoltare la voce dei profeti, tagliamo loro la gola. Più il Signore ci chiama con la loro parola e il loro esempio, più ci allontaniamo da lui. Chiamati a guardare in alto, nessuno sa sollevare lo sguardo! Ma Dio è Dio, e non uomo. Per questo freme; ma non di ira, bensì di compassione, e viene a noi nella sua misericordia (cf. Os 11,2.7.9).

v. 36: di nuovo inviò altri servi, più numerosi dei primi. Dio non si stanca; moltiplica con generosità i suoi appelli. E noi ripetiamo, autisticamente, con violenza sempre più folle, il nostro rifiuto. Sordi alla Parola, uccidiamo chi la dice, facendo monumenti a quelli che i nostri padri hanno ucciso. Ma questo non ci dissocia dalla loro colpa; ci serve solo da alibi per continuare le loro malefatte, testimoniando così di essere loro degni figli (23,29-32). Circa la sorte dei profeti, vedi anche Eb 11,32-40.

v. 37: alla fine inviò loro il Figlio suo (cf. Eb 1,1s). Dio non ha nulla di più da dirci che la sua stessa Parola, nulla di più da darci che il suo stesso Figlio. Il quale non si vergogna di chiamarsi nostro fratello (cf. Eb 2,11s)!

v. 38: i coltivatori, visto il Figlio. È il Figlio perfetto come il Padre (5,48), irradiazione della sua gloria, impronta della sua sostanza, che tutto sostiene con la sua Parola (Eb 1,3). È il Figlio che fa la volontà del Padre, il quale fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti (5,45).

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è l’erede: venite, uccidiamolo, e avremo la sua eredità. Davanti al Figlio si svela l’intenzione perversa dei fratelli: la sua diversità manifesta la nostra. Noi vogliamo la morte del Padre e del fratello, per impadronirci dell’eredità; vogliamo possedere in proprio ciò che è donato (Gen 3; Ez 16). Questo è il movente della violenza che consuma la nostra storia: appropriarci del dono, non accorgendoci che così lo distruggiamo. E siccome tutto è dono - il mondo, il mio io e Dio stesso - tutto è travolto nelle fauci della morte.

Noi vogliamo l’eredità del Figlio, il tesoro del Padre, ignorando che essa è lo Spirito d’amore, vita di ambedue. Ma proprio uccidendo il Figlio, ne otteniamo l’eredità: a noi, che gli togliamo la vita, egli dona la sua vita.

In questo modo il bene trionfa di ogni male!v. 39: presolo, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. È la

storia che sta accadendo a Gesù, della quale gli ascoltatori (allora come adesso!) sono attori. Tra due giorni lo prenderanno nell’orto, lo cacceranno fuori le mura e lo uccideranno sul Golgota.

v. 40: il Signore della vigna cosa farà a quei coltivatori? Gesù domanda agli ascoltatori il giudizio su ciò che stanno facendo. La loro risposta, senza pietà, è la stessa di Davide a Natan, che gli sta parlando del suo peccato (cf. 2Sam 12,5s). Gesù dice in anticipo ciò che essi intendono fare. Quando sarà accaduto, sapranno almeno che “c’è un profeta”, che ha predetto il loro male e l’ha portato su di sé, coscientemente e liberamente. Solo allora potranno dire: “Ho peccato contro il Signore” (2Sam 12,13) e capire che “davvero costui era Figlio di Dio” (27,54).

v. 41: sterminerà malamente quei malvagi. È la lettura della storia che facciamo noi: pensiamo che Dio sia più violento dei cattivi, e li ripaghi con la stessa moneta. La condanna che, senza saperlo, pronunciamo su di noi, sarà portata dal Signore stesso, che per noi si è fatto maledizione e peccato, perché noi diventassimo giustizia di Dio (Gal 3,13; 2Cor 5,21).

affiderà la vigna ad altri coltivatori, ecc. Questi coltivatori “altri” saranno quanti, vedendo il segno del Figlio dell’uomo, si batteranno il petto (24,30), riconoscendo il proprio no e il suo eterno sì. Essi porteranno frutto, accettando il dono che il Messia crocifisso fa a quanti glielo rapiscono. Tra questi “altri” c’è la Chiesa di Matteo, composta da giudei che hanno ascoltato i profeti e riconosciuto, nel perdono, il loro Signore (cf. Ger 31,31-34).

v. 42: la pietra che i costruttori hanno scartato, ecc. (Sal 118,22s). Questo stesso salmo, citato anche nell’ingresso messianico (21,9), offre a Gesù un’altra interpretazione del fatto, veramente divina. “Pietra” e “il Figlio” in ebraico si richiamano (eben e haben): colui che abbiamo disprezzato, proprio questi è il Figlio che, in quanto ucciso, dà la vita per tutti. Così diviene pietra angolare del nuovo tempio, che unisce cielo e terra, divinità e umanità, giudei e pagani, formando di tutti un solo popolo, annullando ogni inimicizia e condanna tra gli uomini (cf. Ef 2,14-18).

dal Signore venne questo, ed è una meraviglia. Questa è l’opera del Signore, la meraviglia da lui compiuta davanti ai nostri occhi. Noi, del bene che lui ci dà, ne facciamo del male; lui, del male che noi gli diamo, ne fa un bene.

Con l’uccisione del Figlio noi abbiamo usato la nostra libertà - massimo bene che ci rende simili a lui - per compiere il massimo male, addirittura impensabile: uccidere l’autore della vita (At 3,15). E lui ne fa il sommo bene, per tutti: il dono di sé. Come Giuseppe ai suoi fratelli, Gesù dice: “Se voi avevate pensato del male contro di me, Dio ha pensato di

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farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso” (Gen 50,20).

Davvero tutto, anche il male, coopera al bene (cf. Rm 8,28). Tutti si sono riuniti contro il Cristo, per compiere ciò che la mano e il cuore di Dio aveva preordinato che avvenisse (At 4,28), per realizzare il suo disegno e la sua parola (cf. Ap 17,17). Con i perversi, Dio è astuto (Sal 18,27), divinamente astuto: noi facciamo dei suoi doni un furto, e lui fa del nostro furto il suo dono!

Il risultato ultimo della nostra violenza - oltre l’uccisione della vita non può andare nessun potere di morte! - non è la distruzione di tutto. Come dal caos primitivo la Parola creò il mondo, ora lo ricrea nuovo, pieno della sua gloria. Veramente grande e santo è Dio!

v. 43: sarà levato loro il regno e dato a un popolo (pagano) che ne faccia i frutti. Nel regno ci precedono pubblicani e prostitute (v. 31), quelli che hanno dato frutti di conversione. Il nuovo popolo è fatto da quanti, giudei o no, si riconoscono peccatori e accettano nel Figlio crocifisso l’eterno sì del Padre a tutti i suoi figli. Costoro conoscono l’amore del Padre, e possono portare il frutto di una vita fraterna.

v. 44: chi cade su questa pietra, sarà sfracellato, ecc. È un versetto misterioso, che allude a Dn 2,31-45. Il sasso che frantuma il gigantesco colosso e diventa una grande montagna, la forza di Dio che fa crollare l’idolo grande, splendido e terribile che l’uomo si è costruito, è la debolezza della croce. Gesù crocifisso è la pietra di scandalo per tutti, il giudizio di Dio su Israele, sulla Chiesa e su ogni uomo, perché ormai tutti siamo un solo popolo, uniti nella colpa e nel perdono. Queste parole non sono da leggere in senso antigiudaico, ma universale. La storia di Israele è profezia di ogni altra: ciò che è accaduto al primogenito, è ammonimento per noi (1Cor 10,11). Coloro sui quali la pietra è caduta, sono i giudei che per primi hanno ricevuto il Figlio della promessa. Coloro sui quali cade, siamo noi, partecipi della stessa promessa (cf. Gen 12,3).

Il Messia crocifisso, pietra di scandalo - presto o tardi tutti cadiamo su di lui come lui è caduto sui nostri padri -, sfracella e stritola la nostra immagine di Dio e di uomo, per restituire a Dio la sua gloria e all’uomo la sua libertà.

v. 45: i sommi sacerdoti e i farisei. Agli anziani, che c’erano all’inizio (v. 23), succedono i farisei, ai quali sarà dedicato in particolare il c. 23. La parabola è diretta a loro e a noi, a chiunque non riconosce il potere del Figlio, che è quello dell’asina e del suo asinello.

v. 46: cercando di impadronirsi di lui. I nemici stanno eseguendo alla lettera ciò che Gesù ha appena detto. Lo faranno tra due giorni (cf. 26,2). È chiaro anche a chi ascolta che si parla di lui: è un racconto che gli svela ciò che sta facendo! Ma la grande sorpresa è vedere come l’azione dell’uomo esegua e riveli sempre il mistero nascosto - quello della nostra violenza e della vittoria dell’Agnello. Grande è la potenza di Dio: la malvagità nostra, alla fine, non fa che compiere la sua bontà nei nostri confronti.

temettero la folla, ecc. La folla l’ha osannato poco prima. Tra due giorni, quando vedrà che il potere del Figlio è quello della pietra scartata, tutto il popolo dirà: “Sia crocifisso”, e invocherà su di sé il suo sangue, la sua eredità (27,22.23.25). I dei sudditi sono come i capi, che in loro si riconoscono; per questo li vogliono e li scelgono così (cf. Gdc 9,8-15; 1Sam 8,1ss).

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3. Pregare il testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando Gesù che insegna nel tempio.c. Chiedo ciò che voglio: l’eredità del Figlio!d. Traendone frutto, medito e contemplo con cura il racconto, che dice la

“mia” storia.

Da notare: cosa fa il Signore con la sua vigna i servi mandati per chiedere i frutti cosa facciamo dei profeti il crescendo della sua fedeltà e della nostra resistenza alla fine inviò il Figlio costui è l’erede, uccidiamolo, e l’eredità sarà nostra cosa farà il Signore della vigna? cosa dice Gesù sulla pietra scartata? la meraviglia operata da Dio il popolo che porta frutto chi ascolta esegue ciò che Gesù sta dicendo.

4. Testi utili

Sal 80; 118; Is 5; Ez 16; Os 11,1-11; Sap 2,12-20; Is 53; Eb 11,32-40; Gv 15; Ef 1,3-19; 2,14-18; 1Pt 2,21-25.

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89. AMICO, COME ENTRASTI QUI

SENZA VESTE NUZIALE?

22, 1-14

22,1 E, rispondendo, Gesù di nuovo parlò loro in paraboledicendo:

2 È simile il regno dei cielia un uomo, un re,che fece le nozze per suo figlio.

3 E inviò i suoi servi,a chiamare i chiamati alle nozze,e non vollero venire.

4 Di nuovo inviò altri servi,dicendo:

Dite ai chiamati:ecco, il mio banchetto ho preparatoe i miei tori e gli animali ingrassatisono stati immolatie tutto è pronto;venite alle nozze!

5 Ma questi non se ne curaronoe andaronochi al suo campochi ai suoi affari;

6 gli altri poi presero i suoi servili insultaronoe li uccisero.

7 Il re si adiròe inviò i suoi soldatiper distruggere quegli omicidi,e incendiarono la loro città.

8 Allora dice ai suoi servi:Le nozze sono preparate,ma i chiamati non erano degni.

9 Andate dunque sino alla fine delle vie,e quanti trovate,chiamate alle nozze.

10 E usciti quei servi per le vieraccolsero tutti quelli che trovarono,buoni e cattivi,e fu pieno di commensali il banchetto nuziale.

11 Entrato il re per vedere i commensali,vide lì un uomoche non vestiva la veste nuziale,

12 e gli dice:Amico,

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come entrasti quisenza veste nuziale?

E quello ammutolì.13 Allora il re disse agli inservienti:

Legategli i piedi e le manie gettatelo nelle tenebre di fuori;lì sarà piantoe stridore di denti!

14 Molti infatti sono chiamati,ma pochi eletti.

1. Messaggio nel contesto

“Amico, come entrasti qui senza veste nuziale?”, chiede il re a uno che ha risposto all’invito per le nozze, ma non ha la veste nuziale. Coloro che partecipano alle nozze del Figlio sono i cristiani, che hanno accolto il Messia. Non basta però aver detto sì (21,28-30): non chi dice “Signore, Signore” entrerà nel regno, ma chi fa la volontà del Padre (7,21). In mezzo a noi, come anche in noi, oltre il grano c’è sempre la zizzania. Ciò che si è appena raccontato sui vignaioli omicidi, vale anche per noi.

Le narrazioni bibliche non sono una finestra sul cortile del passato, per vedere cosa è accaduto allora. Sono piuttosto uno specchio, che fa vedere ciò che accade ora in chi legge. Particolarmente efficaci sono le parabole che, parlando d’altro, più facilmente spiazzano. L’ascoltatore presta loro orecchio senza eccessive difese, come se non lo riguardassero, per capire, alla fine, che parlano di lui. Il racconto, come uno specchio appunto, ci permette di vedere ciò che diversamente mai vedremmo: il nostro volto (cf. Gc 1,23-25)!

Questa parabola è uno sviluppo della precedente, in particolare di 21,44, dove si dice che la stessa sorte tocca a chiunque si confronti con la pietra scartata. Quanto ha fatto Israele, lo fa pure la Chiesa. È un richiamo alla responsabilità: far parte del popolo di Dio, non era, non è e non sarà mai un talismano di salvezza (3,8s; 7,21-23; 13,24-30. 36-43. 47-50). Al contrario: la salvezza viene dal riconoscere che noi siamo uguali ai nostri padri. Non basta dire: “Abbiamo Abramo per Padre”; dobbiamo fare frutti degni di conversione, sapendo che il Signore può fare del nostro cuore di pietra un cuore di figlio (cf. 3,8s). A una condizione però: che riconosciamo di essere come il fratello che dice sì e non fa, per diventare come quello che sa di dire no, e poi si pente.

Questa parabola vuol compiere in noi ciò che è accaduto al fico, perché scopriamo la nostra sterile nudità. La pietra di scandalo è caduta sui contemporanei di Gesù; ma anche noi, che ne ascoltiamo l’annuncio, cadiamo su di essa. Ciò che hanno fatto gli ascoltatori di Gesù, è quanto continuiamo a fare noi, che ne ascoltiamo il racconto. La storia dei vignaioli omicidi è parabola di ogni storia: ciò che avvenne in quel tempo, avviene in ogni tempo (cf. 1Cor 10,11).

Esser chiamati e aver risposto non significa essere automaticamente salvati. Tutti siamo chiamati; “eletto” è chi sceglie liberamente di rispondere alla chiamata non a parole, ma con i fatti e in verità.

Dopo l’introduzione, che rivolge la parabola agli stessi ascoltatori della precedente (v. 1), c’è una prima parte (vv. 2-10) in cui si paragona il regno alle nozze del Figlio (v. 2) e si parla di tre successivi inviti. C’è un invito prima della festa, rinnovato quando il banchetto è pronto, seguito

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dal rifiuto (v. 3): è la sintesi del racconto precedente, che narra la storia di Israele dall’esodo fino ai tempi del suo Messia. C’è un ulteriore invito, fatto ancora ad Israele, che è quello degli apostoli dopo la morte di Gesù: in esso si ripete il rifiuto, indifferente o violento (vv. 4-7). Questo rifiuto di una parte d’Israele diventa occasione di salvezza per gli altri: l’invito è rivolto a tutti, finché la sala del banchetto è piena (vv. 8-10). Questi commensali costituiscono la Chiesa, dove però, come ovunque, ci sono buoni e cattivi.

La seconda parte (vv. 11-14) ricorda a noi che, per far parte del popolo che accoglie la pietra scartata, bisogna che prima accettiamo di essere tra quelli che la rifiutano: siamo come quello senza la veste nuziale. Solo così possiamo essere tra quelli che, ascoltando Pietro che dice: “Quel Gesù che voi avete crocifisso è Cristo e Signore”, si sentono trafiggere il cuore e si convertono (At 2,36s). Dobbiamo sperimentare che il Signore è venuto a salvare i peccatori, “dei quali io sono il primo”, come dice Paolo (1Tim 1,15). Allora conosciamo l’amore del Figlio che è morto per noi, perché noi viviamo di lui: partecipiamo al banchetto con la veste nuziale.

Gesù, il Figlio, in quanto pietra scartata è diventato testata d’angolo: è lo sposo, dove uomo e Dio si congiungono nell’unico amore, e la creazione raggiunge il settimo giorno. Il re invita tutti i suoi figli alle nozze del Figlio.

La Chiesa si riconosce partecipe non solo della chiamata, ma anche del rifiuto di Israele. È costituita da coloro che sanno di rifiutare i profeti, e si riconoscono in chi ha ucciso il Figlio. Quell’Israele che si sa peccatore è la Chiesa stessa di Matteo, che così diventa luce per le nazioni, compiendo la promessa fatta ad Abramo (Gen 12,2s).

2. Lettura del testo

v. 1: E, rispondendo, Gesù di nuovo parlò loro in parabole. Le parabole, rivolte da Gesù ai suoi ascoltatori, parlano di loro. Sono raccontate al lettore, perché sappia che parlano di lui.

v. 2: è simile il regno dei cieli a un re. Prima era un padre, poi un proprietario, ora un re. È sempre Dio, che è padre per il suo affetto che ci dà la vita, proprietario per l’eredità della terra che ci alimenta, re per la dignità che ci dona di essere liberi come lui.

fece le nozze per suo figlio. Il Figlio, l’erede che i vignaioli hanno ucciso, è ora lo sposo (9,15!). Infatti li ha amati e ha dato se stesso per loro, quando ancora erano suoi nemici (cf. Rm 5,6-11). È lo sposo di sangue (cf. Es 4,25), nel quale si consuma l’alleanza tra creatura e Creatore. In lui, amore pieno e reciproco tra Dio e uomo, si celebrano le nozze tra cielo e terra.

Le nozze sono la più bella immagine del nostro rapporto con Dio: nell’amore uno diventa vita dell’altro, e viceversa. Sull’immagine nuziale, ripresa in 25,1-13, vedi in particolare il Cantico dei Cantici, Osea 2,16-25, Ezechiele 16, Ap 19-21.

v. 3: inviò i suoi servi. Questo primo invio corrisponde all’intero racconto precedente: i profeti, e da ultimo il Battista, furono inviati per preparare un popolo ben disposto ad accogliere il Signore che viene (Lc 1,17).

a chiamare i chiamati alle nozze. Israele già è stato chiamato: è il depositario della Parola. I profeti hanno richiamato i chiamati a partecipare al banchetto della Sapienza (Pr 9,1-6), che è l’amore reciproco tra Padre e Figlio aperto ai fratelli (11,25-30).

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non vollero. È la sintesi di 21,33ss: il rifiuto dei profeti e di colui che fu profetato, il Figlio.

v. 4: di nuovo inviò altri servi. Questo secondo invio a Israele è quello degli apostoli dopo Pasqua. Fino al c. 15 degli Atti degli Apostoli si parla soprattutto della loro missione ai giudei di Palestina e dintorni. La chiamata e i doni di Dio sono irrevocabili (Rm 11,29). Anche l’Apostolo dei pagani, ovunque e sempre, si rivolgerà innanzitutto ai giudei. La prima comunità cristiana, madre di tutte le altre, è costituita da giudei che hanno accolto il loro Messia.

v. 5: non se ne curarono. L’invio degli apostoli fu accolto come quello dei profeti prima di loro.

andarono chi al suo campo, chi ai suoi affari. Si rifiuta il Signore semplicemente perché si va dietro al dio mammona - il possesso di terra e di denaro.

v. 6: gli altri poi. Grammaticalmente non ci si aspetterebbe “gli altri”, ma eventualmente “altri ancora”. Sono quelli che trascurano l’invito alle nozze, non per altri interessi, ma per qualcosa di più profondo: sono le persone religiose, tutte intente alla loro osservanza, che non accettano il dono della pietra scartata. Degni figli dei loro padri, come hanno trattato i profeti e Gesù, così trattano anche i suoi discepoli.

presero i suoi servi, ecc. Questi servi sono beati, perché hanno la stessa sorte dei profeti (5,12), anzi, del loro Maestro (10,16-25).

v. 7: il re si adirò. Si comprende bene questo versetto alla luce di ciò che è accaduto a Gerusalemme, distrutta e incendiata dai Romani nel 70 d.C. Il destino della città e del popolo è lo stesso del suo Messia e dei suoi inviati, i profeti prima e i discepoli poi. Questo però non segna la fine della promessa di Dio, ma la sua realizzazione piena: apre il banchetto del Figlio a tutti i popoli. Se così grandi doni ci ha procurato il rifiuto di una parte d’Israele, cosa sarà la sua accoglienza, se non la risurrezione dei morti, il compimento del disegno di Dio (cf. Rm 11,15)?

v. 8: dice ai suoi servi, ecc. Al rifiuto di una parte dei giudei, la parola di salvezza passa ai pagani (cf. At 13,44-52). La loro caduta è causa dell’annuncio alle genti (cf. At 13,46) e della loro conversione. Alla fine Israele stesso, mosso da santa gelosia, accoglierà colui che gli fu promesso (Rm 11,25ss).

Nel primo rifiuto ci fu data l’eredità del Figlio; nel secondo fu aperta la fraternità a tutti. Ci sarà anche un terzo rifiuto: quello del cristiano che, pur accettando l’invito, viene scacciato dal banchetto, perché senza veste nuziale (vv. 11-14).

le nozze sono preparate. Da quando il Figlio è stato ucciso fuori le mura, sono giunte le nozze dell’Agnello: all’uomo è data l’eredità di Dio, alla sposa è data una veste di lino puro (Ap 19,7s).

i chiamati non erano degni. Non lo erano perché si ritenevano ricchi e sicuri, senza accorgersi di essere infelici, miserabili, poveri, ciechi e nudi (Ap 3,17). Non si sono riconosciuti in chi dice e non fa: non hanno ancora visto la loro realtà e non si sono convertiti.

v. 9: andate dunque sino alla fine delle vie. I discepoli sono inviati non agli incroci, ma al capolinea di ogni via, fino agli estremi confini della terra (At 1,8), perché ogni uomo sia immerso e battezzato nell’amore del Padre e del Figlio (cf. 28,19s).

quanti trovate, chiamate alle nozze. Tutti hanno la stessa vocazione di Israele, il primogenito, luce delle genti (Is 49,6).

v. 10: usciti quei servi per le vie, raccolsero. La predicazione alle genti “raccoglie” (in greco suona come “sinagoga”!) in un solo popolo tutte le genti.

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buoni e cattivi. Questa annotazione serve a introdurre la seconda parte della parabola, la quale mostra come pure noi, che abbiamo accolto la chiamata, facciamo come i primi chiamati. La Chiesa non è ancora il regno del Padre, dove i giusti splenderanno come il sole: è il regno del Figlio dell’uomo, in cui ci sono scandali e iniquità (cf. 13,43.41).

fu pieno di commensali il banchetto. La volontà del Padre è che la casa sia piena (cf. Lc 14,23). E come è piena, se manca anche un solo figlio (cf. Lc 15)?

v. 11: entrato il re. Quando il re entra, è il regno definitivo: nel regno del Padre stanno solo i figli, quelli che vivono da fratelli.

vide lì un uomo che non vestiva la veste nuziale. Partecipare a un banchetto senza veste adeguata, è come trovarsi nudi. La veste nuziale è quella del Figlio, che compie la volontà del Padre.

v. 12. amico. Il re ci chiama amici, e ci mostra la nostra nudità. Non abbiamo il frutto dell’amore del Padre e dei fratelli. Anche se diciamo di sì (21,31), non diamo uva come la vigna, e non vogliamo riconoscerci in chi rapisce l’eredità. La veste del Figlio è data proprio a chi lo crocifigge (27,35). Questa veste è di chi si scopre peccatore e accoglie l’invito alla conversione: è di chi si sente perdonato e vive di perdono. Allora è un graziato che grazia gli altri (18,21-35). Solo chi si riconosce sterile fa frutto, chi si sa omicida del Figlio è suo erede, chi si sa nudo è rivestito! Perché conosce l’amore con cui è amato, e con esso può amare se stesso, gli altri e l’Altro. Questa è la veste nuziale, che ci riveste di Cristo (cf. Gal 3,27; Rm 13,14).

v. 13: disse agli inservienti. Gli inservienti sono gli angeli, esecutori dei suoi comandi (Sal 103,20), che compiono il suo giudizio (13,39ss. 49s).

legategli, ecc. È il destino della zizzania (13,42), dei pesci cattivi (13,50), di chi non perdona (18,34; cf. 5,25s). Chi non ha la veste, anche se è “dentro” la sala del banchetto, in realtà è fuori: non è nella luce, ma nelle tenebre esteriori. Gesù ci rivela ciò che siamo ora - e che alla fine sarà svelato -, non per terrorizzarci, ma per convertirci. Vuole mostrarci che anche noi siamo come i primi chiamati che non accettano l’invito, come i secondi chiamati che lo rifiutano. Questa è la nostra condizione, che nascondiamo con tante foglie. La fede, principio d’illuminazione, compie in noi il “miracolo” del fico: ci spoglia e ci fa vedere la nostra sterilità, perché possiamo accogliere la benedizione del suo amore che si getta nel mare della nostra maledizione. Solo così ci convertiamo e portiamo la veste nuziale: siamo eletti in quanto reprobi confessi.

v. 14: molti sono chiamati. Prima Israele e poi ogni popolo della terra (Gen 12,2s), tutti siamo chiamati alle nozze del re.

pochi eletti. Dio chiama tutti i suoi figli perché li ama. Gli eletti, di cui si parla, sono quei chiamati che sanno di aver rifiutato, di essere fuori, di non avere la veste nuziale: per questo scelgono di convertirsi e di rispondere alla misericordia di Dio, usando misericordia verso gli uomini.

3. Pregare il testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando Gesù che parla nel tempio.c. Chiedo ciò che voglio: riconoscermi in chi ha rifiutato il Signore, in chi

non ha la veste nuziale.d. Medito e contemplo punto per punto la parabola.

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Da notare: le nozze per il Figlio la prima chiamata e il primo rifiuto la seconda chiamata e il secondo rifiuto la terza chiamata, ai pagani quanti trovate, chiamate! raccolsero buoni e cattivi la sala è piena uno è senza veste nuziale molti sono chiamati, ma pochi eletti.

4. Testi utili

Sal 43; il Cantico dei Cantici; Os 2,16.25; Is 25,6-10a; 62; Ap 19-21; Rm 11,1ss; At 13,44-52.

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90. CIO’ CHE È DI CESARE A CESARE

E CIO’ CHE DI DIO A DIO

22, 15 - 22

22,15 Allora, ritiratisi, i farisei tennero consigliosu come intrappolarlo con una parola.

16 E gli inviano i loro discepoli con gli erodianidicendo:

Maestro,sappiamo che sei veritieroe insegni la via di Dio con veritàe non ti curi di nessunoperché non guardi alla faccia degli uomini.

17 Di’ dunque a noi cosa ti pare:è lecito dare il censo a Cesare,o no?

18 Ora Gesù, conosciuta la loro malizia,disse:

Perché mi tentate, ipocriti?19 Mostratemi la moneta del censo.

Essi gli presentarono un denaro.

20 E dice loro:

Di chi è l’immagine e l’iscrizione?21 Dicono:

Di Cesare.Allora dice loro:

Rendete dunque ciò che è di Cesare a Cesare,e ciò che è di Dio a Dio.

22 E, udito, si meravigliaronoe, lasciatolo, se ne andarono.

1. Messaggio nel contesto

“Ciò che è di Cesare a Cesare, e ciò che è di Dio a Dio”, risponde Gesù alla domanda-trappola che gli hanno fatto. Qualunque risposta “scontata” avesse dato, si sarebbe tirato la zappa sui piedi. Se avesse detto che bisognava pagare il tributo agli oppressori romani, si sarebbe messo contro il popolo; se avesse detto di non pagarlo, si sarebbe messo contro l’autorità.

La sua risposta non è un modo elegante di eludere la domanda. Sposta invece il problema a un altro livello. Cosa significa dare a Cesare ciò che è suo e a Dio ciò che gli spetta? In che rapporto sta il potere dell’“asina” con quello dei “carri e dei cavalli”, il potere del Figlio dell’uomo con quello dei potenti del mondo? Cosa spetta a Cesare, se tutto è di Dio?

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È importante tenere presenti due cose. Primo: Dio non esautora l’uomo dalle sue responsabilità, ne è invece l’origine. Secondo: il suo potere non entra in concorrenza con il nostro: è dono, amore e servizio, non appropriazione, violenza e dominio.

Il rapporto tra l’autorità di Cesare e quella di Dio è da sempre un campo minato, mai pacifico: è lo stesso rapporto non facile che i profeti hanno avuto con le istituzioni. La diffidenza tra stato e Chiesa - lei pure istituzione, anche se profetica - viene da vari motivi, più o meno nobili, che vanno dalla persecuzione per la fede alla lotta per la giustizia e la libertà, ma anche dalla lotta per difendere propri interessi all’alleanza per mantenere privilegi, dall’estraniazione per comodità alla subordinazione alterna tra i due, nociva a tutti.

Solo chi dà a Dio ciò che è di Dio, sa cosa dare a Cesare. Ciò che è di Dio, il frutto di cui il Padre ha fame, è la libertà dei figli e l’amore dei fratelli. Chi cerca questo, trova risposta anche al resto.

Il brano, secondo le varie situazioni, fu interpretato diversamente, con valutazioni non sempre facili da dare. Fu letto come “separazione” tra sfera temporale e spirituale senza interferenza tra le due, come “alleanza” di trono e altare a reciproco sostegno, come “confusione” con sacralizzazione dello stato o con dominio temporale della Chiesa, come “dipendenza” dello stato dalla Chiesa o della Chiesa dallo stato, rispettivamente in forma di integralismo o di strumento di dominio. La storia è complessa. Ed è maestra di vita solo se, invece di condannare gli errori passati, comprendiamo in essi la radice dei nostri.

L’uomo è relazione: è “animale” sociale e politico, che si realizza organizzandosi in società. Riconosce l’autorità in un capo che lo rappresenta. Il re non è altro che l’uomo ideale, immagine di Dio, ideale di ogni uomo.

Ma chi è Dio? È dono, libertà e servizio; oppure possesso, dominio e violenza?

Da Caino in poi la città si fonda sul cadavere del fratello. Essa vive nella violenza che la legge denuncia e vuol contenere. Il sangue, rimosso e nascosto sotto le mura, con il passare del tempo cresce e trasuda da tutte le parti: la storia è il venire alla luce di un male segreto, da cui la società nasce e di cui vive. Oggi, grazie alla tecnologia, esso è in grado di esplicare tutta la sua potenzialità. L’economia, sotto la sovranità universale del dio mammona, è una e assoggetta tutto e tutti nell’ingiustizia perpetrata e/o subita; il disastro ecologico compromette i precari equilibri della vita; il potere bellico incontrollabile minaccia la distruzione di tutto. Mai come oggi la storia ha rivelato il mistero di iniquità che cela. Ciò che è stato seminato sotto terra dà il suo frutto maturo, che non è né buono, né bello, né desiderabile. È chiaro che si impone un cambio di modello. Oggi comprendiamo il valore delle beatitudini come magna charta del convivere. Esse presentano i valori del figlio che vive da fratello. Sono l’unica alternativa sensata a una situazione di rapina e violenza.

È utile tener presente che per la Bibbia il “paradiso”, il giardino sognato dell’infanzia, è la “polis” (da cui politica), la città in cui si vivono relazioni filiali e fraterne.

Il credente, con lucidità e coraggio, deve impegnarsi con tutti gli uomini di buona volontà, per impostare relazioni nuove e costruttive a tutti i livelli. La “carità politica” è la forma più alta e urgente di azione, intesa a cercare e promuovere ciò che più fa crescere la solidarietà e la libertà tra gli uomini.

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Gesù è venuto a rendere a Dio ciò che è di Dio: a restituire all’uomo la sua libertà di figlio. Il suo potere non lotta con quello di Cesare. È semplicemente diverso, come la mitezza dalla violenza. Accetta di vivere “in” questo mondo, riconosce ogni autorità nel suo servizio alla società, senza però accettarne il modello di base, che è violento e distruttivo. La forza dell’asina e del suo asinello, pacificamente, farà scomparire carri e cavalli (Zc 9,10).

La Chiesa, senza integralismi e fondamentalismi, è luce di un mondo riscattato dalla morte. Riconosce l’indipendenza e la laicità dello stato, ma pone nella società il lievito e il sale evangelico delle beatitudini. Oggi deve tenere gli occhi aperti per non allearsi con il Cesare di turno, che è il potere di omologare tutti a pensare e agire allo stesso modo. Deve testimoniare e favorire la libertà, la verità e la diversità delle persone, in spirito di reciproco servizio.

2. Lettura del testo

v. 15: I farisei tennero consiglio su come intrappolarlo con una parola. Già erano stati da lui intrappolati quando aveva risposto alla loro questione sul suo potere (21,23-27). Passano al contrattacco, con più furbizia: gli fanno una domanda che, qualunque sia la risposta, lo lascerà senza via di scampo. A loro non interessa la verità, ma come incastrarlo. Si può interrogare per cercare la verità, ma anche per ucciderla.

v. 16: inviano i loro discepoli. I farisei di questo tipo hanno molti discepoli, in ogni luogo e tempo. A loro sarà dedicato il cap. 23 per intero!

con gli erodiani. I farisei ritenevano l’occupazione romana come un castigo di Dio; gli erodiani, sostenitori del re fantoccio dei romani, una benedizione. Nemici tra di loro, si alleano contro Gesù.

maestro, sappiamo che sei veritiero, ecc. È il più bel complimento fatto a Gesù: conosce e dice la verità al di là di ogni opportunismo, disposto a pagare. È un’esca, se ci fosse bisogno, perché non se la cavi con una mezza verità o con un elegante: “Non so”, come avevano fatto loro alla sua domanda sul Battista (21,27). Lo elogiano, sottolineando due volte la sua conoscenza della verità e la sua franchezza nel dirla, sperando che anche con lui funzioni la tattica della volpe con il corvo.

v. 17: è lecito dare il censo a Cesare. Il censo è il tributo che ogni suddito, esclusi bambini e vecchi, deve pagare all’occupante romano. Il popolo, simpatizzante del movimento indipendentista degli Zeloti, è ovviamente contrario al tributo: pagarlo significa accettare la sudditanza allo straniero. In questione non è riconoscere l’autorità del re, ma di uno straniero. Da sempre il popolo, contro il volere di Dio, ha voluto un re che lo governi, come gli altri popoli (cf. Gdc 9,8-15; 1Sam 8). Dio non vorrebbe un’autorità che domini e spadroneggi su tutti, ma una che serva alla fraternità comune. Tuttavia concede il re, in attesa che cambino parere. E promette loro un re diverso, che porterà la giustizia e la pace sulla terra (2Sam 7).

Il Dio di Israele è molto diverso dai re di questa terra, e così vuole che siano i suoi figli. Già fin dall’inizio prende la difesa di Abele: il più debole ha ragione, non il più forte. Ma anche Caino è suo figlio, e sarà protetto dalla sua stessa violenza, finché durerà il potere della violenza. Il re che Dio promette non reprimerà la violenza con una violenza maggiore - emergono i peggiori tra gli uomini (Sal 12,9)! -, ma con la forza della mitezza porterà la giustizia di Dio sino agli estremi confini della terra (Is 42,1-4).

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Se Gesù è favorevole a pagare il tributo, perde il favore del popolo; questo infatti lo considera il Messia, che li avrebbe liberati da ogni schiavitù.

o no? Se Gesù nega il tributo, gli Erodiani, appositamente invitati, lo denunceranno all’autorità come sovversivo. I romani, abbastanza tolleranti su tutto, non erano teneri su questioni di potere. Per mantenerlo, da sempre è necessario avere “della volpe e del leone”.

v. 18: conosciuta la loro malizia. Ci sono domande buone e cattive. Buone sono quelle pronte ad ascoltare la verità e compromettersi per essa; cattive quelle che usano qualunque verità o menzogna per incastrare l’altro.

perché mi tentate? Gesù ha già vinto nel deserto le tentazioni di opporsi al potere con il potere. Ora è tentato di rispondere con mezze verità, per non esserne schiacciato?

ipocriti. L’ipocrisia sarà il ritornello del cap. 23, dedicato a chi si serve della verità invece di servirla. Conoscere ciò che pensa l’altro è utile per averlo in mano!

v. 19: mostratemi la moneta. Il potere di un re è circoscritto al perimetro di circolazione della sua moneta. Gesù non ce l’ha! È povero; quindi sovrano! Ha sempre dato a Dio ciò che è di Dio; è il Figlio che dà se stesso, immagine perfetta del Padre.

gli presentarono un denaro. Nonostante gli scrupoli a parole, i suoi avversari hanno un denaro - e desidererebbero averne tanti!

v. 20: di chi è l’immagine. Il denaro rappresenta l’imperatore Tiberio da una parte e sua madre Livia dall’altra, come dea della pace. Nella Bibbia c’è il divieto di raffigurare sia l’uomo che Dio, perché l’unica immagine di Dio è l’uomo libero, suo figlio.

l’iscrizione. Sulla moneta c’è scritto: “Tiberio Cesare, figlio augusto del divino Augusto” da una parte, e dall’altra: “Pontefice Massimo”. Sulla croce del Figlio, che congiunge terra e cielo, sarà scritto: “Questi è Gesù, il re dei giudei” (27,37).

v. 21: ciò che è di Cesare a Cesare. È chiaro: se hai la moneta di Cesare, ne riconosci l’autorità e gli devi il tributo. Il cristiano riconosce l’autorità civile, e la rispetta con lealtà in ciò che fa di bene, organizzando la convivenza degli uomini. Il suo servizio è da Dio (Rm 13,1-7), anche se il modo non lo è proprio. Ma non si faccia illusioni Cesare. il cristiano non è mai un alleato del potere, ma solo dell’uomo. Quando il potere si propone come assoluto e impone un gioco contro coscienza, troverà il rifiuto.

Oggi questo si avvera, più che con persone, con un sistema di consenso che l’immagine, simulacro della bestia, ottiene da tutti, grazie alla tecnologia, che lo rende onniinvasivo e onnidistruttivo - soprattutto delle stesse coscienze, alle quali toglie avvertenza e libertà.

Quando piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi devono avere il marchio della bestia sulla fronte e sulla mano per accedere al mercato, è il momento della resistenza e della testimonianza, della perseveranza e del martirio (Ap 13,15-17.9s). Qui sta la sapienza. Chi è intelligente calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un nome d’uomo (cf. Ap 13,18).

ciò che è di Dio a Dio. Tutto è di Dio. Non nel senso che lui se ne appropria, ma che lo dona a tutti. Per questo è Dio! Il suo potere lo conosce il Figlio - colui che ha verso i fratelli lo stesso atteggiamento di amore e rispetto che il Padre ha verso di lui. È un potere di mitezza, dono e servizio: convive con il potere di violenza, possesso e dominio, e lo

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vince senza combatterlo, come la luce vince la tenebra, il dono la rapina, l’amore l’egoismo.

Alla fine si forgeranno le spade in vomeri e le lance in falci (Is 2,4): non ci sarà più violenza e regnerà l’armonia con tutto e tra tutti (Is 11,6-9). La città, fondata da Caino sulla fraternità uccisa - da sempre Romolo uccide Remo! - diventerà la Gerusalemme celeste. Ma il suo trionfo sarà il medesimo dell’Agnello: la sorte della sposa sarà condividere la passione del suo con-sorte.

La nostra storia, prima di giungere alla vittoria sul male, sarà sempre segnata dalla croce del Giusto. Ma qui, già ora, sta la vita eterna: essere figlio che vive da fratello.

Dare a Dio ciò che è di Dio significa vivere la libertà e la fraternità possibile qui e ora. Le condizioni più impossibili portano alla testimonianza più pura e assoluta: il martirio. Lo Spirito ci suggerirà, di volta in volta, cosa dire e fare (cf. 10,19s). Allora sapremo cosa dare o non dare a Cesare.

v. 22: si meravigliarono. La risposta di Gesù li sorprende. Oltre l’alternativa posta da loro, c’è un’altra possibilità. La trappola, che hanno teso a lui, è in realtà la trappola nella quale loro stessi si trovano.

3. Pregare il testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando Gesù sulla spianata del tempio.c. Chiedo ciò che voglio: discernere cosa fare qui e ora per vivere la

libertà di figlio e di fratello.d. Traendone frutto, medito sul testo.

Da notare: i farisei vogliono coglierlo in fallo sulla parola maestro buono, insegni la verità e non guardi in faccia agli uomini è lecito o no pagare il censo? la malizia della loro domanda mostratemi la moneta di chi è l’immagine e l’iscrizione rendere a Cesare ciò che è di Cesare: lealtà e fedeltà nei confronti

della società a Dio ciò che è di Dio: lealtà e fedeltà all’uomo si meravigliarono

4. Testi utili

Sal 72; Is 45,1.4-6; Gdc 9,8-15; 1Sam 8,1ss; 2Sam 7,1ss; Rm 13,1ss; Ap 13,1ss; Gv 18,33-40; Mt 20,24-28.

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91. NON È IL DIO DEI MORTIMA DEI VIVENTI

22, 23 - 33

22,23 In quel giorno vennero da lui dei sadducei,i quali dicono che non c’è risurrezione,e lo interrogarono

24 dicendo:Maestro,Mosè disse:

se uno muore senza aver figli,suo fratello sposerà la sua donnae susciterà discendenza a suo fratello.

25 Ora c’erano tra noi sette fratelli;il primo, sposato, morì,e, non avendo discendenza,lasciò la sua donna a suo fratello.

26 Similmente anche il secondo e il terzo, fino al settimo.

27 Ultima di tutti, morì la donna.

28 Nella risurrezione, dunque, di chi dei sette

sarà la donna?Tutti infatti l’hanno avuta.

29 Ora Gesù, rispondendo, disse loro:

Voi vi ingannateperché non conoscete le Scritturené la potenza di Dio.

30 Infatti nella risurrezionené ci si sposa né si è sposati,ma si è come angeli nel cielo.

31 Circa la risurrezione dei morti,non avete letto quello che vi è stato detto da Dio che dice:

32 Io sono il Dio di Abramoe il Dio di Isaccoe il Dio di Giacobbe?

Non è il Dio dei morti,ma dei viventi.

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33 E, ascoltando, le folle erano colpitedal suo insegnamento.

1. Messaggio nel contesto

“Non è il Dio dei morti, ma dei viventi”. Il nostro Dio non è un necrofilo, come Ades che regna sui morti: è il Dio vivente, datore e amante della vita (Sap 11,26). Principio di tutto, ha nulla a che fare con la morte. Questa è entrata nel mondo per invidia del diavolo (Sap 2,24), che, mediante la paura di essa, tiene l’uomo schiavo per tutta la vita (Eb 2,14s).

Ma noi si nasce, si vive, si invecchia, si muore. E poi?… È la parabola dell’esistenza terrena.

L’uomo è “humus”: viene dalla terra e ad essa ritorna. Ha la vita, ma non è la vita: è la sua condizione creaturale. Ha però nel cuore la nozione di eternità (Qo 3,11), appunto perché “sa” di dover morire. La coscienza di essere mortali e il desiderio di immortalità costituiscono la scintilla divina che è in lui: “ troppo grande per bastare a se stesso” (Pascal), è insieme limitato e oltre il proprio limite. Se non ci fosse il “pungiglione” del peccato, che gli avvelena l’esistenza (1Cor 15,56), accetterebbe di ricevere la vita in dono, vivendo il limite come comunione con la propria origine. Il peccato invece gli fa mettere le mani sulla propria sorgente, rimuovere la propria nascita, considerare l’esser figlio come limitazione mortale: vuol possedere la vita, senza accorgersi che così la distrugge. Il peccato è, in fondo, non acconsentire alla propria realtà di figli; e viene dall’inganno di pensare il padre come antagonista e geloso, invece che come principio di vita e libertà. Per questo è doloroso il nascere, drammatico il vivere e tragico il morire.

La morte, come noi la sperimentiamo, è l’ultimo atto violento del male che tutto vuol possedere e rapire: ci strappa la vita. Proprio così ci libera dall’inganno di possederla, e ci fa comprendere che l’abbiamo solo in quanto donata: possiamo viverla solo se ci accettiamo come figli, in distinzione e comunione con il nostro principio.

La risurrezione è il centro della fede cristiana: è il dono della vita che il Padre fa al Figlio e, in lui, a tutti i suoi fratelli. È la restituzione a Dio di ciò che è di Dio – e l’uomo tutto è di Dio. “Se i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede”, come “è vana la nostra predicazione”, dice Paolo ai Corinzi che mettono in dubbio la risurrezione dei corpi (1Cor 15,16s.14). L’esperienza del Cristo risorto e il nostro essere in lui (“in Cristo” è l’espressione più ricorrente in Paolo), con il dono del suo Spirito, è il fondamento della vita del credente. Questa unione è così forte che il destino dell’uno è quello dell’altro.

La vittoria della vita sulla morte, pur essendo il sogno dell’uomo, è indeducibile da ogni premessa e improducibile da ogni forza umana. La conosciamo solo dalla promessa di Dio ed è opera sua. Chi non conosce le Scritture e la potenza dello Spirito, si inganna. Il desiderio di vita che è in lui si fa violenza distruttiva, per il tentativo di possederla.

In Israele la fede nella risurrezione è maturata lentamente, attraverso l’esperienza della fedeltà di Dio: se io sono mortale e lui, mio alleato e amico fedele, può dare la vita, non mi lascerà preda della morte. Chi ama, infatti, dona ciò che ha e ciò che è.

Il racconto dei sadducei è inteso a mettere in ridicolo la fede nella risurrezione (vv. 23-28). Gesù risponde che questo è l’inganno di chi non conosce la promessa e la potenza di Dio (v. 29) e mostra come la

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risurrezione sia una vita nuova, “celeste” (v. 30). La prova scritturistica che porta è desunta dall’Esodo: il Signore si rivela come il Dio “di” Abramo, Isacco e Giacobbe, ed è il Dio dei viventi, non dei morti (vv. 31-32).

La risposta biblica al desiderio di vita non è l’immortalità, perché siamo mortali. Non è neppure la reincarnazione, perché la vita non è una maledizione da estinguere fino all’annullamento. È invece la risurrezione dei corpi - suppone la morte! - a una condizione di vita piena, che ha vinto la morte. Nell’uomo, creato il sesto giorno, tutta la creazione raggiungerà il settimo giorno. Ora essa geme nelle doglie del parto nella speranza di essere liberata dalla schiavitù della corruzione ed entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio (cf. Rm 8,21s).

Sull’argomento è utile riferire un racconto, preso da Nouwen, che parla della conversazione di due gemelli nell’utero materno. «La sorella diceva al fratello: “Io credo che vi sia una vita dopo la nascita”. Il fratello protestava violentemente: “No, no, è tutto qui, questo è un luogo oscuro e intimo e non abbiamo altro da fare che restare attaccati al cordone che ci nutre”. La sorellina insisteva: “Dev’esserci qualcosa di più che questo luogo oscuro. Deve esserci qualcos’altro, un luogo di luce. dove c’è la libertà di muoversi”. Ma non riusciva a convincere il fratello.

Dopo un momento di silenzio la sorella disse esitante: “Ho qualcos’altro da dire, e ho paura che non crederai nemmeno a questo, ma penso che vi sia una madre”.

Il fratello si infuriò: “Una madre?”, gridò. “Ma di che cosa parli? non ho mai visto una madre, e nemmeno tu. Chi ti ha messo in mente quest’idea? Come ti ho detto, questo posto è tutto quello che abbiamo. Perché vuoi sapere qualcosa di più? Non è un posto tanto male, dopotutto. Abbiamo tutto quello di cui abbiamo bisogno, accontentiamoci, dunque”. La sorella fu ridotta al silenzio dalla risposta del fratello e per un po’ di tempo non osò dire più nulla.

Ma non riusciva a liberarsi dai suoi pensieri, e dato che aveva soltanto il fratello gemello con cui parlare, alla fine disse: “Non senti ogni tanto degli spasimi? non sono piacevoli e qualche volta fanno male”. “Sì”, rispose lui. “Che cosa c’è di particolare in questo?”. “Bene”, disse la sorella, “io penso che questi movimenti ci siano per prepararci a un altro luogo, molto più bello di questo, dove vedremo nostra madre faccia a faccia. Non ti sembra meraviglioso?”. Il fratello non rispose. Era stanco di tutto quello sciocco parlare della sorella e sentiva che la cosa migliore da fare era semplicemente ignorarla e sperare che l’avrebbe lasciato in pace.

Questa storia può insegnarci a pensare alla morte in modo nuovo. Possiamo vivere come se la vita fosse tutto ciò che abbiamo, come se la morte fosse assurda e noi faremmo meglio a non parlarne; oppure possiamo scegliere di reclamare la nostra divina infanzia e figliolanza e confidare che la morte è il passaggio doloroso, ma benedetto che ci porterà faccia a faccia col nostro Dio».

Gesù è risuscitato dai morti, “primizia di coloro che sono morti” (1Cor 15,20), “primogenito di coloro che risuscitano dai morti” (Col 1,18), primo di una numerosa schiera di fratelli (Rm 8,29).

La Chiesa è costituita da coloro che sono battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (28,19). Solidali con Gesù, il Figlio solidale con noi, partecipiamo alla sua condizione. Con-morti e con-sepolti con lui quanto alla vita-per-la-morte, camminiamo in novità di vita, perché già ora, mediante il battesimo, siamo pure con-risorti e con-seduti con lui nella gloria (cf. m 6,3-11; Col 2,12; Ef 2,6). In lui riconosciamo di essere figli del Padre e amiamo come lui stesso ama.

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Questo è già ora il passaggio dalla morte alla vita (cf. 1Gv 3,14), perché ci fa partecipare della vita stessa del Dio amore.

2. Lettura del testo

v. 23: In quel giorno. È sempre lo stesso giorno: cominciato con la storia del fico (21,18ss), si estenderà fino all’inizio della passione (cf. 26,1).

dei sadducei. Sono i membri dell’aristocrazia terriera. Accettavano i primi cinque libri (Torà), e non riconoscevano gli altri. In particolare non avevano mai dato ascolto ai profeti, che sempre hanno chiamato a convertirsi e aprirsi al futuro di Dio.

dicono che non c’è risurrezione. La fede nella risurrezione appare con chiarezza nei libri tardivi (Dn 12,2; 2Mac7,14-23; 12,43).Non è da confondere con l’immortalità dell’anima (cf. Sap 2,21-5,23): riguarda il corpo. Non si tratta però di una rianimazione di cadavere, con un ritorno alla vita precedente; è invece una trasfigurazione del corpo che partecipa alla gloria dei figli di Dio (cf. v. 30).

La risurrezione è principio e fine della vita cristiana (cf. Fil 3,10s). Fondata sull’incontro con il Cristo risorto e sul dono del suo Spirito, è vista come approvazione del Padre per il Figlio crocifisso e ha come orizzonte la vittoria sul peccato e sulla morte, nella partecipazione piena alla vita di Dio. I sadducei pensano che la vita si chiude con la morte, e si aggrappano a ciò che comunque sfugge. In questo sono assai simili a noi!

v. 24: se uno muore senza figli, ecc. È la legge del “levirato” (levir in latino significa cognato), secondo la quale uno sposa la moglie del fratello morto senza discendenza, per dargli posterità (cf. Dt 25,5-10). Non aver figli è una maledizione: interrompe la benedizione della vita. Nessuno ha potere di darsi la vita; può però almeno trasmetterla ad altri: nessuno è madre/padre di sé, ma può esserlo di altri! Questa legge era importante per i ricchi, per questioni ereditarie. Non a caso la storia di Israele, da Abramo e Sara a Zaccaria ed Elisabetta, passa attraverso la sterilità. La vita è dono di Dio, non possesso illusorio dell’uomo; non consiste nel mangiare e riprodursi per conservare l’individuo e la specie, ma nell’amare il Signore con tutto il cuore, e il prossimo come se stessi (vv. 35-40).

vv. 25-27: c’erano tra noi sette fratelli, ecc. La vicenda richiama Sara e Tobia (Tb 3,8). È raccontata per ridicolizzare la risurrezione. Per non piangere, si tende a deridere l’impossibile che pur si desidera (cf. 9,24!). La donna è considerata solo in funzione di perpetuare il nome del maschio. Siamo lontani dalla concezione del rapporto uomo/donna come immagine di Dio (19,1-12; cf. Gen 1,27).

v. 28: nella risurrezione di chi sarà la donna? Si suppone che la risurrezione sia un prolungamento della vita terrena. Questa non è letta come luogo di significati ulteriori, e responsabilità conseguenti. È solo da mantenere, quella individuale con l’alimentazione e quella collettiva con la riproduzione. L’uomo è ridotto a animale, governato dall’istinto di conservazione dell’individuo e della specie.

v. 29: voi vi ingannate. L’uomo si distingue dall’animale perché fa una lettura delle cose materiali: sono segni che rimandano ad altro. L’intelligenza è intus-legere (leggere dentro!). Il primo inganno è rinunciare a decifrare la realtà, per capirne il senso.

non conoscete le Scritture. La Parola ci fa leggere il creato come dono del Padre, da vivere come figli suoi e fratelli degli altri. Non capire

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questo è l’inganno che ci impedisce di essere ciò che siamo e ci fa cercare altrove la nostra identità.

né la potenza di Dio. Dio è sempre all’azione per l’uomo: in ogni dono lui stesso si dona. La risurrezione, comunione piena con lui, è il compimento di ogni dono.

v. 30: nella risurrezione né ci si sposa, né si è sposati (cf. 19,10-12). Nella risurrezione arriva la realtà di cui il matrimonio è segno: l’unione d’amore reciproco con l’Altro, il vero partner da amare con tutto il cuore (Dt 6,4s). L’amore, dove non trova, rende uguali: chi ama comunica all’altro ciò che ha ed è, pur nella distinzione (l’alterità è necessaria: si ama l’altro, non lo si mangia!).

La risurrezione è il venire alla luce di ciò che siamo: figli di Dio, con cieli e terra nuova, dove avrà stabile dimora la sua giustizia (cf. 1Pt 3,13). La vita terrena è una gestazione del Figlio, fin che giunge alla sua misura piena (Ef 4,13), propria di ciascuno. “È per nascere che si è nati”.

La risurrezione è la “nascita” dell’uomo maturo: si unisce a colui che lo ama e che ama, per essere sempre con lui, sua vita (1Ts 4,17; Fil 1,21).

come angeli nel cielo. Il risorto è come “angelo” (= colui che annuncia): esprime in pienezza la parola divina, di cui il suo corpo è portatore.

La medesima materia, inanimata nella terra, diventa vita vegetale nell’erba, animale nella mucca e umana nell’uomo: ha organizzazione e possibilità diverse secondo la forma che l’assume. Nella risurrezione la nostra materia è assunta dal Figlio di Dio, e ha forma divina. Il corpo del Cristo risorto, nei racconti evangelici, ha le proprietà di Dio stesso: è presente come luce, parola e gioia, senza limitazioni di spazio e di tempo.

Come esiste un uomo terrestre, che è icona del vecchio Adamo fatto di terra, esiste anche l’uomo celeste, che è icona del nuovo Adamo datore di vita (cf. 1Cor 15,48s). Tra il nostro corpo attuale e quello futuro c’è discontinuità e continuità insieme: la pianta viene dal seme, ma non è il seme! Il corpo si semina corruttibile, ignobile, debole e “animale”, ma risorge incorruttibile, nobile, forte e spirituale, a immagine del Figlio, uguale al Padre (1Cor 15, 42-45).

v. 32: Io sono il Dio di Abramo, ecc. (Es 3,6.15s). Dio si rivela a Mosè come “di” Abramo, Isacco e Giacobbe. Lui è relativo a loro, appartiene loro come loro a lui: Dio “è mio, come io sono suo” (cf. Ct 2,16; 6,3; 7,11). Noi moriamo, perché mortali. Ma Dio è il vivente, datore di vita: chi è in relazione con lui, avrà da lui la vita.

v. 33: le folle erano colpite. È lo stupore del mattino di pasqua, per il grande dono fatto da Dio agli uomini nel Figlio dell’uomo.

3. Pregare il testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando Gesù che insegna sulla spianata del tempio.c. Chiedo ciò che voglio: gioire della risurrezione di Gesù, anticipo del

destino mio e del creato.d. Traendone frutto, medito sul testo.

Da notare: i sadducei che negano la risurrezione avere discendenza senso della vita terrestre, mortale

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conoscere le Scritture e la potenza di Dio la vita nuova nella risurrezione, come condizione filiale piena il Dio “di” Abramo, Isacco e Giacobbe il Dio dei viventi, non dei morti la meraviglia della risurrezione.

4. Testi utili

Sal 16; Dn 12,2; 2Mac 7,14-23; Ez 37; Rm 6,1-11; 8,18-39; 1Cor 15; Col 3,1-4; Gv 11.

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92. AMERAI

22,34-40

22,34 Ora, udito che aveva zittito i sadducei,i farisei si riunirono insieme,

35 e uno di loro, esperto della legge,lo interrogò per tentarlo:

36 Maestro,qual è il comandamento grande della legge?

37 Ora egli disse a lui:Amerai il Signore Dio tuocon tutto il tuo cuoree con tutta la tua vitae con tutta la tua mente.

38 Questo è il grandee primo comandamento.

39 Ora il secondo è simile a questo:amerai il prossimo tuocome te stesso.

40 Da questi due comandamentidipende tutta la leggee i profeti.

1. Messaggio nel contesto

“Amerai”. Dio è amore, e ci comanda di amare. Co-mandare significa “mandare-insieme”: Dio ci manda-insieme verso l’amore, perché la sua vita diventi anche nostra. L’amore infatti rende simili, e fa sì che la vita di uno diventi quella dell’altro.

Il desiderio di essere come Dio non si realizza nell’avere in mano tutto, ma nel mettersi nelle mani del Padre e dei fratelli, per amore! Nell’amore non c’è bene e male: c’è solo il Bene. Dio non si può carpire con la mente o con le mani, ma “capire” (= contenere) nel cuore. Amare è avere l’altro nel cuore. Siamo fatti per amare, perché Dio ci ha fatti a sua immagine e somiglianza. Conoscere serve per amare: non si ama se non ciò che si conosce. E amare a sua volta serve per capire: non si capisce se non ciò che si ama. Amore e intelletto si alimentano reciprocamente: è la tensione dinamica tipica dell’amore (epéktasis!), per il quale la sazietà accresce il desiderio di una sazietà sempre più grande, e la sazietà maggiore un desiderio maggiore, e così via, in un circolo virtuoso senza fine.

L’amore riguarda non solo il cuore e la mente, ma anche la vita. L’amore è innanzitutto gioia del cuore per il bene dell’altro (il contrario è l’invidia); si esprime con la bocca come lode (il contrario è la critica), e si realizza con le mani, poste a servizio dell’altro come di me stesso. Si manifesta più nei fatti che nelle parole: amiamoci non a parole ma con i fatti e in verità (1Gv 3,18). L’amore porta a comunicare ciò che si ha e si è, fino all’unione di intelletto, di volontà e di azione. La diversità e i limiti

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- pure quelli negativi - non sono luogo di nascondimento e aggressione, perpetrata o subíta, ma di accoglienza e servizio reciproco.

Il comando è duplice, amare Dio e il prossimo, perché noi, solo amando il Padre e i fratelli, diventiamo ciò che siamo: figli. Così raggiungiamo la nostra identità, sanando la rottura originaria con l’Altro, con noi stessi e con gli altri.

Il potere di Gesù (cf. 21,23ss), il Messia che slega l’asina e l’asinello, di cui “il Signore ha bisogno” (21,3), è quello di amare. L’amore ci fa tempio di Dio (cf. 21,12-17), albero buono che fa frutti buoni (cf. 21,18-23). Questa meraviglia è compiuta dalla pietra scartata (cf. 21,28-45), che ci rende capaci di dare a Dio ciò che è di Dio (cf. 22,15-22) e ci fa partecipare alla vittoria sulla morte (22,23-33). Infatti chi ama è già passato dalla morte alla vita (1Gv 3,14).

L’amore è il compimento della legge (Rm 13,10), perché ci rende simili a Dio, figli perfetti come il Padre (5,48).

La domanda dei farisei riguarda il principio che ispira la legge (vv. 34-36). La risposta di Gesù è già contenuta in testi separati dell’AT (Dt 6,5 e Lv 19,18); la sua novità sta nell’averli uniti dichiarandoli simili e fonte di ogni norma (vv. 37-40).

L’amore infatti è uno, come Dio stesso è uno. Amo il fratello e il Padre con lo stesso amore con cui il Padre ama me come suo figlio. Questo amore, e non altro, è principio e fine di tutto. Rispetto ai 248 precetti e alle 365 proibizioni che i farisei osservano, Gesù proclama la legge della libertà (Gc 1,25): quella del Figlio che ama come vuol essere amato, perché di fatto così è amato. In questo si compie la legge e i profeti (7,12). Dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà (2Cor 3,17), che è la capacità di appartenersi e servirsi reciprocamente (Gal 5,13). L’amore è legge di libertà.

Si capisce ciò che si è da ciò che si fa (agere sequitur esse). Amare rivela l’essere profondo dell’uomo: è Dio stesso. Questo brano è l’antecima, dietro cui sta l’enigma che Gesù pone al brano seguente: chi è il Signore da amare? Solo chi ama, perché scopre come è amato, capisce chi è il Signore.

Gesù è il Signore che si fa mio prossimo e mi ama con tutto il cuore, perché anch’io possa fare altrettanto. Con lo stesso amore amo lui e il fratello, perché lui si è fatto mio fratello; amo Dio e l’uomo, perché Dio si è fatto uomo! Ogni volta infatti che amo l’ultimo dei fratelli, amo lui (25,40-45), che si è fatto ultimo di tutti.

La Chiesa è la sposa: Cristo l’ha amata e ha dato se stesso per lei (Ef 5,25). Per questo lo ama. I due diventano una carne “una”, e l’uomo non separi ciò che Dio ha unito (cf. 19,6). L’amore dello sposo la chiama al giogo soave e leggero (cf. 11,30), dove la libertà stessa di amare è legge. È questo il suo comandamento (Gv 13,34), che vieta solo ciò che toglie la libertà di amare.

L’amore reciproco è il distintivo del cristiano: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35).

2. Lettura del testo

v. 34: Ora, udito che aveva zittito i sadducei, i farisei, ecc. Dopo i sadducei, ricchi e potenti, entrano in scena i farisei, pii e osservanti. I primi sono invidiati dal popolo; i secondi sono ammirati.

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v. 35: uno di loro, esperto della legge. È uno scriba dei farisei: un fariseo dotto, che sa e fa ciò che la legge prescrive.

lo interrogò per tentarlo. Una domanda “onesta” esige disponibilità ad ascoltare la risposta e cambiar parere (cf. 21,23-27). Altrimenti si tratta di una domanda non per conoscere e fare la verità, ma per scoprire l’altro e averlo dalla propria parte.

v. 36: qual è il comandamento grande? Dio per sé ci co-manda solo di mangiare dell’albero della vita: vivere del suo amore verso di noi, rispondendo ad esso con l’amore verso di lui, verso noi stessi e verso gli altri. L’unico divieto è quello di considerarci padroni della vita nostra e altrui, perché siamo figli e fratelli. Dio vuole che noi siamo ciò che siamo, e non vuole altro. Essere ciò che non si è, significa non esistere!

Oltre alle dieci parole del Sinai, i farisei conoscono numerosi precetti e divieti, per un totale di 613. È importante sapere qual è il principio di tutte le leggi, altrimenti, invece di favorire, soffocano la vita.

v. 37: amerai il Signore Dio tuo. Per Israele il grande comando è amare il Signore, come risposta al suo amore (Dt 6,5). In concreto significa osservare le parole che lui ci ha dato per indicarci come vivere felici e abitare la terra (Dt 6,1-3). Queste devono essere fisse nel cuore, ripetute ai figli, ricordate in casa e fuori casa, impresse sulla mano e sulla fronte (Dt 6,6ss).

Con questa citazione di Dt 6,5, Gesù richiama l’essenza della legge. L’amore non è solo il mezzo per custodire la vita: è il fine, la stessa vita. Amare Dio è unirsi a lui. L’amore è principio di trasformazione, anzi di divinizzazione: chi ama vive dell’amato, che si fa sua vita.

È sorprendente, e bello, il comando di amare Dio. Non avremmo mai osato farlo! Fa tenerezza un Dio che insegue l’uomo per dirgli: “ Ti do un ordine, grande e terribile: per favore, voglimi bene, perché anch’io ti voglio bene!”. Questo comando implica una concezione sublime di Dio e dell’uomo: Dio è amore, e l’uomo è fatto per amare lui. Il desiderio dell’uomo di essere simile a Dio (Gen 3,6), è lo stesso di Dio, che l’ha creato come sua altra parte (cf. Gen 1,27). Ciò che Dio è per natura, noi lo diventiamo mediante l’amore suo per noi, che è anche il nostro per lui.

Per sé la legge tutto può imporre, fuorché di amare. Inoltre si comanda ciò che è bene fare, ma non si farebbe. Questo comando, quindi, ci fa capire che noi non sappiamo amare. Ma chi non ama è nella morte! La legge, anche quella dell’amore, è per noi un certificato di morte! Possiamo vivere il comando dell’amore solo se scopriamo e accettiamo di essere amati. Questo è il dono dello Spirito, che sarà effuso su tutti dalla croce, dove nessuno potrà più dubitare dell’amore di un Dio che dà la vita: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”(Gv 15,13).

con tutto il cuore. L’amore sgorga dall’intimo della persona. Il cuore è desiderio, affetto, passione. Uno agisce secondo ciò che gli sta-a-cuore. Chi ama ri-corda l’amato: l’ha sempre nel cuore, in memoria indelebile. Ogni circostanza glielo richiama, così che diventa principio del suo sentire, pensare e agire.

Come posso amare Dio con tutto il cuore, se il mio cuore è pieno di tanti altri interessi? Lo amo con la totalità che mi è possibile oggi: domani sarà sempre più grande!

con tutta la vita. La vita è tutto ciò che ho. Ogni energia disponibile è per amare, ed è da usare tanto-quanto serve a questo fine.

con tutta la mente. L’amore è cieco, perché il suo occhio è la mente. Questa tutto valuta in funzione del fine. Il sapere o serve per amare

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o non fa che nuocere; o crea relazione e libertà o distrugge l’uomo, riducendolo in schiavitù.

v. 38: questo è il grande e primo comandamento. Gesù risponde alla domanda su qual è il grande comandamento, aggiungendo che è il “primo”, rispetto a un secondo.

v. 39: il secondo è simile a questo. Dopo il grande e primo, non ci sono infiniti e minuti comandi, ma solo un secondo che gli è “simile”. L’amore con cui amo il prossimo è lo stesso con cui amo Dio, ed è lo stesso col quale Dio mi ama! In Cristo uomo e Dio sono “uno”, grazie al fatto che lui “per primo” ci ha amati (cf. 1Gv 4,10 vg.) e, nella libertà sovrana del suo amore necessario, si è unito a noi.

Questa è la novità della risposta di Gesù, che porta il sesto giorno della creazione al riposo di Dio.

amerai il prossimo tuo. Prossimo è superlativo di vicino: il più vicino. Il prossimo è il primo altro da me, che mi fa prendere conoscenza della finitezza mia e sua. Per questo è il mio “contendente”, il nemico da cui mi difendo e che attacco. L’amore fa del confine col prossimo il luogo divino dell’accoglienza.

come te stesso. Chi ama se stesso, ama tutti; chi non ama se stesso, non ama nessuno. Ma posso amarmi solo se sono amato. Il Figlio, facendosi mio fratello, è venuto ad offrirmi lo stesso amore che il Padre ha per lui.

Il prossimo non va amato come assoluto. Ogni assolutizzazione del relativo è schiavizzante: va amato come me stesso, che mi realizzo amando Dio con tutto il cuore. Quindi amo veramente il prossimo se lo aiuto ad amare Dio, ad essere se stesso, libero.

D’altra parte l’amore, anche quello apparentemente più banale, ha sempre un carattere di assolutezza. Non perché è assoluta la persona, ma perché l’amore è da Dio e per Dio - è Dio stesso! Amando lui come assoluto, sono libero di amare gli altri per quello che sono - relativi a lui.

v. 40: da questi due comandamenti dipende tutta la legge. Ogni legge che non mantiene e non fa crescere l’amore e la libertà - necessaria all’amore - è dannosa. I comandamenti hanno un unico contenuto: amare sia Dio che l’uomo. Sono due, perché l’amore è sempre tra due: non distrugge, ma fa esistere l’altro come altro, facendo dei due “uno”. L’amore è la vita unica che unisce Padre e Figlio, senza confonderli né sopprimerli, ma facendoli esistere come distinti in unità.

Attraverso l’amore, ciò che è in cielo, avviene anche in terra: l’uomo entra nella vita stessa di Dio, nella Trinità.

e i profeti. I profeti hanno sempre richiamato alla conversione del cuore, ad amare Dio e i fratelli, a non cadere nel feticismo di una legge senza amore.

3. Pregare il testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando Gesù sulla spianata del tempio, due giorni

prima di pasqua.c. Chiedo ciò che voglio: amare lui con tutto il mio cuore, vita, mente; e

amare me stesso e gli altri con il suo stesso amore.d. Traendone frutto, medito sulle parole di Gesù, vedendo come lui le

vive nei miei confronti.

Da notare:

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il comandamento grande della legge amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore con tutta la tua vita con tutta la tua mente il secondo è simile al primo amerai il prossimo tuo come te stesso l’amore come criterio di valore della legge

4. Testi utili

Sal 103; 117; Es 22,20-26; Dt 6,1-9; Lv 19,18; Ez 36,24-28; Gv 13-14-15; Rm 13,8-14; 1Cor 13; 1Gv 4,7-5,4.

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93. CHE VI PARE DEL CRISTO?DI CHI È FIGLIO?22,41-46

22,41 Ora, essendosi riuniti i farisei,

Gesù li interrogò42 dicendo:

Che vi pare del Cristo?Di chi è figlio?

Gli dicono:Di Davide.

43 Dice loro: Come dunque Davide,nello Spirito, lo chiama Signoredicendo:

44 Disse il Signore al mio Signore:Siedi alla mia destrafinché io ponga i tuoi nemicisotto i tuoi piedi?

45 Se dunque Davide lo chiama Signore,come è suo figlio?

46 E nessuno poteva rispondergli una parola ,né alcuno osò più interrogarlo da quel giorno.

1. Messaggio nel contesto

“Che vi pare del Cristo? Di chi è figlio?” Le dispute, iniziate dagli avversari con la questione sul potere di Gesù (21,23ss), terminano con questa sua domanda. Chi gli risponde, ha la risposta e scopre il dono del vangelo. Trova il grande tesoro, di fronte al quale tutto è una perdita: conosce il suo Signore (cf. Fil 3,7-9), che lo ha amato e ha dato se stesso per lui (cf. Gal 2,20). Così capisce qual è e da dove viene il suo potere (21,23): è quello del Figlio, la pietra scartata (22,33ss), che con mitezza e umiltà porta sulla terra il regno di Dio (21,1ss), offrendo la libertà da ogni potere (22,15ss), anche da quello della morte (22,23ss), rendendo capaci di amare come si è amati (22,34ss).

Questa disputa, conclusiva, è la chiave di volta per comprendere le altre.

Qui è Gesù a prendere l’iniziativa: non risponde a una domanda, ma fa la “sua” domanda, in attesa di risposta. L’ha già fatto una volta con i discepoli, che l’hanno riconosciuto come il Cristo, il Figlio di Dio (16,16). Né carne né sangue conoscono questa risposta. Può venire solo dal Figlio che rivela il Padre e dal Padre che rivela il Figlio (11,25ss;16,17). Nessuno infatti può dire: “Il Signore è Gesù”, se non nello Spirito (1Cor 12,3). Questo tra poco ci sarà donato dalla carne e dal sangue del Figlio, che rivelerà chi e come è il Signore (cf. 27,54).

Comprendere che il Cristo e il Figlio di Dio è Gesù, costituisce il centro della fede cristiana: è quanto Matteo dichiara sin dall’inizio (cf. 1,1-17.18-25) La promessa di Dio a Davide si compie in modo divino. Chi promette si com-promette, chi dona si con-dona: la promessa e il dono di Dio a Davide è Dio in persona, che promette e dona se stesso.

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La domanda di Gesù è troppo esplicita per non essere colta. Il sommo sacerdote stesso, davanti al Sinedrio, gli chiederà tra poco se è lui “il Cristo, il Figlio di Dio” (26,63). E Gesù risponderà: “Tu l’hai detto” (26,64). Questa sarà la bestemmia che lo porterà alla croce (26,65s), dove finalmente verrà riconosciuto (27,54).

Il vangelo vuol portare il lettore a una presa di posizione nei confronti di Gesù, come il Cristo e Signore. La provocazione è esplicita: chi è il Cristo se Davide, nello Spirito, lo chiama Kyrios? Il Cristo e il Signore che Dio ha promesso è l’uomo Gesù. Lo riconosceremo rispondendo a questa domanda, e soprattutto a quella che ci porrà tra poco con la croce - interrogativo di Dio a tutte le domande degli uomini.

Gesù è figlio di Davide secondo la carne e Figlio di Dio secondo lo Spirito (1,1-17.18-25; cf. Rm 1,3). Non è solo un uomo straordinario con una dottrina sublime: è “il” Figlio di Dio, che ci rivela quel Dio che nessuno mai ha visto (Gv 1,18). Chi non lo riconosce come tale, deve dire che lui è il più grande imbroglione della storia e la sua parola la più sublime menzogna, che dura ancora dopo duemila anni. Il “suo” segno è la croce, dove si rivela come “il” Figlio, l’unico, l’amato, perfetto nell’amore come il Padre, perché dà la vita per i fratelli.

La Chiesa riconosce il Figlio di Dio, il Signore e il Cristo, nella “carne” di Gesù, nella sua persona storica, concreta e unica. Chi non lo riconosce così, non ha lo Spirito di Dio (1Gv 4,3). La sua umanità non è un simbolo fantasmatico del “divino” nell’uomo, apparso qua e là nei vari budda o illuminati; la sua divinità non è una nebulosa energetica del cosmo. Gesù di Nazareth è nato da Maria per opera dello Spirito Santo, vero uomo e vero Dio. In lui umanità e divinità sono unite in una persona sola; anche se distinte, non sono divise: il suo corpo è l’epifania di Dio sulla terra. Più precisamente diciamo che il Crocifisso è la “theoria” (cf. Lc 23,48): mostra chi è e come è il Signore.

2. Lettura del testo

v. 41: Ora, essendosi riuniti i farisei, Gesù li interrogò. A Gerusalemme c’è il confronto diretto tra il “potere dell’asina” e le varie forme di potere: i sommi sacerdoti e gli scribi (21,15), i sommi sacerdoti e gli anziani (21,23), i farisei e gli erodiani (22,15s), i sadducei (22,23), i farisei (22,34). Ora sono di nuovo in scena i farisei. Riuniti per la disputa precedente, dedicherà loro anche il capitolo che segue. Finora erano gli altri a interrogare. Qui è lui che interroga. Si conosce una persona quando si smette di interrogarla, e si ascoltano i suoi interrogativi. Altrimenti si tratta di un interrogatorio, inteso a eliminare la verità e la persona stessa.

Gesù pone loro, indirettamente, la stessa domanda che, direttamente, aveva posto ai suoi discepoli (16,15s). Chiede loro cosa pensano del Cristo e di chi è figlio. Data la domanda, non c’è che una risposta, se uno è in grado di darla.

v. 42: che vi pare del Cristo? Ci sono tanti pareri su Cristo quante sono le nostre attese di salvezza. Il Cristo infatti è colui che salva. Ma cos’è per noi la salvezza e il Salvatore? Viene con il cavallo e il carro, con la violenza di chi vuol dominare, oppure sull’asina, con mitezza e umiltà (Zc 9,9)? Il Messia è uno dei tanti re, come gli altri, secondo la richiesta del popolo a Samuele (1Sam 8,1-6), o il re promesso a Davide da Dio (2Sam 7,1ss), che non voleva che Israele avesse un re come gli altri popoli (1Sam 8,7ss)?

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È importante il nostro parere sul Cristo. Non basta sapere che Gesù è il Cristo; bisogna capire chi è il Cristo, e riconoscerlo in Gesù, che viene sull’asina e finirà sulla croce. Gesù è il Cristo che ci salva innanzitutto dalla nostra idea di salvezza, di uomo e di Dio.

di chi è figlio? La figliolanza indica l’origine, l’identità. Chi è il Padre di questo Messia così diverso da quello voluto da tutti gli uomini?

gli dicono: Di Davide. Secondo la promessa (cf.2Sam 7,1ss ),il Cristo è figlio di Davide. Così è nominato da Matteo 8 volte: oltre che nel titolo (1,1), così è chiamato con speranza dai malati (9,27; 15,22; 20,30.31), con dubbio dalla folla (12,23), con giubilo dal popolo (21,9) e dai fanciulli (21,15). Il primo capitolo di Matteo mostra che lui non solo è figlio di Davide secondo la carne (1,1-17), ma è Figlio di Dio, il Dio-con-noi, secondo lo Spirito (1,18-25).

v.43: come dunque Davide, nello Spirito, lo chiama Signore. Gesù è un Cristo diverso dagli altri re, perché è il santo, altro da ogni altro: è il Signore, come già Davide lo chiamò, pur essendo suo discendente. Gesù vuol far intendere che lui è il Signore stesso, come lo invocano i malati e i discepoli in difficoltà (cf. 8,26; 8,29; 15,22-27; 20,30-33). Sarà ucciso perché si proclama Signore, uguale a Dio, il Figlio di Dio. Questa sua pretesa è una bestemmia; ma questa bestemmia è “la buona notizia” che ci salva. O accetto Gesù come “il” Signore o lo uccido. Ma proprio uccidendolo, lui rivela che e chi è il Signore!

Il Signore è principio e fine di tutto: quanto è attribuito a Dio, è attribuito a Gesù stesso. In modo sorprendente, egli porta sulla terra l’attributo esclusivo di Dio, la sua diversità unica: è Signore perché perdona (9,6), dà la vita (20,28), viene sull’asina (21,2ss) e si perde sulla croce per noi (27,54).

v. 44: disse il Signore al mio Signore (Sal 110,1). Il Signore è Dio, che parla al Messia, che Davide chiama: “Mio Signore”. Il Salmo parla del Messia che il Signore intronizza alla sua destra (cf. 26,64). Sotto i suoi piedi sono posti i nemici, dei quali l’ultimo ad essere annientato sarà la morte (1Cor 15,25-28). I nemici sono l’inimicizia degli uomini tra di loro e con Dio, che lui sulla croce ha distrutto in se stesso, per annunciare, a vicini e lontani, la pace (Ef 2,14-16). I nemici più temibili sono i nostri falsi modi di concepire Dio e il suo Cristo, l’uomo e la sua salvezza!

v. 45: se dunque Davide lo chiama Signore, come è suo figlio? È la domanda fondamentale del cristiano, giudeo o meno che sia. Il Figlio di Davide non è solo un uomo: è il Figlio di Dio, riconosciuto nello Spirito da chiunque si rivolge a Dio con il suo vero nome: Abbà (cf. Gal 4,6; Rm 8,15). Il Figlio di Dio, il Signore, è Gesù, il Nazareno crocifisso e risorto!

v. 46: nessuno poteva rispondergli. Gesù non ha ancora “dato lo Spirito” (cf. 27,50), e nessuno può dire chi è il Signore. Né carne né sangue possono rispondere a questa domanda che la Scrittura pone. Infatti, alla sua lettura, rimane un velo non rimosso, perché solo in Gesù è eliminato (cf. 2Cor 3,14). Questo velo però non è tanto sulla Scrittura, quanto sul cuore di chi legge, fino a quando si converte al Signore (cf. 2Cor 3,14s). Questa conversione sarà possibile quando, sulla croce, lo vedremo come egli è. Allora potremo dire, con il centurione e i suoi compagni: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio” (27,54).

né alcuno osò più interrogarlo da quel giorno. Gesù si presenta come “il Figlio”. E noi concluderemo: è l’erede, uccidiamolo e l’eredità sarà nostra (21,39)! È quanto avverrà tra pochi giorni, quando sulla croce ci darà il suo Spirito e noi lo riconosceremo.

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Il nostro silenzio alla sua domanda provoca la sua Parola, ultima e definitiva: la croce. È “la Parola” che rivela Dio, il segno di Giona (16,4) che lo manifesta come amore e misericordia per tutti.

Questo brano viene subito dopo la disputa sul comandamento dell’amore (vv. 34-40). Se “osiamo interrogare” Gesù sull’amore, sentiremo la sua risposta: la croce. Allora conosceremo chi è il Signore da amare con tutto il cuore: è colui, che mi si è fatto prossimo e per primo mi ha amato, perché anch’io possa amarlo e diventare come lui.

3. Pregare il testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando sulla spianata del tempio.c. Chiedo ciò che voglio: capire e amare il mio Signore, colui che mi ha

amato e ha dato se stesso per me.d. Traendone frutto, medito sul testo.

Da notare: Gesù interroga che vi pare del Cristo? di chi è figlio? Davide nello Spirito lo chiama Signore siedi alla mia destra i nemici sotto i piedi nessuno poteva rispondere il nostro silenzio e la sua parola l’interrogativo della croce.

4. Testi utili

Sal 110; Gdc 9,7-15; 1Sam8; 2Sam7; Mt 20,24-28; 21,1-17; Fil 2,5-11; Col 1,15-20.

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94. IL PIÙ GRANDE TRA VOI SARÀ VOSTRO SERVO 23,1-12

23,1 Allora Gesù parlò alle folle e ai suoi discepoli

2 dicendo: Sulla cattedra di Mosè si sedettero gli scribi e i fari sei.

3 Quanto dunque vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere; poiché dicono e non fanno.

4 Ora legano fardelli pesanti e insopportabili e li impongono sulle spalle degli uomini, ma loro neppure con un dito vogliono muoverli.

5 Ora tutte le loro opere fanno per essere visti dagli uomini: ampliano i loro filatteri e allungano le frange,

6 amano il primo posto nei banchetti e il primo seggio nelle sinagoghe

7 e i saluti nelle piazze ed essere chiamati dagli uomini rabbì.

8 Ma voi non fatevi chiamare rabbì: uno solo infatti è il vostro maestro, e voi siete tutti fratelli.

9 E non chiamate nessuno vostro Padre sulla terra: uno solo infatti è il Padre vostro, quello dei cieli.

10 E non fatevi chiamare guida, perché vostra guida è uno solo, il Cristo!

11 Ora il più grande tra voi sarà vostro servo.

12 Ora chi innalzerà se stesso sarà abbassato, e chi abbasserà se stesso sarà innalzato.

1. Messaggio nel contesto

«Il più grande tra voi sarà vostro servo». Con queste parole di Gesù si conclude la prima parte del c. 23, rivolto alle folle e ai discepoli - alle folle di discepoli di tutti i tempi -, per metterli in guardia dagli scribi e dai farisei. Ogni pagina del Vangelo è scritta per la Chiesa. Gli scribi e i farisei, di cui si parla in tutto il discorso, siamo noi, chiamati a riconoscerci in loro. Essi hanno usurpato il posto di Mosè, che liberò il popolo dalla schiavitù e trasmise loro le dieci parole di vita. Prenderanno anche il posto di Gesù, il Figlio di Dio mite e umile di cuore, dal giogo soave e leggero, per imporre alla comunità dei fedeli insopportabili fardelli.

Gesù ha cambiato l'acqua in vino: alle purificazioni esteriori della legge ha so-stituito il dono dello Spirito, che ci dà un cuore nuovo, quello del Figlio che ama come è amato. Ma noi, inavvertitamente, siamo come il cane che torna al suo vomito, come la scrofa lavata che si riavvoltola nel fango (2Pt 2,22): cambiamo il vino in acqua, sostituendo il Vangelo con la legge o imponendolo come legge!

Questa è e resta la prima tentazione della Chiesa, come testimonia in particolare la lettera ai Galati (cf. anche At 15). È un tornare dallo Spirito che dà vita alla lettera che

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uccide (2Cor 3,6), pervertendo lo stesso Vangelo (cf. Gal 1,7). È facile scambiare, o almeno offuscare, il Vangelo con la legge! Lo ha fatto anche Pietro ad Antiochia, come apertamente lo rimprovera Paolo (cf. Gal 2,l1ss). Non certo per cattiveria o stupidità, ma, come dice Paolo, per «ipocrisia», ovviamente travestita di bontà e premura pastorale. Pietro pensava di garantire una miglior gestione della comunità, senza avvertire che in questo modo non camminava secondo la verità del Vangelo (Gal 2,14). Questa perversione del Vangelo in legge è un ritorno dallo Spirito alla carne, che taglia fuori dalla grazia di Cristo (Gal 5,4).

Le leggi sono certamente necessarie. L'uomo senza di esse non vive, né tantomeno convive con gli altri. Sono positive se nascono dallo Spirito di libertà (Gal 5,1s), se vengono dall'amore e portano all'amore, pieno compimento della legge (Rm 13,10). Diversamente distruggono la vita filiale, sopprimendo diversità e alterità.

Ogni istituzione, spontaneamente, tende ad autoconservarsi, centrandosi su di sé. Ma chi vuol salvare la propria vita, la perde; solo chi perde la sua vita per amore del Signore la salva!

I vv. 1-4 presentano gli scribi e i farisei nel loro atteggiamento di fondo: legiferano per gli altri, ma non fanno quello che dicono. Sono pseudodiscepoli (cf. 7,2123). I vv. 5-10 indicano il motivo del loro agire: l'ipocrisia, il desiderio di apparire grandi, intelligenti e stimati. Al centro pongono ancora il proprio io invece di Dio. Ma non può credere in Dio chi cerca la gloria dagli uomini (Gv 5,44), perché la sua gloria è diversa. I vv. 11-12 dicono qual è la grandezza e la gloria di Dio: la sua grandezza è l'essere piccolo, la sua gloria il servire in umiltà.

Prima del suo ultimo discorso (cc. 24-25), Gesù mette in guardia contro il pericolo che il Vangelo sempre corre nella storia, mostrando che, ciò che è capitato a Israele, è profezia costante di ciò che capita a noi (cf. 1Cor 10,11).

Gesù ha sostituito il fardello pesante della legge con il giogo soave e leggero del Figlio che ama il Padre e i fratelli (cf. 11,25-30; 22,34-40).

La Chiesa è chiamata a riconoscere il suo peccato di fondo. È lo stesso di Israele e di ogni uomo: impadronirsi della Parola, invece di accettare colui che parla. La Parola diventa «legge», invece che comunicazione e comunione con colui che parla. Questo atteggiamento, che sembra zelante, è in realtà rifiuto di Dio come Padre e di se stessi come figli. Solo chi cerca di fare ciò che dice si accorge che le leggi sono impossibili da osservare e danno morte, e può capire che soltanto l'amore, lo Spirito del Padre, è dato re di vita. Senza questo, la stessa legge resta inevasa, e ogni osservanza non è che una vernice di perbenismo. Convertirsi significa innanzi tutto vedere in sé questo peccato di «ipocrisia» di cui parlerà tutto il c. 23. Diversamente, anche con il pretesto di «migliorare» l'osservanza del Vangelo, lo si perverte. Il vino nuovo non può stare in otri vecchi. Non si può combinare Vangelo e legge, Spirito che dà la vita e lettera che uccide. La «nuova» legge è il cuore nuovo: l'amore è legge a se stesso, e compie pienamente la volontà di Dio. Il ruolo della legge è preso dal «discernimento» dello Spirito, che mette a nudo il cuore e fa vedere quanto ancora è schiavo dell'egoismo. I puri di cuore vedono Dio (5,8) e sanno capire ciò che qui e ora aiuta a vivere concretamente l'amore del Padre verso i fratelli.

2. Lettura del testo

v. 1: Allora Gesù parlò alle folle e ai suoi discepoli. Folle e discepoli rappresen-tano la comunità cristiana, chiamata a riconoscere lo scriba e il fariseo che sempre si annida nel cuore di ciascuno. Gesù smaschera quel male segreto che sempre ci insidia, e ci impedisce di essere veramente suoi discepoli.

v. 2: sulla cattedra di Mosè si sedettero gli scribi e i farisei. Il posto di Mosè è stato occupato dagli «interpreti» della legge. Dopo la distruzione del Tempio la guida religiosa passò a loro, che guidavano le varie sinagoghe. L'organizzazione della sinagoga, riunita nell'ascolto della Parola, è servita da modello alla stessa Chiesa.

v. 3: quanto vi dicono, fatelo. Una dottrina, per essere vera, deve essere vissuta, non solo proclamata. Se, facendo ciò che si dice, si cresce nell'amore, allora va bene (cf. 22,34-40). Solo la pratica rende vera o falsa la teoria. Qui è in gioco non l'ortodossia, ma l'ortoprassi.

non fate secondo le loro opere; perché dicono e non fanno. I falsi discepoli sono quelli che dicono e non fanno: le opere non corrispondono alle parole. Sono operatori di iniquità (7,23), pseudoprofeti; non perché dicono cose false, ma perché non danno frutti buoni. Sono lupi rapaci in veste di pecore (7,15s), nei quali l'interno è in contraddizione con l'esterno. Inoltre l'apparenza buona impedisce di riconoscere la realtà e rende sordi

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alla conversione. Il dire senza il fare si sottrae sia alla constatazione dell'errore sia alla messa in atto

della verità: impedisce di riconoscere il male e di fare il bene. È la posizione «intellettualistica» di chi studia e di mestiere dice ciò che «gli altri» devono osservare. Ma il Vangelo non è qualcosa che si dice per gli altri, bensì la testimonianza di ciò che si vive in prima persona. Colui che parla è il primo ad essere interpellato da ciò che dice; altrimenti deve tacere, o dire solamente: «Signore, pietà!». Il pastore è innanzitutto come il grande Pastore che si è fatto agnello: è il primo che vive da figlio, cercando di fare ciò che raccomanda - a sé più che agli altri. Non è un generale che manda allo sbaraglio gli altri: combatte lui stesso la buona battaglia (2Tm 4,7), comportandosi non come padrone della fede altrui, ma come collaboratore della sua gioia (2Cor 1,24).

v. 4: legano fardelli pesanti e insopportabili, ecc. Impongono sugli altri un carico oneroso che loro neppure toccano con un dito, o che comunque non li tocca. Questo capita non solo quando si danno norme per gli altri, ma anche quando si annuncia il Vangelo con grande enfasi, compiaciuti della propria oratoria, mostrandolo come un dovere esigente, e non come il dono d'amore che il Signore fa a ciascuno!

Gesù ci invita al «suo giogo», che lui porta con noi, rendendolo leggero e soave (11,29s); noi invece proponiamo «fardelli pesanti e insopportabili» da chiunque. Il «giogo» è ciò che unisce a Gesù: il suo amore per noi e il nostro per lui, che è lo stesso che c'è tra Padre e Figlio! Questo ci libera dalla fatica e dall'oppressione, facendoci trovare «riposo».

È triste vedere come il Vangelo non sia annunciato come il dono della conoscenza del Padre nel Figlio! Proprio come gli scribi e i farisei, dimenticando la persona di Gesù, lo riduciamo a una dottrina o a una morale impossibile! Per legge nessuno può amare - tantomeno i nemici. Solo il dono dell'amore rende capaci di amare. Se il Signore a Cana ha trasformato l'acqua in vino, noi rischiamo di trasformare il vino buono in acqua o, peggio, in aceto!

Proporre il Vangelo come legge che uccide, invece che come Spirito che dà vita, è la tentazione più terribile della Chiesa. Invece di accogliere il Figlio e il Padre, ci costruiamo la nostra (finta) giustizia dimenticando il Padre e il Figlio, a dispetto dei fratelli!

v. 5: fanno per essere visti dagli uomini (cf. 6,1-4.5s.16-18). L'annuncio della Parola e la funzione pastorale sono usati come «mezzo di scambio», per ottenere buona fama dagli altri. Chi agisce per turpe motivo di lucro (2Cor 2,17), ha già la sua ricompensa (6,2.5.16): la vanagloria invece della gloria!

ampliano i loro filalteri e allungano le frange. I filatteri sono scatolette, fissate con strisce di cuoio, che si mettono sul braccio sinistro e sulla fronte, contenenti parole importanti della Bibbia. I farisei le rendono ben visibili, a differenza di altri. Dovrebbero essere segno di amore alla Parola, che occupa l'agire e il pensare. Ma non è proprio ciò che avviene! Ogni segno può facilmente essere scambiato per amuleto, dimenticando il suo significato. La parola «filatterio» significa «luogo in cui si conserva». Ma conserva la memoria della Parola, o solo di se stesso?

Il termine ebraico «frange» (tefillin) significa «preghiere». Infatti Mc 12,40 dice che fanno lunghe preghiere per apparire pii, e, così, imbrogliare meglio il prossimo.

Una forma analoga sono i bei discorsi, frangiosi e paludati, dotti e suasivi, che svuotano la parola della croce (cf. 1Cor 1,17), e servono solo per edificare un piedistallo al predicatore!

v. 6: il primo posto nei banchetti, ecc. Il «protagonismo» fa occupare il primo posto (cf. Lc 14,7-11). Ma Gesù è ultimo e servo di tutti (cf. 20,26-28). Per questo i primi saranno gli ultimi e gli ultimi i primi (19,30; 20,16). Il «banchetto» per il cristiano è l'eucaristia, la «sinagoga» la comunità. Cerchiamo il primo o l'ultimo posto? Il nostro è un vero servizio agli altri, o un servirci dei nostri doni per primeggiare su loro?

v. 7: i saluti nelle piazze. Essere primi e riveriti, in chiesa e sulla piazza, nella comunità e nella società! Chi non si accorge di questo desiderio, è cieco. Invece di dire col peccatore: «Abbi pietà di me!», trasforma la preghiera del fariseo, dicendo: «Ti ringrazio, o Signore, che non sono come quel fariseo» (cf. Lc 18,9-14): un doppio salto mortale, nel vuoto e senza rete. In questo siamo abilissimi!

essere chiamati rabbì. Rabbì significa: «mio grande!» È il titolo di riverenza ri-servato ai saggi dai loro ammiratori, ai maestri dai loro discepoli. Gesù, nel Vangelo di Matteo, è chiamato con questo nome solo da Giuda (26,25.49)! Negli altri Vangeli è invece un titolo di affetto.

v. 8: non fatevi chiamare rabbì: uno solo infatti è il vostro maestro. Il maestro interiore che Gesù ci ha lasciato è lo Spirito Santo, che ci guida nella verità tutta in tera (Gv 16,13ss): è il suo Spirito di Figlio, che ci fa conoscere lui e amare come lui il

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Padre e i fratelli. Questo maestro ci rende «teodidatti», ammaestrati da Dio (Gv 6,45, cf. Is 54,13); ci fa conoscere lui come Padre e noi come suoi figli. Dove c'è questo Spirito, c'è libertà (2Cor 3,17). Chi segue altri maestri o guru, rinuncia alla sua dignità di figlio di Dio: la libertà!

voi siete tutti fratelli. Lo Spirito, che grida con noi nel nostro cuore: «Abbà!» (Gal 4,6; Rm 8,15), ci rende figli nel Figlio e fratelli tra di noi, tutti uguali e ognuno diverso! Nella Chiesa tutti abbiamo pari dignità, dal papa al bimbo appena nato. Ma il più grande tra noi è proprio il più piccolo, che è il Signore stesso (18,1ss). Per questo, se non diventiamo come bambini, non entreremo nel regno del Padre (18,1-5). La nostra differenza non sta nella grandezza, ma nel servizio che reciprocamente ci rendiamo, ognuno secondo il suo dono particolare (1Cor 12,4-13,13), tenendo presente che si deve conferire maggior onore a ciò che ne manca (1Cor 12,22-24)!

v. 9: non chiamate nessuno vostro Padre sulla terra. Il Padre è il principio della vita, ed è solo uno. Noi tutti siamo figli: ciò che siamo e abbiamo, è ricevuto (1Cor 4,7). È imbarazzante, per un religioso, sentirsi chiamare: «Reverendo Signor Padre!». A ragione s. Francesco voleva che tutti si chiamassero frati e sorelle, addirittura anche le cose! Il peccato fondamentale del figlio è volere il posto del Padre: è il parricidio originario che, da Adamo in poi, ci impedisce di accettare noi stessi come figli e gli altri come fratelli. Principio di ogni nostro male, distrugge la nostra essenza di figli nel Figlio.

uno solo è il Padre vostro. L'unico Padre è colui che fa piovere il suo amore sui cattivi e sui buoni (5,45), il Padre delle misericordie (2Cor 1,3). Non è un padre antagonista, come ce lo presentò il nemico. «Tutto mi è stato dato dal Padre mio» dice Gesù (11,27). Il Padre è colui che dona al Figlio tutto, cioè se stesso! Non è legge, ma libertà; non dominio, ma amore; non possesso, ma dono.

v.10: non fatevi chiamare guida. Guida, o pastore, è il Cristo, l'Agnello che ha dato la vita per le pecore. È lui il Pastore (Sal 23), l'unico buono, che ci libera dagli ovili e ci conduce ai pascoli della vita, offrendo ci la sua stessa vita di Figlio (Gv 10,1-18). Guai a chi vuoI sostituirsi a lui, dicendo, in teoria o in pratica: «Io sono il Cristo!» (cf. 24,23s; Me 13,6).

v. 11: il più grande tra voi sarà vostro servo. La grandezza di Dio è l'amore, e amare è servire, con i fatti e in verità (1Gv 3,18). Gesù infatti è in mezzo a noi come colui che serve (Lc 22,27).

v. 12: chi innalzerà se stesso sarà abbassato, ecc. Adamo alzò la mano per rapire e possedere tutto, e tornò nella polvere. Il nuovo Adamo si umiliò, donando tutto e mettendosi nelle mani di tutti. Per questo è il Signore (Fil 2,5-11).

3. Pregare il testo

a. Entro in preghiera come suggerito nel metodo. b. Mi raccolgo immaginando le folle dei discepoli alle quali Gesù parla. c. Gli chiedo ciò che voglio: snidare lo scriba e il fariseo che è in me. d. Traendone frutto, medito sulle parole di Gesù.

Da notare: le folle e i discepoli gli scribi e i farisei dire e non fare operare per essere visti dagli uomini primi posti, primi seggi, saluti uno solo il vostro maestro, lo Spirito uno solo il Padre uno solo il pastore, Cristo chi è il più grande?

4 Testi utili

Sal 23; 131; Ml 1,14b-2,2b.8-10; Ez 34; Mt 18; Gv 10,1-18; 16,5-15, 1Cor 12-13; Fil 2,5-11

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95. GUAI A VOI! 23,13-39

23,13 Ora guai a voi, scribi e farisei ipocriti, perché chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; voi infatti non entrate né lasciate entrare quelli che vogliono entrare.

14 (Ora guai a voi, scribi e farisei ipocriti, poiché divorate le case delle vedove e fingendo di pregare a lungo; per questo riceverete una maggiore condanna).

15 Ora guai a voi, scribi e farisei ipocriti, perché percorrete il mare e l'asciutto per fare un solo proselito, e, quando lo diventa, fate di lui un figlio della Geenna, il doppio più di voi.

16 Ora guai a voi, guide cieche, che dite: Chi giura per il tempio, non vale; ma chi giura per l'oro del tempio, è tenuto.

17 Stupidi e ciechi, che cosa infatti è più grande: l'oro o il tempio che rende santo l'oro?

18 e: Chi giura per l'altare, non vale, ma chi giura per il dono che vi sta sopra, è tenuto.

19 Ciechi, che cosa è più grande: il dono o l'altare che rende santo il dono?

20 Chi dunque giura per l'altare, giura per esso e per tutte le cose sopra di esso;

21 chi giura per il tempio, giura per esso e per chi lo abita;

22 e chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per chi vi è seduto sopra.

23 Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, perché pagate la decima sulla menta, sull'aneto e sul cumino e tralasciate le cose più importanti della legge: la giustizia, la misericordia e la fede. Ora queste bisognava fare e quelle non tralasciare.

24 Guide cieche, che filtrate il moscerino e trangugiate il cammello!

25 Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che purificate l'esterno del bicchiere e del piatto, mentre all'interno sono pieni di rapina e immondezza.

26 Fariseo cieco, purifica prima l'interno del bicchiere, perché diventi puro anche il suo esterno!

27 Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, perché siete simili a sepolcri imbiancati, che all'esterno appaiono belli, ma all'interno traboccano di ossa di morti e di ogni putridume.

28 Così anche voi all'esterno apparite giusti agli uomini, ma all'interno siete pieni di ipocrisia e di iniquità.

29 Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, perché costruite i sepolcri dei profeti e ornate le tombe dei giusti,

30 e dite: Se fossimo stati nei giorni dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro nel sangue dei profeti.

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31 Così testimoniate a voi stessi che siete figli di chi ha ucciso i profeti!

32 E voi riempite la misura dei vostri padri. 33 Serpenti, razza di vipere,

come potete fuggire dal giudizio della Geenna? 34 Per questo ecco:

io mando da voi profeti e sapienti e scribi, alcuni ne ucciderete e crocifiggerete, altri ne flagellerete nelle vostre sinagoghe e perseguiterete di città in città,

35 affinché ricada su di voi tutto il sangue giusto versato sulla terra, dal sangue di Abele il giusto fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachia, che uccideste tra il santuario e l'altare.

36 Amen, vi dico: tutte queste cose verranno su questa generazione!

37 Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi gli inviati a te, quante volte volli riunire i tuoi figli, come la chioccia riunisce i suoi pulcini sotto le ali, e voi non voleste!

38 Ecco, vi sarà lasciata deserta la vostra casa. 39 Dico infatti a voi:

d'ora in poi non mi vedrete affatto, finché non diciate: Benedetto colui che viene in nome del Signore!

1. Messaggio nel contesto

«Guai a voi, scribi e farisei ipocriti!», dice Gesù parlando alla folla e ai discepoli, cioè a noi (v. 1). C'è un sapere e un fare che è violenza e morte, ma si traveste di giustificazioni religiose. Il male può uscire come trasgressione della legge, e si rivela come tale; ma può uscire più sottilmente con la maschera dell'osservanza. Allora è più difficile da riconoscere. È l'ipocrisia di chi fa il bene, ma non è mosso dall'amore. Il brano è tutto un «test» sull'ipocrisia religiosa, che c'è soprattutto là dove non è avvertita. Sorprende il tono minaccioso usato da Gesù, che si è definito «mite e umile di cuore» (11,29).

Il Signore parla delle deviazioni culturali (scribi) e pratiche o legali (farisei), che sempre sono accovacciate in noi: dobbiamo riconoscerle e non farcene dominare (Gen 4,7), per non uccidere, come Caino, il fratello e il nostro essere figli. La sua parola richiama le vigorose invettive dei profeti: servono per scuotere da quella «pace perniciosa» (Cassiano) del male, che è il suo aspetto peggiore. È segno di grande misericordia denunciare il male e maledirlo, dire-male del male e fame apparire l'inganno. Se la verità va fatta nella carità (cf. Ef 4,15), anche la carità va fatta nella verità. Noi preferiamo trascurare la verità in nome dell'amore, o trascurare l'amore in nome della verità; e così perdiamo ambedue, perché ciò che è vero e ciò che è buono coincidono (verum et bonum convertuntur!). Al bianco e al nero preferiamo la confusione indistinta del grigio uniforme. Ma, fin dal principio della creazione, la vita è distinzione. Chiamare le cose con il loro nome, facendole uscire dal caos, è l'opera di Dio, che l'uomo è chiamato a continuare responsabilmente.

L'oggetto del «guai!» è l'ipocrisia nelle sue varie manifestazioni. L'ipocrita, nella tragedia greca, è il solista che risponde alla folla anonima del coro: è il capocoro, il protagonista del gruppo. La sua caratteristica prima è quella di essere un teatrante, non se stesso: è una maschera, la principale! Dice ciò che gli impone il ruolo, non ciò che è lui.

Se questo va bene nel teatro, nella vita personale uno che «recita» non entrerà mai in relazione con nessuno. La scissione tra ciò che si è e ciò che si dice, è l'empietà radicale: la menzogna che priva l'uomo del suo volto. Uno dei detti segreti di Gesù dice che: «quando le due cose saranno una, e l'esterno come l'interno», allora sarà il Regno (Clemente Rom., II, 12,1-2).

Il nostro essere è essere figli del Padre. Il nostro apparire deve manifestarlo nella fraternità. Nelle opere uno realizza o contraddice ciò che è. Non dobbiamo recitare: bisogna essere non attori, ma «fattori» della Parola. Per Matteo l'ipocrisia, male supremo, è questa contraddizione tra dire e fare o, meglio, tra dire e non-fare ciò che si dice: è un abortire della Parola, invece che essere generati e generarla (7,21-23; 12,25s; 25,31-46).

L'ipocrita «si serve» della Parola per ottenere l'approvazione dagli uomini, e fa consistere in questa, invece che in quella, la sua identità: la vana-gloria prende il posto della Gloria, il falso io quello del proprio io, che è Dio stesso!

Il discorso, sviluppo del brano precedente, si divide in due parti: la denuncia del male e il giudizio sulle nefaste conseguenze che esso comporta. La denuncia è puntualizzata in sette esempi e in altrettanti «guai a voi!» (vv. 13-33). Il giudizio resta sospeso e viene dopo la requisitoria (vv. 34-39), per continuare poi nei cc. 24-25.

In concreto si denuncia la contraddizione tra dire e fare (v. 13), tra zelo grande e risultato catastrofico (v. 15), tra legalismo rigoroso e mancanza di discernimento (vv. 16-22), tra esteriorità ineccepibile e interiorità perversa (vv. 25-

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26): siamo sepolcri imbiancati (vv. 27-28) che, con la facciata del perbenismo, colmiamo la misura della violenza di chi ci ha preceduto (vv. 29-32).

Segue il giudizio: non siamo figli di Dio, ma del serpente (v. 33), e portiamo a compimento la perversità dei nostri padri (vv. 34-36).

Dopo aver espresso con ira la maledizione del male e il giudizio su di esso, Gesù conclude con la condanna che il male porta con sé: la devastazione di chi lo compie! E qui Gesù si esprime con un tenero lamento su Gerusalemme, la cui desolazione durerà fino a quando non riconoscerà colui che viene nel nome del Signore (vv. 37-39).

Gesù piange per il male che, chi lo uccide, fa a se stesso (cf. Lc 19,41), non per quello che fa a lui, che sarà ucciso! Non c'è segno maggiore di amore. Il male di chi rifiuta ricade infatti su chi ama. Tutte le maledizioni del c. 23 porteranno lui in croce, dove si farà carico della nostra cattiveria. Quando diremo di lui, croci fisso e maledetto, che è veramente il Figlio di Dio (27,54), il Benedetto che viene a salvarci, allora la nostra casa non sarà più deserta: lui abiterà in noi e noi in lui. Allora Dio non sarà più senza l'uomo né l'uomo senza Dio: i due saranno casa l'uno all'altro!

Gesù denuncia il male e annuncia il giudizio, che si compirà su di lui dopo due giorni: il Crocifisso, fatto per noi maledizione e peccato (Gal 3,13; 2Cor 5,21), sarà bersaglio di tutto il nostro male.

La Chiesa è l'oleastro: come l'olivo su cui è innestata, resterà deserta fino a quando riconoscerà il Benedetto che viene proprio in colui che si è fatto maledizione e peccato. Il riconoscimento del Signore da parte dei suoi è il fine del mondo!

2. Lettura del testo

v. 13: Guai a voi. Il senso profondo del guai è stato spiegato nel commento a 11,21s. Significa: «Ahimè!», ed esprime non una minaccia, ma il dolore di chi parla per il male di chi ascolta.

scribi e farisei ipocriti. Gli scribi sono quelli che sanno; i farisei quelli che fanno. Ma c'è un sapere e un fare ipocrita, che serve non ad esprimere la propria realtà, ma a nasconderla: il fine non è l'amore, ma l'apparire intelligenti e buoni.

chiudete il regno. C'è un sapere e un fare che non apre al Regno, ma che lo chiude a sé e agli altri: a sé perché non si fa quello che si dice, agli altri perché si impongono loro pesi insopportabili (v. 4). La conoscenza del Padre e del Figlio è riservata ai piccoli (cf. 11,25ss), non a chi fa il padreterno! Chi non accetta di essere figlio, qualunque cosa faccia, è in contraddizione con sé: si condanna all'inautenticità, all'autodistruzione.

v. 14: divorate le case delle vedove, ecc. Questo versetto, presente in qualche manoscritto, è desunto da Mc 12,40 (cf. Lc 20,47).

v. 15: percorrete il mare e l'asciutto per fare un solo proselito, ecc. C'è uno zelo che non è mosso dall'amore -lo stesso del Padre e del Figlio che spinge l'apostolo Paolo verso tutti (2Cor 5,14). È il desiderio di aver prose liti, dai quali misurare l'autostima e il proprio potere. Chi segue «noi», non diventa figlio di Dio, ma nostro schiavo, perduto come noi. È da seguire solo il Signore Gesù, che ci rende figli del Padre.

Il risultato di questo zelo non è il diffondersi della fraternità, ma il «duplicato» del proprio egoismo, moltiplicabile senza fine. Non c'è nulla di peggio di questa «c1onazione spirituale» che massifica le persone, rendendole dipendenti, fanatiche e pericolose! Il mondo è pieno di guru di tutti i tipi, e di grulli che li seguono!

v. 16ss: guide cieche. L'ipocrita è cieco: non vede ciò che c'è, ma proietta su tutto l'ombra di sé. La realtà non è più letta nel suo significato di rimando all'Altro. Ogni cosa diventa un feticcio: l'oro vale più del tempio, l'offerta più dell'altare ogni parola, anche quella più sacra come il giuramento, perde il suo valore.

v. 23: pagate la decima. La cecità si manifesta particolarmente nel legalismo: numerose norme e decreti regolano le cose anche minime; ma la giustizia, la misericordia e la fedeltà sono trascurate. La stessa Parola sostituisce colui che parla e al quale siamo chiamati a rispondere.

Chi è attento alla Parola in modo corretto, ama il Padre e i fratelli, e in questo modo adempie la legge - con delicatezza somma, anche nelle minime cose -, ma non per scrupolo e mania ritualistica, bensì per amore.

v. 24: filtrate il moscerino e trangugiate il cammello. L'assurdo del legalismo è di stare attento al dettaglio e non vedere l'insieme. Anzi, il dettaglio diventa l'oggetto di ossessione rituale, quasi una coazione meccanica e implacabile che uccide.

v. 25: purificate l'esterno del bicchiere e del piatto, all'interno invece, ecc. L'esteriorità, accuratissima, nasconde un'interiorità piena di «rapina e immondezza». Tutto è ridotto a un tentativo di rapire la gloria, e si cade schiavi di ogni passione, perché non si ha la conoscenza dell'amore che libera e purifica.

v. 26: purifica prima l'interno, ecc. Ciò che conta è il cuore puro, che vede Dio (5,8) e in tutto vive l'amore del Padre, diventando, come lui, misericordioso verso ogni miseria.

v. 27: sepolcri imbiancati, ecc. L'esterno è bello a vedersi, luminoso e attraente come il frutto del male (Gen 3,6); ma, come questo, è pieno di veleno e di morte.

v. 28: all'esterno apparite giusti agli uomini. C'è un'impeccabilità esterna che nasconde il massimo peccato: la ricerca di autogiustificazione, che ignora l'amore e genera ogni perversità sotto apparenza di bene!

v. 29: costruite i sepolcri dei profeti, ecc. Si venera sempre il profeta, ma solo quando lo si è tolto di mezzo: ci si rende belli della sua eredità, rendendola inoffensiva! È la vera uccisione del profeta, beffato anche dopo morto!

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v. 30: se fossimo stati nei giorni dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro, ecc. Ci si dissocia dai padri, dichiarandosi pentiti del loro peccato. È di moda oggi pentirsi dei peccati che altri hanno fatto. Dobbiamo passare dal «pentitismo» dei loro misfatti al «pentimento» dei nostri, battendo il petto nostro e non quello al trui! È abominevole pentirsi dei peccati altrui per giustificare se stessi.

v. 31: testimoniate che siete figli di chi ha ucciso i profeti. Con il pentitismo su crociate, inquisizione, streghe, Galileo, ecc., mascheriamo i peccati attuali, continuando la stessa storia di violenza dei nostri padri; e per di più con l'alibi dei buoni sentimenti!

v. 32: voi riempite la misura dei vostri padri. Fino a quando, qui e ora, non capisco che io faccio ciò che rimprovero agli altri, continuo a fare come loro, portando a compimento ciò che loro hanno solo iniziato!

v. 33: serpenti, razza di vipere. Non siamo figli di Dio, ma del serpente antico, menzognero e omicida fin dal principio (Gv 8,44).

v. 34s: io mando da voi profeti, ecc. Gli inviati di Dio, antichi e moderni, fanno sempre la stessa fine, che è quella del loro Signore. Ciò che è accaduto al Figlio per mano dei suoi fratelli, accade ad ogni giusto per mano nostra. Almeno fino a quando apriamo gli occhi, riconosciamo il peccato e ci prendiamo le nostre responsabilità.

v. 36: tutte queste cose verranno su questa generazione. Su ogni generazione grava il cumulo di violenza delle generazioni precedenti. Per quanto si critichi, non si fa che accrescerlo, fino a quando non si critica se stessi.

Sulla generazione di Gesù, il Giusto, ricadrà il sangue di ogni ingiustizia, e il suo sangue «ricadrà su noi e sui nostri figli», come dirà tra poco il popolo che lo condanna (27,25).

v.37: Gerusalemme, Gerusalemme. Grande è la tenerezza del Signore per la sua città, per il suo popolo, per l'olivo e per Israele, posto a «luce delle genti». Il nuovo popolo, l'oleastro, la Chiesa, tutto il mondo, è chiamato a riconoscersi nella sua elezione e nel suo peccato, per partecipare della sua stessa grazia.

Uccidi i profeti. Uccidere i profeti è la professione qualificata del «pio», che osserva la legge, e ogni legge. Illuminato è colui che\se ne accorge: apre gli occhi e vede nel proprio peccato la grazia eterna del suo Signore.

quante volte volli riunire, ecc. Da sempre il Padre desidera raccogliere i suoi figli, fuggitivi e dispersi. Il Figlio ha gli stessi sentimenti del Padre.

come la chioccia. È l'immagine più materna di Dio. Se vedi la chioccia, sai subito che è madre (infirmatur super pullos suos!). La potenza dell'aquila (Es 19,4; Dt 32,11), si fa la tenerezza di una chioccia.

e non voleste. Il nostro costante rifiuto è la ferita dolorante e sempre aperta di Dio. v. 38: vi sarà lasciata deserta la vostra casa (cf. 24,ls; At 1,20; Sal 69,26). La nostra casa è deserta, perché non ha

accolto il Signore, di cui siamo tempio. Lo abbiamo espulso e crocifisso fuori le mura. E noi stessi restiamo senza casa, come anche lui. Infatti Dio è la casa dell'uomo, come l'uomo è casa di Dio, che in lui si compiace di abitare.

v. 39: non mi vedrete affatto, finché non diciate: Benedetto, ecc. Volgendo lo sguardo a colui che abbiamo trafitto (Gv 19,37), vedremo colui che viene nel nome del Signore. Nel maledetto che pende dal legno - e in tutti i dannati della terra, suoi fratelli - vedremo il Benedetto che viene ad abitare a casa nostra, se lo accogliamo (cf. 25,31-46). Così la Gloria ritorna nella sua dimora e noi troviamo casa.

3. Pregare il testo

a. Entro in preghiera come suggerito nel metodo. b. Mi raccolgo immaginando Gesù che parla alle folle sulla spianata del tempio. c. Chiedo ciò che voglio: riconoscermi tra quelli dei quali Gesù dice: «Guai a voi», e riconoscere nella croce il mio

peccato e il suo perdono. d. Medito su ogni singolo «guai», facendomi un serio esame di coscienza.

4 Testi utili

Sal 69; Rm 11; Ap 2-3: le sette lettere alle sette Chiese; Fil 3,1-14

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96. GUARDATE CHE NESSUNO

VI INGANNI

24,1-28

24,1 E, uscito Gesù dal tempio,se ne andava;

e si avvicinarono i suoi discepoliper mostrargli gli edifici del tempio.

2 Egli allora rispondendodisse loro:

Non vedete tutte queste cose?Amen, vi dico, non sarà lasciata qui pietra su pietrache non verrà distrutta.

3 Ora, seduto lui sul monte degli Ulivi,gli si avvicinarono i discepoli in privatodicendo:

Di’ a noiquando saranno queste cose,e quale il segno della tua venutae del compimento del mondo?

4 E, rispondendo, Gesù disse loro:Guardate che nessuno vi inganni.

5 Molti infatti verranno nel mio nomedicendo:Io sono il Cristo!e inganneranno molti.

6 Starete a sentire di guerre e rumori di guerre;guardate di non agitarvi.È infatti necessario che ciò avvenga,ma non è ancora la fine.

7 Sorgerà infatti nazione contro nazionee regno contro regno,e ci saranno carestiee terremoti in vari luoghi.

8 Ora tutte queste cose sono principio di doglie.9 Allora vi consegneranno a tribolazioni

e vi uccideranno,e sarete odiati da tutte le nazionia causa del mio nome.

10 E allora saranno scandalizzati moltie si tradiranno gli uni gli altrie si odieranno gli uni gli altri.

11 E molti falsi profeti sorgerannoe inganneranno molti;

12 e per l’abbondare dell’iniquitàsi raffredderà l’amore dei più.

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13 Ora chi resisterà sino alla fine,questi sarà salvato.

14 E sarà annunciato questo vangelo del regno in tutto il mondo,in testimonianza a tutte le nazioni;e allora sarà la fine.

15 Quando dunque vedrete l’abominio della desolazione,detto per mezzo del profeta Daniele,stare in luogo santo- chi legge comprenda! -,

16 allora quelli che sono in Giudeafuggano sui monti;

17 chi è sul tetto,non scenda a prendere le cose di casa sua;

18 e chi è nel camponon torni indietro a prendere il suo mantello.

19 Guai a chi è incinta e allattain quei giorni!

20 Ora pregate che la vostra fuganon avvenga d’inverno né di sabato.

21 Allora infatti sarà una tribolazione grande,quale non fu dall’inizio del mondo fino ad ora,né mai vi sarà.

22 E se non fossero abbreviati quei giorni,non si salverebbe nessuna carne;ora, a causa degli eletti,saranno abbreviati quei giorni.

23 Allora se qualcuno vi dirà:Ecco qui il Cristo, oppure: là,non credete!

24 Sorgeranno infatti falsi Cristie falsi profeti,e daranno segni grandi e prodigi,così da ingannare, se possibile, anche gli eletti.

25 Ecco, vi ho predetto!26 Se dunque vi diranno:

Ecco, è nel deserto,non uscite!Ecco, è nell’interno (della casa),non credete!

27 Come infatti la folgore esce da orientee brilla fino a occidente,così sarà la venuta del Figlio dell’uomo.

28 Dovunque sarà il cadavere,là si raduneranno gli avvoltoi!

1. Messaggio nel contesto

“Guardate che nessuno vi inganni”, ripete Gesù all’inizio, al centro e alla fine di questo brano (vv. 4.11.24), in cui parla di ciò che precede la venuta del Signore per il suo giudizio.

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La dominante del discorso sulla “fine del mondo” è un ribaltamento: chi è in ansia sul futuro, è rimandato a vivere il presente con vigilanza e responsabilità. Il giudizio finale non è che il disvelamento di ciò che viviamo nel presente: qui e ora siamo chiamati a testimoniare l’amore del Padre verso i fratelli, a fare la sua volontà, ad agire “con giudizio”. Tutto si gioca in questo tempo.

L’esistenza nostra e del mondo ha certamente una fine, perché ha avuto un inizio. La vita va rispettata, ma non mantenuta con accanimento. Si perde comunque! Solo chi la sa dare per amore, la ritrova! Va vissuta in pienezza, e proprio alla fine raggiunge il suo fine: la comunione e l’incontro con il Signore. Il futuro non è la distruzione, da cui inutilmente si cerca di fuggire, ma ciò verso cui tende con desiderio ogni nostro passo presente.

Il discorso di Gesù vuole incoraggiarci, perché non siamo senza speranza, come quelli che ignorano il disegno di Dio sul mondo (cf. 1Ts 4,13). Vuole toglierci la paura, madre di ogni inganno. Ciò che ci attende non è un’inevitabile catastrofe, ma la più bella prospettiva alla quale possa aprirsi il nostro cuore. La storia, sottratta all’ipoteca fatale del nulla, è consegnata alla libertà dell’uomo, che va incontro al Signore della vita.

Il discorso è, senza soluzione di continuità, la prosecuzione del c. 23. Dopo aver messo in guardia contro i mali che sorgono all’interno della comunità e lasciano la nostra casa deserta (23,38), Gesù esce dal tempio, lasciandolo deserto e predicendone la distruzione (24,1s). La fine del tempio indica la fine del mondo e la venuta del Signore per il suo giudizio. I discepoli chiedono “quando” e “quali i segni” di tutto questo (24,3).

Nei vv. 4-28 Gesù parla dei vari “quando” che precedono la fine: non sono che i vari momenti del tempo presente, da leggere alla luce del futuro; nei vv. 29-31 parla della venuta del Signore e del suo “segno”; nei vv. 34-36 dice che tutto questo avviene “in questa generazione”, ossia in ogni generazione, ma se ne ignora il giorno e l’ora. Per questo seguono le parabole sulla vigilanza e sull’operosità fedele e saggia (vv. 37-51). Questo tema sarà sviluppato nel c. 25 con tre grandi parabole: la prima sulla vigilanza (25,1-13), la seconda sulla responsabilità (25,14-30) e la terza sul giudizio finale, che dipende esclusivamente da ciò che facciamo ora (25,31-46).

Come si vede da questo sommario, tutto il discorso sul futuro non è un alibi all’impegno, un oppio per dimenticare le difficoltà. Il tempo della salvezza è “questo”: qui e ora viviamo o meno il nostro essere figli e fratelli. La vita non è un’attesa di ciò che sarà, ma un’attenzione verso ciò che c’è: l’Emmanuele, il Dio-con-noi, è sempre presente per portare il mondo al suo compimento (28,20).

Determinante per ciò che sarà il futuro è ciò che facciamo al presente. Il giudizio di Dio non farà altro che svelare se abbiamo o meno vissuto secondo il suo giudizio.

Questo lungo discorso viene prima della morte e risurrezione di Gesù. La sua vicenda è la medesima di ogni discepolo e della Chiesa, di ogni uomo e del mondo intero, della piccola storia di ognuno e della grande storia del cosmo: alla luce del Figlio dell’uomo, primogenito di ogni creatura (Col 1,15), comprendiamo il mistero di tutta la creazione. Nel NT, quando si parla della fine del mondo, si intende qualcosa che è già avvenuto al Figlio, che avviene ad ogni fratello e avverrà a tutti.

Come detto, questo brano è un richiamo contro i turbamenti e gli allarmismi, per non cadere in inganno. Il primo inganno infatti è la stessa paura, che fa chiudere gli occhi e impedisce di vedere la realtà.

I discepoli, che lo interrogano sul “quando” e sui “segni” della fine, sono rimandati alla quotidianità, che è tutta da leggere come segno della presenza del Dio con noi. Il Figlio dell’uomo viene in ogni ora come è venuto allora, sotto il suo “segno”: la croce, dove la violenza del male si svela e si arresta nell’amore di chi la porta senza restituirla. Il male non è la fine, né tanto meno il fine del mondo! È invece il luogo della testimonianza dell’amore del Figlio e dei suoi fratelli.

La vicenda umana è tutta un travaglio del parto della creazione nuova (Rm 8,19ss). Il capo è già venuto alla luce: segue la nascita di tutto il corpo!

Questo testo si articola più dettagliatamente come segue: i vv. 1-3 predicono la distruzione del tempio, che suscita la domanda dei discepoli sul tempo e i segni della fine; i vv. 4-5 mettono all’erta contro gli inganni; i vv. 6-8 descrivono gli ingredienti normali della storia, i cui dolori sono

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da leggere come “doglie” del parto; i vv. 9-14 mostrano come il discepolo è generato uomo nuovo proprio da questa situazione, che lo rende testimone del suo Signore; i vv. 15-22 parlano del momento decisivo della testimonianza, in cui è necessaria risolutezza e pazienza; i vv. 23-28 chiudono, come l’inizio, mettendo all’erta contro i facili inganni.

Gesù mette in guardia contro gli allarmismi sulla fine del mondo, per farci vivere il presente come il tempo di grazia, in cui possiamo nascere come figli e vivere da fratelli.

La Chiesa vive alla sequela del suo Signore, continuando la sua lotta e la sua vittoria, la sua morte e la sua risurrezione, portando con lui il mondo al proprio compimento. La parola del Figlio (cc. 5-7) - seminata nell’annuncio (c. 10), che cresce tra mille contraddizioni (c. 13) e fruttifica nella comunità (c.18) - è il giudizio di Dio sulla storia presente. Ed è ciò che Gesù ha pienamente realizzato con la sua vita, la sua morte e risurrezione.

2. Lettura del testo

v. 1: E, uscito Gesù dal tempio. La “Gloria” esce dal tempio e lascia deserta la sua e nostra casa, in attesa che riconosciamo il nuovo segno della sua gloria. Questa uscita si riallaccia al discorso precedente (23,38s) e introduce il seguente, sulla fine del tempio e del tempo.

si avvicinarono i suoi discepoli. I discepoli sono affascinati dalla vista del tempio, maestoso e bello. Non sanno ancora che c’è un tempio più grande e più bello, non fatto da mani d’uomo (Mc 14,58).

v. 2: non sarà lasciata pietra su pietra, ecc. Il tempio, attorno al quale si struttura la vita religiosa e civile, cultuale e culturale, finisce - e oggi è finito più che mai! Simbolo cosmico, centro dello spazio e del tempo, asse che unisce cielo e terra, sarà spazzato via. Questo significa la fine del mondo, il suo ritorno al caos. Tutto il creato, come è iniziato, così anche termina: è finito! Se non ci fosse il peccato, la cosa sarebbe senza traumi: la sua fine sarebbe il ricongiungersi al suo principio. Ma il peccato l’ha allontanato da Dio: l’ha staccato dalla sua origine e l’ha sospeso nel nulla.

v. 3: quando saranno queste cose. I discepoli sono preoccupati di sapere “quando” sarà la fine. Il tempo è vita; quando scade, è finita! L’uomo ha coscienza di morire, e cerca di rinviarne il momento. Cerca di sapere quando sarà, nell’illusoria convinzione di averne il controllo. Ma questo assillo non fa che bloccarlo, tenendolo schiavo della paura della morte per tutta la vita (cf. Eb 2,14).

quale il segno. I discepoli cercano i “segni” di “quando” sarà la fine inevitabile, con il risultato di uccidere ogni presente nell’attesa del futuro.

della tua venuta. In greco c’è “parousía”, che significa presenza o venuta. Da Paolo in poi questa parola è usata per indicare la seconda venuta del Signore. Ma questa non sarà che il disvelamento della sua presenza attuale sotto il segno del Figlio dell’uomo, che è quello di Giona (12,39s).

del compimento del mondo. In realtà la fine che temiamo è il “compimento” che desideriamo: l’incontro con il Signore. La storia non è che un cammino verso il riconoscimento di colui che è sempre-con-noi! Nella misura in cui lo riconosciamo, per noi il tempo è compiuto: finisce il mondo vecchio posto nel male, e inizia quello nuovo.

v. 5: molti infatti verranno nel mio nome, ecc. Come capitò nell’anno 70, in cui fu distrutta la nazione giudaica, e come capita in ogni tempo di crisi, ci sono sempre persone che promettono salvezza in nome di Dio. Mentono e ingannano, perché fanno dimenticare che la salvezza non è scampare dal male o dalla morte, ma saper vivere ogni situazione da figli e fratelli, in ascolto della parola del Padre.

v.6: starete a sentire di guerre e rumori di guerre. Da che mondo è mondo, ci sono sempre guerre, fatte e annunciate. È cronaca quotidiana. La violenza, che fin dall’inizio si è scatenata, devasta sempre di più il mondo. Rotto il rapporto con il Padre, è conflittuale ogni rapporto con sé e con gli altri.

guardate di non agitarvi. Invece di agitarci e rispondere alla violenza con la violenza, in questa, che è la condizione normale, siamo chiamati a vincere il male con il bene (Rm 12,21).

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è infatti necessario che ciò avvenga. Il male c’è, ed è necessario che esca e si spurghi. È necessario come la croce di Cristo. Non perché Dio voglia così, ma perché noi, per inganno, facciamo così. La paura ci rende aggressivi e violenti, facendo uscire all’esterno ciò che sta dentro. È una suppurazione inevitabile, date le premesse! Il male che incontriamo nella storia è sempre più “apocalittico” (= rivelatorio!), ma non escatologico (= definitivo!). È apocalittico, perché rivela il male che è in noi; ma non è escatologico, perché definitivo è solo l’amore di Dio per noi.

ma non è ancora la fine. Il male, come non è principio, non è neanche fine del mondo. Chi ha detto la prima parola, dice anche l’ultima. Solo la sua “eterna misericordia” è principio e fine della creazione e della storia, come ripete il “grande Hallel” (Sal 136).

v. 7: nazione contro nazione, regno contro regno. È un orizzonte fosco di sollevazione generale, di “guerra globale”. Il gesto di Caino, che uccide il fratello, si estende al mondo intero.

carestie e terremoti. Il cielo si chiude sopra la fraternità negata, non fecondando più la terra. E la terra si scuote, vomitando il sangue e i morti che è costretta a celare. L’uomo, che non vive da figlio, non è più riconosciuto né dal cielo né dalla terra: tutto gli è nemico, anche la sua stessa vita!

v. 8: queste cose sono principio di doglie. Tutti i mali del mondo non sono da leggere come segno di morte, ma di nascita. Questi dolori sono doglie del parto della creatura nuova. In questa violenza infatti il discepolo diventa figlio: vivendo da fratello e spegnendo la violenza nell’amore, nasce a immagine di Dio!

v. 9: allora vi consegneranno, ecc. Ciò che è capitato a Gesù, capita a ogni discepolo, a ogni giusto. La sua vita diventa testimonianza dell’amore del Padre, che smaschera e vince la violenza con la sua mitezza.

v. 10: saranno scandalizzati molti. La croce è scandalo per tutti: è il luogo in cui viviamo di fede o perdiamo la fede.

v. 11: molti falsi profeti sorgeranno e inganneranno molti. Falsi profeti sono quanti non accolgono lo scandalo della croce: propongono la salvezza dalla e non della croce! Promettono di evitare il male, non di vincerlo con il bene!

v. 12: per l’abbondare dell’iniquità. L’iniquità per Matteo è “non fare” la Parola, che si riassume nel comando dell’amore.

si raffredderà l’amore dei più. Il vero male non è la sofferenza, ma il raffreddarsi dell’amore. È prodotto dalla paura, che porta a rispondere alla violenza con violenza.

v. 13: chi resisterà sino alla fine, questi sarà salvato. La salvezza è legata al nostro resistere e pazientare nell’amore, senza lasciarci agitare o ingannare, scandalizzare o raffreddare.

v. 14: sarà annunciato questo vangelo in tutto il mondo, ecc. In “questo”, non in un “mondo migliore”, si testimonia il vangelo, “la buona notizia” che c’è un amore più grande di ogni male. Il male stesso è il luogo proprio di questa testimonianza.

allora sarà la fine. Il “quando” della fine del tempo è il suo compimento, quando tutti, attraverso la testimonianza del Figlio e dei suoi fratelli, riconosceranno l’amore del Padre. Lo stesso male, alla fine, non farà che eseguire questo disegno di Dio (cf. Rm 8,28; At 4,28ss; Ap 17,17), rivelando a ogni miseria la misericordia, a ogni peccato il perdono: come sulla croce!

v. 15: l’abominio della desolazione. L’espressione, presa da Dn 9,27, parla della profanazione del tempio, che fu dedicato all’idolo (cf. 1Mac 1,54). Significa che alla fine l’idolo starà al posto di Dio: è l’apice del male, considerato come assoluto, inevitabile e necessario per tutti.

chi legge comprenda. L’evangelista si rivolge al lettore: ognuno è chiamato a comprendere che cosa per lui tiene il posto di Dio e non è Dio! Ciò avviene ogni volta che poniamo come assoluto ciò che non lo è, ogni volta che diventiamo schiavi invece che signori della varie creature o creazioni. Ogni epoca ha i suoi assoluti. Non è la nostra un’epoca totalmente amministrata da norme (economiche) che si autogenerano, un trionfo dell’idolo (= immagine), a spese dell’uomo e della sua umanità? Questa è l’iniquità massima da cui guardarci, il dominio della bestia, che vuol marchiare tutti con il suo numero di codice (cf. Ap 13).

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Sulla croce l’abominio della desolazione sta davvero in luogo santo: tocca Dio stesso! E Dio stesso si pone in ogni abominio. Questo è il segno della fine e del fine di tutto, consumazione di ogni male e compimento di ogni bene.

v. 16: quelli che sono in Giudea fuggano sui monti. In caso di guerra è bene rifugiarsi nelle città fortificate; ma solo se si vince. Diversamente le mura diventano una trappola mortale. I cristiani, nell’assedio di Gerusalemme, fuggiranno in anticipo. Fuori metafora, chi legge comprenda: in ogni città c’è una situazione di idolatria che distrugge l’uomo e la sua libertà. Con questa non si può patteggiare (cf. Ap 13,1-10). In essa siamo chiamati a vedere l’abominio di perdizione e vivere la salvezza della croce.

v. 17s: chi è sul tetto, ecc. La fuga è urgente. Nessuna cosa, nessun tesoro, neanche l’indispensabile mantello, deve essere preposto alla vita. È una decisione in cui si gioca tutto.

v. 19: guai a chi è incinta e allatta. Le donne, con il bimbo in grembo o al seno, sono inevitabilmente svantaggiate: sono le prime a cadere in mano dei nemici. In questa situazione, anche ogni promessa di vita futura non è che premessa di morte sicura!

v. 20: la vostra fuga non avvenga d’inverno. Le piogge rendono inguadabili i fiumi, il freddo ostacola la fuga. Il vero inverno, che impedisce di decidere per la vita, è proprio il raffreddarsi dell’amore (v. 12).

v. 21: sarà tribolazione grande. Ogni epoca e ogni persona (“questa generazione”, v. 34) passa questo momento di prova: è la grande tribolazione, in cui siamo chiamati a scegliere tra Dio e l’idolo, tra salvare o perdere la vita.

v. 22: se non fossero abbreviati quei giorni, ecc. Questa tribolazione è una storia: dura più giorni, lunghi giorni, interminabili come la notte. Ma nessuna prova supera la nostra capacità, e il Signore dà la forza per sopportarla (cf. 1Cor 10,13). È importante resistere ogni giorno: a ogni giorno basta il suo affanno (6,34).

v. 23: ecco qui il Cristo, ecc. La difficoltà fa desiderare la presenza visibile del Cristo. Ma è un inganno. Non bisogna credere a promesse illusorie, ma solo a colui che ha detto di resistere sino alla fine, perché lui è con noi (28,20).

v. 24: falsi cristi e falsi profeti. Come all’inizio e al centro (vv. 4s. 11) si mette in guardia contro l’inganno di visioni o anticipi di ciò che invece sarà “dopo”, impedendoci di vivere “ora” la testimonianza.

daranno segni grandi e prodigi. Il segno del Figlio dell’uomo è uno solo, quello di Giona: la croce. Altri segni non vengono da Dio, perché non hanno la sua grandezza prodigiosa: l’umiltà e l’amore, la pazienza e la mitezza.

v. 25: vi ho predetto. Gesù, con la sua vita e la sua morte, ci ha detto in anticipo “tutto” (cf. Mc 13,23). Il Figlio dell’uomo è profezia di ogni figlio d’uomo e del mondo intero, sottoposto all’uomo nel bene e nel male. A noi basta ascoltare lui e la sua parola, senza cercare altri segni.

v. 26: è nel deserto, non uscite! Il Cristo non appare di nuovo pubblicamente nel deserto, per iniziare un nuovo esodo con i suoi eletti. Suoi eletti sono quanti, qui e ora, in questo mondo così com’è, ascoltano e fanno la sua parola, senza piegarsi all’idolo della violenza.

è nell’interno, non credete! Il Cristo, come non ci chiama ad uscire dalla situazione, ma ad affrontarla da testimoni, così non ci chiama a cercarlo in una pura interiorità invisibile, dove lui si sia nascosto: è da riconoscere in ogni fratello posto nel male, presente in ogni realtà di maledizione.

La sua venuta non è né spettacolare né misteriosa: è nell’altro, che incontro di continuo e da cui vorrei difendermi (25,31-46).

v. 27: come infatti la folgore, ecc. La sua venuta ultima sarà visibile a tutti, come la folgore, che all’improvviso appare e tutto illumina. È impossibile prevederla, come è impossibile non vederla. Inutile quindi cercare segni!

v. 28: dovunque sarà il cadavere, là si raduneranno gli avvoltoi. L’immagine esprime un segno evidente di una cosa nascosta. È interessante che si parli di cadavere e di uccelli. Sulla croce tutti vedranno il segno del Figlio dell’uomo: l’umanità intera si radunerà attorno ad essa per cibarsi della carne dell’Agnello, vita data per tutti. Il primo a trovare il suo nido sull’albero della croce (cf. 13,32), sarà il centurione pagano con i suoi compagni, che riconosceranno il Signore (27,54).

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3. Pregare il testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo sul monte degli Ulivi, con Gesù e i discepoli, davanti al tempio.c. Chiedo ciò che voglio: non allarmarmi e non lasciarmi ingannare, ma riconoscere la venuta

del Signore in ogni circostanza, per viverla come luogo di testimonianza del suo amore.d. Traendone frutto, medito sulle parole di Gesù.

Da notare: del tempio non resterà pietra su pietra quando sarà e quale il segno la venuta del Signore e il compimento del mondo non lasciarsi ingannare da predizioni o presunti salvatori i mali presenti sono doglie del parto: in essi nasce il discepolo che testimonia il suo

Signore è necessario che il male avvenga, ma non è la fine la sorte del discepolo all’interno del mondo di violenza è la stessa di Gesù non scandalizzarsi non raffreddarsi nell’amore resistere sino alla fine l’annuncio del vangelo (la mia testimonianza!) a tutti è il fine del mondo l’abominio della desolazione cosa pongo al posto di Dio? Su cosa devo decidere per vivere da figlio e da fratello?

4. Testi utili

Sal 37; 38; 55; 59; 62; Dn 7,23-27; 1Ts 5; 2Ts 2,1-11.

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97. VEDRANNO IL FIGLIO DELL’UOMO CHE VIENE

24,29-31

24,29 Ora, subito dopo la tribolazione di quei giorni,il sole si oscureràe la luna non darà il suo splendoree le stelle cadranno dal cieloe le potenze dei cieli si scuoteranno.

30 E allora apparirà il segno del Figlio dell’uomo nel cieloe allora si batteranno tutte le tribù della terrae vedranno il Figlio dell’uomo che viene sulle nubi del cielocon potenza e gloria grande.

31 E invierà i suoi angeli con una grande trombae raduneranno i suoi elettidai quattro venti, da un’estremità all’altra dei cieli

1. Messaggio nel contesto

Il quadro finale della storia è la visione del Figlio dell’uomo da parte di tutti i figli d’uomo. Punto d’arrivo del creato è incontrare il suo Creatore! Il compimento del tempo è vedere il “Volto”, che è la luce del nostro volto. Allora cesserà l’inganno che ci ha fatto nascondere nelle tenebre, e ci ricongiungeremo al nostro principio, dal quale ci siamo allontanati perdendo ciò che siamo.

Questa “visione” avviene nel “segno” del Figlio dell’uomo: la croce. Essa è la differenza radicale tra Dio e ogni nostra immagine di lui. In essa anche il più lontano, il centurione pagano, vede il Figlio di Dio (27,54)! Finisce la fuga, e inizia la riunificazione davanti al Signore della luce della vita. Il desiderio segreto del cuore, diventare come Dio (Gen 3,5), si avvera: lo vediamo così come lui è (1Gv 3,2).

Quanto qui si narra sul fine del mondo è già avvenuto storicamente nella croce di Gesù. Ciò che è accaduto allora è il “segno” del Figlio dell’uomo, anticipo di ciò che sarà per ogni uomo. Quando ogni creatura, attraverso l’annuncio del vangelo (cf. 28,19), lo riconoscerà, si batterà il petto e vedrà la gloria di Dio.

L’evento della croce non è solo passato: è verità del presente e del futuro. La nascita del Figlio è seguita da quella dei suoi fratelli. Il capo è già venuto alla luce: segue il corpo, che è tutto il creato fatto in lui, per lui e in vista di lui (Col 1,15-20). Quando Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,28), il Figlio avrà raggiunto la sua statura piena (Ef 4,13), e sarà il compimento del tempo. Tutta la creazione infatti geme nelle doglie del parto, in attesa di riflettere la gloria dei figli di Dio (cf. Rm 8,19ss). La storia universale è tutta un travaglio del parto, per la generazione del Cristo totale.

All’origine della creazione c’è il desiderio di Dio di comunicare sé a ogni creatura nel Figlio; questa sua aspirazione risucchia il creato, e realizza il desiderio più profondo di ogni creatura. Non la morte, o il nulla ci attende, ma la comunione piena di amore con lui.

Gesù, il Figlio dell’uomo che è venuto, viene e verrà, è il compimento della storia. Verrà come è già venuto, con il “suo” segno. E con questo viene ogni momento, per essere riconosciuto e accolto. Così ogni istante della nostra vita è un passo verso la meta.

La Chiesa riconosce la gloria del suo segno: in ogni uomo vede il Figlio dell’uomo e ha verso di lui lo stesso amore del Padre. Quando, attraverso la sua testimonianza, tutti gli uomini riconosceranno il Figlio, allora il mondo sarà “compiuto”, e Dio riposerà da ogni sua fatica (Gen

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2,2). Noi saremo il suo e lui sarà il nostro riposo: ogni figlio gioirà del Padre e il Padre di ogni figlio, nel Figlio.

2. Lettura del testo

v. 29: Ora, subito dopo la tribolazione. Il compimento viene “subito”: non è prevedibile prima. E viene “dopo”: non coincide con la tribolazione. È inutile fare previsioni e tanto meno vedere nel male che ci affligge la fine del mondo. Suo fine è il suo principio: il Signore della vita. La tribolazione è il luogo di passaggio obbligato (cf. At 14,22), come il parto per nascere, il cammino per raggiungere la meta.

Anche noi, come i discepoli, ci chiediamo quando sarà il ritorno del Signore. Non bisogna credere che sia imminente, diceva Paolo (2Ts 2,2). Ma sono passati quasi venti secoli, e certo la salvezza è a noi più vicina di allora (cf. Rm 13,11). Colui che ha detto: “Verrò presto” (Ap 22,20), come mai non è ancora venuto? Pietro dice che il motivo non è perché tardi nel mantenere le sue promesse, ma perché attende che tutti ci convertiamo e siamo salvati. Per la sua pazienza mille anni sono come un giorno, anche se per il suo desiderio un giorno di attesa è lungo come mille anni (cf. 2Pt 3,8s).

Oggi possiamo dire che, nella nostra epoca, la violenza raggiunge in quantità ciò che sulla croce ha già raggiunto in qualità: ciò che è capitato a Cristo, in questo secolo è capitato a tutto il suo popolo, e può capitare al mondo intero, per la prima volta nella storia. Siamo sicuramente a una svolta. Gli ebrei hanno ucciso il loro Messia; i cristiani hanno ucciso gli ebrei, versando il sangue di tutto il popolo messianico. Inoltre ebrei e cristiani, a loro volta, uccidono i poveri cristi - che a loro volta vorrebbero fare altrettanto. La violenza di morte esplica tutta la sua potenzialità. Non è questo il tempo in cui si rivela che tutti abbiamo peccato, e abbiamo bisogno della gloria di Dio (cf. Rm 3,23)? Nell’abisso di male possibile, oggi realizzabile, c’è un mistero. Il silenzio di Dio e la perdita di umanità non è qualcosa del segno del Figlio dell’uomo, in cui siamo chiamati a vedere la gloria del Figlio?

Senza allarmismi, l’uomo è sufficientemente vecchio da morire fin dalla nascita. Così anche il mondo può da sempre scomparire. Questo è un appello ad aprire gli occhi, per convertirci. Chi sa leggere il presente, e ogni presente, alla luce del segno del Figlio dell’uomo, passa dalla morte alla vita: ama i fratelli e vive finalmente da figlio (cf. 1Gv 3,14).

il sole si oscurerà. Sulla croce il sole si oscurerà nel suo pieno fulgore, e sarà buio su tutta la terra (27,45). L’oscurarsi del sole è immagine della fine del mondo. La Parola lo creò nella luce; il peccato di Adamo lo decrea, riportandolo alla tenebra. Il peccato è un atto anticreativo: fa regredire il cosmo nel caos, la luce nella tenebra, la vita nella morte.

Il linguaggio è tipico del genere apocalittico. Ma non è detto che siano semplici metafore! Oggi possiamo immaginare che queste cose possono avvenire alla lettera (cf. 2Pt 3,10)! L’importante è saperle leggere nel loro significato. Il mondo ha fine. E finisce male, perché assoggettato al male dalla nostra incoscienza.

Sulla croce la potenzialità distruttrice del peccato si esplica totalmente: uccide l’autore della vita, crocifigge il Signore della gloria (At 3,15; 1Cor 2,8). Il male raggiunge il suo obiettivo estremo, oltre il quale non può andare: mette le mani su Dio!... E proprio così si ritrova nelle mani il sommo bene!

Dal caos primordiale Dio con la sua parola fece luce, e la luce fu. Ora Dio pone la luce della sua gloria nel segno del Figlio dell’uomo, punto d’arrivo del male, e ricrea il mondo nuovo nel suo perdono. Il sole che si oscura è il Signore stesso, che porta su di sé il nostro male.

la luna non darà il suo splendore. La luna, che riverbera la luce del sole, è l’uomo, che riflette l’immagine di Dio. La croce, eclissi di Dio e dell’uomo sua immagine, diventa il “segno” per eccellenza di Dio: amore che, per la prima volta, si rivela nella sua infinita grandezza.

le stelle cadranno dal cielo. Ciò che è in alto cade in basso. La croce è il capovolgimento di ogni ordine: travolge tutto, toccando Dio stesso. Adamo l’ha abbandonato, e lui, che lo ama, ne

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sente l’abbandono fino a morirne (cf. 27,46). Proprio così si squarcia il velo del tempio (27,51), e l’Altissimo appare sulla terra.

le potenze dei cieli si scuoteranno. Come alla morte di Gesù si scuote la terra e il suo grembo restituisce i morti che ha divorato (27,52), così si scuote anche il cielo, Dio stesso! Il male del mondo raggiunge il cuore stesso di Dio!

v. 30: apparirà il segno del Figlio dell’uomo nel cielo. Il cielo è nominato cinque volte in questo breve quadro. La croce è davvero il cielo che precipita sulla terra! Il segno del Figlio dell’uomo è quello di Giona (12,39): piove sulla terra Dio stesso, misericordia infinita, il cui unico contenitore è la miseria infinita. La croce rivela insieme la mostruosità del nostro delirio di violenza e la verità del Dio amore che se ne fa carico (Gal 3,13: 2Cor 5,21).

allora si batteranno tutte le tribù delle terra. Davanti alla croce, tutta l’umanità vede il proprio male e l’amore infinito di Dio. Convinta del proprio inganno, battendosi il petto, torna a lui.

vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi del cielo con potenza e gloria grande. Le parole, prese da Dn 7,13, indicano l’intervento di Dio che giudica e salva il mondo attraverso un misterioso “Figlio dell’uomo”, che ha le prerogative di Dio: viene dal cielo, è giudice ed ha la sua potenza e la gloria.

Il giudizio di Dio è la sua croce, dove ogni nostro male si compie, esaurendo la sua carica distruttiva, e lui ci dona ogni bene, esprimendo se stesso con potenza e gloria grande.

v. 31: invierà i suoi angeli con una grande tromba. Gli angeli portano sulla terra il giudizio di Dio. Questi angeli (= annunciatori) inviati (= apostoli) saranno i discepoli, mandati fino agli estremi confini della terra per annunciare a tutti la potenza del suo amore (28,19).

raduneranno i suoi eletti. Eletti del Figlio dell’uomo, l’eletto del Padre, sono tutti gli uomini, amati da lui con lo stesso amore con cui è amato lui stesso. L’annuncio della croce segna la fine della dispersione e l’inizio della riunione degli uomini tra loro e con il Signore.

L’umanità, divisa dal tentativo di stare insieme sotto il segno della propria presunzione (Gen 11,1-9), ora si riunisce sotto il segno dell’umiltà di Dio. Il fine della storia umana è la comunione tra tutti, finalmente fratelli nel Figlio. Il loro delirio di potenza li ha dispersi e lacerati nella violenza, l’impotenza di Dio li riunisce e guarisce con la sua misericordia.

dai quattro venti, ecc. La croce, massimo male, diventa principio ordinatore del mondo nuovo: dai quattro punti cardinali, da una lontananza all’altra, l’universo, disgregato nel caos, ritrova il suo centro. Il creato si ricongiunge al suo Creatore: sono giunte le nozze tra Dio e uomo. Il Signore finalmente è “uno” su tutta la terra (Zc 14,9), tutto in tutte le cose (1Cor 15,28).

3. Pregare il testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando Gesù con i suoi sul monte degli Ulivi davanti alla città santa.c. Chiedo ciò che voglio: comprendere la croce di Gesù, che continua nella storia, come

rivelazione della sua salvezza.d. Traendone frutto, medito sulle parole di Gesù, che mi presentano il futuro, per confrontarmi

nell’impegno presente.

Da notare: subito dopo la tribolazione il sole si oscura la luna non dà il suo splendore le stelle cadono dal cielo, che si scuote il segno del Figlio dell’uomo si batteranno il petto tutte le tribù della terra vedranno il Figlio dell’uomo che viene sulle nubi del cielo con potenza e gloria grande invierà i suoi angeli

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raduneranno gli eletti.

4. Testi utili

Sal 96; 97; 98; 99; Mt 27,45-54; 1Ts 4,13-18; 2Ts 2,1ss; Rm 13,11-14; Ef 2,14-18.

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98. VEGLIATE DUNQUE!

24,32-51

24,32 Ora dal fico imparate la parabola:Quando già il suo ramo si fa tenero e mette foglie,conoscete che l’estate è vicina;

33 così anche voi, quando vedete tutte queste cose,conoscete che è vicino, alle porte.

34 Amen vi dico che non passerà questa generazionefinché tutte queste cose avvengano.

35 Il cielo e la terra passeranno,ma le mie parole non passeranno.

36 Quanto a quel giorno e oranessuno lo sa,né gli angeli del cielo né il Figlio,ma solo il Padre.

37 Come infatti ai giorni di Noè,così sarà la venuta del Figlio dell’uomo.

38 Come infatti in quei giorni prima del diluviomangiavano e bevevano,prendevano moglie e marito,sino al giorno in cui Noè entrò nell’arca,

39 e non conobbero finché non venne il diluvioe portò via tutti,così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo.

40 Allora due uomini saranno nel campo:uno sarà preso e uno lasciato;

41 due donne saranno alla mola:una sarà presa e una lasciata.

42 Vegliate dunque,perché non conoscete in quale giornoil vostro Signore viene.

43 Ora questo sappiate:se conoscesse il padrone di casain quale ora della notte il ladro viene,veglierebbe e non lascerebbe scassinare la sua casa.

44 Per questo anche voi siate pronti,perché, nell’ora che non pensate,il Figlio dell’uomo viene.

45 Chi è dunque quel servo fedele e saggio

che il Signore costituì sopra i suoi famigliariper dare loro a suo tempo il cibo?

46 Beato quel servoche, venendo il suo Signore, troverà che fa così.

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47 Amen vi dicoche lo costituirà su tutti i suoi beni.

48 Se invece quel servo cattivodicesse nel suo cuore:Tarda il mio Signore,

49 e cominciasse a battere i suoi conservi,mangiasse e bevesse con gli ubriaconi,

50 verrà il Signore di quel servonel giorno che non aspettae nell’ora che non conosce,

51 e lo spaccherà in due,e la sua sorte sarà con gli ipocriti;lì sarà pianto e stridore di denti.

1. Messaggio nel contesto

“Vegliate dunque”, dice Gesù ai discepoli che gli chiedono “quando” sarà la fine del mondo e “quali i segni” che preannunciano il giudizio di Dio. Tutte le cose, di cui ha appena parlato, sono da leggere come segni della sua venuta.

Possiamo dire che il “quando” è sempre il “banale quotidiano”; in esso si opera il giudizio di Dio. Nel nostro lavoro di ogni giorno si decide la salvezza o la perdizione, l’essere con lui o lontani da lui, la benedizione o la maledizione. La vita o la morte dipende dal fare o meno la “Parola”, che il Signore ci ha messo davanti (cf. Dt 30,15-20). Alla fine uno raccoglie ciò che prima ha seminato (cf. Gal 6,8).

Il cristianesimo non è un anestetico che fa dimenticare il male presente nell’illusione di un bene futuro. È invece un’illuminazione, che fa vedere la realtà e la fa assumere con intelligenza e responsabilità, in vista di un fine positivo. Consapevoli del momento presente, ci svegliamo dal sonno e viviamo da figli della luce (cf. Rm 13,11-14)!

Chi ha discernimento, nei travagli appena descritti, vede colui che sta per venire (vv. 32-33). In “questa generazione”, come in ogni altra, si compie il mistero della sua croce e della sua gloria (v. 34). La sua parola si avvera con certezza; non dice però il giorno e l’ora, perché ogni ora e ogni giorno lui viene, per chi ha gli occhi aperti (vv. 35-36).

La serie di parabole, che concludono il cap. 24 e abbracciano il cap. 25, ci descrivono quale deve essere il nostro atteggiamento. È necessario essere vigilanti, perché la sua venuta, come il suo giudizio di salvezza, avviene sempre nel momento presente: nello stesso tempo e facendo le stesse cose, si può, come Noè, costruire l’arca che salva o essere travolti dal diluvio che inghiotte (vv. 37-42). Due uomini o due donne fanno lo stesso lavoro nei campi o alla mola, ma con esito diverso: chi è preso e salvato, chi è abbandonato e perduto (vv. 40-41). Il perché sarà chiaro dalle parabole che seguono: il diverso comportamento che si ha nel momento presente.

Il discernimento e la vigilanza ci servono per vedere l’Emmanuele, che è sempre con noi. Chi lo attende e riconosce, coi fatti e non solo a parole, lo incontra come lo sposo che viene. Diversamente è come il ladro, che scassina la casa (vv. 42-44).

Discernimento e vigilanza, a loro volta, si traducono in un’operosità quotidiana fedele alla sua parola, dalla quale dipende il futuro eterno (vv. 45-51).

Gesù, invece di predirci il futuro, ci rimanda a leggere il presente alla luce della sua storia. Con lui il tempo è compiuto (Mc 1,15), e ci è offerta la possibilità di viverlo con pienezza. Infatti il giudizio futuro di Dio su di me non è altro che il mio giudizio presente su di lui: lo compio io qui e ora nel mio riconoscerlo o meno nel fratello.

La Chiesa è “illuminata”: non è come quelli della notte, ma resta sempre vigilante e sobria (cf. 1Ts 5,1-11).

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2. Lettura del testo

v. 32: Dal fico imparate la parabola. Il fico, maledetto perché senza frutti, ci ha già ammaestrato sulla fede (21,18-22). La croce, albero della nostra maledizione da cui pende ogni benedizione, è ormai il maestro definitivo: è il segno del Figlio dell’uomo (v. 30), che ci insegna come leggere la nostra vita. Infatti ciò che avviene al Figlio dell’uomo ci fa vedere ciò che avviene ad ogni figlio d’uomo.

quando già il suo ramo si fa tenero. Il fico è il primo albero che, con il suo germinare di primavera, annunzia la stagione dei frutti.

v. 33: quando vedete tutte queste cose. Sono le cose dette nel brano precedente: i mali quotidiani che ci preoccupano tanto, sono paragonati al germinare della vita! Non sono segni della fine, ma del principio: sono doglie del parto (v.8). Il Signore ci è sempre vicino sotto il “suo” segno: sta alla porta e bussa (Ap 3,20), in attesa che gli apriamo, perché noi ceniamo con lui e lui con noi. Ogni volta che accogliamo un fratello toccato dalla maledizione, accogliamo lui, e siamo benedetti del Padre. (cf. 25,31-46).

Il fico, simbolo della croce, ci insegna a leggere la nostra storia da “illuminati”: invece di chiudere gli occhi davanti alla miseria, vediamo in essa la sua presenza che ci chiama alla misericordia.

v. 34: non passerà questa generazione. “Questa generazione” ha sempre un senso negativo: è “perversa e adultera” (12,39; 16,4; cf. 17,17). Infatti, da Adamo in poi, tutti seguiamo un cammino perverso, che non tende verso il Signore, e ci comportiamo da adulteri, che non amano il proprio amore.

finché tutte queste cose avvengano. Non si tratta di un errore di prospettiva, come se Gesù avesse ritenuto che la fine del mondo fosse vicina. È invece il modo di considerare proprio di chi vede al di là del velo dell’inganno. “Tutte queste cose”, appena dette (vv.4-31), sono infatti avvenute nella generazione di Gesù, che vedrà lui crocifisso e Gerusalemme distrutta. Ciò che è capitato a lui, al tempio e a Gerusalemme, capiterà all’umanità intera.

v. 35: cielo e terra passeranno, ma le mie parole, ecc. Ogni promessa del Signore si compie sotto questo cielo e sopra questa terra, il cui scenario è destinato a scomparire (1Cor 7,31). Ma la sua parola è stabile in eterno. Sta a noi costruire sulla roccia della sua verità o sulla sabbia delle nostre fantasie.

v. 36: quel giorno e ora nessuno sa. Il giorno del nostro arrivo alla meta è ignoto, perché dipende dal nostro cammino di conversione (cf. 2Pt 3,9). Quanto tempo c’è da qui a Gerusalemme? Per chi sta seduto, anche alle sue porte, il tempo è indefinito! Per chi, per quanto lontano, vuole andarci, dipende dai mezzi con cui ci va. Il tempo è inversamente proporzionale alla velocità della nostra conversione al Signore.

In realtà ogni giorno e ogni ora avvengono “tutte queste cose”. Per chi vede in esse la visita del suo Signore che gli viene incontro (cf. 25,31-46), la sua venuta è costante. A chi chiede con ansia: “Quanto resta della notte? Quanto resta della notte?” (Is 21,11), la sentinella risponde: “Il tempo che impieghi ad aprire le imposte e a lasciar entrare la luce del sole, che già è sorto!” Se uno, invece della porta, apre il ripostiglio dove tiene le sue cose, resta ancora nella notte!

Alla fine tutti apriremo gli occhi, e vedremo il Signore. Ma lui vuole che li apriamo ora, perché possiamo vivere nella luce. Così la morte non è più per noi il ladro della vita, ma l’incontro definitivo con lo sposo, che da sempre amiamo.

né il Figlio, ma solo il Padre. Il Figlio sa solo che ogni giorno e ogni ora ama il Padre come è da lui amato. E dà a noi il suo stesso Spirito, perché viviamo da figli della luce, in pieno giorno. Non siamo più nella notte. Colui infatti che disse: “Rifulga la luce!”, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo (cf. 2Cor 4,6). Per questo “Svegliati, o tu che dormi, destati dai morti, e Cristo ti illuminerà” (Ef 5,14). Il Signore,

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morto e risorto, sole del mondo nuovo (Ap 22,5), è già levato nel cielo: chi apre gli occhi, vede il Signore vicino, in ogni ora e ogni giorno.

v. 37s: come infatti ai giorni di Noè, ecc. Ai tempi di Noè si mangiava, si beveva e ci si sposava, come in ogni tempo. La vita dell’individuo è alimentata dal cibo e quella della specie dalla riproduzione. La salvezza o la perdizione dipende da “come” si vivono queste cose di ogni giorno. L’illuminato le vive da figlio e da fratello, in rendimento di grazie: “Sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa” (ossia vi sposiate, commenta Origene), “fate tutto per la gloria di Dio” dice Paolo (1Cor 10,31). Il cieco invece vede in queste cose non il dono di Dio, ma un oggetto da possedere.

v. 39: venne il diluvio. Alla fine c’è sempre il diluvio (cf. 7,24-27). Siamo mortali. Ciò che è costruito sulla parola di Dio, resiste come l’arca; ciò che è costruito sulla nostra stoltezza, crolla, sommerso dalle acque. Ciò che alla fine avviene, non è altro da ciò che avviene ora: ogni mangiare, bere e sposare può essere vissuto come dono o come possesso, come amore o come violenza, come vita o come morte.

v. 40: due nel campo. Oltre che mangiare, bere e sposarsi, l’uomo lavora. È non solo “custode” del giardino, ma innanzitutto “cultore” (Gen 2,15). Collabora infatti all’opera di Dio nella creazione.

uno sarà preso e uno lasciato. Anche il lavoro quotidiano, come le altre funzioni vitali, è il luogo in cui realizziamo o perdiamo la nostra identità di figli. “Nel campo”, mentre facciamo la stessa cosa e non dopo, si opera la distinzione: siamo presi con il Signore o abbandonati, salvati o perduti. Determinante non è “cosa”, ma “come” facciamo.

v. 41: due donne alla mola. Macinare e preparare il cibo è, in una cultura primitiva, proprio della donna, che dà e alimenta la vita. Non in avvenimenti importanti, ma in quelli quotidiani costruiamo o meno le nostre dimore eterne (cf. Lc 16,9).

v. 42: vegliate dunque. È la conclusione alla quale porta tutto il discorso fatto fin qui, sviluppato in seguito sul “come” vegliare. Tenere gli occhi aperti è infatti la prima condizione per vedere il Signore che viene. Chi dorme resta nella notte, incantato da desideri o paure, senza relazione con la realtà.

v. 43: se conoscesse il padrone di casa, ecc. Chi si considera “padrone” e crede di possedere se stesso - la sua vita, il suo lavoro, i suoi beni (cf. Lc 12,13-21) -, vive nell’inganno di un sogno che svanisce all’alba. Per lui la morte è come un ladro, che lo deruba di tutto.

v. 44: voi siate pronti. Pronto è chi si sa non “padrone”, ma “servo fedele e saggio”, che conosce e fa ciò che il Signore ha detto.

nell’ora che non pensate il Figlio dell’uomo viene. Viene infatti, in modo impensato, in “tutte queste cose”: dove noi lo riteniamo assente, lui è presente con il “suo” segno.

v. 45: quel servo fedele e saggio. Siamo “servi”, come il Signore stesso (20,28). E siamo “fedeli e saggi”, che fanno quello che sanno e sanno quello che fanno.

il Signore costituì sopra i suoi familiari, ecc. L’eredità del Figlio di Dio è il suo amore di fratello, che ci dà la vita del Padre. Ognuno di noi, come lui, ha la stessa responsabilità: servire la vita dell’altro in modo opportuno, facendo ciò che in quel momento giova.

v. 46: beato quel servo, ecc. L’ultima beatitudine, somma di tutte le altre, è quella del servo che “fa così” come ha detto il Signore, fino alla sua venuta.

v. 47: lo costituirà su tutti i suoi beni. Costui sarà come il suo Signore, pienamente realizzato come figlio: entrerà alle sue nozze (25,10), prenderà parte alla sua gioia (25,21.23), riceverà in eredità il regno del Padre (25,34).

v. 48s: se invece quel servo cattivo, ecc. Servo cattivo è chi non serve il Signore nei fratelli: pensando che tardi a venire, comincia a vivere da “padrone”. I fratelli diventano per lui oggetto di violenza, il mangiare e il bere uno stordimento.

v. 50: verrà il Signore di quel servo nel giorno che non aspetta, ecc. Infatti non lo aspetta. Tutto ripiegato su di sé, non sa riconoscere il Signore che di continuo viene a visitarlo. Solo alla fine, dopo una lunga cecità, aprirà gli occhi. Ma così avrà buttato via la sua vita, facendo del male a sé e agli altri.

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v. 51: lo spaccherà in due. La sua esistenza è stata divisa, lontana da sé, dagli altri e dal Signore. Tutto ciò che ha costruito, è legno e paglia, destinati ad ardere nel fuoco. Invece della gioia e del “riso pasquale”, per lui c’è il pianto e lo stridore di denti. Il Signore gli dirà di non conoscerlo (25,12), come lui non l’ha riconosciuto (cf. 10,32s): lo rimprovererà di essere un fannullone che vive nelle tenebre (25,14-30), un maledetto, lontano da lui, perché non l’ha accolto nel fratello povero (25,41-46).

Questo servo malvagio sarà diviso in due. Ciò che ha fatto di male, sarà bruciato. Lui tuttavia, in quanto figlio di Dio, sarà salvato, ma come attraverso il fuoco (cf. 11,20-24; 1Cor 3,15).

3. Pregare il testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando il Signore sul monte degli Ulivi, davanti al tempio.c. Gli chiedo ciò che voglio: vegliare e discernere la sua visita nella quotidianità, per vivere

ogni giorno e ora da figlio e da fratello, con fedeltà e sapienza.d. Traendone frutto, medito sulle parole di Gesù.

Da notare: imparare dal fico: discernere nel male la visita del Signore tutte queste cose avvengono “in questa generazione” le mie parole non passeranno nessuno sa il giorno e l’ora della fine del mondo ogni giorno e ogni ora, come Noè, si costruisce l’arca della salvezza c’è un mangiare, un bere, uno sposarsi e un lavorare che porta alla salvezza, e un altro

che porta alla perdizione vegliate dunque il padrone e il ladro il servo fedele e saggio e quello cattivo: due modi opposti di vivere il presente.

4. Testi utili

Sal 49; Ml 3,1ss; 1Ts 1,5-11; Rm 13,11-14.

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99. ECCO LO SPOSOUSCITE PER L’INCONTRO CON LUI

25,1-13

25,1 Allora sarà simile il regno dei cieli a dieci verginile quali, prese la loro fiaccole,uscirono per l’incontro con lo sposo.

2 Ora cinque di esse erano stoltee cinque sagge.

3 Mentre le stolte, prese le loro fiaccole,non presero con sé olio,

4 le sagge invece presero olio in vasettiinsieme con le loro fiaccole.

5 Tardando lo sposo,si assonnarono tutte e dormirono.

6 Ora a metà della notte ci fu un grido:Ecco lo sposo:uscite per l’incontro con lui!

7 Allora si svegliarono tutte quelle verginie misero in ordine le loro fiaccole.

8 Ora le stolte dissero alle sagge:Dateci del vostro olio,poiché le nostre fiaccole si spengono.

9 Ora risposero le sagge dicendo:No, che non basti né a noi né a voi;andate piuttosto dai venditorie compratevene.

10 Ora, allontanatesi esse per comprare,giunse lo sposo,e quelle pronte entrarono con lui alle nozze,e la porta fu chiusa.

11 Ora più tardi vengono anche le altre verginidicendo:

Signore, Signore,apri a noi!

12 Ora egli rispondendo disse:Amen, vi dico,non vi conosco!

13 Vegliate dunque,perché non conoscete il giorno né l’ora.

1. Messaggio nel contesto

“Ecco lo sposo, uscite per l’incontro con lui!”. È il grido che si leva nel cuore della notte. Colui che la sposa e lo Spirito invocano: “Vieni!”, e che ha detto: “Verrò presto” (Ap 22, 17.20), finalmente viene!

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È la metafora più bella dell’esistenza umana, paragonata a un uscire per andare incontro allo sposo. Tutta la nostra vita è un’“uscita”, finalizzata a questo: usciamo dal grembo della madre alla luce del sole, usciamo ogni istante da ciò che siamo verso ciò che diventiamo, fino a quando usciamo dalla vita per incontrare la nostra vita, nascosta con Cristo in Dio (Col 3,3). Ignoriamo il giorno e l’ora dell’arrivo, ma sappiamo che ogni giorno e ogni ora è un passo verso di lui. A condizione però che ne ascoltiamo e seguiamo la parola. Questo è l’olio che le vergini sagge portano con sé, e le fa entrare alle nozze. Tutta la loro esistenza infatti è stata un vigile e operoso riconoscere le visite quotidiane dello sposo, fino a diventare piena di olio, colma di Spirito Santo. Le vergini stolte invece non hanno ascoltato e fatto la sua parola: non l’hanno atteso, riconosciuto e amato. La loro esistenza è un vaso vuoto, senza amore. Invece di andargli incontro, si sono allontanate da lui e dalla sua voce, fino a non conoscerlo. Per questo dirà loro: “Non vi conosco!”.

Questo brano, come i due seguenti, non vogliono spaventarci riguardo al futuro. Vogliono invece responsabilizzarci sull’importanza del momento presente: è l’unico che ci è dato per vivere e acquisire l’olio necessario. La salvezza o perdizione eterna dipende esclusivamente da ciò che qui e ora liberamente facciamo. Il futuro è affidato alle nostre mani. La minacciosa descrizione del fallimento serve a risvegliarci dall’incoscienza e dall’ozio, per attivare la nostra libertà.

Questo brano richiama quelli della zizzania e della rete (13,24-30. 36-43.47-50): è rivolto alla comunità dei discepoli, perché non si aggiudichino automaticamente la salvezza per il semplice fatto di essere credenti. Non chi dice: “Signore, Signore!” entrerà nel regno dei cieli, ma solo chi fa la volontà del Padre (7,21), che consiste nel vivere da figlio amando i fratelli (cf. il seguito del capitolo!).

Il racconto è un’allegoria che ci fa leggere il senso profondo della nostra storia quotidiana in termini di salvezza o di perdizione. Ci vuol far identificare con le vergini stolte, perché diventiamo come quelle sagge. Il futuro è l’incontro con lo sposo; ma questo si realizza per chi accumula ogni giorno quell’olio che rimane in eterno. Se uno non investe nell’amore, la sua vita è spenta!

“Tra la vita e la morte, scelgo la chitarra”, diceva un poeta: scelgo di cantare al Signore, con la bocca, con il cuore e con le opere!

Gesù è colui che mi ha amato e ha dato se stesso per me (Gal 2,20): è lo Sposo (cf. Ef 5,25-27).

La Chiesa invoca: “Maranà tha: vieni, o Signore” (1Cor 16,22); e ogni singolo discepolo dice con Paolo: “Vivo, però non più io, ma vive in me Cristo. La vita che ora vivo nella carne, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Rispondere all’amore con l’amore è la vita dell’uomo. Ed è la vita stessa di Dio, Padre e Figlio.

2. Lettura del testo

v. 1: Allora sarà simile il regno dei cieli. Si parla del regno dei cieli nella sua prospettiva finale. Qui sulla terra il regno è un cammino verso di lui, e contiene insieme grano e zizzania, pesci buoni e cattivi, spose sagge e stolte, chi incontra lo sposo e chi no!

dieci vergini. In Gen 1,27 si dice che Dio fece l’uomo a sua immagine e somiglianza, maschio e femmina li creò. Dio però non è né maschio né femmina! A sua immagine e somiglianza è la relazione tra i due, che è amore, gioia, affidabilità, completezza, fedeltà, tenerezza, unione e fecondità. Ciò che c’è di bello nell’unione sponsale, è pallido riflesso di Colui che è amore, e ci ha fatti per amare come siamo amati. Lui stesso è lo sposo, la nostra altra parte, che si dona a noi se l’accogliamo.

Il numero dieci rappresenta la totalità, la comunità: la Chiesa, sposa del Signore (cf. Ef 5,27).

prese le fiaccole. Non sono né lampade ad olio, la cui fiamma debole si spegne al vento, né lanterne, la cui luce è fioca. Si tratta di fiaccole luminose, adatte per cortei e grandi sale, con alla base una boccia che contiene combustibile. La fiaccola è il credente stesso. Acceso alla luce di Cristo, si fa lui stesso luce del mondo: risplende per le sue opere buone, testimoniando ai fratelli

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l’amore del Padre (cf. 5,14-16). Noi siamo figli della luce (1Ts 5,5), uniti a Cristo, luce del mondo (Gv 8,12).

uscirono. La vita è tutta un’uscita, o, meglio, un “ac-cadimento”, un “esodo”: un continuo cadere “da” una realtà “a” un’altra, un uscire da una condizione a un’altra. Cadere e uscire è traumatico e lacerante: è una rottura con il passato, necessaria per realizzare qualcosa di nuovo.

per l’incontro con lo sposo. L’uomo è di sua natura incompleto. Per questo non è bene che sia solo (Gen 2,18): è fatto per l’altro. Amando l’altro, realizza se stesso. Lo sposo è il Signore in persona, che in Gesù si è indissolubilmente unito all’uomo. Il fine della nostra vita è incontrare colui, agli occhi del quale siamo preziosi e degni di stima, perché ci ama di amore eterno (cf. Is 43,4; Ger 31,3).

La Bibbia, dall’inizio alla fine, non parla che della “passione folle” di Dio per l’uomo. Lui è lo sposo, e in lui ogni uomo ritrova la sua completezza: “Capacem Dei, quidquid Deo minus est non implebit”. Per questo il primo comando è quello di amare lui con tutto il cuore (22,34-40; vedi Os 2,21-25; Is 62,1ss; Ger 3,1-13; 31,1-7.21s; Ez 16,1ss; il Cantico dei Cantici; Ef 5,14-19; Ap 21-22).

v.2: cinque stolte/cinque sagge. Stoltezza e saggezza sono in pari percentuale. Sta a noi far crescere l’una a spese dell’altra, o viceversa. Saggezza è costruire sulla roccia anziché sulla sabbia (7,24-27), ascoltando e facendo la volontà di Dio (7,21-23). Alla nostra libertà è dato essere giusti o iniqui (13,40-43), buoni o cattivi (13,47-50), con o senza abito nuziale (22,11-14), servi fedeli e saggi o iniqui e stolti (24,45-51), servi buoni e fedeli o cattivi e paurosi (25,21.23.26), benedetti o maledetti (25,34.41).

v. 3: le stolte, prese le loro fiaccole, non presero olio. Stoltezza è non avere ciò che dà luce. Ciò che conferisce luce al nostro corpo, fino a trasfigurarlo, è l’amore del Padre effuso nei nostri cuori. “Svegliati, o tu che dormi, destati dai morti e Cristo ti illuminerà “ (Ef 5,14): amare è passare dalle tenebre alla luce, dalla vita alla morte (1Gv 3,14). “Vegliate dunque attentamente sulla vostra condotta, comportandovi non da stolti ma da saggi, profittando del tempo presente” (Eb 5,15). “Dio che ha detto: ‘Rifulga la luce dalle tenebre’, rifulse nei nostri cuori per far splendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo” (2Cor 4,6). Noi tutti siamo chiamati a riflettere a viso scoperto, come in uno specchio, la gloria del Signore, per essere trasformati in quella medesima immagine di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore (cf. 2Cor 3,18).

L’olio è lo Spirito Santo, l’amore di cui arde Dio stesso, che il Figlio ci comunica, perché amiamo i fratelli. Questo ci fa luminosi: ci rende figli della luce, icona del Padre. Senza questo amore siamo stolti: andiamo contro la nostra realtà di figli.

v. 4: le sagge presero olio in vasetti. La saggezza consiste nel far provvista d’olio nel vaso prima dell’incontro con lo sposo. Il vaso è la persona concreta (cf. At 9,15; 2Tm 2,20.21), nel suo corpo d’argilla che passa (2Cor 4,7; 1Ts 4,4): è in questo che si ama Dio con tutto il cuore e il prossimo come se stessi (22,37s). La nostra vita quotidiana, spesa nell’amore, è un processo di trasfigurazione nel Figlio, primogenito di molti fratelli (Rm 8,29s). Ogni istante di tempo è come un “vasetto”: o è pieno d’amore o è un vuoto ripiegamento su se stessi. La nostra vita terrena ci procura quella riserva d’olio che arde in eterno: ogni atto di amore è divino! Il senso della nostra vita è l’acquisizione dello Spirito Santo; ogni piccola cosa, come per il mercante, è l’occasione in cui lo si guadagna o lo si perde.

v. 5: tardando lo sposo. Il Signore tarda (24,48); sembra assente e lontano (vv. 14s.19). È però sempre presente sotto il suo segno (vv. 34-41. 42-44), per chi sa vegliare e discernere. Lui è sempre con noi e sempre ci visita: ogni fratello è il suo volto di Figlio. Ritarda la sua venuta ultima, perché ci convertiamo all’amore (cf. 2Pt 3,8s). Ogni volta che accogliamo l’altro, accogliamo lui. Lui viene alla fine, ma è già presente in ogni passo del nostro cammino, che ci avvicina o allontana da lui, secondo che è vissuto o meno nell’amore del prossimo.

si assonnarono tutte e dormirono. Assonnarsi in greco si dice “annuire con il capo”, tipico di chi ha sonno. Questo ripetuto abbassare il capo per rialzarlo, sono i cenni anticipati del “sì” ultimo a Dio. Allora chiniamo definitivamente il capo e “dormiamo”: usciamo dalla vita terrena, saggi o stolti che siamo, incontro allo sposo.

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v. 6: a metà della notte. È l’ora in cui tutti dormono. La sua venuta definitiva è quando tutti dormiamo. Proprio allora, nel cuore della tenebra, si leva il grido del risveglio.

ecco lo sposo. Nella notte apriamo gli occhi su Dio, il nostro sposo!uscite per l’incontro con lui. La morte è l’ultimo esodo per l’incontro con lui. Allora saremo

per sempre con lui (1Ts 4,17), senza veli, faccia a faccia (cf. 1Cor 13,12s). “Guarda lo sposo, ed esci all’incontro con lui”: è il senso della vita. Se guardi a lui come fine, tutto si fa mezzo per andargli incontro!

v. 7: si svegliarono tutte quelle vergini e misero in ordine le loro fiaccole. È la risurrezione, che prelude l’incontro (cf. 1Ts 4,15-18). Ognuno si sveglierà con il suo corpo, che sarà con o senza olio, secondo le azioni compiute in vita (cf. Gv 5,29).

v. 8: dateci del vostro olio, ecc. Le stolte chiedono alle sagge l’olio. Si accorgono solo allora di esserne prive; la loro luce si spegne. L’olio non è l’amore infinito di Dio per noi, che c’è sempre: è la nostra risposta al suo amore. L’olio da acquistare in questa vita è lo Spirito Santo, lo Spirito del Figlio, che cresce nell’amore del fratello.

v. 9: risposero le sagge: no. Questo olio nessuno ce lo può dare: la nostra risposta d’amore non può essere che delegata ad altri. È la nostra identità!

andate dai venditori e compratevene. Questa indicazione è data a noi, che siamo vivi. Per chi è morto, è troppo tardi, come mostra bene il racconto. I “venditori”, da cui possiamo comperare l’olio, sono i poveri, amando i quali amiamo il Figlio e siamo accolti nel regno del Padre (cf. vv. 31-46). Chi vive senza amore, perde la vita. Chi la perde per amore, la guadagna.

v. 10: allontanatesi esse, ecc. Tutta la loro vita fu uno stolto allontanarsi da lui. Alla fine ciò diventa evidente: non hanno conosciuto lo sposo.

quelle pronte entrarono con lui alle nozze. Chi ha amato e ha camminato verso di lui, finalmente incontra l’amore della sua vita.

la porta fu chiusa. La morte chiude la porta del tempo utile per acquisire l’olio. La partita è finita; il risultato dipende da ciò che si è fatto prima. È importante capire il valore del presente: è sempre l’unico tempo disponibile, in cui possiamo perdere o guadagnare la vita. C’è il pericolo di passare la prima parte della vita a pensare a cosa si farà, e la seconda a cosa non si è fatto. Qualunque cosa si abbia fatto o non fatto, “questo” è comunque il momento di svegliarsi, di convertirsi all’amore.

v. 11: più tardi vengono anche le altre. Gesù dice queste parole per noi, perché sappiamo che dopo è tardi. È questo l’oggi di Dio. Affrettiamoci ad entrare finché dura quest’oggi (Eb 3,13; 4,11). Dura solo quanto la nostra vita, che in ogni istante è finita. Questo non è detto per terrorizzare, ma per responsabilizzare: bisogna convertirsi subito dalla stoltezza alla sapienza, dall’egoismo stupido all’amore saggio.

Signore, Signore (cf. Lc 13,25ss). Non chi dice: “Signore, Signore!”, entra nel regno, ma chi fa la volontà del Padre (7,21).

v. 12 non vi conosco. Chi non l’ha riconosciuto davanti agli uomini, non è da lui riconosciuto davanti al Padre (10,32s). La sua risposta ultima a noi è quella che noi ora diamo a lui. La nostra risposta è importante: il Signore la rispetta, tanto da farla sua!

v. 13: vegliate dunque, ecc. È il senso di ciò che Gesù ha detto (24,42). Nel seguito dirà come vegliare. Non sappiamo il giorno e l’ora della sua venuta (24,36), perché ogni istante di vita è determinante per acquisire l’olio.

3. Pregare il testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando le dieci vergini che per strada si addormentano perché lo sposo tarda.c. Gli chiedo ciò che voglio: usare il tempo presente per acquisire l’olio. Ogni azione che non è

dettata dal suo spirito d’amore, è dettata dall’egoismo.d. Traendone frutto, medito sul racconto.

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Da notare: dieci vergini che escono incontro allo sposo cinque sagge: hanno l’olio cinque stolte: non hanno l’olio lo sposo tarda tutte si assopiscono e dormono il grido di mezzanotte ecco lo sposo, uscite per l’incontro con lui al risveglio ci sono fiaccole con olio e senza olio nessuno mi può dare quest’olio: lo devo acquistare io dopo morte è troppo tardi: la porta è chiusa il valore del presente e di ogni piccola azione fatta per amore non vi conosco vegliate, perché non conoscete il giorno né l’ora.

4. Testi utili

Sal 45; Os 2,21-25; Is 62; Ger 33,1-13; 31,1-7.21-22; Ez 16; Cantico dei Cantici; Mt 7,15-20. 21-27; 13,24-30. 47-50; 1Ts 4,15-18; Ef 5,14-20; Eb 3,7-4,11; Ap 21-22.

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100. SERVO CATTIVO E PAUROSO

25, 14 - 30

25,14 Come infatti un uomo che emigrachiamò i propri servie consegnò loro i propri beni,

15 e a uno diede cinque talenti,a un altro due,a un altro uno,a ciascuno secondo la propria capacità,ed emigrò subito.

16 Andato, quello che aveva preso cinque talentitrafficò con essi e guadagnò altri cinque.

17 Ugualmente quello dei dueguadagnò altri due.

18 Ora quello che aveva preso uno solo,allontanatosi, scavò la terrae nascose il denaro del suo Signore.

19 Ora dopo molto tempo viene il Signore di quei servie regola i conti con loro.

20 E, venuto quello che aveva ricevuto cinque talenti,portò altri cinque talenti dicendo:

Signore, cinque talenti mi consegnasti;ecco, altri cinque talenti ho guadagnato!

21 Gli disse il suo Signore:Bene, servo buono e fedele;su poche cose sei stato fedele,su molte ti costituirò:entra nella gioia del tuo Signore!

22 Ora, venuto anche quello dei due talenti, disse:Signore, due talenti mi consegnasti;ecco, altri due talenti ho guadagnato!

23 Gli disse il suo Signore:Bene, servo buono e fedele; su poche cose sei stato fedele,su molte ti costituirò:entra nella gioia del tuo Signore!

24 Ora venuto anche quello che aveva ricevuto un solo talentodisse:

Signore, ti conosco:sei un uomo duroche mieti dove non hai seminatoe raccogli dove non hai sparso,

25 e per paura mi allontanaie nascosi il tuo talento nella terra;ecco, hai il tuo!

26 Ora rispondendo il suo Signore gli disse:

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Servo cattivo e pauroso,sapevi che mieto dove non ho seminatoe raccolgo dove non ho sparso.

27 Dovevi tu dunque consegnare il mio denaro ai banchieri,e, venendo, avrei recuperato il mio con interesse.

28 Toglietegli dunque il talentoe datelo a chi ha dieci talenti.

29 Poiché a chi ha sarà dato,e sarà nell’abbondanza.A chi non ha, anche ciò che ha sarà tolto.

30 E gettate il servo inutile nella tenebra esteriore;là sarà il pianto e lo stridore di denti.

1. Messaggio nel contesto

“Servo cattivo e pauroso”, dice il Signore a chi non ha “duplicato” il capitale affidatogli.Questa parabola è cara all’etica del capitalismo: i talenti sono da far fruttare, l’abbondanza è segno di benedizione divina, l’indigenza di maledizione!

In realtà i talenti non sono le doti o i beni da moltiplicare; rappresentano invece l’olio del brano precedente, che è l’amore verso i poveri del brano seguente. Il talento è l’amore che il Padre ha verso di me, che deve “duplicarsi” nella mia risposta d’amore verso i fratelli. Rispondere a questo amore mi fa ciò che sono, figlio uguale al Padre.

Il Signore è andato lontano, elevato prima sulla croce e poi in cielo. Ma non ci ha lasciati soli: ci ha dato il suo Spirito, e aspetta di essere riamato, perché noi, amando, realizziamo la nostra identità. Lui stesso resta sempre con noi, sotto il “suo” segno. È andato ad abitare tra i poveri, e ciò che facciamo per loro, lo facciamo per lui (vv. 31-46). Siamo chiamati a fare con loro ciò che lui per primo ha fatto con noi. Se il talento è il dono d’amore ricevuto, il nostro amore per lui nei poveri è il talento che siamo chiamati a guadagnare. Solo così diventiamo come lui, ed entriamo come figli nella gloria del Padre suo e nostro.

La nostra vigilanza è saggia e operosa, non inerte. Chi non investe il suo talento, lo perde. La causa del fallimento è la falsa immagine che abbiamo del Signore. Se lo riteniamo cattivo ed esigente, il nostro rapporto con lui non è di amore, ma legalistico, pauroso e sterile.

La parabola si articola in tre tempi: uno passato, in cui abbiamo ricevuto il dono, uno presente, in cui dobbiamo farlo fruttare, e uno futuro, in cui ci verrà chiesto conto di ciò che ora ne abbiamo fatto.

Il nostro atteggiamento di paura ci fa imboccare il vicolo delle tenebre esteriori. La parabola stigmatizza questo atteggiamento, per svegliarci! Il giudizio futuro non lo fa Dio. Lo facciamo noi qui e ora. Lui, alla fine, non farà che leggere ciò che ora noi scriviamo. E lui legge in anticipo ciò che stiamo scrivendo, perché possiamo correggerlo, finché c’è tempo.

Gesù è venuto per darmi il talento del suo amore, ed è andato lontano, facendosi “forestiero”, presente in ogni altro.

La Chiesa conosce il dono ricevuto; e, in ogni altro, ama il suo Signore, reduplicando il talento.

2. Lettura del testo

v. 14: Come infatti un uomo che emigra. Il Signore, dopo aver abitato con noi, è emigrato in un paese lontano: è finito sulla croce, il punto più lontano da Dio. Là si è fatto prossimo a ogni lontananza e sofferenza. Ciò che ha fatto per noi andando in croce, è il talento che abbiamo ricevuto. Ciò che noi facciamo ai fratelli poveri è il talento che noi guadagniamo: è la nostra

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risposta al suo amore, che ci fa figli. “Chi fa la carità al povero, fa un prestito al Signore che gli ripagherà la buona azione” (Pro 19,17).

chiamò i propri servi. Noi abbiamo la stessa dignità del Signore che è venuto per servire (20,28).

consegnò loro i propri beni. Il suo bene è l’amore del Padre: la sua vita. Andandosene, non ci ha abbandonati, ma ci ha lasciato il suo Spirito (27,50).

v. 15: diede cinque talenti, ecc. I talenti non sono le doti naturali, ma la coscienza della sua grazia e del suo perdono (cf. 18,23ss). Tutto ciò che ho e sono, l’ho ricevuto in dono (1Cor 4,7).

a ciascuno secondo la propria capacità. Ognuno ha un dono diverso dall’altro. La diversità non serve solo a segnare i nostri limiti, ma ci apre addirittura lo spazio di Dio, mettendoci con gli altri in una relazione, libera e liberante, di amore e di dono (cf. 1Cor 12 - 13; Rm 12,1-21). Se non è così, la diversità diventa lo spazio diabolico e satanico della divisione e dell’accusa, dell’invidia e della rapina, della violenza e della morte - come già fecero Adamo ed Eva, e, da Caino in poi, tutti i loro figli.

v. 16: trafficò e guadagnò altri cinque. I doni sono da “trafficare” per “guadagnare”. Si trafficano investendoli in amore per i fratelli; così si guadagna la propria identità di figli. È questo l’invito che Gesù fece al giovane ricco per ereditare la vita eterna (19,16-30): è il primo e grande comando (22,34-40). Gesù non ci esorta al profitto materiale, che provoca possesso e liti, ma al profitto spirituale, che consiste nel dono e nella misericordia.

v. 17: ugualmente quello dei due. Ognuno deve investire il “suo” dono, né più né meno. Non chi ha o dà di più si realizza, ma semplicemente chi dà se stesso. La ricompensa infatti è uguale, a prescindere dai talenti. Non conta la quantità, ma il fatto che tutto è dono, al quale si risponde donando tutto.

v. 18: quello che aveva preso uno solo, allontanatosi, ecc. Si allontana da sé e dagli altri, mettendo sotto terra il suo dono, per paura di perderlo

nascose il denaro del suo Signore. Sa che il tesoro non è suo. Ma non ha capito che gli è donato perché, “trafficandolo”, ne viva.

v. 19: dopo molto tempo. Il Signore torna dopo molto tempo: dopo tutto il tempo che ci è accordato per vivere. Al suo ritorno ci ricompenserà nella misura in cui avremo corrisposto al dono.

v. 20s: servo buono e fedele, ecc. Questo servo è buono, come l’unico buono (cf. 19,17). Infatti è come lui: ha fatto dono di ciò che gli è stato donato. E se, invece di cinque, avesse guadagnati quattro talenti? Sarebbe stato diviso anche lui in due parti (24,51): 1/5 sarebbe stato bruciato col fuoco, 4/5 sarebbe entrato nella gioia del suo Signore. Ma pare che l’amore, se è corrisposto, è sempre totale, almeno nell’intenzione!

poche cose / molte cose. La fedeltà nelle cose quotidiane ci guadagna la dimora eterna. I nostri piccoli gesti di amore verso i fratelli ci fanno diventare figli. L’amore, con cui compiamo ogni azione, è l’olio, che ci fa brillare della stessa luce del Padre.

entra nella gioia del tuo Signore. Questa è la grande ricompensa: la sua gioia diventa nostra! vv. 22s: quello dei due talenti, ecc. Anche questi, pur avendo ricevuto meno della metà del

precedente, reduplica il suo dono, e riceve dal Signore la stessa ricompensa infinita.v. 24: quello che aveva ricevuto un solo talento. Se anche lui l’avesse investito nell’amore,

avrebbe guadagnato un altro talento, e avrebbe avuto la stessa ricompensa degli altri due.Signore, ti conosco; sei un uomo duro. Costui ha una conoscenza falsa del Signore. Allo

stesso modo di Adamo, non considera se stesso come dono, ma come debito. Ha rancore verso il creditore: gli deve la vita, e vorrebbe riscattarla, in modo che fosse propria. Quest’uomo sembra giusto, perché restituisce ciò che gli è dato. In realtà pecca gravemente contro il Signore e contro di sé: rifiuta lui come amore, e se stesso come dono. Il suo rapporto con Dio è quello di un contabile, non quello di un figlio.

mieti dove non hai seminato, ecc. Non è vero: il Signore ha seminato dovunque amore, che germina amore. Il seme che produce solo se stesso, non è un seme! Si raccoglie sempre molto di più di quanto si semina, altrimenti è inutile seminare.

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v.25: per paura mi allontanai e nascosi. Agisce come Adamo: per paura di un Dio cattivo, si allontana e nasconde da lui, finendo nella morte.

ecco: hai il tuo! Restituire un dono è il massimo insulto! Gli altri rispondono all’amore con altrettanto amore e ottengono la pienezza di gioia di Dio. Questi seppellisce la propria vita sotto terra. È tragica la vita di chi pensa di doverla restituire!

v. 26: servo cattivo e pauroso. La sua cattiveria nasce dall’aver considerato cattivo Dio. Per questo è “cattivo”, catturato dalla paura.

sapevi che mieto, ecc. Ognuno di noi sa che ha qualcosa da fare che spetta a noi e non a Dio: dare la nostra libera risposta. Per questo dobbiamo superare l’inganno che ci fa considerare cattivo Dio e ci blocca nella paura.

v. 27: banchieri / interesse. ”. Il “capitale” non è da restituire o conservare gelosamente, ma da investire in qualche modo. Anche se uno ha molti blocchi, può sempre fare qualcosa; per esempio dare ai “banchieri” - che sono quelli che danno ai poveri -, per ottenere almeno un “interesse”. Dio è interessato a questo, perché è nostro interesse vitale. Il di più che gli diamo è infatti la nostra identità di figli, sufficiente per sentirci dire, come agli altri: entra nella gioia del tuo Signore.

v. 28: toglietegli dunque il talento. Chi vuol salvare la sua vita, la perderà (16,25). Chi non ama, distrugge se stesso: in lui muore l’amore ricevuto. Chi vuol trattenere il respiro per non perderlo, muore soffocato!

v. 29: a chi ha, sarà dato, ecc. Chi risponde all’amore è in grado di ricevere e dare sempre più amore, crescendo di continuo nella gioia senza fine del suo Signore.

a chi non ha, anche ciò che ha sarà tolto. Chi non risponde all’amore, non accetta neppure l’amore che gli è stato dato!

v. 30: gettate il servo inutile nella tenebra esteriore. Chi non ha amato, non è figlio della luce, non ha l’olio, non ha la vita di Dio. È fuori: fuori di sé e fuori di Dio. È nella tenebra, dove invece di gioia c’è pianto, invece di sorriso stridore di denti.

3. Pregare il testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginandomi davanti al Signore che mi dona e chiede risposta al dono.c. Chiedo ciò che voglio: investire ciò che ho e sono nell’amore.d. Traendone frutto, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono e che fanno. Identificarmi

con il terzo servo.

Da notare: il Signore emigra consegna a noi i suoi averi a ciascuno in misura diversa cosa fa il primo servo cosa fa il secondo servo cosa fa il terzo servo la risposta del Signore ai primi due servi cosa dice il terzo servo al Signore e che risposta ottiene.

4. Testi utili

Sal 112; Gen 3,1ss; 4,1-16; Sap 2,23s; Mt 19,16-30; 22,34-40; 1Cor 4,7; 12,4-11; Rm 12,1-21.

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101. QUANTO FACESTE A UNO DEI PIÙ PICCOLI

DI QUESTI MIEI FRATELLILO FACESTE A ME

25,31-46

25,31 Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloriae tutti gli angeli con lui,allora sederà sul trono della sua gloria;

32 e saranno riunite davanti a lui tutte le nazioni,e separerà gli uni dagli altricome il pastore separa le pecore dai capri,

33 e porrà le pecore alla sua destra,i capretti invece alla sua sinistra.

34 Allora dirà il re a quelli alla sua destra:Venite, benedetti del Padre mio,ricevete in eredità il regnopreparato per voi dalla fondazione del mondo.

35 Poiché ebbi fame e mi deste da mangiare,ebbi sete e mi dissetaste,ero straniero e mi accoglieste,

36 nudo e mi vestiste,fui malato e veniste da me,ero in carcere e non veniste da me.

37 Allora gli risponderanno i giusti dicendo:Signore, quando ti vedemmoaffamato e ti nutrimmo,o assetato e ti dissetammo?

38 Quando poi ti vedemmostraniero e ti accogliemmo,o nudo e ti vestimmo?

39 Quando poi ti vedemmomalato o in carcere e venimmo da te?

40 E rispondendo il re dirà loro:Amen, vi dico:quanto faceste a uno dei più piccolidi questi miei fratelli,lo faceste a me.

41 Allora dirà anche a quelli alla sua sinistra:Andatevene da me, maledetti,nel fuoco eterno preparato per il diavolo e i suoi angeli.

42 Poiché ebbi fame e non mi deste da mangiare,ebbi sete e non mi dissetaste,

43 ero straniero e non mi accoglieste,nudo e non mi vestiste,

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malato e in carcere e non mi visitaste.44 Allora risponderanno anch’essi dicendo:

Signore, quando ti vedemmoaffamato o assetatoo straniero o nudoo malato o in carcere,e non ti servimmo?

45 Allora risponderà loro dicendo.Amen, vi dico:quanto non facestea uno dei più piccolidi questi miei fratelli,neppure a me lo faceste!

46 E andranno questi al castigo eterno,mentre i giusti alla vita eterna.

1. Messaggio nel contesto

“Quanto faceste a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, lo faceste a me”, risponderà il Signore a chi chiederà, alla, fine quando mai l’ha visto. Per cinque volte escono gli avverbi “allora” e “quando”: “allora”, cioè alla fine, vedremo che il “quando” è ora. E il “segno” della sua venuta è quello dei “più piccoli di questi miei fratelli”, con i quali lui è sempre presente in mezzo a noi. Il finale del discorso escatologico risponde quindi con esattezza, anche se in modo sorprendente, alla domanda del “quando” e di “quali i segni”, che i discepoli gli hanno posto all’inizio (24,3). La prima sua venuta evidente sarà tra due giorni, quando non sarà riconosciuto né dai capi né da Pietro, pur essendo “l’ora” in cui il Figlio dell’uomo siede alla destra del Padre e viene sulle nubi dal cielo (cf. 26,64).

Il c. 25 contiene tre racconti “graduali” su cosa bisogna fare “ora” in vista del “fine”: ora bisogna acquistare l’olio (vv. 1-13), che consiste nel “raddoppiare” il dono d’amore ricevuto (vv. 14-30), amando il Signore nei fratelli più piccoli (vv. 31-46).

Più che di una parabola, tranne che per i vv. 32 - 33, si tratta di una “rappresentazione” scenica del giudizio finale, strutturata sul contrappunto tra chi sta alla destra e chi sta alla sinistra del re. Per i due gruppi c’è una sentenza opposta: “venite, benedetti” o “andate via da me, maledetti”. Segue la motivazione: “mi avete” o “non mi avete” soccorso nel bisogno. Alla domanda comune: “Quando ti abbiamo visto?”, segue la risposta: “Ciò che avete fatto, o non fatto, ai più piccoli, l’avete fatto, o non fatto, a me”.

Il giudizio che il re farà di noi “allora” è lo stesso che noi facciamo ora al povero. In realtà siamo noi a giudicarlo, accogliendolo o respingendolo. Lui non farà altro che costatare ciò che noi facciamo. Alla fine leggerà ciò che noi liberamente abbiamo scritto. Ce lo dice in anticipo, con una rappresentazione efficace, per aprirci gli occhi su ciò che stiamo facendo ora.

Il brano, splendido e unico, è una sintesi della teologia di Matteo: siamo giudicati in base a ciò che facciamo all’altro (7,12). Ogni altro, è sempre l’Altro! Infatti il primo comandamento è uguale al secondo (22,39), perché il Signore stesso si è fatto nostro prossimo ed è sempre con noi (28,20) sotto il segno del Figlio dell’uomo (24,30), che è lo stesso di Giona (12,39s): quello del Crocifisso, che ha il volto di tutti i poveri della terra.

Il racconto pone al centro il Figlio dell’uomo, che si identifica con gli ultimi. Accoglierlo o meno significa accogliere o meno la salvezza.

Il testo è sommamente suggestivo, aperto a molti sensi e sviluppi, in ogni direzione. Dio infatti è amore, e l’amore abbraccia tutto e tutti.

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Il messaggio universale che se ne può ricavare è che ogni uomo è giudicato in base al suo amore per il piccolo e il debole. Non è però conforme al testo ritenere che il rapporto con Dio non sia importante. Al contrario: l’amore per l’ultimo è amore per lui stesso. Un’interpretazione atea o post-cristiana non corrisponde al testo.

L’amore infatti è premio a se stesso perché è la gioia di una relazione, e la relazione suppone sempre l’altro, e infine l’Altro. L’amore per il prossimo può essere un imperativo categorico, ma solo se si tengono presenti tre cose: dietro un imperativo c’è la voce di uno che parla, l’amore suppone sempre un’alterità, uno ama solo se e nella misura in cui è amato. Isolare il comando dell’amore verso l’ultimo dall’esperienza dell’amore di Dio che si è fatto ultimo, è farne un principio senza senso, un’ideologia incapace di generare un comportamento positivo.

Il comando di amare il più piccolo è certamente il fondamento più ampio possibile di un agire che porti alla comunione tra gli uomini. Gesù pone effettivamente un criterio di azione che va al di là di ogni steccato religioso/ideologico. L’amore di Madre Teresa per i diseredati della terra è stato il linguaggio più universale e comprensibile, che abbia parlato al mondo di oggi del mistero di Dio e dell’uomo.

Per capire il senso proprio di questo brano è importante sapere che viene dopo i tre brani precedenti e immediatamente prima della passione, dove il re ci si presenta povero e deriso, estraneo a tutti e condannato, legato e percosso, nudo e ferito, che finisce in croce. Nei più piccoli dei fratelli, il lettore cristiano vede il suo re. In loro infatti continua la passione del Signore per la salvezza del mondo (Col 1,24).

C’è chi intende questo racconto in modo non universale, ma restrittivo: è il giudizio dei pagani, che saranno giudicati non per la fede, che non hanno, ma per il loro amore verso gli ultimi. Questi ultimi, chiamati da Gesù “miei fratelli”, sono, secondo alcuni autori antichi e recenti, i discepoli stessi, che staranno al suo fianco per giudicare il mondo (cf. 19,28!). Sarebbe a dire che la salvezza o meno viene dall’accoglienza o meno dei discepoli.

È comunque chiaro che il testo si rivolge al lettore cristiano: il suo essere “benedetto” o “maledetto” dipende dal suo amore, dato o negato, ai fratelli nel bisogno, nei quali il Signore viene a visitarlo.

L’amore che abbiamo verso l’altro è verso Dio: mi realizzo come figlio vivendo da fratello. Tutta la legge infatti si riduce ad amare il Signore e il prossimo con lo stesso atto di amore, perché lui si è fatto mio prossimo e fratello nel Figlio. Chi non ama Dio e non osserva la sua parola, non ama i figli di Dio (1Gv 5,2).

In conclusione possiamo dire che il giudizio finale, come tutto il discorso escatologico, ci rimanda dal futuro al presente.

L’etica si fonda sull’escatologia. L’uomo è tale perché agisce ragionevolmente, per un fine che desidera. Questo è la meta verso cui tende, senza la quale non va da nessuna parte –il suo agire si riduce a un agitarsi insensato, spinto dalla necessità e privo di libertà. Il fine dell’uomo è diventare come Dio. L’errore di Adamo non è il voler diventare come lui (Gen 3,5), ma il non sapere chi è lui. Si diventa come Dio amando, perché lui è amore.

Gesù è sempre con noi (28,20) come i poveri (26,11), come il più piccolo tra i fratelli.La Chiesa, nel suo amore per l’ultimo, ama il suo Signore; e sa che non è lei a salvare il

povero, ma il povero a salvare lei.

2. Lettura del testo

v. 31: Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria (cf. 24,30). Si tratta della sua venuta, che conclude la storia dell’uomo e del mondo. Questa venuta non è una meteora che scende dal cielo: è la meta del cammino affidato alla nostra responsabilità.

v. 32: saranno riunite davanti a lui tutte le nazioni. Normalmente “nazioni” significa “pagani”. Quando però si parla del giudizio finale, si intendono tutti gli uomini, convocati davanti al trono di Dio.

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separerà gli uni dagli altri. Il giudizio è una separazione, compiuta in base al comando dell’amore. Non c’è altra distinzione tra gli uomini. Ma tale giudizio spetta a Dio, che è misericordia, e non a noi (cf. 13,24-30. 38-43). Infatti se noi giudichiamo, siamo giudicati (7,1), perché senza misericordia.

le pecore dai capri. Non è chiaro perché un pastore separi pecore da capri. A meno che si intenda per “pecore” gli animali minuti in genere e per “capri” i capretti (cf. v.33), animali destinati al macello. Allora il significato è chiaro: si divide tra chi è destinato alla vita e chi alla morte. Comunque è evidente che gli uomini saranno giudicati secondo il comando dell’amore.

v. 33: le pecore alla sua destra, i capretti invece alla sua sinistra. La separazione, alla fine, sarà netta: gli uni entrano nel regno del Padre insieme con il re, il Figlio, perché hanno agito da figli verso i fratelli; gli altri ne sono esclusi.

v. 34: allora dirà il re. Il re è il Figlio dell’uomo! Egli è il giudice, che viene a giudicare la terra e a rivelare ai popoli la sua giustizia (cf. Sal 94; 96; 97; 98).

venite, benedetti del Padre mio. È la sentenza. La salvezza è “venire” verso Gesù, il Figlio, per partecipare della sua stessa benedizione del Padre.

ricevete in eredità il regno preparato per voi dalla fondazione del mondo. Dio ci ha creati fin dall’inizio per essere figli nel Figlio (Col 1,15 - 20), eredi della sua stessa vita. Ci ha fatti al sesto giorno per giungere alla gioia del settimo giorno.

vv. 35s: poiché ebbi fame, ecc. Il motivo della sentenza è che ci siamo comportati da fratelli verso il Figlio: lui è il povero, al quale è data la beatitudine del regno (5,3). Accogliere il povero è accogliere il re della gloria. Le “opere di misericordia corporali” sono il metro di giudizio. Fame e sete portano alla morte fisica, essere straniero e nudo alla morte morale, essere malato e carcerato ad ambedue. Il Crocifisso è il più piccolo dei nostri fratelli, che si è fatto ultimo di tutti.

Il vangelo è scritto per il credente, perché non si accontenti di acclamare: “Signore, Signore!”, ma faccia la volontà del Padre (7, 21-23). Lui è amore e misericordia: suo figlio è chi, come lui, ama tutti (cf. 5,43-48). Il comando dell’amore è la via della vita; chi non lo segue, si procura la morte (cf. Dt 30,15-20).

vv. 37ss: quando ti vedemmo, ecc. Per tre volte gli fanno questa domanda, alla quale Gesù risponde, rispondendo insieme alla domanda iniziale sul “quando” e quali i “segni” della sua venuta per il giudizio (24,3). Il “quando” del giudizio è la venuta sotto il suo segno, che è quello del povero. Lui è sempre con noi, presente in tutti i crocifissi, sacramento di salvezza per il mondo.

v. 40: quanto faceste a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, lo faceste a me. Il Signore, come vedremo nei due capitoli seguenti, si è fatto servo e schiavo di tutti, oggetto della nostra violenza. Siamo chiamati a riconoscerlo e amarlo.

I suoi fratelli più piccoli, “questi” che stanno vicino a lui e con i quali si identifica, sono quelli come lui: gli affamati e gli assetati, gli esclusi e i nudi, i malati e i carcerati. Sono innanzitutto i discepoli stessi (10,22ss), che hanno esposto la loro vita per il Signore e si sono fatti piccoli come lui. Accogliendo questi, accogliamo lui (10,40-42; 18,4s). Insieme con il loro Maestro, ora siedono sul trono per il giudizio (20,24-28; 19,28). Per questo la “missione” è “in povertà” (10,1ss): i discepoli sono riconoscibili come il Signore che salva, solo se sono simili a lui. Diversamente non sono agnelli, ma lupi (10,16).

Questa interpretazione del testo, che vede nei più piccoli dei fratelli i discepoli, è probabilmente quella intesa da Matteo. Ma è conforme allo spirito del vangelo vedere in ogni piccolo della terra il volto del Signore.

v. 41: andatevene da me, maledetti. È la sentenza di condanna: la perdizione è la lontananza da lui, il Figlio, che stabiliamo noi stessi nel momento presente (cf. Lc 16,19-31). Lontani da lui, siamo lontani da noi stessi. Se i primi sono “benedetti del Padre”, questi non sono maledetti da lui, ma da se stessi. Il Padre pone tutti nella benedizione del Figlio. Chi si allontana da lui, rifiutando il fratello, esce dalla benedizione.

nel fuoco eterno. Invece del regno eterno preparato dal Padre per i figli, c’è il fuoco eterno per il male che abbiamo fatto ai fratelli (cf. 11,20-24). Tutto ciò che in noi non è amore, è perdizione, destinato al fuoco (cf. 1Cor 3,10-17).

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vv. 42s: poiché ebbi fame, ecc. Come nella scena precedente, la sentenza è seguita dalla motivazione: non aver accolto il Signore nel povero.

v. 44: Signore, quando ti vedemmo. Giusti ed empi fanno la stessa domanda. Il racconto è sempre per il lettore, perché, identificandosi con l’empio, impari in anticipo la lezione

v. 45: quanto non faceste, ecc. La risposta è identica alla precedente, ma in negativo. Con chiarezza il Signore ci mette davanti l’unica via, che è quella della vita. Non sceglierla, o prenderne altre, è realizzare la propria morte (7,12-14).

v. 46: castigo eterno/vita eterna. Il nostro destino eterno si gioca nella capacità di vedere e amare il Signore negli ultimi. Tutto è nelle nostre mani - anche il Signore, come tutti i piccoli. Chi ama è passato dalla morte alla vita (1Gv 3,14).

3. Pregare il testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginandomi davanti al povero come davanti al Signore che ora viene a salvarmic. Chiedo ciò che voglio: riconoscerlo e amarlo in ogni ultimo e disprezzato della terra.d. Identificandomi con chi non sa riconoscere il Signore, contemplo la scena: i personaggi, chi

sono, che dicono, che fanno.

Da notare: la venuta del Figlio dell’uomo nella sua gloria per giudicare tutti la separazione tra pecore e capretti venite, benedetti del Padre mio ricevete in eredità il regno preparato da sempre per voi ebbi fame e sete, ero immigrato e nudo, malato e carcerato il povero è il mio re? Cosa faccio per lui? quando ti vedemmo? ciò che faccio a uno degli ultimi lo faccio a lui andate via da me, maledetti ebbi fame e sete, ecc. ciò che non faccio ai poveri, non lo faccio al Signore castigo eterno/vita eterna.

4. Testi utili

Sal 94; 96; 97; 98; Dt 30,1-20; Sap 5; Lc 16,19-31; Mt 7,12-14; 22,34-40; Rm 13,8-10;1Cor 3,10-17; 12,12 – 13,13; Gc 2,1ss; 5,1-11.

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102. UN’OPERA BELLA A ME HA FATTO

26, 1 - 16

26,1 E avvenne, quando Gesù ebbe compiuto tutte queste parole,disse ai suoi discepoli:

2 Sapete che tra due giorni è pasquae il Figlio dell’uomo sarà consegnato per essere crocifisso.

3 Allora si radunarono i sommi sacerdoti e gli anziani del popolonel palazzo del sommo sacerdote, chiamato Caifa,

4 e tennero consiglio per impadronirsi di Gesù con ingannoe ucciderlo.

5 Dicevano però:Non nella festa,perché non ci sia tumulto di popolo.

6 Ora, essendo Gesù in Betanianella casa di Simone il lebbroso,

7 si avvicinò a lui una donnacon un vasetto di alabastrodi unguento molto preziosoe lo versò sulla sua testa mentre giaceva a mensa.

8 Ora alla vista si sdegnarono i discepoli ,dicendo:

Perché questo spreco?9 Si poteva infatti vendere questo a caro prezzo

e dare ai poveri.10 Ora Gesù, saputo questo, disse loro:

Perché date fastidio alla donna?Infatti un’opera bella ha fatto a me;

11 i poveri infatti li avete sempre con voi,me invece non sempre avete.

12 Versando infatti questo unguento sul mio capo,lo fece per la mia sepoltura.

13 Amen vi dico:ovunque sia annunciato questo vangelo in tutto il mondo,si parlerà anche di ciò che essa fecein ricordo di lei.

14 Allora uno dei Dodici,quello chiamato Giuda Iscariota,andato dai sommi sacerdoti,

15 disse:Cosa volete darmi,e io ve lo consegnerò?

Ora quelli pattuirono con luitrenta pezzi d’argento.

16 E da allora cercava il momento buonoper consegnarlo.

1. Messaggio nel contesto

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“Ha fatto un’opera bella a me”, dice Gesù della donna. Unica persona approvata da lui senza riserve, questa donna è la sola che fa una cosa - e quale cosa! - per colui che si è fatto tutto a tutti. Riconosce infatti in lui, il più piccolo tra gli uomini, il suo Signore. Mentre lui sta andando in croce, lei risponde al suo amore con altrettanto amore!

Dal suo vaso esce un profumo che riempirà il seguito del vangelo. Di esso odorerà il corpo del Signore sulla croce e fin dentro il sepolcro; nella risurrezione si sentirà ovunque sarà annunciato il vangelo!

Il racconto, posto all’inizio della passione, è l’anticipo di ciò che il Signore farà - sarà lui il profumo effuso! - e della risposta che darà chi lo avrà capito. Il gesto della donna, irritante e delicato, sublime e misterioso, è lo stesso del Signore, e, alla fine, sarà quello della Chiesa, sua sposa. Chi fa come questa donna, ha lo stesso “olio” di cui arde lo stesso Signore, reduplica il dono ricevuto, facendo per lui ciò che lui ha fatto per lei.

La casa di Betania, una volta piena di lebbra, ora profuma di vita. Protagonista del racconto, è l’unguento prezioso. Il profumo, di sua natura, si dona a tutti, senza negarsi ad alcuno; il suo essere è espandersi in dono gradito, come Dio. Il nome dello Sposo è “profumo effuso”(Ct 1,3), presenza piacevole e gioiosa. L’olfatto, senso primordiale, subito lo percepisce come piacevole e attraente.

L’unguento, che la donna versa sul corpo di Gesù, indica il “vangelo vivo”: in esso si avverte la Presenza, il Nome. Dio è amore, e l’amore è presente ovunque è amato. Questo profumo rappresenta la creazione nuova, dove Creatore e creatura vivono nella reciprocità d’amore, in una passione che vince la morte (Ct 8,6).

I discepoli non capiscono, anzi disapprovano la donna. Ma ricordano e racconteranno! Ora solo Gesù la capisce, come lei sola capisce lui!

Il brano si articola in tre parti. Nei vv. 1-5 i capi cercano il momento giusto per eliminare Gesù; nei vv. 6-13 la donna, proprio allora, lo incontra come lo Sposo; nei vv. 14-16 Giuda, subito dopo, lo consegna.

Il brano, strutturato sul contrasto tra Gesù e la donna da una parte, e i discepoli dall’altra, rappresenta le due economie, i due diversi modi in cui l’uomo può amministrare la sua casa. Da una parte c’è amore, che versa il profumo, spreca, compie un’opera bella ed è annuncio vivo del vangelo; dall’altra c’è egoismo, che vende, si sdegna e dà fastidio. La prima è l’economia di Dio, che è la stessa di Gesù e della donna; la seconda quella dei nemici di Gesù, che si impadroniscono per uccidere. Le due economie sono anche rese sensibili da due odori, uno attraente e l’altro repellente: il profumo di vita e la puzza della lebbra.

La stessa cornice oscura del racconto non fa che esaltare, per contrasto, la bellezza della scena. Ciò che avviene in questo brano è la pasqua anticipata, il passaggio dalla morte alla vita.

Gesù, il Figlio che si è fatto il più piccolo dei fratelli, sta andando in croce per dare la vita. Dal suo corpo, come dal vaso, uscirà per la prima volta il profumo di Dio che tutti avvertiranno, anche i più lontani (cf. 27,54).

La Chiesa, come la donna, riconosce in lui il suo Cristo e Signore. Non solo a parole, come Pietro, ma con i fatti. Non dopo un momento di successo, ma nell’ora della “sua” gloria. L’unguento che essa versa è amore che risponde all’amore: sposo e sposa vivono nella gioia di un unico amore, che espande l’unico profumo.

2. Lettura del testo

v. 1: E avvenne, quando Gesù ebbe compiuto tutte queste parole, ecc. Tutte le parole che Gesù ha detto fin qui, le ha anche compiute. Il racconto che segue mostra come si compiono anche per noi.

v. 2: tra due giorni è pasqua, ecc. La pasqua è strettamente associata alla croce, quando Cristo, nostra pasqua, sarà offerto (1Cor 5,7). In essa si compie la liberazione dalla schiavitù,

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dall’idolatria e dalla morte. Tra due giorni, sulla croce, sarà vinta la violenza che ci tiene schiavi, sarà restituito a Dio il suo volto che la menzogna gli aveva tolto, e sarà restituita all’uomo la vita che gli era stata sottratta.

v. 3: allora si radunarono i sommi sacerdoti e gli anziani. Rappresentano rispettivamente il potere religioso/politico e quello economico. A loro Mc 14,1 aggiunge gli scribi, che rappresentano il potere culturale, a loro servizio. La brama di avere, di potere e di apparire sono le tre maschere del male del mondo, che sono in ciascuno di noi. La loro violenza sarà portata su di sé dal Giusto, che non possiede nulla e non domina nessuno, ma dà tutto e libera tutti.

v. 4: per impadronirsi di Gesù. “Impadronirsi” è la radice del male comune. La vita è dono: impadronirsi è ucciderla. In questa pasqua, mentre noi mettiamo le mani sul Signore e gli rubiamo la vita, lui si mette nelle nostre mani e ce la consegna, ponendo fine al nostro gioco mortale.

con inganno. Chi si impadronisce, sempre inganna. Soprattutto se stesso!ucciderlo. L’inganno dell’impadronirsi toglie la maschera nel suo risultato: uccide!v. 5: non nella festa, ecc. Invece sarà proprio nella festa di pasqua che si compie la pasqua!v. 6: Gesù in Betania. La scena si svolge in Betania, che significa “casa del povero”. Gesù

entra con il suo dono nella nostra povertà, facendosi il più povero tra i fratelli.nella casa di Simone il lebbroso. La casa ricorderà, invece che il lezzo di morte del suo

padrone, il profumo di vita del suo ospite.v. 7: una donna. Non è detto il nome. In Mc 14,3ss è anonima, come qui. In Gv 12,1ss è

Maria, sorella di Marta e di Lazzaro. Luca 7,36ss, che non narra questa scena, ne riferisce una analoga, che si svolge nella casa di Simone il fariseo (!); la protagonista è una peccatrice, che più tardi sarà identificata con Maria di Magdala, nominata subito dopo, dalla quale sono stati scacciati sette spiriti (Lc 8,2). Maria sorella di Marta, Maria di Magdala e la peccatrice sono probabilmente tre donne diverse. È tuttavia da notare che i vari personaggi del vangelo non sono che i vari aspetti di un’unica persona: il lettore.

un vasetto di alabastro di unguento molto prezioso. Questo profumo, molto prezioso, è il protagonista del racconto. In Mc 14,3 si specifica che si tratta di nardo. Viene dall’India - la qualità migliore cresce ad altissima quota -, e si fa con le radici. Il fiore stesso è sacrificato per dar vita a questo profumo.

Il profumo è una metafora che bene esprime Dio: è dono di sé, e non si può non sentirlo, perché inebria della sua presenza. Il naso subito fiuta la differenza tra ciò che puzza e ciò che è gradevole. Purtroppo basta un’influenza ad ottundono l’olfatto! Anche tra i discepoli, che reagiscono con sdegno. In Ct 1,3 il nome dello Sposo è “profumo effuso”: l’essenza di Dio, che è amore, è comunicarsi agli altri. In ebraico la parola profumo (shemen) richiama la parola Nome (shem): il “Nome”, ineffabile, è percepito come profumo.

lo versò sulla sua testa. È un gesto di consacrazione. Pietro lo aveva riconosciuto a parole dopo il dono del pane (16,16). Questa donna, mentre si fa pane, dà se stessa a lui nel suo dono, e lo consacra re (messia o cristo significa “unto”), sacerdote, vittima e altare. Nel più piccolo degli uomini ama il suo Signore che si è fatto servo e schiavo di tutti, facendo per lui quello che lui ha fatto per lei. È la prima persona che fa qualcosa per lui; ed è totalmente approvata da lui, senza riserve! In lei si compie il desiderio del Signore: la sposa finalmente ama lo sposo! L’unico profumo - l’amore che è la vita di Dio - unisce i due in una sola carne.

v. 8: si sdegnarono i discepoli. Questo sdegno davanti al profumo, più che da commentare, è da sentire dentro di sé. È lo stesso scandalo che i discepoli hanno davanti al Signore che si dona (v. 31).

perché questo spreco? È la domanda davanti al profumo: la stessa che ci facciamo tutti davanti alla croce. Chi non accetta questo spreco, non capisce il vangelo e non può riconoscere nel Crocifisso il Figlio di Dio (27,54). L’amore è spreco, gratuito e totale, fino al dono di sé. Dio è amore! Questo spreco è rivelazione di Dio nella sua essenza, e realizzazione piena dell’uomo a sua immagine e somiglianza.

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v. 9: si poteva vendere. Come davanti al pane (Mc 6,36), ora anche davanti al profumo i discepoli pensano al comprare/vendere. Sono ancora nell’economia del possesso, non in quella del dono. Per questo si scandalizzeranno di Gesù: chi lo venderà, chi lo rinnegherà e chi fuggirà.

dare ai poveri. Gesù ha appena detto che bisogna dare ai poveri (25,31-46). Ma si può dare in due modi: comprando/vendendo per possedere, oppure donandosi per amore. Questa donna non dà qualcosa ai poveri: dà se stessa al più piccolo dei poveri, che è il suo Signore che va in croce.

v. 10: Gesù, saputo questo, disse. La donna non dice nulla, come Gesù davanti al sinedrio e a Pilato (v. 63; 27,14). Gesù è la sua Parola, che lei stessa incarna.

perché date fastidio alla donna? La loro animosità si riversa sulla donna: non accettano questo spreco!

un’opera bella. Richiama la Genesi, quando Dio “fece bella” ogni cosa. Questa donna riporta la creazione alla bellezza originaria nella quale Dio l’ha fatta sin dall’inizio. Tutto è stato creato per la bellezza di ciò che questa donna fa: il suo atto riscatta il mondo. Dio ha fatto le sue creature per amore, perché, nella risposta d’amore dell’uomo, tutto si unisca al suo Creatore.

ha fatto a me. Gesù è, ora e sempre, il più piccolo tra i fratelli. Nell’amore per lui si ama insieme Dio e il prossimo, compiendo tutta la legge.

v. 11: i poveri li avete sempre con voi, ecc. Saranno sempre con noi, come il Risorto, sino alla fine del mondo (28,20). Lui infatti si presenta sempre a noi nella storia come il Crocifisso, nella nudità del povero (cf. 25,40.45) - corpo spezzato e dato per la nostra salvezza. Sarà fatto a lui tutto ciò che faremo per il più piccolo dei suoi fratelli.

v. 12: lo fece per la mia sepoltura. Sarà inutile ungere il suo corpo crocifisso (cf. Mc 16,1), perché sarà risorto. L’amore non è per un morto, ma per il Vivente.

v. 13: ovunque sia annunciato questo vangelo. Il vangelo è l’annuncio di Gesù, Cristo e Figlio di Dio: è il ricordo di quanto ha fatto e detto (At 1,1) colui che mi ha amato e ha dato se stesso per me (Gal 2,20).

si parlerà anche di ciò che essa fece in ricordo di lei. Gesù dice che il vangelo è il racconto di ciò che questa donna ha fatto: è il ricordo di lei! Si identifica quindi con lei! Nella risposta d’amore, l’amata si fa uno con l’amato! Dio e uomo, nell’amore reciproco, vivono dello stesso Spirito: sono un’unica vita!

v. 14: allora. Questo avverbio di tempo esce di continuo nel discorso escatologico, come pure nel racconto della passione, che ne è la realizzazione. L’“allora” della fine è l’“ora” della passione di Gesù, “quando” noi, invece di fare come la donna, facciamo come Giuda e gli altri. Il profumo è il “giudizio”: siamo tra coloro che lo versano o tra coloro che lo vendono?

Il racconto del vangelo vuol farci identificare con i discepoli, con Giuda e con i nemici di Gesù, che romperanno il vaso prezioso dal quale uscirà l’essenza di Dio. Solo “allora”, davanti al suo spreco, anche noi, con il centurione e i soldati, riconosceremo chi è il Signore (27,54). Allora, come questa donna, sapremo rispondere con altrettanto spreco.

v. 15: cosa volete darmi? Il dono, di prezzo incalcolabile, viene venduto e comprato. Il prezzo pattuito è di trenta pezzi d’argento: il valore di un somaro o di uno schiavo. Infatti è diventato schiavo, e ha preso l’asina come simbolo del suo regno.

v. 16: il momento buono. La consegna di Gesù sarà proprio nella Pasqua: la croce, segno del Figlio dell’uomo, è il momento buono per incontrare il Signore.

per consegnarlo. Consegnare (o tradire = tra-dare: dare da una mano all’altra), è la parola fondamentale della passione. Giuda “consegna” Gesù ai suoi nemici, questi a Pilato, Pilato al volere della folla (Lc 23,25), e questa alla croce. Ma Gesù steso “si consegna” - ed è “consegnato” dal Padre - nelle mani dei fratelli: è una consegna di sé, fino a dare al vita.

La “consegna”, che l’uomo fa del Signore, è la stessa che lui fa di sé. L’azione dell’uomo che rapisce, è la medesima del Signore che si dona - così si “tradisce” nel suo amore per noi. La nostra “tradizione” ha al centro questa “consegna”, di cui viviamo facendo perenne ricordo e rendimento di grazie.

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3. Pregare il testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginandomi nella casa di Betania.c. Chiedo ciò che voglio: capire perché questo spreco.d. Traendone frutto, contemplo la scena, guardando e ascoltando le persone: chi sono, che dicono,

che fanno. Posso contemplare due categorie di persone: sommi sacerdoti, anziani, discepoli e Giuda da una parte, Gesù e la donna dall’altra. Posso considerare le due economie, i due modi opposti di agire: impadronirsi, ingannare, uccidere, sdegnarsi, dar fastidio, vendere, danaro e consegnare da una parte, e dall’altra consegnarsi, versare il profumo, sprecare, fare un’opera bella, annunciare il vangelo, ricordare. Posso sentire due odori: la lebbra che puzza di morte, l’unguento che profuma di vita.

4. Testi utili

Sal 45; Cantico dei Cantici. Sal 117; 139; Mt 16,16-23; Fil 3,1ss; Rm 8,31ss; 2Tm 2,11-13;

At 9,1-19.

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103. PRENDETE E MANGIATE:QUESTO È IL MIO CORPO

26, 17 - 35

26,17 Il primo giorno degli azzimisi avvicinarono i discepoli a Gesùdicendo:

Dove vuoi che ti prepariamoper mangiare la pasqua?

18 Ora egli disse:Andate in città dal tale e ditegli:Il maestro dice: Il mio momento è vicino;presso di te faccio la pasqua con i miei discepoli.

19 E fecero i discepoli come aveva ordinato loro Gesù,e prepararono la pasqua.

20 Ora, venuta la sera, giaceva a mensa con i Dodici.21 E, mentre mangiavano, disse:

Amen, vi dico, uno di voi mi consegnerà.22 E, rattristatisi molto, cominciarono a dirgli ciascuno:

Non forse io, Signore?23 Ora egli rispondendo disse:

Colui che intinge con me la mano nel piatto,questi mi consegnerà.

24 Il Figlio dell’uomo se ne vacome è scritto di lui;ma ahimè per quell’uomoper mezzo del quale il Figlio dell’uomo è consegnato.Bene era per lui se non fosse nato quell’uomo!

25 Ora rispondendo Giuda, il suo traditore, disse:Non forse io, Rabbì?

Gli dice:Tu l’hai detto!

26 Ora, mentre essi mangiavano,Gesù, avendo preso il panee avendo benedetto,lo spezzòe, dando ai discepoli,disse:

Prendete, mangiate:questo è il mio corpo!

27 E avendo preso il calicee reso grazie,lo diede loro dicendo:

Bevetene tutti;28 questo infatti è il mio sangue dell’alleanza,

versato per molti in remissione dei peccati.29 Ora vi dico:

da ora non berrò più di questo frutto della vitefino a quel giorno quando lo berrò nuovo

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con voi nel regno del Padre mio.30 E, cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.31 Allora dice loro Gesù:

Tutti voi sarete scandalizzati a causa mia questa notte.È scritto infatti:

Percuoterò il pastoree saranno disperse le pecore del gregge.

32 Ma dopo che io sarò risuscitato,vi precederò in Galilea.

33 Ora, rispondendo, Pietro gli disse:Se tutti si scandalizzeranno a causa tua,io mai sarò scandalizzato!

34 Gli disse Gesù:Amen ti dico che in questa notte,prima che il gallo canti,tre volte mi rinnegherai!

35 Gli dice Pietro:Anche se è necessario che io muoia con te,non ti rinnegherò affatto.

Ugualmente dissero anche tutti i discepoli.

1. Messaggio nel contesto

“Prendete e mangiate: questo è il mio corpo”, dice Gesù ai Dodici. Chi prende e mangia il suo corpo ha parte alla sua vita: diventa figlio del Padre e fratello degli altri. Questo è il frutto dell’albero della vita, posto nel centro del giardino (Gen 2,9), che ci assimila a Dio, figli nel Figlio.

L’eucaristia è il centro del cristianesimo. I racconti del vangelo sono nati attorno ad essa: il ricordo di ciò che il Signore ha detto e fatto, serve per comprendere e vivere il dono di sé che in essa ci fa. Nell’eucaristia ogni promessa si compie; ogni parola si fa pane e sangue, e Dio stesso diventa nostra vita. In vista di essa il mondo è stato creato: per essa Dio è tutto in tutti (1Cor 15,28).

L’eucaristia “è tutto e dà tutto”. Dio non può darci nulla di più: ci dà se stesso!Questo mistero è la sintesi della vita del Figlio uguale al Padre: amore più forte della morte.

La Chiesa fa memoria e ringrazia per questo amore, ri-cordo costante che custodisce nel cuore. Di esso gioisce e vive, in pienezza sempre maggiore.

L’ultima cena di Gesù è il compimento della pasqua; il corpo e il sangue dell’Agnello ci salva da ogni male, e ci comunica ogni bene, facendo di noi un popolo “santo”.

Il dono supremo del Signore è incastonato tra la predizione del tradimento di Giuda e quello dello scandalo di tutti i discepoli, con il rinnegamento di Pietro. Le nostre infedeltà sono le mani che abbiamo per accoglierlo. La luce entra nelle nostre tenebre, e ricrea l’uomo bello e buono, come Dio l’aveva voluto fin dal principio.

L’alleanza, che Dio stabilisce con noi nel suo sangue, è nuova ed eterna (Ger 31,31ss; 32,40): nuova rispetto a quella antica, che fu infranta ancor prima di essere consegnata (cf. Es 32,15-19), eterna perché non può essere rotta. È infatti unilaterale: il Signore si dona a noi che lo tradiamo e rinneghiamo. Il nostro male - l’uccisione del Signore - è portato da lui stesso, che da solo si è impegnato con noi, facendosi carico delle nostre infedeltà (cf. Gen 15,17). Nulla ormai ci può separare dal suo amore per noi: infatti si è fatto per noi maledizione e peccato (Gal 3,13; 2Cor 5,21), distruggendo nel suo corpo ogni inimicizia (Ef 2,16), spegnendo in sé ogni violenza.

Tutti, dal più piccolo al più grande, conosciamo chi è il Signore: è colui che si dona e perdona senza condizioni (cf. Ger 31,34), colui che ci ama di amore eterno (Ger 31,3).

Il brano si articola in quattro parti: la preparazione della pasqua (vv. 17-19), l’annuncio del tradimento (vv. 20-25), la cena pasquale (vv. 26-30) e l’annuncio dello scandalo dei discepoli con il

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rinnegamento di Pietro (vv. 31-35). Al centro sta la cena pasquale, in cui Gesù anticipa il dono del suo corpo e del suo sangue, che si compirà sulla croce. In essa si esprime il senso pieno della sua vita data per noi, che celebriamo nell’eucaristia.

Chi mangia, assimila il cibo. Qui invece è il suo corpo e il suo sangue che “ci mangia” e assimila a lui: divora ogni nostra infedeltà e ci fa vivere del suo essere Figlio, che tutto riceve e tutto dà. Qui è vero che l’uomo è ciò che mangia!

Gesù è il Figlio perché tutto riceve con gioia dal Padre, che tutto dà. Ed è uguale a lui perché, a sua volta, dà tutto, come lui. “Prendere, “benedire”, “spezzare” e “dare” è la vita del Figlio, perfetto come il Padre (5,48). Gesù la offre a ogni fratello.

La Chiesa riconosce il suo peccato: rapisce invece di prendere, invidia invece di benedire, si impadronisce invece di spezzare, consegna alla morte invece di dare la vita. E, nel suo peccato, accoglie il dono incondizionato del Figlio, di cui vive in perenne rendimento di grazie.

2. Lettura del testo

v. 17: Il primo giorno degli azzimi. Così è chiamato il giorno di Pasqua (il 14 di Nisan), con il quale inizia una settimana in cui si mangia pane azzimo, non lievitato. Forse l’evangelista intende il giorno prima di pasqua, in cui si faceva sparire il lievito, per indicare la novità di vita, e si preparava l’agnello o il capretto per la cena pasquale.

Cercando di concordare i vari particolari dei singoli vangeli, si può supporre che Gesù abbia anticipato la cena pasquale nel giorno prima della sua morte. Il suo ultimo pasto è chiaramente inteso come cena pasquale, anticipo dell’eucaristia, che la Chiesa celebrerà come propria pasqua, nella memoria della sua passione. È lui l’agnello immolato, il cui sangue ci salva dalla morte (cf. Es 12,13).

dove vuoi che ti prepariamo per mangiare la pasqua? Mc 14,12-16 e Lc 22,7-13 sviluppano più ampiamente il “dove” noi mangiamo la pasqua con il Signore.

v. 18: andate in città dal tale. Gesù si invita con i suoi presso un tale. A livello di testo è il lettore stesso, invitato ad ospitare il Signore e i suoi: presso di lui il Signore vuole celebrare la sua Pasqua!

v. 19: prepararono la pasqua. In questi tre soli versetti, per ben tre volte si parla di pasqua (oltre il ricordo del primo giorno degli azzimi). La cena del Signore è caricata di tutti i significati che ha la pasqua ebraica.

v. 20: venuta la sera, giaceva a mensa con i Dodici. È l’ultima sera di Gesù. È un giorno che è tutto tenebra: comincia con la sera e continua nella notte, fino a oscurare il sole di mezzogiorno e terminare con la deposizione nel sepolcro. Il Signore della luce entra in tutte le tenebre dell’uomo che si è allontanato da Dio.

v. 21: amen, vi dico, uno di voi mi consegnerà, Il tradimento non è un imprevisto. Gesù sa; eppure si consegna a chi lo consegna, non si rifiuta a chi lo tradisce. “Forte è il suo amore per noi, e la fedeltà del Signore dura in eterno” (Sal 117,2).

v. 22: rattristatisi, cominciarono a dirgli ciascuno: Non forse io, Signore? È la domanda di ogni discepolo davanti all’eucaristia, come davanti alla croce: accolgo questo dono o lo respingo? Cosa avverto davanti allo spreco del profumo di Betania? Mi trovo con la donna di Betania o con gli altri?

v. 23: colui che intinge con me. (cf Sal 41,10). Colui che tradisce non è un estraneo, ma un amico: “Ci legava una dolce amicizia, verso la casa di Dio camminavamo in festa” (Sal 55,15).

v. 24: il Figlio dell’uomo se ne va, come è scritto di lui. Di lui è scritto che se ne va per le nostre iniquità e che ci salva con le sue ferite (cf. Is 53,1ss).

ahimè per quell’uomo, ecc. Il peccato di Giuda è il fallimento dell’esistenza: meglio non essere nati. È il male che ci distrugge come figli. Il Figlio è venuto a salvarcene dando la sua vita. La sua croce è l’“ahimè” di Dio, la sua sofferenza per il male dell’uomo, Giuda compreso. Il suo è il peccato del mondo, quello di noi tutti, per il quale Cristo muore.

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v. 25: Giuda, il suo traditore, disse: Non forse io, Rabbì? Nella domanda di Giuda c’è già la risposta. Per gli altri Gesù è il “Signore” (v. 22), per lui solo il “maestro”. Considerare Gesù come maestro di vita, e non come la vita, è già tradirlo. Gesù, da maestro, diventa il Signore proprio quando capisco che mi è fedele nella mia infedeltà, che si dona a me che lo tradisco.

v. 26: Gesù, avendo preso. Gesù “prende”: è il Figlio, che “prende” dal Padre tutto ciò che è ed ha. Ma non fa come Adamo, che “rapisce”. Accetta invece se stesso come dono e il Padre come colui che si dona: si vive come amore dell’Altro, accettando lui come Padre e se stesso come figlio.

il pane. Il pane non è solo frumento, come il vino non è solo uva. Pane e vino sono frutto della terra, ma contengono anche il lavoro e le relazioni, il sudore e l’amore, le lacrime e le speranze dell’uomo. Non solo la natura e la creazione, ma anche la cultura e la storia è da prendere come dono.

avendo benedetto. Gesù è il Figlio che bene-dice colui che bene-dà: ogni realtà è dono del Padre e comunione con lui.

lo spezzò. L’azione di spezzare il pane, come la distinzione tra corpo e sangue, allude alla violenza della croce. In un’economia di egoismo, l’amore ne porta il peso. Adamo aveva rotto con il Padre: il nuovo Adamo ne porta la maledizione.

dando ai discepoli. In quanto riceve e benedice, Gesù è Figlio; in quanto spezza e dà, è uguale al Padre. La capacità di spezzare e dare gli viene dal prendere e benedire. “Prendere” con gioia “benedicendo” il Padre, “spezzare” e “dare” è la vita del Figlio, che corrisponde con l’amore all’amore che riceve. Per l’uomo è l’unico modo - modo divino! - di vivere umanamente. In altro modo, tutto è per la morte!

disse: prendete. È un imperativo. Prendere questo dono è partecipare al suo corpo e diventare ciò che si è: figli del Padre e fratelli suoi.

mangiate. Non è il frutto proibito: è l’albero della vita, che ci rende davvero come Dio. Uno vive di ciò che mangia: mangiando di lui, viviamo di lui.

questo è il mio corpo. Il suo corpo, che si fa dono per noi, rivela la sua divinità e la comunica a ogni corpo. Il corpo del Figlio è la divinizzazione dell’uomo, e, in lui, di tutta la creazione (cf. Rm 8,19ss).

v. 27: preso il calice e reso grazie, ecc. Se l’agnello pasquale è il suo corpo, il calice della benedizione è il suo sangue: il suo Spirito, la sua vita.

Corpo e sangue sono separati: si allude alla sua morte in croce, dove ci darà la sua vita. Anche il calice, come il pane, è “preso” , con “rendimento di grazie” (=eucaristia!) e “dato”. Tutto è dono d’amore, ricevuto e corrisposto.

bevetene tutti. Il sangue è la vita. Per gli ebrei non si può bere il sangue; l’uomo non è padrone della vita: appartiene a Dio. Ma appartiene anche a chiunque la riceve in dono, come figlio. Chi vive del suo corpo, “beve” con lui la pienezza di vita. Gesù ci dona lo Spirito Santo, che crea in noi un cuore nuovo: quello del Figlio, che ama come è amato.

v. 28: è il mio sangue dell’alleanza. L’alleanza tra Dio e il mondo si compie nel sangue (cf. Es 24,8; Gen 15,17; Zc 9,11). Il sangue del Figlio ci rende consanguinei del Padre: la sua vita è nostra, e viceversa.

Da sempre noi abbiamo rotto l’alleanza con lui. Ma lui ci rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso (2Tm 2,13). La croce è un’alleanza nuova ed eterna, che non può essere più rotta, neanche dal massimo male: il Signore dona se stesso e per-dona tutto. Proprio così riconosciamo chi è il Signore (Ger 31,34).

versato per molti in remissione dei peccati. “Molti” significa “moltitudine”, e sta per “tutti”. La morte di Gesù è quella del Servo di JHWH che porta su di sé la violenza del male e riscatta tutti (cf. Is 53,12).

v. 29: non berrò più di questo frutto della vite. Bere il frutto della vite significa far festa: è la fine dell’esodo, la fruizione piena della terra promessa. Il Figlio sarà sempre in cammino, affamato e assetato, estraneo e nudo, malato e carcerato, fino a quando tutti saremo fratelli tra di noi. Solo allora il Figlio berrà “il vino nuovo” del regno. L’eucaristia è il pegno della vita futura che si fa impegno per gli ultimi, nei quali ancora continua la passione del Signore per la nostra salvezza (cf.

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Col 1,24). Amando loro, facciamo la provvista di olio, reduplichiamo il talento, amiamo il Signore, viviamo di lui che ha preso, benedetto, spezzato e dato: l’eucaristia si fa vita quotidiana, nell’attesa, piena di speranza, del suo ritorno. Allora lui sarà a mensa con noi, perché saremo tutti con lui.

v. 30: cantato l’inno. È il grande Hallel (Sal 136), che si canta dopo la cena pasquale. Il suo ritornello suona: “Perché eterna è la sua misericordia”. Nell’eucaristia comprendiamo pienamente il perché primo ed ultimo della creazione e della storia, nel bene e nel male: è l’eterna misericordia di Dio, che si volge ad ogni miseria e la colma della sua gloria.

v. 31: tutti sarete scandalizzati a causa mia. La pietra scartata diventa scandalo per tutti, proprio mentre compie l’opera del Signore (cf. 21,42-44). Il dono è per tutti: per chi tradisce, per chi rinnega e per chi fugge. Ogni nostro male è pieno della sua grazia.

percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore (Zc 13,7). La morte del Giusto, smarrimento per tutti, sarà principio di salvezza. Dopo di essa il Signore dirà: “Questo è il mio popolo”, ed esso dirà: “Il Signore è il mio Dio” (Zc 13,9). La sorgente d’acqua zampillante, che lava ogni peccato e impurità, scaturisce da una grande desolazione (Zc 13,1ss), che disperde tutti. Ma, guardando a colui che è stato trafitto, riceveranno uno Spirito di grazia e di consolazione (Zc 12,10).

v. 32: dopo che io sarò risuscitato, vi precederò in Galilea (28,16). La sua fedeltà va oltre la nostra infedeltà, che gli procura la morte. Dopo la risurrezione, lo ritroveremo in Galilea, per essere sempre con lui, noi che l’abbiamo consegnato, rinnegato e abbandonato.

v. 33: rispondendo, Pietro gli disse, ecc. Pietro si ritiene sicuro del suo amore per Gesù. Non ha ancora capito che la sua salvezza è l’amore di Gesù per lui, che vive ancora di presunzione, confronto e rivalità.

v. 34: amen, ti dico, ecc. Il rinnegamento di Pietro, come il tradimento di Giuda e lo scandalo di tutti, è verità di fede, predetta con autorità divina. Il nostro peccato è la nostra parte di vangelo: ci fa accogliere la grazia del perdono.

v. 35: se è necessario che io muoia con te, ecc. Pietro vuol dare la vita con Gesù. Non sa ancora che è Gesù a dare la vita per lui. Solo allora potrà rispondere all’amore con l’amore.

ugualmente dissero anche tutti i discepoli. I discepoli amano il Signore. L’epilogo dei loro buoni propositi sarà l’abbandono e la fuga (v. 56)! Solo dopo la sua passione saranno riuniti in Galilea. Non dal loro amore infedele, ma dal suo amore eterno, che perdona. Solo con la sua morte è possibile conoscere e credere all’amore che Dio ha per noi (1Gv 4,16).

3. Pregare il testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando la sala del cenacolo, in cui i discepoli entrano con Gesù, celebrano la

pasqua, e da cui escono verso l’orto degli Ulivi.c. Chiedo ciò che voglio: prendere, mangiare e bere il corpo e il sangue del Signore, vivendo di

questo dono.d. Traendone frutto, contemplo la scena: guardo e ascolto le persone, chi sono, che dicono, che

fanno.

Da notare: presso di te faccio la pasqua amen vi dico: uno di voi mi tradirà non forse io, Signore? ahimè per quell’uomo non forse io, Rabbì? Gesù prende il pane benedice spezza

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dà prendete e mangiate: questo è il mio corpo prende il calice rende grazie dà bevetene tutti il sangue della nuova alleanza versato per molti in remissione dei peccati non berrò più del frutto della vite lo berrò nuovo con voi nel regno tutti sarete scandalizzati vi precederò in Galilea la reazione di Pietro e la predizione del suo rinnegamento la reazione di tutti.

4. Testi utili

Sal 136; Es 12; Ger 31,31 - 34; Zc 13,1 - 9; Rm 8, 31 - 39.

104. DIMORATE QUI E VEGLIATE CON ME26, 36-46

26,36 Allora viene con loro Gesù in un poderechiamato Getsemanie dice ai discepoli:

Sedete quifin che io vado là a pregare.

37 E, presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo,cominciò a rattristarsi e angosciarsi.

38 Allora dice loro:L’anima mia è presa da tristezza fino a morirne.dimorate quie vegliate con me!

39 E, andato un po’ avanti, cadde sul volto,pregando e dicendo:

Padre mio,se è possibile,passi da me questo calice,però non come io voglio,ma come vuoi tu.

40 E viene presso i discepolie li trova che dormono,e dice a Pietro:

Così non siete riuscitia vegliare con me una sola ora?

41 Vegliate e pregateper non cadere in tentazione;lo spirito è pronto

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ma la carne è debole!42 Di nuovo una seconda volta se ne andò

a pregare dicendo:Padre mio,se non è possibileche passi questo calice senza che io lo beva,sia fatta la tua volontà.!

43 E, venuto di nuovo, li trovò che dormivano:poiché i loro occhi erano appesantiti.

44 E, lasciatili di nuovo,andò a pregare per la terza volta,dicendo di nuovo la stessa parola.

45 Allora viene presso i discepolie dice loro:

Dormite ormai e riposate!Ecco, è giunta l’orae il Figlio dell’uomo è consegnatoin mani di peccatori.

46 Svegliatevi, andiamo:ecco, è giunto chi mi consegna.

1. Messaggio nel contesto

“Dimorate qui e vegliate con me!”, chiede Gesù ai discepoli. E li sveglia tre volte, perché almeno per un breve attimo, prima di ripiombare nel sonno, si imprima nel loro cuore ciò che sta avvenendo nella notte.

Gesù li chiama a contemplare la passione del Figlio per i fratelli: è la stessa del Padre! Discepolo è colui che fa, della passione di Dio per il mondo, la sua dimora.

Il racconto è una finestra sull’io più intimo di Gesù: svela la sua relazione con il Padre e con noi. E lo fa con le sue stesse parole, nel momento decisivo della sua vita. È la notte in cui si consegna alla morte, alla morte violenta e ingiusta, nell’abbandono degli uomini e di Dio.

Gesù porta su di sé il male dei fratelli: l’abbandono del Padre. La sua è un'angoscia infinita, senza limiti: lui è “il Figlio”, il cui essere è “essere del Padre”. Ma anche l’essere del Padre è “essere del Figlio”! Il male del nostro abbandono tocca il cuore stesso di Dio che ci ama. È l’amante che porta su di sé l’abbandono dell’amato!

Il male in cui Gesù è “battezzato” è veramente assoluto, è impossibile pensarne uno più grande. In questa notte sono tutte le nostre notti - e l’uomo conosce molte notti. Il Figlio ci si immerge e le riempie della sua presenza. Dalla lontananza estrema, grida: “Padre mio!”. In ogni abisso, da una sponda all’altra del caos, risuona la voce del Figlio verso il Padre. “Abbà” è la Parola: detta dal Figlio, dice il Padre. Gesù in questa notte fa, di ogni abbandono del Padre, l’abbandono al Padre, facendosi vicino ad ogni lontananza.

Gesù prova tristezza e angoscia. I discepoli ne sono rimasti colpiti. Pur con gli occhi che ostinatamente si richiudono, non hanno potuto dimenticare. “Negli anni della sua vita terrena”, il Figlio “offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo dalla morte, e fu esaudito” non perché fu liberato, ma perché “prese bene” la morte, le forti grida e le lacrime, comuni a tutti i suoi fratelli peccatori. Per questo divenne il Figlio, perfetto come il Padre: per “l’obbedienza” nelle “cose che patì”. E così “divenne causa di eterna salvezza per coloro che lo ascoltano”, e fu proclamato “pontefice”, ponte tra ogni uomo perduto e il suo Dio. Così dice uno degli ultimi scritti del NT, riportando ancora al vivo il ricordo di questa scena (Eb 5,7-10).

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Il vecchio Adamo “prese male” il bene: rapì il dono della figliolanza. Il nuovo Adamo “prende-bene” (eu-lábeia) anche il male: si consegna a chi lo rapisce, portando su di sé la violenza del furto. Per questo è il Figlio uguale al Padre: dona se stesso e salva tutti.

Nel racconto Gesù si rivolge di continuo alternativamente al Padre e ai discepoli, sperimentando il silenzio di tutti. La sua angoscia unica viene dal suo essere tra noi e il Padre, vivendo insieme il suo amore per lui e il nostro abbandono di lui. Egli è l’“intercessore”, colui che si mette in mezzo, tessendo in sé il raccordo tra ogni lontananza e lacerazione. Gesù vive il suo essere del Padre, da lui e per lui, nella nostra condizione di peccato e di rifiuto. Noi non abbiamo accettato né Dio come Padre né noi stessi come figli. Abbiamo voluto possedere in proprio la vita; di conseguenza non accettiamo di essere figli: rimuoviamo la nascita e la morte, eliminiamo il nostro principio e il nostro fine. Per questo la nostra vita è violenta, triste e angosciata: divisa dalla sua sorgente, si sente “gettata” nel nulla.

Gesù ripercorre a ritroso il cammino di Adamo, riportando al Padre ogni abbandono del Padre.

Il brano è un contrappunto tra il Figlio e i non-figli, che lui considera fratelli. Da qui la sua frattura interiore, veramente mortale. Gesù veglia e prega; prostrato ha la forza dello Spirito per gridare: “Padre mio!” e fare la sua volontà. I discepoli invece dormono, seduti nella debolezza della loro carne, chiusi nel sonno della loro morte. Il Figlio vive il dramma che rende figli i non-figli: il passaggio (battesimale!) dalla mia volontà a quella del Padre.

Gesù vince la lotta, e ci guarisce dal male che sta all’origine dei nostri mali: la contrapposizione tra la nostra e la sua volontà. Per questo giunge “l’ora”, in vista della quale fu creato il mondo: quella in cui il Figlio dell’uomo si consegna al Padre nel suo consegnarsi ai fratelli perduti. È l’ora della salvezza!

Dopo questa “felice notte” non c’è più notte: la luce del Figlio è entrata in tutte le nostre tenebre. Per questo alla fine, dopo aver ripetuto di vegliare, Gesù dice di “dormire e riposare” e di “risorgere e andare”. Ogni nostro “sonno” ormai non è più anticipo di morte, ma “cammino” nella vita nuova di figli. Infatti ogni nostra notte è chiara come il giorno, ogni nostra lontananza è ormai ancorata al Padre nel Figlio.

Gesù, nel battesimo e nella trasfigurazione, fu chiamato: “Figlio mio” dal Padre. Ora, al termine della sua vita dedicata ai fratelli, compiuta la sua “missione” dice: “Padre mio”. Chiama per nome colui che da sempre dice il suo nome. Nella trasfigurazione Gesù manifesta la divinità dell’uomo, nell’agonia l’umanità di Dio.

La Chiesa è chiamata a tenere gli occhi aperti sulla passione di Dio per l’uomo, per fare di questa la propria dimora. Lì stiamo di casa, e riflettiamo “il Volto”, del quale siamo immagine e somiglianza.

2. Lettura del testo

v. 36: Allora viene con loro in un podere chiamato Getsemani. Getsemani significa frantoio. Qui sarà torchiato colui nel quale la terra dà il suo frutto (cf.Sal 67,7). Dalla sua umanità spremuta uscirà l’essenza del Figlio.

sedete qui fin che io vado là a pregare. I discepoli sono vicini e lontani da lui: loro sono qui, seduti; lui è là, con il volto a terra. Sono vicini e lontani come chi dorme e chi prega, chi chiude gli occhi e chi veglia nella notte, chi si ripiega su se stesso e chi si rivolge al Padre, chi è prigioniero della carne e chi ha la forza dello Spirito, chi resta schiavo delle proprie paure e chi fa la volontà del Padre.

Gesù in questa scena compie in sé il passaggio dalla prima alla seconda condizione: è il nuovo Adamo, che riconduce il vecchio alla sua dignità di figlio. Nella sua carne è ridata a ogni carne di peccato la gloria del Padre.

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v. 37: Pietro e i due figli di Zebedeo. Testimoni della trasfigurazione (17,1ss), ora lo sono della sfigurazione. Allora brillò nell’umanità di Gesù la divinità, ora la divinità fa trasparire la sua umanità.

cominciò a rattristarsi e angosciarsi. Tristezza e angoscia sono l’eredità dell’uomo che si è allontanato dal Padre e ha smarrito il suo essere figlio. È la sensazione di venire dal nulla e tornare al nulla: uno sprofondare nel vuoto senza fondo. Gesù è davanti alla sua morte: morte violenta e ingiusta, da peccatore e maledetto, abbandonato dagli uomini e da Dio.

v. 38: fino a morirne. La morte è più sopportabile di questa angoscia abissale. È più facile darsi la morte che bere questo calice, frutto del nostro peccato. Abbandonare Dio è il vero suicidio dell’uomo, che tutti abbiamo compiuto.

dimorate qui e vegliate. Gesù ci chiama a dimorare qui, dove noi siamo e non vorremmo essere. Lì è anche lui, per aprirci gli occhi su chi siamo noi per Dio e chi è Dio per noi.

con me. In questa notte non siamo soli: lui è con noi e noi con lui.cadde sul volto, pregando. Gesù è prostrato in preghiera, con il volto a terra. Di notte

si dorme o si prega. Non ci sono alternative: o si mima la morte con il sonno - sostituibile da stordimenti e eccitanti vari -, o si entra in comunione con la vita.

v. 39: Padre mio. Dio è chiamato “Padre mio”. È l’unico motivo del suo vivere, ormai saturo di morte. Invece di rassegnarsi o suicidarsi, Gesù si rivolge alla sorgente di acqua viva, che tutti abbiamo abbandonato (cf. Ger 2,13).

se è possibile. È possibile evitare questo calice, fatto da noi, che solo lui, il Figlio, può bere. Ma lui non sarebbe il Figlio, e noi non saremmo i suoi fratelli.

passi da me questo calice. Ogni uomo vuole un calice che trabocca di gioia (Sal 23,5); invece, con le sue malvagità, si procura una coppa piena di ira. Gesù non vuole soffrire: non è un masochista! Una sofferenza voluta è sempre perversa. Lui vuole solo amare. Solo per noi berrà il nostro calice amaro!

non come io voglio, ma come vuoi tu. La vera lotta dell’uomo è tra la volontà sua e quella di Dio, ritenuto “nemico”, antagonista. È questa l’essenza del peccato, che ci ha portato a rifiutare Dio.

Gesù, pur vivendo questa lotta, a tutti comune dopo il peccato, dice: “Non come io voglio, ma come vuoi tu!”. È il primo che compie la volontà del Padre, tornando alla sua benedizione. Ma questo comporta un’agonia: la morte del falso io, che permette il dischiudersi della propria verità di Figlio.

v. 40: li trova che dormono. Cosa può fare l’uomo davanti alla notte, se non chiudere gli occhi? Sulla barca Gesù dormiva e i discepoli avevano paura (8,23ss). Ora è lui ad essere nell’angoscia, ed essi dormono.

non siete riusciti a vegliare una sola ora? Gesù ci chiama a vegliare almeno un’ora, per vedere che “è giunta l’ora”. Dopo la sua notte è vinta la notte. Il Figlio si consegna nelle mani del Padre della vita e in quelle dei fratelli che gli danno la morte. E noi peccatori, siamo in comunione con lui e con il Padre.

v. 41: vegliate e pregate per non cadere in tentazione (cf. 6,13). La tentazione è quella di tenere gli occhi chiusi nella notte, invece di aprirli alla luce del Figlio. È la tentazione di sfiducia e disperazione, che può essere vinta solo nella preghiera.

lo Spirito è pronto. Ogni uomo è in quanto amato dal Padre: ha il suo Spirito di Figlio, sempre pronto.

ma la carne è debole. Se però restiamo ripiegati su noi stessi, rimaniamo intrappolati nella nostra fragilità, preda del nostro limite.

v. 42: una seconda volta se ne andò a pregare: Padre mio, se non è possibile, ecc. Una seconda volta Gesù torna in preghiera. C’è un progresso rispetto alla prima. Là chiese, se era possibile, di non bere quel calice, che non voleva. Ora ha visto che non è possibile, e dice al Padre: “Sia fatta la tua volontà”. Gesù è il Figlio che compie in terra la volontà del

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Padre che è in cielo (6,10): ama i fratelli offrendo loro la sua solidarietà di Figlio. Tra la prima e la seconda preghiera c’è la lotta di resistenza e resa.

v. 43: venuto di nuovo, li trovò che dormivano. È importante che Gesù torni presso di noi, anche se ci scopre nel sonno.

v. 44: andò a pregare per la terza volta. È una preghiera che non si stanca, e resiste ad ogni prova.

dicendo di nuovo la stessa parola. Prega come prima (cf. v.42), per alimentare la sua decisione. Sa che, se lo Spirito è pronto, la carne resta debole.

v. 45: dormite ormai e riposate. Torna la terza volta dal Padre ai fratelli. Se prima diceva: “Vegliate”, ora dice: “Dormite!”. Chi ha intravisto il Figlio in “questa notte”, può dormire in pace. Anche nel sonno ultimo della morte trova non più il male che teme, ma il “riposo” che desidera: il Signore stesso, che è lì con lui.

è giunta l’ora. Questa è l’ora della salvezza, in cui ogni Adamo torna ad essere con il Figlio.

il Figlio dell’uomo è consegnato in mani di peccatori. Nelle nostre mani di peccatori è consegnato il Figlio, che ci consegna al Padre.

v. 46: svegliatevi, andiamo. Non è in contraddizione con quanto ha appena detto: “Dormite ormai e riposate!”. Il nostro “dormire”, ossia morire, è ormai un “risveglio” alla vita nuova; e il nostro “riposo” un camminare alla luce del settimo giorno.

è giunto chi mi consegna. È giunto il regno di Dio sulla terra: il Figlio, che fa la volontà del Padre, si consegna nelle nostre mani. Il nostro massimo male, dare la morte al Figlio, diventa l’ora del massimo bene: Dio ci dà la sua vita. È l’ora della salvezza: il Figlio è nelle mani di tutti i fratelli, per quanto lontani e peccatori. Il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono (11,12)! È infatti il regno del Padre, nel quale il Figlio si fa carico di ogni nostra violenza. Noi, i violenti, ce ne impadroniamo; e così lo “concepiamo” (cf. v. 55).

3. Pregare il testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando l’orto degli Ulivi con luna piena.c. Chiedo ciò che voglio: dimorare nella passione di Dio per me.d. Traendone frutto, mi immedesimo con i discepoli e contemplo Gesù: cosa fa e cosa

dice.

Da notare:

sedete qui fin che io vado là a pregare cominciò a rattristarsi e angosciarsi dimorate qui e vegliate con me Padre mio se è possibile passi da me questo calice però non come voglio io, ma come vuoi tu viene presso i discepoli e li trova che dormono non siete riusciti a vegliare un’ora sola con me? pregate per non cadere in tentazione lo Spirito è pronto, ma la carne è debole Padre mio, se non è possibile che passi questo calice sia fatta la tua volontà venuto di nuovo, li trovò che dormivano andò a pregare per la terza volta, dicendo la stessa parola

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dormite ormai e riposate è giunta l’ora il Figlio dell’uomo è consegnato in mani di peccatori svegliatevi, andiamo è giunto chi mi consegna.

4. Testi utili

Sal 40; Gen 32,23-33: Eb 5,7-9;12,4-12; Gal 4,4-7; Rm 8,14-17.

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105. TUTTO QUESTO AVVENNE PERCHÉ SI COMPISSERO LE SCRITTURE26,47-56

26,47 E mentre ancora stava parlando,ecco che Giuda, uno dei Dodici, vennee con lui molta folla con spade e bastonida parte dei sommi sacerdoti e degli anziani del popolo

48 Colui che lo consegnava aveva dato loro un segnodicendo:

Chi bacerò, è lui!Impadronitevi di lui!

49 E subito, avvicinatosi a Gesùdisse:

Salve, Rabbì!E lo baciò.

50 Ora Gesù gli disse:Amico, per questo sei qui!

Allora, avvicinatisi, misero le mani su Gesùe si impadronirono di lui

51 Ed ecco uno di quelli con Gesù,stesa la mano, estrasse la sua spada,e, colpito il servo del sommo sacerdote,gli tagliò il lobo dell’orecchio.

52 Allora gli dice Gesù:Rimetti la tua spada nel suo posto,perché tutti quelli che prendono la spada,di spada periranno.

53 O pensi che non posso chiamare vicino il Padre mio,e mi metterà subito vicino più di dodici legioni di angeli?

54 Come dunque si compirebbero le Scrittureche così deve accadere?

55 In quell’ora Gesù disse alle folle:Come contro un briganteusciste con spade e bastoniper prendermi insieme (concepirmi)!Ogni giorno sedevo insegnando nel tempio,e non vi siete impadroniti di me!

56 Ora tutto questo avvenneperché si compissero le Scritture dei profeti.

Allora i discepoli tutti,abbandonatolo, fuggirono.

1. Messaggio nel contesto

“Tutto questo avvenne perché si compissero le Scritture”, dice Gesù della sua cattura nell’orto. Ogni promessa di Dio si compie nel fatto che lui si offre a noi che lo prendiamo. La parola chiave del brano è “impadronirsi”. Da Adamo in poi, è ciò che tutti facciamo: invece di aprire la mano per ricevere e dare, la chiudiamo per possedere. I mezzi per

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impadronirsi sono i denari, le spade, i bastoni e i cuori (raffigurati nel bacio). Sono le carte con cui giochiamo, e ci giochiamo, la vita, con cieca ostinazione.

Nell’impadronirsi di Gesù si compiono le Scritture: il Signore, oggetto della nostra violenza, si offre a noi che lo “concepiamo” (v. 55). La tenebra cattura il sole: la sua vittoria ultima è la sua definitiva sconfitta. Il Signore si offre a chi lo prende: nelle mani del nostro peccato è consegnato il suo corpo preso, spezzato e dato per noi.

Pietro con gli altri discepoli, ama il Signore; ma non lo conosce, come tutti. Lo abbandonano perché sono nella stessa logica del nemico; fuggono solo perché più deboli. Se fossero stati più forti e avessero avuto la meglio, sarebbe stato peggio: Gesù sarebbe ancora ad agonizzare nell’orto.

Fino a questo momento Gesù aveva agito, facendo del bene a tutti (At 10,38). Ora non fa più nulla. Diviene ciò che noi facciamo di lui. Finita l’azione, comincia la passione. Se la sua azione fu particolare e solo simbolica, la sua passione è universale e reale: con la sua azione beneficò qualcuno, con la sua passione porta il male di tutti.

Quando lui era libero, dal suo mantello scaturiva la vita, al tocco della sua mano gli zoppi saltavano come cervi, dai suoi occhi i ciechi bevevano la luce, al suono della sua voce i sordi udivano la Parola, al comando della sua bocca i morti balzavano dai sepolcri, dalle sue mani fioriva di pane il deserto. Ora non fa e non è più nulla: è quel nulla al quale noi, con il nostro impadronirci, riduciamo tutto. È come una farfalla stretta nel pugno.

Il Cristo mite ed umile si fa carico della nostra violenza, che su di lui esaurisce la sua carica, e si spegne. Infatti non risponde al male con il male, ma con il dono e il perdono.

Gesù, dopo la sua azione, inizia la sua passione. In essa si compie la Scrittura, che esprime la volontà del Padre di salvare tutti i suoi figli. E ciò avviene nel Figlio che si offre ai fratelli che lo catturano.

La Chiesa è rappresentata da Pietro e dai discepoli, che hanno lo stesso modo di pensare e agire degli altri. Pur amando il Signore, fanno il gioco opposto al suo. Sono, inconsapevolmente, suoi nemici: compiono imprese ambigue, che fanno male se riescono e fanno bene se falliscono!

2. Lettura del testo

v. 47: Giuda, uno dei Dodici. Quando si parla di “uno dei Dodici”, si intende lui, il traditore. Era forte la tentazione di rimuoverne il ricordo. Invece resta sempre uno di loro: come loro amato, chiamato, inviato…e traditore.

Chi non lo riconosce come fratello, anzi, come se stesso, è ancora fuori dalla grazia. Fa come lui, ma senza saperlo.

con spade e bastoni. Il mezzo normale per impadronirsi è il denaro, mediatore universale, con cui si ottiene ogni cosa. Dove non basta il denaro, accumulo di violenza “pulita” si ricorre a spade e bastoni, violenza “pura”, potenziamento mortale della mano. Denaro, spade e bastoni dominano il mondo, perso in quella lotta che gli uomini si fanno per impadronirsi gli uni degli altri. Basta leggere ciò che capita, dai miti delle origini all’ultima pagina di cronaca.

v. 48: chi bacerò, è lui! A danaro, spade e bastoni sono da aggiungere i cuori ( o le coppe, se uno preferisce). Il bacio, segno di amore e adorazione (adorare = portare alla bocca, baciare), in una logica di violenza, indica ciò che si desidera possedere.

impadronitevi di lui. Impadronirsi è il desiderio che muove ogni azione. L’uomo non è la vita; semplicemente ce l’ha perché gli è data, e continuamente la alimenta con ciò che riceve. In realtà, impadronendosi, la uccide: elimina simbolicamente, o realmente, chi gliela dà e ogni altro che gliela contende. La “mimesi appropriativa” è il gesto nel quale ognuno

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imita l’altro per mettere le mani su tutto e su tutti. È il peccato di Adamo, che lo distrugge come creatura, distruggendo insieme anche la creazione.

v. 49: salve, rabbì. E lo baciò. Saluto e bacio sono la consumazione della violenza, che volge ogni bene nel suo contrario.

v. 50: amico. Giuda è l’unica persona che Gesù chiama: “Amico”. Non è ironia: gli è amico e tale gli resta in eterno, al di là di ogni male.

per questo sei qui. Gesù sa perché Giuda è qui. Gli vuol far prendere coscienza del fatto che lui lo conosce e gli rimane amico.

misero le mani su Gesù e si impadronirono di lui. Gesù è ora nelle mani dei peccatori. Se il peccato fu rapire ciò che è donato, la salvezza è donare ciò che fu rapito.

v. 51: uno di quelli. È Pietro (Gv 18,10). Il suo gesto è profezia di quanto, in seguito, sarà fatto per “amore del Signore”, ma contro di lui. È la violenza “a fine di bene”! Le guerre sante e di religione sono le peggiori: fanno continuare l’agonia del Signore e ritardano il suo ritorno!

stesa la mano, estrasse la spada. Usa le stesse armi dell’avversario. Inizia, e fallisce, la prima delle interminabili “crociate”, che ci mettono nel numero di quelli che crocifiggono il Signore della vita. Ogni volta che rispondiamo al male con la stessa moneta, re-duplichiamo la violenza. È il male peggiore, perché “giustificato”. Il suo unico risultato è quello di confermare, se ce ne fosse bisogno, l’immagine satanica di un dio violento.

Il Signore è dono, servizio e umiltà: suo emblema non è il cavallo o il carro armato, ma l’asina (cf. 21,1ss). Chi vuol difendere o diffondere il regno di Dio con il potere mondano, incrocia l’asina con il cavallo, ottenendo il mulo, sterile e senza intelletto (Sal 32,9). È anche possibile incrociarla, al di là di ogni ingegneria biogenetica, con il carro armato. Allora si ottiene un mostro apocalittico. L’anticristo è uno che promette salvezza, ma il suo linguaggio non è quello dell’Agnello (cf. Ap 13,11ss).

gli tagliò il lobo dell’orecchio. Il nostro zelo non colpisce alla testa il nemico. Gli taglia solo l’orecchio: gli toglie la possibilità di ascoltare la Parola. Ogni azione di “cavallo o carro”, lungi dal vincere il male, lo moltiplica, con una aggravante: preclude la possibilità di conversione. Tutto si riduce a un gran tagliare di orecchi, che allontana sempre più dalla verità che ci fa liberi.

v. 52: quelli che prendono la spada, di spada periranno. La violenza genera violenza; presto o tardi chi la fa la subisce. Chi vince oggi, uccide chi ha vinto ieri e sarà ucciso da chi vincerà domani. Emergono sempre i peggiori tra gli uomini (Sal 12,9). E così all’infinito, fino a che tutto sarà finito!

v. 53: dodici legioni di Angeli. Dodici legioni di truppe celesti, aviotrasportate, sono certo più efficienti di quei Dodici che ha con sé! Gesù aveva appena pensato alla possibilità di non bere il calice. Già nelle tentazioni del deserto gli si era presentata questa prospettiva. E chi non vuol salvarsi dalla violenza?

v. 54: come dunque si compirebbero le Scritture. Le Scritture parlano della salvezza dell’uomo. Ma questa non può certo avvenire attraverso una violenza maggiore di quella che si vuole combattere. Il rimedio è peggio del male!

così deve accadere. La violenza si spegne dove uno risponde con amore. Il male è una pro-vocazione, che chiama-fuori ciò che c’è dentro. Il Signore è tutto e solo amore: risponde al male con il bene, offrendo a tutti la libertà del suo amore incondizionato.

v. 55: come contro un brigante usciste con spade e bastoni. Per la quinta volta esce la parola “spada”. L’ha usata il primo brigante, che ha prevalso sugli altri e ha legittimato il suo potere; la usa poi contro gli altri briganti, che glielo contendono. Ma il Signore non contende con noi. Per litigare bisogna essere in due, che vogliono la stessa cosa. Se uno tira la fune e l’altro molla, cade chi tira! Con Gesù, che non accetta la provocazione, cade la forza del male; ma addosso a lui, che lo porta senza farlo. Gesù catturato, diventa “cattivo” (da “captivus” = catturato!), preda della nostra violenza, carico della nostra cattiveria.

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per prendermi. In greco c’è la stessa parola che indica “concepire”. La nostra violenza concepisce la pace, il furto riceve il dono, la morte accoglie la vita. Il sommo bene si è fatto prendere finalmente dalla potenza del male che, catturandolo, è finito! Questa è la sublime astuzia con cui Dio ci salva - rispettando la nostra libertà, ma anche la propria!

v. 56: tutto questo avvenne perché si compissero le Scritture dei profeti. Tutte le Scritture si compiono in questo: il servo mite ed umile, il giusto innocente, il Signore della vita, è nel numero dei malfattori (cf. Is 53,12; Lc 22,37). Gesù pensa soprattutto ai Salmi del giusto perseguitato e ai canti del Servo di YHWH, ad Abele e al sangue di tutti gli innocenti, che fu versato dall’inizio del mondo (23,35). Il male lo porta sempre chi non lo fa! Può sembrare scandaloso, ma è la legge fondamentale della storia. E dal male ci libera certo non chi lo fa, ma chi lo porta su di sé senza farlo. Gesù, ci salva proprio in quanto si fa per noi peccato e maledizione. Per questo è il Figlio del Benedetto, che non ha fatto nulla di male.

allora i discepoli tutti, abbandonatolo, fuggirono. Provvidenzialmente i discepoli non sono più forti dei nemici. Lo abbandonano perché non sono con lui così com’è; fuggono, anche se vorrebbero stare con lui. Questo abbandono degli amici è per l’amico la violenza più crudele.

3. Pregare il testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando l’orto, dove di notte irrompono i nemici.c. Chiedo ciò che voglio: capire come il Signore compie le Scritture e perché io lo

abbandono.d. Traendone frutto, contemplo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare:

Giuda uno dei Dodici molta folla con spade e bastoni chi bacio è lui! amico, per questo sei qui si impadronirono di lui un discepolo taglia il lobo dell’orecchio chi di spada ferisce di spada perisce così deve accadere! siete venuti a “concepirmi” con spade e bastoni tutti, abbandonatolo, fuggirono.

4 Testi utili

Sal 64; Is 53,1ss; Fil 2,5-11; 1Pt 2,21-25.

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106. TU L’HAI DETTO26,57-68

26,57 Ora quelli che si erano impadroniti di Gesùlo portarono da Caifa, il sommo sacerdote,dove gli scribi e gli anziani erano riuniti.

58 Ora Pietro lo seguiva da lontanofino nel cortile del sommo sacerdotee, entrato dentro, sedeva con i serviper vedere la fine.

59 Ora i sommi sacerdoti e il sinedrio interocercavano una falsa testimonianzacontro Gesù per farlo morire;

60 e non trovarono,pur essendo venuti molti falsi testimoni.Ora infine, venuti due,

61 dissero:Costui disse:Posso distruggere il tempio di Dioe in tre giorni edificarlo.

62 E, alzatosi, il sommo sacerdote gli disse:Non rispondi nulla?Cosa testimoniano questi contro di te?

63 Ma Gesù taceva.E il sommo sacerdote gli disse:

Ti scongiuro per il Dio vivente,che ci dica se tu seiil Cristo, il Figlio di Dio.

64 Gli dice Gesù:Tu l’hai detto!Anzi vi dico:da ora vedrete il Figlio dell’uomoche siede alla destra della potenzae viene sulle nubi del cielo.

65 Allora il sommo sacerdote si stracciò le vestidicendo:

Bestemmiò!Che bisogno abbiamo ancora di testimoni?Ecco, non udiste la bestemmia?

66 Che vi pare?Ora essi rispondendo dissero:

È reo di morte!67 Allora gli sputarono sul volto

e lo schiaffeggiarono,altri lo colpirono

68 dicendo:Profetizza a noi,o Cristo,chi è che ti percosse?

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1. Messaggio nel contesto

“Tu l’hai detto”, risponde Gesù al sommo sacerdote che gli chiede se lui è “il Cristo, il Figlio di Dio”. Davanti alla croce, che si profila ormai come suo destino, rivela la sua identità: lui è il Cristo e l’Emmanuele, il Salvatore e il Dio con noi, proprio in quanto è condannato per bestemmia!

Siamo abituati a dire che Gesù è il Cristo e il Figlio di Dio. Non avvertiamo più la scandalosità di ciò che diciamo: professiamo che il Salvatore è uno sconfitto, Dio un crocifisso per bestemmia, l’autore della vita un condannato a morte, il Giudice un giudicato, il Giusto un giustiziato! Proprio così Gesù è il Cristo, che ci salva dalle nostre false attese di salvezza, il Figlio di Dio che ci salva dalla nostra falsa immagine di Dio, il Servo che ci dà la vita, il Giudice che ci giustifica, il Giusto che porta la nostra ingiustizia.

Quanto Gesù dice è una bestemmia non solo per i suoi nemici, ma anche per i discepoli. Rifiutato da tutti, donerà la vita per tutti, rivelando in questo modo di essere il Figlio, perfetto come il Padre (5,48).

La sua rivelazione è causa della sua uccisione; ma la sua uccisione sarà causa della sua rivelazione. Ora lui, il più piccolo fra tutti i fratelli, è giudicato da noi reo di morte. Noi pensiamo che Dio sia diverso da noi; invece è diverso da come noi lo pensiamo. È il Santo in mezzo a noi, perché non ci giudica con ira, ma viene a noi in compassione e misericordia (cf. Os 11,7-9). La sua salvezza, che ci stupisce tutti, è quella dell’Agnello che porta su di sé la maledizione della nostra violenza (cf. Is 52,13-53,12)

Per tutte le religioni un Dio crocifisso suona bestemmia; per tutti gli uomini un salvatore ucciso suona derisione. Ma questa bestemmia e derisione è l’essenza del cristianesimo: salva Dio da ciò che l’uomo pensa di lui, e libera l’uomo da ciò che lui pensa di sé. È proibito farsi immagini di Dio (Es 20,4). L’unica sua immagine è quella che lui dà di sé: il Crocifisso.

Il brano si articola in cinque parti: Gesù è consegnato e Pietro lo segue da lontano (vv. 57-58); contro di lui si cercano false testimonianze (vv. 59-61); alla domanda del sommo sacerdote Gesù rivela la sua identità (vv. 62-65); per questo è giudicato dal sinedrio come blasfemo e reo di morte (vv. 65-66), e dileggiato (vv.67-68).

“Chi è Gesù?” è la domanda fondamentale del Vangelo. La sua vita ha rivelato “che” è il Messia e l’Emmanuele; la sua morte rivela “come” lui è Messia ed Emmanuele. Lui, ultimo di tutti, ci mostra “il Volto”.

Gesù è il Cristo e il Figlio di Dio proprio in quanto crocifisso da noi che, avendo una falsa immagine dell’uomo e di Dio, giudichiamo bene il male e male il bene.

La Chiesa riconosce nel Crocifisso il suo salvatore, Signore e giudice. Ma solo se prima si identifica con Pietro e quanti non lo riconoscono e lo condannano.

2. Lettura del testo

v. 57: Ora quelli che si erano impadroniti di Gesù lo portarono. Gesù, fatto oggetto di possesso, sarà trasportato e consegnato di mano in mano: chi l’ha preso lo dà ai capi del popolo, questi a Pilato, Pilato al popolo e il popolo alla croce. Il suo corpo, dato per noi, passa dall’uno all’altro, in modo che tutte le mani di peccatori ricevano il dono. Il suo sangue di Agnello innocente ricadrà su noi tutti (27,25), a nostra salvezza.

erano riuniti. Il Sinedrio è riunito di notte, in modo informale, perché è proibito tenere un consiglio nelle tenebre. La luce entra nella notte!

v. 58: Pietro lo seguiva da lontano. La testimonianza di Gesù è inclusa tra Pietro che lo segue e Pietro che lo rinnega. Siamo chiamati a riconoscere questo Gesù, che viene con la “sua” gloria per il “suo” giudizio.

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per vedere la fine. Poco prima Pietro si era dichiarato disposto a morire con lui (v.35). Gli vuol bene, e spera forse che si liberi con uno dei suoi interventi prodigiosi. Aveva rifiutato la sua generosa difesa, dicendo di avere a disposizione dodici legioni di angeli! Non sarà questo il momento in cui si decide? Pietro lo rinnegherà quando vedrà che la cosa non finisce proprio secondo i suoi desideri.

v. 59: cercavano una falsa testimonianza contro Gesù per farlo morire (cf. Sal 27,12). La sua condanna a morte è già decisa. Proprio perché è giusto (cf. Sap 2,12-20)! Ci pare strano che il Giusto porti su di sé l’ingiustizia, anche la peggiore, quella del giudizio! Invece è “normale”, per quanto scandaloso!

v. 60: non trovarono. È importante l’innocenza di Gesù. Se fosse colpevole, la sua sofferenza sarebbe meritata, come la nostra (cf. Lc 23,41); non sarebbe più meritoria per noi.

molti falsi testimoni. Si insiste sulla falsità delle testimonianze. La menzogna ci impedisce di conoscere la verità che fa liberi, e procura la morte (cf. Gv 8,32.43s).

v. 61: distruggere il tempio di Dio e in tre giorni riedificarlo (cf. Mc 14,58; Gv 2,19; At 6,14). Gesù ha predetto la distruzione del tempio (24,2). Per una parola simile si voleva uccidere anche Geremia (Ger 26,7-11). Il tempio, in cui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (Col 2,9), è il suo corpo, distrutto in croce dalla nostra violenza e riedificato nel sepolcro dalla potenza di Dio. Uniti a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche noi siamo impiegati come pietre vive par la costruzione del nuovo tempio (1Pt 2,4s), in cui si adora Dio, in spirito e verità (Gv 4,24) - nello Spirito, che ci restituisce la nostra verità di figli.

v. 62: non rispondi nulla? Il sommo sacerdote, come poi anche Pilato, si meraviglia del silenzio di Gesù, Agnello muto condotto al macello (Is 53,7). Da cosa deve difendersi? Dalla verità che ha detto, o dalla nostra violenza? Sarebbe menzognero, o violento, come noi!

v. 63: Gesù taceva. È il silenzio maestoso che rivela Dio. Se lui rispondesse, noi tutti saremmo condannati come ingiusti. Il suo silenzio ci dice chi è Dio: misericordia che si addossa ogni miseria.

ti scongiuro per il Dio vivente, che ci dica se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio. È l’identità di Gesù, prospettata da Matteo fin dall’inizio del vangelo (cc. 1-2) e riconosciuta da Pietro (16,16). Ora, e non prima, anche lui la proclama.

v. 64: tu l’hai detto. Gesù si rivela solo ora. La croce elimina ogni ambiguità dalle nostre immagini di uomo e di Dio: toglie il velo a noi e a Dio, mostrando l’abisso del nostro male e quello della sua grazia.

da ora vedrete il Figlio dell’uomo, ecc. La croce è l’intronizzazione del Figlio dell’uomo come Cristo e Figlio di Dio. Lì siede nella “sua” gloria e potenza, e viene a giudicare il mondo con la “sua” giustizia.

v. 65: il sommo sacerdote si stracciò le vesti. È segno di scandalo. A lui era vietato stracciarsi le vesti (Lv 21,10). È l’anticipo dello stracciarsi del velo del tempio (27,51).

Bestemmiò! La bestemmia consiste nel fatto che Gesù afferma che il Cristo, il Figlio di Dio, è lui, quest’uomo condannato! La bestemmia di Gesù ci libera dalla nostra bestemmia su Dio. Per questa bestemmia Dio è Dio, diverso da ogni nostra pia o empia raffigurazione.

che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Tutte le nostre false testimonianze per ucciderlo cessano davanti a questa bestemmia, che ci rivela la verità inaudita di un Dio che dà la vita per l’uomo.

v. 66: che vi pare? La domanda rivolta al sinedrio, interpella pure il lettore. Che pare a me di questa bestemmia? Riconosco il mio salvatore, Signore e giudice in colui che giudico reo di morte?

è reo di morte. È il parere di tutti! Per questa bestemmia è condannato a morte, e proprio nella sua condanna a morte lui è il Cristo che salva, il Dio che ama, il Giudice che giustifica.

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v. 67: gli sputarono sul volto. Ora il “Volto”, toglie il velo, e mostra la sua bellezza. La Gloria, invece del bacio di adorazione, ottiene lo sputo del nostro disprezzo (cf. 27,30ss).

lo schiaffeggiarono. La potenza è bersaglio della nostra violenza.lo colpirono. I colpi del nostro male si abbattono su chi è senza colpa.v. 68: profetizza. La profezia è la Parola che rivela Dio e salva l’uomo. Questo volto

velato, coperto di sputi, schiaffi e colpi, è la Parola ultima, in cui vediamo Dio faccia a faccia.

o Cristo. Gesù è dileggiato come Messia. Lui è il Messia che ci salva proprio in quanto è oggetto di ogni violenza.

chi è che ti percosse? È la domanda che il Vangelo pone al lettore. Pietro, davanti a questo volto, vedrà di essere anche lui tra quelli che lo percuotono (cf. vv. 69ss).

3. Pregare il testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando la sala del sinedrio.c. Chiedo ciò che voglio: riconoscere il mio salvatore, Signore e giudice, in colui che io

condanno.d. Traendone frutto, contemplo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare: lo portarono da Caifa le false testimonianze per farlo morire distruggere il tempio ed edificarlo in tre giorni non rispondi nulla? tu sei il Cristo, il Figlio di Dio? tu lo hai detto d’ora in avanti vedrete il Figlio dell’uomo che siede alla destra della potenza e viene. udiste la bestemmia? che vi pare? è reo di morte gli sputi, gli schiaffi e i colpi chi ti percuote?

4. Testi utili

Sal 27; Sap 2,12-20; Is52,13-53,12; 1Pt 2,21-25.

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107. NON CONOSCO L’UOMO26,69-75

26,69 Ora Pietro sedeva fuori nel cortile,e si avvicinò a lui una servadicendo:

Anche tu eri con Gesù, il galileo!70 Ora egli negò davanti a tutti,

dicendo:Non so cosa dici!

71 Ora, uscito nell’atrio, lo vide un’altra,e dice a chi è lì:

Questi era con Gesù, il nazareno!72 E di nuovo negò con giuramento:

Non conosco l’uomo!73 Ora, poco dopo, avvicinatisi gli astanti

dissero a Pietro:Veramente anche tu sei dei loro;la tua parlata ti fa manifesto!

74 Allora cominciò a imprecare a giurare:Non conosco l’uomo!

E subito un gallo cantò.75 E si ricordò Pietro della parola di Gesù,

che aveva detto:Prima che il gallo canti,tre volte mi rinnegherai.

E, uscito fuori, pianse amaramente.

1. Messaggio nel contesto

“Non conosco l’uomo!”, dice Pietro del Figlio dell’uomo che ha cominciato a rivelarsi nella sua gloria. Non lo riconosce nel più piccolo tra i suoi fratelli (cf. 25,40.45). Anche Pietro compie il suo giudizio di condanna su di lui, come tutti gli altri. Pure lui è tra quelli che lo colpiscono. E i suoi colpi sono i più violenti; sono quelli dell'amico, al quale lo legava una dolce amicizia (Sal 55,15).

Pietro non mente quando dice di non conoscerlo. Per la prima volta si accorge di non averlo mai conosciuto. Il Volto, velato da sputi e schiaffi, gli rivela due verità a lui finora ignote: il Cristo è uno percosso dal male, e lui è tra quelli che lo percuotono.

Inizia il suo battesimo: comincia ad immergersi nella coscienza del proprio peccato e della misericordia del suo Signore. Voleva morire con Gesù; ora scopre che è Gesù che muore per lui.

Frana il terreno friabile della sua presunzione, e viene a nudo la “pietra” - la fedeltà indefettibile del suo Signore che è fedele a lui, infedele. Questa sarà la roccia su cui si edifica la Chiesa (16,18), la fede nella quale Pietro confermerà poi i suoi fratelli (Lc 22,32).

La sua caduta non è fortuita. È “necessaria” alla sua salvezza: deve morire alla propria giustizia di uomo, per vivere della giustificazione di Dio. Se non avesse rinnegato, avrebbe sempre potuto pensare che il Signore è fedele perché lui gli è fedele: non avrebbe conosciuto la sua fedeltà senza limiti. Se fosse morto per Cristo, avrebbe sempre pensato che la salvezza è sacrificare la vita, e non riceverla in dono da un Dio che ama e dà la vita per

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lui. Gli resterebbe ancora nascosto il mistero profondo di Dio e dell’uomo: Dio è amore senza limite, e l’uomo è da lui infinitamente amato.

In Pietro avviene il difficile passaggio dalla legge al vangelo. Muore in lui l’uomo religioso che cerca la propria perfezione, fino al sacrificio supremo di sé; e nasce l’uomo nuovo, che vive dell’amore del suo Signore che muore per lui, peccatore. Questa è “la buona notizia”: siamo salvati per grazia. La salvezza infatti è l’amore; e l’amore o è gratuito o non è!

Pietro giunge a intendere, come Paolo, che Cristo è morto per i peccatori, “dei quali io sono il primo” (1Tm 1,15). Scopre la sua passione per lui, e si immerge in essa fino a dire: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Certa è questa parola: se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele; non può rinnegare se stesso (cf. 2Tm 2,13), perché è fedeltà e amore eterno per noi (cf. Sal 117,2). Veramente nulla ci può ormai separare dall’amore che lui ha per noi, né vita né morte (Rm 8,38). Se colui che ci deve giudicare ha dato la vita per noi che lo tradiamo, rinneghiamo e abbandoniamo, chi sarà contro di noi (Rm 8,32)? Tutto ormai, anche il male coopera al nostro bene (cf. Rm 8,28), perché dove abbonda il nostro peccato, sovrabbonda la sua grazia per noi (Rm 5,20). Tutti siamo peccatori, privi della Gloria, e tutti siamo salvati per misericordia (cf. Rm 3,23s; 11,32). Non per questo dobbiamo peccare (Rm 3,8; 6,1.15). Piuttosto, come Pietro, dobbiamo ammettere la nostra miseria e cantare in eterno la sua grazia.

La scena si svolge di notte. Alla fine viene l’alba. Al canto del gallo, Pietro si risveglia dal sonno, e si ricorda della promessa del suo Signore.

Mentre Gesù è processato in alto nella sala del sinedrio, Pietro è in basso nel cortile tra i servi. Mentre Gesù rivela la sua identità, Pietro compie su di lui il suo giudizio: non lo riconosce nel più piccolo tra gli uomini. Anche lui ha tre interrogatori successivi, come Gesù; e per tre volte lo rinnegherà, come preannunciato.

Al canto del gallo, consumata la propria infedeltà, si ricorda che lui l’ha prevista, e gli ha promesso la sua fedeltà! Il pianto che sgorga è la fonte del suo battesimo, che durerà tutta la vita: gli laverà gli occhi e purificherà il cuore, per vedere il Volto.

Davanti ad esso finisce il gioco di illusione e delusione di chi cerca di vivere della propria giustizia; viene alla luce l’uomo nuovo, che vive dell’amore del suo Signore per lui.

Gesù è colui che non rinnega Pietro che lo rinnega.La Chiesa si fonda sulla fedeltà di Dio, che non rinnega chi lo rinnega.

2.Lettura del testo

v. 69: Ora Pietro sedeva fuori nel cortile. Pietro aveva seguito Gesù da lontano. Ora osserva come va a finire. Il Figlio dell’uomo, interrogato, conferma la sua identità ed è giudicato reo di morte.

tu eri con Gesù, il galileo. Per tutta la settimana era stato visto con Gesù, insieme agli altri discepoli, presso il Tempio. Anche la serva l’aveva visto, e gli dice che era “con” lui. Essere con Gesù è l’identità del discepolo (cf. Mc 3,14).

v. 70: non so cosa dici. Pietro, fino alla sera precedente, era con Gesù: con quel Gesù forte e potente che affascinava con la sua parola e i suoi prodigi. L’aveva riconosciuto quando aveva donato il pane alle folle (16,16). Ora che si fa pane, non lo riconosce. Non è con “questo” Gesù, prigioniero e impotente. Non sa cosa vuol dire essere con quest’uomo. Ciò era evidente fin dalla prima predizione della passione (cf. 16,21-23). C’è stato un errore di persona: lui pensava che Gesù fosse un altro, per il quale era disposto a morire. Ma non per questo, che si trova davanti ora.

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v. 71: uscito nell’atrio. Pietro ha un barlume di luce interiore. Cerca di uscire per nascondersi? Ma è intravisto da un’altra serva, che coinvolge anche i presenti, ripetendo ciò che aveva detto la prima.

v. 72: non conosco l’uomo. Mentre è dichiarato da tutti discepolo, Pietro vede di non esserlo affatto. Con più forza e con giuramento, afferma di non conoscere quell’uomo. Ne ignora persino il nome. ”Gesù” infatti significa “Dio-salva”. Per conoscere “Dio-salva”, deve prima riconoscere la propria perdizione.

v. 73: gli astanti dissero a Pietro. Per la terza volta Pietro è dichiarato discepolo, da tutti i servi che nella notte lo scrutano da vicino.

veramente tu sei dei loro. È riconosciuto come uno di quelli che sono con lui.la tua parlata ti fa manifesto. Pietro è galileo: è chiaro da come parla, anche se lo

nega.v. 74: non conosco l’uomo. Con imprecazioni e giuramenti Pietro ribadisce la sua

estraneità. Uno può essere discepolo di Gesù, e non conoscerlo. Può addirittura annunciarlo, e non conoscerlo! Uno può essere religiosissimo e parlare da cristiano; ma non è ancora un credente fino a quando non sa che il Signore è colui che ha dato la vita per lui che lo rinnega.

subito un gallo cantò. Il canto del gallo annuncia l’aurora. Si leva il sole, e Pietro vede per la prima volta chi è lui e chi è il Signore. Il suo triplice rinnegamento è il presupposto della sua illuminazione. La notte finalmente volge al termine; comincia a vedere la propria infedeltà. È il suo risveglio. Per lui inizia il giorno: comincia a vedere chi è “quell’uomo”, a capire perché va in croce.

v. 75: si ricordò Pietro della parola di Gesù, ecc. (v.34). È importante che Gesù abbia predetto il rinnegamento. Conosceva Pietro, e l’ha scelto sapendo della sua infedeltà; gli mostra così il suo amore e la sua fedeltà. Pietro ricorda le parole alle quali aveva reagito violentemente (vv. 33-35). Adesso gli è chiaro che lui è uno che rinnega, e il Signore uno che lo salva.

uscito fuori. Pietro esce finalmente dal cortile e dall’atrio. Si ritrova solo, sulla strada del primo mattino, con la verità di sé e del Signore, che non conosceva.

pianse amaramente. Pietro non è quello che credeva di essere. Il suo io, così potentemente affermato, crolla. E piange. È un pianto di lutto, amaro. È la morte dell’uomo vecchio, che viveva del proprio amore per il Signore.

Perché non si suicida come Giuda? Pietro si trova al bivio: può riconoscere il proprio fallimento e pagarlo con la vita, oppure accettare di vivere dell’amore gratuito del suo Signore per lui. È il bivio tra la fede che salva e la giustizia che condanna.

Dopo questo pianto Pietro scompare. Il seguito del racconto è ormai da vedere con i suoi occhi, dai quali sono cadute le scaglie della cecità.

3 Pregare il testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginandomi nella notte, giù nel cortile con i servi; sopra, nella sala, il

Signore è giudicato e deriso.c. Chiedo quello che voglio: riconoscere che non conosco “questo” Cristo.d. Traendone frutto, contemplo la scena, immedesimandomi con Pietro.

Da notare:

tu eri con Gesù, il Galileo? non so cosa dici! questi era con Gesù, il Galileo

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non conosco l’uomo veramente tu sei di loro la tua parlata ti fa manifesto non conosco l’uomo il gallo cantò Pietro si ricordò della parola di Gesù uscito fuori, pianse amaramente.

4. Testi utili

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108. ALLONTANATOSI SI IMPICCO’27, 1-10

27,1 Ora, fattasi mattina, tennero consigliotutti i sommi sacerdoti e gli anziani del popolocontro Gesù per farlo morire:

2 e, legato, lo portarono e consegnaronoa Pilato, il governatore.

3 Allora Giuda, che l’aveva consegnato,avendo visto che era stato condannato,preso da rimorso, riportò le trenta monete d’argentoai sommi sacerdoti e agli anziani,dicendo:

4 Peccai, ho consegnato sangue innocente!Ora essi dissero:

Che ce ne importa?Te la vedrai tu!

5 E, gettate le monete d’argento nel tempio,allontanatosi si impiccò.

6 Ora i sommi sacerdoti, prese le monete d’argento,dissero:

Non è lecito metterle nel tesoro,perché è prezzo di sangue.

7 Ora, preso consiglio, comperarono con esseil Campo del vasaio,per la sepoltura degli stranieri.

8 Perciò fu chiamato quel campo:Campo del sangue,sino ad oggi.

9 Allora si compì ciò che fu dettoper mezzo del profeta Geremiache dice:

E presero le trenta monete d’argento,prezzo del venduto

10 che avevano venduti i figli di Israele,e lo diedero per il Campo del vasaio,come mi aveva ordinato il Signore.

1. Messaggio nel contesto

“Allontanatosi si impiccò”. Questa è la prima morte che il vangelo racconta. Seguirà quella di Gesù. Giuda espia la propria colpa; Gesù le colpe di tutti. La morte del colpevole si intreccia con quella dell’innocente: lo stesso peccato provoca la morte sia degli ingiusti che quella del Giusto.

È l’episodio più tragico del vangelo. Per Giuda, certo, che si suicida. Ma ancor più per Gesù, che lo ama e dà la vita per lui. Tanti anni insieme, senza riuscire a far breccia nel cuore dell’amico!

Visto il risultato della sua azione, il traditore si trova davanti all’alternativa di Pietro: o accettare il perdono o pagare la propria colpa. Sceglie la seconda!

Giuda ha sbagliato e paga! In lui vediamo una dignità. È però “diabolica”: lo divide dalla vita e lo porta alla morte. Ignora un’altra dignità, ben più grande: quella di vivere dell’amore gratuito di

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Dio.Il vangelo è salvezza; e la salvezza suppone la perdizione. La “buona notizia” è che la nostra

colpa non va espiata: in essa e per essa ci è accordata la grazia di un amore senza condizioni.Il suicidio è l’ultimo atto che manifesta quel male che è in tutti: l’autogiustificazione. Giuda è

sconvolto da ciò che ha fatto: ha tradito il Signore. Ma anche il Signore è sconvolto: colui per il quale dà la vita, se la toglie. Il dramma di Giuda tocca la profondità dell’uomo e l’abisso di Dio. Ci chiediamo, con inquietudine, se il traditore si sia salvato, cosa Dio sia riuscito a fare con lui. In lui vediamo noi stessi!

La dannazione è accusarsi ed espiare, senza uscire da se stessi. Chi guarda solo a sé, vede necessariamente l’inferno! Solo davanti a un amore assoluto per noi possiamo riconoscere il peccato come luogo di grazia. È l’uscita dall’inferno.

Il vero peccato di Giuda non fu di aver tradito, ma di voler pagare il suo errore. Non il suo errore, ma il suo volerlo espiare è il suo male peggiore. Espiare la colpa e non accettare il perdono, è il peccato radicale di chi resta centrato su se stesso; è il male del mondo, di cui ognuno di noi ha la sua quota di partecipazione. Consiste nel rifiuto di essere amati gratuitamente, principio di ogni violenza su di sé e sugli altri. Tale rifiuto è dovuto alla menzogna, antica e omicida, che ci ha dipinto un Dio giusto e tremendo, da cui fuggire. Questa menzogna ha ucciso in noi il Padre e noi stessi come figli, falsando ogni rapporto con i fratelli. Solo la croce ridona a Dio il suo vero volto di Padre e a noi il nostro di figli: sdemonizza Dio e uomo!

La morte di Giuda, descritta come la fine dell’empio, è la stessa di Achitofel che tradì Davide (2Sam 17,23). In At 1,18 è rappresentata come un precipitare e uno spaccarsi in due (cf. Sap 4,19) – immagine potente di ciò che Giuda ha vissuto.

Il brano presenta Gesù consegnato a Pilato perché lo condanni a morte (vv. 1-2). Giuda, preso da rimorso, restituisce il denaro e si impicca (vv. 3-5). Il prezzo del sangue innocente serve per acquistare un campo, dove gli stranieri trovino riposo nella terra promessa (vv. 6-10). C’è un grande mistero in questo racconto: nella prima parte, la condanna a morte di Gesù provoca in Giuda il gesto che lo porta al sepolcro; nella seconda parte, il prezzo del suo tradimento dà riposo nella terra promessa a tutti, almeno dopo la morte, anche agli stranieri.

Gesù è l’innocente consegnato a morte da tutti. Fatto maledizione e peccato (Gal 3,13; 2Cor 5,21), trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità, porta su di sé il peccato delle moltitudini e intercede per i peccatori (Is 53,5.12).

La Chiesa riconosce in sé il peccato di Giuda, e, davanti alla morte del Giusto, accetta di vivere del suo perdono.

2. Lettura del testo

v. 1: Ora, fattasi mattina. La riunione notturna è stata un’istruttoria informale. È illecito giudicare nella notte! Al mattino si esegue la decisione maturata nella notte.

v. 2: legato, lo portarono e consegnarono a Pilato. Gesù è legato, portato e consegnato. Il corpo del Figlio, dono del Padre ai fratelli, passa da una mano all’altra. Solo a Pilato, il governatore pagano, è riconosciuto il diritto di uccidere. E lo farà, portando a compimento ciò che tutti vogliono. Il peccato e la grazia ci accomuna tutti, senza distinzioni.

v. 3: Giuda, che l’aveva consegnato. Ora si segue la vicenda di Giuda, il discepolo che per primo ha consegnato il dono ricevuto.

visto che era stato condannato. Giuda non voleva la morte di Gesù; o, almeno ora, non la vuole più. Si aspettava, forse come Pietro, una fine diversa? Oppure, vedendo il male che ha fatto, vorrebbe non averlo compiuto? Chi fa il male si accorge - sempre dopo!- che non era proprio ciò che voleva.

preso da rimorso. Giuda sente rimorso e angoscia per la sua azione. Il senso di colpa lo invade e lo risucchia. Guarda a sé e al proprio errore; non vede ancora il Signore in croce e il suo amore. Non è con-vertito a lui che perdona, ma per-vertito al proprio male che non perdona. Il

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divisore diventa accusatore. Il diavolo si chiama anche satana: divide dal bene e accusa del male, inchiodando ad esso il colpevole.

Il pianto amaro di Pietro può avere come esito anche il gesto di Giuda. Prima della croce non possiamo ancora guardare a colui che abbiamo trafitto e riceverne lo Spirito di grazia e di consolazione (cf. Zc 12,10; Gv 19,37).

Il senso di colpa è necessario per chi fa il male: gli fa capire che si è fatto del male! Diventa però una trappola mortale per chi non ne esce mediante l’accettazione del perdono.

riportò le trenta monete d’argento. Il guadagno del peccato, una volta consumato, è spregevole, anche agli occhi di chi lo compie. All’illusione di un bene promesso, segue la delusione e la disperazione dell’inganno scoperto.

v. 4: peccai. Giuda confessa il suo peccato: ha versato sangue innocente, come Caino, e i fratelli di Giuseppe. Riconosce che la sua violenza, ingiusta, è pagata dal Giusto. Pentirsi del male, sentire rimorso, riparare e confessare il peccato non basta. Da qui si apre una duplice strada: quella dell’espiazione, che porta alla morte, o quella del perdono, che porta alla salvezza.

che ce ne importa? Te la vedrai tu. Invece che all’innocente che perdona, Giuda si volge a sé e a quelli che sono come lui. Tra i peccatori c’è solidarietà, ma solo nel seminare il male. Quando se ne raccoglie il frutto amaro, ognuno è tremendamente solo: è consegnato alla propria coscienza, aguzzino che non perdona. Non gli resta che la morte nel cuore, fino a quando non si volge a colui che ha trafitto. Tra poco anche Giuda lo vedrà, quando sarà sceso con lui negli inferi.

v. 5: gettate le monete d’argento nel tempio. Queste monete sono le protagoniste del brano: sanguinoso stipendio del peccato, sono anche prezzo del riscatto, del quale si darà un’elaborata interpretazione (cf. vv. 6-10).

allontanatosi si impiccò. Giuda, solo con la sua colpa, non ha altra via che l’espiazione. Ci sono tanti modi di “suicidarsi”, quanti sono i mali che facciamo a noi o agli altri. Se ne può uscire solo passando dall’espiazione nostra al perdono dell’altro. Allora, invece di allontanarci, ci avviciniamo, anche se “da lontano” (cf. 26,58; 27,55), a colui che è sempre con noi, fino a diventare per noi peccato, colpa ed espiazione.

v. 6: non è lecito, ecc. Anche nei Lager c’erano aguzzini crudeli che non avrebbero tollerato un torto contro un cane. L’ingiustizia somma può convivere con barlumi di coscienza delicata. Un residuo di pietà emerge anche nel dilagare dell’empietà. In genere serve però solo da copertura.

v. 7: comperarono con esse il Campo del vasaio per la sepoltura degli stranieri. Geremia comperò un campo, come segno del ritorno dall’esilio nella terra promessa (Ger 32,1ss). Lo stesso profeta aveva parlato del “vasaio”, che rimpasta i vasi mal riusciti (Ger 18,1ss). Il prezzo del sangue dà riposo nella “terra” anche agli estranei. Anche loro, come Abramo, hanno finalmente un pezzo di terra promessa (cf. Gen 23), dove seminare il loro corpo. Ora non sono più stranieri. Il sangue del Figlio innocente fa cadere il muro di inimicizia che separava i fratelli: rimpasta e fa nuovi tutti i suoi fratelli, ridotti in cocci. In lui tutti possiamo presentarci al Padre con un solo Spirito, facendo parte della sua famiglia (Ef 2,13-22).

v. 8: Campo del sangue. Il “Campo del vasaio” diventerà “Campo del sangue”: il campo di tutti i vasi infranti dalle loro colpe, diventerà il campo del sangue innocente, dove il Signore rifà tutto nuovo, e ognuno ritrova, almeno nella sua morte, la benedizione della terra promessa.

v. 9: ciò che fu detto per mezzo del profeta Geremia. In realtà la citazione che segue è da Zc 11,13. Matteo parla di Geremia per alludere indirettamente a quanto lui disse sull’acquisto del campo e sul vasaio.

presero le trenta monete d’argento, prezzo del venduto, ecc. (Zc 11,13). Zaccaria 11-14, con i Cantici del Servo, fa da sottofondo al racconto della passione. Il profeta, deluso della sua missione di pastore, dice al popolo: “Non sarò più il vostro pastore. Chi vuol morire muoia; chi vuol perire, perisca; quelli che rimangono si divorino pure tra di loro” (Zc 11,9). E, dopo questo autolicenziamento, chiede la sua “paga” di profeta, che il Signore gli ordina di gettare nel tempio: si tratta di trenta pezzi d’argento (Zc 11,12s). Il testo di Zaccaria parla della rottura dell’alleanza con tutti i popoli (Zc 11,10), che si sono riuniti contro il Messia. Il prezzo del suo sangue procurerà a tutti la terra promessa, ristabilendo la nuova alleanza per tutti (26,28).

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v. 10: come mi ordinò il Signore. È un’allusione a Es 9,12 (LXX), dove si parla dell’indurimento del Faraone, che porterà Israele alla Pasqua e all’Esodo. Con queste diverse allusioni scritturistiche, Matteo elabora una teologia del “prezzo del sangue” come salvezza e speranza per tutti.

3. Pregare il testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando la solitudine di Giuda.c. Chiedo ciò che voglio: riconoscere il mio peccato che consiste nel voler pagare per il mio

errore invece di accettare il perdono.d. Traendone frutto, contemplo la scena.

Da notare:

fattasi mattina, Gesù è giudicato Gesù legato, portato e consegnato Giuda preso da rimorso ho peccato che ce ne importa? Te la vedrai tu getta le monete nel tempio si allontana e si impicca cosa si fa con il prezzo del sangue l’acquisto del “Campo” del “vasaio”.

4. Testi utili

Sal 55; Ger 32,1ss; 18,1ss; Zc 11-14; Gal 3,13; 2Cor 5,21; Ef 2,13-22.

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109. TU LO DICI27, 11-26

27,11 Ora Gesù stette davanti al governatoree lo interrogò il governatoredicendo:

Tu sei il re dei giudei?Ora Gesù disse:

Tu lo dici!12 E, accusato dai sommi sacerdoti e anziani,

non rispose nulla.13 Allora gli dice Pilato:

Non senti quante cose testimoniano contro di te?14 E non gli rispose neppure una parola,

così che il governatore si meravigliava grandemente.15 Ora, per la festa, il governatore soleva

liberare alla folla un prigioniero,quello che volevano.

16 Avevano allora un prigioniero famoso,chiamato (Gesù) Barabba.

17 Ora, essendo essi riuniti, disse loro Pilato:

Chi volete che vi liberi:Barabba o Gesù, chiamato il Cristo?

18 Sapeva infatti che per invidiaglielo avevano consegnato.

19 Ora, seduto lui in tribunale,sua moglie gli inviò uno per dirgli:

Non ci sia nulla tra te e quel giusto;poiché oggi soffrii molto in sogno a causa sua!

20 Ora i sommi sacerdoti e gli anziani persuasero le folleperché chiedessero Barabba,e facessero invece morire Gesù.

21 Ora rispondendo il governatore disse loro:

Chi dei due volete che vi liberi?Ora essi dissero:

Barabba!22 Dice loro Pilato:

Che farò dunque di Gesù, chiamato il Cristo?Dicono tutti:

Sia crocifisso!23 Egli disse:

Che fece dunque di male?Essi ancora più gridavano dicendo:

Sia crocifisso!24 Ora, vedendo Pilato che non giovava nulla,

ma il tumulto diventava maggiore,presa dell’acqua,si lavò le mani davanti alla folla,

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dicendo:Sono innocente del sangue di costui!Ve la vedrete voi.

25 E rispondendo tutto il popolo disse:

Il suo sangue su di noie sui nostri figli!

26 Allora liberò loro Barabba;Gesù invece, flagellatolo, lo consegnòperché fosse crocifisso.

1. Messaggio nel contesto

“Tu lo dici”, risponde Gesù a Pilato che gli chiede: “Tu sei il re dei giudei?”. Dopo il processo religioso, Gesù subisce quello politico. Afferma di essere re, sapendo che questo implica la condanna a morte. Ora può manifestare senza equivoci la sua regalità.

Il re rappresenta Dio in terra. Libero e sovrano come lui, è l’uomo ideale, ideale di ogni uomo: può fare ciò che vuole. Ma Dio si è appena rivelato nel Figlio che si fa servo dei fratelli. Questa è la sua libertà, che mette in crisi la nostra immagine di lui e di noi.

Per noi il re è colui che prevale sugli altri: è il più violento che, uccisi i concorrenti, si impone a tutti col terrore. Una volta preso il potere, domina contenendo la violenza con la legge del più forte. Così garantisce la convivenza, impedendo il dissolversi della società. Quando però il re diventa debole o muore, riprende il caos e la lotta generale, fino a che emerge uno più forte che lo elimina, se è debole, o gli succede, se è morto. Re è colui che vince, facendo del concorrente “la vittima”. Ma a sua volta è “vittima designata”, quando il suo potere si indebolisce.

Pilato si chiede chi sia quest’uomo che si proclama re mentre è vinto e legato, debole e consegnato, già destinato alla morte. Re è chi ha in mano tutto e tutti: chi è questo re che ha niente ed è nelle mani di tutti?

Dio non voleva che Israele avesse un re come gli altri popoli. Lui stesso è il loro re, e vuole un popolo di fratelli, libero dalla violenza e dal dominio dell’uno sull’altro (cf. 1Sam 8,1ss; Gdc 9,7-15). Gesù è il re promesso come successore a Davide (2Sam 7,1ss), colui che viene nel nome del Signore, proprio perché viene con l’asina (21,9): è uno che non asserve, ma serve; non domina, ma dona; non tiene in mano, ma si mette in mano; non toglie, ma dà la vita. Non è l’uomo più arrogante e violento, ma il più umile e mite di tutti. Il suo è il regno del Figlio, che ama i fratelli come è amato dal Padre, e restituisce a ciascuno la propria libertà, che è la sua dignità di immagine di Dio.

Se Gesù avesse preso il potere, avrebbe confermato il gioco di oppressione e avrebbe “santificato” la violenza. Il suo invece è il regno di Dio: non è di questo mondo (Gv 18,36)! Lui è venuto in questo mondo per essere re e testimoniare la verità che fa liberi (Gv 18,36s; 8,32), smascherando l’inganno che rende schiavi: la falsa immagine di un Dio geloso e violento, al quale l’uomo vuol rendersi simile.

Dopo venti secoli, il suo modo di essere re inquieta ancora: mina alla radice ogni volontà di dominio dell’uomo sull’uomo.

Gesù è re di tutti proprio perché fatto oggetto della violenza di tutti, dai discepoli alla folla, dai capi religiosi a quelli politici, dai giudei ai pagani. Davanti a Pilato non solo afferma la propria regalità: la esercita effettivamente, portando la sua salvezza proprio mentre è condannato a morte. La sua uccisione, opera della volontà di tutti, dona la vita a Barabba, nel quale ognuno si identifica. La morte dell’innocente è la salvezza dei fratelli che lo condannano!

È una scena di piazza, molto mossa e drammatica: è la piazza del mondo, in cui religiosi, politici, delinquenti e folla fanno insieme lo stesso gioco di violenza. Al centro, da solo, sta il re vero, del quale tutti gridano: “Sia crocifisso!”.

Il brano si articola in tre parti: la regalità di Gesù e il suo silenzio (vv.11-14), il tentativo di salvarlo da parte di Pilato (vv. 15-19) e, infine, il grande baratto: la morte ingiusta del Giusto libera l’ingiusto dalla sua giusta morte (vv.20-26).

Gesù è il re che ridà all’uomo la sua verità di immagine di Dio: la libertà di amare.

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La Chiesa riconosce in lui, il più piccolo tra gli uomini, il suo re che viene a giudicare il mondo. E vive di questo giudizio, che rompe la catena di violenza e testimonia nella fraternità il regno del Figlio perfetto come il Padre. L’impegno politico del credente dovrebbe portare avanti nella storia la libertà che il Figlio ci ha donato.

2. Lettura del testo

v. 11: Gesù stette davanti al governatore. È il faccia a faccia tra il potere di Dio e quello dell’uomo, tra il rappresentante dell’imperatore romano che domina il mondo e il Signore che viene a salvarlo.

tu sei il re dei giudei? Già i Magi avevano turbato Gerusalemme cercando il re dei giudei (2,3).

tu lo dici. Gesù conferma di essere re. Chiaramente non come ritiene Pilato. La sua regalità non è come quella dell’imperatore, né si oppone ad essa come concorrente; è invece la sua contraddizione radicale. Non lotta per avere la stessa cosa, ma vuole semplicemente altro. Propone qualcosa di ignoto ai re di questo mondo: invece di dominare, spadroneggiare e dare la morte, propone di liberare, servire e dare la vita (20,25-28). Il vero re, l’uomo pienamente realizzato a immagine di Dio, è la negazione di quanto pensiamo. Il dio e il re, che noi immaginiamo, sono una semplice per-versione mortale di ciò che Dio è e noi siamo.

v. 12: non rispose nulla. Alle accuse Gesù non risponde nulla. Se l’accusato risponde e mostra la sua innocenza, chi accusa deve subire la pena corrispondente all’accusa che ha fatto.

v. 13: non senti quante cose, ecc. Noi sentiamo l’aggressione del male e ce ne difendiamo con forza. Gesù invece è come un sordo, che non sente (Sal 38,14s).

v. 14: non gli rispose neppure una parola. Il suo silenzio è la Parola, la grande parola di misericordia che ci salva: invece di accusarci giustamente, subisce l’ingiusta accusa. Gesù è il re, immagine perfetta di Dio, che è tutto e solo bene, senza ombra di male: in lui la nostra violenza non provoca violenza, ma silenzio di compassione.

così che il governatore si meravigliava grandemente. Il potere del mondo è ridotto a stupito silenzio dal silenzio di Dio.

v. 15: per la festa, ecc. Nella festa di pasqua, ricordo della liberazione dall’Egitto, il governatore soleva far grazia a un prigioniero, su richiesta del popolo.

v. 16: un prigioniero famoso, chiamato (Gesù) Barabba. È un ribelle e omicida, che aveva tentato una sommossa contro i romani, ma senza successo (Mc 15,7; Lc 23,19). Aveva cercato di fare il gioco dei potenti, ma è stato vinto. I banditi sono dei re falliti, e i re dei banditi riusciti! Ora si trova legato, in carcere, in attesa di subire la morte violenta che ha tentato di dare ad altri.

Barabba significa “figlio del Padre” (bar abbà). È il nome che si dà a coloro dei quali si ignora la paternità. Barabba, figlio di nessuno e fratello di nessuno, e per questo ribelle ed omicida, vive aspettando la sua esecuzione. La sua situazione è metafora della condizione umana: tutti ignoriamo il Padre, non siamo né figli né fratelli, ma siamo in lotta gli uni con gli altri, in attesa di finire come avremmo voluto che finisse l’altro.

v. 17: Barabba o Gesù? Gesù è Dio-salva, Barabba l’uomo perduto. A chi la libertà e a chi la morte? È l’alternativa “teologica”: o lui o Barabba.

Pilato spera maldestramente di salvare Gesù, perché sa che è innocente. Ma non ha ancora capito che è il Giusto che porta l’ingiustizia.

v. 18: per invidia. Per invidia del diavolo entrò la morte nel mondo (Sap 2,24): per invidia Adamo “uccise” il Padre e se stesso come figlio, per invidia Caino eliminò Abele, per invidia i fratelli vendettero Giuseppe, ecc. L’invidia sta all’origine e forma il tessuto connettivo della nostra storia. Invece di gioire del bene l’uno dell’altro, ne facciamo l’oggetto di possesso, da conservare o da bramare, da difendere o da rapire. Per invidia il bene, ogni bene, si perverte in male: diventa causa di violenza perpetrata e subita.

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v. 19: sua moglie, ecc. Matteo dà rilievo ai sogni, che manifestano le cose più profonde, per chi li sa leggere. La moglie di Pilato, a differenza di quella di Erode, vuol salvare l’innocente. Comunque il potente, al di là di ogni consiglio, buono o cattivo, non può salvare il giusto. Giocato dal suo gioco, non può che dare la morte, anche controvoglia. Infatti “deve” eseguire la volontà di tutti quelli che lo riconoscono come capo. Se cede, perde il suo potere e diventa lui stesso vittima. Può usare mitezza solo quando è tanto forte da permettersela, e farsi così chiamare anche benefattore (Lc 22,25)!

v. 20: persuasero le folle. La salvezza di Barabba e l’uccisione di Gesù è opera di tutti, volenti o nolenti, persuasori e persuasi. Tutti, grandi e piccoli, giudei e pagani, discepoli ed estranei, giochiamo allo stesso gioco.

v. 21: chi dei due volete che vi liberi? È Barabba che ha bisogno di essere liberato, perché schiavo della violenza. Gesù ne è libero!

Barabba. La folla vuole liberare Barabba, perché si rispecchia in lui. La volontà delle folle è la stessa del Signore, che vuole la nostra libertà. Tutti ci siamo alleati contro il Signore e il suo Cristo, per compiere ciò che il suo cuore aveva preordinato che avvenisse (cf. At 4,28).

v. 22: che farò dunque di Gesù? È il dialogo drammatico tra il potente e i suoi sudditi. Cosa può fare il potere davanti a chi glielo conferisce, se non eseguirne la volontà?

dicono tutti: Sia crocifisso! La condanna a morte è opera delle folle, che rifiutano il potere di Dio. Di un re come Gesù, nessuno sa che farsene. Il suo modello di uomo è il violento, riuscito o fallito. Quando è fallito, è un po’ più simpatico: è come tutti! Anche Pilato corre il pericolo di fallire se non obbedisce.

Come “tutti”, nel sinedrio, condannano il Signore per bestemmia, ora “tutti”, in piazza, condannano il re che testimonia la verità. Ognuno è chiamato a distinguere la propria voce nel grido unanime della folla.

v. 23: che fece dunque di male? Gesù è innocente.sia crocifisso! Per questo “deve” portare su di sé la nostra ingiustizia. Il capro espiatorio è

sempre innocente: anche se prima non lo era, lo diventa quando non è più in grado di nuocere! In quanto innocente ucciso, Gesù ci libera. Se volesse essere come noi, ci crocifiggerebbe tutti!

v. 24: sono innocente del sangue di costui. Pilato vuole liberare Gesù. Ma il suo potere non ha questo potere. Se lo liberasse, diventerebbe come Gesù. Al di là di ogni pretesa innocenza, il potere non può non nuocere: è autore o vittima di violenza. Non conosce via di uscita, fino a quando non accetta come re proprio colui del quale gridano: “sia crocifisso!”.

v. 25: il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli. Il sangue dell’agnello salvò i figli di Israele la notte di Pasqua (Es 12,13). Il sangue del Messia, versato per tutti, è la nuova alleanza che salva tutti: è il sangue del Figlio, che ci rende consanguinei del Padre e fratelli tra di noi.

v. 26: liberò loro Barabba. Barabba, figlio e fratello di nessuno, legato in carcere e dannato alla morte, per il sangue del Figlio, diventa libero, figlio del Padre.

Gesù invece. È il grande “baratto” che ci salva: Gesù, Figlio del Padre e fratello di tutti, porta su di sé la nostra maledizione di figli e fratelli di nessuno, consegnati alla violenza e alla morte. Lo scambio tra Gesù e Barabba dice narrativamente il significato teologico della croce di Gesù: lui muore per noi, e noi viviamo per lui. È la vera Pasqua. Barabba, come tutti i suoi fratelli, non lo sa. Lo capirà quando si renderà conto del fatto.

flagellatolo. È la punizione prima dell’esecuzione: i quaranta colpi meno uno, anticipo della violenza ultima – talora così violenta da essere l’ultima!.

lo consegnò. Il Giusto, per volontà di tutti, è consegnato a morte invece del colpevole.perché fosse crocifisso. Sulla croce, patibolo dello schiavo ribelle, inizia il suo regno: il suo

corpo è dato per noi che ce ne siamo impadroniti, il suo sangue è effuso per noi che l’abbiamo versato.

3. Pregare il testo

a. Entro in preghiera come al solito.

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b. Mi raccolgo immaginando Gesù davanti a Pilato, con la folla ed i capi.c. Chiedo ciò che voglio: riconoscere in Gesù il mio re, il vero volto di Dio e dell’uomo libero.d. Traendone frutto, contemplo Gesù immedesimandomi prima con Pilato, poi con la folla e infine

con Barabba.

Da notare: tu sei il re dei giudei? tu lo dici non rispose nulla alle accuse non senti? Barabba chi volete che vi liberi? l’invidia i tentativi inutili di Pilato le folle manovrate perché manovrabili sia crocifisso il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli Gesù flagellato e consegnato a morte.

4. Testi utili

Sal 145. Es 12,1ss, Gdc 9,7-15, 1Sam 8,1ss; Mt 20,25-28; Ap 5, 9-14.

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110. SALVE O RE DEI GIUDEI27, 27-31

27,27 Allora i soldati del governatore,condotto Gesù nel pretorio,riunirono su di lui tutta la coorte.

28 E, spogliato, lo avvolseroin un manto scarlatto.

29 e, intrecciata una corona di spine,la posero sul capo di lui,e una canna nella destra di lui,e, inginocchiandosi davanti a lui,lo beffeggiavano dicendo:

Salve, o re dei giudei!30 E, sputandogli,

presero la cannae percuotevano il capo di lui.

31 E, quando lo ebbero beffeggiato,lo spogliarono del mantoe lo rivestirono delle vesti di luie lo portarono viaper crocifiggerlo.

1. Messaggio nel contesto

“Salve, o re dei giudei”. È l’incoronazione del più piccolo tra gli uomini: è il re! Dopo la proclamazione pubblica, viene l’incoronazione nel palazzo; seguirà il corteo trionfale e l’intronizzazione davanti al popolo. Il cerimoniale di corte per il nuovo re è rispettato con rigore: la sua proclamazione è la condanna a morte, la sua incoronazione è di spine, il suo trionfo è la via crucis e il suo trono sarà la croce. Da lì compirà il suo giudizio: mentre i re di questo mondo fanno scannare davanti al trono i loro nemici e premiano gli amici, lui vincerà ogni inimicizia, premiando i nemici della sua amicizia.

D’ora in poi il vangelo sembra una cattiva burla. Per chi, come Pietro, ha gli occhi purificati, è rivelazione della verità. Il nostro modo di essere re è una beffa - una tragica beffa! -, che distrugge l'uomo. Il suo modo di essere re è invece la verità che ci fa liberi. Nel Figlio dell’uomo, consegnato nelle mani degli uomini, si consuma e finisce il gioco cattivo al quale, per inganno, tutti giochiamo, e dal quale siamo mortalmente giocati.

Alla fine di questa scena Pilato dirà: “Ecce homo!” (Gv 19,5), per dire poco dopo: “Ecco il vostro re!” (Gv 19,14). Ecco l’uomo, ecco il re: ecco come l’uomo, con la sua idea perversa di sé e del re, riduce l’uomo, al di là di ogni apparenza.

L’“Ecce homo” è “lo specchio della verità”: riflette il volto dell’uomo, pervertito nella sua cattiveria, ma anche quello di Dio, svelato nella sua bontà. “Ecce homo”: ecco l’uomo nella sua disumanità! Ma anche “Ecce Deus”: ecco Dio nella sua umanità, carico della nostra disumanità!

È una pagina potente di “filosofia della storia”: con brevi tratti, fa vedere ciò che noi facciamo dell’uomo e di Dio. È rivelazione di una gloria ignota ai potenti, di una sapienza sottratta ai sapienti; si manifesta solo ai piccoli e nei piccoli, anzi nel più piccolo tra i nostri fratelli. Ed è scritta non su pagine, con inchiostro; ma sulla carne del Figlio dell’uomo, con i segni della nostra violenza.

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Gesù, appena condotto nel pretorio, non ha più nome: “il Nome” si perde, per restituire a noi il nostro vero nome. Il nome di Gesù uscirà ormai solo nel titolo della croce, nel grido di abbandono e nel dono dello Spirito (vv. 37.46.50). Al suo posto c’è il pronome; ma non come soggetto, bensì come oggetto. Per ben quattordici volte in questa scena si ripete: “lo, gli, di lui”. Il pro-nome sta al posto di ogni nome: l’“Ecce homo” ha il nome di tutti gli uomini, diventato puro oggetto della loro violenza di morte. Dopo la sua “sostituzione” con Barabba, il Figlio ha il nome dei suoi fratelli, tutti senza nome, perché figli e fratelli di nessuno.

Attori della scena sono i soldati. Per mestiere esercitano - “legalmente”! - la violenza, che è nel cuore di ciascuno di noi; ora, rappresentano, in un “mimo” essenziale ed efficace, l’origine e le conseguenze del potere di dare la morte.

Gesù è veramente re. Ma molto diverso dagli altri, che sono una caricatura capovolta e terribile di Dio. Regnano infatti con la prepotenza, dando la morte; mentre lui regna portandola su di sé, dando la vita. Il re, che viene per il suo giudizio, è il più piccolo tra i nostri fratelli (cf. 25,31-46).

Una tradizione ebraica racconta che il mondo è retto da colonne che poggiano sul cuore di giusti, dove si raccoglie il sangue e il pianto della terra. Se vengono meno questi giusti, il mondo crolla, affogato nel male che tutti facciamo e nessuno porta. Gesù è “l’ultimo dei giusti”, il non-uomo, l’uomo universale sul quale si riversa ogni disumanità. In lui si raccoglie il male del mondo: è il Servo di Dio e degli uomini, il collettore di ogni impurità, che su di lui ricade.

La contemplazione di questa scena ci fa conoscere chi è Dio e chi è l’uomo a sua immagine - chi è lui e chi siamo noi. Noi, con la nostra violenza, siamo diventati immagine negativa di Dio. Gesù, l’uomo negativo, ci ridà l’immagine positiva di noi e di lui. Contemplando il Figlio dell’uomo beffeggiato, la menzogna, che si prende burla dell’uomo, fa cadere la sua maschera.

Gesù è l’uomo negativo e universale: è l’Agnello di Dio che porta su di sé il male che ogni uomo fa (cf. Gv 1,29). Proprio per questo è re, l’uomo vero che ci salva, restituendoci il volto di Dio.

La Chiesa riconosce in lui il suo Signore e Messia, immagine visibile del Dio invisibile (cf. Col 1,15). Per questo vive con criteri opposti a quelli del mondo. Capisce come è importante “aborrire del tutto, e non in parte, quanto il mondo ama e abbraccia, ed accettare e desiderare quanto nostro Signore ha amato e abbracciato. Come gli uomini mondani, che seguono il mondo, amano e cercano con ogni diligenza onori, fama, alto riconoscimento del proprio valore sulla terra, conformemente agli insegnamenti del mondo, così quelli che camminano nella via dello Spirito e seguono concretamente Cristo nostro Signore, amano e desiderano intensamente il contrario, cioè vestirsi della stessa veste del loro Signore, per l’amore e la riverenza che gli sono dovuti. Cosicché, qualora non vi fosse offesa alcuna nei riguardi di sua divina maestà, se ciò non fosse imputato al prossimo come peccato, desiderano subire ingiurie, false testimonianze, affronti, ed essere ritenuti e stimati pazzi (senza, però, darne alcuna occasione), spinti dal desiderio di rassomigliare e di imitare in qualche misura il nostro Creatore e Signore Gesù Cristo...” (S. Ignazio di Loyola).

Davanti all’“Ecce homo”, o cambiamo i nostri criteri o continuiamo il nostro tragico gioco che ci riduce alla fine tutti come lui! Ma in forza della violenza, non dell’amore. È la fine dell’uomo!

2. Lettura del testo

v. 27: Allora i soldati del governatore. I soldati rappresentano la violenza allo stato puro: si espongono a morte per dare morte. Hanno il potere di uccidere, che conferisce al re il suo dominio sugli altri. Il dominio dell’uomo sull’uomo è frutto ed esercizio di violenza fatta e subita.

nel pretorio. È il luogo dove sta la guarnigione militare e si esegue la “giustizia”. In questo palazzo si svolge l’incoronazione del re. È il luogo più adatto: soldati e tribunale, violenza e legge sono “la famiglia” del re, la “casa” del potere di morte.

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riunirono su di lui tutta la coorte. Al centro della violenza c’è l’innocente. È la prima legge fondamentale della storia: il male sta addosso a chi non lo compie.

v. 28: spogliato. La sua nudità è opera della nostra spogliazione. “Re nudo”: il Figlio dell’uomo è rivestito della nudità di Adamo che “uccise” il Padre, di Caino che elimina Abele, di ogni uomo che scambia il proprio valere con il prevalere.

lo avvolsero in un manto scarlatto. È la vestizione del re. Il suo manto, di porpora, è l’abito di sangue che viene dalla spogliazione dei fratelli. Il vestito dei potenti è la prepotenza, che aderisce come un vestito al loro corpo piagato.

v. 29: intrecciata una corona. La corona è segno di gloria: l’aureola d’oro e di luce, che si diffonde dal capo del re, riverbero di quello di Dio. Ma di quale dio?

di spine. Il Signore voleva che nessuno dominasse su Israele (1Sam 8,1ss). Ogni uomo è figlio e ha la gloria del Padre: la libertà! Rinunciare a questa è disprezzare Dio e abdicare alla propria verità. Cos’è la gloria dei potenti, se non l’ignominia di chi è sottomesso in schiavitù? In Giudici 9,7-15, quando gli alberi della foresta si misero in cammino per cercare uno che regnasse su di loro, l’ulivo, il fico e la vite rifiutarono. Solo il rovo accettò dicendo: “Se in verità mi ungete re su di voi, venite, rifugiatevi alla mia ombra; se no esca un fuoco dal rovo e divori i cedri del Libano” (Gdc 9,15).

la posero sul capo di lui. Gloria dell’Ecce homo è ombra di spine e fuoco di rovo: l’ignominia devastante della nostra violenza. “Il suo volto è sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto”, “non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto” (Is 52,14; 53,2). Trasfigurato dalla nostra sfigurazione, sua bellezza è la nostra bruttezza, suo splendore la nostra tenebra.

una canna nella destra di lui. La canna è lo scettro del comando. Lo scettro è un bastone, prolungamento della mano, che raggiunge ciò che non è a portata di mano. Il potere di chi ha lo scettro non è agire, ma far agire gli altri a suo servizio: chi “co-manda” – scimmia di Dio! - manda-insieme gli altri verso l’ombra e il rogo delle spine. Il bastone è il suo “tele-comando”, che agisce a distanza, mediante il terrore dei suoi colpi. Riproducendo le brutte immagini di una testa malata – le immagini, oggi lo sappiamo, diventano realtà - asserve tutti, privandoli della loro gloria.

Questa canna percuote il capo coronato di spine (v. 30b). Cos’è il comando del più forte se non una percossa sul capo, sull’intelligenza e la volontà del suddito? Questi riconosce come suo capo chi lo “decapita”, chi lo priva del suo capo!

inginocchiandosi davanti a lui. È la prostrazione: il suddito offre al re la nuca, riconoscendo padrone della sua vita chi, invece di dargli la morte, lo grazia, per ora, dalla disgrazia di cui lo minaccia! Questa commedia davanti a Gesù svela la tragedia del potere, mostrando “di che lacrime grondi e di che sangue”.

lo beffeggiano. Beffeggiare, prendere in giro, trattare da scemo: ecco in sintesi qual è l’atteggiamento dell’uomo davanti al suo vero volto! L’atroce farsa, alla quale noi tutti giochiamo, finisce contro il Figlio dell’uomo, che ci rivela la nostra stupidità e la sua gloria. Lui infatti non agisce come noi: “non può”, perché è buono e amante della vita (Sap 11,26); per questo “deve” subire ciò che noi facciamo. Questa è la sua forza, in cui si arresta lo stupido e crudele gioco della nostra incoscienza.

salve, o re dei giudei. È l’acclamazione festosa di chi ha trovato ciò che desidera. Il re è colui che tutti vorremmo essere, e che tutti abbiamo a capo.

Cos’è il plauso, in un rapporto di sudditanza, se non una reciproca e inconsapevole presa in giro?

v. 30: sputandogli. Dopo la prostrazione e l’acclamazione a colui che è adornato delle insegne di capo, segue il bacio di adorazione. Adorare significa baciare, portare alla bocca (ad-orare) l’oggetto del proprio desiderio, quasi un mangiarlo e introiettarlo. Qui il bacio è sputo di disprezzo. E cos’è ciò che noi desideriamo, se non ciò che è spregevole?

presero la canna e percuotevano il capo di lui. Alla fine si manifesta a cosa serve lo scettro: percuotere il capo di chi non si piega. I soldati eseguono il comando implicito a ogni potere: far

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violenza all’innocente. “Innocente” è colui che non nuoce. Chi nuoce, è pericoloso; chi nuoce più di tutti, diventa re. Se il re ha il potere di dare la morte, l’innocente ha quello di riceverla!

v. 31: quando lo ebbero beffeggiato. È il commento dell’autore davanti alla commedia umana e divina dell’“Ecce homo”. Quanto i servi del potere eseguono è una beffa: la beffa che ci beffa tutti, padroni e servi, signori e schiavi.

Il racconto mostra la gratuità e stupidità del male: è brutto, e senza alcun vantaggio, per nessuno!

lo spogliarono. Per la seconda volta è spogliato; prima della sua, ora della nostra veste.lo rivestirono delle vesti di lui. Sono quelle del Figlio, che ai piedi della croce lascerà in

eredità ai fratelli che lo crocifiggono (v. 35).lo portarono via per crocifiggerlo. Dopo l’incoronazione nel palazzo, tra i familiari, segue

il corteo tra la folla che lo porta all’intronizzazione. Il suo trono sarà sul Calvario, davanti alle porte della città.

3. Pregare il testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando il cortile del pretorio con i soldati e Gesù in mezzo.

c. Chiedo ciò che voglio: vedere il Signore della gloria e amare la sua gloria.d. Traendone frutto, contemplo la scena.

Da notare:

i soldati nel pretorio tutta la coorte su di lui lo spogliano lo avvolgono nel manto di porpora una corona di spine sul capo di lui una canna nella destra di lui si inginocchiano davanti a lui lo beffeggiano lo coprono di sputi con la canna percuotono il capo di lui lo spogliano del manto lo rivestono delle vesti di lui lo portano via per crocifiggerlo.

4. Testi utili

Sal 67; 96; Gdc 9,7-15; 1Sam 8,1ss; Sap 2,1ss; Is 52,13-53,12; Col 1,13-20.

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111. VERAMENTE FIGLIO DI DIO ERA COSTUI27, 32-56

27,32 Ora, uscendo, trovarono un uomo di Cirene di nome Simone,e lo costrinsero a portare la croce di lui.

33 Giunti a un luogo chiamato Golgota,che è chiamato luogo del cranio,

34 gli diedero da bere vino mescolato con fiele,e, assaggiatolo, non ne volle bere.

35 Ora, avendolo crocifisso,si divisero le sue vesti,gettando la sorte,

36 e, seduti, stavano lì a custodirlo.

37 E avevano posto sopra il suo capola scritta della sua condanna:Questi è Gesù, il re dei giudei.

38 Allora vengono crocifissi con lui due ladroni,uno a destra e l’altro a sinistra.

39 Ora i passanti lo bestemmiavano,scuotendo i loro capi

40 e dicendo:

Tu, che distruggi il tempioe in tre giorni lo ricostruisci,salva te stesso,se sei Figlio di Dio, e scendi dalla croce!

41 Similmente anche i sommi sacerdoti,beffeggiandolo con gli scribi e gli anziani,dicevano:

42 Altri salvò,non può salvare se stesso!È re d’Israele:scenda ora dalla crocee crederemo in lui.

43 Confidò in Dio: lo liberi ora, se lo vuole.

Ha detto infatti:Sono Figlio di Dio!

44 Ora parimenti i ladroni,crocifissi con lui,lo insultavano.

45 Dall’ora sesta ci fu tenebra su tutta la terrafino all’ora nona.

46 Ora, verso l’ora nona, gridò in alto Gesù a gran voce,dicendo:

Dio mio, Dio mio,perché mi hai abbandonato?

47 Ora alcuni di quelli che stavano lì,avendo ascoltato, dicevano:

Costui chiama Elia.48 E subito corse uno di loro

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e, presa una spugna imbevuta di acetoe postala attorno a una canna,gli dava da bere.

49 Ora gli altri dicevano:

Lascia, vediamo se viene Elia a salvarlo!50 Ora, Gesù, avendo di nuovo gridato a gran voce,

emise lo Spirito.51 Ed ecco il velo del tempio si squarciò

in due, dall’alto verso il basso,e la terra si scosse,e le pietre si spaccarono

52 e i sepolcri si aprironoe molti corpi dei santi dormienti risuscitarono,

53 e, usciti dai sepolcri dopo la sua risurrezioneentrarono nella città santae apparvero a molti.

54 Ora, il centurione e quelli con lui che custodivano Gesù,

visto il terremoto e le cose accadute,furono molto spaventati, dicendo:

Veramente Figlio di Dio era costui!55 C’erano poi lì a guardare da lontano molte donne,

che avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo.56 Fra loro c’era Maria la Maddalena

e Maria madre di Giacomo e Giuseppee la madre dei figli di Zebedeo.

1. Messaggio nel contesto

“Veramente Figlio di Dio era costui!”, esclama ai piedi della croce il centurione con i suoi compagni. È il grande mistero della rivelazione di Dio e della salvezza dell’uomo.

La scena è chiamata da Luca “theoria” (Lc 23,48): sulla croce Dio entra in scena, per la prima volta si fa vedere al mondo. “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, conoscerete Io-Sono”, YHWH (Gv 8,28). Dio è conosciuto nel Figlio dell’uomo elevato sul patibolo del nostro male!

L’umanità di Gesù, il Figlio che dona il suo corpo e il suo Spirito ai fratelli, è la manifestazione di Dio -“la carne” che lo rivela a salvezza di ogni carne. Solo qui conosciamo chi è lui: dal più grande al più piccolo, vediamo che lui amore per noi (cf. Ger 31,34).

Squarciato dalla nostra violenza, cade il velo che nasconde Dio; e cessa finalmente l’ignoranza che ci fece fuggire da lui. La croce, distanza infinita tra la sua realtà e le nostre immaginazioni su di lui, annulla l’immagine diabolica di Dio: ritroviamo finalmente, nel Figlio crocifisso, il volto del Padre, e il nostro di figli. Nel Crocifisso abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, sono contenuti tutti i tesori della sua sapienza (Col 2,9.3). Paolo afferma di non conoscere altro se non Gesù Cristo, e questi crocifisso (1Cor 2,2). La croce è la sapienza di Dio che vince e convince di stoltezza la sapienza dei sapienti, è la potenza che riduce al nulla ogni potere di morte (cf. 1Cor 1,18-31). In essa vediamo ciò che occhio umano mai non vide (1Cor 2,6-9): la passione di Dio per il mondo.

Sulla croce il male raggiunge la sua massima espressione: uccide l’autore della vita. E Dio, sommo bene, si esprime totalmente: dà se stesso a noi che lo crocifiggiamo. Questo è il suo giudizio, che rivela lui e salva noi! La caduta dell’uomo tocca il fondo senza fondo dell’abisso di Dio, il quale in esso rivela la sua gloria.

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Il racconto inizia con il Cireneo: costretto a portare la croce, rappresenta coloro nei quali ancora contempliamo il Crocifisso, che è sempre con noi a nostra salvezza (v. 32). Segue la crocifissione e l’affissione del titolo di condanna (vv. 33-38). Attorno alla croce si svolgono le varie interpretazioni, che vanno dalla bestemmia alla derisione e all’insulto (vv. 39-44). La morte di Gesù è presentata come le tenebre d’Egitto e il caos originario, principio rispettivamente dell’esodo e della creazione. Nel buio meridiano si elevano due forti gridi dal Figlio: nel primo si rivolge al Padre e nel secondo emette il suo Spirito (vv. 45-50). È lo Spirito di Dio, datore di vita, che ricrea il mondo nuovo, non più sottoposto alla morte (vv. 51-53). Il centurione, e quanti sono con lui, fanno la prima professione di fede: riconoscono in colui che hanno crocifisso il Signore (v. 54). La scena, che si apre con il Cireneo, si chiude con le donne ai piedi della croce. Queste rappresentano l’umanità nuova, che contempla il suo Signore crocifisso, lo segue e lo serve: sono il profumo di Cristo (cf. 2Cor 2,14s), che comincia a effondersi per il mondo (vv. 55-56).

Gesù è il Figlio di Dio, perfetto come il Padre perché dà la vita per i fratelli: fa piovere il suo Spirito su tutti, cominciando dai suoi crocifissori. In lui finisce la violenza dell’uomo, e vediamo Dio, il suo e il nostro vero volto. La croce, apice della storia di Dio e dell’uomo, è il luogo dove i due si incontrano e formano un'unica carne.

La Chiesa si identifica innanzitutto con il centurione e i soldati che l’hanno crocifisso, eredi della veste del Figlio. Solo questi, che lo vedono come oggetto della propria violenza, conoscono Dio: è colui che risponde alla provocazione con il dono del suo Spirito.

2. Lettura del testo

v. 27: Ora, uscendo, trovarono un uomo di Cirene di nome Simone. È un estraneo di passaggio, che dai campi rientra in città. Cirene è in Africa! Lui, e non è Simone detto Pietro, sta “con” Gesù nel momento della “sua” gloria.

lo costrinsero a portare la croce di lui. Nel momento più alto della storia di Dio e dell’uomo, Simone aiuta il Signore a portare la croce. È la croce del male del mondo, sulla quale finirà Gesù.

Discepolo è colui che porta la propria croce (16,24). Chi è costui che porta addirittura la croce del Signore? Ciò che Gesù fa con noi, lo fa il Cireneo con lui: è discepolo perfetto, che si identifica con il suo Maestro. In lui si compie a nostro favore ciò che ancora manca alla passione di Cristo per la nostra salvezza (cf. Col 1,24). Ma lui non lo sa, né lo vuole. Eppure gli tocca farlo: è costretto! Infatti è il più piccolo tra i fratelli lì presenti alle porte di Gerusalemme, ai piedi del Calvario. A lui “tocca” portare la croce. Se fosse stato ricco, potente o sapiente, l’avrebbe potuta scaricare su altri! Anche lui diventerà immondo come il Signore, e non potrà celebrare la Pasqua. Il suo è un caso maledetto, che capita a chi è debole e non può ribellarsi: “deve” portare la violenza altrui. Dopo l’“Ecce homo”, ecco un altro come lui, inizio di una numerosa schiera che abbraccia tutti i poveri e i dannati della terra. In Marco è padre di Alessandro e Rufo (Mc 15,21): un padre che ha una posterità senza fine (due è il numero aperto alla molteplicità). Tutti i piccoli del mondo sono cirenei!

Solo più tardi capirà il grande dono che gli è stato fatto. La vocazione ad essere con Gesù non è frutto di volontà: è un dono che capita, controvoglia, a chi solo dopo capirà. Sul momento è solo un increscioso incidente, che mai avrebbe voluto che avvenisse.

v. 33: un luogo chiamato Golgota. Ai piedi del Calvario, piccolo rilievo di pochi metri davanti alle porte della città, c’è una grotta. La tradizione pone in essa i resti del primo uomo. L’albero della vita si innalza sul teschio di Adamo, che volle rapire l’uguaglianza con Dio. La sua volontà di potenza procurò la morte a lui e ai suoi figli. Sul suo capo scende ora il sangue del Figlio innocente, la cui debolezza ha il potere di dare la vita.

v. 34: vino mescolato con fiele. Ai condannati si dà una bevanda anestetica (cf. Pr 31,6): vino con mirra. A lui è dato “fiele” (cf. Sal 63,21s). Nessuna consolazione per lui, se non il fiele di una solitudine amara.

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non ne volle bere. Tutto il nostro sapere è un tentativo per non sentire il dolore che la morte ci procura. Per questo riduciamo la nostra esistenza a fiele. La stupidità di Dio rifiuta questa sapienza; beve invece fino in fondo la coppa del nostro furore. Alla nostra potenza e sapienza, Dio risponde con la sua, che è la debolezza e la follia dell’amore.

v. 35: avendolo crocifisso. La croce, patibolo dello schiavo ribelle, è il suo trono. La descrizione della crocifissione è quasi un protocollo, senza commenti: l’esecuzione del Signore dell’universo è l’avvenimento più grande, la cosa più sublime che l’uomo possa fare.

si divisero le sue vesti. Le vesti del Figlio ricoprono i crocifissori. Dio aveva dato ai nostri progenitori due tuniche di pelle in cambio delle foglie di fico, in attesa di fare loro questo dono. L’eredità del Figlio spetta ai fratelli che l’hanno crocifisso. Sono i primi che, rivestiti di lui, daranno gloria a Dio.

v. 36: stavano lì a custodirlo. Intronizzato il re, ora stanno ad osservare, seduti. E vedono il giudizio di Dio.

v. 37: Gesù, il re dei giudei. Il nome ed il titolo della condanna, posti sul patibolo, sono la didascalia della scena. Ognuno può vedere e capire chi è il re, quello che libera.

v. 38: con lui due ladroni. Uno alla destra e l’altro alla sinistra, i due ladroni rappresentano tutti noi, che abbiamo rapinato l’eredità del Padre. Al centro c’è il Figlio, che la offre. La nostra morte giusta è frutto della nostra ingiustizia; la sua, ingiusta, è frutto della “sua giustizia”, quella di Figlio perfetto come il Padre.

A quel punto anche i ladroni sono “innocenti”: non possono più nuocere, perché in croce. L’Emmanuele è con loro: il Giusto condivide la loro sorte, per quanto colpevoli siano stati.

v. 39: i passanti lo bestemmiavano. La bestemmia è non riconoscere il Cristo, il Figlio di Dio e il Giudice in colui che abbiamo crocifisso per bestemmia.

v. 40: distruggi il tempio e in tre giorni, ecc. È stata l’accusa contro Gesù (26,61). Tempio distrutto è lui, riedificato dopo tre giorni dalla potenza dello Spirito, luogo di comunione con il Padre e tra i fratelli, aperto a tutti gli uomini.

salva te stesso. Ogni nostra violenza viene dal tentativo di salvarci dalla morte, che temiamo come fine della vita. Salvare se stesso è l’origine dell’egoismo che governa ogni nostra azione. Ma solo chi perde la sua vita, la salva (cf.16,25).

se sei Figlio di Dio. Così anche Satana lo tentò nel deserto (4,3.6).scendi dalla croce. Dio si rivela tale perché resta sulla croce. Se scendesse, sarebbe un

uomo, come tutti noi.v. 41: i sommi sacerdoti, beffeggiandolo con gli scribi e gli anziani. Come prima i soldati e

poi i passanti, ora anche i capi lo beffeggiano. La potenza e sapienza di Dio è bestemmia e beffa per la potenza e la sapienza del mondo, che lo bestemmia e beffeggia.

v. 42: altri salvò, non può salvare se stesso. Gesù non può salvare se stesso: infatti perde se stesso per salvare noi.

il re d’Israele. Per questo è il re, l’uomo libero dal tentativo di salvare se stesso, che può salvare gli altri.

scenda ora dalla croce. Come si vuol staccare il Signore dalla croce, così si vuol staccarne pure la salvezza. Ma la croce è l’unica rivelazione di Dio, ed è anche l’unica nostra salvezza. Infatti è la somma di tutto il male che noi facciamo e di tutto il bene che Dio fa per noi.

Se Gesù scendesse dalla croce, in croce saremmo noi; e lui non sarebbe né Signore né Messia.

v. 43: confidò in Dio, lo liberi, ecc. (cf. Sap 2,13.18-20). Gesù è il Figlio la cui giustizia è affidarsi al Padre, in obbedienza al quale si affida ai fratelli perduti.

v. 44: i ladroni crocifissi con lui lo insultavano, ecc. La croce è scandalo, anche per coloro ai quali il Signore si fa vicino, per portare la sua benedizione.

v. 45: ci fu tenebra su tutta la terra. Si oscura il sole di mezzogiorno: è la fine del mondo! Oltre la croce del Figlio di Dio, nessun male può andare. Il peccato ha raggiunto il suo apice: la luce, principio della creazione, è “presa” dalle tenebre. E tutta la terra fa lutto per il Figlio (cf. Am 8,9s).

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La tenebra, che divora il sole, è il regresso al caos primordiale; da esso Dio fa la nuova creazione. È la notte che copre l’Egitto; da esso il Padre estrae e fa nascere il Figlio!

v. 46: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? (Sal 22). È l’inizio del Salmo 22, che esprime fiducia nella disperazione. L’abbandono di Dio è il male compiuto dall’uomo, che ha lasciato il Padre.

Il Figlio, fatto per noi maledizione e peccato (Gal 3,13; 2Cor 5,21), porta su di sé il male dei fratelli, e lo grida al Padre. In lui, che grida con noi a Dio, nessun abbandono è più abbandonato. In ogni abbandono di Dio troviamo il Figlio, che si è abbandonato per noi.

v. 47: chiama Elia. Elia è colui che deve venire prima della fine del mondo per riconciliare il cuore dei padri verso i figli e dei figli verso i padri (Ml 3,23s). L’AT si chiude con queste parole, che sono la grande promessa. Essa si realizza ora nel grido di Gesù al Padre, che in lui si riconcilia con ogni figlio.

v. 48: una spugna imbevuta di aceto (cf. Sal 69,22). L’aceto è vino andato a male. Il Figlio ha sete (Gv 19,28) di dare a noi la sua fonte di acqua viva (Gv 4,14). Per questo beve la nostra morte. Dopo che lui ha bevuto il nostro aceto, tutto è compiuto (Gv 19,30).

v. 49: vediamo se viene Elia a salvarlo. Elia, rapito in cielo su un carro di fuoco, è invocato e atteso come il salvatore delle situazioni impossibili.

v. 50: avendo di nuovo gridato a gran voce. Dopo il primo grido, pieno di tutta la nostra morte urlata al Padre, questo secondo è la voce potente del Verbo creatore che si diffonde nelle tenebre e crea la vita. È il vagito potente della creatura nuova: il Figlio di Dio, nel quale tutto è fatto, nasce sulla terra!

emise lo Spirito. Dall’alto della croce, è inviato sulle tenebre lo Spirito del Figlio, che a tutto dà vita.

v. 51: il velo del tempio si squarciò. Nel battesimo di Gesù si squarciò il cielo, scese lo Spirito e risuonò la voce che lo proclamò Figlio; nella sua morte si squarcia il velo del tempio e il Figlio di Dio nasce sulla terra, riempiendo il cosmo del suo Spirito. Dio non è più dietro il velo del tempio, in cielo; è nella nudità del Figlio, che lo svela sulla terra.

la terra si scosse, ecc. Il sole si oscura, il cielo si squarcia, la terra si scuote, le pietre si spezzano: è la fine del mondo posto nel male, che nell’uccisione del Figlio consuma la propria violenza.

v. 52s: i sepolcri si aprirono, e molti corpi, ecc. È l’inizio del mondo nuovo. Il cielo si squarcia per lasciar scendere Dio (Is 63,19), la terra si scuote e si apre per restituire i morti che ha inghiottito. Qui riconosciamo chi è il Signore (cf. Ez 37,13).

Per questo Spirito i morti ora vivono la vita che vince la morte; ed entrano nella città santa, nella Gerusalemme celeste che è la loro patria. Colui che disse: “L’ho detto e lo farò” (Ez 37,14), ora compie la sua promessa. Nel Figlio, che dà la vita per tutti, ogni fratello ritorna alla vita di figlio di Dio. Questi santi ne sono l’anticipo. La morte non ha più potere su di loro: è morto il loro corpo di peccato ed è donato loro lo Spirito datore di vita.

v. 54: il centurione e quelli con lui. Il comandante e il suo plotone di esecuzione, che l’hanno ucciso e lo guardano, ora conoscono il Signore della gloria.

veramente Figlio di Dio. Per la prima volta l’uomo conosce chi è Dio: lo vede nel corpo del Figlio, dato per lui che l’ha ucciso. Vedere il Figlio di Dio nel Figlio dell’uomo è il grande mistero: mistero di Dio e salvezza dell’uomo.

era costui. Non perché non lo sia più, ma perché ora si capisce “che” e “come” Gesù era Figlio, in tutta la sua esistenza terrena.

vv. 55s: molte donne ecc. Ai piedi della croce nasce la Chiesa, raffigurata da queste donne che contemplano. Dal fianco di Adamo addormentato nacque Eva, madre dei viventi. Dalla ferita d’amore del nuovo Adamo, che dà la vita per lei, nasce l’umanità nuova, che vive della passione del suo Signore.

Queste donne guardano. I loro occhi e il loro cuore sono sulla croce, e il Crocifisso è nei loro occhi e nel loro cuore: si “battezzano” nella morte di Gesù, per essere poi conseplte (vv. 57-61) e, alla fine, conrisoregere con lui nella novità di vita (vv. 1-10; cf. Rm 6,1-5). Dalla debolezza

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di Dio nasce il nuovo popolo, la cui prima caratteristica è la debolezza di chi guarda la croce. Questo sguardo di compassione verso il Signore corrisponde allo sguardo di compassione del Signore verso l’uomo, che l’ha condotto lì. La sequela e il servizio portano qui, e partono da qui.

A questo punto del vangelo ci sono solo delle donne. I discepoli, forti e intelligenti, sono scomparsi. Rimane solo chi ha la forza e la sapienza di Dio, che è la debolezza e la stupidità dell’amore.

3. Pregare il testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo ai piedi della croce.c. Chiedo di vedere ciò che il centurione ha visto, di guardare come le donne.d. Traendone frutto, contemplo la scena.

Da notare: Il Cireneo costretto a portare la croce il luogo del Cranio vino mescolato con fiele si divisero le sue vesti la scritta sul suo capo: re dei giudei due ladroni crocifissi con lui i passanti lo bestemmiavano salva te stesso se sei Figlio di Dio, scendi dalla croce i capi lo beffeggiano altri salvò, non può salvare se stesso confidò in Dio, lo liberi i due ladroni lo insultano le tenebre a mezzogiorno Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? chiama Elia beve l’aceto viene Elia il nuovo forte grido emise lo Spirito il velo del tempio si squarcia la terra si scuote, le pietre si spaccano, i sepolcri si aprono e i morti risorgono veramente Figlio di Dio era costui le donne, che lo avevano seguito e servito, guardano

4. Testi utili

Sal 22. È utile contemplare la scena attraverso le sette parole di Gesù in croce: prega per i suoi crocifissori (Lc 23,34), promette il regno al malfattore (Lc 23,43), affida Giovanni a sua madre e sua madre a Giovanni (Gv 19,26s), ha sete (Gv 19,28), grida al Padre il suo abbandono (Mc 15,34), tutto è compiuto (Gv 19,30), si affida al Padre (Lc 23,46).

112. LO POSE NEL SUO SEPOLCRO NUOVO

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27, 57-66

27,57 Ora, venuta la sera, venne un uomo ricco di Arimatea,di nome Giuseppe,il quale pure era discepolo di Gesù.

58 Questi, andato da Pilato,chiese il corpo di Gesù.

Allora Pilato ordinò di darglielo.59 E, preso il corpo, Giuseppe lo avvolse in una sindone pura60 e lo pose nel suo sepolcro nuovo,

che aveva scavato nella roccia,e, rotolata una pietra grande alla porta del sepolcro,se ne andò.

61 Ora c’erano lì Maria Maddalena e l’altra Maria,sedute davanti alla tomba.

62 Ora il giorno seguente, quello dopo la Parasceve,si riunirono i sommi sacerdoti e i farisei presso Pilato

63 dicendo:Signore, ci siamo ricordatiche quell’ingannatore disse ancora vivente:

Dopo tre giorni risorgerò.64 Comanda dunque che sia assicurata la tomba fino al terzo giorno,

perché i suoi discepoli non vengano e lo rubino e dicano al popolo:È risorto dai morti,

e sarà l’ultimo inganno peggiore del primo!65 Disse loro Pilato:

Avete una guardia:andate e assicuratevi come sapete.

66 Ora essi, andati, assicurarono la tombasigillando la pietra,con una guardia.

1. Messaggio nel contesto

“Lo pose nel suo sepolcro nuovo”. Così si conclude la vicenda di Gesù. Ora anche lui è ciò che tutti noi siamo. ’Adam è di adma’ (= terra: cf. Gen 2,7), l’“uomo” (homo) è humus: dalla terra viene e ad essa fa ritorno.

Il primo pezzo di terra promessa, che ottenne il padre Abramo, fu il sepolcro di Sara, madre del popolo di Dio (Gen 23,1ss). Il sepolcro di Gesù realizza la promessa per tutti i popoli. L’umiltà del Signore lo rende humus: il Dio-con-noi è il Dio-come-noi! Il suo vivere e il suo morire fu unico; il suo essere morto lo fa uguale a tutti. Ora l’incarnazione giunge al suo compimento: da un solo uomo, passa ad ogni uomo.

Termina il venerdì e comincia il sabato: finalmente il Signore, steso nel sepolcro, si riposa dalla fatica. Tutta la Bibbia racconta la passione di Dio per l’uomo. Lo cerca fin dal primo giorno, quando gli chiese: “Dove sei?” (Gen 3,9). Adamo si è nascosto da lui, sua vita, ed è entrato nella morte. Ora è finita la sua ricerca: lo trova nella tomba. Oltre non può fuggire! Lì raggiunge ogni sua lontananza.

La sepoltura di Gesù è il mistero più grande del Figlio. Non fa più niente. È morto, fratello di ogni uomo, anche lui sconfitto dalla vita. È quel nulla di sé che ognuno paventa, e che ognuno diventa!

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Se così non fosse, non saremmo salvi. Perché sappiamo che, buoni e cattivi, poveri e ricchi, sapienti e stolti, tutti finiamo nella tomba. E lui è lì, come tutti i mortali, che si distinguono solo per il fatto che alcuni sono “già”, e altri “non ancora” morti.

Cosa fa Gesù sottoterra? Perché la luce scende nelle tenebre? Perché il Verbo creatore entra nel caos? La discesa di Gesù all’inferno è un articolo di fede apostolica: il mistero più oscuro e più grande del Dio-con-noi. L’apostolo Pietro dice che andò negli inferi ad annunciare la salvezza a quegli spiriti, prigionieri della morte, che si erano induriti nell’empietà e non avevano voluto credere alla magnanimità di Dio (cf. 1Pt 3,19s). Ora lo vedono. Lì Giuda, che l’ha appena preceduto, stupito lo guarda; e si sente dire: “Amico, sono qui per te! E per tutti gli altri, che sono fratelli tuoi e miei!”.

“Mi baci con i baci della sua bocca”, esordisce la sposa parlando dello sposo (Ct 1,2). Il sepolcro di Gesù è il bacio di Dio sulla bocca dell’umanità: si unisce ad essa in un amore più forte della morte, che nessuna acqua può spegnere (cf. Ct 8,6s). Attraverso la tomba, cavità da cui ognuno viene e verso cui va, la potenza del Dio creatore entra nella terra, e la ingravida di vita.

Il brano ci presenta l’ultima opera dell’uomo nei confronti del Figlio dell’uomo: semina il suo corpo nel grembo della terra (vv. 57-60). Due donne stanno a osservarlo, chiuso e sigillato (v. 61). Il giorno dopo lo troveranno dischiuso: avrà finalmente dato il frutto benedetto del suo seno.

Il presagio della risurrezione è nel cuore e sulla bocca di chi l’ha ucciso: si ricordano della sua parola, e vogliono garantirsi che non sia vera. La risurrezione è il supremo inganno, per chi ha investito tutto nella morte (vv. 62-66).

Gesù, il Dio-con-noi, è nel sepolcro: morto, solidale con tutti i mortali.La Chiesa è raffigurata dalle donne davanti al sepolcro. Il battesimo è un con-morire con il

Signore crocifisso (cf. v. 55s): ora è anche un essere con-sepolti con lui. Solo così si scopre che là, dove si teme il nulla, c’è il Signore della vita. La buona notizia penetra nelle profondità dell’uomo.

2. Lettura del testo

v. 57: Venuta la sera. Inizia l’ultima notte: il sole entra nel regno dell’ombra.un uomo ricco di Arimatea, ecc. Quest’uomo è ricco; eppure è discepolo di Gesù. Non ha

lasciato tutto per il Signore (19,21ss). Ma il Signore ha lasciato tutto per consegnarsi a lui. Ora lui gli cede il “suo” sepolcro, rendendo al Figlio dell’uomo l’ultimo servizio che può fare l’uomo: seppellire un morto. È un discepolo anomalo, o figura di chi, fino a questo punto, ha letto il vangelo?

v. 58: andato da Pilato, chiese il corpo di Gesù. Giuseppe chiede e ottiene il corpo del Signore. Lo riceve da un pagano! Quel corpo, consegnato dal discepolo Giuda, passato per le mani di tutti, ora giunge a Giuseppe. Il dono del Figlio ora completa il suo circolo, a salvezza di tutti.

v. 59: preso il corpo. Il corpo dato ora è preso - secondo il comando di Gesù nell’ultima cena: “Prendete” (26,26).

Giuseppe lo avvolse. Il discepolo si prende cura di questo corpo: lo prende, lo fascia e lo adagia, come Maria nella notte della sua nascita mortale (cf. Lc 2,7). Vede le sue ferite, e si chiede: “Perché queste ferite?” (cf. Zc 13,6). Quelle piaghe, in mezzo alle sue mani, le ha ricevute in casa dei suoi amici, da parte di quelli che hanno falsato la Parola. Quella trafittura al costato (cf. Zc 12,10), che gli ha aperto il cuore, è fonte zampillante, che lava ogni peccato (Zc 13,1).

C’è una conoscenza del corpo di Gesù “manuale”, materna, propria delle mani che toccano e si prendono cura del più piccolo tra i fratelli.

in una sindone pura. Il lenzuolo, che avvolge colui che s’è caricato di ogni impurità, è puro!v. 60: lo pose nel suo sepolcro. La parola “sepolcro”, in greco (mnemeîon), è imparentata

con “memoria”. L’uomo è memoria di morte, affannato per l’eredità che gli tocca in sorte. Lo stesso termine “umano” deriva da “humandus” (= da interrare)! L’animale diventa “umano” quando sa di finire sotto terra, e concede all’altro quell’umanità che altri concederanno a lui. Un corpo insepolto è maledizione disumana: mancanza di relazione, pasto di belve!

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nuovo. Questo sepolcro è nuovo, come il grembo verginale di Maria.scavato nella roccia. Da questa roccia la potenza di Dio genererà la vita nuova: le viscere

della terra restituiranno l’uomo a immagine di Dio. Non è dalle pietre che Dio suscita figli ad Abramo (cf. 3,9), dalla sua cava (cf. Is 51,1s), sterile come una tomba?

rotolata una pietra grande alla porta del sepolcro. Questa grande pietra separa la vita dalla morte. Ma dov’è la vita? dov’è la morte?

se ne andò. I discepoli, quando vedono che non c’è più nulla da fare per Gesù - se non rinnegarlo -, lo abbandonano e fuggono (26,56). Pure Giuseppe, fatto ciò che poteva, se ne va.

v. 61: c’erano lì Maria Maddalena e l’altra Maria. A differenza degli uomini, due donne restano dove non c’è nulla da fare. Il grembo che dà vita sta davanti al grembo della grande madre, che genera ciò che non c’è e inghiotte ciò che c’è. Dal proprio nascere e morire, mistero fondamentale dell’esistenza umana, ognuno è sempre escluso: altro da lui è il suo principio e il suo fine.

sedute davanti alla tomba. Presso la croce, le donne stavano in piedi a contemplare il loro Signore, innalzato sul palo. Ora stanno sedute. Il sepolcro ora è chiamato tomba. Sepolcro è ciò che si vede da fuori; tomba ciò che è dentro. Quello è memoria di chi vive, questa è vuoto scavato, assenza di ricordo per tutti.

Non si dice che le donne guardano! Non c’è nulla da vedere: solamente una pietra, che sottrae tutto. Eppure sanno che lì, dietro, non c’è la morte, ma il Signore della loro vita.

Ora è entrato negli inferi, a far visita ad ogni uomo, che lì è giunto o giungerà. Le donne contemplano, con l’occhio interiore, ciò che sta oltre il sepolcro - fin a che loro stesse diventano sua tomba, piena della sua presenza. La morte sta al di qua, in chi non capisce il mistero del Figlio dell’uomo, il segno di Giona (cf. 12,40; 16,4). Oltre la pietra è l’abisso vertiginoso dell’ignoto – unica cavità capace di accogliere il Dio-con-noi. Sotto terra è nascosto un lievito che la fermenterà tutta (13,33), un chicco che diventerà grande albero (13,31), un seme che germinerà vita in abbondanza (13,3-9), un tesoro che sarà la gioia di chi lo scopre (13,44).

Il sepolcro è il nostro cuore. Fin che non conosciamo il mistero del corpo dato per noi, siamo schiavi della morte per tutta la vita (cf. Eb 2,14s). Contemplare il Signore nella tomba, essere con-sepolti con lui, è l’evangelizzazione dell’inconscio. Ci libera infatti dalla paura della morte, perché in essa incontriamo il Dio-con-noi. Da lui veniamo e a lui torniamo. Lui, non il nulla, è nostro principio e nostro fine!

v. 62: il giorno seguente, ecc. Siamo di sabato. È giorno di silenzio. Dio si riposa dalla sua fatica. Ha finalmente trovato l’uomo, che da sempre cerca!

si riunirono i sommi sacerdoti e i farisei presso Pilato. Chi non ha contemplato la croce e la tomba, continua il suo lavoro di violenza contro il Signore della vita.

v. 63: ci siamo ricordati, ecc. Ricordano, per difendersene, la parola di Gesù. Lo chiamano “ingannatore”. Eppure gli avevano detto, pochi giorni prima: “Sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità, e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia ad alcuno” (22,16)!

dopo tre giorni risorgerò. I discepoli hanno rimosso questa parola. Faranno fatica a crederci anche dopo (cf. 28,17;. Lc 24,11.37s). I nemici invece, temendola, la ricordano bene, ed hanno paura che sia vera. Vogliono garantirsi che non lo sia; e quando, controvoglia, saranno testimoni della risurrezione, ripeteranno contro l’annuncio del Risorto ciò che hanno compiuto contro Gesù: per denaro, come ne hanno ucciso il corpo, cercheranno di sopprimerne la testimonianza (cf. 28,11-15).

v. 64: comanda dunque che sia assicurata la tomba fino al terzo giorno, ecc. Hanno paura che i discepoli lo rubino, dicendo che è risorto. Ma i discepoli hanno ben altro da pensare: sono pieni di paura, perché è stata loro rubata la speranza (cf. Lc 24,21).

sarà l’ultimo inganno peggiore del primo. Per chi odia la luce, il “primo inganno” è Gesù, che è vissuto da fratello fin dentro la morte! L’ultimo è il Padre, che lo riconosce come Figlio nel dono della vita!

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Per Adamo, che non conosce Dio come Padre e se stesso come figlio, la verità suona inganno.

v. 65: disse Pilato: avete una guardia, ecc. La guardia del tempio è ora custode del sepolcro. La guardia dà sicurezza! Può dare la morte ad un vivo, ma resterà come morta vedendo vivo colui che ha ucciso (cf. 28, 4)!

v. 66: assicurarono la tomba sigillando la pietra. Il sigillo è il segno di riconoscimento, la firma di chi l’ha tolto di mezzo. Sarà infranto non da una violenza esterna, ma da una forza interna che prorompe: la vita che viene alla luce!

3. Pregare il testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immedesimandomi in Giuseppe che ha tra le mani il corpo di Gesù e poi con le

donne davanti al sepolcro. c. Chiedo ciò che voglio: prendere quel corpo e guardare la pietra che mi separa dalla vita.d. Traendone frutto, guardo e ascolto le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare: venuta la sera Giuseppe, uomo ricco e discepolo chiede e “prende” il corpo che gli è “dato” lo avvolge in una sindone pura lo pone in un sepolcro nuovo, scavato nella roccia se ne andò Maria Maddalena e l’altra Maria sedute davanti alla tomba i sommi sacerdoti e i farisei si ricordano della parola di Gesù l’ultimo inganno peggiore del primo la guardia al sepolcro il sigillo sulla pietra.

4.Testi utili

Gen 23,1ss; Mt 13,1-9.31-34; Rm 6,3-11; Eb 2,14s.

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113. È RISORTO DAI MORTIRALLEGRATEVI28, 1-15

28,1 Ora, dopo il sabato,all’albeggiare del primo giorno della settimana,venne Maria di Magdala e l’altra Mariaa vedere la tomba.

2 Ed ecco ci fu un terremoto grande;un angelo del Signore, sceso dal cielo e avvicinatosi, rotolò via la pietrae sedette sopra di essa.

3 Ora il suo aspetto era come folgoree il suo abito bianco come la neve.

4 Ora, per la paura di lui, le guardie furono scosse,e divennero come morte.

5 Ora rispondendo l’angelo disse alle donne:Voi non abbiate paura!So infatti che cercate Gesù, il crocifisso.

6 Non è qui!È risorto infatti, come disse!Venite, vedete il luogo dove giaceva.

7 E subito andate a dire ai suoi discepoli:È risorto dai morti!Ed ecco vi precede in Galilea;là lo vedrete.

Ecco, ve l’ho detto!8 E, partite subito dal sepolcro,

con timore e gioia grande,corsero ad annunciare ai suoi discepoli.

9 Ed ecco Gesù venne loro incontro dicendo:Rallegratevi!

Ora esse, avvicinatesi, strinsero i suoi piedie lo adorarono.

10 Allora dice loro Gesù:Non temete!Andate ad annunciare ai miei fratelliche partano per la Galilea,e là mi vedranno.

11 Ora, mentre esse partivano, ecco alcuni della guardia, andati in città,annunciarono ai sommi sacerdotitutte le cose accadute.

12 E, riunitisi con gli anziani e tenuto consiglio,diedero ai soldati parecchie monete d’argento,

13 dicendo:Dite che i suoi discepoli, venuti di notte,lo rubarono, mentre noi dormivamo.

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14 E se questa cosa fosse per caso udita dal governatore,noi lo convinceremo, e vi lasceremo senza preoccupazioni.

15 Ora essi, prese le monete d’argento,fecero come erano stati ammaestrati.

E si diffuse questa parola presso i giudei fino ad oggi.

1. Messaggio nel contesto

“È risorto dai morti!”, dice l’angelo alle donne. “Rallegratevi!”, dice il Risorto, venendo loro incontro. L’annuncio del Crocifisso risorto è il centro della fede cristiana. Il Gesù che abbiamo visto crocifisso e deposto nel sepolcro, ha vinto la morte, e ci comunica la sua gioia.

Questo brano racconta l’esperienza del mattino di pasqua: le due donne che l’hanno contemplato in croce e dietro la pietra, ne ascoltano l’annuncio e lo vedono.

Sia l’angelo che il Risorto dicono le stesse parole. Il Crocifisso risorto è infatti la Parola, sola e definitiva, di Dio! Questa è destinata non solo alle donne e ai discepoli, ma a tutti (cf. vv. 16-20). Le donne, come i discepoli e chiunque altro, incontreranno il Signore solo nella Parola, e lo riconosceranno mentre la eseguono. Non c’è altra esperienza del Risorto.

Matteo non ha bisogno di spiegare cos’è la risurrezione (cf. 22,23-33). Si rivolge al popolo al quale Dio ha detto: “Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito, e rivivrete; vi farò riposare nel vostro paese; saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò” (Ez 37,13s).

La risurrezione del Messia, il primogenito, è l’anticipo di quella degli altri fratelli. Ascoltando e facendo la sua parola, anche loro diventeranno figli. La risurrezione, alla quale tutto il creato partecipa (Rm 8,19ss), è frutto dell’“ascolto”, che ci rende eredi di Dio. Il Figlio è venuto per dirci e darci quanto il Padre vuol donare ad ogni figlio.

Il brano ci parla delle donne che vanno al sepolcro. La terra si scuote, come una partoriente, e, invece di una pietra che sigilla l’ombra della morte, sfolgora una potenza celeste, che invita a entrare nella tomba, dicendo: “Non è qui” il Gesù crocifisso. La Parola, che le incoraggia ad entrare, espelle anche loro dalla tomba, per annunciare ai discepoli che lo vedranno in Galilea (vv. 1-7). Mentre obbediscono a ciò che hanno udito, lo incontrano con gioia, lo abbracciano e adorano. Ma il Signore, finalmente riconosciuto, le invia ancora una volta verso i fratelli (vv. 8-10). È proprio andando verso gli altri che si incontra l’Altro: amando loro, viviamo del suo Spirito e siamo nel Padre (cf. vv. 16-20).

Tutto il vangelo tende alla “missione” verso i fratelli (vv. 7.10.19). In essa realizziamo la nostra “vocazione” di figli, e siamo con colui che è sempre con noi, per portare il mondo al suo compimento (v. 20). Lui infatti, l’ultimo degli uomini, attende che gli diventiamo fratelli, per donarci il nostro essere figli!

Le guardie, che hanno posto il sigillo sulla pietra e l’hanno vista rotolare via, vengono corrotte con il denaro (vv. 11-15). Invece di fare come le due Marie e la donna di Betania, che annunciano il Risorto, fanno come Giuda e gli altri: diventano vittime e diffusori della menzogna di morte.

Gesù è risorto dai morti. Possiamo vederne la tomba: è vuota. Lui non è lì, ma nei fratelli. E in noi, quando andiamo verso di loro.

La Chiesa nasce dall’annuncio del Crocifisso risorto, e vive nella gioia dell’incontro con lui. Questo avviene andando verso i “discepoli” (v. 7), i “fratelli” (v. 10) e tutti gli uomini (cf. v. 19s). Chiunque si fa fratello, incontra il Figlio: ritrova, nel proprio, il suo stesso volto.

2. Lettura del testo

v. 1: Dopo il sabato. Il sabato è il giorno del riposo. Anche il Signore, finita la sua fatica, ha dormito nel sepolcro.

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all’albeggiare del primo giorno della settimana. Il giorno, in cui il Signore si è risvegliato dal sonno, non è l’ultimo, ma il primo della settimana - alba dell’ottavo giorno. La nostra esistenza è ormai illuminata da questa luce senza tramonto. Il “risus paschalis”, che sgorga dalla vittoria sulla morte e dalla comunione con Dio, è ormai il “colore” della vita: per il credente ogni giorno è festa.

venne Maria di Magdala e l’altra Maria a vedere la tomba. Le due donne, che stettero ai piedi della croce e davanti al sepolcro, irresistibilmente attratte, tornano là dove è il loro tesoro: lì è anche il loro cuore!

È importante il confronto con la tomba. È in essa, e non “nonostante essa”, che si esperimenta la risurrezione. Solo qui la nostra memoria di morte diventa ricordo di vita.

v. 2: ci fu un terremoto grande. C’è un terremoto che spezza le rocce e apre i sepolcri, come nella morte (27,51). La terra si scuote e genera il Figlio, primo di una numerosa schiera di fratelli (cf. Rm 8,29).

un angelo del Signore. La pietra, rotolata via dall’angelo (= colui che annuncia), non sta sul corpo di Gesù, ma sul nostro cuore, tomba di ogni speranza! Solo l’annuncio del Crocifisso-Risorto la fa rotolare via.

La potenza dell’angelo è la medesima della Parola annunciata: è lo stesso Gesù risorto, in cui ogni parola è compiuta.

sedette sopra di essa. Il Signore è seduto, vittorioso, sulla pietra.v. 3: il suo aspetto era come folgore. La folgore, attributo divino, è il massimo di luce e

potenza che l’uomo possa vedere.il suo abito bianco come la neve. Non è più nudo, né avvolto nel lenzuolo di morte. Ha la veste

bianca, del vincitore.v. 4: per la paura di lui, le guardie furono scosse. Anche le guardie sono scosse - prese da

timor panico. Nella sua risurrezione, oltre la terra, si scuote anche l’uomo, che vuol custodire la morte.

e divennero come morte. I custodi del sepolcro sono i veri morti. Resteranno tali fino a quando non accetteranno la verità che conoscono.

v 5: l’angelo disse alle donne. Nessuna parola alle guardie. L’angelo si volge alle donne, che cercano Gesù. Si può stare al sepolcro come chi custodisce un morto, e diventare morti; oppure come le donne, che sono lì per amore, e incontrano la loro vita.

voi non abbiate paura. “Non temere, non aver paura!”, dice il Signore quando si rivela. Perché l’uomo, da Adamo in poi, ha paura di Dio.

so infatti che cercate Gesù, ecc. Queste donne cercano Gesù, non una idea. Cercano il Crocifisso, quell’uomo che hanno visto vivere e morire così! È lui, non un altro, il Risorto.

v. 6: non è qui! Eppure dovrebbe essere lì, come ogni carne. Come mai non è dove l’hanno visto, e attendono che sia? L’assenza “indebita” del corpo di Gesù scardina l’unica certezza di ogni nato da donna: essere lì, nella tomba.

è infatti risorto, come disse. La risurrezione, come ogni azione di Dio, è stata predetta (16,21; 17,23; 20,19; 12,40): è compimento di promessa divina, non deduzione di premessa umana.

venite, vedete il luogo dove giaceva. È importante andare a vedere il luogo dove giaceva Gesù: la tomba è vuota, il vuoto svuotato! Le donne constatano che il grembo della terra è una fonte che genera vita, non più una cavità che risucchia nella morte.

La Parola invita a “entrare” nella tomba, per vedere che non è lì, e quindi uscirne e andare verso i fratelli, per incontrare il Vivente. Chi non entra, non può uscirne!

v. 7: e subito andate a dire ai suoi discepoli. Il Signore ordina loro di lasciare subito la tomba e le invia verso gli altri. Ma non lo riconoscono come tale, fino a quando non ne eseguono la parola.

La risurrezione è uscire dalla fossa dell’egoismo: chi ama il fratello è passato dalla morte alla vita, e partecipa da figlio all’amore del Padre (cf. 1Gv 3,14). Questa è l’esperienza di risurrezione che Matteo propone nel suo vangelo: la fraternità è il luogo della presenza del Figlio (cf. 18,20).

è risorto. È l’annuncio pasquale: la Parola, da ricevere e da trasmettere.vi precede in Galilea. In Galilea Gesù aveva promesso di incontrarli, dopo aver predetto la loro

infedeltà (cf. 26,32).

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là lo vedrete. Anche i discepoli lo “vedranno” mentre, investiti del suo potere, sono inviati a farsi prossimi dei più lontani (vv. 16-20).

ecco, ve l’ho detto. È la parola definitiva: chi cerca Gesù, il Crocifisso, lo incontra in questo, e non in altro modo.

v. 8: partite subito dal sepolcro, ecc. Le donne si allontanano subito dal sepolcro, “memoria di morte”. Invece di paura, hanno timore e gioia grande. La paura lascia morti; il timor di Dio, principio di sapienza (cf. Sal 111,10), comunica gioia.

v. 9: Gesù venne loro incontro. Mentre vanno verso gli altri, viene loro incontro l’Altro, il Risorto.

rallegratevi. È la parola del Signore: “Entrate anche voi nella gioia del vostro Signore!” (cf. 25,21b. 23b). Chi va verso i fratelli, si accende della luce del Figlio, l’amore del Padre.

avvicinatesi. La paura fece fuggire Adamo. La gioia fa avvicinare le donne al Signore.strinsero i suoi piedi. Queste donne, a differenza dei discepoli, lo toccano e ne abbracciano i

piedi. Sono i piedi di chi ha fatto un lungo cammino, per essere il Dio-con-noi.lo adorarono. Fanno come fecero i Magi (2,2.11) e come faranno gli Undici (v. 17). Adorare,

baciare il Figlio, è il fine dell’uomo. In comunione con lui, torna ad essere se stesso.v. 10: dice loro Gesù, ecc. Per la terza volta il Risorto parla. E ripete le parole dette all’inizio

dall’angelo. Lui infatti è la Parola, il Verbo del Padre: chiunque lo ascolta, lo incontra.La risurrezione è vista come la forza propulsiva dell’annuncio, da comunicare a tutti. Chi lo

ascolta, vede il volto di Figlio: è il suo stesso di fratello.v. 11: alcuni della guardia, ecc. Anche costoro vanno ad annunciare, ma ai nemici! Non una

buona notizia, ma una cattiva notizia. Chi è nel male, prende male il bene. v. 12: diedero ai soldati parecchie monete d’argento. I sommi sacerdoti e gli anziani tengono

consiglio, come all’inizio della passione (26,3s). Oltre la persona di Gesù, vogliono ucciderne anche l’annuncio. Ma è impossibile. Pure Erode, che decapitò il Battista, ne sentì la parola più che mai: fu il primo a dirlo risorto (14,2)!

Il mezzo per bloccare la parola del Risorto è lo stesso con cui l’hanno ucciso: il denaro (26,15; 27,3-10) e l’inganno (cf. vv. 13-15; 26,4).

v. 13: lo rubarono. Matteo, che si rivolge a una comunità di origine giudaica, smentisce la menzogna: i discepoli non sono andati a rubare un cadavere, ma hanno incontrato il Vivente.

v. 14: se questa cosa fosse per caso udita, ecc. Tra potenti è sempre possibile “aggiustare” la cosa, anche la più falsa – e anche contro coscienza, come nella condanna a morte.

v. 15: prese le monete d’argento. Giuda le gettò nel tempio, e si impiccò (27,5). Questi le prendono, come lui prima del tradimento (26,15).

fecero come erano stati ammaestrati. Le guardie fanno come ha insegnato loro chi vuol mentire. Anche i discepoli fanno come ha insegnato loro Gesù. L’alternativa è per tutti la stessa: essere discepoli della menzogna, oppure della verità.

e si diffuse questa parola, ecc. Verità e menzogna si diffondono contemporaneamente. Dal cuore dell’uomo esce ciò che è dentro: la vita o la morte, il dono o il possesso, la grazia o il denaro, i fratelli o “il restare senza preoccupazioni”!

3. Pregare il testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo seguendo le donne al sepolcro.c. Chiedo ciò che voglio: chiedo la gioia della risurrezione, che mi fa ascoltare la parola del Risorto

e incontrarlo.d. Immedesimandomi con le donne, guardo e ascolto ciò che loro hanno ascoltato, fatto e visto.

Da notare

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all’albeggiare del primo giorno della settimana le due Marie vanno a vedere la tomba un terremoto l’angelo rotola via la pietra e siede sopra le guardie divennero come morte cercate Gesù, il Crocifisso non è qui è risorto come ha detto venite, vedete il luogo dove giaceva andate a dire ai suoi discepoli è risorto dai morti vi precede in Galilea là lo vedrete le donne escono dal sepolcro e vanno ad annunciare Gesù viene loro incontro rallegratevi! le donne gli abbracciano i piedi e lo adorano andate ad annunciare ai fratelli le guardie annunciano ai sommi sacerdoti la decisione di uccidere la verità parecchie monete d’argento le guardie fecero come erano stati ammaestrati

4. Testi utili

Sal 16; Sap 5,15-23; Mt 22,23-33; 1Cor 15,1ss; Rm 6,1-11; Rm 8,18-30; Col 3,1-4.

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114. ANDATE DUNQUEEFATE DISCEPOLI TUTTI I POPOLI

28, 16-20

28,16 Ora gli undici discepoli si recarono in Galilea, sul monte,dove aveva ordinato loro Gesù,

17 e, vistolo, adorarono;alcuni però dubitarono.

18 E, avvicinatosi, Gesù parlò loro dicendo:

Mi fu dato ogni potere in cielo e sulla terra.19 Andate dunque, e fate discepoli tutti i popoli,

battezzandolinel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo,

20 insegnando loro a osservare tutto quanto vi ho comandato;ed ecco: io sono con voi tutti i giorni,sino al compimento del mondo.

1. Messaggio nel contesto

“Andate dunque, e fate discepoli tutti i popoli”, dice Gesù agli Undici. Terminata la sua missione, quelli che l’hanno accolto cominciano il loro cammino. È il suo stesso di Figlio, che testimonia l’amore del Padre ai fratelli che ancora non lo conoscono. Ciò che il Nazoreo ha offerto a Israele, i “nazorei” lo offrono a tutti i popoli. Chi, in lui, ha scoperto il proprio nome di figlio, lo realizza, come lui, andando verso i fratelli, fino a che il nome del Padre dei cieli sia santificato su tutta la terra.

Il brano è una postfazione, che offre una visione sintetica di tutto il libro di Matteo. Come il finale di una sinfonia, riprende e fonde in un’unica armonia i temi sviluppati nel suo vangelo.

Il testo, come sempre, è rivolto ai lettori, perché facciano anche loro l’esperienza dei primi discepoli. Devono recarsi in Galilea, “sul monte” indicato loro da Gesù (v. 16). Lì lo vedono e lo adorano (v. 17a). Fa parte dell’incontro pure il dubbio (v. 17b), di cui la fede rappresenta il superamento.

Chi si reca sul monte, conosce “il Figlio” e gli è conferito il suo stesso potere (v. 18). È quello di farsi fratello di tutti (v. 19a), perché ogni uomo sia immerso nell’unico amore del Padre e del Figlio (v. 19b), che abilita a “fare” quanto Gesù ha ordinato (v. 20a). In questo modo lui è il Dio-con-noi, per condurre il mondo al suo compimento (v. 20b).

Gesù, il Crocifisso risorto, non ha esaurito il suo compito, né si assenta dal mondo: è presente come l’Emmanuele, il Dio-con-noi, perché in ciascuno si compia ciò che in lui è già compiuto.

La Chiesa ha la stessa “vocazione” del Figlio, che si realizza nella “missione” verso i fratelli. Porta avanti nella storia ciò che Gesù ha detto e fatto, fino a che in ogni uomo riluca la gloria di Dio.

2. Lettura del testo

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v. 16: Ora gli undici discepoli. Coloro che sono inviati, non sono “maestri”: uno solo è il Maestro (cf. 23,8). Sono e restano sempre “discepoli”, che imparano! Non sono padroni, ma ascoltatori della sapienza del Figlio, velata a sapienti e intelligenti, ma rivelata agli infanti (cf. 11,25-27).

E sono undici, non dodici; ne manca uno. La comunità è strutturalmente imperfetta: il peccato e il tradimento è sempre presente, anche in chi ascolta la Parola. Matteo lo sa: per questo insiste, anche qui (v. 20a), che bisogna metterla in pratica, senza sconti.

si recarono in Galilea. La “Galilea delle genti” è il luogo dove Gesù ha vissuto la vita di ogni giorno, e iniziato il suo annuncio (4,12-17). È in Galilea, luogo della vita quotidiana e dell’ascolto, che il discepolo, ancora oggi, lo incontra.

sul monte, dove aveva ordinato loro Gesù (cf. 26,32; 28,10). Non è un monte qualunque; è un monte preciso, dove lui ha preordinato che lo ascoltiamo, vediamo e adoriamo, ricevendone il potere e la missione. In Matteo ci sono vari monti “teologici” di Galilea. C’è quello dove il Figlio annuncia la volontà del Padre (5,1; 8,1), quello dove si ritira a pregare (14,23), quello dove guarisce i malati (15,29), e infine quello della trasfigurazione (17,1ss), dove risuona la voce del Padre che dice di ascoltare il Figlio.

v. 17. vistolo. Attraverso l’ascolto, la preghiera e la cura verso i fratelli, vediamo la gloria del Figlio.

adorarono. Adorare è portare alla bocca, baciare (cf. 2,2.11). Il fine della nostra esistenza è il bacio del Figlio. È lo stesso del Padre, per lui e per noi!

alcuni però dubitarono. Nell’andare incontro al Signore, che cammina sull’acqua e chiama a fare altrettanto, la Chiesa, come Pietro, è sempre colta da paura e dubbio (cf. 14,31). È la poca-fede, chiamata a diventare quella “grande fede”, che rende presente e operante Gesù, pur nella sua assenza fisica (cf. 8,10; 15,28!). È necessario che i dubbi escano. Una fede che non li conosce, forse semplicemente li evita. Per mancanza di fede!

v. 18: avvicinatosi, Gesù parlò loro. Tutto il vangelo mostra come il Signore si fa vicino e parla.

mi fu dato ogni potere, ecc. Gesù è il Figlio, al quale è dato tutto ciò che è il Padre (cf. 11,27): ha il suo stesso “potere” (cf. 9,8), che conosce solo chi gli risponde (cf. 21,23.24.27). È quello di fare ciò che dice (7,29), di perdonare (9,6) e di vincere il male (10,1). Lo ha mostrato, con potenza e gloria grande, nel segno del Figlio dell’uomo (24,30): la croce!

v. 19. andate dunque. Chi lo ascolta, vede e adora, diventa come lui: figlio, quindi inviato ai fratelli.

fate discepoli. Gli apostoli non devono “ammaestrare”, ma rendere tutti gli uomini discepoli dell’unico Maestro (cf. 23,8) – lo Spirito che guida nella verità del Figlio (cf. Gv 16,13). La loro missione è comunicare agli altri lo stesso potere che Gesù ha comunicato loro: quello di ascoltare e fare la Parola, per diventare un popolo che dà il frutto del regno (21,43).

tutti i popoli. Nel testo originale c’è “genti”: Israele è luce delle genti (cf. Is 42,6). Dio è Padre, e tutti ama come figli. Già ad Abramo fu promesso che in lui sarebbero state benedette tutte le famiglie della terra (Gen 12,3b). La missione, limitata dapprima al primogenito (cf. 10,5s), dopo pasqua è estesa agli altri fratelli. La luce, che con Gesù si è accesa in Israele, ora illumina il mondo.

battezzandoli. Discepolo è colui che è “battezzato” (= immerso). Ma non nell’acqua, dove si muore, bensì in Dio, del cui Spirito si respira e vive. I pescatori di Galilea saranno pescatori di uomini (4,19). Il Figlio li ha pescati dall’abisso per battezzarli nella luce; ora pescheranno i fratelli, facendo agli altri ciò che lui ha fatto a loro.

nel nome del Padre. Gesù è venuto a immergerci nel Padre della vita, di cui avevamo rifiutato il nome, perdendo il nostro.

del Figlio. È nel nome - nella persona! - del Figlio che siamo nel Padre.e dello Spirito Santo. È nel nome dello Spirito, amore reciproco tra Padre e Figlio, che siamo

inseriti nella Trinità, partecipi della vita di Dio.v. 20: insegnando loro ad osservare, ecc. Diventare come Dio non è un delirio di

onnipotenza. Consiste nel fare la volontà del Padre, come il Figlio ci ha insegnato. È il tema

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fondamentale del vangelo di Matteo, sviluppato nei cinque grandi discorsi, che illustrano quanto Gesù ha compiuto (5,1-7,29; 9,36-11,1; 13,1-53; 18,1-35; 23,1-25,46).

tutto quanto vi ho comandato. Il comando è amare il Padre e i fratelli con lo stesso amore del Figlio (cf.22,34-40)

io sono con voi. Non siamo orfani, né abbandonati. Il Figlio è per sempre nostro fratello: il suo nome è Dio-con-noi (1,23). Il suo essere con noi rende possibile il nostro essere con lui.

tutti i giorni. Il Nazoreo, crocifisso e risorto, è presente tutti i giorni: ci viene incontro ogni giorno e ogni ora in cui, con fedeltà e saggezza, ascoltiamo e facciamo quanto lui ha fatto e detto.

sino al compimento del mondo. Il tempo è un cammino, la cui meta è essere con colui che da sempre e per sempre è-con-noi. Ciò sarà quando, attraverso la testimonianza dei discepoli, tutti diventeranno figli e fratelli.

3. Pregare il testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando il monte di Galilea.c. Chiedo ciò che voglio: andare per il mondo a testimoniare con la mia vita di figlio l’amore del

Padre a tutti i fratelli.d. Lascio risuonare nel mio cuore ogni singola nota di queste parole.

4.Testi utili

Solo alla fine della lettura uno capisce pienamente che cosa il testo vuole comunicargli. È quindi bene, sempre ogni volta, ricominciare il vangelo dall’inizio, per capirlo e viverlo sempre di più!