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ANNO ACCADEMICO 2011/2012 DANIELA COVINO STRATEGIE COMPETITIVE DELLE IMPRESE AGROALIMENTARI DISPENSA PER L’ESAME OPZIONALE DA 6 CFU

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI

“PARTHENOPE”

ANNO ACCADEMICO 2011/2012

DANIELA COVINO

STRATEGIE COMPETITIVE DELLE IMPRESE

AGROALIMENTARI

DISPENSA PER L’ESAME OPZIONALE DA 6 CFU

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Indice

INDICE

CONTENUTO DELLA DISPENSA.........................................................................................4

1. IL SISTEMA AGROALIMENTARE ITALIANO: STRUTTURA, RELAZIONI, STRATEGIE .......................5

INTRODUZIONE.............................................................................................................5

1.1L’INDUSTRIA ITALIANA NEL COMPARTO ALIMENTARE.....................................................10

1.2 IL “MADE IN ITALY” NELL’INDUSTRIA ALIMENTARE.......................................................15

1.3LA DISTRIBUZIONE ALIMENTARE................................................................................17

1.4LE RELAZIONI FRA INDUSTRIA E DISTRIBUZIONE ALIMENTARE..........................................23

1.5LE NUOVE TENDENZE DEI CONSUMI ALIMENTARI..........................................................25

1.6LE CARATTERISTICHE DEI “FOOD MILES”...................................................................26

CONCLUSIONI.............................................................................................................28

2. FORME DI COMPETIZIONE NEI MERCATI AGROALIMENTARI..............................................30

2.1AGROALIMENTARE E COMPETITIVITÀ: FONTI, FORME, ATTORI DELLA COMPETIZIONE...........30

2.2COMPETITIVITÀ E ORGANIZZAZIONE: FORME DI INTEGRAZIONE E COORDINAMENTO TRA

AZIENDE NEL SISTEMA AGROALIMENTARE....................................................................35

2.3STRATEGIE COMPETITIVE: MOTIVAZIONI GENERALI E POTENZIALI LEVE..............................40

3. STRATEGIE DI DIFFERENZIAZIONE: COMPETITIVITÀ, QUALITÀ E SICUREZZA ALIMENTARE..........46

3.1LE SPECIFICITÀ DELLA QUALITÀ NELL’AGROALIMENTARE.................................................46

3.1.1 I beni alimentari come “beni esperienza” e “beni fiducia”..............................47

3.1.2 La sicurezza alimentare: un prerequisito.........................................................48

3.1.3 Dimensioni oggettive e soggettive della qualità..............................................50

3.1.4 La differenziazione verticale e quella orizzontale nell’agro-alimentare..........51

3.2LA QUALITÀ COME LEVA COMPETITIVA.......................................................................52

3.2.1 Il ruolo della qualità nelle strategia basate sui prezzi......................................52

3.2.2 Il ruolo della qualità nelle strategia di differenziazione di prodotto................54

3.2.3 La qualità come fulcro della competitività dell’agro-alimentare italiano........56

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3.3GLI SCHEMI DI ASSICURAZIONE DELLA QUALITÀ............................................................59

3.4LA RINTRACCIABILITÀ COME STRUMENTO PER LA SICUREZZA ALIMENTARE: INNOVAZIONI

NELL’AGROALIMENTARE ED EFFETTI SUL SISTEMA.........................................................67

4. STRATEGIE DI DIFFERENZIAZIONE: COMPETITIVITÀ ED ETICA NELL’AGROALIMENTARE.............75

INTRODUZIONE...........................................................................................................75

4.1LE CRITICITÀ ETICHE NELL’AGROALIMENTARE: UNA SISTEMATIZZAZIONE............................77

4.2UNA PANORAMICA SULLE “PECULIARITÀ ETICHE” DEI SISTEMI AGROALIMENTARI................79

4.3 I POTENZIALI CORRETTIVI.........................................................................................81

5. STRATEGIE DI DIFFERENZIAZIONE: COMPETITIVITÀ E TUTELA AMBIENTALE...........................87

5.1INTERAZIONI TRA AMBIENTE ED ECONOMIA.................................................................88

5.2STRUMENTI DI POLITICA AMBIENTALE........................................................................91

5.3GLI STRUMENTI VOLONTARI: IL REGOLAMENTO EMAS, LA NORMA UNI EN ISO 14001:0492

5.4EMAS..................................................................................................................94

5.5LE NORME INTERNAZIONALI ISO 14000...................................................................97

5.6BENEFICI/COSTI DELL’IMPLEMENTAZIONE DI UN SGA...................................................98

6. STRATEGIE DI COSTO: LA LOGISTICA COME LEVA COMPETITIVA PER IL SISTEMA AGROALIMENTARE

...................................................................................................................... 102

6.1LA STRATEGICITÀ DELLA LOGISTICA NEL COMPARTO AGROALIMENTARE...........................102

6.2ELEMENTI DESCRITTIVI, PROBLEMATICHE E POSSIBILI CORRETTIVI PER LA LOGISTICA IN ITALIA

103

6.3LA STRATEGICITÀ DELLA LOGISTICA PER I PRODOTTI DEPERIBILI E LA SITUAZIONE IN CAMPANIA

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CONTENUTO DELLA DISPENSA

La presente dispensa è organizzata nel modo seguente:

Nella prima parte, vengono forniti gli elementi descrittivi del Sistema Agroalimentare italiano

nelle sue diverse componenti: agricoltura, industria, distribuzione, sia da un punto di vista

strutturale, che problematico, evidenziando gli elementi critici sui quali possono essere

messe in atto strategie competitive.

Nella seconda parte vengono richiamati i concetti teorici relativi alle diverse strategie com-

petitive, sia di costo che di differenziazione, dopo aver descritto le modalità e le forme di

competizione più rilevanti nei sistemi agroalimentari, sia ti tipo orizzontale, che di tipo verti-

cale.

Di seguito vengono invece descritte le principali e più importanti strategie competitive, con

particolare riferimento a quelle di differenziazione, mentre come esempio di strategia com-

petitiva per il contenimento dei costi è esemplificata la leva della logistica.

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1. IL SISTEMA AGROALIMENTARE ITALIANO: STRUTTURA, RELAZIONI,

STRATEGIE

INTRODUZIONE

L’agricoltura italiana, con le imprese agricole protagoniste di innumerevoli cambiamenti, è

stata in questi lunghi anni un fulcro per la storia del paese, per la sua stabilità e il suo

sviluppo. Le trasformazioni che si sono verificate negli ultimi decenni nell’economia italiana

sono state così profonde da avere pochi paragoni al mondo. L’Italia è passata dall’essere un

paese prevalentemente agricolo-industriale a paese industriale vero e proprio, fino a

mostrare tutte le caratteristiche di una società post-industriale. Sebbene le rilevanti

trasformazioni dell’agricoltura italiana abbiano avuto inizio dall’Unità d’Italia in poi, è nel

secondo dopoguerra che esse subiscono una profonda accelerazione. Negli anni Cinquanta

del Novecento l’economia italiana era ancora legata per una cospicua quota di reddito (circa

il 20%) all’agricoltura, nella quale, tuttavia, era impiegato circa il 36% della forza lavoro.

L’industria, ancora poco aperta ai mercati internazionali, produceva il 32% del PIL e i suoi

addetti rappresentavano il 34% del totale. L’agricoltura, sebbene costituisse la principale

voce del reddito nazionale, fu condizionata per molto tempo dall’inadeguatezza delle

tecniche e degli strumenti impiegati e solo in poche zone diventò un’attività moderna e

avanzata. Tali zone coincidevano in pratica con larga parte dell’Emilia Romagna e della

Lombardia, particolarmente fertili nei territori della bassa Pianura Padana, dove da tempo

l’attività agricola e zootecnica era condotta con notevole dinamismo da affittuari e

proprietari o, come in Emilia, da coltivatori diretti, spesso riuniti in cooperative, per

aumentare le potenzialità di capitali e di investimenti; nel Nord lo stesso Veneto era rimasto

sino a tutti gli anni Cinquanta, terra di limitati sviluppi. Il settore agricolo visse una

condizione di endemico sottosviluppo nel Sud del paese, dove alla questione sociale,

economica e generale, si aggiungevano problemi legati all’estremo frazionamento dei fondi

e alla difficoltà di lavorarli, essendo situati in gran parte in zone collinari o addirittura

Il Capitolo I relativo alla descrizione del sistema agroalimentare ed il Capitolo VI, relativo alla logistica sono stati curati dalla dott.ssa Daniela Catapano, dottorando di Ricerca in Economia delle Risorse Alimentari e dell’Ambiente.

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montuose, spesso soggette a frane. Nel meridione era rimasta, con retaggio secolare,

un’agricoltura povera, con bassissime rese produttive. Accanto al minifondo nelle zone di

montagna, dominava il latifondo costituito da vasti territori controllati da grandi proprietari

di ascendenza feudale, i cosiddetti “baroni”; questi immensi domini venivano solo in parte

sfruttati per produzioni cerealicole, ricorrendo ad una manodopera stagionale e sottopagata.

Tali condizioni di arretratezza e di povertà non potevano che indurre all’emigrazione non

appena si fossero presentate le occasioni favorevoli. Subito dopo il periodo della

ricostruzione, terminato con i primi anni ’50, si è verificato un forte e rapido esodo agricolo

sia verso l’estero che all’interno del Paese.

L’esodo agricolo accompagnato da forti migrazioni interne, dal Sud al Nord, come mai

avvenuto in precedenza, modifica i rapporti tra città e campagna. Il fenomeno è determinato

principalmente da tre fattori:

L’uso delle macchine e l’applicazione della tecnologia aumentano notevolmente la

produttività del lavoro agricolo, riducendo la domanda di lavoratori contadini.

I nuovi mass media (radio, tv) spingono le giovani generazioni a mutare le proprie

abitudini di vita, alzando le proprie aspettative di consumo (consumismo) e

abbandonando il classico autoconsumo contadino.

La ricostruzione post-bellica e la nascita dell’industria italiana: aumenta la domanda

di lavoro operario presso le industrie situate nei pressi delle grandi città o all’estero

(cosiddetto miracolo italiano).

Il contemporaneo, e certamente interconnesso, processo di sviluppo industriale, il

cosiddetto “miracolo economico” italiano, ha sancito la definitiva affermazione dell’Italia fra

i paesi maggiormente industrializzati cambiando radicalmente i rapporti fra città e

campagna. Nonostante la fortissima contrazione dell’occupazione agricola, la produzione ha

fatto registrare negli ultimi cinquant’anni dei tassi di sviluppo notevolmente superiori a

quelli di tutti i periodi precedenti, grazie anche alla forte diffusione della meccanizzazione e

del progresso tecnico, soprattutto nelle zone irrigue di pianura. La meccanizzazione

dell’agricoltura, strettamente legata all’esodo agricolo, è un vettore decisivo d’incremento

della produttività. L’introduzione massiccia di macchine e motori ha liberato una quantità di

tempo di lavoro più che proporzionale all’entità della riduzione della manodopera, ha

predisposto l’agricoltore a nuove innovazioni, avvicinandolo decisamente all’industria, alla

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città e alla modernizzazione. L’incremento del parco di trattrici, come di altri mezzi a motore,

conosce il tasso più alto nel decennio 1958-1968 (16,5% annuo), rivelando differenziali

regionali accentuati, destinati successivamente a ridursi ma non a scomparire. Una forte

spinta alla meccanizzazione viene data da due elementi importanti, verificatesi negli anni

sessanta: da un lato, la forte domanda interna stimola le economie di scala e quindi la

riduzione dei costi relativi delle macchine, proprio quando cominciano a verificarsi i più

marcati incrementi del costo del lavoro in agricoltura; dall’altro un forte stimolo viene dalle

misure di politica agricola con i finanziamenti dei Piani quinquennali di sviluppo

dell’agricoltura del 1961 e del 1966 (i cosiddetti Piani Verdi1) che privilegiano gli investimenti

aziendali, in particolare in macchine e bestiame. Tale progresso meccanico riduce

drasticamente i tempi di lavoro delle singole operazioni colturali, e un numero maggiore di

colture risultano sempre meno intensive in termini di richiesta di manodopera.

Intere colture ad alta intensità, come la barbabietola, già all’inizio degli anni ’70 risultano

completamente meccanizzate. Le nuove macchine condizionano i metodi di coltivazione, la

sistemazione delle piantagioni, la regressione di questa da zone impervie, meccanicamente

non accessibili, nel momento in cui affermano un’agricoltura totalmente mercantile, con

indirizzi produttivi specializzati e standardizzati. La domanda di macchine si fa sempre più

intensa nei decenni successivi e riguarda non solo i trattori, ma anche la meccanizzazione

minore (motocoltivatori, motozappe, ecc), mentre la presenza delle mietitrebbiatrici si

afferma. La produzione agricola raddoppiata in termini reali nel secondo dopoguerra,

decuplica per ogni occupato agricolo. La forte riduzione dell’autoconsumo delle famiglie

contadine, conseguente ai processi di urbanizzazione e l’aumento del reddito disponibile

hanno incrementato i consumi alimentari a tal punto che la produzione agricola non è stata

in grado di soddisfarli. Si è verificato in Italia un grave deficit strutturale nella bilancia dei

pagamenti per i prodotti agroalimentari. Agli inizi degli anni ’70 l’occupazione agricola si è già

ridotta a 3,6 milioni, meno della metà di quella presente agli inizi degli anni ’50, con un forte

ridimensionamento soprattutto dell’occupazione contadina, rispetto a quella salariata e

bracciantile. Nei decenni successivi l’esodo si fa più regolare, e interessa in misura analoga

sia la componente bracciantile che quella contadina. Ciò in larga parte è determinato dalla

1 I piani Verdi sono delle leggi di intervento pluriennale in agricoltura: sul territorio, sul capitale fondiario e sul capitale di esercizio. Questi provvedimenti favoriscono l’accesso al credito agrario e gli impegni a sostegno della bonifica, della meccanizzazione, dell’impiego di bestiame di razza e di sementi selezionate.

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drastica riduzione dell’attrazione di manodopera esercitata da parte della grande industria

del Nord-Ovest del paese, soprattutto a partire dai primi anni ’70. Il diffondersi di processi di

industrializzazione, che interessano aree sempre più rilevanti del Nord-Est e del Centro del

paese, e la crescita di settori terziari e della pubblica amministrazione, favoriscono

l’affermazione e la crescita delle aziende agricole part-time e pluriattive, dove i familiari o gli

stessi conduttori sono impegnati anche in attività extra-agricole. La produttività del lavoro

agricolo, sempre a partire da quegli anni, aumenta rapidamente rendendo le remunerazioni

salariali sempre più consistenti. In molte aree del Nord, si manifestano difficoltà a reperire

manodopera qualificata e molte operazioni meccaniche vengono effettuate ricorrendo a

servizi esterni alle aziende, con la rapida diffusione del contoterzismo (ossia la fornitura di

servizi meccanici che si sono progressivamente estesi dalla raccolta, a tutte le altre

operazioni colturali (semina, aratura, ecc.)).

Dagli inizi degli anni ‘80 la domanda alimentare ha progressivamente raggiunto la

saturazione e l’attenzione dei consumatori si è spostata sui problemi salutistici e dietetici,

con l’affermarsi della cosiddetta “dieta mediterranea2”, e sempre maggiore è diventata

l’attenzione verso le produzioni tipiche e di qualità, che caratterizzano le realtà regionali e

locali italiane. Tutto questo ha modificato strettamente le diverse componenti del sistema

agroalimentare caratterizzato, da un lato, per le sempre più evidenti interconnessioni e

integrazioni fra agricoltura, industria e distribuzione alimentare nel fornire prodotti e beni ai

consumatori italiani e dall’altro, per la necessità di rispondere a nuove esigenze della società

italiana in termini di qualità della vita, valorizzazione dell’ambiente, utilizzo e salvaguardia

delle risorse naturali. L’integrazione crescente all’interno del sistema agroalimentare va

presa in considerazione, sia per la necessità di instaurare nuovi rapporti fra produttori e

consumatori all’interno della catena alimentare, sia, e più in generale, per riannodare le

2 La dieta mediterranea fu scoperta dallo scienziato Ancel Keys, autore del libro Eat Well and Stay Well: the Mediterranean Way, che notò una bassissima incidenza di malattie delle coronarie presso gli abitanti del Cilento e dell’isola di Creta. Studiandone l’alimentazione caratteristica di quell’area geografica, avanzò l’ipotesi che essa potesse determinare lo stato di salute della popolazione. Generalmente tende a consigliare un consumo di pesce, frutta, verdura, cereali, olio d’oliva, vino e pane. Un posto privilegiato è occupato dai cereali e una nota particolare meritano i cereali integrali che si differenziano da quelli raffinati. Quest’ultimi, infatti, subiscono, l’esportazione della parte esterna del chicco, impoverendo di fatto il prodotto finale, specialmente dal punto di vista della fibra alimentare, che apporta un maggiore senso di sazietà abbassando l’indice glicemico dell’alimento in cui sono contenute. Ricchi di tale sostanza sono anche frutta e verdura, che contengono anche un’ingente quantità d’acqua, mentre molti frutti forniscono un imprescindibile e insostituibile contributo di vitamina C.

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relazioni fra campagna e città che si erano disaggregate nel corso dei decenni passati.

L’evoluzione del sistema agroalimentare ha visto, ben presto, il ridimensionamento del ruolo

economico ed occupazionale dell’agricoltura, mentre è cresciuto quello dell’industria

alimentare e soprattutto della grande distribuzione organizzata. L’industria alimentare anche

se, oggi, caratterizzata dalla presenza di numerose piccole e medie aziende, ha superato la

fase artigianale, per diventare uno dei principali settori dell’industria manifatturiera.

L’affermazione di gruppi multinazionali, anche di provenienza straniera, e dei cosiddetti

distretti agroalimentari3, ne hanno caratterizzato sempre la crescente integrazione lungo

tutta la catena alimentare. La stessa affermazione dell’industria alimentare ha rappresentato

uno degli elementi di maggior rilievo delle trasformazioni più recenti

del sistema agroalimentare italiano, soprattutto dalla metà degli anni ’80, cambiando non

solo l’importanza ma anche i rapporti fra le diverse componenti. Ma al di là delle

innumerevoli linee strategiche che negli ultimi anni sono state profuse risulta di

fondamentale importanza individuare le questioni critiche sui quali gli operatori del sistema

dovranno concentrare i propri sforzi: i sistemi agroalimentari mondiali appaiono sempre più

sensibili non solo alle pressioni provenienti dai rapporti di forza esistenti al loro interno e che

oggi testimoniano l’egemonia della GDO (grande distribuzione organizzata) ma anche e,

soprattutto, alle numerose forze che provengono dal contesto politico-istituzionale e che

spingono per un sistema sempre più flessibile e in grado di offrire prodotti e servizi di

qualità, ovvero, per operatori sempre più capaci di intuire e rispondere alle esigenze dei

consumatori. All’agricoltura italiana, in questo processo di grande trasformazione del

sistema agroalimentare, si pongono nuovi obiettivi, oltre a quello produttivo ed

occupazionale, che riguardano la salvaguardia dell’ambiente, la rivalutazione delle risorse

naturali e del paesaggio e più in generale, si guarda al ruolo “multifunzionale” che

l’agricoltura può svolgere nelle società avanzate. La ricerca di un’agricoltura sostenibile e

compatibile con l’ambiente rappresenta una delle nuove sfide che dovranno essere

affrontate nei prossimi anni, non solo per ricreare e sviluppare dei rapporti più stretti fra

città e campagna ma, soprattutto fra produttori e consumatori di beni alimentari.3 Per “distretto agro-alimentare”si intende l’insieme delle produzioni agricole, ittiche, di trasformazione alimentare e delle attività agro-industriali ad esse collegate, articolato in una rete stretta di rapporti di filiere e settori di filiere tale da caratterizzare significativamente l’ambito produttivo locale; l’insieme si connota inoltre per l’integrazione con il sistema distributivo, che seppur elemento relativamente esterno ad esso mantiene sempre una forte influenza sulle componenti che si collocano soprattutto a monte dello stesso.

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1.1 L’INDUSTRIA ITALIANA NEL COMPARTO ALIMENTARE

Le strette connessioni esistenti tra agricoltura, industria di trasformazione e distribuzione

alimentare impongono, oggi, una visione più complessiva del sistema agroalimentare. Le

attività che direttamente e indirettamente fanno parte del sistema sono numerose e vanno

dall’agricoltura produttrice di mezzi tecnici, dall’industria della trasformazione alimentare

fino alla logistica e alla distribuzione. L’industria agro-alimentare, rappresentata dall’insieme

delle industrie di trasformazione in alimenti e bevande di prodotti agricoli, degli allevamenti

e della pesca, rappresenta un settore rilevante all’interno dell’industria manifatturiera

italiana. Il termine agroalimentare indica appunto la stretta correlazione ed il rapporto

funzionale esistente tra il settore primario (agricolo) e quello di natura più propriamente

industriale, l’alimentare. Tale rapporto si sviluppa secondo una direzione biunivoca per cui

l’agricoltura condiziona il settore a valle e,viceversa, il settore alimentare, a sua volta,

influisce pesantemente sul settore a monte. Un tempo la componente agricola prevaleva e

condizionava l’industria alimentare. Oggi, invece, molteplici fattori impongono all’agricoltura

di adattarsi alle esigenze dell’industria di trasformazione e della distribuzione alimentare, ed

ancora più a valle, ai gusti e alle richieste dei consumatori finali. Differenti cause hanno

contribuito a questa trasformazione: la riduzione dei costi di trasporto, che ha consentito la

delocalizzazione di molte industrie ed una maggior internazionalizzazione del mercato, i

nuovi modelli di consumo orientati verso valori intrinseci degli alimenti (esempio delle

colture biologiche4), l’affermarsi di nuovi circuiti distributivi, in particolare quelli riguardanti

la grande industria. L’integrazione dell’agricoltura e dell’allevamento con l’industria

alimentare ha costituito un fattore chiave per il settore agro-industriale. La volontà di

innovare, unita alla consapevolezza di quanto fosse necessario mantenere anche gli aspetti

4 L’agricoltura biologica è un metodo di produzione definito dal punto di vista legislativo a livello comunitario con un regolamento, il Regolamento CEE 2092/1991, e a livello nazionale con il D.M 220/95 (un ultimo Regolamento è quello CE 834/2007). Il termine richiama un particolare metodo di coltivazione e di allevamento che ammette solo l’impiego di sostanze di origine naturale, presenti cioè in natura, escludendo l’utilizzo di sostanze chimiche di sintesi (concimi, diserbanti, insetticidi). Tale sistema si contrappone all’agricoltura convenzionale, un metodo ad agricoltura intensiva, generalmente a regime monocolturale che utilizza tecniche di coltivazione e di allevamento tradizionali, e che prevede l’adozione di prodotti chimici di sintesi a scopo fertilizzante e antiparassitario.

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socio-culturali, la tradizione e la valorizzazione delle produzioni tipiche, hanno portato l’Italia

in una posizione di leadership a livello nazionale in campo agroalimentare.

Insieme con l’agricoltura, l’indotto e la distribuzione, l’industria alimentare italiana

rappresenta, oggi, l’elemento centrale del primo settore economico del paese. All’interno

delle attività manifatturiere, l’alimentare occupa il quarto comparto per numero di imprese,

circa 55 mila (pari al 13% del totale manifatturiero) e 392 mila addetti. La dimensione media

delle imprese del settore, di poco superiore ai 7 addetti, è inferiore ai 9,5 addetti medi delle

imprese manifatturiere. Ad oggi, l’industria compra e trasforma il 72% delle materie

agricole nazionali, con un fatturato globale dell’ordine di 127 miliardi di euro. I comparti e le

filiere di maggior rilievo sono il lattiero-caseario (23%), dolciario (11%), la trasformazione

delle carni e salumi (15%), seguono i comparti delle carni avicole, mangimistico,

pastificazione e molitorio, e conserve vegetali con un’importanza relativa di circa il 3-5% per

ciascuno di essi. L’industria alimentare italiana è caratterizzata anche dalla presenza di

numerosissimi comparti di minore importanza (zucchero, birra, succhi e bevande di frutta,

surgelati, ecc..) che ne denotano la profonda differenziazione.

Nel 2011, l’alimentare italiano, con 127 miliardi di fatturato, e quasi 400 mila addetti, ha

registrato un saldo attivo della bilancia commerciale di oltre 4 mld (+29,3%): incoraggiante

segnale di ripresa è l’export , che ha chiuso con una quota di 23 mld e un incremento del

+10,2% rispetto al corrispondente periodo del 2010. A livello strutturale, il 2011 ha recato,

anche, qualche criticità al settore, ovvero il riapparire della flessione della produzione che si

era presentata nel biennio 2008-2009. Il calo del 2011 sull’anno precedente è pari infatti al -

1,5%, mentre il valore del fatturato del settore cresce solo del 2,4%, al di sotto del tasso di

inflazione (+3,2%), attestandosi a 127 miliardi di euro.

Tabella 1 – Industria alimentare italiana dati 2010 – stime 2011

2010 VAR % 2009STIME

2011 (Mld €)

STIME 2011 (VAR % su 2010)

Fatturato 124 +3,3% 127 +2,4%

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Produzione 124 +2% 127 -1,5%Export 21 +10,5% 23 +10,2%Import 17 +13,2% 18,7 +10,6%Bilancia commerciale 4 -2,1% 4,3 +29,3%

Fonte: Stime Federalimentare 2010.

Tabella 2 – Fatturato dell’industria alimentare per settori (euro), 201

COMPARTIFATTURATO 2010

(milioni di euro)VAR % 10/ 09

Acque minerali 2.100 -4,5Alcoli e acquaviti 1.000 0,0Alimentazione animale 6.650 16,7Avicolo 5.300 -0,4Bevande gassate 1.800 0,0Birra 2.550 6,2Caffè 2.440 1,7Carni bovine 5.900 0,0Conserve vegetali 3.700 0,0Dolciario 12.051 4,5Infanzia, dietetici e integratori alimentari 3.050 1,7Ittici 1.420 2,4Lattiero – Caseario 14.800 2,6Molitorio 2.590 1,2Olio di oliva e di semi 4.200 5,0Pane industriale 651 3,2Pasta 4.303 -3,2Preparati 4a gamma freschi e prod. liofilizzati 1.000 3,1Riso 1.030 -1,9Salumi 7.928 4,3Sostituti del pane 384 5,2Succhi di frutta/ Elab. 1.053 -1,0Surgelati 4.126 1,6Vino 10.700 0,9Zucchero 630 0,0Varie 22.644 6,5TOTALE 124.000 3,3

Fonte: Federalimentare 2011.

A livello settoriale, una congiuntura favorevole si è registrata per l’industria dei gelati,

della pasta, mangimistica, degli elaborati a base di carne e per quella di trasformazione

ortofrutticoli. Il trimestre, invece, si è rivelato difficile per l’industria delle acque naturali e

delle bevande analcoliche, per quella dolciaria, molitoria, di prima lavorazione delle carni

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bianche, riso e olio d’oliva. In ambito territoriale, è l’area Nord Est con le migliori tenute ma

non mancano modeste riprese al Centro. Di converso, è risultato in flessione il Mezzogiorno

e il Nord Ovest. La distribuzione regionale vede una localizzazione rilevante in Lombardia,

seguita dall’Emilia Romagna. Nel Sud la regione con la presenza del maggior numero di unità

locali è la Sicilia ma è la Campania ad avere il maggior numero di addetti. Nelle regioni del

Centro-Nord si concentra oltre il 60% delle imprese e quasi l’80% del valore aggiunto

dell’industria alimentare italiana. In complesso l’industria alimentare italiana si presenta

fortemente polverizzata; il numero delle piccole imprese è molto alto (6.500 con più di 9

addetti e 2.600 con più di 19 addetti), tuttavia sono quelle con più di 100 addetti ad avere il

fatturato (70%) e l’occupazione maggiori (52%). Risulta evidente quindi la presenza di una

forte concentrazione e di una frangia concorrenziale composta da una miriade di piccole e

piccolissime unità produttive, che vivono di mercati locali e spesso di produzioni tradizionali

(tipiche o del territorio). Le prospettive di crescita del sistema dipendono da un continuo

processo di aggiustamento nell’allocazione dei fattori produttivi e delle produzioni ai fini del

mantenimento di adeguati livelli di competitività. Oggi l’industria agroalimentare italiana si

trova a doversi confrontare con altri importanti cambiamenti che vedono in particolare il

forte e rapido sviluppo dei sistemi logistici e della grande distribuzione organizzata.

L’affermarsi della grande distribuzione nell’ultimo decennio ha provocato un notevole

ridimensionamento della vecchia struttura distributiva tradizionale, che spesso in passato

aveva salvaguardato e protetto il sistema agroalimentare italiano dalla concorrenza sempre

più massiccia degli altri paesi europei. Tale comparto sta diventando un settore di punta non

solo in ambito nazionale, ma anche a livello comunitario. Esso è caratterizzato da una

concorrenza crescente, che porta le industrie a concentrare l’offerta e a sacrificare parte dei

profitti per conservare la quota di mercato. Anche l’industria alimentare europea,

considerata un settore a bassa intensità di innovazione, e caratterizzata dalla presenza

storica di alcuni grandi gruppi che nei rispettivi comparti occupano posizioni di leadership, è

stata condizionata dal sempre crescente potere contrattuale delle grandi catene distributive.

Le imprese dell’industria alimentare europea sono prevalentemente interessate ad acquisire

economie di scala/scopo tramite innovazioni di processo e meno stimolate ad introdurre

innovazioni di prodotto. A tutto ciò si aggiungono le conseguenze dell’apertura dei mercati

che richiede all’industria alimentare una sempre maggiore capacità di segmentazione e

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quindi un maggior numero ed un più alto turnover di nuovi prodotti. Questo fa sì che

l’industria agroalimentare, seppur low tech se comparata con le altre industrie, tenda a

diventare più tecnologica rispetto al passato. Secondo dati raccolti dall’Istat, anche le

imprese alimentari italiane sono coinvolte in processi innovativi: la propensione a innovare e

l’impegno finanziario per le attività innovative sono solo lievemente inferiori a quelli medi

registrati dal complesso dell’industria manifatturiera: nel triennio 2006-2008 il 51,2% delle

imprese alimentari ha effettuato innovazioni, contro il 54,4% della media manifatturiera.

Tabella 3 – Diffusione e dimensione dell’innovazione (2008)

Attività economica

Totale imprese Totale

Innov. Tecnologiche

(processo e prodotto)

Innov. Non Tecnologiche (marketing o

organizzative)

Spesa per l’innovazione

per addetto

Industria alimentare 6.699 51,2 35,1 42,5 7.125

Totale manifattura 85.694 54,4 41,5 41,6 8.029

Fonte: Istat, 2006-2008.

Il 35% delle imprese italiane ha introdotto almeno un’innovazione di prodotto o processo e il

42,5% forme di innovazione organizzativa o di marketing, associando l’innovazione nel

design o packaging (40% delle imprese). Nello stesso periodo, oltre la metà delle imprese

innovatrici ha scelto l’innovazione congiunta di prodotto-processo come modalità

prevalente. Il settore alimentare si caratterizza, dunque, al pari di quello europeo, per una

maggiore vocazione alla sola innovazione di processo: il 36,1% delle imprese innovatrici, pur

non dedicandosi allo sviluppo di nuovi prodotti, ha scelto di adottare sistemi di produzione

tecnologicamente più avanzati, macchinari ad elevato contenuto innovativo, tecnologie che

garantiscono una maggiore produttività e migliori prestazioni in termini di rapidità,

precisione e flessibilità. Gli investimenti in innovazione tecnologica dell’industria alimentare

hanno raggiunto, nel 2008, circa 1 miliardo di euro, con un’incidenza media per addetto di

oltre 7.000 euro, contro gli 8.000 euro registrati nell’intero settore manifatturiero.

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1.2 IL “MADE IN ITALY” NELL’INDUSTRIA ALIMENTARE

L’industria italiana, generalmente riconosciuta come l’ambasciatrice del Made in Italy nel

mondo, rappresenta il secondo comparto produttivo del manifatturiero nazionale. Si tratta di

una realtà che ha raggiunto miliardi di fatturato annuo, composta da circa 6.500 imprese che

esportano circa l’80% di marchi industriali prestigiosi. La capacità di esportare e di

confrontarsi con il mercato globale decretano il successo, e forse la stessa sopravvivenza,

del Made in Italy alimentare, che resta il portabandiera dell’intera produzione industriale

nazionale nel mondo. La nozione di Made in Italy, individua l’origine del prodotto in un Paese

o territorio dove ha avuto luogo l’ultima trasformazione industriale. Il Made in Italy deriva

dalla capacità del produttore di selezionare e miscelare materie prime (nazionali ed estere)

lavorandole secondo ricette e tecniche originali, garantendo con la propria responsabilità la

qualità dei prodotti. Valore aggiunto indiscusso dell’alimentare italiano è, soprattutto, lo

strettissimo legame che la produzione ha con la tradizione di questo paese. I prodotti “tipici”,

quelli legati ad un territorio determinato, coprono il 10% circa della produzione alimentare.

Sono prodotti che, dal legame col territorio, traggono elementi non solo economici ma

anche un aspetto qualitativo caratterizzante. Di questo genere di prodotti l’Italia è leader in

Europa per numero di DOP e IGP5 riconosciuti, ossia per ricchezza di tipicità. Il restante 90%

è rappresentato dal Made in Italy, che non sempre ha un legame specifico con il territorio.

Questo genere di produzione ha un legame forte con una tradizione fatta di trasformazione

dei prodotti alimentari, di selezione delle materie prime provenienti dal mondo intero, e

infine di produzione dei prodotti adeguati ai gusti e alle specifiche culture dei consumatori

italiani e di tutto il mondo. E’quello che può essere chiamato “know how”, ossia la capacità

di trasformare prodotti agricoli nazionali e di prodotti selezionati nel mondo intero. Un

esempio nè è il caffè. Pur trattandosi di un prodotto che caratterizza molto il nostro paese,

non si produce neppure un chicco di caffè in Italia. Eppure, l’industria italiana ha una

5 Con denominazione origine protetta (DOP) ed indicazione geografica protetta (IGP) ci si riferisce al nome di una regione, o di un luogo determinato oppure (ma molto di raro) ad un paese al solo scopo di identificare uno specifico prodotto agricolo o alimentare come originario di quel particolare sito geografico. In maniera dettagliata, nella DOP la qualità o le caratteristiche sono dovute essenzialmente o esclusivamente all’ambiente geografico comprensivo dei fattori naturali ed umani e la cui produzione, trasformazione ed elaborazione avviene nell’area geografica delimitata.Nell’IGP, invece, una determinata qualità, la reputazione o un’altra caratteristica può essere attribuita all’origine geografica e la produzione e/o trasformazione e/o elaborazione avviene nell’area geografica determinata.

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sapienza impareggiabile nel produrre quel caffè che tutti definiscono “caffè italiano”.

Ebbene, questo 90% di prodotti che esulano dalla categoria formale dei tipici contribuisce

fortemente, attraverso i suoi marchi, alla crescita del prodotto italiano nel mondo.

Secondo i dati forniti da Federalimentare e Assolatte, le esportazioni del Made in Italy nel

2011, in crescita del 6,3%, sono state guidate da tre settori cardine: il vino, i prodotti

lattiero-caseari e la pasta con un progresso di oltre 13% per quelle vitivinicole. Tra i prodotti

più rappresentativi del Made in Italy, emerge una crescita moderata anche per il comparto

frutticolo (+2,4%), grazie soprattutto alle mele che hanno controbilanciato il forte calo delle

esportazioni di frutta estiva e agrumi. In netto recupero, dopo un biennio negativo, i flussi

oltrefrontiera di pasta, che hanno fatto registrare nel periodo gennaio-novembre un +7,4%.

Tra i formaggi e latticini, che nel complesso replicano il successo del 2010 con un +16%, sono

i formaggi grana (Grana padano e Parmigiano reggiano) e il Gorgonzola a registrare gli

incrementi più significativi, rispettivamente del 22% e del 14%. Da segnalare anche

l’inversione di tendenza del Pecorino/Fiore sardo, in ripresa del 6,7%. I prodotti da forno e

quelli della salumeria, entrambi in crescita di oltre il 7% , proseguono la tendenza positiva

che, seppure più marcata nel 2010, non aveva conosciuto arresti neanche durante la crisi del

2009. Anche l’olio di oliva incrementa le vendite all’estero del 7%, mentre si delinea un

bilancio piuttosto deludente per gli ortaggi freschi. Tra i principali Paesi di destinazione

dell’agroalimentare italiano, i dati del periodo gennaio-novembre 2011 indicano aumenti dei

flussi in valore verso la Germania (+5,4%), la Francia (+9,2%) e il Regno unito (+2,8%), con un

incremento medio nella Ue del 6,7%. Cresce a ritmi più sostenuti la domanda nei Paesi

extraeuropei (+13,5%), tra i quali spicca soprattutto il ruolo degli Stati Uniti (+10,8%). Un

dato importante innanzitutto perché riguarda la prima voce dell’export alimentare italiano

(per un valore di circa 3,5 miliardi di euro l’anno) e, in secondo luogo, perché ribalta il calo in

valore registrato dalle esportazioni nel corso del 2009 (-5,5%). Valorizzare le produzioni di

qualità è una scelta strategica irrinunciabile, un’arma vincente del Made in Italy, una

sicurezza e una garanzia sia per i consumatori che per gli agricoltori. Da qui l’esigenza di

salvaguardare il nostro sistema agroalimentare che proprio nella qualità, nella tipicità e nel

legame con il territorio ha le sue fondamentali prerogative. La conclusione del percorso sul

nostro Made in Italy abbinata al concetto della qualità dei prodotti alimentari, coincide con

l’apertura di un altro importante capitolo per il futuro dell’agricoltura europea, la nuova Pac.

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Si spera che la nuova politica agricola comunitaria possa accompagnare l’industria

alimentare con forti scelte, adeguate risorse e servizi efficaci per rafforzare l’agricoltura,

migliorare il reddito dei produttori, salvaguardare l’ambiente e il territorio

1.3 LA DISTRIBUZIONE ALIMENTARE

I cambiamenti avvenuti nel sistema agroalimentare hanno subito una profonda

accelerazione negli ultimi decenni nell’ambito della distribuzione e commercializzazione dei

prodotti. Tali cambiamenti hanno fatto registrare, un vero e proprio crollo del sistema di

distribuzione tradizionale, caratterizzato dalla presenza di un numero molto elevato e diffuso

di negozi, e al tempo stesso si è affermata la grande distribuzione organizzata imperniata sui

supermercati ed ipermercati, acquistando quote di mercati sempre maggiori fino a diventare

la parte largamente prevalente del sistema distributivo agroalimentare, avvicinando l’Italia

agli altri paesi europei. Il processo di razionalizzazione, che ha coinvolto, la struttura del

commercio agroalimentare negli ultimi anni, ha generato una diminuzione del numero di

esercizi del “piccolo dettaglio”, senza però ridimensionarne l’importanza, che si esprime non

solo sotto il punto di vista economico, ma anche attraverso il ruolo di supporto alle funzioni

residenziali e produttive. La struttura tradizionale della distribuzione alimentare fino a tutti

gli anni ’80 è stata caratterizzata dalla presenza di un numero rilevantissimo di negozi diffusi

su tutto il territorio nazionale, nelle grandi, piccole città e paesi e soprattutto dalla legge

n.426 del 1971, che ha imposto forte limitazioni nei piani commerciali con la fissazione di

tabelle merceologiche, del numero degli esercizi e il limite massimo delle superficie di

vendita. Ciò ha costituito una forte barriera all’entrata per le grandi superfici e l’impossibilità

di usufruire di economie di dimensione. La situazione è cambiata con il testo Unico sul

commercio fisso del 1988, che ha eliminato, almeno in parte, il vincolo all’ampliamento e al

trasferimento della superficie degli esercizi di media e grande dimensione istituendo un

centro di rilevazione permanente per il settore distributivo. Successivamente, diversi decreti

e in particolare il decreto Bersani del 2000, hanno portato ad una maggiore liberalizzazione

delle licenze e degli orari di apertura. La diffusione della grande distribuzione, causa

principale del crollo del sistema tradizionale, è iniziata nelle regioni del Nord, e in particolare

nelle grandi città e loro periferie. I primi esercizi a diffondersi sono stati i supermercati,

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seguiti da ipermercati, dove le grandi superfici dei reparti alimentari sono state affiancate da

numerose altre attività commerciali. Verso gli anni ’90 ha preso piede in modo sistematico

anche una nuova forma di distribuzione, rappresentata dagli hard discounts (forma di

distribuzione che punta al ribasso dei costi e quindi dei prezzi dei prodotti alimentari,

basandosi sulla vendita di prodotti non di marca e poco pubblicizzati). Tali risultati

dimostrano come il consumatore abbia modificato le sue abitudini di acquisto verso una

maggiore propensione a preferire il punto vendita che sia raggiungibile con il minor

sacrificio, che offra una vasta gamma di prodotti e, che sia competitivo in termini di prezzo.

In poco tempo la grande distribuzione organizzata è diventata quindi una delle forme di

distribuzione alimentare più importanti e diffuse in tutto il paese. Il maggiore potere

contrattuale che si è andato concentrando nelle mani delle imprese di distribuzione si è

concretizzato con l’affermarsi di marchi propri (private label6) delle diverse catene

distributive, che si contrappongono ai marchi privati che fanno capo alle grandi industrie e

gruppi alimentari italiani e stranieri. L’attenzione alla qualità e alla sicurezza alimentare da

parte della grande distribuzione si è progressivamente affermata non solo, come strategia di

mercato, ma anche come risposta alla crescente sensibilità dei consumatori. La grande

distribuzione ha, quindi, sviluppato un’azione importante nella definizione degli standard e

delle caratteristiche che devono avere i prodotti alimentari fin dalla fase della produzione

agricola. Un aspetto da non trascurare riguarda la maggiore attenzione che la grande

distribuzione dà alle produzioni agroalimentari fresche e di qualità, come strumenti per

affermare la propria immagine e fidelizzare i propri clienti. Secondo dati forniti da ACNielsen,

a livello strutturale, oggi una cospicua quota di mercato è occupata da supermercati e negozi

tradizionali. Al 1 gennaio 2009 sono stati censiti 9.133 supermercati (+3,6% rispetto all’anno

precedente) con una forte concentrazione soprattutto nel Mezzogiorno (+4,3% unità di

vendita). Anche gli ipermercati sono in aumento, con 552 unità (+6,1%).

Tabella 4 – Peso dei canali distributivi alimentari

DIMENSIONECATEGORIA

QUOTA DI MERCATO %

Supermercati 1.200 – 2.500 mq 39,6Superette e negozi tradizionali < 400 mq 18,3

6 Le private label o marche private, sono prodotti e servizi, solitamente realizzati e forniti da società terze (fornitore di marca industriale e terzista vera e propria) e venduti con il marchio della società che vende offre il prodotto/servizio (distributore).

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Libero Servizio 10,4Ipermercati >2500 mq 12,1Hard Discount 2000-2500 mq 9,5 Altro 10,1

Fonte: ACNielsen (2011).

La distribuzione è diventa sempre più concentrata ed orientata all’internazionalizzazione,

tanto che tale fenomeno è definito dalla società di ricerche Mc-Kinsey “oligopolio

distributivo”. Soprattutto nei paesi ad economia avanzata, si è verificato un cambiamento di

rotta sul piano comportamentale da parte del consumatore, che essendo sensibile a

determinate regole di marketing, è diventato più esigente su aspetti che appartengono al

nuovo stile di vita presente nelle economie sviluppate e richiede, pertanto, una revisione

delle regole di marketing da parte delle aziende. Il prodotto offerto,oggi, dalla grande

distribuzione al consumatore è un prodotto complesso che incorpora servizi e varietà di

offerta sugli scaffali. Infatti, la scelta del punto vendita non è semplicemente legata al prezzo

ma anche ad altri fattori come ad esempio, la vicinanza al luogo di lavoro o residenza e la

possibilità di parcheggio. In Italia, tra il 1996 e il 2008, il numero di punti vendita al dettaglio

è aumentato sensibilmente sia per quanto riguarda i negozi tradizionali sia per la

distribuzione moderna. Per i primi questa tendenza complessiva è dovuta esclusivamente

agli esercizi che vendono prodotti non alimentari (+19%) che hanno controbilanciato il

declino dei negozi alimentari (-14%). Per la distribuzione moderna sono aumentati i punti

vendita di entrambe le tipologie di prodotti, ma la crescita è nettamente più marcata per i

non alimentari (+60% contro +34%). Il risultato è che, in Italia, la quota di mercato della

grande distribuzione organizzata (GDO) è passata, in dieci anni, dal 36 al 52%, mentre quella

dei negozi tradizionali è scesa dal 53 al 35,6%. Questo ribaltamento è ancora più evidente

per quanto riguarda i generi alimentari: la quota di mercato della GDO è passata dal 50% al

69%, mentre quella dei negozi tradizionali è scesa dal 41% al 18%. Stessa tendenza, si è

registrata per i beni non alimentari: la quota di mercato della GDP è, infatti, passata dal 20 al

35%, mentre quella dei negozi tradizionali è scesa dal 67 al 50%. Più precisamente,

nell’ambito dei super e ipermercati, i primi cinque distributori hanno una quota di mercato

pari al 95% in Francia, al 96% in Germania, al 70% nel Regno Unito, al’80% in Spagna e al 60%

in Italia.

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Tabella 5 – Peso dei canali di vendita

2010 Italia Spagna Francia Germania UK

Ipermercati (>2500) 29% 28% 55% 28% 51%Supermercati (400-2500) 48% 52% 41% 68% 25%Superette e negozi tradizionali 23% 20% 4% 4% 24%

Fonte: ACNielsen (2011).

A livello internazionale, sempre per quanto riguarda gli alimenti, il leader della grande

distribuzione organizzata è WalMart, con una cifra d’affari che, nel 2011, ha superato i 316

miliardi di euro. Al secondo posto, ma molto più lontano, si trova il gruppo francese

Carrefour che ha fatturato solo 90,1 miliardi di euro. Seguono poi un altro americano e un

gruppo tedesco Tesco, Metro (circa 67 miliardi di euro). Il primo italiano, Coop Italia, si

posiziona al 49° posto, con 15,5 miliardi di euro di cifra d’affari e al I posto dei grandi

distributori italiani.

Tabella 6 – Grandi distributori internazionali (Mld €)

FATTURATO

Wal-Mart 316Carrefour 90,1Tesco 71Metro 67,3Kroger 62Costco 57,5Target 49,6Seven 44Aeon 43,8Edeka 43,1Auchan 42,5Rewe 39,8

Fonte: Iri Infoscan- 2011.

Al secondo posto, nella classifica italiana, si posiziona Conad (circa 10 miliardi di euro),

seguito dal Gruppo Auchan (8 Mld), Selex (tutti circa 7 miliardi), Esselunga (7 miliardi),

Carrefour, Despar, etc.

Tabella 7 – Gruppi della distribuzione alimentare italiana

Quota di mercato 2010

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( % su GDO tot. Fatturato)Coop Italia 15,4Conad 10,1Gruppo Auchan 8,3Selex 7,9Esselunga 7,7Gruppo Carrefour 7,2Despar 4,4Interdis 3,9Gruppo Pam 3,5Eurospin 3,4

Fonte: Iri Infoscan- 2011.

Da un’analisi sulla densità del sistema distributivo italiano emerge, anche, una

disuguaglianza tra Italia settentrionale e meridionale. Al sud prevale la presenza di molte

superficie dedicate al libero servizio. Molto importante è la continua crescita dei discounts

che si sta imponendo come alternativa ai Superstore. Al nord i punti vendita di libero servizio

lasciano posto alle grandi superficie di vendita. Più della metà degli ipermercati in tutta Italia

si concentra in Lombardia, Veneto e Piemonte. Anche l’andamento delle vendite alimentari

rispecchiano i criteri del sistema distributivo italiano. Nel I semestre 2011, le vendite hanno

registrato un aumento dello + 0,5% seguendo il trend cominciato nel 2010; per il dettaglio

tradizionale i volumi venduti sono ancora inferiori all’anno precedente (0,4%), a conferma

dell’andamento deludente del canale.

Tabella 8 – Vendite alimentari al dettaglio 2011

Var % vendite alimentari

(Su indici grezzi su valori correnti)

Var % vendite alimentari(Su indici destagionalizzati)

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I TRIMESTRE 2011 AprileMaggioGiugno

4,3-0,30,2

1,10,5 0,3

II TRIMESTRE 2011LuglioAgosto Settembre

-2,11,70,7

-0,50,30,1

III TRIMESTRE OttobreNovembreDicembre

0,90,0

-1,7

0,80,0

-2,0IV TRIMESTRE -0,4 -0,5 Fonte: Federalimentare.

Analizzando la regione Campania, si è assistito negli ultimi anni, ad una comparsa di punti

vendita al dettaglio con elevata superficie, provocando una fuoriuscita dal mercato dei

piccoli dettaglianti tradizionali. Tale riduzione, che può essere adottata come indice di

razionalizzazione e riorganizzazione del sistema distributivo, è stata meno sensibile rispetto

al dato italiano e al Mezzogiorno nel suo complesso. Ciò è indice di un notevole ritardo nel

processo di modernizzazione della distribuzione alimentare all’interno della regione,

confermata anche dalla minore riduzione del numero dei grossisti, che indica la persistenza

di canali commerciali di tipo “lungo”, che caratterizzano settori distributivi di tipo più

tradizionale (ortofrutticolo, cerealicolo, pataticolo, ecc). Indipendentemente dalla situazione

campana della distribuzione alimentare resta un dato di fatto che oggi i sistemi

agroalimentari di successo debbano essere in grado di gestire in maniera efficiente: i

rapporti con la distribuzione moderna. La posizione di forza che caratterizza il settore della

distribuzione alimentare deriva proprio dal posizionamento strategico in prossimità di un

consumatore il cui comportamento è in profonda evoluzione. In un sistema agroalimentare

condotto dal consumatore, l’impresa agroalimentare moderna affronta un duplice ruolo:

non è più quello del fornitore di prodotti ad elevata sostituibilità, ma è attivamente

impegnata nella soddisfazione generale di un consumatore sempre più self-concerned, che

ricerca anche nei prodotti alimentari un valore reale per il denaro che dedica all’acquisto di

tali beni.

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1.4 LE RELAZIONI FRA INDUSTRIA E DISTRIBUZIONE ALIMENTARE

La politica di concentrazione intrapresa dal settore della distribuzione ha avuto il suo stimolo

principale nel tentativo di aumentare il proprio potere contrattuale. Conseguenza inevitabile

di questo processo è stato il superamento della funzione di semplice raccordo tra

produzione e consumo, e l’acquisizione di una rilevante funzione di condizionamento dei

consumatori. Questo cambiamento ha determinato un conflitto tra industria e distribuzione

alimentare. L’inizio del conflitto occorre con l’affermarsi dei prodotti di marca che rendono le

insegne fortemente sostituibili fra loro, rendendo il livello generale dei prezzi l’unico fattore

di differenziazione agli occhi del consumatore. La competitività sul fronte dei prezzi implica

una compressione dei margini del distributore, che per ovviare a tale processo ha davanti

l’unica soluzione di affrancarsi dai vincoli imposti dall’industria alimentare di marca. Il

conflitto con l’industria alimentare si identifica nel continuo tentativo da parte della

distribuzione di massimizzare i propri margini mercantili attraverso la riduzione dei prezzi

degli input. Il prezzo alla distribuzione, qualora non sia imposto dall’industria, genera una

spietata concorrenza sui prezzi offerti dalle imprese distributive, spesso provocando

alterazioni nella percezione della qualità dei prodotti da parte del consumatore. Viceversa, in

caso di prezzi non imposti, la concorrenza tra imprese distributive s’incentra sulla

differenziazione e sul livello di servizi addizionali offerti con il prodotto. Le strategie possibili

per l’industria alimentare mirate a mantenere la propria posizione mercantile nei confronti

della moderna distribuzione s’incentrano sulla massima possibile differenziazione dei

prodotti, o meglio sulla creazione di una forte immagine per i propri prodotti (o per i propri

marchi) attraverso la comunicazione. La forte fidelizzazione del consumatore nei confronti

della marca sbilancia il potere mercantile a favore dell’industria, dal momento che la formula

distributiva è scelta perché comprende nel proprio assortimento la marca ricercata dal

consumatore. Un primo vincolo per la distribuzione è la necessità di comprendere nella

propria offerta le marche leader per non compromettere l’immagine della propria insegna;

dall’altra parte, in una simile situazione i prodotti si vendono da sé, e veramente ristretti

possono essere i condizionamenti della distribuzione sul consumatore. Ma nel tempo sia

attraverso i processi di concentrazione che attraverso un’imponente organizzazione, la

fidelizzazione alla marca si è gradualmente trasformata in fidelizzazione all’insegna, con

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l’appropriarsi da parte dell’industria delle funzioni di condizionamento nei confronti del

consumatore, consentendo un’inversione nella detenzione al potere contrattuale tra

distribuzione stessa ed industria alimentare. Il conflitto che si è generato nel tempo tra

industria alimentare e distribuzione ha avuto, in ogni caso, l’effetto di un reciproco

condizionamento tra i due attori. La distribuzione ha reso possibile il processo di

concentrazione dell’industria alimentare, mentre la competizione con l’industria ha spinto la

moderna distribuzione ad integrare verticalmente determinate funzioni logistiche

(tradizionalmente di competenza degli intermediari grossisti). Le industrie alimentari con le

capacità adeguate hanno reagito con l’ampliamento della gamma dei prodotti offerti e con la

ricerca di prodotti innovativi, per combattere le barriere all’entrata innalzate dalla moderna

distribuzione. La riorganizzazione delle funzioni svolte dalla moderna distribuzione ha avuto

ripercussione positiva sul contenimento dei margini di commercializzazione: dal conflitto con

l’industria, la moderna distribuzione ha ricavato l’impulso alla ricerca di economie di scala.

L’effetto finale del conflitto è stato infine l’ampliamento della gamma di alternative a

disposizione del consumatore, da cui in ogni caso sono partiti gli impulsi al cambiamento. La

diffusione di iniziative come l’ECR7 ed il Category Management8, dall’altra parte, rendono

conto di un passaggio nei canali agro-alimentari da conflitto a collaborazione. L’obiettivo

comune è quello di soddisfare comportamenti d’acquisto estremamente diversificati

mettendo in atto una strategia competitiva nella quale lavorare congiuntamente. L’industria

si avvantaggia di questa collaborazione soprattutto perché essa è un mezzo per avere un

immediato feed-back sul consumo,

prerogativa all’origine del conflitto con la distribuzione. Il risultato segnato dal passaggio dal

conflitto alla collaborazione (di cui l’iniziativa ECR è un sintomo), è la massimizzazione della

soddisfazione del consumatore attraverso prodotti da lui “derivati” (pulled), in base alle sue

necessità, piuttosto che spinti (pushed) nel canale dall’industria alimentare attraverso

precise politiche di prezzo nei confronti delle imprese distributive, focalizzando l’attenzione

sull’efficienza globale della supply chain piuttosto che su quella delle singole componenti. 7 Per ECR (Efficient consumer response) si intende una condivisione di esperienze e conoscenze sul mercato e sui consumatori da parte delle aziende della produzione e della distribuzione allo scopo di ottimizzare le strategie che permettono di raggiungere obiettivi comuni e offrire la risposta migliore per i consumatori. Questa ottimizzazione è facilitata dalla venuta delle nuove tecnologie e dal rinnovamento dei metodi tradizionali del trade marketing.8 Per Category Management si intende il processo di gestione delle Categorie di Prodotto, il cui obiettivo è l’aumento della soddisfazione delle esigenze del consumatore sul punto vendita.

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L’attivazione di un tavolo di confronto tra industria e Gdo è stata avviata dal Mipaf e dal

Mise (ministero dello sviluppo economico) al fine di:

Creare e migliorare il valore dei prodotti attraverso forme collaborative atte a

garantire al consumatore offerte migliori, in termini di prodotto-servizio, ricercando

un utilizzo ottimale delle risorse e la massima efficienza possibile in tutte le fasi

della filiera produzione-distribuzione-consumo.

Una correttezza dei rapporti commerciali: ossia prestazioni reali proporzionalmente

legate a reali effettive controprestazioni, sia in riferimento alla fornitura di beni che

alla prestazione di servizi.

Garantire una reciprocità con rapporti contrattuali trasparenti e effettivi, affinché il

vantaggio di una parte non avvenga a svantaggio dell’altra e non si determinino

pratiche anticoncorrenziale.

1.5 LE NUOVE TENDENZE DEI CONSUMI ALIMENTARI

Le tendenze nei consumi alimentari, in particolare i comportamenti di spesa emergenti dei

consumatori italiani, in questi anni di crisi, hanno avuto evidenti impatti sull’agricoltura e

sull’industria alimentare nazionale. L’aumento della pressione fiscale e la competitività sui

mercati, hanno orientato i consumatori verso nuovi stili di consumo alimentare,

modificando in tutto o in parte le loro abitudini di acquisto. L’acquisto e il consumo di cibo

vengono sempre più a dipendere da un set di variabili soggettive: disponibilità di tempo per

la preparazione dei pasti, dimensione del nucleo familiare e valore attribuito al tempo

libero. Il consumatore odierno, finisce, così, per incasellarsi in più dimensioni combinabili,

con esigenze, comportamenti complessi e svariati che oscillano tra l’attenzione alla salute e

la gratificazione del palato, tra la responsabilità sociale e il consumismo, privilegiando la

qualità alla quantità. L’erosione del potere di acquisto delle famiglie ha ridotto lo spazio di

mercato domestico ma, allo stesso tempo, ha spinto il consumatore ad avere, sulla propria

tavola, prodotti tipici e in misura maggiore, prodotti di qualità. Allo stesso tempo, la tipologia

di servizio commerciale ha caratterizzato il consumatore ad avere una visione più qualificata

del prodotto: le scelte dove effettuare l’acquisto e con quale frequenza, spesso, precedono

la decisione stessa dello specifico bene da acquistare. Più volte, il consumatore è orientato

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verso prodotti che consentano la semplificazione della preparazione: da cibi più semplici, che

richiedono un minor tempo di elaborazione culinaria, a pasti già pronti (pre-cotti o cotti).

Oggi, il consumatore è sempre più attento ed orientato verso acquisti consapevoli e include

nel concetto di qualità dei prodotti agro-alimentari anche valori quali la sostenibilità

ambientale e sociale della produzione. È dunque mosso da un senso di responsabilità e di

consapevolezza, da una condivisione di vedute e di sensibilità in cui l’etica e la responsabilità

sociale sono sempre parte integrante del concetto di qualità. Il consumatore si mostra

attento a ciò che mangia in termini di igiene, salubrità e qualità nutrizionale, acquistando

minori quantità di cibo perché si possa ricercare nel prodotto una parte emozionale nel

gusto, nell’esperienza e nel rispetto per l’ambiente.

È nel momento di acquisto e consumo alimentare che si rafforza la consapevolezza del nesso

tra alimentazione e salute: la convergenza verso alcune categorie di dieta, prima fra tutte la

dieta mediterranea, ha agito da modello per una sana alimentazione, attraverso la tendenza

ad acquistare prodotti a basso contenuto di grassi, in linea con le nuove esigenze di vita.

Oggi, la funzione salutistica richiama maggiormente l’attenzione del consumatore,

incrociandosi con le problematiche e le recenti polemiche sui cibi transgenici, guardati con

sospetto dai consumatori. Le sfide in questo settore , pongono una riformulazione degli

alimenti, allo scopo di eliminare o sostituire gli ingredienti indesiderati, per lo sviluppo di

nuovi prodotti, in grado di intercettare le esigenze dei consumatori.

1.6 LE CARATTERISTICHE DEI “FOOD MILES”

Nelle nuove tendenze di consumo, anche il trasporto, con tutte le implicazioni di carattere

ambientale e sociale, assume un’importanza decisiva incidendo in maniera tanto più

consistente quanto maggiore risulta l’entità dei food miles. Con l’espressione “food miles”,

pur intendendo i chilometri percorsi da un alimento dal luogo nel quale avviene la sua fase

produttiva a quello in cui è consumato, si mira ad esprimere l’entità dell’impatto ambientale

del trasporto del cibo che arriva sulla nostra tavola. Se questo aspetto poteva apparire di

scarso rilievo fino a qualche tempo fa, è divenuto, oggi, sebbene sia ancora circoscritto in

Italia ed assai rilevante nei Paesi anglosassoni e in particolare in Inghilterra, di grande

attualità, a seguito di alcuni comportamenti tendenziali dei consumatori biologici più

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consapevoli. Il forte consumo energetico, l’elevato impatto ambientale e il peggioramento

della qualità della vita, imputabile agli effetti della movimentazione su gomma delle merci

(congestionamento del traffico, incidenti, inquinamento acustico), rappresentano delle

conseguenze del trasporto degli alimenti che confliggono con i fondamenti etici su cui sono

basati i principi dell’agricoltura biologica. Che un prodotto agricolo perda la propria

caratterizzazione biologica all’aumentare della distanza che percorre dalla località di

produzione fino al luogo del consumo, rappresenta un dato che, al di là della percezione

etica individuale, può essere quantificato in termini di emissioni di anidride carbonica,

consumo di combustibili fossili, inquinamento dell’aria, incremento del traffico, degli

incidenti, del rumore. Ovviamente, oltre alla distanza, altri elementi contribuiscono a

determinare l’entità di tale impatto: la via seguita per il trasporto (mare, terra, aria) e le

caratteristiche del mezzo di trasporto, in relazione ai suoi consumi energetici e alle capacità

di carico. I food miles, calcolati tenendo conto di questi aspetti, rappresentano un adeguato

misuratore della perdita di “biologicità” di un prodotto lungo la sua catena distributiva. Una

significativa conferma degli effetti dei food miles proviene da un recente studio

commissionato dal DEFRA (Department for Environment, Food and Rural Affairs), dal titolo

“The validity of food miles as an indicator of sustainable development” dove si mette in luce

come l’aumento dei food miles abbia determinato un impatto ambientale, sociale ed

economico associato al trasporto (emissioni di biossido di carbonio, inquinamento dell’aria,

traffico, incidenti e rumore).

La sostituibilità che nelle scelte di acquisto sembra manifestarsi fra prodotti biologici e

prodotti locali, anche in relazione a considerazioni sulla relativa convenienza in termini di

prezzo, rende sempre meno sostenibile, anche in termini economici, il trasporto dei prodotti

biologici. Il rapporto fra agricoltura biologica e food miles, cresciuto e rafforzatosi sulla base

della forte spinta iniziale della domanda dei prodotti biologici, ha mostrato tutti i suoi limiti

etici, ambientali e sociali. Di conseguenza, la scarsa compatibilità fra l’effettiva “biologicità”

di un prodotto e i suoi food miles, temporaneamente eclissata dalle favorevoli condizioni del

mercato, comincia ad essere percepita da un crescente numero di consumatori. In queste

condizioni, l’unica via perseguibile per preservare la “biologicità” degli alimenti e, allo stesso

tempo, rispondere alle istanze dei consumatori più attenti, è ricercare nuovi strumenti

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normativi, attraverso i quali garantire che i prodotti biologici posseggano effettivamente quel

valore immateriale di carattere ambientale e sociale che viene loro attribuito.

CONCLUSIONI

Le pagine precedenti hanno consentito di disegnare un quadro generale dell’evoluzione del

sistema agroalimentare, fissando, in tal modo, i principali elementi distintivi del settore

distributivo e le potenzialità dell’industria alimentare. L’industria di trasformazione

alimentare si è caratterizzata come uno dei settori portanti della nostra economia,

dimostrando di essere in grado di reagire in modo positivo alle difficoltà congiunturali e

mostrando andamenti anticiclici importanti. I suoi livelli occupazionali e la produttività hanno

seguito negli ultimi decenni quelli dell’industria manifatturiera. Il suo valore aggiunto si sta

avvicinando sempre più a quello dell’agricoltura. I processi di internazionalizzazione in atto

sembrano mettere sempre più in difficoltà la struttura produttiva dell’industria alimentare.

L’affermarsi di alcuni gruppi nazionali è stato accompagnato da una sempre maggiore

presenza di imprese multinazionali9 estere che ha dato luogo a numerose acquisizioni,

fusioni e partecipazioni fra imprese del settore. Lo sviluppo delle attività agricole e

dell’industria alimentare si è però caratterizzato per la concentrazione nelle zone più ricche

dove lo stretto collegamento fra agricoltura e industria alimentare ha permesso la

costituzione di veri e propri distretti agroalimentari. La presenza di numerose realtà locali,

dove imprese di piccola e media dimensione concorrono alla valorizzazione delle produzioni

di qualità e tipiche, costituisce un elemento di vitalità del sistema agroalimentare italiano. La

situazione si presenta molto più complicata nelle aree agricole soggette a forte

marginalizzazione, soprattutto nel Sud, dove i sistemi agro-industriali stentano a svilupparsi e

le produzioni agroalimentari più tipiche non riescono ad essere competitive sui mercati

nazionali ed europei. Inoltre, le rapide trasformazioni del sistema distributivo, con il crollo

del sistema tradizionale, l’affermarsi della grande distribuzione, i nuovi orientamenti di

9 Una multinazionale è un’impresa, di norma una società, che controlla altre imprese dislocate in paesi diversi. L’espressione “impresa multinazionale”, utilizzata per la prima volta da David Lilienthal, direttore della Tennessee Valley Authority in una relazione presentata al Carnegy Institute of Tecnology nel 1963, assunse risonanza internazionale il 20 aprile dello stesso anno quando il settimanale Business Week dedicò al tema un articolo dal titolo Multinational Companies.

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consumo, gli scandali alimentari (fenomeno della mucca pazza10, polli alla diossina11,

aflatossine nel latte12, Sudan Rosso nei sughi13, ecc) verificatesi a partire dagli anni ’80

rafforzano il bisogno di qualità e sicurezza degli alimenti, offrendo da un lato nuove

opportunità allo sviluppo del sistema agroalimentare, ma allo stesso tempo lo rendono più

aperto e penetrabile, rispetto al passato, alle produzioni estere. I cambiamenti del sistema

distributivo hanno reso più evidente la necessità di offrire al consumatore una gamma

sempre più vasta di prodotti. Le caratteristiche di freschezza di molti beni alimentari hanno

portato alla definizione di strategie della qualità e genuinità dei prodotti alimentari tali da

attrarre il consumatore e renderlo più fedele alla catena distributiva La ricerca di un nuovo

equilibrio all’interno del settore agroalimentare italiano si presenta oggi tanto più necessaria

quanto complessa. Gli elementi fondamentali vanno individuati in nuovi rapporti fra

produttori e consumatori, che salvaguardino le professionalità e i redditi dei primi e, allo

stesso tempo, assicurino alimenti sani e di qualità ai secondi. Migliorare le scelte alimentari

passa anche dai controlli e dalla certificazione della qualità complessiva lungo tutta la catena

alimentare, ma rilevanti risultano l’informazione e l’educazione dei consumatori stessi.

2. FORME DI COMPETIZIONE NEI MERCATI AGROALIMENTARI

10 Il fenomeno dell’Encefalopatia Spongiforme Bovina, meglio conosciuto come “mucca pazza”, è una malattia neurologica degenerativa, appartenente al gruppo di malattie denominate Encefalopatie Spongiformi Trasmissibili, che colpiscono i bovini.11 L’influenza aviaria ha interessato gli allevamenti asiatici, in misura minore quelli europei e in particolare quelli italiani.12 Le aflatossine vengono annoverate tra le principali micotossine che sono delle sostanze tossiche originate dal metabolismo di alcuni funghi, molti dei quali presenti su vari substrati (foraggi, cereali, farine di estrazione, arachidi)..13 Il Sudan Rosso è un colorante industriale di colore arancio/rosso che naturalmente non è contenuto negli ali -menti. Oltre che nelle materie plastiche, ne è stato riscontrato la presenza anche in sughi e condimenti.

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2.1 AGROALIMENTARE E COMPETITIVITÀ: FONTI, FORME, ATTORI DELLA COMPETIZIONE

Nel sistema economico la funzione di creazione di nuova ricchezza è per la gran parte svolto

dalle aziende di produzione, unità organizzative nate da una iniziativa imprenditoriale e che

si strutturano per produrre stabilmente nel tempo redditi da distribuire ai soggetti coinvolti.

La creazione di redditi è effettuata attraverso il processo di produzione che permettere di

mettere stabilmente in relazione la soddisfazione dei bisogni espressi dalla società con il rag -

giungimento dei fini d’impresa.

Le aziende nascono per operare stabilmente nel tempo e per questo sviluppano una strut-

tura fatta di capitali impiegati nell’attività di produzione (fabbricati, macchine, dotazioni

finanziarie), di risorse umane utilizzate con continuità (personale e sua organizzazione), di

organizzazione concreta del processo produttivo (specializzazione e coordinamento tra le

attività di approvvigionamento, produzione, commercializzazione, ricerca e sviluppo, ge-

stione amministrativo finanziaria etc.).

Nella misura in cui l’obiettivo imprenditoriale assegnato all’azienda, è capace di soddisfare

bisogni reali, l’attività aziendale può svilupparsi e crescere nel tempo.

Nelle economie nelle quali il mercato rappresenta la fondamentale forma di organizzazione

sociale della produzione, durante la loro attività le aziende sono continuamente sottoposte a

pressioni competitive.

Il modello del mercato proposto dall’analisi microeconomica rappresenta in modo semplifi-

cato alcuni aspetti fondamentale di tale competizione.

Tuttavia non è difficile immaginare come la semplice relazione tra quantità e prezzo, alla

base della teoria dell’offerta, sia insufficiente per rappresentare la complessità delle deci-

sioni che le aziende di produzione prendono e delle azioni che mettono in atto durante la

competizione.

Non solo: il modello del mercato, essendo un modello di equilibrio può solo descrivere le

scelte degli attori e dedurre gli esiti di un processo competitivo in cui i “dati” del problema

economico (prezzi dei fattori produttivi, tecnologia di produzione, preferenze dei consuma-

tori, strutture di mercato) siano chiaramente definiti (siano dati nel vero senso della parola).

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Quando si osserva la realtà delle attività di produzione per il mercato, viceversa, ci si trova di

fronte un processo nel quale il raggiungimento concreto degli obiettivi aziendali di breve

periodo si sviluppa congiuntamente alla scoperta di nuove opportunità ancora sconosciute

(nuovi dati per definire il problema imprenditoriale) ed alla realizzazione di azioni per sfrut-

tarle in futuro.

Un modello particolarmente efficace per descrivere la molteplicità di fronti sui quali

un’attività imprenditoriale deve misurarsi è quello di concorrenza allargata proposto da

Porter (2001).

Figura 1 – Il modello di concorrenza allargata di Porter

Il centro della figura rappresenta lo spazio d’azione di un’azienda nel perseguimento dei suoi

obiettivi imprenditoriali, la sua libertà di movimento nello scegliere cosa, come, per chi pro-

durre. Questo spazio è continuamente conteso all’azienda da una serie di pressioni competi-

tive, rappresentate dalle frecce, provenienti da soggetti diversi.

Una prima fondamentale pressione competitiva proviene dalle aziende dello stesso settore,

cioè da concorrenti che, con la loro produzione, cercano di soddisfare i bisogni dei consuma-

tori producendo beni che sono sostituti più o meno stretti di quello prodotto dall’azienda.

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È il concetto più intuitivo di concorrenza (quella, per intendersi, che c’è tra Coca-Cola e

Pepsi) in cui le aziende si spartiscono le quote di un determinato “mercato”. Le forme di

concorrenza rappresentate nel modello di mercato (in tutte le sue formulazioni) sono ricon-

ducibili a questa forma di competizione. Tuttavia, l’azione imprenditoriale è soggetta ad altre

importanti pressioni competitive che provengono dall’esterno del settore strettamente

inteso (ad esempio da imprese che non sono imprese di produzione alimentare).

Innanzitutto devono essere considerate le pressioni competitive che provengono dagli altri

attori della filiera all’interno della quale si colloca l’attività aziendale. Uno dei fattori deter-

minanti della dinamica strutturale del sistema economico è il progresso tecnico che deter-

mina la divisione del lavoro e la specializzazione.

La produzione alimentare, che nelle economie prevalentemente rurali viene per la gran

parte svolta dalle aziende agrarie, con lo sviluppo economico tende a scindersi in diverse fasi

che, in misura crescente, diventano oggetto di attività imprenditoriale in aziende specializ-

zate.

Così, mentre le aziende agricole tendono a diventare sempre più aziende fornitrici di materie

prime si forma contemporaneamente un’industria della trasformazione alimentare, a sua

volta organizzata secondo una scomposizione che può essere più o meno spinta del processo

di produzione (prima e seconda trasformazione, affinamento e stagionatura, confeziona-

mento etc.), e un comparto della distribuzione finale dei prodotti verso i consumatori (con-

servazione, trasporto, vendita al dettaglio etc.).

Lungo la filiera di una produzione alimentare si creano una serie di mercati intermedi nei

quali un’azienda si confronta con i fornitori (mercati a monte) e con i clienti (mercati a valle).

È chiaro che dal punto di vista dell’azienda i clienti e i fornitori sono allo stesso tempo par -

tner (i rapporti con clienti e fornitori sono indispensabili per raggiungere gli obiettivi azien-

dali e si basano sulla convenienza allo scambio da entrambe le parti) e concorrenti (il van-

taggio complessivo di una transazione può distribuirsi tra i due soggetti che la realizzano in

modo ineguale in base all’accordo che si raggiunge su prezzo, qualità e quantità scambiata).

La posizione relativa in termini di potere di mercato si riflette sull’intensità della pressione

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competitiva che proviene dagli scambi all’interno della filiera. Nel caso dell’industria alimen-

tare è indubbio che una forte pressione proviene oggi dal comparto della distribuzione che

mostra oggi un grado di concentrazione sensibilmente superiore.

Nelle economie sviluppate la grande distribuzione moderna ormai soddisfa la maggior parte

della domanda finale: i pochi soggetti che detengono le maggiori quote di mercato possono

così esercitare sull’industria di produzione forti pressioni per ottenere più favorevoli condi-

zioni di fornitura dei prodotti.

Verso l’industria alimentare possono provenire pressioni competitive anche dal lato dei for-

nitori, come nel caso in cui i mercati delle materie prime sono soggetti a particolari tensioni

(approvvigionamento delle commodities agricole acquistate sui mercati internazionali)

oppure quando esistono forme di concentrazione e limitazione quantitativa dell’offerta

(come nel caso di board nazionali per la commercializzazione di prodotti agricoli).

Le pressioni competitive presentate fino a questo punto provengono da soggetti che già

operano lungo la filiera di produzione.

Un’altra categoria di pressioni competitive è quella che proviene da comportamenti e azioni

competitive potenziali. La potenzialità delle minacce è evidentemente connessa con la

natura della concorrenza: in un ambiente economico in cui il decentramento delle decisioni

economiche determina l’impossibilità di ottenere tutte le informazioni rilevanti, gli impren-

ditori sono sempre alla ricerca di nuove opportunità non ancora sfruttate per realizzare

valore aggiunto e, a meno che non esistano ostacoli invalicabili,nessuna attività imprendito-

riale di successo è al sicuro dalla sfida di nuovi competitori.

Le aziende sono potenzialmente esposte alla minaccia dell’entrata nella competizione di

nuovi concorrenti, magari dotati di importanti risorse finanziarie o capaci di sfruttare nuove

e più efficienti tecnologie di produzione. Quanto più un mercato è contendibile (cioè senza

barriere all’ingresso di nuove imprese di qualsiasi natura) tanto più la minaccia può essere

concreta e richiedere opportune contromisure (alcuni di questi meccanismi sono analizzati

nel modello di oligopolio studiato dalla microeconomia).

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È quanto ad esempio succede nelle filiere alimentari quando una grande impresa, magari a

carattere multinazionale, acquisisce un marchio consolidato su un mercato nazionale, per

entrare in tale mercato esprimendo tutto il suo potenziale di crescita.

In Italia questo è successo in passato per molte industrie di trasformazione mentre, in tempi

più recenti, si sono manifestati i primi fenomeni di ingresso di gruppi internazionali nella

sistema della distribuzione alimentare.

Un’ulteriore minaccia potenziale può provenire da prodotti sostituti, in grado di rimpiazzare

le produzioni offerte dall’azienda nella soddisfazione dei bisogni dei consumatori. Questo

meccanismo è piuttosto evidente quando si parla di prodotti della stessa categoria merceo-

logica (un nuovo tipo di sostituto del pane, insalate già pronte da consumare rispetto a

quelle semplicemente lavate) ma potrebbe essere attivo anche attraverso effetti incrociati

molto meno intuitivi. Il grande rilancio dei consumi di vino di qualità degli ultimi anni, ad

esempio, è stato fortemente motivato dall’esigenza di soddisfare bisogni più astratti come

quello di stima e di realizzazione.

Dal momento che si tratta di bisogni non strettamente legati alle caratteristiche intrinseche

del vino, quanto piuttosto alle sue caratteristiche immateriali (come la storia e la cultura di

un territorio di origine) ed ai rituali di consumo ad esso associati (occasioni di socializzazione,

consumo fuori casa) non si può escludere, in linea di principio, che questi stessi bisogni pos-

sano essere soddisfatti in futuro attraverso il consumo di altri beni, magari di una categoria

completamente diversa, sia all’interno che all’esterno del comparto delle bevande: si pensi

ad esempio al ruolo che possono ricoprire le spese per viaggi e istruzione, oppure

l’arredamento di lusso. Non è un caso, del resto, che anche nel settore di produzione dei

diamanti il principale produttore, che opera in una situazione vicina al monopolio, realizzi

con una certa continuità campagne pubblicitarie.

Per “alleggerire” le pressioni competitive, le aziende mettono in atto una serie di azioni stra-

tegiche. Esse sono riconducibili a due grandi categorie.

In primo luogo le aziende perseguono una serie di accordi volti a creare forme di integra-

zione e coordinamento con altre imprese per perseguire obiettivi comuni in modo più effi-

cace rispetto ad un’azione competitiva isolata.

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In secondo luogo le aziende scelgono una serie di azioni strategiche volte ad accrescere la

loro quota di mercato; mettono in atto una strategia competitiva propriamente detta.

Nel seguito, le due categorie di azioni verranno brevemente descritte con riferimento alle

tendenze più recenti che si sono manifestate nei sistemi agroalimentari delle economie

avanzate.

2.2 COMPETITIVITÀ E ORGANIZZAZIONE: FORME DI INTEGRAZIONE E COORDINAMENTO TRA

AZIENDE NEL SISTEMA AGROALIMENTARE

La domanda finale di beni alimentari viene soddisfatta nel sistema economico da una molte-

plicità di imprese operanti lungo le diverse fasi della filiera agroalimentare. Il processo di

sviluppo economico e la dinamica strutturale che lo ha accompagnato hanno reso progressi-

vamente più complessa la struttura del sistema agroalimentare.

Innanzitutto è avvenuta una progressiva scomposizione del processo di produzione degli

alimenti le cui diverse fasi vengono spesso realizzate in aziende diverse. Produzione della

materia prima agricola, trasformazione delle materie prime in prodotti finiti spesso

anch’essa suddivisa in più stadi (ad es. molitura dei cereali, trasformazione delle farine),

confezionamento, magazzinaggio e trasporto, commercializzazione finale: tutte queste ope-

razioni, benché talvolta vengano realizzate tutte dalla stessa azienda (come ad esempio nel

caso di alcune case vinicole orientate su produzioni di elevata qualità) molto più spesso rap-

presentano il campo operativo di aziende diverse che, lungo la filiera, si scambiano prodotti

semilavorati e/o finiti sui mercati intermedi nei quali la filiera

alimentare è articolata.

In secondo luogo i mercati si sono progressivamente aperti alla competizione internazionale

per effetto del processo di globalizzazione. Da un lato la costante diminuzione dei costi di

trasporto, unito al miglioramento delle tecniche di conservazione, ha allargato l’area di po-

tenziale mercato per molte produzioni agroalimentari che un tempo erano confinate su

mercati locali (si pensi ad esempio alla frutta fresca che oggi viene commercializzata su scala

mondiale). Dall’altro il progresso nelle tecnologie di trasmissione delle informazioni ha

aperto un campo potenzialmente enorme di intensificazione delle relazioni commerciali tra

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le diverse componenti del sistema agroalimentare (basti pensare al fenomeno del commer-

cio elettronico che, soprattutto nel campo delle produzioni alimentari di qualità, già oggi

consente ad imprese di produzione di piccole dimensioni di affrontare con successo mercati

geograficamente molto lontani).

Per descrivere adeguatamente la struttura del sistema agroalimentare, di conseguenza, non

è sufficiente quantificare le aziende operanti nelle sue diverse fasi (agricola, industriale e

commerciale) ma è necessario anche delineare i principali processi di integrazione e coordi-

namento esistenti tra le imprese stesse.

Le aziende del sistema agroalimentare si “contendono” il valore complessivo prodotto dal

sistema agroalimentare (approssimativamente corrispondente al valore dei consumi alimen-

tari) attraverso un processo competitivo nel quale i rapporti di forza sui diversi mercati risul-

tano essere determinanti.

Le strategie di integrazione e coordinamento nascono in genere come risposta alle pressioni

competitive e vengono attuate dalle imprese per aumentare il loro margine di manovra nella

produzione di nuova ricchezza attraverso la produzione.

Due sono le fondamentali forme di integrazione tra imprese: quella orizzontale e quella ver-

ticale.

La prima si attua quando imprese attive nella medesima fase della filiera agroalimentare

decidono di operare svolgendo la medesima attività con forme di coordinamento più o meno

vincolanti.

La seconda si realizza invece quando aziende che realizzano fasi diverse del processo produt-

tivo, invece di competere confrontandosi (in un rapporto fornitore/cliente) nei diversi mer-

cati lungo la filiera, decidono di coordinare le loro azioni per il raggiungimento di un obiet-

tivo competitivo comune.

Le forme di integrazione orizzontale sono in genere finalizzate allo sfruttamento delle eco-

nomie di scala consentite dalla tecnologia di produzione. Un esempio tipico settore di cui ci

occupiamo è quello della cooperazione agroalimentare. Anche se i processi di trasforma-

zione alimentare sono per la gran parte usciti dal settore agricolo per essere realizzati da

imprese di trasformazione industriale, certe forme di prima e seconda trasformazione sono,

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per motivi tecnologici, strettamente legati al territorio di provenienza delle materie prime

agricole. In questi casi è frequente la creazione di imprese cooperative da parte dalle aziende

agricole, per la realizzazione collettiva di tali processi di trasformazione ad una scala

dimensionale che li renda economicamente sostenibili.

In Italia, le imprese cooperative rappresentano una componente importante dell’industria

alimentare: in alcuni comparti, come quello enologico, quello caseario, quello di trasforma-

zione delle olive, le cooperative di trasformazione sono non di rado imprese capaci di com-

petere efficacemente sui mercati a valle, realizzando un vantaggio, in termini di distribuzione

del valore aggiunto, a favore della componente agricola.

Le motivazioni economiche alla base delle forme di integrazione verticale possono essere in

buona parte ricondotte alla controllo dei costi di transazione.

La realizzazione di transazioni su qualsiasi mercato, infatti, oltre al prezzo di scambio che

viene concordato, comporta anche il sostenimento da parte dei contraenti di una serie di

costi indispensabili per rendere possibile la transazione stessa: ricerca e individuazione di

clienti/fornitori affidabili, costo di rinforzo legale dei contratti, concessione di particolari

condizioni commerciali, costi connessi alla valutazione della qualità delle merci scambiate e

così via.

Che i costi di transazione possano essere anche molto elevati è testimoniato dal fatto che le

imprese tendono a consolidare nel tempo le relazioni di compravendita con alcuni partner

commerciali considerati affidabili, concedendo spesso loro delle condizioni di favore pur di

non interrompere il rapporto di fornitura/clientela.

Anche se questo comportamento potrebbe sembrare nel breve periodo meno efficiente

rispetto ad una ricerca continua sul mercato delle migliori condizioni di scambio, nel lungo

periodo, minimizzando i costi connessi alle transazioni, questa strategia commerciale si

dimostra spesso la migliore.

Non mancano esempi di integrazione verticale nel sistema agroalimentare. Sui mercati agri -

coli alla produzione si possono innanzitutto citare i contratti collettivi di filiera finalizzati a

definire collettivamente i prezzi dei prodotti agricoli destinati alla trasformazione industriale

e a garantire l’approvvigionamento di determinate materie prime, anche attraverso veri e

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propri contratti di coltivazione. Mentre i produttori agricoli incrementano la loro forza con-

trattuale attraverso la contrattazione collettiva, potendo alla fine contare su prezzi di vendita

ben definiti e talvolta su garanzie relativamente ai volumi di produzione assorbiti, l’industria

alimentare può sfruttare al meglio le economie di localizzazione e ridurre il rischio di

mancato approvvigionamento delle materie prime.

Esempi di queste forme di integrazione verticale sono presenti nel caso della filiera lattiero-

casearia, di trasformazione del pomodoro, della produzione di zucchero dalle barbabietole.

Le forme di integrazione verticale appaiono inoltre particolarmente interessanti nel settore

alimentare in relazione al problema del controllo della qualità: all’interno di un rapporto

consolidato, infatti, è più facile definire un insieme di parametri di valutazione della qualità

condiviso in grado di ridurre le asimmetrie informative tra offerta e domanda. La crescente

attenzione del consumatore per la qualità e la riduzione dei rischi alimentari rende conve-

niente talvolta la completa integrazione delle diverse fasi di produzione in un’unica azienda:

un esempio emblematico è rappresentato dalle imprese di produzione di alimenti per bam-

bini che estendono il loro campo diretto di azione anche alla fase di produzione della materia

prima agricola. Più in generale è sempre più richiesta dal consumatore finale, ed oggi in Italia

resa obbligatoria dalla legislazione alimentare, la tracciabilità completa del processo

produttivo alimentare (“dal campo alla tavola”) come garanzia di sicurezza alimentare. Una

forma di coordinamento volta a soddisfare queste esigenze è quello dei prodotti provenienti

da “filiere controllate” offerti dalla grande distribuzione: i fornitori concordano con le im-

prese a valle dei veri e propri disciplinari di produzione nel rispetto dei quali il rapporto di

fornitura si sviluppa e si consolida. Anche tra industria di trasformazione e imprese della

grande distribuzione alimentare si realizzano importanti forme di coordinamento. Un esem-

pio è costituito dai prodotti trasformati commercializzati con un marchio di proprietà delle

aziende di grande distribuzione (private label): un segmento di consumi in forte crescita e

che spesso porta le imprese di trasformazione coinvolte a trasformarsi in vere e proprie

imprese satellite di quelle di distribuzione.

Le forme di integrazione orizzontale e verticale tra aziende sono ovviamente definite e limi-

tate dai vincoli tecnologici che legano le attività di produzione.

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Un altro livello di integrazione particolarmente importante nel sistema produttivo italiano,

anche nella sua componente agroalimentare, è quello connesso alla collocazione geografica.

Il concetto guida in questo caso è quello di distretto, sviluppato per studiare particolari

forme di localizzazione e organizzazione delle attività industriale.

Il sistema produttivo di determinati sistemi locali, caratterizzati da imprese di medie e pic-

cole dimensioni, si è dimostrato nel tempo particolarmente competitivo nel soddisfare la

domanda finale attraverso particolari processi produttivi.

Si tratta di una competitività di sistema nel quale la localizzazione geografica delle attività

risulta fondamentale perché permette di usufruire una serie di economie esterne alle singole

imprese ma interne al distretto e fondamentalmente legate alla conoscenza. Nel sistema

locale si accumula un patrimonio di know how, relazioni commerciali, senso di appartenenza

che, di fatto, rende più stabile ed efficace l’approccio ai mercati.

Nel caso delle produzioni agroalimentari la vocazione di determinate aree agricole verso

determinate produzioni ha favorito in molte zone la strutturazione di un corrispondente

sistema di trasformazione industriale che, in taluni casi, ha assunto le caratteristiche di un

vero e proprio distretto.

Un esempio è costituito dall’area di produzione del formaggio Parmigiano Reggiano. In esso

un sistema di allevamenti, caseifici e di strutture per la stagionatura del formaggio, a cui si

affianca il sistema di allevamento-trasformazione della carne di maiale che impiega i sotto-

prodotti della lavorazione del latte, è venuto a creare nell’area delle province emiliane un

vero e proprio distretto agro-industriale. Nel caso delle produzioni agroalimentari, tra l’altro,

gioca a favore della creazione di forme di coordinamento distrettuale tra le imprese, il rico-

noscimento dell’origine geografica come criterio per la valutazione della qualità da parte del

consumatore.

Se la domanda di tipicità alimentare esprime una domanda di collegamento esplicito del cibo

ad una origine geografica che sia ben riconoscibile, allora la prima base per la costruzione di

un sistema distrettuale di imprese è già posta: infatti non importa più solo il “come” si pro-

duce, ma anche il “dove”.

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2.3 STRATEGIE COMPETITIVE: MOTIVAZIONI GENERALI E POTENZIALI LEVE

Mediante la soddisfazione dei bisogni espressi dalla domanda finale di beni e servizi, il

sistema produttivo crea continuamente valore individuando e sfruttando, attraverso la

capacità imprenditoriale dei suoi attori, le opportunità di arbitraggio che, in ogni momento,

vengono offerte da un sistema dei prezzi continuamente in movimento.

La distribuzione di tale valore tra le imprese che operano nelle diverse fasi del processo pro-

duttivo alimentare, a partire dalla produzione di materie prime agricole fino alla distribu-

zione finale di prodotti alimentari finiti, dipende sia dall’evoluzione complessiva del sistema

economico connessa con i processi di sviluppo, sia dalle dinamiche competitive in atto nel

settore.

Il comportamento competitivo delle aziende di produzione è così finalizzato a trattenere la

maggior quota possibile di valore attraverso l’individuazione di nuove opportunità ancora

non utilizzate. Le aziende cercano attivamente di attirare verso le loro produzioni un volume

crescente di domanda.

Per ottenere questo risultato esse possono agire su due variabili fondamentali: il prezzo e la

qualità del prodotto.

(Nel seguito della dispensa entreremo maggiormente nel dettaglio delle cinque strategie

competitive di base, schematicamente suddivise tra strategie di costo e strategie di differen-

ziazione, e in tale ambito verranno presentate e approfondite alcune tra queste particolar-

mente rilevanti per l’agroalimentare.)

Il processo di continuo adattamento delle aziende alle opportunità offerte dal mercato è

mosso dalla convinzione degli imprenditori che un prodotto di una determinata qualità,

ottenibile da fattori che hanno un certo prezzo, sarà considerato appetibile da un ampio

numero di clienti/consumatori anche se offerto ad un prezzo ancora più alto di quello dei

fattori.

Qualsiasi progetto imprenditoriale, in altri termini, deve definire contemporaneamente una

qualità (quella che si ritiene desiderabile dai consumatori ad un determinato prezzo) e un

prezzo (quello che l’imprenditore prevede che il cliente sarà disposto a pagare per un pro-

dotto di quella determinata qualità).

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Di conseguenza le azioni competitive possono essere ricondotte a due strategie fondamen-

tali: quella basata sulla riduzione del prezzo di vendita e quella basata sulla differenziazione

qualitativa.

Kirzner (1973) ha evidenziato come quando la differenziazione qualitativa viene introdotta

nel modello di mercato essa venga trattata con un modello che ha alcune delle caratteristi-

che del monopolio (concorrenza monopolistica). Essa in realtà è l’espressione più genuina e

in un certo senso inevitabile della competizione in quanto tale.

La capacità di offrire a prezzi inferiori un prodotto che sia sostituto stretto di quelli offerti

dalla concorrenza appare come una soluzione ovvia al problema della competizione, sugge-

rito dallo stesso modello di mercato e concorrenza proposto dalla teoria microeconomica. La

possibilità di vendere a prezzi inferiori corrisponde alla capacità di ridurre più degli altri i

costi di produzione: ciò può essere perseguito sia attraverso il reperimento di fattori della

produzione ad un costo inferiore (si pensi ad esempio all’approvvigionamento di

commodities agricole a prezzi più vantaggiosi nei Paesi meno sviluppati) sia attraverso un

uso più efficiente delle risorse impiegate nella produzione (ad esempio sfruttando le

economie di scala rese possibili dall’adozione di moderne tecnologie di trasformazione: nel

caso dell’olio di oliva passando, ad esempio, dal ciclo discontinuo classico alle presse

continue per la l’estrazione dell’olio).

Un esempio di strategia di prezzo sul mercato al consumo di prodotti alimentari è rappresen-

tato da una parte dalla diffusione dei cosiddetti discount, nei quali i prodotti alimentari di

base possono essere offerti a prezzi mediamente più bassi rispetto alle altre forme di distri-

buzione moderna grazie un abbattimento dei costi logistici e di quelli connessi all’immagine

della catena (arredo dei punti vendita ridotto all’essenziale, esposizione della merce

nell’imballaggio utilizzato durante il trasporto etc.).

Anche la grande distribuzione in parte ha utilizzato in anni recenti la strategia di prezzo, pro-

ponendo in assortimento prodotti caratterizzati principalmente per il loro prezzo competi-

tivo.

La differenziazione delle produzioni, viceversa, tendendo a ridurre il grado di sostituibilità tra

le merci, è capace di indurre in almeno una parte dei consumatori una maggiore fedeltà al

prodotto, aumentando in qualche misura la discrezionalità dell’impresa nella determinazione

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del prezzo di vendita. La crescente attività di innovazione di prodotto e di processo che si

riscontra nel sistema agroalimentare, è sempre più collegata ad una strategia di differen-

ziazione qualitativa, resa sempre più necessaria da una domanda alimentare rivolta alla sod-

disfazione di bisogni che si fanno con il tempo più astratti.

La differenziazione qualitativa può essere sia orizzontale che verticale. Nel primo caso un

prodotto alimentare si caratterizza per una combinazione delle sue caratteristiche intrinse-

che ed estrinseche diversa nella sua composizione da quella dei prodotti concorrenti, a

parità di livello qualitativo percepito: il lancio di un nuovo prodotto all’interno di una deter-

minata linea (ad esempio un nuovo tipo di biscotto) bene rappresenta questa strategia di

differenziazione che cerca di soddisfare gusti e preferenze dei consumatori che si ritengono

ancora non sufficientemente valorizzati.

Nel secondo caso le aziende cercano di differenziare il prodotto conferendogli un livello qua-

litativo superiore in tutte le sue caratteristiche rispetto a quelli offerti dalla concorrenza (è il

caso ad esempio di determinati marchi di pasta): nel caso in cui questa qualità superiore

venga riconosciuta dai consumatori le aziende potranno commercializzare i prodotti a prezzi

superiori.

La strategia di differenziazione qualitativa nel caso dei prodotti alimentari è fortemente

influenzata da problemi legati alla distribuzione delle informazioni. Molte delle caratteristi-

che qualitative dei prodotti agricoli e alimentari che potrebbero essere desiderabili, infatti,

sono difficili da valutare dai potenziali acquirenti prima dell’acquisto e talvolta anche dopo.

Si pensi ad esempio alla utilizzazione di determinate tecniche nella produzione delle materie

prime agricole, come nel caso dell’adozione di metodi di coltivazione a basso impatto

ambientale, che non necessariamente si riflettono in caratteristiche oggettivamente misura-

bili del prodotto; oppure alle caratteristiche di salubrità degli alimenti destinati al consumo

finale, come l’assenza di contaminazione con sostanze che, pur non provocando effetti

immediati e acuti sulla salute, possono produrre nel tempo la manifestazione di patologie

anche gravi (come ad esempio sostanze cancerogene).

I due esempi appena fatti si riferiscono a caratteristiche per le quali i compratori sarebbero

potenzialmente disposti a pagare un premio di prezzo ma che, in un normale scambio di

mercato, non potrebbero essere adeguatamente valorizzate per un evidente problema di

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asimmetria informativa. Il problema delle asimmetrie informative è crescente nel mercato

dei prodotti alimentari, nel quale la domanda finale è sempre più attenta alle (e disponibile a

pagare per le) caratteristiche immateriali del prodotto: origine, compatibilità ambientale,

rispetto di determinati standard etici nelle diverse fasi della filiera (è il caso del commercio

equo e solidale sviluppatosi proprio nella commercializzazione di prodotti alimentari; o del

rispetto di determinati standard di rispetto della dignità del lavoro umano).

In presenza di asimmetrie informative non è sufficiente che le aziende lungo la filiera agroa-

limentare producano un bene realmente differenziato: è necessario che questa differenzia-

zione venga comunicata ai potenziali acquirenti è percepita come credibile. La stessa crea-

zione di marche industriali, attraverso adeguati investimenti in comunicazione, costituisce

una risposta a questa esigenza. Una marca industriale affermata, infatti, costituisce per

un’azienda un capitale immateriale corrispondente alla sua credibilità agli occhi dei consu-

matori. Un esempio nel campo delle produzioni alimentari è quello del gruppo di trasforma-

zione lattiero-casearia Galbani che,attraverso una prolungata campagna di comunicazione,

ha per anni associato il proprio nome al concetto di fiducia.

Più in generale tutti le grandi marche “ombrello” inviano un segnale di affidabilità volto a

rendere credibili le promesse di qualità associate ai singoli prodotti.

La strategia di marca non è utilizzata dalla sola industria alimentare: anche le catene della

grande distribuzione alimentare accumulano nella loro insegna un capitale di fiducia da

parte dei consumatori, facendosi garanti della qualità nella scelta dell’assortimento propo-

sto. Questo capitale si è consolidato talmente da rendere possibile la forte diffusione delle

cosiddette private label, marche commerciali di proprietà delle catene di grande distribu-

zione sotto le quali vengono commercializzati alimenti prodotti con appositi contratti di for-

nitura da industrie di trasformazione. L’uso delle private label da parte dalle catene di

grande distribuzione permette loro di aumentare a l’assortimento sullo scaffale scaricando

sull’industria alimentare il costo dei processi di innovazione, trattenendo allo stesso tempo

una maggiore quota del valore aggiunto rispetto alla semplice commercializzazione di pro-

dotti con marca industriale.

Se la strategia di marca si sviluppa in genere con l’instaurarsi di una vero e proprio settore

industriale di trasformazione alimentare, l’esistenza di problemi informativi di natura nuova

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è testimoniato dalla diffusione, negli anni più recenti, delle diverse forme di certificazione

della qualità. Nel caso della certificazione la presenza di determinate caratteristiche qualita-

tive viene attestata da un soggetto che, essendo indipendente rispetto al venditore è più

credibile agli occhi dell’acquirente. Alcune forme di certificazione sono oggi obbligatorie,

come ad esempio nel caso della tracciabilità delle produzioni alimentari a partire dalla fase di

produzione delle materie prime agricole. Questo tipo di certificazione è divenuta obbligato-

ria a livello europeo dopo che una serie di crisi e scandali alimentari verificatisi negli anni ’90

hanno modificato la sensibilità dei consumatori e incrinato la loro fiducia nella filiera di pro-

duzione alimentare. Il suo obiettivo è quello di identificare in modo trasparente tutto ciò che

è andato a costituire un alimento finito in modo che, qualora si venissero a manifestarsi par-

ticolari problemi di salubrità, sia possibile intervenire rapidamente lungo tutto la filiera per

individuare in tempi rapidi le cause.

Altre forme di certificazione sono volontarie anche se sempre più spesso fanno riferimento

all’applicazione di standard internazionali e vengono utilizzate sia per certificare caratteristi-

che di prodotto che di processo. Sempre più spesso per operare nella filiera agroalimentare

nazionale e sui mercati esteri è necessario per le aziende adottare anche più di uno di questi

standard di qualità (ISO, BRC, EMAS, etc.).

Un esempio di certificazione importante nel caso dei prodotti alimentari e rivolta espressa-

mente ai consumatori è quella relativa all’origine geografica delle produzioni. Come abbiamo

visto i consumatori attribuiscono un’importanza crescente all’origine geografica come

aspetto che garantisce la qualità e la tipicità delle produzioni alimentari. L’utilizzazione del

nome della regione di origine come marchio di qualità in Europa è volontario ma regolamen-

tato: l’Unione Europea, concede l’uso di una serie di marchi di origine (Denominazione di

Origine Protetta, Indicazione Geografica Tipica) in presenza di una certificazione che

risponda a determinati requisiti più o meno stringenti a seconda del tipo di marchio utiliz-

zato. I marchi europei di origine geografica conferiscono una forte credibilità e garanzia alle

produzioni alimentari e vengono visti come un’importante opportunità da sfruttare per il

sistema agroalimentare italiano, nel quale esiste una vasta tradizione gastronomica che

potrebbe essere valorizzata. Questa strategia di differenziazione, riconducendo la qualità

degli alimenti alle caratteristiche del territorio, viene vista come una opportunità competi-

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tiva soprattutto nel mondo agricolo, anche in vista di una più favorevole distribuzione del

valore aggiunto lungo la filiera alimentare.

Schema riassuntivo sulle strategie competitive di base

Leadership di costo Differenziazione Valore

dell’offertaFocalizzazione

orientata al costo

Focalizzazione orientata alla

differenziazioneTarget strategico

Ampio Ampio Acquirenti attenti al valore Nicchia di mercato Nicchia di mercato

Base del vantaggio competitivo

Bassi costi Prodotto unico Migliore rapporto valore/prezzo

Bassi costi all’interno della

nicchia

Prodotto unico all’interno della

nicchia

Linea di prodotto

Prodotto di base Enfasi sulle caratteristiche

Caratteristiche attraenti di fascia

alta

Progettato in base ai gusti della nicchia

Progettato per soddisfare i gusti della

nicchia

Enfasi sulla produzione

Si tende a ridurre i costi

indipendentemente dalla qualità

Offerta di ogni caratteristica senza considerare i costi

Offerta di ogni caratteristica

contenendo i costi

Ridurre costi per nicchia

Offrire tutte le caratteristiche per

nicchia

Enfasi sul marketing

Valorizzate caratteristiche che

consentono di ridurre i costi

Si pubblicizzano le caratteristiche di differenziazione

coprendo tali costi con il premium price

Si pubblicizza il valore dell’offerta (ottenuto offrendo

caratteristiche analoghe a un

prezzo inferiore o viceversa)

Si pubblicizzano quelle

caratteristiche che soddisfano le

aspettative della nicchia

Si caratterizzano quelle caratteristiche

che soddisfano meglio le aspettative della

nicchia

Elementi strategici cruciali

Prezzi convenienti, valore elevato,

riduzione costante dei costi

Innovazione costante, attenzione su poche

caratteristiche di differenziazione

Capacità di ridurre i costi e di offrire caratteristiche di

fascia alta

Servire la nicchia contenendo i costi

senza entrare in nuovi segmenti o

rivolgersi a un mercato più ampio

Servire la nicchia meglio dei

concorrenti, senza entrare in nuovi

segmenti o rivolgersi a un mercato più ampio

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3. STRATEGIE DI DIFFERENZIAZIONE: COMPETITIVITÀ, QUALITÀ E SICUREZZA

ALIMENTARE

3.1 LE SPECIFICITÀ DELLA QUALITÀ NELL’AGROALIMENTARE

I prodotti agroalimentari presentano aspetti del tutto particolari circa la definizione, la

misura, l’ottenimento e la garanzia di un dato livello qualitativo. Anzitutto la definizione di

qualità non è, né può essere, univoca in quanto essa deve essere definita rispetto alla capa-

cità di un dato bene o servizio di soddisfare i bisogni espressi o latenti dei consumatori e/o

dei clienti.

Nel caso dei prodotti alimentari, inoltre, data la forte sensibilità dei consumatori finali, in

particolare rispetto a talune delle caratteristiche qualitative, c’è una sensibilità del tutto par-

ticolare rispetto alle stesse: si pensi ai contenuti nutrizionali e salutistici degli alimenti, senza

escludere gli aspetti igienici e di sicurezza sanitaria, per fare solo alcuni esempi.

Inoltre, non va sottovalutato il fatto che i prodotti alimentari non possano essere piena-

mente valutati dal punto di vista qualitativo se non solo dopo il consumo e, in parte, nem-

meno dopo di esso. Ciò fa comprendere l’importanza, specie in questi casi, dei sistemi di

controllo, di garanzia e di comunicazione, inclusi i marchi, atti a costruire una reputazione e

un rapporto di fiducia che risulta centrale per l’apprezzamento e la valorizzazione della qua-

lità.

Questo contesto impone, quindi, anche alle aziende agricole, una serie di attività e di con-

trolli dai costi crescenti, dei quali non sempre gli operatori percepiscono i benefici. Se da un

lato, quindi, vi sono certamente nuove esigenze in termini di controlli del rispetto delle

garanzie minime di qualità dei prodotti alimentari, dall’altro c’è il rischio concreto che, anche

a causa della struttura stessa del mercato agricolo, gli agricoltori siano di fatto impossibilitati

a recuperare almeno parte dei costi di questi sistemi con conseguente aumento delle diffi-

coltà economiche e finanziarie.

D’altro canto, la qualità dei prodotti alimentari non può certo essere limitata alla verifica e al

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controllo di requisiti minimi di sicurezza. Anzi, è sempre più necessario passare a forme di

valorizzazione adeguata della qualità che consentano di ottenere, dal mercato, un prezzo

finale dei prodotto agricolo più interessante e remunerativo. In questi casi, non di rado, è

anche necessario realizzare un sistema di qualità integrato coerente tra i diversi soggetti

delle filiere interessate, in quanto, la qualità del prodotto alimentare finale (che include una

quota crescente di servizi), è frutto delle scelte di un numero spesso molto elevato di opera-

tori.

Se, nel primo caso, l’obiettivo degli strumenti deve essere quello di ridurre i costi del sistema

di controlli e di garanzie, distribuendoli tra i diversi soggetti delle filiere in misura proporzio-

nale alla possibilità di ricavarne benefici, questo diverso approccio alla qualità è quello cer-

tamente più interessante e promettente, anche se non privo di insidie e di difficoltà.

3.1.1 I BENI ALIMENTARI COME “BENI ESPERIENZA” E “BENI FIDUCIA”

Secondo una classificazione divenuta ormai classica, i beni alimentari possono essere consi-

derati dei beni “esperienza” nel senso che il loro livello qualitativo e le loro caratteristiche

possono essere conosciute quasi soltanto mediante una esperienza diretta di consumo, o

meglio dopo tale esperienza. Ovviamente vi sono diversi indicatori, incluse talune informa-

zioni disponibili sull’etichetta del prodotto, che possono migliorare ed aumentare le infor-

mazioni disponibili sull’alimento anche prima del consumo, ma ciò vale se si è fissata, nel

tempo, nella mente dei consumatori, una conoscenza appropriata circa la corrispondenza tra

le caratteristiche del prodotto e le informazioni dell’etichetta.

Inoltre, sempre più frequentemente, gli alimenti assumono anche alcune delle caratteristi-

che dei beni “di fiducia” nel senso che talune caratteristiche non possono essere conosciute

con certezza nemmeno dopo l’esperienza di consumo: si pensi, ad esempio, al contenuto di

additivi, conservanti o sostanze utili alla salute, al contenuto in residui, al rispetto di deter-

minate modalità produttive, ecc. Con riferimento ai suddetti parametri o ad altri analoghi,

nemmeno l’esperienza diretta di consumo consente di giungere ad una valutazione precisa

da parte del consumatore: è solo la fiducia nei marchi, nelle informazioni di etichetta o in

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altri elementi che indirettamente comunicano una certa “reputazione” del prodotto che il

consumatore acquisisce informazioni sul prodotto e assume le sue decisioni.

Anche per le ragioni di cui sopra, quindi, nel caso dei prodotti alimentari si verifica una situa-

zione di forte asimmetria informativa che crea incertezza nei consumatori e occasioni per

comportamenti non corretti (“moral hazard”) da parte di taluni produttori. Se non si met-

tono in campo strumenti idonei di controllo e di informazione adeguata, quindi, si corre il

rischio di generare una perdita netta di benessere sociale sia a danno dei consumatori sia a

danno dei produttori. I consumatori, infatti, incorrono nel rischio di non riuscire ad acqui-

stare ciò che desiderano, non trovando ciò che cercano, in termini qualitativi, proprio a

causa della inadeguatezza delle informazioni ricevute sul prodotto. Per i produttori, invece, il

pericolo consiste nel fatto che finiscono per essere di fatto avvantaggiati coloro che non

operano correttamente o comunque coloro che producono beni di qualità inferiore a danno

dei produttori di beni di qualità (e costi) superiori con conseguente scomparsa, nel tempo,

sia dei produttori di questi prodotti che dei prodotti stessi con un “appiattimento” verso il

basso della qualità e una riduzione del grado di varietà disponibile per le diverse categorie

merceologiche.

3.1.2 LA SICUREZZA ALIMENTARE: UN PREREQUISITO

Il termine “sicurezza” in campo alimentare ha due diverse accezioni che la lingua inglese

identifica con due diverse parole: la “food security” e la “food safety”. Mentre la prima iden-

tifica la sicurezza degli approvvigionamenti, ovvero la disponibilità di alimenti in quantità

adeguata a soddisfare i bisogni basilari, la seconda si riferisce alla assenza di possibili impatti

negativi sulla salute dei consumatori. Nel passaggio dalla prima alla seconda si potrebbe rias-

sumere uno dei principali cambiamenti della politica agro-alimentare dell’Unione Europea

nel corso degli ultimi decenni: mentre negli obiettivi della PAC (Politica Agricola Comune) del

Trattato di Roma del 1957 si leggeva, in modo esplicito, “garantire la sicurezza degli approv-

vigionamenti”, nella ridefinizione degli stessi in occasione della stesura di Agenda 2000 (Com

(97)2000def del 15 luglio 1997), si legge, tra l’altro: “La salute, in particolare la sicurezza

degli alimenti, costituisce la principale preoccupazione”. Ci si è dunque spostati nel tempo

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dall’attenzione primaria alla quantità di cibo disponibile a quella per la sua “qualità”, anzi-

tutto intesa nel senso di sicurezza sanitaria.

Non si può certo affermare che la sicurezza sanitaria degli alimenti non fosse un obiettivo

anche in precedenza, ovviamente, ma non era stato evidenziato per due ragioni: la prima era

l’assoluta prevalenza della dimensione quantitativa su quella qualitativa, data l’urgenza di

superare la relativa scarsità di alimenti; la seconda è dovuta ai grandi cambiamenti che si

sono realizzati nei sistemi agroalimentari moderni.

Con lo sviluppo di tali sistemi, infatti, è progressivamente aumentata la distanza, sia fisica

che culturale, tra chi produce le materie prime agricole e il consumatore finale. Inoltre,

all’aumentata distanza corrisponde anche una progressiva “spersonalizzazione dei rapporti”

lungo la filiera che porta ad una sostanziale modifica del sistema informale di garanzie che,

un tempo, il contatto personale tra acquirenti e venditori, nei diversi stadi, era in grado di

assicurare. L’acquisto dei prodotti alimentari avviene, ormai, in misura largamente preva-

lente all’interno di punti vendita della GDO senza contatti con il personale. La catena scelta,

in qualche misura, assieme ai diversi tipi di marchio e di informazioni in etichetta che il pro-

dotto può presentare, sono i nuovi elementi di garanzia, in sostituzione di quelli offerti dai

sistemi di rapporti personali di un tempo.

La crescente spersonalizzazione degli scambi ma anche la globalizzazione dei mercati, che ha

realizzato una crescente integrazione internazionale dei sistemi produttivi, hanno portato,

quindi, anche ad una percezione diversa dei rischi e ad una effettiva maggiore difficoltà ed

importanza dei controlli formali e/o istituzionali. Non di rado, l’opinione pubblica esprime

perplessità sulla qualità di prodotti di importazione o di provenienza ignota e manifesta una

spiccata preoccupazione quando percepisce l’incertezza relativa a taluni aspetti qualitativi

dei prodotti alimentari che, anche solo in parte, utilizzino materie prime agricole di prove-

nienza lontana.

Nella attenzione alla indicazione dell’origine delle materie prime agricole vi è certamente,

almeno in taluni casi, anche una componente di domanda di sicurezza: l’origine, in altri ter -

mini, può essere, tra le altre cose, anche un indicatore indiretto e quantomeno impreciso, di

sicurezza alimentare.

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3.1.3 DIMENSIONI OGGETTIVE E SOGGETTIVE DELLA QUALITÀ

Come accennato, la qualità può essere definita come il grado in cui un prodotto soddisfa le

esigenze e le aspettative dei clienti, e in ultima analisi, nel caso di prodotti alimentari, anche

dei consumatori finali. È evidente che il grado di soddisfazione dipende da una pluralità di

fattori, alcuni dei quali misurabili e altri no, alcuni dei quali riferiti a bisogni noti ed espressi,

altri a bisogni non espressi o latenti; in tutti i casi, il rapporto tra i clienti/consumatori ed il

prodotto, specie nel caso dei prodotti alimentari, ha una forte componente soggettiva.

Per questa ragione, se, da un lato, è necessario proseguire in un percorso di sempre più

attenta e precisa definizione delle caratteristiche misurabili ed oggettive dei prodotti alimen-

tari, che necessariamente si traducono in una altrettanto precisa definizione delle caratteri-

stiche dei prodotti agricoli di partenza, dall’altro, è pur sempre importante prestare atten-

zione anche alle altre caratteristiche, non necessariamente tutte facilmente misurabili, che

permettono ad un prodotto alimentare di essere percepito come di qualità “superiore”

rispetto ad altri.

La componente soggettiva della qualità, o meglio, le componenti soggettive, rappresentano

una difficoltà per quanti operino a livello aziendale in quanto non facili da identificare, clas-

sificare, raggruppare e valutare per la loro portata economica; allo stesso tempo, però, esse

rappresentano anche una grande opportunità: è proprio dalla capacità di soddisfare con suc-

cesso questa domanda di qualità che possono scaturire le migliori opportunità economiche

per un dato prodotto e/o per una data azienda. È questo lo spazio tipico del marketing agro-

alimentare.

Queste opportunità, tuttavia, riguardano in misura maggiore i prodotti destinati ai consuma-

tori finali, ma, certamente, non tutti i prodotti allo stesso modo: è certamente molto più dif -

ficile differenziare farina bianca o farina di mais, zucchero o latte UHT, per fare qualche

esempio, piuttosto di quanto non lo sia per salumi o formaggi.

3.1.4 LA DIFFERENZIAZIONE VERTICALE E QUELLA ORIZZONTALE NELL’AGRO-ALIMENTARE

Un aspetto strettamente connesso con la duplice dimensione soggettiva ed oggettiva della

qualità nel settore agroalimentare, è quello della possibilità di differenziazione sia verticale

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che orizzontale degli alimenti.

Poiché i beni alimentari possono essere interpretati e definiti da un insieme, più o meno

complesso, di caratteristiche, si possono verificare casi di differenziazione verticale solo

quando, per tutte le caratteristiche rilevanti, un prodotto sia “superiore”, rispetto ad un

altro, in termini oggettivi percepiti come tali dai consumatori e quindi valorizzati di conse-

guenza.

Tuttavia, nella maggior parte dei casi, non è possibile stabilire a priori se un determinato

bene alimentare sia “superiore” per “tutte” le caratteristiche rilevanti rispetto ad un altro, sia

perché, tra le caratteristiche rilevanti per i consumatori, ve ne potrebbero essere di non

misurabili e di non oggettive, sia perché, molto spesso, un bene alimentare si differenza da

un altro in senso “migliorativo” per alcune caratteristiche, ma in senso “peggiorativo” per

alcune altre; ne consegue che l’esito finale, in termini di disponibilità a pagare un dato

prezzo da parte dei consumatori, dipenderà dall’importanza che le diverse caratteristiche

hanno per i diversi consumatori.

A priori, quindi, nell’alimentare si deve parlare di differenziazione senza poter ipotizzare

necessariamente la presenza di una qualità “migliore” rispetto ad una “peggiore”, ma piutto-

sto la presenza di beni di qualità semplicemente diversa. Sono le preferenze effettive ed i

comportamenti di consumo che definiscono, in ultima analisi, quale sia la percezione dei

diversi mix di caratteristiche di prodotti concorrenti.

Questo aspetto è importante per almeno due ragioni. Anzitutto, i diversi strumenti disponi-

bili per identificare prodotti “di qualità” nell’agroalimentare (DOP, IGP, STG, DOC, DOCG,

BIO, ecc.) non portano “necessariamente” alla formazione di una graduatoria e quindi di una

differenza di prezzo univoca tra i diversi prodotti.

In secondo luogo, data la almeno parziale soggettività della percezione e della valutazione

della qualità, essa non deve essere considerata stabile nel tempo: un prodotto può guada-

gnare o perdere in apprezzamento per il suo livello qualitativo anche se restassero invariate

tutte le sue caratteristiche. È evidente che anche questa considerazione ha implicazioni in

termini di strategie di marketing.

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3.2 LA QUALITÀ COME LEVA COMPETITIVA

Sempre più spesso ed in situazioni assai diverse quanto a luoghi, contesti operativi e com-

parti o filiere interessate, si affronta il tema della qualità ed il termine ritorna con insistenza

con riferimento ad aspetti molto diversi tra loro.

Tra le tante chiavi di lettura possibili, ve n’è una di forte interesse per la sua capacità discri-

minatoria dal punto di vista sia della comprensione dei contenuti del termine che della sua

rilevanza per le dinamiche aziendali e di mercato, come pure quelle del ruolo e degli stru-

menti di un eventuale intervento pubblico.

Tale prospettiva si basa sulla individuazione della strategia competitiva prevalente nei diversi

comparti e nelle diverse filiere considerate: è di importanza decisiva, infatti, distinguere tra

una strategia competitiva basata sui prezzi e quindi, indirettamente, sulla leadership nei costi

di produzione, o piuttosto una strategia centrata sul perseguimento di una differenziazione

di prodotto finalizzata a conseguire un vantaggio che si traduce nella possibilità di ottenere

un prezzo di vendita del prodotto significativamente e stabilmente più elevato rispetto a

quello della concorrenza. In entrambi i casi si parla di qualità ma la prospettiva è

sostanzialmente diversa.

3.2.1 IL RUOLO DELLA QUALITÀ NELLE STRATEGIA BASATE SUI PREZZI

In genere si è portati a considerare i prodotti agricoli semplicemente, o almeno primaria-

mente, come semplici materie prime e, in quanto tali, scarsamente o per nulla differenziabili.

Non di rado, ad esempio, studiosi e operatori mostrano le forti preoccupazioni per un

aumento della concorrenza di prezzo da parte di produttori di territorio diversi nell’ambito

dello stesso Paese o di altre parti dell’Unione Europea, se non addirittura di Paesi extra-UE.

E mentre si descrivono i gravi rischi per i produttori, determinati da questa crescente concor-

renza, spesso si sottolineano anche le caratteristiche che renderebbero qualitativamente

preferibili i prodotto nazionali o di un dato territorio. È evidente che, almeno in parte, tali

considerazioni appaiono contraddittorie ad una analisi più approfondita e mostrano come

non vi sia chiarezza sul ruolo della qualità nelle diverse condizioni di mercato e di strategia

competitiva.

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Nel caso di prodotti agricoli assai scarsamente differenziabili e/o differenziati, cioè prodotti

assimilabili a “comuni” materie prime, l’elemento di gran lunga dominante nella competi-

zione è, ovviamente, il prezzo. Ciò non implica, necessariamente, che non vi siano anche

specifiche richieste da parte degli acquirenti, in termini di particolari caratteristiche di pro-

dotto o del processo produttivo. In questi casi, infatti, tendono a svilupparsi rapporti con-

trattuali basati su specifiche produttive ben precise, che possono anche includere la valoriz-

zazione di talune caratteristiche del prodotto; la rilevanza di queste rispetto al prezzo finale

è, tuttavia, generalmente molto limitata; ne consegue una fortissima sostituibilità tra pro-

duttori, aree produttive e Paesi di provenienza.

In altri termini, si parla anche in questo caso di qualità ma nel senso di rispetto di standard

minimi o di caratteristiche particolari: ciò non è in grado di influenzare in modo significativo

il prezzo finale.

Possibili esempi di prodotti che presentano queste caratteristiche sono i cereali, le proteiche

e le oleaginose, il latte per uso industriale, talune produzioni ortofrutticole destinate

all’industria (arance da succo, pesche e pere da industria, ecc.).

La qualità, in questi casi, tende a riferirsi semplicemente al rispetto di determinati parametri

di natura chimico-fisica, biologica, tecnologica, ecc. Si tratta cioè, soprattutto, se non esclusi-

vamente, di caratteristiche misurabili che tendono quasi inevitabilmente a divenire prere-

quisiti piuttosto che attributi migliorativi, specie dal punto di vista degli scarsissimi effetti che

essi sono in grado di generare sul prezzo al quale questi prodotti agricoli vengono scambiati.

In questi casi, per l’agricoltore, esistono poche alternative se non quella di allinearsi, con i

minori costi e la migliore efficacia possibile, alle richieste dei mercati, sempre prestando la

massima attenzione alla dinamica dei costi che resta quella decisiva per la competitività.

Spesso, infatti, in questo contesto competitivo, la qualità permette semplicemente l’accesso

al mercato, l’accesso al sistema della trasformazione, piuttosto che un premio di prezzo.

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3.2.2 IL RUOLO DELLA QUALITÀ NELLE STRATEGIA DI DIFFERENZIAZIONE DI PRODOTTO

Sempre con riferimento ai prodotti agricoli che più assomigliano a vere e proprie materie

prime, per la loro forte omogeneità e/o per l’alto grado di trasformazione che in genere

subiscono prima di raggiungere il consumatore finale, esistono alcune, seppur limitate,

opportunità di intervento finalizzate a perseguire politiche di valorizzazione dei prodotti

basate sulla differenziazione.

Si tratta, ad esempio, della possibilità di differenziare il prodotto agricolo mediante il mar-

chio “biologico”; alternativamente potrebbero agire in modo simile, scelte quali “OGM-free”

o eventuali altri marchi o certificazioni ambientali (ad esempio EMAS o ISO14001) e/o etici

(ad esempio la certificazione SA8000). In tutti i casi, tuttavia, è sempre e assolutamente

necessario verificare attentamente, caso per caso, prodotto per prodotto, azienda per

azienda, territorio per territorio, se si possano ipotizzare ragionevolmente risultati economici

soddisfacenti in un orizzonte temporale compatibile con le esigenze aziendali. Solo la verifica

del mercato, infatti, può dire se le singole scelte possono portare a risultati positivi e non vi

sono ragioni, a priori, per ipotizzare un esito piuttosto che un altro. Anche in questo caso,

quindi, studi di mercato e un adeguato supporto in termini di marketing sono elementi

necessari, come sempre quanto si tenta la strada della differenziazione del prodotto.

In altri casi, invece, si possono utilizzare anche altri strumenti di differenziazione, quali le

indicazioni geografiche: DOP e IGP per i prodotti agro-alimentari, DOC, DOCG e IGT per i vini.

Dallo scorso maggio sono entrate in vigore anche in Italia le nuove norme europee che

vanno a modificare le denominazioni fino ad ora usate per classificare i vini: i VQPRD (vini di

qualità prodotti in regioni determinate) lascia il posto ai DOP(denominazione di origine

protetta) che si dividono in: DOC (denominazione di origine controllata) e DOCG

(denominazione di origine controllata e garantita). Le IGT (indicazione geografica tipica)

lasciano il posto alle IGP (indicazione geografica protetta).

Novità anche per i vini da tavola: la dicitura ‘da tavola’ per i vini comuni è stata soppressa e

dovranno indicare il vitigno senza alcun legame con il territorio di produzione. Cambiano

anche i controlli: non saranno più effettuati dai consorzi di produttori, ma da a soggetti terzi

e prevedono sanzioni più alte, proprio per garantire la qualità del vino che arriva nelle

nostre tavole. Tra le altre novità: obbligatorio indicare l’annata di produzione in etichetta;

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innalzato da 5 a 10 anni il tempo necessario per il passaggio da DOC a DOCG (5 anni da IGT a

DOCG); soppressi gli albo degli imbottigliatori, dei vigneti e l’elenco delle vigne; sportello

unico dedicato ai produttori per snellire tutti gli aspetti burocratici prima demandati a vari

enti; introdotto l’obbligo dei contrassegni di Stato anche sui vini DOC

Questi stessi strumenti di differenziazione, inoltre, possono combinarsi anche con quelli del

biologico o con le altre certificazioni etiche o ambientali di cui sopra.

Al di là degli strumenti specifici, tuttavia, le strategie di differenziazione dei prodotti sono

finalizzate a raggiungere l’obiettivo di un premio di prezzo finale che si traduca, nel caso dei

prodotti alimentari, anche in un premio di prezzo per la fase agricola della produzione. È

ancor più evidente, nel caso di produzione di un prodotto per il quale si persegua questa

strategia, quanto le diverse fasi della filiera debbano essere necessariamente ed efficace-

mente coordinate proprio al fine di creare, mantenere e valorizzare quegli elementi differen-

ziali sui quali si basa la percezione di qualità dei consumatori finali.

La qualità, infatti, origina dai processi utilizzati, sia a livello agricolo che di trasformazione,

ma risente anche degli altri fattori di produzione utilizzati sia in agricoltura che a livello di

industria, così come delle modalità di confezionamento, di conservazione, di presentazione,

nonché di preparazione finale e di consumo.

È evidente, quindi, come unitamente al prodotto, debba giungere fino al consumatore anche

un flusso adeguato di servizi, ma, soprattutto, di informazioni che favoriscano una più chiara

percezione delle sue caratteristiche, materiali ed immateriali. Queste informazioni, almeno

in parte, possono anche essere comunicate in modo sintetico mediante appositi marchi, se la

loro gestione nel tempo ha saputo costruire e rafforzare una reputazione, cioè un apprezza-

mento stabile e forte per il prodotto, i processi, i servizi, le altre caratteristiche qualitative

(quali l’origine, ad esempio) rispetto ai quali i consumatori si sentono adeguatamente garan-

titi. La comunicazione, in altri termini, non fa altro che contribuire a costruire, mantenere e

rafforzare nel tempo questa reputazione, sintesi del grado di apprezzamento dei consuma-

tori per il prodotto.

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3.2.3 LA QUALITÀ COME FULCRO DELLA COMPETITIVITÀ DELL’AGRO-ALIMENTARE ITALIANO

La riforma della PAC, che il nostro Paese ha iniziato ad applicare dal 1 gennaio 2005, rappre-

senta una grande sfida per l’intero agroalimentare nazionale: quella di adeguarsi rapida-

mente ed efficacemente ad un cambiamento profondo di contesto competitivo che imporrà

modificazioni, talvolta drastiche, nelle strategie competitive delle aziende agricole, delle

filiere, dei distretti, degli stessi territori.

Le nuove direzioni della Politica agricola possono in tale ambito schematizzarsi sui seguenti

effetti: (1) rendere gli agricoltori molto più attenti ai segnali di mercato; (2) portare presumi -

bilmente ad un’ulteriore accentuazione dell’instabilità dei prezzi dei prodotti agricoli; (3)

rendere gli imprenditori agricoli più attenti a tutte le possibilità di incremento dei pezzi di

vendita dei loro prodotti mediante la risposta a una domanda finale sempre più multiforme e

complessa.

La competitività dell’agricoltura italiana in termini di costi di produzione, infatti, salvo raris-

sime eccezioni, è particolarmente difficile in un contesto ormai non solo di Unione Europea a

27 Paesi, ma anche di crescente concorrenza sul piano mediterraneo e globale.

Anche per queste ragioni, quindi, appare importante, per il sistema agro-alimentare nazio-

nale, puntare in misura crescente al sostegno di forme di competizione basate su

un‘adeguata valorizzazione della qualità degli alimenti.

Nell’ambito delle produzioni agricole scarsamente o per nulla differenziate, la concorrenza di

prezzo è destinata ad essere sempre più forte ed i prezzi, presumibilmente, più variabili, cre-

ando sia occasioni positive che situazioni di difficoltà come spesso avviene sui mercati inter-

nazionali delle “commodities” agricole.

Resta vero, allo stato attuale, che solo una parte relativamente limitata delle produzioni

gode di forme di tutela e/o di valorizzazione mediante marchi di vario tipo, ma è anche

altrettanto vero che molti prodotti, si pensi a quello ortofrutticoli, potrebbero giovarsi assai

più di quanto non abbiano fatto finora, di questi strumenti, anche per tentare la carta di una

differenziazione certo difficile, ma non più della crescente competizione sui prezzi.

In sintesi, i sistemi agroalimentari, e tra questi quello italiano, si trovano ad operare su sce-

nari competitivi dove, per effetto di alcune variabili, l’innovazione, o meglio la capacità di

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rispondere in maniera consona alle esigenze di innovazione da parte della domanda inter-

media e finale, svolge un ruolo cruciale.

Questa considerazione ha validità sia che rivolgiamo la nostra analisi a mercati più qualificati

ed esigenti, quelli che in un recente passato si soleva indicare con il termine di “mercati di

nicchia”, sia per i mercati delle cosiddette commodities, dei prodotti di massa, dove invece la

leva strategica di competitività si individua ancora sul continuo contenimento dei costi e,

dunque, su di una organizzazione e gestione efficiente della supply chain.

Parlando della coniugazione dei concetti di innovazione e di qualità nell’agroalimentare, una

distinzione più pertinente sembra, piuttosto che quella tra produzioni di pregio e produzioni

di massa, tra i modelli “from lab to fork” e “farm to fork”, parafrasando e richiamando il con-

cetto di rintracciabilità e di trasparenza propugnato con tanta forza nei documenti

dell’Unione europea in riferimento alle produzioni agroalimentari, a partire dal Libro Bianco

sulla sicurezza alimentare.

Quest’ultimo disegna un modello tipicamente rappresentativo dell’agroalimentare europeo,

in linea con le indicazioni più recenti della politica di settore, che mette alla base del suc-

cesso competitivo i concetti di “naturalità”, massimo legame con il territorio, rispetto di esso

e dell’ambiente, forte ruolo della tradizione, elevato grado di differenziazione delle produ-

zioni quali indicatori di qualità.

Il primo modello di agroalimentare, invece, è proprio delle grandi imprese e delle multina-

zionali: si caratterizza per un elevato grado di concentrazione, elevata intensità finanziaria,

grossi investimenti in innovazione tecnologica ed a livello del marketing.

Il successo competitivo dell’agroalimentare non può che passare attraverso ipotesi di coesi -

stenza possibile dei due modelli, ed in particolare la sostenibilità del secondo presuppone

una sistematica adozione, monitoraggio, certificazione e comunicazione della qualità, azioni

che richiedono l’efficace presenza di un’intensa politica per l’innovazione.

La maggiore divulgazione delle ricerche scientifiche in campo medico ed il più elevato grado

culturale hanno contribuito a formare una tipologia di consumatore sempre più istruito,

consapevole, informato, attento e selettivo, che si pone una serie di interrogativi e cerca di

soddisfare al meglio le proprie esigenze; di contro, aspetti di tipo contingente, quali crisi ali-

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mentari e l’introduzione sul mercato di cibi geneticamente modificati, hanno reso partico-

larmente sensibile i consumatori verso il tema della “food safety”.

Per cui, la domanda di qualità da parte dei consumatori ha assunto un’accezione tanto

ampia da ricomprendere una serie di elementi quali: sicurezza, salubrità, convenienza,

autenticità, naturalità e sostenibilità, che vanno ben oltre la visione classica del concetto di

“qualità”. A fronte di tali considerazioni, la sicurezza alimentare è diventata una priorità da

gestire, a livello internazionale, come “responsabilità condivisa” ed ha assunto un carattere

di trasversalità rispetto a tutte le altre politiche. Tale situazione è l’incipit di un processo di

cambiamento che sta interessando tutto il settore agroalimentare e sta spingendo gli opera-

tori del mercato ad assumersi responsabilità ben definite verso il consumatore ed ad affron-

tare nuove sfide.

Le Autorità Europee hanno risposto a questo nuova esigenza con il Regolamento (CE) n.

178/2002, che segna un punto di rottura con cinquanta anni di vuoto di controllo e di infor-

mazioni ed è espressione della volontà di creare una struttura regolamentativa e degli stru-

menti di controllo utili a prevenire situazioni di rischio atti, quindi, a tutelare la vita e la

salute umana, degli animali e vegetali, ed a rispondere, contemporaneamente, alle pressioni

della domanda circa l’ottenimento di maggiori garanzie. Il Regolamento è orientato allo svi -

luppo coerente ed armonizzato della legislazione alimentare che, in questa nuova veste, si

fonda su principi di ordine generale quali: il carattere integrato della catena alimentare “dai

campi alla tavola”; l’analisi del rischio; la responsabilità di tutti gli operatori del settore ali-

mentare; la rintracciabilità; il diritto all’informazione dei cittadini.

Gli attori in grado di uscire con successo dalla battaglia competitiva saranno quelli in grado di

darsi la migliore possibile organizzazione, ma soprattutto di integrare il maggior livello possi -

bile di garanzia ai rispettivi clienti. In questo ambito, gli schemi di assicurazione della qualità

(Quality Assurance Schemes), rappresentano un elemento di innovazione nel sistema agroa-

limentare, la cui diffusione e rapidità di adozione dipende da numerosissime caratteristiche,

riconducibili ad alcune interne all’impresa (struttura e dimensione) e ad altre ad essa esterne

(soprattutto riconducibili alla quantità e qualità di informazione).

Lo scenario internazionale vede, inoltre, il sistema agroalimentare operare in un contesto

sempre più globale, in cui, causa la liberalizzazione degli scambi attraverso il graduale ma

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continuo processo di eliminazione delle barriere tariffarie, è prevedibile un sensibile incre-

mento delle barriere non tariffarie, tra cui, presumibilmente, avranno un posto di tutto

rilievo gli schemi di assicurazione della qualità.

3.3 GLI SCHEMI DI ASSICURAZIONE DELLA QUALITÀ

Alla domanda di qualità espressa dal consumatore, i diversi stakeholders, situati a differenti

livelli del sistema agroalimentare, stanno rispondendo, con un ricorso sempre maggiore e

sempre più inserito nel contesto dell’obbligatorietà, con iniziative riconducibili al fenomeno

dell’etichettatura, ma soprattutto con l’introduzione di veri e propri prodotti innovativi, che,

in materia di qualità e sicurezza, si configurano in prodotti con qualità assicurata.

Una illustrazione, seppure sintetica dei principali schemi di gestione della qualità nel sistema

agroalimentare italiano, allo scopo di individuarne gli aspetti innovativi, non può prescindere

da un cenno ai contenuti del Codex Alimentarius. Il Codice, elaborato dalla FAO e dall’OMS

agli inizi degli anni ’60, ha rappresentato fino ad oggi una base imprescindibile per la rego-

lamentazione di qualità e sicurezza all’interno delle catene agroalimentari, svolgendo nel

contempo un ruolo di “faro”, nella definizione di regole generali in materia, in grado di assi-

curare un commercio internazionale quanto più possibile privo di distorsioni. Circa un ven-

tennio dopo, inizia lo sviluppo di sistemi ispirati al concetto di Buona prassi (Good Practice),

rivolti essenzialmente alla gestione dei processi di trasformazione dei prodotti agro-alimen-

tari.

Tali sistemi, rappresentano i primi schemi di assicurazione della qualità, che, convenzional-

mente, vengono identificati con la classificazione di schemi di I generazione, schematizza-

zione essenzialmente legata all’evoluzione temporale dei QAS.

Il concetto di GAP, Good Agricultural Practice, individua le linee guida per le attività agricole,

volte alla riduzione ed al controllo dei rischi in termini fisici, chimici e biologici, e sempre più

spesso richiamate ed enfatizzate nei documenti e nella produzione normativa in ambito della

Politica Agricola Comunitaria. Non minore importanza rivestono le Buone Pratiche Igieniche

(GHP, Good Hygienic Practice); le Buone Pratiche di Trasformazione (GMP, Good

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Manifacturing Pactice); le Buone Pratiche di Commercializzazione (GTP, Good Trade

Practice).

Agli inizi degli anni ’90 gli standard ISO 9000 (International Organisation for Standardisation)

hanno conosciuto una diffusione sempre crescente. Si tratta di standard internazionali il cui

obiettivo è quello di evitare le barriere tecniche al commercio, attraverso il raggiungimento

di un elevato grado di uniformità. Gli standard contenuti nelle ISO 9000 sono indipendenti

dai settori di applicazione.

Qualche anno più tardi si è diffuso un numero sempre crescente di sistemi riferiti all’HACCP:

il concetto alla base dell’Hazard Analysis Control of Critical Point è l’identificazione dei rischi

per la salute durante i processi produttivi.

Nel corso dello stesso decennio, iniziano a vedere ampia diffusione anche gli schemi di assi-

curazione della qualità cosiddetti di II generazione, che essenzialmente si differenziano da

quelli di prima generazione per un maggiore contenuto in termini di possibilità di differen-

ziazione. Questi segnano un graduale passaggio verso un approccio sempre più mirato

all’aggiunta di valore al prodotto alimentare ed alla comunicazione di questo al cliente o al

consumatore finale.

Appartengono a questa categoria gli schemi di tutela della provenienza geografica (denomi-

nazione di origine protetta, DOP, e indicazione geografica protetta, IGP), la certificazione del

metodo di produzione biologico, che incarnano schemi di assicurazione volontari della qua-

lità in ambito regolamentato, e la certificazione BRC (British Retail Consortium). Questo è

uno standard progettato da importanti insegne della Grande distribuzione britannica, con lo

scopo di verificare le metodiche di lavorazione e soprattutto i criteri igienici dei propri forni-

tori di prodotti a marchio, in base a principi codificati e condivisi, nel rispetto di alcuni requi-

siti minimali. Il “Food Global Standard BRC”, rappresenta attualmente, in tutta Europa, la

norma maggiormente richiesta dalle diverse insegne della distribuzione ai fini della valida-

zione dei propri fornitori.

La versione iniziale dello Standard risale al 2002, mentre a gennaio 2005 una revisione pro-

fonda ne ha cambiato forma e contenuti. Il funzionamento dello schema BRC si basa su una

serie di audit inerenti ai diversi requisiti. Il nuovo standard prevede quattro gradi di confor-

mità (A, B, C, D), decrescenti secondo le carenze e le non conformità riscontrate; il raggiun -

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gimento del livello D implica la ripetizione dell’iter certificativo. Lo standard, tuttavia, pre-

vede dei requisiti fondamentali (sine qua non), relativamente ai quali anche una sola non

conformità blocca la procedura di certificazione.

Lo standard revisionato tiene conto in particolar modo della normativa europea in materia di

sicurezza degli alimenti, pone attenzione ai sistemi di rintracciabilità ed ai problemi della

contaminazione crociata da organismi geneticamente modificati.

La conclusione dell’iter prevede il rilascio di un certificato e la stesura di un report esaustivo

che, per ogni requisito, mette in evidenza punti di forza e di debolezza: entrambi rendono

possibile l’entrata nella rosa fornitori della Grande Distribuzione.

Lo standard copre dei punti cardine tra cui il sistema HACCP, la gestione della qualità e

dell’ambiente di lavoro, il controllo del prodotto e del processo produttivo.

A seguito dell’ultima revisione lo standard BRC risulta molto allineato ad un altro standard

globale che è l’IFS (International Food Standard, tedesco), rendendo possibile la realizza-

zione di alcuni audit congiunti per il conseguimento di entrambe le certificazioni.

Il principale vantaggio derivante dal conseguimento dello standard BRC deriva dalla sua

completezza: esso viene commissionato dal fornitore e gli esiti dell’iter certificativo possono

essere sottoposti a tutti i clienti che riconoscono lo standard, che offre un quadro chiaro de-

gli obblighi e dei requisiti tanto per il cliente che per il fornitore.

Alla fine degli anni ’90, iniziano a diffondersi gli schemi di assicurazione della qualità di III ge-

nerazione, che rappresentano una vera innovazione nel panorama dell’agroalimentare.

L’evoluzione concettuale che ha condotto alla definizione degli schemi di III generazione sta

soprattutto nel passaggio da schemi di assicurazione orientati al prodotto (product oriented)

a quelli orientati al processo (process oriented).

Le motivazioni alla base di questa evoluzione sono da ricercarsi nelle richieste sempre più

pressanti da parte dei consumatori di un “alto” livello di qualità, che, includendo quello che

dovrebbe essere un prerequisito obbligato, cioè la sicurezza degli alimenti, è più opportu-

namente sintetizzabile in termini di “qualità costante”: cultura della qualità e cultura della

sicurezza divengono concetti inscindibili.

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Di conseguenza, l’assicurazione della qualità dei prodotti alimentari da parte del sistema

produttivo è una risposta alle istanze del consumo, che si inserisce nel più ampio contesto di

“alta qualità del livello di vita”.

Il problema della valutazione della qualità di un alimento si complica per il peso crescente

dei requisiti soggettivi assegnati dal consumatore al prodotto alimentare, o meglio per la

progressiva prevalenza degli attributi “wants” rispetto a quelli “musts”. Ciò deriva essen-

zialmente dalla crescente importanza assegnata ai segnali estrinseci, all’enfasi sugli attributi

ambientali o periferici al prodotto. Questa evoluzione è ben rappresentata dallo sposta-

mento di attenzione verso il concetto di alimentazione piuttosto che di cibo in sé.

Un sistema agroalimentare competitivo deve essere in grado di individuare le variabili stra-

tegiche e, in base a queste, darsi strumenti ed organizzazioni idenei per fornire risposte ade-

guate.

Le catene agroalimentari gestiscono contemporaneamente flussi di materiali e flussi di in-

formazioni; il problema è l’incorporazione della qualità in entrambe le dimensioni: da qui è

immediato affermare che un concetto innovativo di qualità richiede un approccio di sistema.

L’organizzazione delle catene agroalimentari ha in questo contesto un’importanza fonda-

mentale: una supply chain adeguatamente coordinata consente una gestione efficiente dei

flussi fisici e un’ottimale diffusione e condivisione dell’informazione. Questo tipo di organiz-

zazione rende possibile la rispondenza del prodotto e dei suoi attributi alle esigenze del mer-

cato attraverso un approccio integrato al problema della qualità. Una delle sfide più impe-

gnative è rappresentata dalla necessità di includere la qualità nei passaggi di informazione:

in una logica di domanda, in base alla quale una supply chain funziona, l’assicurazione della

qualità deve essere incorporata come attributo di un prodotto agroalimentare.

In quest’ottica, alla domanda di qualità espressa dal mercato, la risposta dei diversi

stakeholders ai differenti livelli del sistema agroalimentare ed alla sua periferia non può che

estrinsecarsi nell’introduzione di prodotti innovativi che si configurano in prodotti con qua-

lità assicurata. L’obbligatorietà di tale percorso proviene dalle seguenti considerazioni: la

qualità di un prodotto deriva da una valutazione totale; il test finale di validazione del

modello di qualità è il prezzo che i consumatori sono disposti a riconoscere al prodotto agro-

alimentare; i servizi e l’immagine (attributi intangibili) vedono incrementare il loro peso nella

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formazione del prezzo finale. Il problema per l’offerta è, dunque, differenziare in qualità e

comunicare qualità.

È evidente che, in questo quadro, la qualità “normativa” rappresenta una condizione neces-

saria ma non sufficiente per conquistare il mercato, ed è quindi piuttosto una condizione

pre-competitiva. L’assicurazione della qualità, invece, è lo strumento che, insieme alla

marca, consente di generare “trust” nel consumatore, dal momento che tali schemi tengono

efficientemente conto del peso degli attributi “ricerca” e “fiducia”.

Gli schemi di assicurazione della qualità di III generazione rappresentano, quindi,

un’innovazione appropriata per l’agroalimentare, perché consentono di trattare la qualità in

un’ottica sistemica, rispondono ad una logica “demand pulled”, ma soprattutto sono rispon-

denti alle esigenze della Moderna Distribuzione, cui nei sistemi agroalimentari moderni

spetta la leadership di canale, perché forniscono utili elementi di differenziazione in aggiunta

alle possibilità offerte dalla politica delle marche commerciali.

Il concetto di Quality Management (QM) pervade la maggior parte dei programmi volti

all’assicurazione della qualità. Esso si basa sull’idea che il miglioramento della qualità degli

alimenti passa necessariamente attraverso un ripensamento ed una migliore organizzazione

dei processi (dalla produzione alla commercializzazione), ed ovviamente implica un approc-

cio “integrato” al problema qualità, rappresentando un superamento dell’idea che il livello di

qualità e di sicurezza di un alimento possano essere opportunamente identificati e valutati a

partire dal prodotto finale. Il Quality Management segna, quindi, un importante passaggio da

un approccio ispettivo ad un approccio preventivo nei confronti della qualità in senso lato

dei prodotti agroalimentari.

L’approccio tradizionale al tema della qualità, che vedeva le imprese organizzare i propri

sistemi di gestione della qualità a fronte di strutture pubbliche volte al semplice controllo

della stessa, perde molta efficacia in considerazione della maggiore e crescente complessità

dei sistemi agroalimentari da un punto di vista organizzativo, del crescente ampliarsi delle

possibilità di approvvigionamento della materia prima agricola e dei salienti cambiamenti

tecnologici.

È evidente che un approccio integrato al problema della qualità, richiede una stretta coope-

razione tra gli attori operanti ai diversi livelli del sistema agroalimentare, con l’obiettivo con-

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diviso di integrare le richieste della collettività, in termini di qualità e sicurezza, nei propri

processi individuali di gestione.

Negli ultimi dieci anni, in particolare, sono stati sviluppati sistemi di gestione della qualità

specifici per ciascun Paese e per molti prodotti alimentari, il cui numero è cresciuto a ritmi

impressionanti, essenzialmente come risposta ai problemi di sicurezza degli alimenti ed in

linea con i dictat derivanti dalla crescente globalizzazione. L’evidente obiettivo immediato

degli schemi di III generazione è, come visto, quello di accrescere il “trust”, la fiducia, da

parte del consumatore, ma in realtà le potenzialità di tali schemi vanno ben oltre. I QAS rap-

presentano un potente elemento di differenziazione dai competitors, ed uno strumento

fondamentale di procurement management: ai fornitori vengono imposti dai committenti

standard di qualità, il mancato rispetto dei quali implica la fuoriuscita dalla rosa dei fornitori.

Per l’industria, la diffusione degli schemi di III generazione limita in misura crescente la

necessità di impegnarsi in iniziative autonome di garanzia e di conquista della fiducia dei

consumatori, giacché il successo commerciale è decretato essenzialmente dal grado di

impegno profuso nel rispetto e nell’adeguamento agli standard imposti dalla Moderna

Distribuzione.

Tra gli schemi di III generazione, l’EurepGAP è un’iniziativa intrapresa a fine anni ’90 da

distributori riuniti nell’Euro-Retailer Produce Working Group (Eurep), che coinvolge agricol-

tori e distributori nel comune obiettivo di sviluppare standard e procedure comuni e ricono-

sciuti a livello internazionale per la certificazione delle GAP e, parallelamente, promuovere

ed incoraggiare buone pratiche di lavorazione in agricoltura, creando uno standard minimo.

Il progetto EurepGAP rappresenta un risposta al crescente interesse da parte dei consuma-

tori circa l’impatto dell’attività primaria sulla qualità del prodotto alimentare finito. Lo stan-

dard viene definito da input derivanti da diversi portatori di interesse (coltivatori, industria

alimentare, Grande Distribuzione), con l’impegno, da parte di tutti i coltivatori aderenti di

applicare lo standard GAP, allo scopo di mantenere la fiducia dei consumatori circa la salu-

brità dei prodotti, di minimizzare l’impatto delle proprie coltivazioni sull’ambiente, attra-

verso la riduzione dell’uso dei fitofarmaci, a favore della lotta integrata, il maggior ricorso a

risorse energetiche a minore impatto ambientale, ad assicurare la salute, la formazione ed

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un equo trattamento dei lavoratori. La certificazione EurepGAP viene rilasciata annualmente

al singolo coltivatore o a cooperative di produttori.

Anche la certificazione IFS (International Food Standard) si colloca tra gli schemi di III gene-

razione, con contenuti abbastanza simili alla certificazione BRC, su iniziativa delle insegne più

importanti della Grande Distribuzione tedesca, con l’obiettivo di verificare le metodiche di

lavorazione ed i criteri igienici dei propri fornitori a fronte di principi comuni.

Tanto lo schema BRC che l’IFS sono stati sviluppati con l’impronta del progetto GFSI (Global

Food Safety Iniziative), il cui scopo è l’armonizzazione, secondo principi guida codificati, dei

diversi standard della Grande Distribuzione per la validazione dei propri fornitori. Questo

standard si basa su alcuni punti cardine tra cui spiccano: il sistema qualità; la gestione

dell’HACCP; il rispetto della normativa alimentare; il rispetto delle buone pratiche di tra-

sformazione (GMP).

Lo standard IFS viene conseguito attraverso una check-list a punteggio, con alcuni requisiti

imprescindibili (musts), che rappresentano un prerequisito per l’ottenimento della certifica-

zione, e una conformità a punteggio (con un punteggio minimo obbligatorio per la certifica-

zione).

Uno schema di controllo di qualità e sicurezza diffuso in maniera omogenea in Europa è lo

schema IKB (Integrated Chain Control System), che ha l’obiettivo di coprire i diversi passaggi

nelle supply chain in relazione ai su citati aspetti.

Gli aspetti principali dello schema IKB riguardano la comunicazione intra filiera ed all’esterno

di questa, l’obbligo di tracciabilità, le norme sull’alimentazione degli animali, le specifiche

misure di igiene. Il conseguimento della certificazione avviene attraverso lo svolgimento di

un sistema di audit indipendenti.

Inizialmente progettato per il settore delle carni e più recentemente esteso al settore frutta

fresca, verdura e patate, il sistema QS (Quality System) è un sistema volontario di assicura-

zione della qualità, che prevede un controllo completo, dal campo di coltivazione fino al

punto vendita. La progettazione di questo schema di assicurazione di III generazione risale al

2001 ad opera di attori afferenti a diversi livelli delle catene alimentari sotto forma di alle -

anza per un’attiva tutela del consumatore. Questo sistema dispone di norme proprie diffe-

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renziate per i diversi stadi: produzione, commercio all’ingrosso, commercio al dettaglio.

Sotto lo schema QS possono essere riconosciuti altri sistemi di certificazione ed i relativi

audit, tra cui L’EurepGAP. Un sistema di contratti vincola tutti gli aderenti allo schema ad at -

tenersi alle regole ed alle procedure previste. Lo schema si basa su un sistema di audit

interni che ogni partner esegue per la propria organizzazione. È quindi un esempio di sistema

basato sull’autocontrollo, la cui verifica e validazione avviene attraverso un audit indipen-

dente effettuato da organismi di controllo accreditati secondo la norma ISO 65 (EN45011) e

riconosciuti da QS.

Lo schema GFSI (Global Food Safety Iniziative) è una progetto internazionale per la sicurezza

alimentare intrapreso da 40 leader della Grande Distribuzione in Europa, Nord America e

Australia, coprendo il 65% del mercato mondiale, che si basa sull’assunto che “la sicurezza

alimentare non può essere condizionata da interessi competitivi”. La concretizzazione di

quest’affermazione avviene attraverso il perseguimento di alcuni obiettivi: migliorare la sicu-

rezza alimentare, stabilendo un sistema mondiale di riferimento per gli standard del settore;

garantire la tutela del consumatore, sviluppando un sistema di allarme rapido e rafforzando

la sua fiducia e consapevolezza; definire requisiti per schemi di sicurezza alimentare che

coprano l’intera filiera; promuovere la collaborazione tra industrie alimentari, istituzioni e

autorità nazionali e sopranazionali; ridurre i costi relativi a queste operazioni lungo tutta la

catena dell’offerta.

Il Documento Guida sviluppato da GFSI, rappresenta un benchmarking rispetto al quale con-

frontare le norme nazionali e settoriali in materia di sicurezza degli alimenti, ed in base al

quale un sistema di sicurezza alimentare conforme viene accettato come “standard ricono-

sciuto”. Il Sistema di Gestione sviluppato si basa sulle Buone Pratiche e sul sistema HACCP.

Sotto l’iniziativa GFSI non avviene nessuna attività di certificazione o accreditamento, ma

viene piuttosto incoraggiato l’uso di audit di terzi; tuttavia, le norme relative alla sicurezza

alimentare giudicate conformi possono essere utilizzate da fornitori e distributori lungo

l’intera catena dell’offerta per definire i contratti per l’acquisto dei prodotti.

Tra le Norme accettate e riconosciute conformi all’iniziativa GFSI, compaiono il Codice

Olandese dell’HACCP, più rigido, IFS, BRC, EFSIS (European Food Safety Inspection Service),

SQF (Safe Quality Food).

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Gli schemi di assicurazione della qualità di II e III generazione sono standard a proprietà pub-

blica (controllati dalle Autorità o da Organizzazioni), ma più spesso a proprietà privata, rife-

rita all’intera supply chain, al settore distributivo (IFS; BRC), ai fornitori (AFS), ai certificatori

(EFSIS), o infine riconducibili ad autonome iniziative dei diversi stakeholders.

Un numero limitato degli schemi visti sono ampiamente diffusi nelle supply chain agroali-

mentari europee ed italiane con in comune un focus centrato sulla gestione dei processi

produttivi. Spesso però, manca l’ultimo step per la conquista della fiducia da parte del con-

sumatore, causa la carenza di concrete azioni di comunicazione. Essi spesso finiscono, per-

tanto, per rappresentare essenzialmente un prerequisito per l’accesso a specifici canali di

mercato.

La nota maggiormente distintiva degli schemi di assicurazione della qualità di III generazione

sta comunque nell’adozione di un approccio precauzionale piuttosto che di un approccio

reattivo, definendo uno scenario in cui il criterio di autocontrollo sostituisce l’approccio di

controllo e adeguamento.

3.4 LA RINTRACCIABILITÀ COME STRUMENTO PER LA SICUREZZA ALIMENTARE: INNOVAZIONI

NELL’AGROALIMENTARE ED EFFETTI SUL SISTEMA

Tra gli elementi di novità caratterizzanti la legislazione alimentare introdotta dal Reg. 178/02,

quello della “rintracciabilità” è stato tra i più dibattuti sia per i suoi potenziali effetti sul

mercato, che per i vincoli imposti soprattutto agli operatori del settore alimentare obbligati a

garantirla utilizzando modelli e metodi diversi e più o meno efficaci.

In particolare per rintracciabilità, in base alla definizione dell’art. 3 del Regolamento n.

178/02/CE, si intende la “possibilità di ricostruire e seguire il percorso di un alimento, di un

mangime, di un animale destinato alla produzione alimentare o di una sostanza destinata o

atta ad entrare a far parte di un alimento o di un mangime attraverso tutte le fasi della pro-

duzione, della trasformazione e della distribuzione”.

La conseguente prescrizione derivante dall’art. 18 del suddetto Regolamento recita: “È

disposta in tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione la rin-

tracciabilità degli alimenti, dei mangimi, degli animali destinati alla produzione alimentare e

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di qualsiasi altra sostanza destinata o atta a entrare a far parte di un alimento o di un man-

gime” (Commissione europea, 2000b).

La logica legata a tale prescrizione è quella di un approccio “one step back-one step forward”

che implica: una rintracciabilità a monte: si impone alle organizzazioni di individuare chi

abbia fornito loro un alimento, un mangime, o qualunque sostanza destinata ad entrare in

contatto con l’alimento o un mangime (fornitori); una rintracciabilità a valle: si impone alle

organizzazioni di individuare a chi è stato fornito il proprio prodotto (clienti).

Per ottemperare a questa prescrizione gli operatori hanno la necessità di disporre di sistemi

e procedure che consentano di identificare i fornitori ed i clienti diretti dei loro prodotti e di

mettere a disposizioni delle autorità competenti le informazioni a riguardo. Il Regolamento

segue il principio cosiddetto “a cascata” che prevede la registrazione del flusso di materiali,

in entrata ed in uscita, da parte di tutti gli operatori della filiera; mentre, non è previsto il

“sistema passaporto” che implica la registrazione di ogni passaggio seguito dal singolo pro-

dotto.

Si evince che nell’intenzione dei policy makers europei la rintracciabilità vuole essere uno

strumento atto a rispondere all’esigenza di offrire “sicurezza”, attraverso l’identificazione del

percorso che un prodotto compie prima di arrivare alla nostra tavola, il che implica anche

una formale “assunzione di responsabilità” da parte di tutti gli operatori coinvolti. Di conse-

guenza, la rintracciabilità diventa un mezzo operativo per gestire in modo veloce eventuali

situazioni di pericolo per la salute collettiva attraverso lo sviluppo di rapide azioni di ritiro e/o

richiamo di prodotti dal mercato.

L’identificazione degli stimoli economici nell’introduzione di sistemi di rintracciabilità è utile

per comprendere se questa è verosimilmente strumentale alla diffusione di una rete di

benefici economici.

Partendo da questo presupposto, è facile aspettarsi diversi sistemi di rintracciabilità a

seconda che nascano in ambito pubblico o privato, la cui efficienza è condizionata dagli

obiettivi che si vogliono raggiungere. Un sistema a matrice pubblica ha una motivazione di

fondo legata al benessere pubblico ed al tentativo di ridurre il fallimento di mercato attra-

verso la creazione di trasparenza e l’aumento del flusso di informazioni, rese disponibili fra

tutti gli attori lungo la catena dell’offerta

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Un sistema a matrice privata è per lo più orientato alla generazione di profitto ottenibile

attraverso la riconquista di parti di mercato rappresentate da consumatori sfiduciati ed

insoddisfatti, e ad una riduzione di costi derivanti da potenziali problemi di sicurezza alimen-

tare ed ad una riduzione dei costi di monitoraggio attraverso la gestione delle relazioni con la

catena dell’offerta e l’utilizzo delle opportunità derivanti da una sorta di differenziazione del

prodotto, ravvisabile nell’offerta di addizionali assicurazioni di qualità. Per cui, a seconda

degli obiettivi in materia di sicurezza alimentare, è più utile usare una forma di rintracciabi-

lità piuttosto che un’altra.

Si intersecano due questioni: la spinta pubblica all’adozione di strumenti che possano garan-

tirle maggiore controllo ed elementi di garanzia nei confronti dei consumatori e gli

oneri/opportunità delle organizzazioni private.

La realtà conduce ad una riflessione di ordine generale: l’efficacia dell’introduzione di sistemi

di rintracciabilità è legata alla capacità di coniugare il benessere pubblico con la possibilità di

ottenere dei profitti per le organizzazioni coinvolte, quindi, soltanto se si verifica un intera-

zione tra i diversi attori del mercato si può garantire il monitoraggio di tutta la catena di pro-

duzione, un’adeguata identificazione dei diversi attori ed una corretta informazione e rea-

zione.

Si evince quanto oggi il concetto di rintracciabilità sia legato a quello di filiera che implica la

condivisione di obiettivi e strategie e l’esistenza di un approccio collaborativo tra le diverse

organizzazioni, finalizzato ad una gestione unitaria dei flussi e delle attività a rilevanza critica

per le caratteristiche del prodotto ed all’identificazione di un processo che vede coinvolti

tutti gli attori del sistema: agricoltori, produttori, allevatori, industria di trasformazione, tra-

sportatori e distributori, commercianti all’ingrosso e al dettaglio, fino al consumatore, in

modo da generare una “rintracciabilità delle responsabilità”.

Tecnicamente implementare sistemi di rintracciabilità che rispondano alle aspettative dei

policy makers, al fine di offrire qualità intesa come valore aggiunto, che in qualche modo

tutelino i consumatori e contribuiscano ad un miglioramento della gestione organizzativa e

delle prestazioni sia lungo la filiera che all’interno di ogni singola realtà operante sul mercato

presuppone: l’identificazione ed il monitoraggio dei flussi lungo i diversi anelli della catena

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alimentare tracciando le informazioni; l’identificazione delle responsabilità ai fini della tra-

sparenza; la definizione di un modello organizzativo.

In tale contesto, l’informazione e la comunicazione giocano un ruolo fondamentale nel

momento in cui possono essere una leva competitiva per conquistare posizioni di premi-

nenza sia a livello orizzontale che verticale, tra le organizzazioni appartenenti a diversi stadi

della catena dell’offerta.

Tutto ciò genera un impatto sui costi sulla catena dell’offerta, che vengono divisi tra i diversi

attori della catena; per cui aspetti quali la struttura dei sistemi di rintracciabilità e le relazioni

stabilite lungo la catena dell’offerta, il relativo potere dei partecipanti, l’ampiezza, profondità

e precisione del sistema, il valore che i consumatori danno alle informazioni fornite, sono

fattori discriminanti nella distribuzione dei benefici e costi della rintracciabilità.

Ne deriva che la rintracciabilità da sola non garantisce la sicurezza, ma necessita di elementi

di supporto come un’informazione credibile ed il controllo pubblico che possano compen-

sare le lacune intrinseche della stessa e creare effetti virtuosi per il mercato a beneficio di

tutti.

La situazione brevemente descritta implica la coesistenza di diverse forme e livelli di rintrac-

ciabilità condizionati dagli “attributi di qualità” che si mira ad offrire; di conseguenza, lo

stesso “concetto di rintracciabilità” può assumere valenze diverse a seconda che ci si riferi -

sca a semplici sistemi di identificazione e tracciabilità per la minimizzazione dell’impatto dei

rischi alimentari, oppure a programmi che consentano, oltre l’identificazione delle identità,

l’assicurazione di aggiuntivi elementi di qualità lungo la catena dell’offerta. In pratica, è pos-

sibile che si offrano diverse forme di assicurazione di qualità e di sicurezza alimentare.

La tendenza attuale è realizzare sistemi di rintracciabilità che permettano di identificare tutti

gli acquirenti ed i fornitori di un prodotto alimentare o tutti gli operatori che hanno contri -

buito alla formazione di uno specifico lotto, seguendo un approccio collaborativo lungo la

filiera.

In linea generale troviamo due modelli prevalenti:

Sistemi di rintracciabilità di filiera che rispondono esclusivamente alle prescrizioni

dell’art.18 del Reg. 178/02 caratterizzati dall’obbligo, per tutte le organizzazioni

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appartenenti alla filiera, di redigere un elenco dei fornitori e dei clienti intervenuti

nell’intero ciclo produttivo di un alimento, identificando i flussi di materiali in

entrata e in uscita.

Sistemi di rintracciabilità di filiera di prodotto riferibili sia alla normativa verticale

applicata a particolari comparti produttivi che agli standards normativi privati sorti

come risposta alle nuove richieste di mercato; questi sistemi comportano

l’identificazione documentata di tutte le aziende coinvolte nella produzione e

commercializzazione di una unità di prodotto materialmente e singolarmente

identificabile. Hanno come elementi caratterizzanti: la trasparenza, che consente

l’identificazione nominativa di tutti quelli che hanno contribuito al prodotto finale;

la precisa individuazione della fonte del danno, che consente di neutralizzare qual-

siasi rischio o non conformità e di isolare le aziende che hanno contribuito alla sua

produzione; la possibilità di fornire un supporto per il controllo di processo colle-

gando, attraverso un sistema documentato, tutti gli elementi utili a garantire la

qualità e l’igiene del prodotto. Tra i due modelli, il secondo a livello applicativo è

più complesso ma, al contempo, è quello che coniuga meglio l’esigenza di garan-

tire la rintracciabilità con l’obiettivo di creare sinergie lungo la filiera; questo pre-

suppone uno sforzo organizzativo ed economico delle organizzazioni volto

all’innovazione ed al miglioramento della gestione dei processi con ricadute

importanti sul mercato.

L’aspetto che in tal senso assume un ruolo prioritario è quello legato all’attuazione di un

sistema di identificazione e monitoraggio delle responsabilità e dei flussi di materiali capace

di garantire l’individuazione di ogni fase di produzione del prodotto ed inoltre, con preci-

sione, identificare in che misura e su quale lotto del prodotto finito ogni organizzazione della

filiera ha lavorato.

Lo step successivo all’implementazione di un sistema di rintracciabilità è la comunicazione

dello stesso finalizzata a dare visibilità ed a trasmettere informazioni, non solo lungo la

catena della produzione ma anche verso l’esterno. Le aziende partecipanti alla filiera, in base

alle loro esigenze aziendali e strategiche, individuano la tipologia di informazioni da comuni-

care e condividere e possono liberamente utilizzare lo strumento che ritengono più oppor-

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tuno partendo dall’etichettatura fino a marchi, codici a barre, numeri verdi e riferimenti a siti

internet.

Il collegamento tra identificazione e gestione dell’informazione è quindi una caratteristica

basilare per un efficace implementazione di un sistema di rintracciabilità, comune a tutti i

sistemi indipendentemente dal tipo di prodotto, produzione e sistema di controllo utilizzato,

ma anche uno degli aspetti più critici da gestire e, a volte, addirittura invalidante.

Di fatto diversi fattori influenzano lo sviluppo di pratiche di rintracciabilità corrette e ne limi-

tano l’adozione nelle organizzazioni.

Implementare un sistema di rintracciabilità significa sviluppare ed acquisire metodi e stru-

menti che impattano sulle politiche e strategie di ogni singola organizzazione, per cui la

scelta è legata sia al contesto istituzionale, inteso come politiche di sviluppo dei sistemi, sia

alla realtà aziendale, alla criticità (rischio) dell’investimento richiesto, alla presenza di ade-

guate risorse, alle pressioni dei clienti e alle capacità di gestire le novità di tipo organizzativo

ed operativo.

Una delle maggiori difficoltà riscontrate è creare un raccordo, comprensivo del trasferimento

di informazioni, tra i diversi attori della filiera soprattutto con quelli della distribuzione che

attualmente occupano una posizione dominante all’interno del mercato agroalimentare.

Si sottolinea l’importanza nodale, per l’efficienza dei sistemi, della gestione strutturata ed

organizzata delle informazioni legate ai processi proprio perché tali informazioni rappresen-

tano una guida al miglioramento ed offrono, tramite opportune rielaborazioni, la possibilità

ottenere un vantaggio competitivo. Emerge, quindi, la valenza strategica della rintracciabilità

identificabile non come mera risposta ad un obbligo di legge o come un “costo”, ma con un

mezzo per costruire banche dati di informazioni fondamentali all’analisi di processi e risorse

e delle relative performance, correggendole in tempo reale, attraverso un sistematico moni-

toraggio.

Nello scenario agroalimentare l’introduzione di obblighi cogenti e dei relativi strumenti ap-

plicativi richiede necessariamente un cambiamento nelle classiche relazioni tra gli

stakeholders e comporta l’adozione di procedure e tecnologie innovative volte a riorganiz-

zare i processi sia all’interno della singola organizzazione che lungo la supply chain ed ad

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ottimizzare la gestione delle informazioni al fine di potenziare le prestazioni, permettendo di

sfruttare i vantaggi derivanti dall’introduzione di nuovi elementi organizzativi.

Al fine di un efficace funzionamento dei sistemi di rintracciabilità l’adozione di innovazioni

tecnologiche, logistiche e di adeguati programmi di gestione a supporto della gestione dei

processi e dei flussi di materia e di informazioni è un aspetto cardine per raggiungere obiet-

tivi di eccellenza.

Necessità primaria è l’adozione di un linguaggio comune che metta in comunicazione i

diversi attori lungo tutta la filiera produttiva.

Va da sé che per la corretta implementazione di un sistema di rintracciabilità è necessario

che un sistema di raccolta e gestione dati, collegato tra i diversi attori, sia gestito in modo

univoco. Alla base ci devono essere meccanismi che: facilitino il riconoscimento ed autenti-

cazione delle informazione lungo la filiera; rendano l’informazione accessibile a tutti gli ope-

ratori; tengano traccia e conservino l’informazione ed i relativi dati.

Attualmente, il mercato dell’Information and Communication Technologies, motore trai-

nante delle moderne economie, offre delle interessanti applicazioni tecnologiche al settore

agroalimentare e rappresenta un opportunità da sfruttare per realizzare un efficace sistema

di gestione dati, sia all’interno dell’azienda che lungo la filiera, in grado di generare effetti

positivi per tutta la catena dell’offerta con riflessi fondamentali nell’ottimizzazione della

tracciabilità delle singole unità logistiche.

Le situazioni che si ritrovano più di frequente nella pratica sono quelle in cui le organizzazioni

hanno implementato software gestionali per la rintracciabilità personalizzati ed operanti

all’interno della filiera utili all’interscambio di dati ed anche alla generazione di etichette lo-

gistiche. Le forme più evolute possono presentare anche una piattaforma web su cui condi-

videre le informazioni ed offrire servizi evoluti come creare interfacce con il cliente, finestre

per le comunicazioni intra ed extra filiera, etc.

Spesso questi software integrano una tecnologia di codifica dei dati, che comunemente è

quella basata sui codici a barre decodificati e registrati tramite lettori ottici, tipica dello stan-

dards EAN/UCC 128. Questo è un sistema armonizzato a livello internazionale di codifica

delle informazioni della rintracciabilità; è un sistema facoltativo per le aziende ma utile ad

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implementare la rintracciabilità perché fornisce regole, un set di informazioni e la simbologia

a barre per riprodurle. Questo permette di assegnare ad ogni prodotto delle etichette logi-

stiche che si riferiscono ad ogni stadio della produzione e della distribuzione di un prodotto,

utilizzando un unico numero identificativo utile in fase di richiamo/ ritiro del prodotto.

Si riscontrano ancora poche applicazioni della forma di codifica più avanzata cioè quella

RFID,- Radio Frequency Identification. Tale tecnologia, attraverso un’etichetta o un disposi-

tivo con un circuito integrato programmabile collegato ad una antenna, consente la comuni-

cazione a distanza tramite segnali a radiofrequenza.

Questa soluzione permette la raccolta e l’immagazzinamento dei dati in modo automatico,

favorendo la comunicazione lungo tutta la filiera e garantendo notevoli vantaggi, sia per la

garanzia di trasparenza, che di tipo organizzativo (snellimento logistica).

Il limite è che richiede un investimento iniziale molto alto, ma sicuramente rispetto ad altri

metodi (alla codifica con i codici a barre), permette di supportare più dati in uno spazio

minimo e di leggerli a distanza eliminando le difficoltà di lettura dei bar code. Garantisce,

inoltre, la protezione delle informazioni con un adeguata criptatura.

Oggi, purtroppo, per quanto il settore agroalimentare si stia avviando all’utilizzo di sistemi

innovativi relativi alle informazioni gli ostacoli sono ancora molti per le aziende che hanno

implementato sistemi di rintracciabilità le quali sono spesso condizionate da fattori ambien-

tali, organizzativi e contestuali che creano una situazione di conflitto tra elementi di stimolo

e limitanti all’innovazione tecnologica e si traducono nella difficoltà, comune alla maggior

parte delle organizzazioni, di implementare sistemi informatizzati a causa della loro elevata

onerosità soprattutto per gli investimenti di start-up in tecnologia e formazione, a fronte di

un risultato che risulta essere, a volte, poco aderente alle peculiari e contingenti strategie

aziendali.

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4. STRATEGIE DI DIFFERENZIAZIONE: COMPETITIVITÀ ED ETICA

NELL’AGROALIMENTARE

INTRODUZIONE

La discussione di tematiche “etiche” in merito al sistema dell’agricoltura e dell’alimentazione

diviene più complesso per una numerosa serie di fattori che riguardano contemporanea-

mente la sfera della produzione e del consumo e che in estrema sintesi possono essere

ricondotti ad un denominatore comune che è la globalizzazione dei mercati.

Le decisioni relative all’alimentazione assumono valenze sempre più sociali e culturali oltre

che economiche, come dimostra il proliferare di standard di natura pubblica e privata per-

meati appunto da valenze etiche. Questi cercano in qualche modo di rispondere a dibattiti

più o meno universalmente condivisi, come le crisi legate ai rischi alimentari, i potenziali pe-

ricoli derivanti dagli OGM, il ruolo del metodo di produzione biologico, le preferenze da

accordare al locale piuttosto che al globale, l’emergenza obesità, i pericoli ambientali, le

condizioni del lavoro in agricoltura ed altro ancora.

Inoltre, le preoccupazioni etiche vanno estese in generale alle relazioni verticali tra i diversi

attori delle catene dell’offerta, sia in ambito domestico, che internazionale: un trattamento

corretto e trasparente dei fornitori, cioè una migliore integrazione di considerazioni etiche

nelle politiche di approvvigionamento di beni e servizi da parte delle imprese, può rappre-

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Indice

sentare una modalità per gestire in maniera più efficace ed etica i rapporti lungo la supply

chain.

Emerge dunque una vera e propria “etica dell’alimentazione” nella forma di responsabilità

morale legata all’atto del produrre e consumare cibo. Essa si lega dunque ad un modello di

agricoltura responsabile ed altrettanto al sistema agroalimentare moderno nel suo

complesso andando ad interessare tutti gli anelli della catena del valore.

Un rapido sguardo al solo settore agricolo fa emergere preoccupazioni etiche già solo in rife-

rimento alla questione ambientale in termini di consumo di carburanti fossili, di acqua, di

suolo a ritmi insostenibili, contribuendo così ad una serie di degradi legati all’inquinamento

di acque e falde, all’impoverimento dei suoli e alla desertificazione, alla diminuzione della

biodiversità.

Alcuni comparti agricoli, in particolare ad esempio il comparto delle carni, contribuiscono in

modo drammatico all’acuirsi di tali emergenze, attraverso soprattutto gli sprechi energetici

legati al tipo di alimentazione che rendono tali attività a consumo critico di risorse.

Legati al tipo di attività inoltre, emergono tutta una serie di problematiche di salute pubblica,

connesse alla concentrazione dei residui degli allevamenti, all’uso indiscriminato di an-

tibiotici.

Peraltro, dal punto di vista del consumo finale, il grasso animale è implicato in tutta una serie

di malattie cronico-degenerative che affliggono le società sviluppate e post-industriali.

Gli stessi pesticidi impiegati diffusamente dall’agricoltura convenzionale sono associati ad un

aumento nel rischio di cancro per i lavoratori ed i consumatori e ad altre disfunzioni, oltre ad

essere responsabili degli ampiamente dibattuti impatti ambientali sui suoli e sulle falde.

È quindi importante fornire un’introduzione su alcune questioni etiche fondamentali per i

sistemi agroalimentari sviluppati e per quelli emergenti, e proporre quindi i relativi spunti di

riflessione, nella convinzione della necessità di un dibattito che vada oltre il dilemma “con-

venzionale vs geneticamente modificato”, e tenga invece in considerazione principi che pos-

sibilmente dovrebbero essere invarianti tra comparti alimentari, fasi della catena, localizza-

zione delle attività produttive: l’etica deve riguardare i luoghi, le modalità, le “cose” che con-

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tribuiscono a definire la nostra alimentazione, ma soprattutto deve condurre a considera-

zioni legate al “dove”, al “chi”, al “come” ed alle possibili interrelazioni ed influenze.

4.1 LE CRITICITÀ ETICHE NELL’AGROALIMENTARE: UNA SISTEMATIZZAZIONE

Dalla breve introduzione che precede, appare evidente che nonostante l’ampiezza del dibat-

tito da anni già in atto, non è semplice individuare un significato ed uno scopo univoci per il

termine “etica” applicato alle questioni agroalimentari.

In particolare, appare evidentemente complesso individuare i soggetti interessati a partire

da coloro che attivamente lavorano nell’ambito della produzione degli alimenti, passando

per l’intricata rete delle interrelazioni verticali lungo le catene dell’offerta, arrivando ai sog-

getti del consumo ed andando oltre fino ai potenziali effetti successivi.

In sintesi, ciascun apporto nell’ambito della food supply chain è potenzialmente portatore di

preoccupazioni di carattere etico che possono riverberare non soltanto su altri individui ma

anche su altri portatori di interesse (animali o ambiente).

La riflessione è resa più complicata dal fatto che l’etica implica giudizi di natura oggettiva ma

anche soggettiva, derivanti da differenti combinazioni di valori applicati a situazioni pratiche.

Studi a livello europeo hanno concentrato l’attenzione sulle diverse dimensioni dell’etica

nell’agroalimentare in differenti contesti sia nel mercato dei prodotti di massa indifferenziati

(commodities) sia in catene dell’offerta più complesse e differenziate.

Risulta possibile “categorizzare” alcune ampie dimensioni delle preoccupazioni etiche nelle

catene agroalimentari, sottolineandone la natura dinamica e le crescenti interconnessioni.

Una schematizzazione molto utile è opera una grossa ripartizione in attributi etici di tipo

sostantivo e attributi etici di tipo procedurale.

I primi si riferiscono alle conseguenze derivanti ai diversi portatori di interesse dalle pratiche

di produzione nell’agroalimentare o dall’azione di consumo. Intuitivamente è immediato

pensare alla salute umana e alla qualità (e sicurezza) degli alimenti, ma in questa categoria

ricadono anche altre questioni etiche fondamentali quali le condizioni di lavoro, il benessere

degli animali, gli impatti dei metodi di produzione e trasformazione sulle risorse naturali e

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sull’ambiente, i termini commerciali (prezzi e condizioni per i fornitori), l’origine e la localiz-

zazione delle diverse fasi della produzione. La peculiarità di questi attributi così definiti

“sostantivi” (Tav. 1) sta nella loro tendenza allo sconfinamento ed alla sovrapposizione: un

chiaro esempio è fornito dalle evidenti sovrapposizioni tra le preoccupazioni relative alle

condizioni di lavoro e quelle relative ai termini di scambio commerciale.

Tavola 1

Preoccupazioni etiche di tipo “sostantivo”Salute umana (sicurezza degli alimenti, igiene, malattie animali, condizioni di lavoro…)Benessere animaleImpatto dei metodi di produzione e trasformazione (ambientale, territoriale, impatto sul benessere animale….)Termini di scambio commerciale (prezzo, condizioni contrattuali…)Condizioni di lavoro e standard relativiQualità intrinseca dei prodotti (composizione, gusto, aspetto….)Origine e localizzazione

La seconda grande categoria comprende invece questioni di carattere etico in più orizzontali

rispetto agli attributi di carattere “sostantivo”, che implicano le modalità di partecipazione e

di motivazione nei processi di informazione circa le caratteristiche dei prodotti alimentari; le

modalità con cui questi sono stati ottenuti e dunque sui potenziali impatti sui diversi porta-

tori di interesse. Gli attributi procedurali (Tav. 2), fiducia, trasparenza e partecipazione si

interrelano strettamente tra di loro ed hanno fondamentalmente a che vedere con

l’informazione in termini di disponibilità, affidabilità e fruibilità: il rispettivo campo eletto di

concretizzazione si concreto sono gli standard e gli schemi di certificazione, con un impor-

tante ruolo nelle aree del marketing e dell’etichettatura.

Tavola 2

Preoccupazioni etiche di tipo “procedurale”

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FiduciaPartecipazioneTrasparenza

Nel seguito del lavoro sarà evidente come nell’agroalimentare la presenza dei due tipi di

“attributi etici” sia molto forte e significativa.

4.2 UNA PANORAMICA SULLE “PECULIARITÀ ETICHE” DEI SISTEMI AGROALIMENTARI

Le modalità con cui le imprese in generale operano sui mercati globali è sempre più influen-

zato da alcuni fattori quali l'attenzione nei confronti delle problematiche ambientali, la cre-

scente pressione dell'opinione pubblica e i provvedimenti normativi: ciò discende dalle sem-

pre più pressanti richieste di consumatori e mercato richiedono di prodotti e servizi "etici"

erogati da aziende socialmente responsabili.

Il settore alimentare, in particolare, presenta problematiche di primo piano: in estrema sin -

tesi a livello ambientale, esempi emblematici sono l'agricoltura intensiva e le monocolture,

mentre da un punto di vista sociale, l'utilizzo diffuso del lavoro minorile e del lavoro nero; le

relative interdipendenze rendono le emergenze ambientali anche di carattere sociale e vice-

versa. Altro argomento scottante è il presunto potenziale negativo legato alla diffusione

degli organismi geneticamente modificati, che, nonostante gli indiscutibili vantaggi legati alle

rese, rappresenterebbero una possibile minaccia per la biodiversità (problema ambientale),

e d’altra parte comporterebbero da un punto di vista sociale un aggravio di costi soprattutto

per aree rurali già povere, costringendo gli agricoltori all'acquisto annuale di sementi gene-

ralmente più costose, in assenza di regole internazionali per stabilirne il prezzo.

Anche le emergenze alimentari recenti, legate ai diversi rischi connessi all’insicurezza degli

alimenti, rappresentano a pieno titolo problematiche sociali oltre che economiche legate agli

interessi di consumatori e produttori. Nondimeno, gli aumenti indiscriminati dei prezzi al

consumo di vari generi alimentari negli ultimi anni costituiscono un’ulteriore problematica di

carattere sociale, andando generalmente a colpire stakeholders più deboli.

Il sistema agroalimentare si configura così come campo eletto per la responsabilità sociale,

imponendo quindi una riflessione organica su obiettivi, strumenti e attori interessati: le

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capacità di risposta al riguardo, da parte della singola azienda, del sistema nel suo com-

plesso, ma anche delle politiche pubbliche di settore rappresentano fattori di competitività

sempre più imprescindibili.

I consumatori richiedono una mole crescente di informazioni sul prodotto e sui processi pro-

duttivi in termini di contenuti socialmente responsabili, di sostenibilità sotto il profilo

ambientale, di livelli di sicurezza e salubrità.

L’impresa socialmente responsabile ha dunque anche la necessità di comunicare le proprie

caratteristiche che in tal senso devono andare oltre gli standard definiti dagli obblighi di

legge, coniugando cioè obiettivi di responsabilità con altri di strategicità.

Le criticità etiche possono dunque essere riassunte nelle seguenti: il rispetto e la tutela

dell’ambiente, la garanzia di accettabili condizioni di lavoro e l’assenza di discriminazioni e

sfruttamento nei confronti delle fasce più deboli della popolazione, la distribuzione equa del

valore prodotto lungo l’intera catena di offerta, la valorizzazione di specificità territoriali di

carattere paesaggistico, culturale e sociale.

Se nel settore primario le preoccupazioni etiche vertono innanzitutto sull’ambiente e sulla

figura del lavoratore, ragionando per l’intero sistema è necessario estendere il ragionamento

alle relazioni verticali tra i diversi attori delle catene dell’offerta, sia in ambito domestico, che

internazionale.

Relazioni etiche verticali presuppongono un trattamento corretto e trasparente dei fornitori,

cioè un approccio etico nelle politiche di approvvigionamento di beni e servizi da parte delle

imprese.

I processi di industrializzazione e di globalizzazione dell’agroalimentare, hanno reso più labili

contenuti di sostenibilità ambientale e sociale, e ciò è stato solo parzialmente corretto

dall’intervento pubblico sia in termini economici che ambientali, di conseguenza la respon-

sabilità si è spostata sempre più sugli attori economici stessi.

Per quanto attiene alle condizioni dei lavoratori, soprattutto il settore primario si caratterizza

per le ridotte dimensioni aziendali che impongono recuperi di competitività anche attraverso

comportamenti penalizzanti nei confronti del fattore lavoro: di conseguenza forti criticità

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emergono sotto il profilo della qualità in termini di basso livello di sicurezza, elevata

stagionalità, ampio utilizzo di manodopera immigrata, lavoro irregolare.

Parallelamente, il processo di creazione del valore si è spostato sempre più a valle annet -

tendo via via una leadership sempre più marcata alla Moderna Distribuzione, che spesso

risulta in comportamenti vessatori, soprattutto nei confronti dei fornitori.

Le catene dell’offerta agroalimentari si configurano in una grande diversificazione degli attori

coinvolti (agricoltori, trasformatori, commercianti, grossisti e dettaglianti) e delle dimensioni

delle imprese, complessità che si confronta sempre più spesso con una serie di pratiche

commerciali non etiche, legate essenzialmente allo squilibrio nel potere contrattuale delle

parti: a maggiore dimensione economica e concentrazione (MD) corrisponde una crescente

capacità di imporre condizioni contrattuali inique, sia in termini di prezzo, che nei termini e

nelle condizioni. Tali pratiche possono verificarsi a tutti i livelli delle catene dell’offerta, ma

riguardano in particolare le relazioni tra le grandi insegne della distribuzione alimentare e i

loro fornitori, che spesso hanno poche o nulle alternative per vendere i loro prodotti. Inoltre,

la continua diffusione delle marche private rappresenta un ulteriore fattore di incremento di

pratiche non corrette da parte della MD nei confronti dei fornitori: verso i prodotti di marca,

minacciati sovente di essere eliminati dagli assortimenti, in quanto molto più costosi dei

prodotti a marchio privato, e verso i piccoli produttori che possono essere sostituiti con

estrema facilità.

4.3 I POTENZIALI CORRETTIVI

Gli strumenti di gestione socialmente responsabile sono utilizzabili ai diversi livelli del si -

stema agroalimentare per la messa in atto di comportamenti responsabili nei confronti dei

diversi stakeholders.

Generalmente si usa distinguere questi dagli strumenti per il consumo socialmente respon-

sabile che, agendo sul lato domanda, sono mirati ad indirizzare la decisioni di acquisto finali

(consumatori) o intermedie (distribuzione e altro operatori) a favore di effetti più sostenibili

ed equi.

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Nell’ambito degli strumenti di gestione socialmente responsabile, i codici di condotta indivi-

duano e fissano principi di comportamento responsabile.14

Il Codice Etico definisce la responsabilità etico-sociale di ogni partecipante all’organizzazione

imprenditoriale, introducendo una definizione chiara ed esplicita delle responsabilità etiche

e sociali dei propri dirigenti, quadri, dipendenti e spesso anche fornitori verso i diversi gruppi

di stakeholders in modo da creare fiducia verso l’esterno.

Gli strumenti di rendicontazione sociale, invece, hanno la finalità di rendere trasparenti per

tutte le parti interessate i risultati conseguiti dall’organizzazione: il bilancio sociale è il più

noto strumento di rendicontazione sociale insieme all’AccountAbility 1000 che mira al

miglioramento del dialogo e delle relazioni in generale tra gli stakeholders.

I Bilanci e Rapporti Ambientali, Sociali e di Sostenibilità sono strumenti volontari che non

contengono soltanto aspetti di contabilità (sia essa economica, ambientale e sociale), ma

anche la descrizione dei prodotti, dei processi, degli obiettivi e delle strategie adottate al fine

di creare valore, per l’azienda, per le comunità, per il territorio, raccontando e costruendo il

dialogo e la partecipazione. Il Bilancio Sociale rappresenta, dunque, “l'utilizzo di un modello

di rendicontazione sulle quantità e sulle qualità di relazione tra l'impresa ed i gruppi di rife-

rimento rappresentativi dell'intera collettività, mirante a delineare un quadro omogeneo,

puntuale, completo e trasparente della complessa interdipendenza tra i fattori economici e

quelli socio-politici connaturati e conseguenti alle scelte fatte”.

Gli standard di gestione e certificazione rappresentano modelli ai quali le imprese devono

uniformare i propri processi gestionali su criteri di gestione socialmente responsabile svilup-

pati da specifici organismi.

Per le piccole e medie imprese dell’agroalimentare l’orientamento è verso l’attivazione di

sistemi gestionali proiettati a superare il mero rispetto delle leggi, delle prescrizioni minime e

degli obblighi giuridici, al fine di dare una più esaustiva risposta alle esigenze dei vari

stakeholders utilizzando gli strumenti normativi disponibili:

14 A livello internazionale il Global Compact mira ad ottenere un mercato globale più equo attraverso l’applicazione di principi universali nei seguenti ambiti: diritti umani, norme del lavoro, tutela dell’ambiente, lotta alla corruzione

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Oltre alle norme ISO 9001, Sistema di Gestione della Qualità, che dimostra la capacità di

un’Organizzazione di fornire prodotti e servizi conformi a determinati standard e finalizzato

ad accrescere la soddisfazione del cliente; ISO14001, Sistema di Gestione Ambientale, in

grado di dimostrare l’impegno nel minimizzare l’impatto ambientale dei processi, prodotti e

servizi, attestandone l’affidabilità, si stanno diffondendo standard e sistemi gestionali con un

contenuto più specificatamente etico:

BS OHSAS 18001, Sistema di Gestione Salute e Sicurezza, per rispondere alle norma-

tive vigenti ed aiutare le aziende a formulare politiche di prevenzione e salvaguardia

della Salute dei Lavoratori;

ISO 22000 Sistemi di Gestione della Sicurezza nel settore agroalimentare, che con-

sente a tutte le aziende coinvolte nella filiera di identificare i rischi cui sono esposte e

di gestirli in modo efficace: la certificazione secondo tale norma fornisce efficaci

strumenti per comunicare con gli stakeholder; si tratta di un elemento particolar-

mente importante per dimostrare l’impegno di un’azienda nei confronti della sicu-

rezza alimentare nel pieno rispetto dei requisiti di Corporate Governance,

Responsabilità Sociale d’Impresa e Bilancio di Sostenibilità.

La norma SA 8000 è uno standard di gestione internazionale che disciplina i seguenti temi:

rispetto dei diritti umani, diritti dei lavoratori, tutela contro lo sfruttamento dei minori, sicu-

rezza sui luoghi di lavoro, ed è pertanto lo standard in particolare e lo strumento in generale

più specificamente attinente l’integrazione dei principi della responsabilità sociale orientati

alle risorse umane e rappresenta il sistema di gestione di responsabilità più importante e

diffuso.

L'impegno etico e sociale di un’impresa oltre ad essere testimoniato dal proprio Codice etico

e/o Bilancio sociale, può dunque anche essere certificato.

Questo standard nasce dal CEPAA (Council of Economical Priorities Accreditation Agency),

che ha per missione guidare le organizzazioni verso la responsabilità sociale, riunendo i prin-

cipali stakeholders per sviluppare standard volontari basati sul consenso, accreditando orga-

nizzazioni qualificate per verificare la conformità, promuovendo la conoscenza e compren-

sione dello standard e incoraggiandone l'attuazione a livello mondiale.

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Lo standard e le relative procedure di accreditamento e certificazione nascono in un ottica

globale e transnazionale, pur recependo le peculiarità normative locali.

Un’Organizzazione che intende richiedere la certificazione SA 8000 deve: assicurarsi che

quanto richiesto dai requisiti SA 8000 sia effettivamente compreso ed implementato a tutti i

livelli dell'Organizzazione; fornire a tutte le parti interessate le informazioni sulle

performance raggiunte in relazione ai requisiti e tenerne un’appropriata e completa docu-

mentazione; adottare un piano di coinvolgimento e sensibilizzazione dei fornitori sui temi

della SA 8000 e darne evidenza.

È previsto un sistema di reclami che accresce il valore aggiunto apportato da tale standard in

termini di affidabilità, coinvolgimento, trasparenza (si ricordino i sopra citati attributi “pro-

cedurali”).

Con riferimento all’agroalimentare italiano, l’interesse verso la SA 8000, deriva sia da parte

di grandi imprese, con produzione delocalizzata in Paesi in via di sviluppo (soprattutto in

merito a tematiche attinenti il lavoro), sia da parte di multinazionali operanti anche sul terri-

torio italiano, sia da parte di imprese che la interpretano soprattutto come strumento di

vantaggio competitivo nei confronti di competitors.

Uno studio recente sulla diffusione di tale standard in Italia ne evidenzia una massima diffu-

sione in Toscana e in Umbria (essenzialmente dovuto alla presenza di incentivi economici e

fiscali), e una buona diffusione in regioni quali Campania, Puglia e Marche, dove un fattore

determinante è stato l’impegno attivo da parte di enti locali, soprattutto le camere di com-

mercio.

La ISO 26000 rappresenta invece uno standard sviluppato dall’ISO che fornisce le linee guida

si base volontaria sulla responsabilità sociale nel settore pubblico come in quello privato e

mira a raggiungere un consenso internazionale su significati e contenuti della responsabilità

sociale stessa, attraverso la traduzione di principi in azioni concrete e le ridefinizione e il

miglioramento delle “buone prassi”. Dal 1° novembre 2010, tale norma è pronta ad essere

utilizzata come standard tecnico internazionale fornendo alle organizzazioni una guida

armonizzata e universalmente applicabile alle pratiche di responsabilità sociale, come risul-

tato del più ampio consenso internazionale raggiunto tra gli esperti e i principali soggetti

interessati.

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Il Social Statement (SS), infine, è uno strumento volontario, pensato in primo luogo per gui-

dare le imprese nell’attività di rendicontazione delle proprie prestazioni sociali, standardiz-

zando la modalità di rilevazione e presentazione delle informazioni e favorendo forme di

confronto e valutazione dei risultati ottenuti. Il Social Statement vuole soprattutto rispon-

dere alle crescenti richieste informative che provengono da molteplici categorie di

stakeholders sulle tematiche della Corporate Social Responsibility, mirando a garantire mag-

giore trasparenza nella comunicazione delle imprese, a tutela dei consumatori e a vantaggio

di tutti i cittadini.

Esso si basa sulla definizione di CSR data dalla Commissione Europea nel Libro Verde, pubbli-

cato nel luglio 200115 dove si desume che essere socialmente responsabili implica andare

oltre il semplice rispetto della normativa vigente, “investendo” di più nel capitale umano,

nell’ambiente e nei rapporti con le parti interessate”. Il Ministero del Lavoro e delle Politiche

Sociali ha messo a punto una proposta per orientare le imprese nella predisposizione del

Social Statement attraverso indicatori qualitativi e quantitativi.

Le iniziative in campo etico-sociale nel sistema agroalimentare possono rappresentare un

importante strumento in grado di rispondere ai cambiamenti in atto, a monte e a valle della

filiera, all’interno delle aziende agricole e alimentari.

Come visto, il tema delle risorse umane è profondamente delicato: nel sistema agroalimen-

tare le ridotte dimensioni imprenditoriali rendono talvolta ancora più complesso l’approccio

a tale problematica, aggravata dalle caratteristiche dell’organizzazione produttiva, che com-

porta in generale basso livello di sicurezza, elevata stagionalità, ampio utilizzo di manodo-

pera immigrata e lavoro irregolare.

Inoltre il legame dei sistemi agroalimentari con il territorio rappresenta una dimensione che

va al di là della semplice realtà aziendale, in grado di generare valore sull’insieme del conte-

sto economico-sociale. Lo sviluppo di un rapporto positivo con il territorio permette alle im-

prese del sistema agroalimentare una migliore valorizzazione delle risorse della comunità

territoriale, quindi di svolgere una funzione socio-ambientale attraverso la salvaguardia del

patrimonio naturalistico e culturale, la tutela delle tradizioni, delle condizioni dei lavoratori e

della popolazione rurale e le conoscenze accumulate negli spazi rurali. 15 “A concept whereby companies integrate social and environmental concerns in their business operations and in their interaction with their stakeholders on a voluntary basis“ (Commissione europea, 2001).

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L’introduzione della variabile “etica” attraverso la diffusione degli strumenti della responsa-

bilità sociale favorisce il radicamento dell’impresa e può creare un rapporto privilegiato con

il mercato locale, indirizzando la competitività delle imprese agroalimentari su un modello

che valorizza le specificità locali e regionali e consente di superare il limite della piccola di-

mensione aziendale. Con riferimento alla variabile ambiente, il peggioramento delle condi-

zioni ambientali per la collettività e l’abbassamento del livello della qualità della vita delle

popolazioni locali spingono verso una richiesta più pressante di conservazione delle condi-

zioni paesaggistico-ambientali e l’utilizzo di tecnologie sempre meno inquinanti. Gli agricol-

tori sono sempre più disponibili ad adottare metodi di coltivazione più attenti alla salvaguar-

dia delle risorse naturali, anche se ciò comporta un aumento dei costi aziendali.

In generale, i numerosi percorsi e strumenti utilizzabili nell’ambito della responsabilità so-

ciale nel sistema agroalimentare possono consentire all’impresa agroalimentare di differen-

ziare il proprio prodotto attraverso l’acquisizione di caratteristiche distintive riconosciute e

richieste dal consumatore, sebbene le buone pratiche in questo senso presentino talvolta

difficoltà di implementazione.

Alcune imprese già da tempo hanno colto il senso di tale opportunità rispondendo alla cre-

scente domanda dei consumatori e adottando, nell’ambito delle proprie strategie e attività,

pratiche di responsabilità sociale. L’impatto economico della responsabilità sociale delle im-

prese può essere ripartito in effetti diretti e effetti indiretti. Risultati positivi diretti possono

ad esempio derivare da un migliore ambiente di lavoro che si traduce in un maggiore impe-

gno e in una maggiore produttività dei lavoratori, ovvero possono derivare da un’efficace

gestione delle risorse naturali. Gli effetti indiretti si legano alla crescente attenzione dei con-

sumatori e degli investitori, che amplia il ventaglio delle possibilità dell’impresa di creare e

comunicare valore nel mercato; al contrario la reputazione di un’impresa può spesso soffrire

per le critiche formulate nei riguardi delle sue prassi commerciali e/o di gestione delle

risorse umane, dei rapporti con i fornitori o dell’approccio all’ambiente, con gravi conse-

guenze sull’immagine.

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5. STRATEGIE DI DIFFERENZIAZIONE: COMPETITIVITÀ E TUTELA AMBIENTALE

I problemi dell’inquinamento e del depauperamento delle risorse naturali sono oramai dive-

nuti delle emergenze vere e proprie. Ciò ha implicazioni particolarmente significative per

l’intero sistema agroalimentare ma, soprattutto, per il settore agricolo, sia per le caratteristi-

che della sua attività produttiva (utilizzatrice/generatrice di risorse naturali) che per la sua

estensione territoriale. L’agricoltura, che insieme alle foreste si estende per oltre il 75% della

superficie dell’Unione Europea, è chiamata, quindi, da una parte a rispettare regole sempre

più precise e, dall’altra, a esercitare un ruolo fondamentale nella gestione del territorio.

La maggiore sensibilità della pubblica opinione si è tradotta in una crescente attenzione

verso il comportamento delle imprese, alle quali si richiede l’attivazione di processi produt-

tivi che portino all’ottenimento di prodotti “sicuri” e che riducano al minimo l’impatto nega-

tivo sulle risorse naturali. In questo contesto, un ruolo importante è svolto dalle autorità

pubbliche attraverso la definizione di una serie di interventi atti a correggere i meccanismi di

funzionamento del mercato.

La stessa Politica Agricola Comunitaria ha nel corso del tempo subito un processo di rinver-

dimento, ritenendo gli incentivi alla produttività storicamente concessi ai produttori agricoli

come forma di sostegno del reddito, una causa primaria di pressione incontrollata

sull’ambiente, riorientando quindi gli strumenti verso obiettivi di tutela ambientale, anzi,

condizionando la concessione degli aiuti al rispetto di requisiti di rispetto e salvaguardia

dell’ambiente (principio di eco condizionalità).

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Nel seguito verranno descritte le possibilità per le imprese (anche agroalimentari) di compe-

tere differenziando la propria offerta attraverso contenuti ambientali.

5.1 INTERAZIONI TRA AMBIENTE ED ECONOMIA

La crescita dei livelli d’inquinamento prodotti dall’attività umana che si è registrata negli

ultimi decenni, ed i riflessi che lo stesso ha avuto sulla vita di ognuno, ha aumentato

l’attenzione e la sensibilità di tutte le parti sociali circa le problematiche di difesa

dell’ambiente.

Si sta vivendo un vero cambiamento culturale, sociale e politico che ha posto in primo piano

il complesso ed articolato rapporto tra ambiente ed economia, ovvero, la difficoltà di conci-

liare la crescita economica con la tutela dell’ambiente.

Per la loro stessa natura, gli aspetti ambientali sono stati e sono oggetto di analisi scientifica

e tecnica che ha avuto come output lo sviluppo di molteplici studi sul clima come, ad esem-

pio, la messa a punto di materiali e tecnologie non inquinanti.

La tutela ambientale, inoltre, è terreno d’analisi e d’intervento dei policy makers dei diversi

Paesi e, sempre più spesso, degli organismi sopranazionali: questi formulano le politiche

ambientali ai vari livelli, pongono il quadro legislativo complessivo e regolamentano i diversi

aspetti della protezione ambientale.

Il punto nodale di ogni politica ambientale risiede nel rapporto con il sistema economico a

livello macro, e con il mondo delle imprese a livello micro. Così le questioni ambientali sono

direttamente o indirettamente riconducibili al sistema industriale, o, più in generale, allo

sviluppo economico; ugualmente, qualsiasi intervento a salvaguardia ambientale finisce per

avere riflessi sul sistema economico.

L’evoluzione della domanda di tutela ambientale, legata ad una molteplicità di fattori sinte-

tizzabili nell’oggettivo aggravamento dei problemi ecologici, nella crescita del benessere,

nella maggiore sensibilizzazione dell’opinione pubblica e della conseguente strumentalizza-

zione politica che talvolta viene fatta, unitamente ad una maggiore diffusione delle informa-

zioni, ha richiesto una trasformazione del rapporto tra ambiente ed economia.

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Fino agli anni Settanta era convinzione comune che esistesse un netto trade-off tra crescita

economica e qualità ambientale, per cui i due aspetti erano ritenuti incompatibili, in quanto

qualunque scelta a favore di uno andava a discapito dell’altro.

Ma l’introduzione del concetto di “sviluppo sostenibile” ha realmente modificato

l’atteggiamento comune.

Tale concetto è stato lanciato per la prima volta all’attenzione dell’opinione pubblica e degli

studiosi nel 1987 con il famoso “rapporto Brundtland” intitolato “Our Common Future” della

Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo nell’ambito delle Nazioni Unite.

Secondo la definizione data nel rapporto Brundtland, lo “sviluppo” per essere “sostenibile”,

deve venire incontro ai bisogni delle generazioni presenti senza compromettere la capacità

delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni.

La qualità dell’ambiente va considerata una caratteristica essenziale per la qualità della vita

in una società e, quindi, come caratteristica essenziale della qualità dello sviluppo econo-

mico.

Il mutamento culturale innescato dalla diffusione del concetto di “sviluppo sostenibile” ha

spinto a credere che il sistema economico deve essere in grado di attivare processi di produ-

zione, consumo e smaltimento, capaci di creare benessere senza incidere in modo irrepara-

bile sulla disponibilità delle risorse attraverso il loro riutilizzo.

Naturalmente ci si può chiedere come è possibile sfruttare l’ambiente e al tempo stesso pre-

servarlo, visto che in particolare lo sviluppo economico comporta anche una crescita di pro-

duzione dei beni e servizi, e diventa quindi difficile non solo diminuire ma, addirittura, man-

tenere costante il flusso di sfruttamento delle risorse ambientali.

La risposta a tale quesito è da ravvisarsi nel progresso tecnologico; infatti, attraverso

l’introduzione e la diffusione di tecnologie pulite si può ottenere: una riduzione dei coeffi-

cienti di sfruttamento dell’ambiente per unità di prodotto o servizio, a riduzione dell'inten-

sità di inquinamento, un abbattimento dell'inquinamento a valle, l’aumento delle attività di

recupero dei rifiuti e dei residui, la riduzione dei consumi di energia, l’ottimizzazione dell'uti-

lizzo delle risorse. Il problema, allora, diventa quello di valutare se il progresso tecnologico,

necessario per una continua riduzione dello sfruttamento dell'ambiente, sia un risultato

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spontaneo del processo di accumulazione, implicito nello sviluppo economico, e di conse-

guenza se si possa avere nel tempo una riduzione dell'impiego del fattore produttivo

ambiente come è avvenuto per il fattore produttivo lavoro. L'evidenza empirica e la rifles-

sione teorica sono concordi nel ritenere che siano in atto, soprattutto nelle economie avan-

zate, tendenze spontanee nella direzione della sostenibilità, ma che queste si manifestino in

modo parziale e non siano sufficienti.

Di certo, in seguito alla diffusione di una nuova cultura e sensibilità ambientale, oggi si è ini -

ziata ad intravede la possibilità di considerare la crescita economica sotto una nuova luce,

non più un limite per l’ambiente, ma una soluzione.

Di qui, nella realtà dei Paesi più avanzati, si sta progressivamente aumentando la scelta di

prodotti tecnologicamente innovativi ed ecocompatibili. Ma bisogna sempre considerare che

la questione ambientale va affrontata in maniera globale ed il concetto di sviluppo sosteni-

bile va sostenuto a livello mondiale, considerandone le peculiarità16, quali: la scala

internazionale dei fenomeni ambientali, il loro forte legame con il processo di sviluppo eco-

nomico, l’incertezza del fenomeno ambientale, che vanno al di là di quelle caratteristiche su

cui gran parte della letteratura economica sul tema dell’inquinamento è stata concepita.

Proprio considerando tali caratteristiche si può individuare il rovescio della medaglia

nell’economia dei Paesi in via di Sviluppo (PVS) che, spinti dalla necessità di uscire dal sotto-

sviluppo in cui versano e avendo quindi bisogni primari da soddisfare, portano avanti attività

e processi che non tengono minimamente conto della tutela ambientale, producendo delle

esternalità negative che impattano sull’ambiente globale.

Questa considerazione propone la questione della crescita economica equilibrata per tutti i

Paesi, e della necessità di affrontare il problema ambientale in maniera ampia e globale.

È utile, perciò, analizzare tale problematica sia da un punto di vista macroeconomico, quindi

assegnando un ruolo di primaria importanza alle politiche ambientali ed a tutti gli aspetti ad

essa correlati, sia da un punto di vista microeconomico, analizzando gli atteggiamenti delle

imprese, come attori principali nel produrre impatti ambientali e nello sfruttare risorse nei

confronti dell’ambiente stesso.

16 Cfr. Lo sviluppo sostenibile, A. Lanza, IL Mulino.

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La politica ambientale può, nell’ambito della più generale politica economica di un Paese,

essere un efficace stimolo all’intero sistema economico attraverso investimenti pubblici e

può divenire un utile modello di ristrutturazione e razionalizzazione, economica e tecnolo-

gica, di alcuni settori industriali o aree territoriali.

In termini generali, si può dire che, al di là dei rilevanti divari (politici, culturali, economici,

sociali) esistenti tra i diversi Paesi, i miglioramenti nell’efficienza della produzione e dei con-

sumi conseguenti ad un’efficace politica ambientale comportano di norma la disponibilità di

beni e servizi a costi reali decrescenti, che a loro volta tendono ad incentivare la domanda.

Ne consegue che la riduzione dell’impatto ambientale per unità di prodotto conduce com-

plessivamente ad una crescita del PIL.

L’esigenza di coniugare crescita economica e tutela ambientale, implica che la società ponga

come obiettivo primario la “sostenibilità ambientale” del sistema economico, creando, tra-

mite una politica ambientale mirata, le condizioni per l’equilibrio tra il sistema economico ed

ambiente ed assicurando che l’ambiente conservi la sua funzione di tutela della vita attra-

verso lo sviluppo di una coscienza e cultura ambientale.

5.2 STRUMENTI DI POLITICA AMBIENTALE

Visto che lo sviluppo sostenibile non è qualcosa di automatico o spontaneo, sono necessarie

appropriate politiche pubbliche per indirizzare lo sviluppo del sistema economico verso la

conservazione dell’ambiente e di tutte le sue funzioni, e per gestire i complessi rapporti

intercorrenti tra mercato, imprese e società.

È compito dei policy makers offrire un indirizzo e un controllo della attività economiche, per

raggiungere un equilibrio tra crescita economica e tutela ambientale.

Tra gli strumenti più usati dai policy makers troviamo:

La regolazione diretta : definizione di standard, norme di legge e divieti.

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Gli strumenti economici: tasse, spesa pubblica intesa sia come investimenti pubblici

diretti che come sussidi e incentivi rivolti a incrementare comportamenti sostenibili

delle organizzazioni.

Gli accordi volontari: meccanismi che prevedono una cooperazione tra i soggetti eco-

nomici nella definizione degli obiettivi ambientali e nella ricerca di soluzioni ai pro-

blemi che si incontrano per il raggiungimento di tali obiettivi.

L’introduzione degli “accordi volontari”, uno strumento alternativo ed efficace, ha segnato il

passaggio dalle politiche di “command e control”, lacunose a causa di limiti intrinseci, quali

la mancanza di cooperazione, la tendenza a comportamenti passivi da parte delle imprese,

l’aumento dei costi pubblici per il controllo, ad una logica collaborativa. La collaborazione di

tipo volontaristico ha cercato di superare i limiti della struttura regolamentativa che, pur

costituendo un elemento imprescindibile, in tutti i Paesi industrializzati, non risultava suffi-

ciente a garantire un livello di qualità ambientale compatibile con le esigenze di crescita e di

tutela ambientale di una società evoluta. In tal modo la Pubblica Amministrazione ha avuto

la possibilità di programmare obiettivi a livello generale tramite la concertazione con

l’industria, e l’industria ha avuto la possibilità di influire sulle scelte dell’Autorità.

5.3 GLI STRUMENTI VOLONTARI: IL REGOLAMENTO EMAS, LA NORMA UNI EN ISO 14001:04

Gli accordi volontari sono strumenti messi a disposizione delle organizzazioni volti ad avere

un approccio alla questione ambientale lontano dalla logica di “command and control” ed

orientato a favorire un nuovo tra imprese, istituzioni e pubblico basato sulla trasparenza, sul

supporto reciproco e sulla collaborazione.

In particolare facciamo riferimento alle seguenti norme a carattere volontario:

le norme internazionali ISO 14000 in materia di Sistemi di Gestione Ambientale

(SGA), utili soprattutto ai fini della relativa certificazione ambientale dell'attività pro-

duttiva;

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il Regolamento comunitario EMAS III n. 1221/2009 noto come Regolamento EMAS

sull’adesione volontaria delle imprese al Sistema comunitario di ecogestione e audit,

dell’Unione Europea.

Per le aziende di qualsiasi dimensione adottare un approccio pro-attivo, volto all’aumento di

efficacia e di efficienza nella gestione delle problematiche ambientali, può essere molto pro-

ficuo per individuare delle soluzioni strategiche e operative innovative, in modo tale che

l’ambiente possa essere vissuto non solo come un vincolo ma anche come una fonte di

opportunità.

L’organizzazione che contribuisce alla sostenibilità, si garantisce una maggiore sopravvivenza

e sviluppo nel lungo periodo e può sfruttare i vantaggi della eco-efficienza ai fini della sua

competitività.

Bisogna però valutare quali possano essere le prospettive di reale sviluppo e divulgazione di

queste politiche ambientali tra le aziende che compongono la nostra economia.

La realtà del tessuto industriale del nostro Paese è in gran parte costituita da piccole e medie

imprese che presentano una struttura organizzativa e gestionale tale da rendere problema-

tica l’introduzione e diffusione di sistemi innovativi di gestione ambientale. Tra le difficoltà

incontrate principalmente dalle PMI si riscontrano innanzitutto i “costi” eccessivi connessi

alle attività necessarie e la carenza di competenze specifiche delle risorse umane. Per cui

spesso le stesse assumono un atteggiamento “attendista” specie riguardo a scelte con un

orizzonte temporale ed economico di medio-lungo periodo, quali quelle ambientali.

Inoltre, il fabbisogno in/formativo circa le tematiche non solo legislative, ma anche di focaliz-

zazione dell’interesse verso aspetti inerenti ai processi, quali la riduzione dell’impatto

ambientale, l’ottimizzazione dell’impiego delle risorse all’interno dei processi e il con-

trollo/valutazione dei rischi, determina la richiesta di strumenti di supporto adatti a rendere

la normativa in materia ambientale, sia pubblica (EMAS) o privata (ISO 14000), più adeguata

al contesto specifico, tenendo presenti le peculiarità del contesto competitivo di ogni singola

realtà, la tipologia e le competenze delle strutture esistenti, la novità degli argomenti

rispetto all’esperienza e cultura aziendale.

Si evidenzia, in tal modo, l’importanza di interventi d’incentivo e di supporto alla alle piccole

e medie imprese, quali agevolazioni amministrative, fiscali e finanziarie, nonché di progetti-

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pilota e iniziative, concertate da soggetti pubblici o privati, finalizzate alla promozione degli

strumenti utili alla gestione del fattore ambientale e alla sperimentazione degli stessi. Inol-

tre, c’è l’esigenza di colmare le lacune in/formative, offrendo strumenti di supporto ai pro-

cessi di cambiamento della cultura e delle conoscenze delle risorse umane che operino

all’interno delle imprese al fine di sviluppare attività di gestione ambientale.

Il superamento delle problematiche sopra esposte trova sicuramente condizioni favorevoli in

quelle aree in cui vi sono delle concentrazioni di aziende che presentano problematiche

ambientali omogenee. Questo è tradizionalmente il caso dei distretti industriali, i quali, dopo

i vantaggi ottenuti da sempre nella individuazione di soluzioni alle problematiche connesse

agli aspetti produttivi, logistici e commerciali, oggi si accingono ad ottenere gli stessi risultati,

e in alcuni casi li hanno già ottenuti, in ambito ambientale.

La presenza di distretti, o comunque di una concentrazione di aziende con problematiche

ambientali comuni, sicuramente rappresenta un elemento di attrattività per quelle azioni di

impulso che sono chiamate ad assicurare le istituzioni.

Difatti, l'esito positivo dell'interazione tra imprese, opinione pubblica e tutti gli altri attori

coinvolti nella tutela ambientale (mass media, comunità scientifica, associazioni ambientali-

ste, sistema creditizio, assicurazioni ecc.) dipende dall'intervento di un terzo attore: le Istitu-

zioni; queste, infatti, tramite una programmazione concertata delle politiche ambientali pos-

sono contribuire a rafforzare sempre più nei diversi ambiti sociali la cultura necessaria per il

perseguimento costante di uno sviluppo sostenibile.

5.4 EMAS

Uno degli obiettivi principali della Commissione Europea, come definito anche nel Trattato di

Maastricht, è “promuovere uno sviluppo delle attività economiche armonioso e bilanciato,

una crescita sostenibile nel rispetto dell’ambiente… migliorando gli standard della qualità

della vita”. Perciò la Comunità si è impegnata da un lato a rendere meno lacunoso l’apparato

normativo e dall’altro ha provato ad offrire strumenti utili a diffondere l’informazione tra i

cittadini, a dare i giusti incentivi per raggiungere miglioramenti ambientali nel mercato, ed

assicurare l’integrazione dell’ambiente nelle altre politiche.

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Le ragioni di tale atteggiamento comunitario sono da cercarsi in due concetti fondamentali.

Il primo concetto è basato su di un approccio legato al controllo integrato dell’attività

d’impresa, volto a monitorare come l’impresa gestisce al suo interno ed in modo integrato le

problematiche ambientali di sicurezza e della salute dei lavoratori.

Il secondo si basa sulla sollecitazione e sulla premiazione di un comportamento volontario

delle imprese verso la difesa dell’ambiente. Lo scopo è quello di stimolare l’azienda dove è

più sensibile, cioè, sulla competitività ed il mercato, mettendola nel contempo nelle condi-

zioni di fare un uso più razionale delle risorse che sfrutta per i suoi processi, e di considerare

la salvaguardia ambientale nell’ambito dei propri interessi economici.

Proprio in tale contesto si colloca il “Sistema Comunitario di Ecogestione ed Audit” (EMAS-

Environmental Managment and Audit Scheme), che mira a favorire una riorganizzazione e

razionalizzazione della gestione ambientale dell'azienda, basata non solo sul rispetto dei

limiti imposti dalle leggi, che rimane comunque un obbligo dovuto, ma su un rapporto nuovo

tra la stessa impresa, le istituzioni e il pubblico.

L’introduzione dell’attività di Audit ambientale, condotto da esperti aziendali e consulenti

esterni, soddisfa l’esigenza di gestire in modo sistematico i problemi ambientali, quali:

l’aumento della sensibilità del pubblico, le conseguenze legali, economiche e d’immagine,

l’aumento della complessità tecnica, organizzativa, gestionale delle attività.

Aspetti caratterizzanti del Regolamento sono:

campo di applicazione rivolto a tutti i settori di attività economica.

incorporazione della norma ISO per quanto riguarda il sistema di gestione

ambientale (procedure, organizzazione, prassi e sistemi di controllo interni);

elaborazione di mezzi per sostenere l'applicazione del Regolamento a livello delle

piccole e medie imprese (PMI);

logo di EMAS visibile e riconoscibile, per permettere all’organizzazione registrata di

comunicare più efficacemente la propria partecipazione in EMAS;

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l’elaborazione di una strategia di promozione da attuare congiuntamente da parte

degli Stati membri e della Commissione;

miglioramento del controllo dei risultati in materia di ambiente delle

organizzazioni;

miglioramento della comunicazione tra organizzazioni registrate e i loro

stakeholders;

maggiore attenzione delle organizzazioni nel considerare gli impatti ambientali

significativi, sia quelli diretti (relativi all’attività che l’organizzazione controlla e

conosce), sia quelli indiretti (su cui l’organizzazione non ha controllo al di fuori della

stessa: es. prestazioni dei fornitori e clienti, nuovi mercati, trasporti)delle proprie

attività, prodotti e servizi;

introduzione di benefici regolamentari, quali: semplificazioni delle procedure

autorizzative e di controllo per le imprese che aderiscono ad EMAS;

cadenza della verifica della dichiarazione ambientale annuale;

definizione di indicatori di prestazione ambientale.

Il sistema ha come obiettivo fondamentale la responsabilizzazione delle organizzazioni che

svolgono un’attività ad impatto ambientale, mediante la volontaria assunzione di un impe-

gno al miglioramento continuo delle proprie performance ambientali; impegno dettato più

da pressioni di natura competitiva e sociale che da prescrizioni normative, da attuarsi attra-

verso:

l’adozione di politiche, programmi e sistemi di gestione ambientale da parte delle

aziende in relazione ai loro siti17;

la sistematica, obiettiva e periodica valutazione dei risultati;

la trasmissione al pubblico dei sistemi adottati e dei risultati ottenuti.

Aderire al regolamento EMAS ed ottenere la certificazione ambientale è la strada maestra

per l’eco-efficienza, cioè per l'eccellenza del business collegato ad una gestione appropriata

dell'ambiente, alle preoccupazioni per il degrado ambientale ed i bisogni delle future gene-

razioni. Diventa quindi sempre più importante per le organizzazioni dare visibilità alla loro

strategia ambientale e ai livelli di performance ambientali conseguiti.

17 Sito: è la più piccola entità registrabile. “Tutto il terreno, in una zona geografica precisa, sotto il controllo gestionale di un’organizzazione che comprende attività, prodotti e servizi. Esso include anche qualsiasi infra-struttura impianto e materiali”.

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Evidentemente ciò comporta un impegno a tutti i livelli aziendali, che devono contribuire a

produrre un salto di qualità nella gestione dell’azienda, tenendo ben presenti due punti di

riferimento essenziali: la “filosofia” sottostante al Regolamento (quella del miglioramento

continuo e dello sviluppo sostenibile), e le specifiche caratteristiche della realtà in cui è

chiamata ad operare (dotazione tecnologica, localizzazione, grado culturale del personale,

etc.).

5.5 LE NORME INTERNAZIONALI ISO 14000

In seguito all’introduzione del Regolamento EMAS, come strumento della politica ambientale

della Comunità Europea con valenza competitiva sul mercato, alcuni Paesi Extra Europei lo

hanno percepito inizialmente come barriera per il mercato internazionale. A fronte di questa

situazione, in sede ISO18 è stata promossa la costituzione del TC-207 Environmental

management (Comitato Tecnico) che, mutuando dalle serie ISO 9000 (sistemi di gestione

della qualità) le metodologie operative, i requisiti e i processi di certificazione industriale, ha

prodotto la normativa della serie ISO 14000 (sistemi di gestione ambientale) con il fine di

migliorare la gestione della variabile ambientale all'interno di qualsiasi organizzazione.

La famiglia delle ISO 14000, le cui prime norme sono state pubblicate nel Settembre e

nell'Ottobre 1996, si riferiscono a diversi aspetti della gestione ambientale. Le norme non

specificano i livelli di prestazione ambientale, cosa che ne consente l'applicazione in una

ampia gamma di organizzazioni, indipendentemente dal rispettivo livello di maturità

ambientale. Tuttavia, si richiede alle organizzazioni l’impegno a conformarsi alle leggi e ai

regolamenti ambientali applicabili, unitamente allo sviluppo di un sistema di gestione

ambientale che fornisca un quadro operativo, nell’ottica del miglioramento continuo.

La norma ISO 14001:2004 “Sistemi di gestione ambientale - Requisiti e guida all’uso” è

l’unica norma prescrittiva e certificabile, mentre le altre sono delle semplici guide. La norma

14001 specifica i requisiti di un sistema di gestione ambientale. Soddisfare questi requisiti

18 “International Organization for Standardization”: si tratta di una organizzazione non governativa sorta nel 1947 che federa organismi di controllo-standard nazionali, appartenenti a oltre 130 Paesi in tutto il mondo, uno per ogni Stato. L’obiettivo di ISO consiste nel promuovere lo sviluppo di standard (qualitativi, ambientali, ecc.) nella produzione industriale mondiale, così da facilitare la cooperazione tra aziende e rendere più semplice e sicuro, in quanto garantito da standard produttivi comuni, lo scambio di beni e servizi.

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richiede una prova obiettiva, soggetta a verifica, per dimostrare che il sistema di gestione

ambientale operi efficacemente in conformità alla norma. La norma ISO 14001 può quindi

essere impiegata a fini interni, per fornire garanzie alla direzione dell'organizzazione, e a

scopi esterni, per fornire garanzie alle parti interessate. In particolare, in un contesto

esterno, la conformità alla ISO 14001 può essere utilizzata a supporto delle dichiarazioni di

una organizzazione relative alle proprie politiche ed attività ambientali.

La norma UNI EN ISO 14001 fornisce i requisiti di un sistema di gestione ambientale in modo

tale da permettere ad un’organizzazione di formulare una politica e stabilire degli obiettivi,

tenendo conto delle prescrizioni legislative e delle informazioni riguardanti gli impatti

ambientali significativi. È stata redatta in modo da essere appropriata per organizzazioni di

ogni tipo e dimensione e si adatta alle differenti situazioni geografiche, culturali e sociali. La

norma, inoltre, prevede sia per la parte relativa alla struttura ed alle responsabilità del

sistema di gestione, sia per la documentazione, la possibilità che queste siano integrate con

altri sistemi già in atto o in fase di attuazione nell’organizzazione.

La norma evidenzia che il successo del sistema dipende dall’impegno di tutti i livelli e di tutte

le funzioni dell’organizzazione, specialmente del livello più elevato (l’alta direzione).

Va considerato, inoltre, che le fasi di attuazione di un sistema di gestione ambientale (SGA)

sono semplici da comprendere, ma il processo attuativo di un SGA in un’azienda non è sem-

pre facile ed immediato. La ragione di ciò sembra essere legata, più che ad una difficoltà

intrinseca delle operazioni da svolgere, o alla carenza di risorse umane e finanziarie, alla

necessità di integrare le nuove attività previste dal SGA con il normale svolgimento del

lavoro quotidiano nell'azienda. Perciò è necessario definire i ruoli e le modalità operative per

introdurre all’interno dell’azienda prassi di comportamento orientate al rispetto

dell’ambiente.

Un ruolo fondamentale rivestono di certo gli interventi in/formativi volti a diffondere la

nuova cultura, ed a promuovere la comunicazione all’interno dell’organizzazione.

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5.6 BENEFICI/COSTI DELL’IMPLEMENTAZIONE DI UN SGA

Le principali motivazioni dell’interesse verso la certificazione ambientale sono state indivi-

duate19 in: possibili finanziamenti ottenibili, aumento di visibilità dell’azienda, miglioramento

della gestione ambientale delle proprie attività, miglior dialogo con la P.A., agevolazioni in

materia di autorizzazioni legate alla normativa ambientale cogente, migliore programma-

zione delle attività di controllo ambientale.

Risulta evidente che il modo migliore per stimolare una crescita di sensibilità verso

l’ambiente, non può prescindere dalla possibilità che tale crescita viaggi in parallelo con degli

iniziali benefici economici, d'immagine o di quote di mercato e non solo con un aggravio di

costi.

Un altro dato importante, che emerge dall’indagine UNI, è l’alto grado di soddisfazione delle

aziende per i benefici derivanti dall'adozione di un SGA, quali la conformità legislativa, una

migliore gestione aziendale, ma anche la riduzione degli sprechi.

Di qui si evince una crescente diffusione della consapevolezza delle organizzazioni circa la

necessità di coniugare la crescita economica con la protezione ambientale e trasformare la

salvaguardia ambientale da “minaccia” in “leva competitiva”.

Gli strumenti volontari (Reg. EMAS, norma ISO 14001) messi a disposizione delle organizza-

zioni per aiutarle a gestire il “fattore” ambiente, non più in maniera adattiva, hanno assunto

un ruolo determinante nel guidare le organizzazioni a gestire “l’ambiente” non più solo come

fattore di costo, ma di opportunità consentendo alle stesse di coniugare le scelte competi-

tive e strategiche con le prescrizioni e le problematiche di tutela e prevenzione.

Perciò, le organizzazioni che hanno voluto rendere visibile ed effettivo il loro impegno per la

salvaguardia dell’ambiente hanno adottato al loro interno un “sistema di gestione ambien-

tale”, integrando, quindi, la variabile ambientale nella gestione complessiva, e dimostrando

l’impegno concreto a gestirla in modo globale, coerente, integrato, nell’ottica del migliora-

mento continuo delle proprie prestazioni ambientali.

Quando un’azienda sceglie di seguire la strada dell’implementazione di un Sistema di

Gestione Ambientale, e di ottenere la relativa certificazione, è naturale che si aspetti che i

19 Fonte: Indagine dell’UNI tra i principali enti di Certificazione italiani.

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benefici presunti, derivanti da tale scelta, superino i costi stimati: tale tipo di valutazione

incontra un grosso limite, consistente nel fatto che tanto i costi quanto i benefici sono diffi-

cilmente quantificabili, a causa della molteplicità degli aspetti e dei fattori che possono inci -

dere in un senso o nell’altro.

Infatti, a livello applicativo, la possibilità di avere minori costi nel rispettare la normativa a

tutela dell’ambiente implica l’impegno delle organizzazioni nell’agire in anticipo rispetto alla

normativa, acquistando il vantaggio di programmare gli interventi necessari secondo i propri

tempi caratteristici d’investimento, senza dover sottostare all'imposizione di vincoli che

diventano operativi con scadenze troppo ravvicinate. L’organizzazione può così sottrarsi a

problemi di liquidità legati alla necessità di effettuare delle spese improvvise, impreviste o

incerte nell'ammontare, migliorando la gestione finanziaria. Va da se che per poter adottare

le soluzioni tecniche migliori e meno onerose, applicando i tradizionali criteri di economicità,

vanno evitate situazioni di particolare urgenza e scadenze incombenti. Infine, va constatato

che a volte le tecnologie pulite che consentono di ridurre a monte la produzione di fattori

inquinanti, possono essere meno costose di quelle di abbattimento applicate a valle dei pro-

cessi produttivi, per togliere gli inquinanti una volta prodotti e per ridurre i quantitativi e/o la

pericolosità dei rifiuti. Di conseguenza molto spesso è preferibile agire in una logica pre-

ventiva piuttosto che agire in una logica di risanamento. Ciò implica capacità di programma-

zione dell’organizzazione unita ad una dettagliata conoscenza della normativa ambientale e

tecnica.

L’importanza di gestire con correttezza il fattore “ambiente” si traduce anche

nell’opportunità di ridurre il rischio di incidenti ambientali, che a sua volta implica una forte

riduzione di costi, spesso rilevanti e di solito non controllabili, conseguenti al verificarsi di

eventi indesiderati. La cattiva gestione dell'ambiente sottopone l’organizzazione ad un

costante rischio di sanzioni amministrative, penali, o nei casi più gravi, responsabilità civile

per danni ambientali.

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Godere di tali benefici e conseguire certi traguardi comporta, però, l’impiego mirato di

risorse sia economiche che umane.

Tra le principali “voci di costo” che comporta l’implementazione di un SGA troviamo i costi

relativi alla certificazione, che di norma sono abbastanza contenuti, anche se la loro inci -

denza può risultare più o meno forte nel bilancio di un’azienda a seconda delle dimensioni,

della tipologia e del collocamento della stessa sul mercato.

Inoltre, bisogna considerare anche i costi per gli investimenti in apparecchiature ed impianti

nell’ottica del raggiungimento dell’efficienza ambientale. Agire in maniera preventiva signi-

fica inserire la variabile ambientale in tutte le scelte di investimento e di manutenzione, cer-

cando di ottenere un risparmio di risorse a monte, ed un ritorno a livello economico.

Introdurre il fattore ambiente tra le variabili strategiche di gestione è una scelta da fare in

modo ponderato e organicamente gestito in termini di processi e funzioni destinando a tale

aspetto risorse adeguate. Le organizzazioni che hanno integrato nella loro gestione “il fattore

ambiente” in modo sistemico e sviluppato politiche ambientali ed obiettivi di tutela e

miglioramento dell’ambiente hanno riscontrato i seguenti vantaggi competitivi:

razionalizzazione e semplificazione della gestione tecnica e amministrativa dei pro-

cessi;

risparmio energetico;

miglioramento dell’immagine e del prestigio aziendale e la potenziale crescita della

quota di mercato.

Miglioramento della valutazione patrimoniale dell’azienda e delle sue quote aziona-

rie, considerato che il mercato dei capitali si sta evolvendo verso “la richiesta di pro-

fitto” generata attraverso una crescita eco-compatibile.

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6. STRATEGIE DI COSTO: LA LOGISTICA COME LEVA COMPETITIVA PER IL

SISTEMA AGROALIMENTARE

6.1 LA STRATEGICITÀ DELLA LOGISTICA NEL COMPARTO AGROALIMENTARE

Nel settore alimentare, la movimentazione dei prodotti lungo la catena distributiva, dal pro-

duttore al punto di vendita, deve avvenire in modo sempre più rapido e preciso, rispettando

alti standard di servizio (efficienza, igiene, sicurezza, ecologia), sensibilmente diversi rispetto

a quelli legati a prodotti non deperibili o non alimentari. Difficile e complesso è indicare la

scelta più adatta fra interscambio e pooling20 per i prodotti deperibili: le variabili in gioco

sono numerose e articolate, il confronto deve necessariamente avvenire all’interno delle 20 Il Pooling è un modello alternativo per ridurre i costi e per risolvere efficacemente le problematiche legate alla gestione del pallet sul mercato italiano. La definizione di derivazione anglosassone “Pool” intende un insieme omogeneo di mezzi che, adeguatamente gestito ed organizzato, permette di ottenere sostanziali eco-nomie di scala, fornendo agli utilizzatori una serie di vantaggi competitivi che non potrebbero essere ottenuti con una applicazione individuale delle stesse risorse.

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singole relazioni fra industria e distribuzione, sulla base dell’analisi dei costi ma anche delle

strategie aziendali e dell’efficienza commerciale. L’efficienza commerciale e distributiva sono

diventate leve fondamentali delle strategie competitive nel sistema agroalimentare ed il

nostro Paese deve concentrare su questi temi le linee strategiche di sviluppo. La sfida com-

petitiva dell’Italia è quanto mai legata al recupero di alcune parti delle inefficienze che carat-

terizzano il nostro sistema commerciale e distributivo, mentre le crescenti emergenze

ambientali rendono non più rinviabile la riorganizzazione del sistema dei trasporti e delle

infrastrutture. Per l’intero sistema agroalimentare la logistica si sta sempre più affermando

come uno strumento decisivo di razionalizzazione dei flussi, vera e propria discriminante

competitiva a tutti i livelli della catena produttiva, commerciale e distributiva. Ciò è giustifi-

cato dalle profonde modificazioni delle condizioni competitive, che hanno prodotto, tra

l’altro, la rapida evoluzione delle strutture e delle funzioni logistiche e di trasporto.

L’ottimizzazione dei processi logistici produrrebbe benefici molto significativi sul sistema

produttivo e agroalimentare. italiano, sia diretti in termini di minori costi che indiretti mag-

giore competitività. La Logistica dei prodotti agroalimentari è connotata da caratteristiche e

peculiarità particolarmente difficili da gestire: coordinamento efficiente dei processi produt-

tivi, rapporti con i fornitori e relativi contratti, mantenimento della catena del freddo, con-

formità rispetto alle numerose normative sorte a tutela dei consumatori. Per raggiungere

buoni obiettivi di efficacia ed efficienza aziendale, gli attori della filiera devono ottimizzare

tempi e risorse, senza esimersi dalla visione sistematica di Supply Chain. Per poter compe-

tere sul mercato, in un settore fortemente condizionato dalla crisi dei consumi e veicolato da

un’ottica pull, le aziende del settore devono:

comprendere le reali esigenze del consumatore per modulare l’offerta e immettere

sul mercato quello che il consumatore effettivamente vuole;

avvalersi di operatori logistici ad alto valore aggiunto;

dotarsi di un eccellente sistema informativo.

Oggi, la crescente complessità della gestione dei flussi fisici ed informativi trasforma la logi -

stica in uno prezioso strumento di vantaggio competitivo, obbligando però gli operatori

coinvolti ad una crescente collaborazione. Il massimo coordinamento fra gli operatori nella

gestione della supply chain è la condizione necessaria per ottimizzare i risultati della logistica.

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6.2 ELEMENTI DESCRITTIVI, PROBLEMATICHE E POSSIBILI CORRETTIVI PER LA LOGISTICA IN ITALIA

Le attività di realizzazione e distribuzione dei prodotti (progettazione, innovazione del pro-

dotto e del processo, approvvigionamenti, produzione, distribuzione e trasporto) rappresen-

tano elementi sempre più critici per il successo delle aziende agroalimentari. Circa un terzo

dei costi del sistema agroalimentare italiano è imputabile ai servizi di trasporto e logistica. Il

mercato dei trasporti e della logistica è uno dei più importanti in termini di fatturato com-

plessivo e il suo valore in Europa è stimato in circa mille miliardi di lire. Il peso del trasporto è

in continua crescita anche se, negli ultimi anni, il settore italiano dei trasporti e della logistica

si è presentato molto debole caratterizzato da piccole imprese, spesso a valenza regionale e

con un’offerta di servizi limitata. Anche per questo settore l’Italia ha rappresentato “terra di

conquista” e molte delle principali imprese nazionali sono state acquisite da gruppi interna-

zionali, che hanno peraltro contribuito alla loro crescita e al loro riposizionamento sul mer-

cato dei servizi logistici. L’approccio alla logistica è cambiato moltissimo negli ultimi anni.

Negli anni ’80, con lo sviluppo della Grande distribuzione a livello nazionale, la concentra-

zione dei punti decisionali e l’incremento del potere contrattuale, l’industria, in particolare

quella agroalimentare, si è adeguata all’evoluzione del sistema distributivo. Gli anni ’90

hanno portato alla ribalta un ulteriore sviluppo del concetto di logistica evidenziandone una

suddivisione in due tipologie:

una logistica esterna: quando si delegano tali servizi ai prestatori di servizi logistici, soggetti

esterni, ossia operatori che si preoccupano di fornire una serie di servizi che coprono l’intero

processo logistico;

logistica interna: quando si creano divisioni interne all’azienda dedicate esclusivamente alla

logistica, totalmente autonome dalle altre funzioni.

In entrambi i casi, alla logistica viene riconosciuto un ruolo che deve essere autonomo e non

dipendente da altre funzioni aziendali. Il concetto di logistica si è via via esteso negli ultimi

anni: da attività meramente sussidiaria alle operazioni di trasporto e stoccaggio delle merci

della singola azienda, la logistica è diventata elemento focale della catena del valore dei

sistemi produttivi locali nazionali ed internazionali, integrata nelle attività di produzione,

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distribuzione e commercializzazione delle reti di imprese e componente chiave delle strate-

gie competitive di comparti, filiere ed interi settori dell’industria e dei servizi. Riconoscendo

l’enorme strategicità del settore, che vale a livello mondiale circa 5.400 miliardi di euro, pari

al 13,8% del PIL, sui processi di crescita economica e insieme sugli equilibri sociali ed

ambientali dei territori, la Commissione Europea ha proposto nell’ottobre 2007 un “Piano di

azione per la logistica del trasporto merci” in particolare il trasporto dei prodotti deperibili,

con l’esplicito obiettivo di “migliorare il flusso di informazioni che accompagna il trasporto

fisico delle merci, semplificare le procedure amministrative, rafforzare la competenza e il

potere di attrazione del settore della logistica e incoraggiare i servizi di qualità”; il Piano è

orientato alla sostenibilità e per questo raccomanda “l’innovazione della logistica in ambienti

urbani e del trasporto sulle lunghe distanze concentrato nei “corridoi verdi”, ovvero quei

corridoi che, combinando l’uso di diversi modi di trasporto, offrono soluzioni efficaci dal

punto di vista del consumo energetico. Si è arrivati così a definire la logistica come l’insieme

delle attività organizzative, gestionali e strategiche che governano nelle aziende i flussi dei

materiali dall’acquisto delle materie presso i fornitori fino alla consegna dei prodotti finiti ai

clienti e al servizio post-vendita. La funzione della logistica è pertanto quella di program-

mare, gestire e controllare in maniera efficace il flusso dei beni, dei servizi e delle relative

informazioni, dal punto di origine al punto di consumo. Una classica definizione di logistica

assicura che: “i beni (o i servizi) giusti si trovino nel posto giusto, al momento giusto, nel giu-

sto assortimento, nella giusta quantità, nella giusta condizione di presentazione e al minimo

costo”. Tale attività, intesa come gestione globale e integrata dei flussi di merci e di informa-

zioni dal punto di approvvigionamento a quello di utilizzazione e di consumo, è diventata un

elemento decisivo nella valorizzazione commerciale dei prodotti agroalimentari e si confi -

gura come il nuovo fattore competitivo nella concorrenza fra imprese e nei rapporti clienti-

fornitori, grazie al suo grande potenziale di riduzione dei costi. L’obiettivo della logistica è

quello di organizzare un sistema che assicuri la presenza, al minor costo, dei necessari quan -

titativi di merce là dove sono richiesti, al momento ed al luogo voluto, riducendo il più possi -

bile gli stock lungo tutta la supply chain21. La logistica deve garantire, pertanto, ai prodotti un

21 La Supply Chain riguarda il processo di pianificazione, implementazione e controllo dell’efficiente ed efficace flusso e stoccaggio di materie prime, semilavorati e prodotti finiti e delle relative informazioni dal punto di ori -gine al punto di consumo con lo scopo di soddisfare le esigenze dei clienti. Questa definizione molto ampia include tutta la serie di attività logistiche quali customer service, previsione della domanda, gestione della comunicazione, gestione scorte, material handling, processazione dell’ordine, localizzazione di fabbriche e

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corretto iter di veicolazione, deve assicurare un idoneo processo distributivo. Questo tipo di

ragionamento ha una valenza ancor maggiore per le piccole medie imprese, che da sempre

rappresentano il tessuto produttivo italiano. I vantaggi della razionalizzazione logistica do-

vrebbero ricadere su tutti gli anelli della catena, in termini di maggiore efficienza e minori

costi, per tradursi infine anche sul consumatore finale. Esistono numerose definizioni di logi-

stica, adeguate ai diversi settori a cui sono applicabili: quella dell’US Council of Logistics

Management la definisce come: “quella parte del processo della supply chain che pro-

gramma, gestisce e controlla in maniera efficiente ed efficace il flusso di beni e servizi e delle

relative informazioni dal punto di origine al punto di consumo, con l’obiettivo di soddisfare le

richieste del cliente”.

L’Associazione Italiana di Logistica e di Supply Chain Management (AILOG) definisce la logi-

stica come: “L’insieme delle attività organizzative, gestionali e strategiche che governano

nelle aziende il flusso dei materiali e delle relative informazioni, dalle loro origini presso i

fornitori fino alla consegna dei prodotti finiti ai clienti ed al servizio post-vendita”. Dal punto

di vista organizzativo, una corretta gestione logistica porta al rafforzamento delle relazioni

fra tutti gli operatori economici, in un’ottica cosiddetta di supply chain management, dove gli

attori che partecipano alla valorizzazione di un prodotto non appartengono esclusivamente

al settore agroalimentare ma svolgono anche altre funzioni fondamentali lungo la catena di

fornitura, come il trasporto e la distribuzione fisica delle merci, la gestione delle scorte, la

commercializzazione. Inoltre, la logistica riveste un ruolo chiave nella valorizzazione

qualitativa dei prodotti soprattutto per quanto riguarda il sistema agroalimentare nazionale:

la corretta gestione della catena del freddo decisiva per il raggiungimento dell’obiettivo

qualità tende a diffondere l’utilizzazione delle tecnologie del freddo lungo tutta la catena

produttiva e commerciale e ad organizzare la circolazione di prodotti alimentari attorno a siti

funzionanti a temperature controllate, lo sviluppo di piattaforme logistiche, luogo di

concentrazione dell’offerta, di preparazione degli ordini e composizione dei carichi, giocano

un ruolo essenziale nella riorganizzazione dei circuiti di scambio e nella diffusione di nuove

forme di connessione delle reti di trasporto, il monitoraggio continuo della qualità e della

depositi, approvvigionamenti, imballaggio, gestione dei ritorni, trasporti, magazzinaggio e stoccaggio. Queste attività insieme agli input ed output formano il quadro delle componenti del Logistics Management, ovvero la gestione della logistica che può comprendere tutte o solo alcune delle attività suddette a seconda del fatto che sia più o meno integrata.

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rintracciabilità, la diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione sono tutti elementi

decisivi per le filiere nazionali più esposte alla concorrenza internazionale. L’Ismea (Istituto di

Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare) nel 2006 ha condotto, in collaborazione con il

Mipaf (Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali) un’indagine su logistica e

sistema agroalimentare italiano i cui risultati hanno dimostrato che circa un terzo dei costi

sostenuti del settore sono imputabili ai servizi di trasporto e logistica. Secondo Ismea, che

sottolinea il ruolo chiave che i servizi logistici hanno nella valorizzazione dei prodotti del

settore agro-alimentare, esistono in Italia significativi margini di razionalizzazione dei

processi e riduzione dei costi, indicando alcune criticità del sistema italiano su cui è

necessario intervenire:

La scarsa integrazione tra sistema produttivo e strutture distributive, causa della

scarsa diffusione in Italia della “filiera corta” (passaggio diretto dall’impresa di pro-

duzione alla grande distribuzione);

Le piccole dimensioni sia delle aziende produttive orto-frutticole, sia delle imprese

che offrono servizi logistici, giudicate queste ultime anche scarsamente innovative

e limitate dal punto di vista dei servizi e della copertura territoriale;

La bassa efficienza lungo i canali di distribuzione e di commercializzazione, il cui

effetto più evidente è la bassa percentuale di carichi completi;

Lo scarso ricorso all’intermodalità (il 90% dei trasporti sono effettuati su gomma) e

la bassa diffusione di Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione;

La scarsa presenza di società di servizi partecipate da operatori del servizio agricolo,

che potrebbero operare sulla struttura dei costi e aggregare la domanda in volumi

significativi di merce.

La ricerca di soluzioni per migliorare il sistema agroalimentare si dovrà concentrare ancora

su nuovi punti chiave: il primo tema è quello della “lunghezza della catena”: nonostante si

stia riducendo il numero dei passaggi tra produzione e distribuzione, la catena di distribu-

zione fisica delle merci si allunga, segno di inefficienza del sistema degli scambi. La presenza

dei grossisti resta elevata (superiore alla media europea), pari ad un terzo nelle forniture di

materie prime agricole alle imprese agroindustriali, con percentuali maggiori nel Centro e nel

Sud rispetto al Nord del Paese. Il secondo punto riguarda i costi di logistica, che rappresen-

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tano un quarto del fatturato delle imprese agroalimentari, con punte del 30-35% nel settore

dell’ortofrutta, a causa del più basso valore medio unitario del prodotto venduto. Il peso dei

costi di solo trasporto sul totale di quelli logistici è pari a un terzo, mentre l’insieme degli

oneri di gestione del magazzino (scorte, movimentazioni e picking22) copre un altro terzo dei

costi logistici. Dati che inducono i ricercatori a segnalare la necessità di razionalizzare sia gli

aspetti trasportistici (intermodalità, ottimizzazione dei carichi) sia quelli della gestione e

movimentazione di magazzino, attraverso un incremento delle piattaforme logistiche di con-

centrazione a monte e di rilancio delle spedizioni verso valle. Terzo punto, le carenze nazio-

nali in tema di catena del freddo e l’elevato tasso di contestazione sulla qualità, dovuto al

fatto che l’allungamento della catena e lo scarso coordinamento tra gli operatori a monte e a

valle rendono complicata la tracciabilità dei carichi. L’attenzione si sposta quindi sul concetto

di “servizio” e la ricerca di efficienza lungo i canali di commercializzazione e distribuzione è

condizione necessaria per il rafforzamento del vantaggio competitivo del sistema agroali -

mentare italiano. La sfida logistica, per la sua importanza strategica, per la dimensione glo-

bale e per le complesse ristrutturazioni e riorganizzazioni che essa comporta, segnerà ancor

più decisamente gli scenari competitivi agroalimentari nei prossimi anni. Alla luce dei risul-

tati dell’indagine e con l’obiettivo di migliorare le condizioni di competitività del sistema

agroalimentare attraverso il potenziamento del sistema logistico garantendo una maggiore

efficienza, l’istituto Ismea lancia ancora una serie di suggerimenti al Mipaf, relativi a quattro

aspetti importanti e distinti in funzione della nuova programmazione 2007-2013.

In via schematica questi sono:

1. Accesso al mercato

Le misure devono puntare al:

miglioramento degli standard qualitativi, diffondendo i controlli qualità e la certifica-

zione;

22 È quel processo con cui si prelevano dallo stoccaggio alcuni prodotti, in modo da comporre esattamente l’ordine richiesto dal cliente. È il prelievo frazionato di unità di carico di livello inferiore da unità di carico di livello superiore (prelievo di colli da pallet, di pezzi da scatole). Rappresenta uno dei costi maggiori dell’attività di magazzinaggio. Può essere svolto da operatori di magazzino che si recano tramite carrelli commissionatori alle postazioni di prelievo o dalla movimentazione dei materiali tramite sistemi automatici alle postazioni fisse degli operatori di magazzino.

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sostegno alla diffusione della rintracciabilità agroalimentare, che deve essere

accompagnata da una forte spinta in termini di innovazione tecnologica (ICT);

sostegno all’accesso ai mercati di sbocco in termini di marketing strategico, analisi di

competitività, benchmarking, ecc;

sostegno all’ammodernamento economico gestionale finanziario delle imprese, attra-

verso la diffusione di tecniche e procedure di controllo di gestione, contrattualistica

commerciale; accessibilità ai mercati, buone pratiche.

2. Logistica e supply chain management

favorire la razionalizzazione del trasporto ed il ricorso all’intermodalità attraverso gli

incentivi alle imprese;

potenziare le piattaforme logistiche, per la raccolta, lavorazione, confezionamento e

stoccaggio dei prodotti agroalimentari;

promuovere investimenti per la gestione della catena del freddo, attraverso inter-

venti mirati a livello di stoccaggio, lavorazione, trasporto delle merci;

individuare e costituire poli logistici agroalimentari (aree a forte vocazione ridistri-

buiva e di concentrazione dell’offerta, oltre che a vocazione produttiva).

3. ICT (Information and communication technology)

investimenti per piattaforme virtuali di scambio elettronico di informazioni, fra poli

logistici e imprese (agroalimentari, di trasporto e di logistica) ai fini del

tracking&tracing e della security.

4. Ricerca e innovazione, di processo e di prodotto

incentivazione di forme innovative di stoccaggio, di trasporto e di gestione

dell’intermodalità, finalizzata alla razionalizzazione della supply chain agroalimentare,

con una particolare attenzione ai prodotti deperibili;

le innovazioni di prodotto dovranno sempre di più accompagnare l’evoluzione dei

consumi nei suoi diversi aspetti: tempi e luoghi di acquisto, modelli di consumo di

riferimento, contenuto di servizi e di informazione in etichetta, definendo nuovi pro-

dotti ad alto contenuto “qualitativo”;

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le innovazioni di processo avranno un ruolo centrale nei prossimi anni, per quanto

riguarda le tecniche di conservazione, la gestione della durata commerciale del pro-

dotto, il packaging23, ecc. Sul tema dell’innovazione, quindi, occorre far incontrare la

domanda e l’offerta, attraverso strumenti che permettano alle rispettive imprese dei

due settori di convergere verso soluzioni accettate e desiderate dal mercato e per-

corribili dal punto di vista tecnico e tecnologico.

6.3 LA STRATEGICITÀ DELLA LOGISTICA PER I PRODOTTI DEPERIBILI E LA SITUAZIONE IN CAMPANIA

Alcuni settori produttivi, come quelli dei prodotti freschi e deperibili, sono chiamati a raffor-

zare i loro processi di modernizzazione per poterne cogliere le opportunità. Essi rappresen-

tano la vera cartina tornasole di queste tendenze in atto e per essi la logistica è lo strumento

irrinunciabile di controllo della variabile principale della loro azione economica: il fattore

“tempo”. La situazione dell’organizzazione logistica nazionale non è completamente positiva:

le imprese ortofrutticole sono in difficoltà nel controllare e gestire la struttura dei costi logi -

stici e si evidenzia, spesso, un ritardo nell’adeguamento delle dotazioni infrastrutturali sia di

tipo stradale che per quanto riguarda il trasporto intermodale (gomma-treno, gomma-aereo

in particolare). Per l’ortofrutta soprattutto, i “tempi commerciali” devono tener conto dei

“tempi biologici” dell’agricoltura ma non possono prescindere dai “tempi logistici”. Il focus è

dunque non solo sui “tempi di consegna” delle merci, ma anche sul “mantenimento delle

condizioni di qualità delle merci alla consegna”. In questi settori, la riorganizzazione della cir -

colazione dei flussi di merci e delle informazioni che le accompagnano, è diventata uno dei

principali fattori competitivi nella concorrenza fra imprese, grazie al suo grande potenziale di

riduzione dei costi. Una logistica efficiente ha un forte impatto sulla riduzione dei costi ma

“obbliga” le imprese commerciali e di produzione ad una forte riorganizzazione industriale.

L’impatto organizzativo avviene sia all’interno delle imprese attraverso processi, sia

all’esterno tramite relazioni commerciali e relazioni con gli operatori logistici. Il sistema logi-

stico dell’ortofrutta presenta forti carenze principalmente di tipo imprenditoriale. Lo svi-

luppo degli operatori è limitato dalla mancata specializzazione verso i prodotti ortofrutticoli

23 Il packaging è l’insieme degli elementi e materiali usati per confezionare il prodotto (struttura, etichetta e imballaggio) al fine di renderlo più attraente e più riconoscibile. Si identifica nella fase finale dei processi di produzione.

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freschi. L’assenza di strutture di supporto al processo logistico dedicate per questi prodotti e

la mancanza di una visione sistemica del comparto limita le possibilità del territorio di acca-

parrarsi gran parte del valore aggiunto di produzioni fortemente qualitative24. In un contesto

come quello appena descritto ci sono gli spazi per realizzare con profitto un progetto di inte -

grazione logistica in grado di generare:

Ottimizzazione del traffico di prodotti ortofrutticoli;

Attività di lavorazione dei prodotti ad alto valore aggiunto;

Occupazione di un numero di addetti compreso dai 150 ai 400;

Profitto per le imprese logistiche.

Il trasporto dell’ortofrutta prodotta nel nostro mezzogiorno verso i mercati di consumo,

Nord Italia e Centro Europa, avviene attraverso le direttrici di traffico autostradale per l’80%

su gomma. Solo una piccola parte utilizza l’intermodalità nave-gomma. Gli operatori della

logistica in Campania delineano un’offerta fortemente polverizzata, difatti, nessuno di tali

operatori detiene una quota di mercato superiore all’1%. La gamma dei servizi offerti nella

maggioranza dei casi, è limitata al trasporto; molti operatori, pur avendo strutture adeguate

allo stoccaggio di deperibili, si limitano ad effettuare l’attività trasportistica. La modalità di

trasporto preferita è quella stradale, si ricorre al trasporto ferroviario solo quando il tra-

sporto su gomma risulta impossibile da effettuare, per cause esterne ed immodificabili. Il

trasporto combinato strada-mare, invece, interessa soltanto le movimentazioni in entrata

nella regione, e riguarda per lo più, i flussi di frutta esotica. In merito alla committenza, gli

operatori logistici Campani, sono contattati dai produttori, dai grossisti o dagli spedizionieri,

raramente dalla GDO (grande distribuzione organizzata). I fattori di competitività sono ricon-

ducibili al prezzo ed alla qualità, che si identifica essenzialmente con la tempestività del ser-

vizio; essendo il mercato fortemente concorrenziale, gli operatori logistici tendono a compe-

tere soprattutto contraendo il prezzo. Dalla suddetta analisi emerge, che, lo sviluppo di tale

comparto, non può prescindere dalla specializzazione e contestualmente dall’integrazione

degli operatori della logistica, fattori ancora assenti nel panorama degli operatori campani.

24 Molti prodotti agroalimentari italiani possono fregiarsi di denominazioni di origine senza contare che i pro -dotti italiani sono conosciuti, acquistati e imitati in tutto il mondo.

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PRINCIPALI CARATTERISTICHE DEGLI OPERATORI LOGISTICI CAMPANI NEL SETTORE DELL’ORTOFRUTTA

Marcata polverizzazione dell’offerta

Gamma dei servizi offerti: trasporto

Modalità di trasporto: su gomma

Committenza: eterogenea tra tutti i soggetti della filiera ortofrutticola

Fattori di competitività: prezzo e qualità

Per essi, infatti, la logistica è qualcosa di più del semplice trasferimento di una merce da un

luogo ad un altro del territorio, ma rappresenta l’insieme di tutte quelle tecniche e funzioni

organizzative, concentrazione dell’offerta in piattaforma, stoccaggio, rottura e manipola-

zione del carico, tecniche di magazzinaggio, preparazione degli ordini, gestione della catena

del freddo, che sono lo strumento essenziale per garantire la consegna del prodotto al

cliente nei modi, nei tempi e ai costi desiderati da quest’ultimo. In questo contesto, il settore

agroalimentare in generale, ed ortofrutticolo in particolare, deve cercare di utilizzare la logi-

stica soprattutto come elemento a garanzia della qualità finale dei prodotti, obiettivo da

realizzare tramite l’introduzione di sistemi avanzati da immettere su scala industriale ed a

costi sostenibili, in grado di assicurare la qualità dei prodotti e la conservazione delle loro

caratteristiche organolettiche. Lo strumento logistico deve essere finalizzato a far arrivare

sulla tavola dei consumatori europei a costi competitivi, anche in relazione alla corrispon-

dente situazione di mercato, frutta ed ortaggi ad un punto ottimale di maturazione e ciò gra -

zie a soluzioni tecnologiche innovative e modalità di trasporto sostenibili dal punto di vista

ambientale ed economicamente valide. Le stesse criticità valgono anche per quanto riguarda

la capacità frigorifera: l’Italia può contare su circa 3 milioni di metri cubi di freddo negativo e

positivo (da -25°C a +14°C), meno della metà di quanto può contare la Germania, un terzo

rispetto all’Olanda. Vi è ancora molto da fare, sia per quanto riguarda la gestione logistica e

informatizzata degli ordini e degli approvvigionamenti da parte degli operatori, sia rispetto

alla carenza di poli e aree logistiche per la gestione intermodale dei trasporti come la

carenza di “freddo” lungo la catena distributiva ma tutto ciò dimostra come il sistema agroa-

limentare si stia muovendo verso un miglioramento della competitività e dell’efficienza.

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