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Ero(S)tuprato Magritte, Le viol, 1934 “Il soggetto donna diede origine allo Stupro. In questo quadro un volto di donna è costituito dagli elementi essenziali del suo corpo. Gli occhi sono

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Ero(S)tuprato

Magritte, Le viol, 1934

“Il soggetto donna diede origine allo Stupro. In questo quadro un volto di donna è

costituito dagli elementi essenziali del suo corpo. Gli occhi sono diventati seni, il

naso è rappresentato dall'ombelico e i genitali sostituiscono la bocca".

Magritte, La ligne de vie, 1938

La parola stupro deriva dal latino stuprum, e significa propriamente onta, disonore.

L’etimologia è incerta, possiamo farla derivare dalla radice TUP-, ottundere, urtare,

donde il sanscrito TUP-ÂM, colpisco, offendo, e l’antico sloveno TÙP-ATI,

palpitare, battere, TŬP-ŬTATI pestare, il greco TYP-TÔ batto, colpisco, ferisco, per

alcuni deriva dall’antico tedesco STUMB-ALÔN, battere, percuotere.

Può essere fatta risalire altrimenti alla radice STUP- che è la stessa della parola

stupire.

Stupire viene dal latino stupère portato alla quarta coniugazione, che

etimologicamente ha il senso di stare fermo, immobile, onde l’altro di essere stordito,

restare attonito, dalla radice STUP-, STUBH-, STAP-, STABH-, ampliamento di

STA-, che ha il senso di essere o rendere fermo, stabile.

In un certo senso lo stupro incarna entrambe queste “anime etimologiche”, il soggetto

che subisce l’abuso viene colpito, ferito, disonorato, ed è reso fermo, trattenuto,

immobilizzato.

La ragione che mi ha spinto ad affrontare questa tematica relativa ad una perversione

dell’eros, ad una deviazione dalla norma, è un articolo letto sul Post Internazionale,

nel quale viene portata alla ribalta, con un impatto notevole, la storia di Emma

Sulkowicz, studentessa della Columbia University, violentata da un compagno di

università, che ha deciso di trascinarsi dietro il materasso sul quale ha subito l’abuso,

ogni giorno, come forma di protesta, poiché la sua testimonianza non è stata ritenuta

verosimile.

Pochi giorni fa Emma si è laureata, recandosi alla cerimonia togata e con il materasso

al seguito, aiutata nel sostenerlo dalle sue compagne. La notizia ha fatto il giro del

mondo, ed è stata riportata anche dai maggiori quotidiani italiani.

Emma si è fatta portavoce dei diritti delle donne, e in particolar modo di quel 20% di

studentesse che hanno subito un abuso o un tentativo di violenza nei campus

americani, secondo i dati del 2012 dell’Istituto Nazionale di Sanità.

Tornando all’etimologia del termine, subire un abuso è talmente disonorevole per una

donna, che questa non sempre riesce a denunciare, sentendosi colpevole, sporca, ma

soprattutto responsabile.

La legislazione dovrebbe fornire un ausilio, un incentivo per queste vittime, invece

spesse volte si dimostra sessista, retrograda, e lacunosa.

Prendendo in esame il caso italiano, lo stupro non era considerato reato contro la

persona ma contro la morale pubblica, fino al 1996, quando era ancora vigente il

cosiddetto Codice Rocco, promulgato durante il ventennio fascista.

Questo significa che solo venti anni fa lo stupro non era lesivo, legislativamente

parlando, dei diritti individuali della persona, ma eventualmente dell’onore del pater

familias, secondo l’impostazione patriarcale della famiglia fascista.

Alcune sentenze della Cassazione sono ancora oggi interessanti per la loro natura

altamente umiliante nei riguardi dell’abusato, se ne riportano alcune delle più

eclatanti:

- Aprile 2006: “Se l’ambiente nel quale viene commesso è degradato, il reato di

stupro, anche se su minore, è considerato meno grave”. Così ha deciso la

Corte d’appello di Roma, che ha concesso le attenuanti generiche, applicando

anche uno sconto di pena, a due imputati accusati di aver ripetutamente

violentato una ragazzina prima e dopo il compimento del suo quattordicesimo

anno d’età.

- Aprile 2006: La sentenza della Terza Sezione penale della Cassazione decide

che “lo stupro di una minorenne è meno grave se la ragazzina ha già avuto

rapporti sessuali”.

Nel 1973, Franca Rame subisce una violenza sessuale che sceglie di denunciare in un

monologo, crudo, toccante, intenso, dal titolo più che eloquente: “Lo Stupro”, scritto

nel 1975, e poi coraggiosamente portato prima in teatro e poi in televisione, alla RAI,

davanti a milioni di telespettatori.

La potenza delle sue parole è straordinaria, l’effetto dell’ipotiposi è tale che sembra

di assistere realmente alla scena, di viverla, inermi, incapaci.

Probabilmente era proprio questo l’effetto che voleva suscitare sul pubblico, voleva

rendere consapevoli dell’incapacità e dell’impossibilità di reagire, contrattaccare,

urlare, contro le bestie.

Per la narrazione utilizza un espediente, allora non si parlava molto di abusi sessuali,

ed afferma di voler narrare una vicenda apparsa su Quotidiano Donna. In realtà fu

proprio la Rame a subire lo stupro, come sappiamo, il 9 marzo del 1973, da parte di

un gruppo di neofascisti, che decise di punirla per le sue idee politiche, e in quanto

donna, ne abusò sessualmente.

Ha sconfitto la violenza con la parola, non ha accettato il silenzio esistenziale e

politico, è riuscita ad urlare, alla fine. Dando voce a tutte le donne, che non ce

l’hanno avuta, o che l’hanno perduta.

“Quello che mi tiene da dietro, tende tutti i muscoli, li sento intorno al mio corpo.

Non ha aumentato la stretta, ha solo teso i muscoli, come ad essere pronto a tenermi

più ferma. Il primo che si era mosso, mi si mette tra le gambe, in ginocchio,

divaricandomele. È un movimento preciso, che pare concordato con quello che mi

tiene da dietro, perché subito i suoi piedi si mettono sopra ai miei a bloccarmi.

Io ho su i pantaloni. Perché mi aprono le gambe con su i pantaloni? Mi sento peggio

che se fossi nuda!

Da questa sensazione mi distrae un qualche cosa che subito non individuo, un calore,

prima tenue e poi più forte, fino a diventare insopportabile, sul seno sinistro.

Una punta di bruciore. Le sigarette, sopra al golf fino ad arrivare alla pelle.

Mi scopro a pensare cosa dovrebbe fare una persona in queste condizioni.

Io non riesco a fare niente, né a parlare né a piangere.

Mi sento come proiettata fuori, affacciata a una finestra, costretta a guardare

qualche cosa di orribile.

Quello accucciato alla mia destra accende le sigarette, fa due tiri e poi le passa a

quello che mi sta tra le gambe. Si consumano presto.

Il puzzo della lana bruciata deve disturbare i quattro: con una lametta mi tagliano il

golf, davanti, per il lungo, mi tagliano anche il reggiseno, mi tagliano anche la pelle

in superficie.

Nella perizia medica misureranno ventuno centimetri. Quello che mi sta tra le

gambe, in ginocchio, mi prende i seni a piene mani, le sento gelide sopra le

bruciature.

Ora mi aprono la cerniera dei pantaloni e tutti si danno da fare per spogliarmi: una

scarpa sola, una gamba sola.

Quello che mi tiene da dietro si sta eccitando, sento che si struscia contro la mia

schiena.

Ora quello che mi sta tra le gambe mi entra dentro. Mi viene da vomitare”.

(…)

“Cammino, cammino non so per quanto tempo. Senza accorgermi, mi trovo davanti

alla Questura.

Appoggiata al muro del palazzo di fronte, la sto a guardare per un bel pezzo. Penso a

quello che dovrei affrontare se entrassi ora. Sento le loro domande. Vedo le loro

facce, i loro mezzi sorrisi.

Penso e ci ripenso. Poi mi decido.

Torno a casa, torno a casa. Li denuncerò domani”.

The Rape of Lucrece

Lucrezia, la casta e bellissima moglie di Collatino, stuprata da Sesto Tarquinio,

incarna il mito della Roma Repubblicana.

In età augustea ci si ripropone di celebrare la magnitudo, i virtus e i mores

dell’originario popolo romano attraverso la storiografia.

È in questo contesto che dobbiamo iscrivere l’opera di Tito Livio, “Ab Urbe

Condita”, in cui viene narrata la fine della monarchia, risalente al 509 a.C., e con

questa la cacciata dei Tarquini da Roma.

“Qualche giorno dopo, Sesto Tarquinio, all'insaputa di Collatino, andò a Collazia

con un solo compare. Lì fu accolto ospitalmente perché nessuno era al corrente dei

suoi progetti. Finita la cena, si andò a coricare nella camera degli ospiti. Invasato

dalla passione, quando capì che c'era via libera e tutti erano nel primo sonno,

sguainata la spada andò nella stanza di Lucrezia che stava dormendo: la

immobilizzò con la mano puntata sul petto e disse: “Lucrezia, chiudi la bocca! Sono

Sesto Tarquinio e sono armato. Una sola parola e sei morta”.

La povera donna, svegliata dallo spavento, capì di essere a un passo dalla morte.

Tarquinio cominciò allora a dichiarare il suo amore, ad alternare suppliche a

minacce e a tentarle tutte per far cedere il suo animo di donna. Ma vedendo che

Lucrezia era irremovibile e non cedeva nemmeno di fronte all'ipotesi della morte,

allora aggiunse il disonore all'intimidazione e le disse che, una volta morta, avrebbe

sgozzato un servo e glielo avrebbe messo nudo accanto, in modo che si dicesse che

era stata uccisa nel degrado più basso dell'adulterio. Con questa spaventosa

minaccia, la libidine di Tarquinio ebbe, per così dire, la meglio sull'ostinata castità

di Lucrezia. Quindi, fiero di aver violato l'onore di una donna, ripartì. Lucrezia,

affranta dalla grossa disavventura capitatale, manda un messaggero al padre a

Roma e uno al marito ad Ardea pregandoli di venire da lei, ciascuno con un amico

fidato, e di non perdere tempo perché era successa una cosa spaventosa. Arrivarono

così Spurio Lucrezio con Publio Valerio, figlio di Voleso, e Collatino con Lucio

Giunio.

La trovano seduta nella sua stanza e immersa in una profonda tristezza. Alla vista dei

congiunti, scoppia a piangere. Il marito allora le chiede: “Tutto bene?” Lei gli

risponde: “Come fa ad andare tutto bene a una donna che ha perduto l'onore? Nel

tuo letto, Collatino, ci son le tracce di un altro uomo: solo il mio corpo è stato

violato, il mio cuore è puro e te lo proverò con la mia morte. Ma giuratemi che

l'adutero non rimarrà impunito. Si tratta di Sesto Tarquinio: è lui che ieri notte è

venuto qui e, restituendo ostilità in cambio di ospitalità, armato e con la forza ha

abusato di me. Se siete uomini veri, fate sì che quel rapporto non sia fatale solo a me

ma anche a lui”. Uno dopo l'altro giurano tutti. Cercano quindi di consolarla con

questi argomenti: in primo luogo la colpa ricadeva solo sull'autore di quell'azione

abominevole e non su di lei che ne era stata la vittima; poi non è il corpo che pecca

ma la mente e quindi, se manca l'intenzione, non si può parlare di colpa. Ma lei

replica: “Sta a voi stabilire quel che si merita. Quanto a me, anche se mi assolvo

dalla colpa, non significa che non avrò una punizione. E da oggi in poi, più nessuna

donna, dopo l'esempio di Lucrezia, vivrà nel disonore”.

Afferrato il coltello che teneva nascosto sotto la veste, se lo piantò nel cuore e,

piegandosi sulla ferita, cadde a terra esanime tra le urla del marito e del padre”.

Tito Livio, Ab Urbe Condita, I, 58

Il mito, ripreso dall’opera di Tito Livio, viene messo in versi, secondo lo schema

rimico inglese ABABBCC, detto rhyme royal, nel 1594 da William Shakespeare, che

lo da alle stampe dedicandolo al conte di Southampton, Henry Wriothesly.

Alla presentazione dell’argomento, che narra prosasticamente ed in breve l’accaduto,

seguono i 1855 versi, suddivisi in 256 stanze.

From the besieged Ardea all in post,

Borne by the trustless wings of false desire,

Lust-breathed Tarquin leaves the Roman host,

And to Collatium bears the lightless fire

Which, in pale embers hid, lurks to aspire

And girdle with embracing flames the waist

Of Collatine's fair love, Lucrece the chaste.

Dall’assediata Ardea in grande fretta,

d’illecito desio sull’ali infide,

Tarquinio lascia il campo dei Romani

ed a Collazio porta un fuoco buio,

brace nascosta che vuol divampare

ed abbracciare il corpo di Lucrezia,

di Collatino sposa bella e casta.

Nella prima stanza quasi tutti gli elementi che ritroveremo all’interno del poema

vengono già presentati. Tarquinio, Collatino e Lucrezia, i protagonisti della vicenda,

Collazio, dove ha luogo il terribile delitto, il fuoco della passione, bramosa di

divampare, accesa involontariamente in Tarquinio dalle parole lusinghiere di

Collatino nei riguardi della moglie: Lucrece the chaste.

Now stole upon the time the dead of night,

When heavy sleep had closed up mortal eyes:

No comfortable star did lend his light,

No noise but owls' and wolves' death-boding cries;

Now serves the season that they may surprise

The silly lambs: pure thoughts are dead and still,

While lust and murder wake to stain and kill.

-

And now this lustful lord leap'd from his bed,

Throwing his mantle rudely o'er his arm;

Is madly toss'd between desire and dread;

Th' one sweetly flatters, th' other feareth harm;

But honest fear, bewitch'd with lust's foul charm,

Doth too too oft betake him to retire,

Beaten away by brain-sick rude desire.

È il cuore della notte, il sonno serra

gli occhi ai mortali, non v’è alcuna stella,

né altro rumore che di gufi e lupi

che con le loro grida annuncian morte

ai miti agnelli, ogni pensiero puro

tace, ma la lussuria e l’assassinio

si sveglian pronti a uccidere e violare.

-

Balza dal letto Tarquinio, bramoso,

gettandosi il mantello sulle spalle,

mentre paura con desio combatte:

l’uno lusinga, l’altra teme il danno.

Ma la lussuria incanta la paura,

che ormai sconfitta si ritira e cede

al desiderio folle ed impetuoso.

Nelle stanze centrali, Tarquinio viene presentato come titubante, incerto, spaventato,

ma la voglia di possedere Lucrezia è più forte di qualunque ragionamento. La lussuria

ha la meglio sulla razionalità.

What win I, if I gain the thing I seek?

A dream, a breath, a froth of fleeting joy.

Who buys a minute's mirth to wail a week?

Or sells eternity to get a toy?

For one sweet grape who will the vine destroy?

Or what fond beggar, but to touch the crown,

Would with the sceptre straight be strucken down?

“Se ottengo ciò che cerco vinco un gaudio

più breve di una schiuma, un soffio, un sogno.

Per gioia d’un istante pianger giorni?

Vender l’eternità per un trastullo?

Buttar la vigna per gustare un chicco?

Che idiota, per sfiorare la corona,

si lascerebbe abbatter dallo scettro?

Il linguaggio è chiaramente ricco di doppi sensi, a parte la connotazione bramosa a

passionale di Tarquinio, ravvisabile fin dai primi versi, in questa stanza viene

palesata attraverso il ricorso all’ambiguità della parola sceptre.

Her lily hand her rosy cheek lies under,

Cozening the pillow of a lawful kiss;

Who, therefore angry, seems to part in sunder,

Swelling on either side to want his bliss;

Between whose hills her head entombed is:

Where, like a virtuous monument, she lies,

To be admired of lewd unhallow'd eyes.

-

Without the bed her other fair hand was,

On the green coverlet; whose perfect white

Show'd like an April daisy on the grass,

With pearly sweat, resembling dew of night.

Her eyes, like marigolds, had sheathed their light,

And canopied in darkness sweetly lay,

Till they might open to adorn the day.

La gota, rosa, poggia sulla mano

che, giglio, al guancial ruba il giusto bacio;

ed esso, irato, si spalanca e gonfio

reclama d’ambo i lati il suo diletto:

sepolto il capo tra le due colline

giace ella, monumento di virtù,

che un impudico occhio profano ammira.

-

Sulla coperta verde era poggiata

l’altra sua mano, il cui perfetto bianco

pareva margherita sopra l’erba,

e una rugiada il suo sudor di perla.

Gli occhi, fiorranci, inguainano la luce,

e attendon sotto un buio baldacchino

di spalancarsi ad adornare il giorno.

Lucrezia viene associata al bianco, alla purezza, al giglio. Candida, casta, eterea,

posta fortemente in contrapposizione con la figura di Tarquinio.

'Thus I forestall thee, if thou mean to chide:

Thy beauty hath ensnared thee to this night,

Where thou with patience must my will abide;

My will that marks thee for my earth's delight,

Which I to conquer sought with all my might;

But as reproof and reason beat it dead,

By thy bright beauty was it newly bred.

“Se vuoi rimproverarmi, ti precedo:

è la bellezza tua che t’ha insidiato,

ed ora hai da piegarti alla mia voglia,

che al suo piacer t’ha sulla terra scelto;

di tutto ho fatto per domarla, invano:

se biasimo e ragione l’uccideva,

la tua bellezza la resuscitava.

'I have debated, even in my soul,

What wrong, what shame, what sorrow I shall breed;

But nothing can affection's course control,

Or stop the headlong fury of his speed.

I know repentant tears ensue the deed,

Reproach, disdain, and deadly enmity;

Yet strive I to embrace mine infamy.'

This said, he shakes aloft his Roman blade,

Which, like a falcon towering in the skies,

Coucheth the fowl below with his wings' shade,

Whose crooked beak threats if he mount he dies:

So under his insulting falchion lies

Harmless Lucretia, marking what he tells

With trembling fear, as fowl hear falcon's bells.

'Lucrece,' quoth he,'this night I must enjoy thee:

If thou deny, then force must work my way,

For in thy bed I purpose to destroy thee:

That done, some worthless slave of thine I'll slay,

To kill thine honour with thy life's decay;

And in thy dead arms do I mean to place him,

Swearing I slew him, seeing thee embrace him.

“Nel profondo dell’anima ho discusso

che torto, onta e dolore seguiranno;

ma nulla può frenare il desiderio,

fermar la corsa della furia cieca.

So che verranno pentimento, pianto,

biasimo, sdegno, mortale inimicizia;

ma ad abbracciar l’infamia mia m’affretto”.

La sua spada romana intanto leva,

che torreggiante come un falco in cielo

con ombra d’ali copre la sua preda,

e la minaccia col suo becco adunco.

Tal l’oltraggioso brando sull’inerme

Lucrezia che tremante ascolta, preda

che ha visto il falco e udito il suo sonaglio.

“Stanotte ti godrò”, dice, “Lucrezia.

Se mi resisti, userò la forza,

e ti distruggerò sopra il tuo letto;

e poi ucciderò qualche tuo schiavo,

in modo da ammazzarti e onore e vita,

lo metterò tra le tue braccia morte,

e giurerò che lì l’ho visto e ucciso.

In queste stanze ritroviamo i motivi già presenti nell’ Ad Urbe Condita di Tito Livio,

Tarquinio vittima della sua passione, della lussuria, del desiderio, prende con la forza

Lucrezia, sorprendendola nel sonno e minacciandola con la spada.

Per il disonore e la vergogna, Lucrezia, una volta confessato l’abuso subito, sguainata

la spada si suicida, abbandonando il suo corpo su di essa.

Lucrezia è la prima donna politicamente influente nell’antichità romana,

parallelamente ad Elisabetta I, the Virgin Queen, la sovrana d’Inghilterra. Donna

potente, casta, integra. A mio avviso in questi versi è ravvisabile un omaggio a sua

maestà, anche perché come sappiamo Shakespeare li compone in un periodo molto

particolare, i teatri sono chiusi a causa della peste e l’autore vuole dimostrare di non

essere solo un drammaturgo, ma di sapersi cimentare eccellentemente anche nell’arte

poetica, ritenuta superiore a quell’epoca.

Ambra Bianchi