· Rupnik-Campatelli, “Vedo un ramo di mandorlo” 118 119 Sì, non è semplicemente il peccato...

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Transcript of  · Rupnik-Campatelli, “Vedo un ramo di mandorlo” 118 119 Sì, non è semplicemente il peccato...

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Jean-Paul Sartre?

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Rupnik-Campatelli, “Vedo un ramo di mandorlo”

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Dalla fede alla religione

Boguljub si fermò per un attimo come incantato a

guardare la fila di formiche che uscivano da sotto un

mattone che lastricava l’aia.

“Come queste formichine! Sì, per secoli ci siamo pre-

occupati solo di stare in fila nell’ordine giusto, abbiamo

gestito tutto con la disciplina e la morale. Ma se la vita

nuova è comunicazione di una vita di comunione, e l’e-

Martedì (N. Govekar). Da: M.I. Rupnik - M. Campatelli, "Vedo un ramo di mandorlo", Roma 2015

Rupnik-Campatelli, “Vedo un ramo di mandorlo”

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sperienza di questa vita si fa solo nella comunione, allora è

chiaro che la formazione vorrà dire introdurre al rappor-

to con Te che diventa un incontro così integro da non

escludere nessuna dimensione umana, che, anzi, coinvol-

ge tutto quello che siamo. E anche il fare teologia c’entra

con questo. Se tu sei l’Amore, la relazionalità assoluta,

allora non sei conoscibile in un modo puramente astratto,

concettuale, distaccato dall’esperienza del relazionarsi con

Te. Fare teologia sarà possibile solo a partire da questa

esperienza e significherà soltanto riflettere sull’esperienza

di questo coinvolgimento relazionale e avere come sco-

po la sua testimonianza viva, il rimando ad essa. È allora

solo nella memoria della Chiesa come modo di esistenza

divinoumano, che custodisce l’esperienza della vita nuo-

va, che si coglie come tutto quello che fa parte della vita

della Chiesa sia una realtà sacramentale, simbolica, perché

esiste solo per essere continuamente trasformata in quella

realtà che si rivela per mezzo suo, per essere espressione

e mezzo della relazione personale con Te.

Mi interesserebbe tanto, Signore, andare in fondo a

questa cosa, capirne le ragioni profonde, non solo quel-

le storiche e sociologiche. Religio imperii… sì, qui c’è

certamente un motivo per spiegare come questa realtà

vitale, relazionale della fede, sia passata in secondo piano

rispetto all’elaborazione intellettuale dell’esperienza, alla

prescrizione dell’agire...

Certo, non è l’istituzionalizzazione della Chiesa in se

stessa ad essere un male. Di per sé, i nostri fratelli bizantini

venerano Costantino come santo! La Chiesa non ha la

vocazione di essere una comunità di eletti senza nessun

contatto con il mondo, separata dalla sua vita. Ha a che fare

con tutta la vita dell’uomo e con l’assunzione di questa vita

e del mondo e la loro trasfigurazione. E questa assunzione

non è un processo magico, automatico, quantificabile.

Perciò non posso dire che istituzioni, strutture, modi di

organizzare la vita significhino automaticamente decaden-

za e secolarizzazione. Come non è l’impero in sé che salva

la Chiesa, neanche la opprime con la sua mondanità. Al di

là degli imperi o delle schiavitù, delle glorie o delle bas-

sezze, la Chiesa possiede un altro spazio, non agitato dalle

cose, liturgico, dove vive e si muove, e da dove guarda ed

affronta ogni cosa, sia benedizioni che sventure.

Ma proprio ciò significa che istituzioni, strutture, mo-

di di organizzare l’esistenza possono entrare nel tessuto

organico di questa vita ecclesiale solo se sono riflessi del

regno. La loro natura è iconica, la loro verità non sta

nell’istituzione stessa, ma solo in relazione a qualcos’al-

tro, a Te. Per questo mi sembra interessante che, proprio

all’apogeo del ‘mondo cristiano’ medievale, sia da noi che

a Bisanzio, ci sia stato il trionfo del monachesimo, cioè

della rinuncia al mondo.11 Con ciò forse si riconosceva

che, se la Chiesa è nel mondo perché illumini, giudichi e

porti a compimento la vita, la storia e il tempo di questo

mondo attraverso la sua partecipazione all’escatologia, in

quel mondo dove tutto era ‘cristiano’ proprio la Chiesa

veniva meno a questo suo compito, per cui c’era bisogno

di qualcuno che, al suo interno, ricordasse con forza tale

dimensione escatologica.

11 Cf G. Florovsky, “Antinomies of Christian History: Empire and Desert”, The Greek Orthodox Theological Review 3/2 (1957) 133-59, ripubbl. in Id., Collected Works II: Christianity and Culture, Belmond, Mass. 1974, 67-100.

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Sì, non è semplicemente il peccato di alcuni a rendere le strutture e l’aspetto organizzativo opachi, secolarizzati. Il problema è quando questa organizzazione e queste strutture non sono vissute nella verità della vita nuova, ma divengono criterio a loro stesse. La struttura della Chiesa non può essere semplicemente un aggiustarsi alle sue necessità organizzative o a quelle con cui si relaziona al mondo. Tutta la sua struttura deve essere significativa, trasparente. Attraverso il sigillo del tuo Spirito, che rinvia sempre oltre la storia, il mondo, le istituzioni diventano sacramentali, cioè realtà di partecipazione e di rivelazio-ne. Perdono la loro autosufficienza ed esistono e dipen-dono costantemente dall’accoglienza di questa vita che viene da Te. E così diventano mezzo di partecipazione alla vita che significano.

Ma ad un certo punto nella storia è successo che que-ste istituzioni e strutture si sono sclerotizzate in forme finalizzate a se stesse, autosufficienti, annullando con ciò il loro carattere rivelativo, iconico. E questo si sposa con una fede trasformata in religione. Proprio così. La fede è una specie di estasi. Se Tu sei un Dio che è relazione, la comunione tra Padre, Figlio e Spirito Santo, allora credere in Te significa necessariamente toccare la relazione: non si può credere se non tramite relazione. La fede presuppone pertanto la rinuncia all’individualità, all’io, all’autosuffi-cienza, e la trasformazione della vita in comunione, secon-do il modo tuo, quello trinitario, che corrisponde alla vita vera. La religione invece è rispondere al bisogno di Dio rimanendo nel quadro della propria individualità. La fede è l’accoglienza della vita nuova, di una nuova esistenza. La religione invece insegna cosa bisogna fare per arrivarci, per conquistarla. La religione fa leva su come realizzare nella

vita una dottrina religiosa, un insegnamento, e sui meriti

e i benefici che questo comporta.

Ma intendere la fede come religione non è una cosa

del medioevo, della controriforma o di chissà quando nel

passato. Ricordo che, qualche anno fa, Vassilij mi ha por-

tato un giornale dove un politico molto influente diceva

che il cristianesimo va promosso perché ha una grande

utilità sociale e, quello che è peggio, a lui faceva eco un

vescovo che, praticamente, riduceva tutta l’evangelizza-

zione alla promozione di valori. Ma, quando si comincia a

parlare dell’utilità sociale della fede – che è una questione

di vita, di persone che vivono una qualità di vita radical-

mente nuova, cioè accolgono il dono, in modo che la

loro umanità diventi l’umanità del tuo Figlio –, significa

che alla fine non consideriamo il cristianesimo nella sua

vera natura, ma solo negli effetti che produce. E, pur di

moltiplicare questi effetti, si verniciano di una superficiale

patina cristiana le strutture di una civiltà con cui organiz-

ziamo la vita. Ma con ciò spariscono i confini tra il mondo

e la comunità dei credenti, di coloro che liberamente e per

amore fanno inabitare Te nei loro cuori. Se non trasmet-

tiamo la vita nuova, ma semplicemente ne ricaviamo dei

valori in base ai quali dover vivere, è chiaro che la gente

non avrà la forza di realizzare questa vita. E prima o poi

passerà da un orientamento di vita ispirato a tali valori,

senza tuttavia avere esperienza della vita che li ha generati,

alla mentalità del mondo. Non mi spiego in altro modo la

rapidità con cui si è sgretolato un mondo che fino a pochi

decenni fa era tutto formalmente cristiano”.

Boguljub fu distolto per un attimo dalle sue riflessioni

dal rumore del trattore. Padre Justin, che lo guidava, tor-

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nava dal campo con un nuovo carico di granturco. Quasi

sopraffatta dal rumore del motore, si sentì la sua voce

scherzosa: “Attenti, voi due! O meglio, devo stare attento

io a non seppellirvi sotto tutte queste pannocchie!”

Padre Justin scaricò un altro rimorchio di granturco

davanti a Boguljub e Stipan. Il mucchio crebbe di nuovo,

tanto da impedire a Boguljub di guardare oltre. Quasi se-

polto dalla montagna di pannocchie, il monaco si rituffò

nel suo pensiero, ritrovando immediatamente il filo.

“Sì, una dottrina religiosa di carattere utilitaristico che

ha come scopo il miglioramento morale degli individui

della società. E, in tempi più vicini a noi, una sorta di

filantropia, di cultura umanista che protegge e custodisce

un insieme di valori antropologici che potrebbero essere

riconducibili al cristianesimo... Per quanti secoli abbiamo

ascoltato nelle nostre chiese omelie, istruzioni, catechesi

tutte riassumibili nell’esortazione a migliorare noi stessi,

il nostro comportamento, la società, in nome della santa

dottrina e della morale cristiana, in nome dei precetti

della Chiesa e della spiritualità!

Oh, Signore, tutto il tuo scontro con lo zoccolo duro

dei farisei, degli scribi e delle istituzioni religiose è stato

proprio per la novità radicale che la tua incarnazione ha

portato all’uomo e all’umanità, una novità che non ha

praticamente nulla a che fare con questa struttura di una

religione che si autogiustifica e si salva da sola! Ma tu, nel

vangelo di Giovanni, nel tuo incontro con Nicodemo,

dici che la questione è nascere dall’alto. Bisogna arri-

vare a scoprire i vuoti abissali di vita dentro alla nostra

esistenza, riconoscere che non ci salva niente di quello

che possiamo vantare come un merito – impeccabilità

individuale, conoscenza, virtù… – e che la vita ci viene invece come dono solo dall’unione con Te, quindi come un dono di comunione. Ed è proprio il riconoscimento della mancanza di vita a diventare lo spazio alla comuni-cazione della vita che viene da Te. Questa è la Chiesa: non persone unite dalla loro perfezione morale, o dal fatto che accettino tutte, individualmente, una serie di dottrine, e neppure delle intenzioni o degli scopi comu-ni. Ad unirle è la vita che condividono e che ha in Te la sua origine. Ognuno di noi offre la sua individualità per configurarsi alla tua morte e risurrezione, e questa offerta diventa il mistero di comunione con Te e tra di noi. E questo cambia tutto. Perché il dono della vita come comunione non significa l’aggiunta di una qualità particolare alla nostra esistenza individuale – una virtù in più –, ma è la trasformazione radicale di tutto ciò che ci costituisce. In comunione con Te vivo lo spazio e il tempo diversamente, senza distanze, e mi trovo unito ai tuoi progenitori, alla tua Madre, a Giovanni il Precursore, agli apostoli, ai martiri, ai santi, fino all’ultimo uomo che nascerà. In comunione con Te, vivo anche il mondo in modo diverso: percepisco il mondo creato, caduto, redento, trasfigurato alla luce del regno… Anche il mangiare cambia significato, e da atto che nutre la mia vita per la morte – infatti il cibo bisogna conservarlo in frigorifero, altrimenti si putrefà – diventa l’espressione e il mezzo della comunione con Te: perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno (Lc 22,28). E anche la storia in comunione con Te allarga i suoi confini oltre ciò che fenomenologicamente ne possiamo osservare e ci permette di intuire tutte le forze che vi sono all’opera – i tuoi angeli, come pure le forze oscure.

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Ma, quando abbiamo separato la vita dalla conoscenza, che cosa siamo arrivati a conoscere? La scorza superficiale dei fenomeni, senza vedere la vita che scorre sotto. E questo lo ha fatto anche la teologia, che spesso studia Dio come la scienza studia la natura – senza mistero. Ma sto esagerando, Signore, perché per la tua grazia ci sono degli scienziati che hanno più senso del mistero dei teologi! Mi viene in mente Davor, quel giovane ricercatore che Tu hai messo sulla mia strada, che mi raccontava come tanti scienziati all’inizio della loro carriera diventano atei, perché hanno la percezione di poter capire tutto, con dei confini così chiari dove non c’è più dubbio su nulla. E poi, quelli più acuti, man mano che vanno avanti e utilizzano degli approcci sempre più complessi, si ac-corgono che tutto è più sfumato e che alla fine ciò che scoprono è talmente grande rispetto alla loro capacità di logica che lo puoi solo sentire. Proprio così si esprimeva Davor. Non c’è più un oggetto definito, ma quello che trovi è superiore al linguaggio che hai a disposizione per esprimerlo. Eh, Signore, ma questo che diceva Davor non tutti i teologi sono in grado di capirlo!

Del resto, dopo secoli in cui la teologia ha negato il carattere simbolico del linguaggio teologico, ha negato il primato della vita e ha definito la verità come la coinci-denza tra il concetto e il suo oggetto, facendo diventare così la verità una conquista intellettuale, è quasi normale che sia così. Un tempo, la conoscenza era comunionale e simbolica… Questo faceva parte della novità che i cristiani dei primi secoli hanno tanto amato, riconoscendo che la mentalità simbolica è la mentalità tipica della fede, perché è la comunicazione della conoscenza e della vita nello stesso atto. Il simbolo per loro era un incontro, una conoscenza

relazionale, perché ti unisce a colui che si manifesta per mezzo di esso, ti accoglie nell’amore, ti coinvolge… Il sim-bolo è quella distanza relazionale che unisce la materia di cui è fatto, ciò che è palpabile e costatabile, psichicamente raggiungibile, sensorialmente sperimentabile, e colui che vi si comunica, che è unito per amore e nell’amore a questa carne del simbolo. È una realtà relazionale, non un vuoto riempito da un’operazione mentale, astratta, come più tardi diverrà l’analogia, ma è una distanza colmata da un’intensità d’amore, proprio come quella tra Te che sei il Verbo e la carne umana che hai assunto. E questo amore che colma l’abisso cela in sé anche una nuova intelligenza. Questa unità d’amore è anche una realtà intellettuale, ma si tratta di una intelligenza inseparabile dalla comunione.

Il grande Solov’ëv sosteneva che l’amore – e dunque anche la comunione – non è opaco, ma trasparente, e ha anche una lucidità intellettuale, una sua intelligenza. Un’intelligenza che comunque rimane inaccessibile a coloro che si ritengono sapienti e intelligenti e che pen-sano di impadronirsene. Dell’amore, infatti, non ci se ne può impadronire. Si può essere sorpresi di essere amati. La soglia che distingue queste due intelligenze è proprio l’amore che colma l’abisso, cioè il superamento della morte. Non il superamento come un eludere la morte, un aggirarla, ma come risurrezione, rigenerazione, rinascita. L’amore è capace di risuscitare. E questa è la vera distin-zione tra una mentalità religiosa e una mentalità della fede. La religione, anche se collettiva, viene rinchiusa nel mon-do dell’individuo. La fede per sua natura è comunionale, perché è accoglienza di una vita unita nell’amore. Tra Te come Verbo e l’umanità che con l’incarnazione hai as-sunto non c’è una relazione intellettuale-concettuale, ma

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una distanza colmata da una intensità d’amore. E questo

amore non è solo tra Te come soggetto e l’umanità che

hai assunto, ma è un amore comunionale, che abbraccia

tutti quelli che sono in Te. Non è un amore da cui si possa

isolare la sua dimensione solo orizzontale, separandola da

quella verticale. È la comunione di tutte le dimensioni

dell’amore.

Ecco perché il simbolo è indispensabile per una intel-

ligenza della fede: ci preserva da ogni possibile dualismo.

Il simbolo chiude la porta allo gnosticismo, affinché

pian piano non cominciamo a dare la precedenza ad una

conoscenza intellettuale-concettuale, ad un impegno

etico-morale, o addirittura ad un sapere spirituale che

altro non è se non dilatazione dell’immanente dal lato di

ciò che finora era trascendente. Tu fuori di noi e Tu in

noi, l’assolutamente trascendente che diventi più intimo

a noi di noi stessi.

Proprio per questo non ci può essere nessuna ‘cono-

scenza spirituale’, nessuna intelligenza e nessuno sforzo

dell’uomo che possa superare da solo l’abisso che ci se-

para da Te. Infatti, di fronte all’assoluto della distanza, di

fronte all’infinito si annulla ogni grandezza finita ed ogni

via: Tu puoi mandare il tuo angelo all’asina di Balaam

(cf Nm 22,22-31), puoi rivelarti con il fulgore della tua

manifestazione al peggior peccatore, puoi buttare a terra

sulla via di Damasco il tuo persecutore (cf At 9,1-19) e,

nonostante questo, rimanere inaccessibile agli sforzi più

intensi che cercano di conquistarti come un cacciatore fa

con la sua preda. Poiché Tu sei amore e libertà.

Il simbolo ha questa straordinaria capacità: offre all’in-

telligenza un appiglio, un’intuizione per la comprensione

della realtà divina, ma lascia liberi, non forza con qual-

che dimostrazione. Non può mai essere una rivelazione

completa di tutto il tuo ‘nascosto’, Signore. Il simbolo è

una parola che si colloca su uno sfondo di mistero. È un

indicatore, una traccia incisa nel mondo di questo tuo

desiderio di comunicarti, di rivolgere una parola, ma che

invita ad un rapporto per svelarsi ulteriormente. Il simbo-

lo quindi cresce per il dinamismo che lo abita, e si rivela a

gradi diversi, in misure diverse a seconda della crescita nel

rapporto con Te di chi lo accoglie. Per questo ha tempi

lunghi, perché richiede l’iniziazione cristiana, richiede

l’esperienza della salvezza, l’esperienza della Chiesa come

tuo corpo vivo.

È facile immaginare anche perché questo linguaggio

sia stato abbandonato: trovandosi davanti ad un’enorme

quantità di popoli, bisognava avere un programma efficace

per ordinare la società. D’altra parte, le popolazioni che

entravano in massa nella Chiesa portavano con sé le loro

religioni, le loro abitudini, cerimonie, culti… E alcuni

evidentemente consideravano il simbolo troppo lento per

l’integrazione di queste culture religiose e addirittura co-

me un campo di possibili fraintendimenti. Ma i nostri due

grandi fratelli, i santi Cirillo e Metodio, sono testimoni

– scomodi per molti, ma straordinari –, di come sarebbe

un cristianesimo inculturato attraverso un approccio sim-

bolico, una evangelizzazione lenta, rispettosa, che accetta

una lunga convivenza con le forme pagane, di modo che

il simbolo pian piano ‘digerisca’ tutto in un metabolismo

che è una vera e propria trasfigurazione delle culture,

perché è la trasfigurazione delle persone.

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Ma quando il simbolo è stato sostituito dal trattato, dalla summa, abbiamo spalancato la porta al pensiero classico, al suo ontologismo, al primato della concezione intellettuale dell’essenza, che sostituisce il fluire dinamico della vita con schemi e modelli ben definiti. Tu non sei una nozione metafisica. Ci siamo illusi che il ragiona-mento corretto garantisse il raggiungimento della cono-scenza oggettiva, e abbiamo pensato che la vita potesse essere forzata dentro i cassetti di un sapere metafisico. Su questo sfondo, è chiaro che la ragione diventa l’autorità regolativa ultima, sia sotto forma di una verità che si tra-smette intellettualmente come un’informazione e piega razionalmente l’intelligenza individuale dimostrandosi esatta per la correttezza della sua formulazione, sia come regole morali che aiutano a guidare i comportamenti degli uomini. È proprio quello che dice qualche greco amico di padre Amphilochios: la trasformazione del cri-stianesimo in religione, che è proprio l’esatto contrario di come la Chiesa si era presentata al mondo.12 Non il tra-scendere la propria esistenza individuale per realizzare un modo di vita come libertà di relazione amorosa, secondo il dono che Tu ci comunichi, ma la risposta ad un biso-gno naturale dell’uomo che ha a che fare con il suo istinto di conservazione, con la sua speranza di protezione.

In questo contesto mutato, esiste una conoscenza dell’ideale – o perché parto dai presupposti metafisici e li contemplo con la mia intelligenza, per poi costatare spiacevolmente che il mondo non corrisponde a questo ideale, che è un po’ la via del grande Platone, oppure

12 Cf Ch. Yannaras, Contro la religione, tr. it. (or. greco Athina 2006) Bose 2012.

guardo le realia e, attraverso la loro incompiutezza, risalgo alle realiora e contemplo l’idea perfetta di ciò che è imper-fetto. Comunque, anche nel mondo imperfetto di questo cosmo, ci sono delle leggi perfette che fanno funzionare tutto. E, conoscendo queste leggi, ho una conoscenza che mi permette di operare in questo mondo e di migliorarlo.

Si è presentato così molto utile un pensiero che è ben visibile nell’arte greca, ma che poi si è rivelato come una grande trappola. Il pensiero greco costata l’imperfezione della concretezza storica, cosmica. L’individuo non è esempio della perfezione, ma lo è la sua forma ideale, ap-partenente però all’universale, alla quale si può giungere o attraverso le realia o attraverso la contemplazione e l’intui-zione intellettuale. Perciò la perfezione formale ideale non può essere racchiusa nell’individuo concreto, perché lo su-pera troppo. Tanto che, tirando da una roccia la perfezione dell’uomo, quest’uomo non è un individuo concreto, ma appartiene agli dèi – è un Apollo, ad esempio. Questo ideale universale è comunque accessibile intellettualmente. Perciò una mentalità del genere si è presentata come un aiuto alla gestione di un’enorme moltitudine di persone entrate nella Chiesa e parte di un impero che cominciava ormai a diffondere uno stile e una norma di vita cristiana. Così si poteva elaborare un ideale e presentarlo come un progetto educativo, morale, idea le… La trappola è con-sistita nel fatto che questo ideale faceva leva sull’uomo, sul suo impegno per raggiungerlo, e che l’ideale non era la decifrazione della vita, ma la precedeva, la descriveva senza il contenuto reale che alla vita è proprio. Veniva tolta la conoscenza per partecipazione, per esperienza, per accoglienza… Perciò si è aperta la strada ad una ideologiz-zazione, una sociologizzazione e moralizzazione della fede.

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Sì, Signore, mi sembra di poter vedere in filigrana questo processo nei tanti secoli della nostra storia che ci separano dal tardo antico. E alcuni secoli più tardi pos-siamo costatare un altro processo del ragionamento che, come ripete sempre padre Vassilij, è tanto ben evidente nell’arte, svelando in modo palese l’inganno che è av-venuto quando abbiamo elaborato un ideale normativo a partire dalla fede cristiana, diventata ormai religione. Vassilij sottolinea sempre come, nel tempo della secon-da ondata del rinascimento, il processo è al rovescio rispetto a quello rammentato ora: se cioè nella Grecia classica l’uomo ideale non era un individuo concreto, ma apparteneva al mondo dell’universale, dunque agli dèi, adesso invece è reso perfetto un individuo concreto: le donne del Ghirlandaio, di Botticelli, di Leonardo, di Tiziano, non sono un ideale di perfezione universale, ma individui precisi che ‘indossano’ – si fa per dire – tale ideale. E questo, mi sembra, è assai più grave di quanto si verificava nella prima parte del processo. Perché adesso è evidente che si tratta della realizzazione dell’individuo, il quale conosce l’ideale, lo interpreta e lo realizza. Dunque l’uomo è il protagonista assoluto. La forma della figura è compiuta, chiusa, perfezionata al massimo… Non c’è più niente da aggiungere. Perciò una tale perfezione rimane statica, senza apertura e senza coinvolgimento. Un’arte del genere può anche riempirsi di immagini e di narrazioni religiose, ma non coinvolge nella comu-nione, perché non ha bisogno di nessuno e non abilita al passaggio, dal momento che essa stessa non è aperta a nessun passaggio. Ha proprio ragione quel figliolo, Vassilij, e io sono contento che l’amore per Te e per il tuo mondo lo renda così sensibile a ciò che nelle cose

riguarda il rapporto con Te. Lui afferma sempre – forse

qualche volta scaldandosi un po’ troppo – che, anche

se volessimo giustificare un’arte del genere dicendo che

questa bellezza fa vedere la perfezione dei corpi risorti,

pure in questo caso si tratta di inganno ed illusione,

perché la risurrezione non significa riacquistare il nostro

corpo corretto, formalmente perfezionato. È il passaggio

nella comunione con Te, al modo tuo. Paradossalmente,

è proprio la perfezione delle forme, la loro compiutezza

ad impedire di far vedere la sinergia divinoumana e il

passaggio ad una corporeità ecclesiale, l’uno nell’altro.

E, infatti, quest’arte diventa pesante. I corpi, anche se

volano per aria, sono voluminosi e impediscono di co-

gliere l’esistenza comunionale, l’uno nell’altro. È una

mentalità evidente più esplicitamente nell’arte, ma la

potremmo rintracciare in tutte le espressioni della vita e

della cultura. Per secoli ha occupato la nostra spiritualità

con la ricerca della perfezione dell’individuo e con il pro-

tagonismo, cioè alla fin fine una sorta di pelagianesimo

volontarista. E, sottolineando questa perfezione formale

dell’individuo, in assenza di un’esistenza comunionale

dove la mentalità è simbolica, si è sviluppata una visione

della Chiesa come società, anch’essa ‘perfetta’. Niente

mistero, niente simbolo… Ecclesia enim est coetus hominum

ita visibilis et palpabilis, ut est coetus populi romani, vel regnum

Galliae, aut respublica Venetorum.13 E, con questo modo

13 “La Chiesa è una comunità di uomini così visibile e palpabile come la comunità del popolo romano, o il regno di Francia, o la repubblica di Venezia”: Roberto Bellarmino, Disputationes de controversiis christianae fidei adversus huius temporis haereticos (Controversiae) (1586-1593), Ingolstadt 1601, t. II: Prima Controversia generalis, liber III: De Ecclesia militante, caput II: De definitione Ecclesiae.

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di ragionare, abbiamo cominciato ad urtarci sempre più

frontalmente con le società fuori dalla Chiesa. Quei corpi

idealmente perfetti, ma pesanti, non trasparenti, incapaci

di compenetrazione l’uno nell’altro, rappresentano in

se stessi una conflittualità, un protagonismo che diventa

necessariamente antagonismo.

Mettendo fortemente in evidenza la distinzione tra

reale e ideale, descrivendo in dettaglio l’ideale, soprat-

tutto sullo sfondo della verità e del bene, è naturale che

l’aspetto etico divenga dominante e la vita spirituale si

trasformi in una sorta di gara a premi. Un antagonismo e

un protagonismo del genere si sono dimostrati nella storia

particolarmente nocivi, soprattutto perché favoriscono

una specie di dualismo, di sdoppiatura. Tant’è vero che,

non lavorando più sul simbolo, non operando più con

una mentalità simbolica, si è tralasciata la bellezza. Il bello

non era necessario, non era indispensabile. Era considera-

to sempre più come qualcosa di accidentale, insignifican-

te, addirittura superfluo. Perciò, proprio nell’epoca in cui

l’arte fa così leva sulla perfezione formale dell’individuo,

si afferma il bello come un ideale parallelo, non compe-

netrato con il vero e il buono.

Certo, Signore, questo cammino culturale dell’uomo,

questa ricerca dell’uomo nell’orizzonte della sua creativi-

tà, può anche essere intrigante, può solleticare il nostro

interesse e la nostra curiosità intellettuale. Ma, per quanto

riguarda la vita spirituale e la teologia, praticamente mette

a nudo un fallimento della fede, perché l’ideale del bello è

ormai sganciato da ciò che per la teologia dei padri era la

bellezza, cioè un mondo che nasce dal sacramento, dalla

liturgia come vita trasfigurata e che si estende alla storia

come un principio attivo di trasfigurazione dall’opaco al trasparente, dall’isolato alla comunione... La dimensione integrante dell’organismo che unisce a sé e fa combaciare e armonizzare tutto in un tessuto agapico, d’amore, non c’è più. Perciò la vita di questo ideale del bello non poteva più essere definita come vita anche del bene. Dalla teolo-gia della bellezza si è passati all’estetica. E siccome l’ideale è fondamentalmente gestito dall’individuo, è chiaro che nasce la frantumazione. Tanto è vero che la vita di quell’e-poca è così poco impregnata del principio spirituale del corpo di Cristo che trasfigura l’umanità da aver portato a forti contestazioni e a tanti richiami per un ritorno alla fede, fino a lacerare il tessuto della Chiesa. È evidente che quell’ideale del bello non poteva essere tale per tutti gli aspetti dell’esistenza secondo la vita in Cristo. Ecco ancora lo scisma tra la fede e la religione, tra la conoscenza e la vita, tra l’individuo e la comunità.

Non so come abbiamo fatto, Signore, a non capire che attraverso questi processi siamo giunti alla separazione della conoscenza dalla vita. E, quando la conoscenza e la vita sono due realtà separate, la vita è sempre sottomessa alla nostra conoscenza dell’ideale. La conoscenza ha la precedenza. Ma in questa separazione c’è ancora un’altra cosa grave che si è verificata: separando la conoscenza dalla vita, abbiamo provocato anche un grave degrado di ciò che noi consideriamo vita. Sparisce dal nostro orizzonte la vita personale e si trasforma in qualcosa di oggettuale, dove non c’è più il volto. La vita non è espressione di un tessuto organico, di una rete relazionale, non è rivelazione della comunione e aspirazione alla co-munione. Perciò la conoscenza avviene in modo brusco, quasi violento, staccato dalla relazione. È da secoli che per

Rupnik-Campatelli, “Vedo un ramo di mandorlo”

132

noi non è più ovvio che la vera conoscenza è quella che

scorre nella relazione e che per conoscere bisogna abitare

la relazione. Noi abbiamo reso deserta la relazione. Ci

siamo ritirati dalla relazione. E perciò c’è da dubitare che

questa conoscenza possa considerarsi tale. Anche perché,

come vediamo ai nostri giorni, è una conoscenza pro-

blematica per l’uomo, a lui ostile, che minaccia per molti

aspetti la nostra esistenza, la terra, l’aria, le acque...

È grave, Signore, che abbiamo perduto ciò che era la

tua novità assoluta, l’unità della conoscenza e della vita.

Ed è grave che siamo arrivati a creare una cultura religiosa

che non è in grado di trasmettere la vita nuova, la comu-

nione come indole principale di questa vita. Siamo reduci

da un’enorme produzione religiosa intellettuale, ma che

non è in grado di unirci a Te, di metterci in comunione

con gli altri e di santificare la terra. E, d’altra parte, abbia-

mo anche prodotto una grande quantità di atteggiamenti

e pratiche devozionali che alimentano tutto sommato

solo stati d’animo individuali, dove ognuno si rivolge

individualmente alla sua Madonna o al suo Gesù…”

27

INTRODUZIONE

LA NATURA, LA MORTE, IL PECCATO,LA LEGGE E LA GRAZIA

Due desideri assai vicini, come due ali invisibili, elevano l’animaumana sopra il resto della natura: il desiderio dell’immortalità e quellodella giustizia, o perfezione morale. L’uno senza l’altro non ha senso. Lavita immortale, separata dalla perfezione morale, non è un bene: non ègran cosa essere immortali. È necessario, invece diventar degni dell’im-mortalità attraverso il compimento di tutta la giustizia; ugualmente la per-fezione, quando sia soggetta alla corruzione e all’annientamento, non è unvero bene. Un’esistenza immortale senza verità e perfezione sarebbe uneterno supplizio; mentre una perfezione priva d’immortalità diverrebbeun’immensa ingiustizia e un oltraggio senza misura.

Benché la nostra anima, nella sua parte migliore, desideri avere insie-me sia l’immortalità che la verità, tuttavia, nell’ordine della natura siamoprivi sia dell’una che dell’altra. L’uomo abbandonato a se stesso nonpotrebbe conservare né la sua vita, né la sua dignità morale, non avendoegli la forza di sfuggire né alla morte fisica né a quella spirituale.

Seguendo l’istinto della natura, vorremmo vivere sempre, ma la leggedella natura terrestre non ci dà una vita eterna e ci limita al suo solo desi-derio. La ragione e la coscienza ci spingono alla ricerca del vero, ma lalegge dell’intelletto umano e la voce della coscienza, denunciando lanostra falsità, non ci danno la forza di compiere il vero e non ci fannodegni dell’immortalità.

Due nemici irriconciliabili della nostra natura superiore, il peccato e la

morte, legati tra di loro da uno stretto e indissolubile legame, ci tengono inloro potere. Due grandi fatti si oppongono ai due grandi desideri dell’im-mortalità e della verità: l’inevitabile dominio della morte su tutte le creaturedi carne e l’indistruttibile dominio del peccato su tutte le anime. Noi solo

I FONDAMENTI SPIRITUALI DELLA VITA

28

vogliamo elevarci al di sopra del resto della natura, ma la morte ci abbassa allivello di tutte le creature terrestri, mentre il peccato ci rende peggiori di esse.

Secondo le leggi della natura, l’uomo soffre e va in rovina, e la leggedella ragione non è in grado di salvarlo.

Noi nasciamo e viviamo con una molteplicità di aspirazioni e di esigen-ze. Le troviamo in noi e cerchiamo di soddisfarle. Questa è la via della natu-

ra. Ma la natura dell’uomo è triplice, ed essa fornisce all’uomo tre generi dibisogni: animali, intellettuali (o della mente) e del cuore. Noi vogliamo primadi tutto conservare e perpetuare la nostra vita; poi ci sforziamo con il nostrointelletto di conoscere o di riprodurre mentalmente la nostra e l’altrui esi-stenza; e infine desideriamo assolutamente dilatare e migliorare la nostravita e quella degli altri; desideriamo in altri termini che tutto quanto esistesia, nella misura del possibile, più degno dell’esistenza.

Anzitutto è necessario per noi vivere, poi conoscere la vita e infine correg-

gerla. Le esigenze della vita animale, cioè quelle per la conservazione della

vita, sono in realtà le più fondamentali della vita, le più obbligatorie eincontestabili; perché, se non ci fosse la vita, non ci sarebbe chi conosce emigliora, né niente da conoscere e da migliorare.

Le esigenze e le funzioni della natura animale si riducono principal-mente a due: la nutrizione per il sostentamento temporale della vita del-l’individuo e la riproduzione per perpetuare la vita della specie. La base ditutta la vita animale è la nutrizione, il suo fine la riproduzione. Se l’indivi-duo non si nutrisse, non potrebbe riprodursi; ma se non si riproducesse,non ci sarebbe ragione di nutrirsi. Il compito vitale dell’animale è esegui-to quando esso ha generato ed allevato la sua prole: tutto il resto della suaesistenza gli serve solo come mezzo per questo fine.

Ciascuna generazione — e in essa ogni individuo — sussiste solo perdar vita alla sua posterità, e questa pure esiste unicamente per procrearela generazione seguente. Ciò significa che le singole generazioni trovanoil significato della loro vita solo nella generazione successiva. In altre paro-le, la vita di una singola generazione non ha senso; ma se la vita di ognigenerazione non ha senso, allora neanche la vita di tutte.

Questa vita senza senso viene detta «vita della specie». Ma si tratta real-mente di vita? Se ciascuna generazione esiste solo per morire al sorgere diuna nuova, alla quale a sua volta tocca una simile rovina, e se la specie viveunicamente in queste generazioni che incessantemente muoiono, la vitadella specie è una morte continua e la via della natura è un inganno eviden-te. Il fine di ciascuno sta in qualcosa d’altro (nella posterità), ma quest’altroè ugualmente senza un fine in sé e il suo fine è di nuovo in un altro, e così

I. INTRODUZIONE

29

all’infinito. Non troviamo da nessuna parte un fine vero, tutto sussiste senzascopo e senza senso, come una tendenza che non si può soddisfare.

La necessità della specie è come un bisogno di vita eterna, ma, invecedella vita eterna, la natura ci dà la morte eterna. Niente vive nella natura;tutti gli esseri solo si sforzano di vivere, ma muoiono continuamente.Pertanto, quando si dice all’uomo: soddisfa le esigenze e le inclinazionidella natura, che questa è l’unica via per essere felici, simili parole nonhanno alcun senso, poiché la prima e fondamentale necessità — cioè quel-la di conservare la propria esistenza e di vivere in eterno — rimane insod-disfatta nell’ordine della natura. Quanto alla domanda sul perché vivia-mo, su quale sia il fine della vita, si risponde che la vita ha uno scopo inse stessa, che noi viviamo per la vita stessa. Ma queste parole non hannosenso, poiché proprio ciò che è la vita non lo troviamo da nessuna parte;incontriamo invece ovunque soltanto un impulso e un passaggio a qual-cosa d’altro, e soltanto nella morte troviamo costanza e immutabilità.

La potenza della morte, che grava sulla nostra esistenza animale tra-sformandola in un vano slancio, non è un qualcosa di casuale. Il nostrointelletto, che allarga la conoscenza esperienziale della nostra proprianatura alla scienza della natura di tutto il mondo, ci dimostra che la mortedomina non solo sul nostro corpo, ma su quello di tutto l’universo. Ilregno della natura è il regno della morte. Le scienze che studiano la vitapresente e passata del globo terrestre (biologia e geologia) ci mostrano chenon muoiono soltanto i singoli, ma che specie intere di viventi sono sog-gette alla morte: ci raccontano l’estinzione di intere razze e tipi del regnoanimale e vegetale. La scienza che studia la natura dei corpi celesti (astro-nomia) ci porta alla conclusione che mondi interi e gruppi di mondi, deri-vati da una materia universale amorfa, senza forma, si frantumano nuo-vamente e si disseminano nello spazio e, prima che il sistema solare subi-sca un simile destino, la terra e altri pianeti gireranno intorno al sole in viadi estinguersi come grandi masse ghiacciate senza vita. Infine, la scienzache tratta delle leggi e delle proprietà generali dei fenomeni sensibili (fisi-ca), in una delle sue più importanti conclusioni, arriva a dire che tutti ifenomeni del mondo sono soltanto specie diverse di movimento, determi-nate dall’irregolarità dal moto molecolare nei corpi che si chiama calore, epoiché esso tende continuamente ad appianarsi, nel momento del suoassetto finale, tutti i fenomeni del mondo inevitabilmente cessano e tuttol’universo si trasforma in una massa indistinta e immobile.1

1 Qua ho presente la nota teoria di Thompson e Clausius. Una breve esposizione di questainteressante teoria si può trovare in Populäre Wissenschaftliche Vorträge di Helmholz.

I FONDAMENTI SPIRITUALI DELLA VITA

30

Soddisfacendo le esigenze della nostra natura animale, riceviamo allafine la morte; soddisfacendo quelle della nostra mente e arrivando alla cono-scenza di tutto quanto esiste, veniamo a sapere che la morte è la conclusio-ne di ciò che esiste e che tutto l’universo è solo il regno della morte.

Sforzandoci di vivere, noi moriamo e, desiderando conoscere la vita, cono-sciamo la morte. La natura sensibile ci conduce alla distruzione, e l’intellet-to può solo confermare questa distruzione come legge universale del creato.

La nostra esperienza della vita e gli studi intellettuali ci manifestanouna sola cosa: l’infondatezza della nostra vita. E ciò non solo perché è sog-getta alla morte e non ha un essere duraturo, ma anche per il fatto che non

è degna d’esistere. Non soltanto noi andiamo verso la rovina, ma ancheroviniamo gli altri. La nostra vita non è solo un inganno, ma anche unmale. Pur desiderando vivere, non solamente moriamo, ma uccidiamoaltri esseri. Non possiamo conservare la nostra vita, ma possiamo distrug-gere un’altra esistenza a noi estranea, e la distruggiamo realmente nutren-docene. E la ragione per cui facciamo ciò — la conservazione della nostra vita—, nella sua essenza è un’illusione, perché la nostra vita non è al sicuro unsolo momento e, con l’andare del tempo, necessariamente muore, perquanto siano numerose le vite altrui che sacrifichiamo per la sua salvezza.In tal modo il nostro istinto di conservazione animale ci costringe, in ulti-ma analisi, ad un inutile massacro. Inoltre, nutrendosi di altri corpi, l’uomoanimale si dà in balía di forze estranee della natura, come il cieco istinto diriproduzione, che lo costringe a sacrificare se stesso per l’apparente conser-vazione della specie mediante la procreazione. Se per cibarci noi sacrifichia-mo la vita altrui al fine di sostenere la nostra, in tal caso (cioè nell’atto pro-creativo) noi diamo la nostra vita per produrne un’altra a noi estranea. Mase attraverso ciò potessimo almeno procreare una vita vera, tale cioè cheavesse la forza di esistere e fosse anche degna di esistere, allora il nostrosacrificio per la specie avrebbe senso e dignità morale; ma poiché mediantela riproduzione non possiamo generare che una vita caduca e cattiva comela nostra, e moltiplichiamo soltanto l’inganno e il male, allora, abbandonan-doci all’istinto della specie, commettiamo alla fine solo un inutile suicidio.

La passione sessuale inganna il cuore umano con il miraggio dell’amo-re. Essa, però, non è amore, ma soltanto una falsa apparenza d’amore.L’amore è l’interna indivisibilità e consustanzialità di due vite, mentre lapassione naturale, pur tendendo a questo, non lo raggiunge mai, e perciòil suo risultato è solo qualcosa di esterno, qualcosa di separato dai duegeneranti e, per di più, forse totalmente estraneo e perfino ostile ad essi.La malizia e l’inimicizia nella nostra vita naturale sono sempre reali e l’a-more che è in essa è sempre un’illusione.

I. INTRODUZIONE

31

Ecco perché, nella ricerca di una vita degna, cioè di una vita secondol’amore, il nostro cuore deve condannare la nostra natura e tutte le sue vieed orientarsi verso un altro sentiero. Infatti, riconoscere la vita della natu-ra — il soddisfare cioè le nostre necessità e desideri animali come leggefinale della nostra vita — significa giustificare legalmente l’assassinio e ilsuicidio e riconciliarsi per sempre con il regno della morte. “Vivi secondonatura” significa “uccidi te stesso e gli altri”. L’uomo animale si adatta suomalgrado a questa sorte. Ma il cuore umano non può in definitiva ricon-ciliarsi con essa, perché in lui c’è il pegno di un’altra vita.

L’uomo non solo comprende con la sua mente l’insufficienza della vianaturale come realtà che conduce alla morte e all’insignificanza, ma nellasua coscienza riconosce questo cammino come peccato o qualcosa che non

deve essere. Tale concetto del peccato, o di ciò che non deve essere, è un con-cetto puramente umano, al di sopra della natura; e su di esso si basa tuttala nostra morale. Nel momento in cui l’animale si muove là dove lo spin-ge e lo trascina l’impulso naturale della vita, l’uomo può nella sua mentearrestare gli slanci della natura animale e giudicare se deve sottomettersio no ad essi. Mentre l’animale si sforza solo di vivere, nell’uomo si mani-festa la volontà di vivere come si deve.

Nella nostra attività, oltre alla domanda animale: Voglio e posso (fisi-camente) agire così?, sorge anche la questione umana, la questione dellacoscienza: È lecito farlo? In tal modo, le esigenze della nostra natura,impotenti contro gli ostacoli naturali esterni, sono limitate anche all’inter-no dell’uomo stesso dal dovere della coscienza.

Ma, nella forza della nostra natura animale, si manifesta in noi la ten-denza ad agire contro coscienza, obbedendo solo agli impulsi sensuali. Sein noi ci fosse unicamente l’inclinazione della natura sensuale, questa nonsarebbe in se stessa né cattiva né buona ma, come negli animali, sarebbesemplicemente un fatto naturale. D’altra parte, se in noi ci fosse solo unatendenza morale, allora anch’essa, non incontrando alcun ostacolo inter-no, opererebbe come una semplice forza innata nell’uomo. Anche in talcaso non vi sarebbe una questione morale. Ma quando si scontrano dueopposte tendenze, allora si manifesta il problema morale ed entrambi gliimpulsi ricevono una valutazione morale. Allora la voce della coscienza,davanti agli impulsi contrastanti, si chiama legge, mentre la tendenza ani-male, poiché contraddice la legge, si chiama trasgressione del comandamen-

to o peccato. In tal modo, il peccato è generato dalla legge. «La legge infatti provoca l’ira; al contrario, dove non c’è legge, non c’è

nemmeno trasgressione» (Rm 4,15).

I FONDAMENTI SPIRITUALI DELLA VITA

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«Fino alla legge infatti c’era il peccato nel mondo, anche se il peccatonon può essere imputato quando manca la legge» (Rm 5,13).

In tal modo, l’uomo abbandona la semplice via della natura e intra-prende la duplice via della legge. Ma, come la via della natura conducealla morte naturale, così la via della legge conduce alla morte spirituale.

«Io un tempo vivevo senza la legge. Ma, sopraggiunto quel comanda-mento, il peccato ha preso vita e io sono morto; la legge, che doveva ser-vire per la vita, è divenuta per me motivo di morte. Il peccato infatti, pren-dendo occasione dal comandamento, mi ha sedotto e per mezzo di esso miha dato la morte» (Rm 7,9-11).

La legge, mentre condanna le inclinazioni naturali, non le sostituiscecon altre e le lascia nella stessa forza. Se voglio qualcosa e la legge dice chequesto è male, io tuttavia non cesso di volerlo. La legge tocca solo gli ele-menti esterni del mio volere, cioè nell’atto del peccato, e dice: non uccide-re, non offendere ecc., ma la radice del peccato — cioè l’impulso cattivoche genera le azioni cattive — non è soppresso dalla legge, al contrario èrinvigorito e diviene cosciente.

«Io non avrei conosciuto il peccato se non per la legge, né avrei cono-sciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: Non desiderare.Prendendo pertanto occasione da questo comandamento, il peccato sca-tenò in me ogni sorta di desideri. Senza la legge infatti il peccato è morto»(Rm 7,7-8).

La legge, condannando la natura, solo la nega, ma non dà nulla di posi-tivo. Essa mostra ciò che non debbo fare, ma non dice quello che devo fare.Se si potesse darle una forma positiva, come ad esempio “Aiuta tutti”, nonci sarebbe neanche in questo nessuna indicazione positiva di ciò che biso-gna fare per aiutare tutti veramente e realmente.

La coscienza del dovere morale, quando si risveglia nell’uomo, lostrappa dalla corrente della vita naturale e lo abbandona solo e senzaaiuto. La nostra coscienza giudica la natura, distingue il bene e il male, manon dà la forza di cambiare, di riformare la natura, di dare la vittoria albene e la sconfitta al male.

«Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne,venduto come schiavo del peccato. Io non riesco a capire neppure ciò chefaccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. Ora,se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; quindinon sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che inme, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene,ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, mail male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più

I. INTRODUZIONE

33

io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io trovo dunque in me questalegge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsen-to nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altralegge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavodella legge del peccato che è nelle mie membra. [...] Io dunque, con lamente, servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato» (Rm

7,14-23,25).In tal modo, alla sofferenza naturale della nostra natura mortale si

aggiunge la sofferenza morale, uno sdoppiamento interno e la condanna dise stessi.

La coscienza del dovere, di per sé, ancora non dà la forza di compierloe in ciò è tutta la difficoltà del problema morale. Se nell’uomo c’è unanatura corrotta (e la nostra natura, la cui ultima parola è assassinio e sui-cidio, è corrotta nella sua stessa radice), allora benché l’uomo riconoscaquesta corruzione, tale coscienza ancora non gli dà un’altra natura. Lanatura peccaminosa è per noi un qualcosa di dato, ineluttabile. L’uomostesso, con la sua ragione e coscienza, arriva a riconoscere questa pecca-minosità, condanna e nega la sua natura. Ma questa negazione non vaoltre il pensiero, e perciò si rivela falsa. Infatti, il pensiero che condanna larealtà, senza essere in grado di abolirla, si rivela debole, instabile, infede-le a se stesso, e in questo senso falso. Invece, per cambiare la nostra natu-ra peccaminosa e riformarla realmente, è necessario che si manifesti in noiqualcosa d’altro, di reale e perciò capace di agire, il principio di un’altravita, superiore alla nostra cattiva natura. Da solo, l’uomo non può crearedal nulla il principio di questa vita nuova e migliore. Esso deve esistere aldi fuori della nostra volontà, cioè noi dobbiamo ricevere questa nuova vita.Come la vita cattiva della natura non è creata dall’uomo, ma è data a luidal mondo, così la nuova vita del bene gli è data da Colui che è superioreal mondo e migliore del mondo. Tale nuova vita del bene che viene data

all’uomo si chiama per questo grazia.

La grazia è un bene, un bene che non è solo pensato dall’uomo, ma gli èrealmente dato. E poiché la nostra natura non è un bene in se stessa e lalegge morale della nostra mente, benché buona per la sua qualità conce-pibile, è tuttavia impotente nel darci il bene in realtà, allora bisogna osepararsi del tutto dal bene, oppure riconoscere che esso esiste indipen-dentemente dalla nostra natura e dalla nostra ragione, cioè riconoscere cheesso esiste per se stesso e da se stesso si comunica a noi. Questo Bene esi-stente, cioè l’essere che possiede per se stesso la pienezza e la fonte dellagrazia, è Dio.

Sappiamo che la fine della nostra natura è la morte: «Il pungiglione dellamorte è il peccato e la forza del peccato è la legge» (1Cor 15,56). Conoscendociò, dobbiamo, al di sopra delle vie della natura e della legge, cercare unaterza via, la via della grazia, e riconoscere la fonte della grazia, Dio.

Ma per metterci realmente nella via della grazia, non basta la cono-scenza intellettuale. È necessaria l’ascesi, cioè il movimento interiore dellavolontà: l’uomo deve interiormente combattere per ricevere in sé la grazia ela forza di Dio. Questo movimento da parte dell’uomo, cioè la sua lottainteriore, percorre tre gradi: anzitutto, l’uomo deve provare avversioneper il male, sentire e riconoscere il male come peccato. In secondo luogo,l’uomo deve fare uno sforzo interiore per respingere da sé il male e stac-carsi da esso. In terzo luogo, consapevole che non saprebbe salvarsi dalmale con le proprie forze, deve rivolgersi all’aiuto divino. E così, per rice-vere la grazia, si richiede all’uomo: l’avversione al male morale come pec-cato, lo sforzo per liberarsi da esso e la conversione a Dio.2

Tutto il bene è già in Dio (altrimenti Egli non sarebbe l’essere infinita-mente perfetto, cioè non sarebbe Dio). Dunque, l’uomo che cerca il benenon ha bisogno di creare niente di nuovo: egli deve unicamente aprire unavia libera alla grazia, eliminare quegli ostacoli e barriere che separano noie il nostro mondo dal bene esistente. Ma l’ostacolo principale ed essenzia-le che chiude a noi il bene esistente e la felicità non sta nella natura ester-na. Quest’ultima è passiva, non agisce da sé e, dunque, non può di per sésepararci da Dio e privarci della luce divina. La barriera sta solo nell’esse-re che si sforza di agire da sé, secondo il proprio giudizio e la propria scel-ta, cioè nell’uomo stesso. L’animale agisce per un’indole cattiva che non siè fatta da solo («la creazione infatti è stata sottomessa alla caducità — nonper suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa»). Al contrario,l’uomo, oltre ad una cattiva indole, che gli è comune con gli animali, puòanche agire e agisce a causa di cattive decisioni e di cattivi princípi, posti dalui ed emanati dalla sua volontà.

Noi sappiamo che il bene non c’è nel mondo, poiché tutto il mondogiace nel male. Nell’uomo stesso non c’è il bene perché «non c’è nessungiusto, nemmeno uno, non c’è sapiente, non c’è chi cerchi Dio» (Rm 3,10-

I FONDAMENTI SPIRITUALI DELLA VITA

34

2 Qui non si dice che anche questo processo iniziale debba essere compiuto con le sole forzedell’uomo, senza l’aiuto di Dio. In genere, il problema metafisico della relazione tra la libertà umanae l’azione di Dio non dev’essere risolto qui, ma se ne mostra lo sviluppo da quel lato interno nel qualela personalità umana, in modo esperienziale, cioè in un modo sensibile per se stessa, vi prende parte. Daquesto lato è fuori discussione che la grazia non agisce sull’uomo che non si strappa interiormente dalpeccato e non si rivolge a Dio. Il caso di una conversione fulminea come quello di Saulo non contrad-dice per niente ciò, perché Saulo perseguitava i cristiani non per amore al male, ma per un pio zeloche gli attirò l’azione della grazia di Cristo.

I. INTRODUZIONE

35

11). Perciò ogni volta che l’uomo agisce su impulso suo o del mondo, cioèin modo conforme al mondo, che “giace nel male”, ogni volta che l’uomosi comporta secondo se stesso o secondo il mondo, in questo stesso modosepara se stesso e il mondo da Dio. La fonte di tutti gli atti dell’uomo è lasua volontà. E così la barriera che lo separa dal bene esistente, cioè da Dio,è la volontà dell’uomo. Ma in virtù di questa stessa volontà, l’uomo puòdecidersi a non agire secondo se stesso o secondo il mondo, a non com-portarsi secondo la sua volontà e la volontà del mondo. L’uomo può deci-dere: non voglio secondo la mia volontà. Questa rinuncia a se stesso, o con-versione della volontà umana, è il suo più grande trionfo. Perché qui l’uo-mo stesso liberamente si rinnega, con la sua volontà rinuncia alla sua stes-sa volontà. Non si può con la forza costringere l’uomo a cambiare la suavolontà. Lo si può obbligare a rinunciare ad una cattiva azione con lapaura e con l’obbligo, ma non si può strapparlo dalla sua cattiva volontà,che è un moto interno, non sottomesso ad una forza esteriore.

Solo con la volontà l’uomo può rifiutarsi al male e solo con la volontàpuò riconoscere il Bene come essenza, cioè Dio. La fede in Dio, essendouna segreta relazione reciproca fra la divinità stessa e l’anima umana,esige una diretta partecipazione della volontà umana. Senza la suavolontà, l’uomo non può credere in Dio. Se non vogliamo credere, non cre-deremo. Dio non vuole essere un fatto esterno, che si impone a noi contro il

nostro volere. Dio è la verità interiore che ci obbliga moralmente ad accet-tarla liberamente. Credere in Dio è un nostro dovere morale. L’uomo puònon compiere il suo dovere morale, ma allora perde necessariamente lasua dignità morale.

Credere in Dio significa riconoscere che quel bene al quale rende testi-monianza la nostra coscienza, che noi cerchiamo nella nostra vita, ma chenon ci danno né la natura né la nostra ragione, questo bene tuttavia è, esi-ste anche al di fuori della nostra natura e della nostra ragione, è qualcosache esiste in sé. Senza questa fede, saremmo indotti ad ammettere che ilbene è soltanto una sensazione ingannevole, o una fantasia arbitraria dellamente umana, cioè che in realtà non esiste affatto. Moralmente però nonpossiamo ammettere questo, poiché noi stessi, come esseri morali, e tuttala nostra vita, abbiamo un significato solo mediante la fede nel bene reale,cioè nel bene come verità. Noi dobbiamo credere che il bene esiste in sestesso e che esso è la verità esistente: dobbiamo credere in Dio. Questa fede èun dono di Dio e insieme un nostro atto libero e personale.

1

COME PREPARARSI AL SACRAMENTO DELLA RICONCILIAZIONE?

Il Rito della Penitenza (= RP) promulgato da Paolo VI nel 1973 propone uno schema celebrativo assai ricco (e spesso dimenticato!) che può aiutarci a rinnovare gli atteggiamenti e il modo con cui “ci confessiamo”. È la traccia ufficiale che la Chiesa ci propone per imparare a celebrare con frutto questo sacramento.

In ascolto della Parola di Dio

Il RP n. 15 suggerisce al penitente di confrontarsi la sua vita con l’esempio e con le parole di Cristo, e di rac-comandarsi a Dio perché perdoni i suoi peccati. La celebrazione inizia, dunque, remotamente con la lettura silenziosa e prolungata della Parola di Dio, che non dovrebbe mai mancare. Un po’ di tempo prima di cele-brare la riconciliazione (anche alcuni giorni prima) la preghiera può assumere un carattere penitenziale. Il penitente confronta la sua vita con la grande storia della salvezza custodita nella Parola di Dio e può sceglie-re uno dei testi consigliati. Dopo averlo contemplato, risponde alla Parola pregando un salmo penitenziale.

Testi biblici:

Mt 5,3-14: Le beatitudini del discepolo di Gesù. Mt 9,9-13: Sono venuto a chiamare i peccatori, non i giusti. Mt 18,15-20: Avrai guadagnato tuo fratello. Mt 25,31-46: L’avete fatto a me. Mt 26,69-75: Uscito all’aperto, Pietro pianse amaramente. Lc 18,9-14: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Lc 19,1-10: Oggi la salvezza è entrata in casa tua. Gv 15,1-8: Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie. Gv 8,1-11: Va’ e d’ora in poi non peccare più. Gv 20,19-23: A chi rimetterete i peccati saranno rimessi. Rm 6,16-23: Il salario del peccato è la morte. Rm 5,8-9: Dio ci dimostra il suo amore. Rm 13,8-14: Gettiamo via le opere delle tenebre. Ef 2,1-10: Da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo. Gal 5,16-24: Hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni. Col 3,8-10.12-17: Vi siete spogliati dell’uomo vecchio. 1Pt 1,13-23: Foste liberati con il sangue prezioso di Cristo Gc 2,14-26: Che giova se uno dice di avere la fede, ma non ha le opere? 1Gv 1, 5-10: Egli che è fedele e giusto ci perdonerà.

Salmi a sfondo penitenziale:

Salmo 12: Ho confidato o Dio nella tua misericordia. Salmo 24: Volgiti a me, Signore, e abbi misericordia. Salmo 31: Confesserò al Signore le mie colpe. Salmo 50: Rendimi Signore la gioia di essere salvato. Salmo 72: Il mio bene è stare vicino a Dio. Salmo 129: Il Signore è bontà e misericordia. Salmo 138: Scrutami o Dio, conosci il mio cuore. Salmo 142: Mio Dio, insegnami a compiere il tuo volere.

COME CELEBRARE LA RICONCILIAZIONE?

Preparazione del sacerdote e del penitente (RP n. 15).

Il sacerdote e il penitente si preparano alla celebrazione del sacramento anzitutto con la preghiera. Prima di recarsi dal ministro, il penitente invoca lo Spirito Santo su di sé perché lo assista nella sua confes-sione, poi rinnova la sua fede nell’opera di santificazione che Cristo compie nella Chiesa attraverso i suoi ministri. Il confessore si prepara ricordandosi che è «costituito nella Chiesa a vantaggio dei penitenti come vicario del Padre delle misericordie e ministro del Cristo Buon Pastore» e invocando lo Spirito Santo per averne luce e

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carità nell’accompagnare il penitente a celebrare con frutto la riconciliazione. Accoglienza del penitente (RP 41-42)

Il ministro accoglie con fraterna carità e saluta il penitente con parole affabili e cordiali. Il penitente può inginocchiarsi (il gesto manifesta l’umiltà del peccatore) oppure può sedersi (ciò facilita il dialogo). Entrambi fanno il segno della cro-ce, che eleva il loro incontro alla qualità di un sacramento che li mette in contatto con la Pasqua di Gesù:

Nel nome del Padre e del Figlio † e dello Spirito Santo. Amen

Il ministro pronuncia una delle seguenti formule di invito alla fiducia nella misericordia di Dio:

Il Signore, che illumina con la fede i nostri cuori, ti dia una vera conoscenza dei tuoi peccati e della sua misericordia. Il penitente risponde: Amen.

2a formula Accòstati con fiducia a Dio Padre: egli non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva. R. Amen.

3a formula Ti accolga con bontà il Signore Gesù, che è venuto per chiamare e salvare i peccatori. Confida in lui. R. Amen.

4a formula La grazia dello Spirito Santo illumini il tuo cuore, perché tu possa confessare con fiducia i tuoi peccati e riconoscere la misericordia di Dio. R. Amen.

5a formula Il Signore sia nel tuo cuore, perché tu possa pentirti e confessare umilmente i tuoi peccati. R. Amen.

6a formula Se hai peccato, non perderti d’animo: abbiamo un avvocato presso il Padre, Gesù Cristo il giusto. Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati e non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo. R. Amen.

Presentazione del penitente (RP 16)

Se il penitente è sconosciuto al confessore, è bene che gli precisi la sua condizione vocazionale (fidanzato, coniugato, laico o consacrato) e professionale; può indicare il tempo trascorso dall’ultima confessione e delineare in modo somma-rio il cammino spirituale che sta percorrendo, magari accennando alle difficoltà incontrate nell’ultimo periodo e tutto quanto può essere utile al confessore per l’esercizio del suo ministero.

Proclamazione della Parola di Dio (RP 43)

“È la parola di Dio che illumina il fedele a conoscere i suoi peccati, lo chiama alla conversione e gl’infonde fiducia nel-la misericordia di Dio” (RP 17). Il penitente stesso può dire al confessore che intende leggere il brano biblico su cui ha preparato l’esame di coscienza. Oppure il ministro proclama un testo della Scrittura che annuncia la misericordia divina e chiama alla conversione (il rito segnala questi testi: Is 53,4-6; Ez 11,19-20; Mt 6,14-15; Mc 1,15-15; Lc 6,31-38; Lc 15,1-7; Gv 20, 19-23; Rm 5, 8-9; Ef 5, 1-2; Col 1, 12-14; Col 3, 8-10.12-17; 1 Gv 1, 6-7.9).

Esempio: Ascoltiamo la parola del Signore:

Darò loro un cuore nuovo e uno spirito nuovo metterò dentro di loro; toglierò dal loro petto il cuore di pietra e darò loro un cuore di carne, perché seguano i miei decreti e osservino le mie leggi e li mettano in pratica; saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio (Ez 11, 19-20).

L’annuncio della Parola non deve mai mancare e, qualora ci fosse poco tempo, il confessore può proporre anche un solo versetto, così:

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Dice il Signore: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò» (Mt 11,28) / oppure: «Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,3) / op-pure: «Se uno è in Cristo è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove» (2Cor 5,17).

Colloquio penitenziale (RP 44)

Negli ultimi decenni si è cercato di porre rimedio all’impressione che tutto lo sforzo del penitente dovesse concentrarsi nell’accusare i suoi peccati facendone una lista dettagliata. Lasciandosi ispirare dalla Parola di Dio e dai Padri della Chiesa, si è ripensato un tipo di colloquio penitenziale che consiste in tre passaggi fondamentali. Si tratta sempre di una «confessione». Questa parola deriva dal latino confessio che significa, anzitutto, riconoscere, manifestare, proclamare nella lode.

Il primo momento lo chiamiamo confessio laudis, cioè confessione di lode. Non inizio col dire: «Ho peccato così e co-sì», ma comincio dicendo: «Signore ti voglio lodare perché dall’ultima confessione…» e qui ciascuno può esprimere alcuni motivi concreti della sua gratitudine: la riconoscenza per la vita battesimale, gli aiuti speciali che il Signore gli ha dato in questo periodo, un’ispirazione che gli ha permesso di fare la scelta giusta, la possibilità di fare del bene in un ambiente, una buona lettura, il conforto di una persona cara, la vittoria su una tentazione, e tanti altri motivi ancora. È un vero ribaltamento della partenza: al centro della Confessione non ci sono i peccati da cancellare ma c’è l’amore del Padre da celebrare. La confessione del peccato avviene dentro la confessione di Dio, di lui riconosciuto e confessato come Padre amante e di me come figlio amato e continuamente rinnovato. La lode è il modo corretto per mettersi da-vanti a Dio e al peccato1.

Il secondo momento è la confessio vitae, cioè la manifestazione della vita, così come l’ho vissuta, anche coi miei pecca-ti. Il salmo 32 ci aiuta a capire cosa significa confessare i peccati: «Ti ho manifestato il mio peccato, non ho tenuto na-scosto il mio errore. Ho detto: “Confesserò al Signore le mie colpe” e tu hai rimesso la malizia del mio pecccato». Con-fessare i peccati vuol dire non nasconderli, cioè non negarli ma riconoscerli come atti miei, in cui io ho messo in gioco la mia libertà nel male. Nascondere il peccato vuol dire coprirlo, ma per la Bibbia coprire il peccato significa perdonar-lo, e ciò è possibile solo a Dio. Manifestare i peccati significa riconoscere che nessuno può darsi il perdono e togliersi di dosso le sue colpe. Confessarsi implica il coraggio di «dirsi» e di dire a Dio la malizia del proprio peccato. Chi si con-fessa fa la verità dentro di sé e viene alla luce (Gv 3,21). Ma che cosa confessare? Non uno stato di colpevolezza generale e diffusa. Si avvallerebbe l’idea che siamo in un mon-do di peccato ma senza peccatori. La confessione personale dei peccati mi consente di dire per quali strade sono stato riassoggettato al dominio del peccato, che era stato sconfitto e vinto nel Battesimo, ma che ha ripreso forza nei peccati particolari in cui sono ricaduto. Mentre dico il peccato, in forma precisa, dico che nel mio essere spirituale ero impegna-to in queste scelte. Affermo la mia responsabilità concreta e non generica rispetto a queste azioni: non sono accadute, sono state volute, da me! Mentre accetto di giudicare come peccato queste mie azioni, mi separo da esse. È il giudizio tipico della Croce: da una parte fa soffrire perché smaschera e condanna il male, dall’altra solleva e consola perché libe-ra dal giogo del male. Qual è il contenuto (la “materia”) della confessione? Si confessa, anzitutto, lo stato peccaminoso del cuore, come e per-ché ci si è sottratti alla relazione battesimale con Dio (la vipera madre e i viperini); si confessano, poi, quelle azioni peccaminose, gravi in se stesse, con cui si è consciamente voluto che la logica della fede non entrasse a decidere di co-me organizzare alcuni ambiti precisi della vita personale e sociale2. Sono oggetto della confessione anche i peccati di

1 “Per lodare Dio, tu ti accusi: infatti la sua misericordia consiste nel rimettere i tuoi peccati. Non fa parte dunque della lode di Dio, la confessione dei tuoi peccati? Ne fa parte al grado massimo. E perché? Perché ci si rallegra col medico quanto più disperato era il caso del malato…Se ci pensi bene, il rimprovero che fai a te è una lode per lui. Perché lo lodi anche nel riconoscimento del tuo peccato? Perché da morto che eri sei ritornato vivo…Ora, se colui che confessa il suo peccato è ritornato dalla morte, chi lo ha risuscitato?…Dunque nella confessione c’è l’accusa di sé e la lode di Dio… Sia che ci accusiamo, sia che lodiamo Dio, noi lodiamo Dio due volte. Quando ci accusiamo sinceramente, noi lodiamo Dio. E quando accusiamo noi stessi, diamo gloria a colui per il quale siamo ritornati alla vita” (AGOSTINO, Discorso 67,2-4). 2 “Attualmente nella confessione si parla molto di peccati al plurale, ma non si parla abbastanza del peccato al singola-re... molti penitenti concentrano la loro attenzione esclusivamente sulla materialità dei vari peccati, sulla trasgressione dei vari comandamenti, e non pensano sufficientemente a quella che potrebbe essere chiamata la dimensione profonda di tutti i peccati, il cuore alienato da Dio... L’importante è sempre il cuore; gli atti esterni hanno un valore in quanto ri-velano la tendenza del cuore. Infatti quello che conta dinanzi a Dio è l’opzione fondamentale con cui il cristiano accetta o rifiuta la volontà di Dio come norma della propria vita. Quest’opzione fondamentale si incarna nelle varie scelte parti-colari. Nella penitenza non basta raccontare le scelte particolari erronee; il racconto delle proprie colpe è importante perché fa capire fino a qual grado il nostro cuore ha abbandonato il Signore e dà a noi l’occasione, attraverso i peccati singoli, di detestare la forza propellente delle varie trasgressioni, per cui cambiamo il nostro modo di pensare, di sentire,

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omissione, quell’insieme di decisioni non prese e di azioni non fatte per cui si è rimasti al di qua rispetto alle effettive potenzialità a cui la libertà veniva sollecitata dalla grazia. Anche le negligenze e le mancanze quotidiane, per quanto lievi, vanno prese sul serio perché possono rappresentare l’ante-storia di una grave infedeltà, l’inizio di un’evoluzione che porta ad allontanarsi gradualmente da Dio (Teofane il Recluso dice che la tentazione non fa mai passare d’un sol colpo dalle cose buone alle cose cattive, ma distrae dal Signore facendo passare dalle cose primarie alle secondarie, an-che se apparentemente innocue, e da queste a quelle cattive). Per finire, accenno a quelle esperienze di male che in mol-te persone pesano ancora sul cuore come morti interiori in attesa di risurrezione (ferite profonde, gravi errori del passato per cui non ci si dà pace). Può darsi che siano già state confessate e più volte (magari in un tempo in cui la coscienza era meno illuminata o pentita), ma la cosa non va liquidata superficialmente come un caso di scrupolosità e va rispettato il desiderio della persona di consegnare a Dio questi vissuti perché siano più profondamente purificati.

Il terzo momento è la confessio fidei, cioè la confessione della fede. Alcuni ritengono di confessare sempre le stesse co-se e che, quindi, non ha più senso confessarsi visto che non cambia nulla. Sotto queste parole si nasconde una grande verità: che cambiare è nei nostri desideri, ma non nelle nostre possibilità. Migliorare non è frutto di uno sforzo ascetico dell’individuo religioso; è soprattutto una grazia che ci viene dall’immergerci nel sangue di Cristo custodito nel suo corpo ecclesiale, ed è proprio per questo che ci è dato il sacramento della Riconciliazione. Così il nostro desiderio di conversione e il nostro impegno penitenziale vengono uniti ad un profondo atto di fede nella potenza risanatrice e puri-ficatrice dello Spirito che opera in questo sacramento. Confessare i peccati non comporta semplicemente di ammetterli, alla maniera di un’autoaccusa in tribunale; con questo atto noi deponiamo il nostro cuore peccatore nel Cuore di Gesù, affinché lo guarisca e lo trasformi con la sua potenza. Quindi la confessio fidei è dire al Signore: «Signore, io sono co-sciente della mia fragilità; sono già caduto tante volte e so che posso continuamente ricadere; mi affido alla tua custo-dia, so che tu puoi preservarmi dal male, confido nel tuo aiuto quando dovrò lottare nella tentazione, illuminami perché sappia collaborare con le opere della penitenza a guarire le ferite e le conseguenze lasciate in me dal male e tutta la mia persona, mente, volontà, affetti, corporeità possa vivere nella vita nuova e renderti il culto della lode con le labbra e con le opere». Una confessione fatta così rispetta la nostra crescita spirituale e non ci annoia, perché è un’esperienza sempre nuova della conoscenza dell’amore trinitario. Ogni volta ci accorgiamo di alcuni aspetti negativi del nostro essere che non vanno trascurati: desideri ambigui, intenzioni sbagliate, sentimenti falsi, opere contaminate dal male che contraddi-cono la nostra dignità battesimale. In ogni celebrazione del perdono veniamo immersi nella Pasqua di Gesù e ci è dato di scoprire nuove sfumature dell’amore di Dio. Per questa ragione, il sacramento mantiene il suo valore anche quando lo celebriamo non perché abbiamo bisogno di venire riconciliati dopo aver commesso una grave infedeltà all’alleanza battesimale (il peccato mortale che “fa morire in noi la vita divina”), ma per essere purificati dalle mancanze quotidiane e più profondamente uniti alla morte di Gesù che sconfigge ogni male.

Proponiamo degli esempi, composti e utilizzati da alcuni penitenti che hanno autorizzato la loro divulgazione; trala-sciamo, chiaramente, l’accusa dei singoli peccati.

Primo esempio (confessio laudis, vitae, fidei)

Signore Gesù vedimi, Signore Gesù guardami, Signore Gesù scrutami, Signore Gesù Cristo Figlio di Dio abbi pietà di me peccatrice. Signore accogli la mia confessione come desiderio sincero di stare in comunione con Te e di obbedirti. Ti lodo per la tua grandezza e per il tuo mistero e ti ringrazio per il dono dell’Eucaristia, della tua Parola, della Preghiera. «Ma a me chi mi ama?» (cf Lc 10,29). Ti ringrazio per il dono della paternità spirituale dei miei sacerdoti. La trasparenza e la misericordia con la quale mi accompagnano mi hanno rivelato la tenerezza e la dolcezza del tuo amore, mi hanno mostrato come un cristiano vuole bene ai fratelli. Nella grandezza della tua misericordia tutto si ricompone: famiglia, amici, passioni, divisioni, incomprensioni, fatiche…Con la pre-ghiera tutto ritorna a Te. «Avrete forza dall’alto» (cf Lc 24,49; At 1,8). Così è stato! Un grazie grande ai santi protettori, specie San Bernardo, che mi è stato indicato come santo-amico, che, invocato in varie situazioni lavorative mi ha salva-ta. Grazie, Signore per avermi più volte salvata nella mia vita passata. Grazie per il dono degli esercizi spiri-tuali che uniti alla Preghiera del cuore hanno dato sapore e gusto straordinario alle piccole cose di ogni gior-no, mi hanno aiutata nelle tribolazioni, mantenuta nella pace e anche…messa di buon umore.

Nella pace il mio cuore, benché sordo e ingessato, ha sentito: «Là canterà come nei giorni della sua giovi-nezza» (Os 2,17). Della mia giovinezza ho trovato le lacrime. Perdonami per il bene che non ho compiuto, per non aver obbedito a Te. Perdonami i peccati commessi contro di Te (confessa le resistenze e le chiusure

di apprezzare e di volere. Questa è la “metanoia”...La prima riforma della penitenza deve essere, non di diminuire l’attenzione ai singoli peccati, ma di approfondire l’accusa dei singoli peccati considerandoli nell’orizzonte della nostra relazione filiale con il Padre (Z. ALSZEGHY, «La confessione nella pietà cristiana», in Credo nella remissione dei peccati, Assisi 1966, 89).

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all’amore di Dio), a danno dei miei fratelli (confessa i peccati relativi all’amore del prossimo), e contrari al-la mia dignità di tua figlia (confessa i peccati relativi al sano amore di se stessi).

Se vuoi, donami la grazia di obbedirti come un bambino.

Secondo esempio (in chiave trinitaria)

Insieme con tutta la Chiesa, ti benedico e ti rendo grazie, Dio Padre mio, di tutta la tua bontà per me e del-la tua benevolenza che mi accompagna ogni giorno. Ti chiedo perdono, o Padre del figlio prodigo, perché a volte mi sono allontanato da te, non ho ascoltato i tuoi consigli, non ho risposto al tuo invito, soprattutto su questo punto e quest’altro [confessa alcuni peccati precisi]. Insieme con tutta la Chiesa, ti confesso e ti ringrazio, Gesù mio Salvatore, che hai versato il tuo sangue per me, che mi hai chiamato a seguirti e a servirti nei tuoi fratelli, soprattutto i più piccoli e i più poveri. Ti chie-do perdono, o mio amatissimo Signore, perché non ho risposto al tuo amore, perché ho cercato di evitare la tua croce, perché non ti ho riconosciuto nei fratelli che tu mi mandavi, specialmente in quella occasione e in quell’altra [confessa alcuni peccati precisi]. Insieme con tutta la Chiesa, ti lodo e ti ringrazio, Spirito Santo, che non cessi di soffiare sulla tua Chiesa e su di me. Così spesso tu mi hai ispirato, mi hai dato la tua luce e la tua energia. Ma ti chiedo perdono, Santo Spirito, perché spesso ho resistito al tuo soffio, ho chiuso gli occhi alla tua luce, non ho seguito le tue ispira-zioni e al contrario ho cercato la mia ispirazione altrove, specialmente in quella circostanza e in quell’ altra [confessa alcuni peccati precisi]. E tu, padre, che sei il ministro di Dio, comunicami il perdono del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.

Terzo esempio (in chiave battesimale)

Vieni Spirito Santo, aiutami a ricordare quante Grazie ho ricevuto e continuamente ricevo, in particolare dall’ultima confessione... Porto nella confessione il mio Battesimo, avvenuto il…era la domenica in Albis (oggi domenica della Misericordia). Dopo pochi mesi la mia mamma era già per sempre nella Gerusalemme celeste e da là mi ha continuamente accompagnata e allenata a desiderare di stare davanti al Trono, nel seno del Padre. Anche di questa Grazia ora ti benedico, Padre. Nel mio battesimo sono stata unta con olio. Il primo olio per combattere la lotta spirituale contro il male, ma ho dimenticato spesso questo dono e ho lottato da sola pensando di salvarmi. Ho assecondato lo spirito della critica, la compiacenza della mia bravura, la testardaggine delle mie opinioni, il risentimento verso chi in passato mi ha trattato con sufficienza e con ingratitudine. Il mio nome è iscritto nel Libro della vita, il libro dei battezzati. Spirito Santo, mi hai stimolato ad andare ogni giorno sulla Piazza d’Oro, per fare una continua immersione nel mistero pasquale di Gesù Cristo e ri-cominciare a vivere da figlia in novità, ma io ho preferito assecondare il bisogno di rifarmi le forze e ho spesso tralasciato il grande dono della Messa quotidiana. Nel mio Battesimo sono stata rivestita di bianco, il colore che dà colore ad ogni altro, il colore che indossano i santi, i martiri che stanno davanti a te nella lode che è il loro esistere. Questa veste bianca indica la mia ap-partenenza di figlia erede del Padre con il Figlio Cristo Signore, ma io ho sporcato questa immagine di luce quando sono stata preoccupata della mia salute, ho negato l’aiuto in denaro perché sapevo che non mi sareb-be stato restituito; ho preferito indossare il grigio della mediocrità, del minimalismo spirituale, dell’importanza del ruolo di potere nelle relazioni, approfittando della stima che riscuoto in comunità. Nel mio Battesimo mi è stato dato anche il sale che risveglia in me lo Spirito della Sapienza, che dà sapore, in piccole dosi alla realtà del quotidiano, a volte noioso, ripetitivo, terribile quando si ripropongono le divi-sioni in famiglia e la mia emicrania. Perdonami Signore ho usato troppo sale perché emergessero le mie competenze, soprattutto in materia religiosa. Sono stata un’ipocrita. Ho rovinato con troppo sale il cibo spiri-tuale che mi doni nella tua Parola. Non ho avuto equilibrio nel dosare il mio impegno per il tuo Regno ed ho reso insipido il servizio di evangelizzazione perché mal disposta o non sempre preparata a spezzare agli altri la tua Parola. Nel mio Battesimo ho ricevuto la luce della fede. Per tua grazia è rimasta accesa in me e mi hai donato di rallegrarmi alla tua Luce. Ti chiedo perdono Signore quando ho rubato questa luce perché facesse risplendere me stessa, la donna vecchia che è in me: l’ho portata a vantaggio delle mie opere invece di testi-moniare la tua opera in me. Con la bocca ti ho proclamato Signore e con il cuore ho cercato riconoscimento e approvazione dagli uomini. Il mio Battesimo è stato l’innesto nuziale nella Chiesa di Gesù Cristo Signore. Oggi nella Chiesa e per la Chiesa, tuo Corpo, voglio vivere nascosta con Cristo in te, Padre, nella certezza che lo Spirito Santo rinnova

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ogni giorno questo “amen”. Spirito Santo, affido a te, per le mani della vergine e madre Maria, il mio deside-rio di conversione e di dono nuziale. Benedici, Trinità S.S. questo sacrificio di lode per Cristo, con Cristo e in Cristo. Amen.

“Il penitente confessa poi i suoi peccati... Il sacerdote lo aiuti, se necessario, a fare con integrità la sua confessione, lo esorti a pentirsi sinceramente delle offese fatte a Dio, gli rivolga buoni consigli per indurlo a iniziare una vita nuova, e lo istruisca, qualora ce ne fosse bisogno, sui doveri della vita cristiana” (RP n. 18).

Discernimento comune degli esercizi penitenziali (RP 44)

Il ministro suggerisce uno o più esercizi penitenziali. È auspicabile che il discernimento sia fatto di comune accordo col penitente e le opere penitenziali non gli vengano imposte, ma siano da lui accolte con animo libero e ben disposto. “Se il penitente si fosse reso responsabile di danni, o avesse dato motivo di scandalo, il confessore gli ricordi il dovere di una congrua riparazione” (RP n. 18).

La preghiera del penitente (RP 45)

Il ministro invita il penitente a manifestare il pentimento e il proposito di una vita nuova, prima di ricevere l’assoluzione.

Durante la redazione del nuovo Rito della Penitenza, Paolo VI chiese di «cercare nei salmi e nei Vangeli qualche frase conveniente, breve e popolare, ma esplicitamente relativa al pentimento, alla domanda di perdono, all’invocazione della misericordia e alla conversione del cuore». Il rituale ha predisposto otto testi, desunti quasi letteralmente dalla Sacra Scrittura, fatta eccezione per la prima formula che è il tradizionale Atto di dolore (desunto dai catechismi che disattende le indicazioni di Paolo VI). Alcune conferenze episcopali hanno suggerito che «per questa richiesta di perdono si usino le formule previste dal rituale e si eliminino possibilmente quelle puerili e teologicamente povere» (Vescovi lombardi per il Giubileo 2000). Ciascuno può, dunque, imparare a memoria una delle formule proposte dal RP. Riportiamo le tre che ci sembrano preferibili, perché richiamano espressamente delle scene bibliche e fanno riferimento alla Trinità:

Signore Gesù, che sanavi gli infermi e aprivi gli occhi ai ciechi, tu che assolvesti la donna peccatrice e confermasti Pietro nel tuo amore, perdona tutti i miei peccati, e crea in me un cuore nuovo, perché io possa vivere in perfetta unione con i fratelli e annunziare a tutti la salvezza.

Signore Gesù Cristo, Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, riconciliami con il Padre nella gra-zia dello Spirito Santo; lavami nel tuo sangue da ogni peccato e fa di me un uomo/donna nuovo/a per la lode della tua gloria.

Padre santo, come il figliol prodigo mi rivolgo alla tua misericordia: «Ho peccato contro di te, non son più degno d’esser chiamato tuo figlio». Cristo Gesù, Salvatore del mondo, che hai aperto al buon ladrone le porte del paradiso, ricordati di me nel tuo regno. Spirito Santo, sorgente di pace e d’amore, fa’ che purificato da ogni colpa e riconciliato con il Padre io cammini sempre come figlio della luce».

Preghiera di Assoluzione (RP 46)

Se il penitente era seduto si mette inginocchio o inchina il capo. Il ministro tiene stese le mani (o almeno la mano de-stra) sul capo del penitente per significare l’effusione dello Spirito che rimette i peccati (Gv 20,22-23) e poi pronuncia la formula di assoluzione tracciando nell’ultima parte il segno di croce (riferimento al mistero pasquale). Propongo una traduzione più fedele all’originale latino:

Dio, Padre delle misericordie, che nella morte e risurrezione del suo Figlio ha riconciliato a sé il mondo e ha effuso lo Spirito Santo per la remissione dei peccati ti conceda, mediante il ministero della Chiesa, il perdono e la pace. E (per questo) io ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre e del Figlio † e dello Spirito Santo. (il penitente traccia il segno di croce e dice) Amen.

Rendimento di grazie e congedo del penitente (RP 47)

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Dopo l’assoluzione il ministro rivolge un invito a proseguire nella vita nuova, con fiducia nel Signore che si è manife-stato come “il Buono”:

Lodiamo il Signore perché è buono.

Il penitente risponde alla grandezza del dono ricevuto con il sacrificio della lode che esalta la misericordia di Dio e ma-nifesta la ritrova dignità sacerdotale:

Eterna è la sua misericordia (salmo 118).

Il ministro congeda il penitente riconciliato con una formula che gli augura i doni pasquali della pace, della gioia e l’eredità del regno, e allude ad alcuni aspetti della missione profetica e regale che scaturisce dall’esperienza del perdono dei peccati (l’annuncio dei mirabilia Dei; la sopportazione nella lotta contro il male come segno della vittoria pasquale sul potere di maledizione della sofferenza che è trasformata in via privilegiata di conformazione a Cristo).

Il Signore ha perdonato i tuoi peccati. Va’ in pace. / oppure: Va’ in pace e annunzia le grandi opere di Dio, che ti ha salvato. / oppure: Beato l’uomo / oppure: La Passione di nostro Signore Gesù Cristo…il bene che farai il male che dovrai sopportare, ti giovino per il perdono dei peccati, l’aumento della grazia e il premio della vita eterna.

Le celebrazioni penitenziali comunitarie

Il Rito della Penitenza prevede più riti a carattere comunitario, che non possiamo presentare in dettaglio. Semplicemente, qual è il loro valore? Anzitutto tolgono il penitente dal suo isolamento: il peccato e la con-versione di un cristiano non sono un affare privato, come pure il perdono ricevuto da uno dei membri è gra-zia per tutto il corpo della Chiesa. Quando il cristiano celebra questo sacramento s’inserisce nel cammino di conversione della Chiesa intera. Tutta la comunità accompagna la conversione dei peccatori, intercede per loro, li sostiene nella lotta per vincere il male, gode di vederli tornare al Signore e ricevere i sacramenti coi quali è loro restituita la vita divina. Ma la Chiesa è penitente non solo perché alcuni dei suoi membri com-mettono dei peccati, anche gravi. Ci sono dei peccati «comunitari» rispetto ai quali tutta la comunità si sente complice, al di là che i singoli ne siano, più o meno direttamente, responsabili. C’è bisogno di uno spazio o-rante all’interno del quale la comunità di Gesù risolve il male che sperimenta al suo interno e questo luogo ecclesiale è la sua liturgia penitenziale. La Chiesa, come se fosse un’unica persona, un “uomo totale”, si ri-conosce peccatrice e confessa i suoi ritardi nell’evangelizzazione, la sua commistione con le logiche monda-ne, la sua mediocrità nella santità, le incrostazioni di usanze non evangeliche che si trascina, le colpe storiche che attenuano la sua luminosità sul mondo. Mentre insieme si confessano peccatori, i cristiani proclamano di essere il popolo che sta sotto il perdono di Dio e che riceve la sua misericordia attraverso la Chiesa. Questa madre santa li ha generati una volta alla fede e continua a rigenerarli nella riconciliazione. Poter celebrare, almeno qualche volta all’anno, una liturgia penitenziale comunitaria, aiuta i cristiani a percepire la verità del loro «essere Chiesa»: non appartengono ad una comunità di élite, composta di uomini e donne impeccabili e perciò separati dal resto di una società corrotta; sono, piuttosto, dei «graziati» e la loro qualità di vita «non dipende dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che usa misericordia» (Rm 10,16). Le liturgie penitenziali hanno, anche, una finalità pedagogica, di iniziazione alla celebrazione della Riconci-liazione. Sono il luogo adatto a formare la coscienza del cristiano; a istruirla su cosa significa obbedire alla Parola di Dio e trovare in essa i criteri dell’agire morale; a chiarire che cos’è il peccato dal punto di vista cri-stiano e come si fa l’esame di coscienza; a maturare un pentimento sano e un proposito serio, che sono le premesse per celebrare con frutto la Riconciliazione. Spesso coloro che si presentano al confessore e non sanno «cosa dire», avvertono un bisogno confuso di comunicare i loro vissuti di peccato, ma non sanno «co-me fare a dire», cioè a mettere in parole questi vissuti. Nelle liturgie penitenziali sono aiutati a trovare quel linguaggio spirituale, capace di interpretare la coscienza e di dire il peccato. Un ulteriore vantaggio è dato dal fatto che, alle celebrazioni penitenziali, possono partecipare anche quei cristiani che non possono ricevere i sacramenti a motivo della loro situazione matrimoniale irregolare, eppure desiderano partecipare al cammino di conversione della Chiesa.

L’uomo nuovo un essere liturgico

1. La parola leitourgía1 ha compiuto nellasua storia un grande salto semantico: partitacome l’azione di chi, in genere benestante, so-steneva col suo danaro gli incarichi civili o fi-nanziava opere pubbliche, è passata a significa-re l’azione di culto. Nata per indicare una di-mensione fortemente prammatica (érgon) e co-munitaria (laós) è finita con l’essere intesa dauna parte come l’antitesi della prassi, e quindicome parte dell’aspetto contemplativo della vi-ta, e dall’altra come l’atto relativo alla fede chepiú è appannaggio dei chierici (cioè di quelloche etimologicamente è il contrario del laós in-teso come s˘naxis o synagogé, visto che signifi-ca frammento, parte, anche se eletta). Da érgona theoría, dunque, e da laós a klêros.

In epoca recente, e certo non per passionifilologiche, essa è stata in qualche modo ricol-

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1 Cf S. Marsili, “La liturgia, momento storico dellasalvezza”, in Anamnesis I, Torino 1974, 33-40.

lità. Nel Nuovo Testamento le due accezioni dinuovo come recente e di nuovo come diverso,originale, sono rese con due diversi termini: ri-spettivamente néos e kainós.

Stupefacente poi il legame della novità con ilbisogno di raccontarla, proprio per la sua straor-dinarietà. E cosí la novità diventa racconto, sto-ria, novella appunto. È come se l’uomo, posto difronte a qualcosa di mai sperimentato prima,sentisse il bisogno di farne subito il contenuto diuna comunicazione, o addirittura di un bando,di un pubblico annuncio (eu-angélion). In italia-no (ma anche in inglese, in francese, ecc.) ilVangelo è chiamato buona nuova o buona novel-la, a sottolineare questo stretto legame.

3. Le varie sensibilità culturali guardano condiverso atteggiamento questa novità. Vi è chiidealizza la “veterum sapientia” ed ama dare adogni innovazione il suffragio di una tradizioneprecedente. Se il nuovo può essere segno, spes-so per influsso proprio della novitas cristiana,dell’apertura di prospettive piú ampie e ricche,esso può, in altro senso, essere portatore di unaperdita di valori rispetto al passato.2

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2 Si pensi al giudizio di Dante sulla borghesia comu-nale emergente: “la gente nuova e i subiti guadagni” (Inf.XVI, 73), quello stesso Dante che pure nella Vita Nuovaaveva impiegato il termine proprio nel senso positivo arric-chito dalla novità cristiana.

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legata con il suo etimo: se ne è sottolineato ilcarattere di atto dell’assemblea convocata ed èsorto in modo problematico anche il suo rap-porto con la vita, cosí da raccordarla alla con-cretezza del quotidiano. Furono anzi coniateespressioni come “celebrare la vita”; “portarela storia nella liturgia”.

In questo breve testo vorrei concentrare l’at-tenzione sulla bipolarità uomo nuovo-liturgia,per concludere che, essendo la liturgia forse laparola pronunciata dalla Chiesa che piú si avvi-cina, partecipandovi, alla potenza creatrice deldabar divino, essa è il luogo nel quale, forse piúche in ogni altro, l’uomo nuovo impara a cono-scersi e, contemporaneamente, diviene la lin-gua nella quale maggiormente si esprime nellasua totalità.

Termini e storia

2. Quando si parla di uomo nuovo, ci chie-diamo quale sia il senso di nuovo. Se ci rivol-giamo alla linguistica, rileviamo che nuovo si-gnifica qualcosa di recente (nel passato, ma an-che nel futuro – l’anno nuovo –, qualche voltaaddirittura di ciclico – la luna nuova). Ciò poneuna discontinuità con quanto era precedente-mente, e dunque comporta diversità, origina-

vo nell’occasionale interlocutore esterno nonaddetto ai lavori. Egli non mancherà di chie-dersi che cosa ci sia di nuovo nell’uomo religio-so, anche proprio in relazione a quel suo arma-mentario rituale che spesso è percepito comeuna sopravvivenza del passato. E con il suoculto, vengono percepite come contraddizioneal nuovo anche quelle convinzioni d’ordinemorale che l’uomo della strada guarda con cer-ta irrisione e sufficienza, quale segno di mani-festo rifiuto della modernità.

Approccio teologico

5. Non vi è dubbio che l’uomo nuovo nelcristianesimo abbia una forte connotazione li-turgica: l’uomo vecchio viene sepolto nelle ac-que del battesimo (Rm 6,6; Ef 4,22); l’uomonuovo ne rinasce per una vita nuova (Rm 6,4)3

per opera della grazia, ad immagine di Cristo.Tutti siamo morti in Cristo, tutti viviamo in lui.“Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuo-va; le cose vecchie sono passate, ecco ne sononate di nuove” (2Cor 5,17).

Se il battesimo genera l’uomo nuovo, solol’irrompere di Dio nella storia ci darà “un cielonuovo e una terra nuova” (Ap 21,1), ma in qual-

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3 Si veda anche la metafora dell’abito in Col 3,9-10.

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Una svolta determinante viene, a mio avviso,con l’umanesimo e il rinascimento che, pur ri-facendosi al passato classico, intravvedono nel-l’uomo nuovo sempre piú un progresso, anchese attribuiscono all’espressione un valore tuttoproprio. La dialettica fra accettazione e valoriz-zazione del nuovo e bisogno di tuffarlo ad ognicosto nella continuità col passato, quando nonsi può eliminarlo, segna la storia pendolare deisecoli successivi: dall’entusiasmo novatore deiLumi alla nostalgia romantica, fino alla sospen-sione di giudizio che sembra segnare le epochesuccessive, con la pesante ipoteca contro il giu-dizio morale, e quindi con una supervalutazio-ne dell’oggettivo. In tal senso il nuovo è solo si-nonimo di aggiornato e quindi di piú moderno,ma si rifugge da ogni valutazione sulla sua bon-tà o iniquità.

Curioso che l’epilogo della storia etimologi-ca del nuovo ci porti oggi a confrontarci con letele-novelas, riemergere del nuovo (almeno lin-guisticamente) per indicare una storia romanti-ca e lagrimevole, ma anche molto alla moda,erede dei novellieri antichi, immersa però inquanto di piú banale presenta un romanticismovolgarizzato.

4. L’espressione, poi, uomo nuovo, come vie-ne spesso ripetuta nel linguaggio della Chiesa,suscita oggi probabilmente qualche interrogati-

squarcia, perché la vittima è immolata non neltempio, ma nel cuore della storia umana (cf Mt27,51; Mc 15,38; Lc 23,45). Tuttavia il rapportocon il “culto templare” è polemico soprattuttoquando questo implica la sclerotizzazione diabitudini conformiste e meccaniche, autogiu-stificatorie. A stigmatizzare questo già si eranoimpegnati i profeti nello stesso Israele. Di fatto,tra l’altro, sia Cristo che i discepoli continuanoa recarsi al tempio, almeno fin che è loro per-messo. La lettera agli Ebrei è l’emblema del rap-porto fra tipo e pienezza, tra anticipazione vete-rotestamentaria e compimento cristico, che sa-rà poi una costante nella lettura patristica edanche nella letteratura liturgica, anche a riguar-do del culto.

È comunque chiaro che riemergerà ben pre-sto nella Chiesa una sorta di rivisitazione sim-bolica delle immagini del culto veterotestamen-tario, come mostrano con chiarezza in partico-lare le allegorie evocate dai riti delle Sacre Or-dinazioni.

Gli stessi testi liturgici si pongono in conti-nuità anche genetica e stilistica con i testi delGiudaismo (si pensi al rapporto fra Berakoth eAnafore cristiane6 o al permanere di strutture

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6 Cf F. Brovelli, “Prece eucaristica”, in Nuovo Dizio-nario di Liturgia, Alba 1982, 1083-4 e relativa bibliografia.

che misteriosa continuità con la “nuova crea-zione”, la “ri-creazione” inaugurata dal Cristocon la sua risurrezione, nella quale tutto il co-smo è trascinato, nelle doglie di un parto che èancora oggi gemito e sofferenza, in quanto sia-mo salvati nella speranza (cf Rm 8,19-25).4

La Chiesa si trova fin dal suo inizio a con-frontarsi con la percezione della sua continuitàcon la rivelazione di Dio ad Israele e la certez-za, ad un tempo, di una novità, che comportase non una rottura, almeno un’estensione equindi una diversificazione.5

6. La storia del culto cristiano rispecchiaesattamente questa bipolarità fra continuità enovità.

La categoria di sacrifici spirituali (1Pt 2,5),del culto in spirito e verità (Gv 4,23-24) sembraimplicare una pienezza rispetto al “culto tem-plare”: alla morte di Gesú il velo del tempio si

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4 Sarebbe interessante esaminare, in stretta connessio-ne con la novità, anche il divenire semantico della speranza:ogni vocabolario si trova a disagio a combinare l’aleatorietàche circonda il termine speranza, nel senso di auspicio ra-gionevole, con l’omonima virtú teologale cristiana che com-porta la certezza del compimento della salvezza. San Paolone è ben cosciente quando parla di ciò che, se visto, non èpiú speranza (Rm 8,24).

5 È la problematica, ad esempio, del primo Conciliodi Gerusalemme, cf At 13.

sere divorato dalle fiere, paragona il suo sacrifi-cio a quello eucaristico. Ai Romani che vorreb-bero evitargli il martirio egli scrive infatti:

Lasciate che io sia pasto delle belve, permezzo delle quali mi sia dato di raggiungere Dio.Sono frumento di Dio, e sarò macinato dai dentidelle fiere per diventare pane puro di Cristo (Let-tera ai Romani, 6).

8. Per quanto massicce siano state nel cri-stianesimo le infiltrazioni stoiche o dualistico-gnostiche (visibilissime in certe forme di spiri-tualità, soprattutto all’interno del monachesi-mo), la liturgia conserva una concezione dellamateria molto equilibrata ed anzi estremamen-te suggestiva: essa è ad un tempo strumento econtesto della trasfigurazione operata dalla sal-vezza di Cristo. L’incarnazione, la discesa diCristo nel Giordano, la sua risurrezione sonorappresentati come eventi cosmici, che comu-nicano agli elementi naturali la potenza salvifi-ca della Divinità. Questa ha assunto la carne,comunicandole una potenza di divinizzazione.9

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9 Si veda ad, esempio, la benedizione delle acque del6 gennaio, Teofania del Signore, nella liturgia bizantina:“Oggi è santificata la natura delle acque” (t. 8). “Tu, re del-l’universo, ti sei anche degnato di essere battezzato nelGiordano per mano del servitore, per condurci, santifican-do la natura delle acque, Signore senza peccato, alla secon-da nascita per l’acqua e per lo Spirito e restituirci la libertà

anche architettoniche di sapore ebraico negliedifici cristiani, soprattutto quelli di tradizionesiriaca7).

Questa continuità è accompagnata tuttaviada una straordinaria libertà nel creare le for-mule espressive entro le quali collocare il co-mune patrimonio della fede, diverse a secondadei contesti e delle culture.

7. L’intuizione di fondo del culto cristiano èche l’uomo viene rigenerato a vita nuova, dopola conversione, nel lavacro battesimale.8 Lí sicompie un evento, una trasformazione radicale,in analogia a quella (metabolé) che si avvera ariguardo dei Doni santificati. Si tratta di unrealismo assoluto, esistenziale: l’uomo dei sa-cramenti viene mutato e poi perfezionato inprofondità proprio dall’incontro personale conCristo nella Chiesa per l’azione del sacramentostesso. Pochissimo spazio la Chiesa primitivariserva all’aspetto psicologico di tale impatto.Ed anzi, sarà la vita a doversi conformare alrealismo dei sacramenti, considerati pertanto lavera realtà, in quanto inizio della nuova crea-zione. Quando Ignazio d’Antiochia sta per es-

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7 Cf L. Bouyer, Il rito e l’uomo. Sacralità naturale e li-turgia, Brescia 1964, 210-1.

8 Si pensi all’episodio di Filippo e dell’eunuco di Can-dace in At 8,26-39 o alla conversione di Paolo in At 9,18.

Io non venero la materia, ma il Creatoredella materia, che è diventato materia a causamia, nella materia ha accettato di abitare e attra-verso la materia ha operato la mia salvezza...

Io onoro e tratto con venerazione anchetutta l’altra materia attraverso la quale è avvenutala mia salvezza, poiché essa è piena di potenza edi grazia divina12 (Contra imaginum, I, 16).

Se si vuol comprendere il significato dellacreazione per l’uomo nuovo, sarà bene interpella-re la liturgia, e in particolare, oltre alle grandi fe-ste cosmiche dell’anno liturgico, riti quali la con-sacrazione del m˘ron, la dedicazione della chiesae le benedizioni, ai quali cosí di rado si volge l’at-tenzione degli studiosi: ne usciranno immaginisorprendenti e cosí poco familiari per chi è con-vinto che il cristianesimo sia colpevole o di aversvalutato la materia o di averla sfigurata per sem-pre in nome del mandato biblico di dominarla.E se l’occidente, nel considerare i sacramenti, hatalora corso il rischio di ridurre la materia a puromezzo e strumento di un mutamento tutto inte-riore, l’oriente ha conservato, persino a volte nel-la poesia “profana”, una concezione eucaristicadel cosmo. Le cose che entrano nel sacramentonon sono puramente accidentali, né esclusiva-mente strumentali: la natura profonda di esse, sidirebbe quasi la fondamentale ragione della loro

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12 Hos theías energeías kaì cháritos émpleon.

Tale impulso ad una ricapitolazione in Cristodell’intera creazione sarà cosí potente da porretalora, soprattutto in oriente, in secondo pianopersino il libero arbitrio umano, per proclama-re una sorta di salvezza generale, solo scalfitadal limite del peccato.

La piú emblematica disamina10 di tale fun-zione della materia nella salvezza è quella cheemerge nella discussione sul culto delle icone,e che culminò nel Niceno II:11 Giovanni Dama-sceno, Teodoro Studita ed altri Padri difendo-no con forza il valore della materia e della par-tecipazione di essa al processo della salvezza.Scrive il Damasceno:

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antica” (preghiera del sacerdote durante la litania diacona-le). “In questo giorno le onde del Giordano ricevono la vir-tú di guarire per la presenza del Signore. In questo giornouna corrente mistica abbevera l’intera creazione. In questogiorno le colpe degli uomini sono lavate dalle acque delGiordano... E dunque, amico degli uomini e nostro re, vienianche ora con l’effusione del tuo Santo Spirito e santificaquest’acqua. Donale la stessa benedizione e virtú redentriceche ha quella del Giordano. Fanne una fonte di immorta-lità, un tesoro di santificazione, per la remissione dei pecca-ti, la guarigione delle malattie e la sconfitta dei demoni; siainaccessibile alle potenze nemiche e piena di potere angeli-co” (Preghiera di Sofronio, Patriarca di Costantinopoli).

10 Molto piú di quella riguardo alla natura dell’Euca-ristia in occidente, già fortemente marcata dal rapporto “vi-sibile-invisibile” e “sostanza-accidenti”, e quindi piú legataad un contesto gnoseologico piuttosto che soteriologico.

11 Cf DS 600-609.

Non fu oggetto di attenzione particolare perl’oriente, almeno fino a quando questo non co-minciò a farlo per polemica contro l’occidente,definire come e in quale punto il pane e il vinomutassero sostanza per divenire Corpo e San-gue di Cristo. L’oriente ha visto invece esten-dersi immensamente il potere consacratoriodello Spirito. Lo dimostra il linguaggio prolet-tico che spesso impiega i termini di Corpo eSangue ben prima della stessa Anafora,14 il pro-strarsi del popolo al passaggio dei santi Doni alGrande Ingresso e spesso l’esserne benedetti,ricevendone l’imposizione sul capo. A ciò vaaggiunto persino il percepire gli elementi natu-rali come destinati all’Eucaristia mentre ancoracrescono nel campo. Un esempio significativo èdato dalla poesia La Semina dell’armeno Da-niel Varujan (1884-1915):

Semina, contadino – in nome dell’ostia delSignore

germi di luce straripino dalle tue dita;in ciascuna delle spighe bianche di lattematurerà domani una parte del corpo di

Gesú.15

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14 Si pensi al marmin terunakan della liturgia armena oall’onitha d’Raze della liturgia caldea.

15 D. Varoujan, Il canto del pane (a cura di A. Arslan),Milano 1992, 50-1.

creazione, consiste proprio nella deputazione sa-cramentale. È come se l’uso quotidiano non neesaurisse appieno la carica di significato, ma ri-mandasse sempre ad una intensità che soltantola creazione sapeva esprimere e, dopo il peccato,solo la sua destinazione liturgica, in quanto anti-cipo della nuova creazione. Cosí, ad esempio,l’olio e l’unguento, che avevano nella vita quoti-diana un impiego cosmetico o medicinale (olioper ungere i muscoli degli atleti, balsamo perprofumare o per guarire da certe malattie) paio-no trovare pienezza di senso solo nel sacramen-to, quando servono a consacrare i re e i sacerdo-ti, ad ungere i catecumeni perché corrano connuovo vigore il percorso della vita in Cristo, adare sollievo fisico e spirituale ai malati.

Il tempio stesso diviene una sorta di com-pendio del cosmo, di simbolo globale, di puntopiú alto per la vocazione eucaristica della mate-ria, che però non è solo indicazione convenzio-nale della creazione, ma è luogo nel quale lamateria si offre alla storia per diventare teatrodella salvezza liturgica.13

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13 Ho cercato di mostrare questo approccio come ap-pare in un teologo armeno del XII secolo in “Spazi e movi-mento nel tempio come mistagogia in Nerses di Lambron”in AAVV, Atti del Quinto Simposio Internazionale di ArteArmena, 1988, Venezia S. Lazzaro 1992.

salvezza, ci ha concesso di danzare con gli abitan-ti del cielo le danze spirituali e di creare melodie,con i Serafini e i Cherubini, cantando all’unisonoil trisagio e, gridando con coraggio, di esclamarecon essi a gran voce, dicendo: santo, santo, santo.

Questo testo è davvero ricchissimo. Nel suoamore Dio, attraverso l’incarnazione, riporta ilcreato, decaduto a causa della colpa, alla gloriadelle sue origini, guarendolo e restaurandolo, efacendo di esso, come il cielo, un luogo per lasua abitazione. Ma tale collegamento fra la terrae il cielo si spinge ben oltre e tocca la naturastessa della persona umana. A questa infatti eraimpossibile persino osare di avvicinarsi alla di-vinità, poiché Dio rimaneva irraggiungibile nel-la pienezza della sua essenza; neppure gli angelipotevano avere accesso al suo intimo mistero.L’incarnazione elimina ogni distanza, colma o-gni fossato che pure continua a disgiungere on-tologicamente l’uomo da Dio. Allora veramentela terra diventa cielo, l’uomo può abitare conDio e, rivestito di coraggio,18 è in grado di unirsiagli angeli nel canto e nella danza di lode. È in-fatti la dossologia, cioè la danza e il canto perDio, la reazione naturale dell’uomo di fronte aquesto torrente di grazia; ed è la dossologia l’e-

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18 In armeno hamarzakapes traduce la parrhesía greca.Analogamente anche nell’orazione prima del Pater, hamar-zakazayn barbarov, “con parola franca”.

È ciò che in oriente è spesso definito liturgiacosmica.16

9. E, dopo la materia, ecco l’uomo, lo stesso“uomo nuovo”. Abbiamo visto come san Paoloponga nella liturgia l’origine stessa del termine.Ma liturgica è anche la piena comprensionedella sua natura, e liturgica la sua vocazione.

Come appare l’uomo della liturgia? Sospe-so, e a volte esistenzialmente lacerato, fra la po-vertà di una natura ferita e la gloria che gli èdonata di essere chiamato a diventare dio pergrazia: “Il fango non è piú fango: avendo rice-vuto la forma regale, diventa il corpo stesso delre” (Nicola Cabasilas, La Vita in Cristo, PG150, 581b).

Cosí canta il prefazio della liturgia armena:

Il Padre, quale divino architetto, ha fattodi questa terra un cielo. Colui infatti alla cui pre-senza non riuscivano a stare gli stuoli dei Vigilan-ti,17 atterriti dalla sfolgorante luce inaccessibiledella tua divinità, divenuto uomo per la nostra

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16 Si veda, quali testi emblematici, A. Schmemann, TheWorld as Sacrament, London 1994 e I. Zizioulas, Il creatocome eucaristia, Magnano (VC) 1994. Interessante il fattoche l’opera teologica cui E. Schillebeeckx sta lavorandomuova i suoi passi proprio da questa teologia del cosmo edella festa come fondamento della sacramentaria: cf IlRegno-attualità, 22 (1994), 672-4.

17 Gli angeli.

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spressione piú elevata che esprime nell’uomo lanovità di questo dono paradossale.

È realista l’uomo liturgico, quando canta lavertigine metafisica della creatura, limitata e im-poverita, di fronte a Colui che è al di là di ogniumana comprensione. Ma è colmo di stuporeammirato, quando scopre che a quella creaturaè donata la vocazione e persino la forza dellacomunione con Dio. Legge col dolore della con-danna della Genesi lo stato di sofferente trava-glio nel quale versa la persona umana, spessofrustrata di fronte alle stesse aspirazioni dellasua natura, appesantita dalla tenda di un corpovelato di opacità e ribelle alla volontà. Non c’èqui la falsa illusione che la celebrazione della fe-sta del cosmo elimini il dramma di una umanitàancora segnata, indebolita dal peccato.

Signore, non sono degno che tu entri nellasordida casa della mia anima; ma come ti sei de-gnato di giacere in una grotta e in una mangiatoiada animali, e di assiderti nella casa di Simone illebbroso, accogliendo la peccatrice colpevole si-mile a me, degnati di entrare nella mangiatoia del-la mia anima stolta (alógou) e nel corpo di me,morto e lebbroso. E come non hai disprezzato labocca impura della peccatrice, che baciava i tuoipiedi immacolati, cosí, Signore Dio mio, non di-sprezzare neppure me peccatore ma, poiché seibuono e amico degli uomini, fammi degno di par-tecipare al tuo santissimo Corpo e al tuo Sangue.(Preghiera prima della comunione nella Divina Li-turgia bizantina di san Giovanni Crisostomo).

L’uomo liturgico però richiama la sua po-vertà per poter cantare, con commossa ricono-scenza, la guarigione che gli è donata: egli ve-nera le vesti bianche dell’Uomo nuovo, fatteluminose sul Tabor, quale prelibazione e iconaprofetica della gloria futura cui è chiamata lapersona umana nella sua interezza.

Avendo rivestito l’intero Adamo, in cam-bio tu fai risplendere la sua natura un tempooscurata e l’hai divinizzata trasformando il tuoaspetto (Ode 3 t. 4 del Mattutino della Trasfigura-zione nella liturgia bizantina).

Ricorda con struggente nostalgia i benefici ri-cevuti nella storia della salvezza e, sentendosi ac-colto e perdonato come i peccatori del Vangelo,sa di vedere ora solo come in uno specchio (cf1Cor 13,12), ma attende con ferma speranza lapiena rivelazione dei figli di Dio (Rm 8,19).Anzi, tutta la liturgia non è che un grido, un’in-vocazione, un trasalimento di fronte allo Sposo,amato e sottratto, perché ritorni e l’unione siaper sempre. Il senso concretissimo della propriamiseria e la proclamazione di una salvezza giàinaugurata ma ancora velata eppure percepitaproprio nella liturgia, “cielo sulla terra”, fa saliredal profondo l’invocazione escatologica perchéla verità piena si disveli e la provvisorietà ceda ilposto ad una definitività beata. Un limite dilata-to dalla grazia, una speranza infinita, un’attesaaccorata che invoca. Ecco l’uomo della liturgia.

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Tutta la persona umana è convocata dallacelebrazione: intelletto librantesi quanto piú gliè dato verso l’alto, cui lo conduce un linguag-gio carico, teso oltre ogni umana possibilità;cuore reso appassionato dal convergere di sen-sazioni tutte rivolte al disvelarsi del mistero;sguardo proteso verso e oltre il segno, olfattoinebriato dall’incenso, udito rapito nel canto,reso attento alla parola proclamata, saziato dalsilenzio della Presenza; le stesse membra, mos-se all’unisono all’interno dell’assemblea nellagrande ritualità antica dell’adorazione, dell’a-scolto, della eretta dignità del salvato.

Ma non solo tutta la persona è coinvolta nel-la liturgia: anche tutte le persone, cioè l’interacomunità è costituita in assemblea celebrante.La persona umana è con-vocata, cioè ad un tem-po chiamata e riunita in popolo, in quella im-magine veramente eucaristica che è il Corpo diCristo. In fin dei conti l’Apostolo Paolo ritienedi descrivere l’istituzione dell’Eucaristia (1Cor11,17-34) ponendola all’interno della cornice diquel vero “discernimento del Corpo” che con-siste nel rispettare e onorare l’uguale dignità ditutti nella Chiesa, che è il Corpo del Signore,senza distinzioni di censo o di stato sociale. Egliosserva che il significato del sacramento è smen-tito nella realtà e che si oltraggia il Corpo diCristo che è la Chiesa, accedendo poi con disin-voltura al corpo eucaristico di Cristo. Si richia-

ma cosí l’unità indissolubile fra questi due a-spetti dell’unico sacramento. Solo questa veritàesistenziale è il pieno rispetto della dignità sa-cramentale di chi sa discernere “il Corpo delSignore”. Infatti “il calice della benedizione chenoi benediciamo, non è forse comunione con ilsangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo,non è forse comunione con il corpo di Cristo?Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo mol-ti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipia-mo dell’unico pane” (1Cor 10,16-17), nel totusChristus (cf Agostino, Enarr. in Ps. 56,1; Deunitate Ecclesiae 4,7).

Ancora una volta si guarda la liturgia per ca-pire la vita, e non viceversa, perché la liturgia èl’occhio nuovo, quello vero, quello di Dio, sullavita. Ma il Corpo del Signore non è costituitounicamente da coloro che oggi visibilmentepartecipano all’azione liturgica: questa anzi con-voca l’intero Corpo di Cristo, misticamente pre-sente alla celebrazione, in quanto la stessa as-semblea è convocata alla Gerusalemme celeste,a cantare il suo alleluja davanti al trono dell’A-gnello (cf Ap 19,1-7). Per questo in particolarele liturgie orientali, nella disposizione e nellafattura del tempio, amano ricordare che la litur-gia è una visita alla Gerusalemme del cielo, e leicone sono il simbolo della reale presenza degliangeli, dei santi, cui si uniscono i defunti e ilontani, per i quali si prega nella liturgia stessa.

salvifica, sicché gli avvenimenti della storia del-la salvezza si fanno presenti nell’hodie liturgico.Nella liturgia io sono contemporaneo di tutti e imisteri della storia della salvezza sono a mecontemporanei. Per questo al ciclo lineare deisacramenti della vita si accompagna il ritornociclico dell’anno liturgico.

11. La liturgia sa anche chiarire quale sia illinguaggio privilegiato dell’uomo nuovo.

Quella che sto per fare è un’osservazioneovvia, che tuttavia a volte ci sfugge nelle sueimplicazioni: la Scrittura non è un trattato: èun racconto. E ciò che vi è narrato è connotatodallo spessore, spesso greve ma sempre realissi-mo, della storia, cioè di una parola che si faazione: storia di un popolo, storia di uomini edonne, storia di incontri con Dio, storia di unafedeltà irrinunciabile da parte di Dio. Ebbene,la liturgia è egualmente narrazione, sotto formadi vocazione, dialogo, invocazione: è la celebra-zione della storia della salvezza che continua eche, mentre viene celebrata, si attua, perché in-serita in un movimento teandrico:20 l’azione del-l’uomo si compie in Dio e l’azione di Dio nel-l’uomo. È dunque chiara la ragione per la qua-

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L’uomo nuovo un essere liturgico

20 C. Andronikof, “Liturgique et liturgie. Méthode etprière”, in AAVV, La liturgie: son sens, son esprit, sa métho-de, Roma 1982, 20.

Noi che misticamente raffiguriamo (eiko-nízontes) i cherubini e alla Trinità vivificante can-tiamo l’inno trisagio, deponiamo ogni umana pre-occupazione, affinché possiamo accogliere il redell’universo, scortato invisibilmente dalle schiereangeliche. Alleluja, alleluja, alleluja. (Inno deiCherubini della Divina liturgia bizantina di sanGiovanni Crisostomo e di quella armena).

Vi è dunque una dimensione spaziale della li-turgia che costituisce la fisica dell’uomo nuovo.

10. Dopo lo spazio, non si può dimenticarela dimensione del tempo che all’uomo nuovoderiva proprio dalla liturgia.19 Esso non è iltempo puramente ciclico dei miti, il ritornarecontinuo della vita su se stessa, e non è nem-meno soltanto un tempo lineare, fatto di unasequenza inarrestabile di attimi, aperti verso unpunto omega: è una sintesi dei due, un tempo aspirale. L’asse della spirale è sempre costituitadal giorno primo e ottavo, il giorno della risur-rezione, la Pasqua. Il tempo della singola per-sona, che si inserisce nella linea di una salvezzavoluta dalle origini e aperta verso l’éschaton; iltempo di un’assemblea che vive la sua storia dipellegrinaggio verso il Regno, si inseriscono nelmemoriale che, in continuità con lo zikkarôndell’Antico Testamento, crea una simultaneità

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Claudio Gugerotti

19 Bouyer, Il rito e l’uomo, cit., 235-55.

forza di prorompere e divenire Parola, con ge-miti inenarrabili (o inespressi, come non menosignificativamente, implica il greco aláletos).21

Le parole e i gesti degli uomini, metabolizzatinello Spirito, sono fatti propri dalla Parola cheinvoca ed ottiene misericordia e riconciliazionedal Padre. A lui la parola ricorda (anámnesis,memoriale)22 la piena rotondità della Parola ge-nerata e del Soffio spirato per dar vita al primouomo, poi uomo vecchio, poi tipo dell’uomonuovo.23

Un’unica, ininterrotta parola, ugualmentecreatrice, ugualmente salvatrice, ugualmentesantificatrice. Storia della salvezza consegnatanel Libro, continuata e attuata nel sacramentodella Chiesa.

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L’uomo nuovo un essere liturgico

21 Cf C. Gugerotti, “Parola e silenzio nelle liturgie o-rientali”, in Le forme del silenzio e della parola (a cura di M.Baldini e S. Zucal), Brescia 1989.

22 Questo ricordo al Padre è il significato che J. Jeremiasattribuisce all’espressione evangelica “fate questo in memo-ria di me” (Lc 22,19; 1Cor 11,25), in Le parole dell’ultimacena, Brescia 1973, 297-318.

23 Per il punto sulla teologia narrativa si veda C. Roc-chetta, “Teologia narrativa. Una nuova figura di teologia?”,in Ricerche teologiche 2 (1991), 153-80 e, dello stesso auto-re, “Teologia narrativa II”, in Ricerche teologiche 2 (1992),235-74.

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Claudio Gugerotti

le, nell’antichità, la Scrittura e la liturgia veni-vano accostate con lo stesso metodo e ne veni-vano fatti scaturire i quattro sensi. Tale rappor-to con la Bibbia non si dà dunque solo perchéun posto regale occupa nella liturgia la procla-mazione della Scrittura, ma perché, fra tutte leforme di religiosità cristiana, essa è quella chepiú da vicino riproduce la completezza, la po-lifonia dell’esperienza di fede, chiamando araccolta tutto l’uomo e tutti gli uomini. Mai in-fatti la pura riflessione su Dio ha potuto ac-campare la pretesa di realizzare in atto l’ogget-to della riflessione stessa. Alla proclamazionedella Scrittura e alla liturgia è, invece, attribuitada Dio la capacità di cambiare la persona chevi è coinvolta.

Dio parla e il cosmo è creato; Dio crea l’uo-mo guardando suo Figlio, la Parola; la Parola sifa carne, germogliata dallo Spirito, e pone lasua tenda fra di noi; la Parola-Carne è immola-ta e risorge; la Parola è predicata, e chi la ode ela accetta (e viene battezzato) è salvo; la Geru-salemme celeste ha al centro la Parola immola-ta, l’Agnello, l’unico in grado di aprire il Libro.La Parola, offerta e offerente ad un tempo, nel-lo Spirito, celebrata nella Chiesa, restituisceguarigione al creato, lo porta a compimento disalvezza, e vi immerge la persona umana per-ché, nella Parola e nello Spirito, diventi uomonuovo. Lo Spirito dà al silenzio della parola la