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Intervista ad Andrea Ortolani • Fiducia nel prossimo? • L'azionabilità dei diri in Cina • Quel gusto tuo cinese per la provocazione • La Cooperazione energeca Sino-Iraniana • Oppa Europe style • SK shiſting economy • Il discorso di fine anno • Arcolo 9 – uno specchieo per le allodole • Rubrica: società, cultura e filosofia • Febbraio 2013 N°8 WWW.OSSERVATORIOASIAORIENTALE.ORG In copertina: illustrazione di Fabio Camerà, foto (CC Korea.net) Cerimonia di insediamento del presidente della Repubblica di Corea - Yeuido - 02 25/02/2013

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Intervista ad Andrea Ortolani • Fiducia nel prossimo? • L'azionabilità dei diritti in Cina • Quel gusto tutto cinese per la

provocazione • La Cooperazione energetica Sino-Iraniana • Oppa Europe style • SK shifting economy

• Il discorso di fine anno • Articolo 9 – uno specchietto per le allodole •

Rubrica: società, cultura e filosofia •

Febbraio 2013 N°8

WWW.OSSERVATORIOASIAORIENTALE.ORG

In copertina: illustrazione di Fabio Camerà, foto (CC Korea.net)

Cerimonia di insediamento del presidente della Repubblica di Corea - Yeuido - 02 25/02/2013

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2 Intervista ad Andrea Ortolani 6 Fiducia nel prossimo? 8 L'azionabilità dei diritti in Cina. 11 Quel gusto tutto cinese per la provocazione. 14 La Cooperazione energetica Sino-Iraniana 18 Oppa Europe style. 22 SK Economy shifting 25 Il discorso di fine anno 17 Articolo 9 – uno specchietto per le allodole. 30 Rubrica: L'estetica giapponese

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Febbraio - Numero 8°

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Direttore Cesare Scartozzi Caporedattore Rebecca Ravalli Autori Guidogiorgio Bodrato Luca Bruno Micol Cavuoto Mei Giacomo Giglio Cristiano Gimmelli Tullia Penna Rebecca Ravalli Cesare Scartozzi

Riccardo Tremolada Cronache Internazionali Bianca Trovò L’associazione Associazione Culturale Osservatorio dell’Asia Orientale. Via Palmieri 25, Torino, 10138, Italia. C.F./P.IVA 97748700016

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Intervista ad Andrea Ortolani di Cesare Scartozzi e Rebecca Ravalli

Andrea Ortolani vive a Tokyo dal 2003 e si occupa, di diritto giapponese e diritto comparato. Scrive sull'interessantissimo blog "Il diritto c’è, ma non si vede" con l’obiettivo di presentare al pubblico italiano informazioni di attualità sul diritto giapponese nel suo complesso e approfondimenti sui temi più importanti. Blog: dirittogiapponese.wordpress.com Twitter: @ortospace

1) In occasione delle ultime elezioni giapponesi il Manifesto elettorale dell'LDP (Liberal Democratic Party) ha rilanciato e ufficializzato come linea di partito alcune proposte politiche proprie di Shinzo Abe e della sua passata amministrazione. Tra queste spicca l'emendamento costituzionale dell'Articolo 9 sulla “rinuncia alla guerra". Quale futuro si prospetta e si auspica per questa modifica costituzionale? Più che futuro, direi quale passato si prospetta per questo articolo. L’art. 9 è stato per decenni il simbolo del cosiddetto pacifismo giapponese, ed il problema della modifica costituzionale è un problema prima di tutto di simboli.

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È stato relativamente semplice mantenere intatto l’art. 9 per i primi 50 anni di vita della Costituzione, sia perché non vi erano potenze regionali che potessero tenere testa a Stati Uniti e Giappone, legati dal Trattato di Sicurezza del 1960, sia perché il Giappone poteva così delegare parte dei compiti di difesa nazionale proprio agli Stati Uniti, che tenevano importanti basi militari sull’Arcipelago. Se tuttavia guardiamo la realtà oltre al simbolo, vediamo che il Giappone ha aggirato la disposizione dell’art. 9 comma 2 etichettando le forze armate di terra, mare ed aria come “forze di autodifesa”, e ha nel tempo istituito forze che assomigliano molto ad un esercito, una marina e un’aeronautica militare. Inoltre, grazie al programma nucleare “civile”, il Giappone possiede tecnologia e strutture che gli permettono, volendo, di costruire la bomba atomica in pochi mesi, e materiale per costruire dalle 5.000 alle 10.000 testate nucleari. Mi pare dunque che la modifica rivesta soprattutto un valore simbolico da usare nell’agone politico interno, poiché in passato le scelte in materia di difesa hanno sostanzialmente ignorato il dettato costituzionale e sono state prese sulla base della ragion di stato. 2) Durante la prima amministrazione Abe ('06-'07) venne approvata la National Referendum Law; oggi il secondo governo Abe mira ad un emendamento dell'Articolo 96 della Costituzione. Qual'è il profilo dell'istituto referendario giapponese ai fini delle revisioni costituzionali e da cosa è dovuto il manifesto interesse dell'LDP per questa forma referendaria? La Costituzione giapponese è una costituzione rigida. Ogni emendamento, per essere approvato, richiede il voto favorevole di 2/3 di ciascuna camera e della maggioranza dei votanti al referendum popolare. Per quanto riguarda la prima fase, che si svolge in Parlamento, non è necessario introdurre norme particolari poiché le votazioni possono svolgersi in base alle procedure parlamentari ordinarie. Senza norme di dettaglio invece non è possibile tenere il referendum popolare previsto dall’art. 96. Fino al 2007 queste norme mancavano, ma nei primi 60 anni di vita della costituzione il problema di modificare la costituzione non si era mai posto realisticamente, pertanto l’assenza

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della legge sul referendum non è mai stata vista come un problema. Abe nel 2007 ha deciso di colmare questo vuoto, affinché, se un emendamento dovesse passare in Parlamento, il quadro legislativo di dettaglio sulla celebrazione del referendum sia pronto, ed il referendum indetto senza ritardi. Il contenuto della legge sul referendum è piuttosto semplice: si vota con un sì o un no alla proposta di emendamento, e l’emendamento è approvato se ottiene la maggioranza dei voti validi espressi. Non vi sono norme sul minimo di votanti per ritenere il referendum valido. Taluni criticano i limiti alla propaganda nel periodo prima del voto dettati dalla legge, ma siccome non ci sono precedenti sarà da vedere come queste restrizioni saranno attuate. Il referendum in ogni caso può essere tenuto solo in relazione alle proposte di modifica costituzionale. È inoltre interessante la strategia usata da Abe per arrivare a modificare l’art. 9: a quanto pare egli non intende modificare direttamente l’articolo in questione attraverso la procedura dell’art. 96, ma intende prima modificare questo stesso art. 96 in modo da rendere più semplici le modifiche costituzionali, e poi in base a un novellato art. 96, attaccare l’art. 9. In ogni caso, molto (tutto?) dipenderà da come andranno le elezioni per metà della camera alta, a luglio. 3) E' attuabile la modifica del ruolo del'imperatore da "simbolo dello Stato" a "capo di stato" proposta dall'LDP? La Costituzione è molto attenta a privare l’imperatore, o chiamandolo con il suo nome, il “Tenno”, di ogni potere sostanziale. Non ho seguito le proposte in materia, quindi non so precisamente quali siano i poteri che esse prevedono per il Tenno. Immagino che per ottenere questo profondo cambiamento siano indispensabili importanti modifiche costituzionali. Oltre agli aspetti politico-legislativi però, c’è un aspetto non secondario da considerare: siamo così sicuri che la famiglia reale sia d’accordo ad essere trascinata in questo modo nell’agone politico? Io nutro seri dubbi. 4) Quale ruolo possono avere la Corte di Giustizia Internazionale o eventuali arbitrati nella risoluzione delle dispute territoriali giapponesi

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con Corea del Sud e Cina? In teoria potrebbero avere un ruolo importante. Il governo Noda sembrava favorevole a portare la questione di fronte ad un organo giurisdizionale per la questione dell’isola di Takeshima/Dokdo contesa con la Corea del Sud, ma la risposta di quest’ultima è stata negativa. Per quanto riguarda la questione Senkaku/Dyaoyu, pare che al momento nessuna delle parti intenda portare la questione di fronte alla CGI. La domanda rimane quindi puramente teorica. 5)Trapianto dei concetti di Rule of Law and Due process: quali sono state le maggiori difficoltà dal punto di vista della tassonomia e del linguaggio? Qual'è stato il risultato? Il tema è vastissimo ed è difficile rispondere in maniera sintetica. In generale, il problema dell’introduzione dei concetti giuridici occidentali fu superato sul piano linguistico attraverso la creazione di neologismi. Questo è il primo passo, indispensabile, ma se il trapianto si limita a una trasposizione linguistica, non si ottiene che una soluzione superficiale del problema. Affinché il trapianto possa affondare le proprie radici, è necessario che i formanti del sistema giuridico che riceve il trapianto recepiscano i corrispondenti formanti del sistema di partenza, e sviluppino e consolidino tradizioni e prassi. Le due espressioni in questione, rule of law e due process, sono legate intimamente al principio di indipendenza del potere giudiziario da interferenze politiche. Il problema allora è questo: in Giappone i giudici sono liberi ed indipendenti dal potere politico? Su questo punto non vi è accordo fra gli studiosi: alcuni studi importanti (fra tutti, Rasmusen e Ramseyer) denunciano la tendenza della magistratura giapponese a parteggiare per le autorità e a premiare posizioni conservatrici o in linea con le posizioni del governo, mentre altri studi altrettanto autorevoli vedono nella magistratura giapponese un esempio di indipendenza e rettitudine (Haley). La mia opinione è che si tratta di un tema assai sfaccettato, al quale non

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Fiducia nel prossimo? Orizzonti per un giovane neolaureato

cinese. di Guidogiorgio Bodrato

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Il numero d’iscrizioni all’università in Cina è aumentato incredibilmente dalla metà degli anni ’90 ad oggi. L’impressionante tasso di crescita economica cinese in questi anni è stato superato spesso dal tasso di espansione degli iscritti alle università. Nel 2010, più di uno studente su quattro al conseguimento del diploma ha scelto di proseguire gli studi con un corso d’istruzione terziaria. Questo effetto sembra premiare le politiche intraprese dal governo di Beijing nel corso degli anni nell’ambito dell’università. Nel 1995 il Ministero dell’Istruzione cinese ha lanciato il Progetto 211 in oltre cento atenei. Il progetto puntava ad aumentare il budget delle università coinvolte, con particolare attenzione a finanziare gli ambiti dell’istruzione avanzata (master e dottorati) e della ricerca. L’obiettivo del progetto era incrementare il numero e migliorare la preparazione dei laureati per sostenere e promuovere ulteriormente la crescita economica della Cina, rifornendo della necessaria quantità di capitale umano il mercato del lavoro cinese. Se in questo senso il Ministero dell’Istruzione ha spinto, fondamentalmente, in direzione di un aumento dell’offerta di lavoro skilled, con il Progetto 985 il governo ha invece puntato in modo deciso sull’aumento in senso qualitativo dell’offerta delle università cinesi. Lanciato nel maggio del 1998, il programma interessava, all’origine, nove atenei considerati di élite, per i quali erano stati stanziati dei fondi extra

è possibile dare una risposta onnicomprensiva. Molto dipende dal settore di cui si analizzano le pronunce: si parla di controllo di costituzionalità o di diritto penale? di cause civili, amministrative o diritto del lavoro? In alcuni settori come il diritto del lavoro, mi pare che vi siano anche pronunce più “attiviste” mentre in altri, come il controllo di costituzionalità delle leggi o le cause in cui è parte lo stato, mi pare che in effetti la magistratura sia sempre molto cauta. Grazie. Prego.

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destinati a creare rapporti di collaborazione con università al di fuori della Cina, costruire centri di ricerca efficienti e attrarre ricercatori internazionali. L’obiettivo del progetto era chiaramente quello di aumentare la reputazione delle università che vi erano ammesse (nel 2011 il governo ha chiuso a nuove adesioni, sono trentanove gli atenei inclusi). Gli sforzi del Ministero dell’Istruzione sembrano essere stati in parte ripagati. Da una parte l’incremento qualitativo appare piuttosto ridotto: se nel 1995 nessuna università della Repubblica Popolare Cinese era considerata di alto livello, nel 2010 almeno quattro università sono spesso incluse nelle graduatorie entro le prime duecento posizioni dei migliori atenei del mondo. Dal lato quantitativo invece si è registrata una forte espansione del numero d’iscritti alle università cinesi, nonché il sempre maggiore output in termini di ricerca e sviluppo delle aziende e dei centri di ricerca cinesi. Per citare un caso, la Huawei, azienda cinese attiva nel settore delle telecomunicazioni, è stata nel 2010 la maggiore azienda del mondo per brevetti depositati. I laureati cinesi, dal canto loro, hanno trovato terreno fertile e incentivi a investire in educazione, viste le ottime prospettive offerte loro dal mercato del lavoro. Tuttavia in seguito alla crisi finanziaria del 2008 e alla seguente recessione in molti dei paesi partner commerciali della Cina, la Repubblica Popolare ha visto ridursi bruscamente le prospettive di crescita economica. La reazione immediata del governo di Beijing è stata un piano di stimolo pubblico all’economia attraverso l’investimento in infrastrutture e edilizia statale. Per sostenere i tassi di crescita, in linea con l’intervento del 2008, il dodicesimo piano quinquennale approvato per il periodo 2011-2015 spinge per un forte investimento nell’edilizia e nelle infrastrutture. Dal punto di vista delle prospettive occupazionali, in Cina sono stati creati

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cinque milioni di nuovi posti di lavoro solamente nel 2010 (dati ILO). Ma quali sono le reali opportunità per un giovane laureato cinese? Sempre guardando i dati dell’organizzazione internazionale del lavoro, il piano d’intervento del governo sembra aver dato i suoi frutti anche sul piano occupazionale. Il settore dell’edilizia ha, infatti, registrato il maggiore incremento in termini di posti di lavoro, seguito dal settore manifatturiero. Il problema per un neolaureato sorge nel momento in cui, entrando realmente nel mercato del lavoro, le aspettative occupazionali, frutto del conseguimento di un maggiore livello d’istruzione, vengono disilluse. Il governo di Beijing spinge le università a fornire sempre più lavoratori skilled, sebbene preferisca investire in settori che tradizionalmente hanno sostenuto la crescita cinese e che richiedono sostanzialmente forza lavoro unskilled. I neolaureati si trovano allora ad avere un livello d’istruzione superiore a quanto necessario per i lavori che gli sono offerti (soprattutto a fronte dell’ultra-rigido processo di selezione e agli elevati costi che sostengono per accedere all’istruzione superiore). Da un lato i neolaureati, istruiti e più attenti alle politiche governative, vedono tradire le loro aspettative occupazionali e negata loro la partecipazione alle decisioni, lasciati in balia delle imposizioni dall’alto sul loro futuro. Dall’altro, il governo sembra preferire non fare affidamento sui suoi giovani studenti per sostenere la crescita, ripiegando su settori che ritiene più affidabili, ma che nel lungo periodo non potranno garantire gli elevati tassi di crescita del decennio precedente. Le proteste degli studenti e delle classi più istruite avevano portato nel 1989 a manifestazioni per la democrazia e ai fatti di piazza Tienanmen, negli anni ’10 del duemila, dove porteranno?

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L'azionabilità dei diritti in Cina. di Tullia Penna

Alla base di un ordinamento democratico vi è un’equazione fondamentale tra i diritti riconosciuti dallo Stato e la loro azionabilità da parte dei consociati. Laddove l’equazione non si realizzi, è decisamente arduo poter parlare di democrazia. Nel 2004 in Cina all’art 33 della Costituzione è stato aggiunto un comma secondo il quale lo Stato “garantisce e tutela i diritti umani”. La norma a

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prima vista pare generica, ma la scelta politica retrostante è duplice: assicurare con una sola previsione la protezione del più ampio numero di diritti, senza prevederli singolarmente, e adeguarsi agli standard di protezione internazionale. Il tipo di tutela riconosciuto ai diritti in questione, comunque definiti, è nettamente differente da quello occidentale. Quest’ultimo è indirizzato agli individui in quanto tali, al contrario di quello cinese, i cui destinatari sono gli individui in quanto comunità. Da ciò deriva la maggior tolleranza del popolo cinese ad accettare la comprimibilità di un diritto individuale per il corrispondente beneficio sociale. Perciò la Cina ha ratificato soltanto uno dei due Patti sui diritti umani approvati nel 1966 dall’Assemblea Generale dell’ONU e, nello specifico, quello sui diritti di c.d. seconda generazione (economici, sociali e culturali) di matrice chiaramente collettiva. Il Patto sui diritti civili e politici, invece, è stato sottoscritto solo nel 1998 e mai ratificato. Tuttavia la legislazione in materia non è assente, dato che di recente sono state approvate due riforme storiche del Codice Civile e di quello Penale riguardanti l’indipendenza della magistratura, la corruzione, l’abuso di potere, il giusto processo, la formazione delle corti popolari e la tutela delle minoranze. Inoltre dal 2001 la Cina è entrata nella World Trade Organisation, assumendosi i conseguenti obblighi giuridici in materia di diritto del lavoro e di tutela dei lavoratori. Evento cruciale nella lotta per la difesa dei diritti umani in Cina è stata la pubblicazione della “Charta 08” a opera di 303 tra intellettuali e attivisti di varia estrazione sociale. Il documento è stato simbolicamente divulgato in occasione del 60° anniversario dall’adozione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Il nome inoltre richiamava la “Charta 77”, scritta in un simile contesto di compressione dei diritti nella ex-Cecoslovacchia. In seguito alla diffusione del testo il Governo si è

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preoccupato di ricorrere a censure, persecuzioni e arresti dei firmatari. Tra di loro vi era anche Liu Xiaobo, noto docente e scrittore, insignito nel 2010 del Premio Nobel per la Pace per il suo impegno non violento a tutela dei diritti umani in Cina, dove tuttora sconta la pena detentiva di 11 anni. Una svolta storica è avvenuta nell’aprile del 2009, quando il Consiglio di Stato ha pubblicato il “Piano di azione nazionale per i diritti umani della Cina” in risposta ad alcune richieste contenute nella Charta 08. Questo documento mostrava una rinnovata sensibilità nei confronti della tutela dei detenuti, attribuendo loro la facoltà di presentare proteste scritte in caso di maltrattamenti verbali o fisici. Un’ulteriore previsione vietava perentoriamente l’uso della tortura e in generale l’estorsione fraudolenta di confessioni. Vi erano anche norme relative all’aumento dei posti di lavoro e dei redditi. Tuttavia il Piano era ampiamente lacunoso, lasciando sussistere forme ambigue di detenzione “amministrativa” e non risolvendo il problema delle prigioni c.d. fantasma. La deadline stabilita per la realizzazione di questi ambiziosi obiettivi sarebbe stata di due anni, ma, raggiunta la scadenza, il Governo ha adottato il secondo Piano per il periodo 2012-2015. L’incipit del nuovo Piano consiste nella ricognizione dei successi del Piano precedente e della “crescente attenzione dei cittadini cinesi per i diritti dell’uomo”. In un passaggio successivo del testo in versione inglese, l’istituzionalizzazione di tali diritti e l’introduzione del principio di legalità sono connessi alla formula rule by law e non rule of law. Il significato ideologico e politico è chiaro: lo spazio lasciato al giudice interprete è del tutto esiguo e sopraffatto dalla volontà del legislatore. Infine, i titolari dell’attuazione e del controllo di questi diritti sono individuati non nel potere giudiziario, bensì nel Governo centrale e nel Ministero degli Affari Esteri; il ruolo di quest’ultimo è evidentemente quello di legittimare la riforma a livello internazionale. Il 10 dicembre scorso decine di bus provenienti dalle campagne cinesi hanno portato a Pechino centinaia di manifestanti (ribattezzati “postulanti” dal Politburo), individui che nel mese precedente avevano subito le espropriazioni delle proprie case senza ricevere un’equa indennità. La risposta è consistita ancora una volta in arresti di massa,

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culminati in alcuni casi con la detenzione in campi di lavoro. In Cina dunque esiste un’ampia legislazione non coronata da istituti che rendano effettiva l’azionabilità dei diritti previsti. Azionabilità che dipende ancora del potere politico e la realtà è che una piena tutela dei diritti individuali implicherebbe la radicale trasformazione della struttura e della gestione del potere pubblico. Quanto questa trasformazione sia al di là da venire è difficile a dirsi.

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Quel gusto tutto cinese per la provocazione.

di Micol Cavuoto-Mei

Negli ultimi dieci anni abbiamo assistito a un cambio drastico nell’ indirizzo della leadership cinese. Siamo passati dalla politica estera prudente e low profile di Deng Xiaoping alla minaccia globale dell’uso della forza economica, energetica e militare. Il quesito è: questo mutamento in termini di gestione della foreign policy ha danneggiato il governo di Pechino oppure no? Come si è formato il fronte di nemici della Cina, coordinati per mettere uno stop alle pretese territoriali cinesi? Prendiamo in rassegna ora gli eventi salienti occorsi nell’anno appena trascorso. Grandi sfide necessitano di grandi mezzi disposti per combatterle. Il Partito Comunista Cinese si è ritrovato sulla difensiva in particolare nella ragione dell’Asia-Pacifico. Nella lotta per la sovranità sul Mar cinese meridionale siamo finiti in un vicolo cieco, con lo stanziamento navale di vascelli cinesi e filippini sull’isolotto Huangyan. Altro nodo cruciale resta la tensione col Vietnam, sempre a proposito delle redini sul Mar cinese del sud. L’India e il Giappone hanno intensificato i rapporti militari con Filippine e Vietnam proprio in

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contrapposizione con la Cina per quanto riguarda i contenziosi territoriali. Gli Stati Uniti hanno manifestato nel Giugno 2012 la loro decisione di stanziare ben il 60 % della loro forza navale nell’area dell’ Asia-Pacifico, a ulteriore conferma del ‘Pivot to Asia’ annunciato dal presidente statunitense Obama all’inizio del 2012. Così la Cina ha iniziato a persuadersi del fatto che una politica aggressiva potesse essere più efficace e opportuna. A difendere questo punto di vista si espone il teorico militare Yang Yi, dichiarando, alla Xinhua agli inizi del 2012, l’impossibilità di mantenere per la Cina un ‘low profile’, ma ribadendo invece la necessità di una ‘risoluta auto-difesa’. Yang Yi ha inoltre aggiunto che "le misure di contrattacco adottate da Pechino dovrebbero essere di breve durata, di poco costo, efficienti e non devono lasciare spazio per ambiguità o altri effetti non graditi". Il nuovo destino tracciato dall’esecutivo di Pechino ruota proprio attorno a questo perno, la nuova "politica estera degli interessi nazionali fondamentali". Immaginarie linee di confine, tracciate con la visione geografica cristallina dei luoghi possibili che incarnino gli interessi nazionali vitali per la potenza asiatica. Gli interessi nazionali fondamentali cinesi concernono l’unità cinese e l’integrità territoriale: è fuori discussione che Taiwan e Tibet non restino parte di quell’universo chiamato ‘Cina’. Ma perché è proprio il Mar cinese del sud, tallone d’Achille cinese nella sua riformulazione in politica estera, causa delle tante ‘provocazioni’

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anticipate pocanzi? Lo stesso segretario americano Leon Panetta lo ha annunciato in differenti occasioni, Il prossimo conflitto su vasta scala potrebbe scatenarsi in queste acque. La Cina è consapevole della posta in gioco: sovranità territoriale, politica, di leadership, di energia e risorse petrolifere. Si tratta di interessi economico-strategici fondamentali per il governo di Pechino che considera il Mar cinese del Sud un core interest e vuole ottenerne il controllo assoluto, contrapponendosi agli altri attori politici dell’area sud est asiatica. Per la Cina, prima delle ambizioni militari, viene però lo sviluppo economico interno. Ricapitolando: gli obiettivi di Pechino, tali da giustificare una condotta così spericolata da parte del governo cinese, sono il mantenimento di una leadership economico-politica nel mondo e di sovranità sull’area. C’è da domandarsi se la politica aggressiva attuata dalla Cina, contrastando evidentemente le norme internazionali, non sia un deterrente allo scopo primario di ordine economico globale del governo di Pechino. Anche nella contrapposizione diretta tra Giappone e Cina abbiamo visto susseguirsi una serie di schermaglie durante lo scorso anno. Più aggressività militare, assume più significato strategico investire in una politica bellica che faccia recuperare terreno rispetto agli Stati Uniti, humus di sciovinismo nella difesa delle isole Diaoyutai e Senkaku. Ma qual’è il vero oggetto del contendere? Le due piccole isole non brillano certo, eppure potrebbero esserci dei fondamentali giacimenti di gas naturale nelle acqua adiacenti. Il Giappone la scorsa settimana ha esposto un chiaro segno di

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La Cooperazione Energetica Sino-Iraniana: non solo oro nero.

di Riccardo Tremolada di CRONACHE INTERNAZIONALI

preoccupazione per la condotta cinese. Il ministro della Difesa giapponese Itsunori Onodera ha sottolineato come la Cina parrebbe aver violato la Carta delle Nazioni Unite, quando le sue navi da guerra hanno bloccato i radar difensivi del controllo-fuoco di una Maritime Self-Defense Force giapponese, distruggendo inoltre un elicottero cinese il mese scorso. Il ministro giapponese ha inoltre incoraggiato la creazione di un numero verde diretto tra Pechino e Tokyo. Secondo le dichiarazioni rilasciate dal ministro in una sessione del Comitato della Camera Bassa, riunitasi per un dibattito sul bilancio pubblico, le azioni compiute dalla Cina potrebbero ritenersi una minaccia della forza armata contro il Giappone, che si riserva il diritto di intervenire, rispondendo colpo su colpo. Infine quali sono le prospettive? Dati alla mano gli ultimi mesi sono stati carichi di provocazioni reciproche e la contesa di quelle acque è diventata il primo obbiettivo per la politica strategico-militare della Cina. Aspetti economico-commerciali si fondono con necessità politiche, rendendo di fatto la questione ingarbugliata ed enigmatica. Ciò che tristemente s’intuisce dagli eventi appena accaduti è che, come ha ribadito Panetta, il rischio dell’esplosione di un conflitto è molto alto.

L’esigenza di garantire sicurezza energetica al proprio sviluppo economico è un elemento fondante delle relazioni tra la Repubblica Islamica dell'Iran e la Repubblica Popolare Cinese, la cui sete di risorse permette a Tehrān di giocare un ruolo di primo piano, sfruttando la ricchezza di risorse naturali di cui il Paese mediorientale dispone, in particolare petrolio grezzo e gas. La politica energetica di Pechino mira, infatti, al mantenimento di elevati tassi di sviluppo che richiedono uno stabile e cospicuo apporto di materie

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prime ed energia. A partire dal 1995 la Cina ha iniziato ad intensificare le proprie importazioni di petrolio e gas naturale dall’Iran. Nel 2002 i due Paesi hanno sottoscritto un accordo bilaterale sugli idrocarburi della durata di 10 anni e, già sei anni dopo, il volume totale degli scambi commerciali tra Cina e Iran aveva raggiunto i 20 miliardi di dollari, di cui il 65% era rappresentato da esportazioni di greggio. Tra il 1999 e il 2007 l’Iran è divenuto il primo esportatore di petrolio in Cina, perdendo due sole posizioni, dal 2009 ad oggi, in questa particolare classifica, a favore di Arabia Saudita ed Angola. Dall’analisi dei contratti in materia energetica stipulati tra i due Paesi si evince come essi non solo prevedono l’importazione di petrolio grezzo e gas, bensì anche investimenti diretti finalizzati allo sfruttamento dell’energia iraniana, alla ricerca di nuovi giacimenti e alla costruzione delle relative infrastrutture. Pechino assiste inoltre l’Iran nell’implementazione della sua capacità di raffinazione del petrolio, in quanto, paradossalmente, Tehrān non riesce a far fronte alla domanda interna di combustibile, importando il 40% del consumo domestico totale. L’aiuto cinese in questo settore ha dunque permesso all’Iran di ridurre la propria vulnerabilità e di attenuare l’effetto delle sanzioni sulle importazioni di combustibili. La cooperazione energetica sino-iraniana appare in continua crescita e si sviluppa tramite strumenti giuridici come i contratti tra le imprese statali cinesi e le controparti iraniane, che spesso prevedono concessioni decennali per lo sfruttamento dei giacimenti, in cambio di tecnologia e infrastrutture. In quest’ottica, nell’agosto 2009, la China National Petroleum Corporation ha concluso un contratto da 4,7 miliardi di dollari con la National Iranian Oil Company per lo sfruttamento del giacimento South Pars, collocato tra Qatar e Iran, che inizialmente doveva essere destinato alla compagnia francese Total. La pressione internazionale, in primis statunitense, ha infatti ostacolato

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CNPC headquarters

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numerosi investimenti esteri in territorio iraniano, tanto asiatici quanto europei. Tuttavia, il governo di Tehrān necessita fortemente di capitali stranieri in quanto, pur vantando ingenti riserve di petrolio e gas naturale, non dispone delle infrastrutture e del know-how per estrarle, anche a fronte della mancanza di credito causata dalle sanzioni internazionali cui l’Iran è ancora oggi sottoposto in ragione del suo ambiguo programma nucleare. In proposito, il presidente Mahmud Ahmadinejad sostiene il diritto dell'Iran ad avere la propria tecnologia nucleare, così come ne dispongono molti altri Paesi, e ha ripetutamente affermato che lo sviluppo del programma nucleare sia finalizzato alla sola produzione di energia elettrica, negando dunque qualsiasi scopo militare e sconfessando quanto l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica ha più volte denunciato. Le imprese statali cinesi stanno dunque colmando il vuoto lasciato da altri investitori e, al contempo, attutendo gli effetti negativi che le sanzioni internazionali producono sull’economia iraniana, sviluppando una diplomazia energetica e strumenti giuridici all’uopo. Chiaramente, al fine di soddisfare i propri interessi nazionali, le imprese cinesi statali non perseguono esclusivamente una logica di profitto, bensì mirano all’ottenimento di riserve strategiche di energia che possano garantire la sicurezza energetica nel medio e lungo periodo. L’establishment del Partito Comunista Cinese e le banche statali assistono dunque diplomaticamente e finanziariamente le imprese che investono nel settore energetico iraniano. La partnership economica tra i due Paesi è dunque soprattutto energetica, ma non solo. In particolare Teheran ha un forte interesse geopolitico a mantenere ottime relazioni e ad incrementare gli investimenti di Pechino nel proprio territorio. Se, sotto pressione di Stati Uniti ed Europa, venissero imposte altre sanzioni da parte delle Nazioni Unite, che includano limitazioni alle esportazioni iraniane di greggio e gas verso partner commerciali esteri, questo minerebbe la cooperazione energetica anche con la Cina, la quale insieme alla Russia ha già più volte espresso riserve in sede di Consiglio di Sicurezza sull’efficacia di tali strumenti. Ne discende dunque l’eventualità che Pechino si serva del proprio potere di veto per schermare il paese mediorientale da nuove sanzioni internazionali, in cambio di petrolio a costo inferiore rispetto al

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prezzo di mercato e di generose concessioni per lo sfruttamento dei giacimenti. Appare tuttavia improbabile che Tehrān possa utilizzare il proprio oro nero come arma di ritorsione, nel caso in cui nuove sanzioni venissero applicate, poiché una tale strategia comporterebbe un rischio notevole per le esportazioni del paese, anche alla luce dell’ attuale elevato costo del petrolio, compreso tra i 90 e i 100 dollari al barile. Inoltre, secondo l’Agenzia Internazionale dell'Energia (AIE), gli Stati appartenenti all’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) avrebbero a disposizione circa 4 miliardi di barili di riserve di petrolio che permetterebbero loro di far fronte all’eventuale mancanza di greggio iraniano per un lasso di tempo considerevole. Tale reazione alle sanzioni internazionali andrebbe quindi a detrimento degli stessi interessi economici iraniani, riducendone i profitti e la quota di mercato. Al di là delle motivazioni legate alla sicurezza e alla differenziazione energetica, Pechino ha interesse a sviluppare ottime relazioni con l’Iran per la sua strategica collocazione geografica, che lo rende una cerniera tra mondo arabo e mondo asiatico. La Repubblica Islamica controlla inoltre l’accesso allo stretto di Hormuz, da cui transita il petrolio che, dai Paesi del Golfo Persico, viene esportato nel resto del globo. La stabilità e la sicurezza della regione non sono dunque fondamentali solo per la Cina, bensì per tutta la comunità internazionale. I rischi connessi al trasporto di idrocarburi iraniani dai pozzi o dai centri di stoccaggio fino ai porti o alle raffinerie, e da qui alla Cina, costituiscono tuttora un problema irrisolto, alla luce dell’instabilità e delle tensioni militari che interessano, non solo lo stretto di Hormuz, ma anche quello parimenti strategico di Malacca, nelle cui acque si sono verificati

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Oppa Europe style. di Roberta Venditti

numerosi episodi di pirateria. Al fine di ridurre tali minacce connesse al trasporto marittimo, la Cina mira a porre in essere una fitta rete di oleodotti ed infrastrutture nella regione. Di fatto, ha già completato la realizzazione di condotte che connettono il Kazakhstan con la regione dello Xinjiang, attraverso il Passo d'Alataw. La China National Petroleum Corporation ha inoltre iniziato a costruire nel 2009 un oleodotto in terra birmana che permette di evitare il passaggio delle sue petroliere dallo stretto di Malacca. Appare dunque probabile che in futuro la Cina continui a rafforzare la cooperazione energetica con l’Iran, pur cercando di trovare un equilibrio tra le esigenze di sicurezza energetica e di differenziazione della provenienza delle fonti di energia. A questo proposito, le imprese statali cinesi tendono a diversificare le proprie importazioni acquisendo, inter alias, fonti di energia dall’America latina e dall’Africa, al fine di ridurre il rischio connesso all’esclusiva dipendenza energetica da un singolo stato. Occorre quindi rilevare che Pechino dovrà saper gestire questa delicata alleanza a livello internazionale, in particolare in sede di Consiglio di Sicurezza, consapevole della necessità di trovare un compromesso tra la posizione di non-allineamento ed il costante isolamento su cui l’Iran sembra essersi arroccato, conciliandolo con le istanze della comunità internazionale.

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Lo scorso dicembre la Corea del sud ha eletto il nuovo presidente, la sig.na Park Geun Hye, prima donna capo di stato in un paese dell’Asia orientale. La signora Park è la figlia di Park Chung Hee, il dittatore assassinato nel 1979 che nei suoi vent’anni di potere trasformò la Corea del sud in un paese moderno, fronteggiando allo stesso tempo la sfida del nord comunista. Il padre di Ms. Park salì al potere con un colpo di stato nel maggio del

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1961 e non trovò praticamente oppositori. Le corrotte amministrazioni precedenti avevano fatto nascere nei coreani la speranza che almeno i militari potessero essere forieri di miglioramenti sostanziali. Gran parte dell “intellighenzia” coreana reagì positivamente alla notizia del golpe, confidando nei programmi del nuovo governo militare che avevano fatto leva sul patriottismo della popolazione. I nuovi leader proponevano una nuova democrazia in cui le aspettative e le necessità della popolazione sarebbero state soddisfatte attraverso le performaces di un governo orientato a far diventare la Corea del sud un paese moderno : lo stato avrebbe mantenuto come obiettivo principale la crescita economica e avrebbe stabilito incentivi e disincentivi per gli imprenditori privati, ma avrebbe sanzionato duramente qualunque tentativo che potesse pregiudicare il raggiungimento di questo obiettivo. Poco tempo dopo, l’assemblea nazionale e i governi locali vennero sciolti e gran parte dei funzionari pubblici esautorati. Nacque, così, il Consiglio Supremo per la Ricostruzione Nazionale che aveva il controllo effettivo su tutte le attività politiche: vennero imposti la legge e l’ordine, i bar, le sale da ballo i coffee shop vennero chiusi. La pubblicazione di molti giornali venne sospesa e, ovviamente, chiunque fosse sospettato di essere filocomunista veniva arrestato. Nonostante l’applicazione iniziale di questi metodi militari avesse portato al raggiungimento di alcuni obiettivi sociali, Park sapeva bene che senza la nomina di un governo civile non avrebbe potuto attendersi alcuna legittimazione o stabilità a lungo termine, pertanto promise che nel maggio 1963 il consiglio avrebbe rimesso il paese nelle mani di una nuova amministrazione civile. Park Chung Hee, smessi gli abiti militari, si candidò per la presidenza del Partito Democratico Repubblicano e vinse le elezioni con uno strettissimo margine sull’altro candidato. Al fine di raggiungere gli obiettivi, i grandi gruppi industriali, la nuova burocrazia e, indirettamente i militari, strinsero una salda alleanza basata

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su una macropianificazione dell’economica ed il Pil crebbe dal 4.1 % del 1962 al 9.3% del 1963. La politica economica incoraggiava fortemente l’imprenditoria privata e le esportazioni: i grandi gruppi industriali ricevevano notevoli incentivi, come ad esempio i benefici fiscali, prestiti a tasso agevolato, sussidi diretti etc... Inoltre le imposte e le restrizioni sull’importazione di materiali intermedi utilizzati per la produzione di beni esportabili furono rimosse. I nuovi progammi di sviluppo richiedevano, tuttavia, un enorme disponibiità di capitali e, nel 1964, l’amministrazione Park chiese alla Repubblica Federale Tedesca il prolungamento degli aiuti governativi e dei crediti commerciali. La nuova disponibilità di fondi e l’aumento dell’export migliorarono sensibilimente il rating sudcoreano. La nuova euforia che si diffondeva nel paese era come una nuova linfa vitale per il governo in carica, in vista delle elezioni presidenziali nel 1967 alle quali Park venne rieletto. All’inizio degli anni ’70, tuttavia, il regime iniziò a sentirsi minacciato da una convergenza di fattori : la guerra del vietnam, l’avvicinamento degli Stati Uniti alla Cina, le pressioni interne per il fallito cambiamento della costituzione per estendere i mandati del presidente oltre i due. L’effetto comulativo di queste difficoltà andò a minare considerevolmente le basi della rapida crescita economica, ma a far preoccupare Park era il risveglio delle tensioni anti-regime negli ambienti operai e studenteschi. Così Park cambiò stragegia e nel 1972 dichiarò l’imposizione della legge marziale: vennero chiuse le università, sospese le attività politiche e applicata la censura a tutti i media del paese. La popolazione era sotto shock e nel giro di un mese il presidente ottenne i poteri straordinari per un controllo totale sul parlamento e la conservazione della carica in maniera illimitata. In questo periodo la situazione politica generale iniziò ad inasprirsi e, se da un lato il paese era lanciato verso una rapida crescita economica, dall’altro aumentava il dissenso e l’attività oppositiva portata avanti dagli studenti universitari. Organismi di controllo quali la KCIA (controllati dal governo ) assunsero sempre più potere contro qualsiasi attività di opposizione al regime. Verso la fine degli anni ’70, il presidente Park divenne sempre più

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diffidente isolandosi ulteriorimente. Le alleanze con gli Stati Uniti subirono un forte scossone a causa di alcuni scandali, la crisi petrolifera. Il protezionismo americano verso l’import di prodotti coreani e il rafforzarsi dell’opposizione interna fecero vacillare l’economia coreana e minarono l’immagine di “uomo di potere” di Mr.Park. In questo scenario di confusione, il 26 ottobre Park venne ucciso dal direttore del KCIA, uomo al servizio del presidente che reagì alle continue rimostranze per l’incapacità di controllo della situazione nel paese La neo-eletta presidente della Corea del Sud fissa i paletti della sua prossima azione di governo e conferma la volontà di attuare il programma politico reso noto in campagna elettorale. La sig.na Park ha vinto le elezioni democratiche battendo il candidato progressista e deve ridare la scossa all’economia del paese: infatti, nel terzo trimestre 2012, l’economia coreana è cresciuta solo dell’ 1,6% rispetto allo stesso periodo dell’anno passato: un risultato che va oltre ogni pessimistica aspettativa. La notizia, resa nota dalla Banca di Corea il 26 ottobre u.s., è stata motivo di grande shock e, secondo gli esperti, continuando di questo passo nel 2012 la crescita economica non arriverà al 2,4%, come invece previsto dalla Banca centrale stessa. Gli anni in cui i tassi di crescita sono stati inferiori al 2% sono stati pochi negli ultimi trent’ anni: il 1980 con la crisi del prezzo del petrolio; il 1988 con la crisi valutaria; il 2003 con la crisi causata dalla bolla provocata dall’utilizzo delle carte di credito ed infine il 2008-09 con la crisi finanziaria internazionale. Anche se in ritardo, la neo presidentessa ha preso le distanze dal padre e dalle efferratezze della sua polizia : “ Credo che la democrazia abbia un immodificabile valore e che, dunque, il fine non possa giustificare i mezzi». Da qui, per gli elettori, “le scuse sincere” rivolte a «coloro che hanno sofferto e sono stati feriti durante quel periodo e alle loro famiglie», anche se «per mio padre, la crescita economica e la sicurezza nazionale erano le due priorità maggiori». Ecco poi, esplicitamente, il riferimento alle “condizioni di lavoro repressive” e ai “diritti umani violati dai poteri dello Stato”.

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Sembrerebbe quasi che la Corea del sud stia cercando di fare i conti con il suo passato, con la sua storia e che stia smacchiando l’immagine di un leader scomodo, ma che nell’immagine collettiva è rimasto come colui che ha modernizzato il Paese. La popolazione è stata invitata a cancellare i file che potrebbero danneggiare la corsa iniziata nel 1970, per il bene del paese occorre mettere da parte il passato e spingere in avanti la macchina dei soldi. Come già accadde allora, i coreani stanno orientando la propria nave verso un obiettivo prezioso che si chiama aumento del pil. L’Europa è in crisi ed è intenta a trovare nuove soluzioni, l’America è concentrata sulla ricostruzione interna. Sarebbe un errore distogliere lo sguardo da quanto avviene in quella parte dell’Asia: oppa gangnam style ha raggiunto oltre un miliardo e mezzo di visualizzazioni, una canzone che ha un testo incomprensibile a molti. Per settimane abbiamo ascoltato ovunque questa canzoncina e visto il video che ci è parso un cartone animato. Non sarebbe utile sottovalutare questo fenomeno riflettendo sul fatto che a 360°gradi nel modo si è parlato di Corea attraverso la musica. Che la nuova presidentessa sia la figlia di un dittatore è quasi un dettaglio e molti coreani credono che il bene del paese valga più dei morti durante il regime e della repressione della popolazione. La forza del gruppo, l’unione del gruppo ha sempre vinto in questa parte dell’Asia e sarebbe ora che anche noi europei imparassimo da loro, mettendo da parte i nostri passati, i nostri leader da smacchiare e i nostri interessi privati, abbracciando l’idea di un futuro migliore. Per tutti. Oppa Europe style.

SK shifting economy. di Cristiano Gimmelli

Recently Apple and Samsung had a trial over major intellectual property rights (IPR): that kind of issues that South Korea and Asian economies generally are ill-prepared for, as another proof lies in the years of political debates between United States and People's Republic of China. South Korea is moving from an industrial economy to a services economy, although much of its economical growth has been promoted by the manufacturing and industrial field: Korea, just like Italy and Germany in Europe has a good reputation amongst Asian industrial

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economies and its products are generally at an excellent level of workmanship. Korea’s traditional export strengths are brought by cars, ships, electronics, and heavy industries. These generate about 40% of GDP and much of Korea’s foreign exchange, and this "Asian Tiger" (the other "tigers" are considered to be Hong Kong, Singapore and Taiwan) has his biggest strenght in exports, as it is literally the driving force of its increasing role between the industrialized countries. However, unless Korea strengthens its service economy, it will increasingly compete ‘backward’ against the BRICS (Brazil, Russia, China, India, South Africa) over manufacturing, since these countries (apart from South Africa) can rely on a much wider number of "workforce" population-, rather than "forward" against the US, EU, and Japan over innovative services. The Korean business media generally ignore this to focus on chaebol (Korea’s large, international often family owned business conglomerates), but the costs of doing so are already apparent: Korea’s late arrival to smartphones (about five years after the U.S.) led directly to Samsung’s desperation and Apple’s retaliation in the tribunal courts. With the spread of globalization many people all around the world enter the manufacturing workforce, and this obviosly pushes the wages to decrease. The more this phenomenon happens, the more Korean people tend to avoid working into factories; moreover, with their increasing cultural level and their welfare enrichment during the last two decades, Korean People are more likely to work in offices or into "high-level research" career types. Considering these points, it's not easy to foresee whether it can be a good choice for South Korea to move definitely to a service economy or not, but this is likely to be the favorite trend throughout the coming years. As we can steadily witness since the beginning of 2013, it is easily noticeable how in the statistics regarding South Korea’s economic freedom the score is 70.3, making its economy the 34th freest in the

Wiki CC Patriotmissile

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2013 Index. The score obtained by the research of "2013 INDEX OF ECONOMIC FREEDOM" is, in the part concerning Seoul, a result of 0.4 point higher than last year, with declines in labor freedom and monetary freedom offset by gains in the management of public spending and fiscal freedom. South Korea is ranked 8th out of 41 countries in the Asia–Pacific region. A vibrant private sector, bolstered by a well-educated labor force and high capacity for innovation, has capitalized on the country’s openness to global trade and investment. South Korea has pro-actively entered into free trade pacts with leading economies including the United States and the European Union (A.N. = An accord about Working Holiday Visa is going to be issued in the next future between Italy and South Korea governments). Its long-term economic dynamism will be shaped by the outcome of ongoing debates about the proper scope of government in the free market and welfare policies. Moreover, considering the tension growing in the last days of February and early March 2013, while engaging this problem, South Korea should prepare for the possibility of collapse. The relevant policies could be thought of as those that are contingent on specific circumstances and those that are relatively invariant to the timing and specifics of an eventual North Korean collapse. South Korea should also pursue a variety of policies that would strengthen its economy. Such policies would be desirable whether or not North Korea existed, because North Korea's existence simply underscores the desirability of their adoption. The overarching goal should be to improve the functioning of markets. For this to occur, accurate information must be accessible, property rights must be enforced, and agents should be motivated by efficiency, not by political considerations. In practice, this means two goals: continued strengthening of accounting conventions and practices and continuing the process of denationalization and privatization, especially in the financial sector where the state still owns about one-third of the banking sector. In the end, this shifting political economy seems the natural path to be

Flickr CC: yeowatzup

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walked by Seoul, and until now it seems that Korean people are walking it with ease, probably thanks to their cultural heritage and education, like

the principle of 국위선양 (KukWiSeonYang) which literally makes Korean

people (and similarly, the rest of Asian population) act in order to pursue their country aims and to mantain high their dignity and honour.

Il discorso di fine anno di Giacomo Giglio

(articolo scritto il 30/01/2013) Mentre scrivo le prime righe di questo articolo, a fine gennaio, la Corea del Nord promette nuovamente test nucleari e minaccia di far precipitare la penisola coreana nel solito melodramma di minacce ed esercitazioni militari incrociate. Si sa, con la Nord Corea ci siamo abituati a svolte repentine, tutto va preso con estrema cautela. Solo il primo gennaio, ad esempio, in un insolito discorso presidenziale di capodanno, il leader Kim Jong Un pronunciava uno dei discorsi più moderati che si ricordi. "È importante – diceva - mettere fine al confronto tra nord e sud per superare la divisione del paese e raggiungere la sua riunificazione. Il passato delle relazioni tra le due Coree insegna che il confronto non conduce ad altro che alla guerra. [...] Se vogliamo essere riconosciuti come una grande potenza comunista, non possiamo fare altro che impegnarci a diventare un paese forte e stabile sul piano economico. Ecco perché nella costruzione di un gigante economico dobbiamo mettere la stessa energia e lo stesso coraggio investiti nella conquista dello spazio". Liquidato frettolosamente da una parte della stampa occidentale come un giovane eccentrico dedito alle gozzoviglie (girava una battuta micidiale che dipingeva il giovane e corpulento Kim intento a mangiare tutti gli aiuti alimentari diretti a Pyongyang), egli sta dimostrando una

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tenace volontà di aprire sempre più il paese agli investimenti esteri e anche al turismo – significativa è stata la riapertura dell’hotel a piramide, il Ryugyong, rimasto incompiuto per quasi vent’anni, che rende lo skyline della capitale nordcoreana ora più simile a quello delle altre metropoli asiatiche. In questa ottica, la riapertura con Seul potrebbe essere un ulteriore tassello di una strategia “riformista”, che tuttavia trova ancora non pochi ostacoli presso il potentissimo esercito nordcoreano. L’appeasement con Seul potrebbe quindi essere più che altro frutto di un raffinato calcolo strategico. Sappiamo tutti che, poiché le due Coree non hanno mai firmato un trattato di pace che potesse chiudere in maniera definitiva il conflitto che le ha viste protagoniste dal 1950 al 1953, i due paesi sono tecnicamente ancora in guerra, e gravi episodi di tensione non sono mancati anche negli ultimi anni, come ad esempio i famigerati test missilistici che Pyongyang compie saltuariamente per testare l’avanzamento della propria balistica. Dobbiamo considerare anzitutto l'impatto del successo dell'ultimo test missilistico ordinato proprio dal Grande Successore, grazie al quale quest'ultimo è riuscito, contemporaneamente, a spaventare la comunità internazionale e a permettere ai coreani di festeggiare "un traguardo degno di una grande potenza", mettendo così al sicuro la sua legittimità di degno successore della dinastia Kim. Allo stesso tempo, non va sottovalutato il contesto in cui si è verificata questa evoluzione. Con una Cina sempre meno disponibile ad assecondare gli umori coreani "costi quel che costi", una nuova leadership giapponese marcatamente nazionalista, disposta a ritrovarsi coinvolta in un conflitto pur di non scendere a compromessi su "questioni di principio" come la sovranità delle isole contese con la Repubblica popolare (Senkaku) e la Corea del Sud (Takeshima), e una Seul che ha appena eletto Presidente Park Geun-hye, figlia del dittatore Park Chung-hee, già dichiaratasi contro il ritorno della "sunshine policy", pur non chiudendo del tutto la porta alla riconciliazione e agli aiuti e assumendo un atteggiamento eccessivamente arrogante, Pyongyang

Wik

i CC

Fabe27

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Articolo 9 – uno specchietto per le allodole. di Luca Bruno

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rischia di ritrovarsi coinvolta in un'escalation militare in cui rimarrebbe schiacciata. Quindi, la realpolitik impone alla Corea del Nord una misure sempre più accorte in un contesto che, paradossalmente, diventa sempre più pericoloso.

Chi si interessa di geopolitica asiatica, ed in particolare dell’area nippocentrica, avrà di sicuro sentito l’attuale primo ministro giapponese, Abe Shinzō, parlare di riformare l’articolo 9 della costituzione. L’articolo 9 della costituzione è paragonabile all’articolo 11 della Costituzione italiana ed all’articolo 26 della Legge Fondamente tedesca. Questi tre articoli fanno parte della serie di riforme imposte dagli Alleati alle nazioni del patto tripartitico alla fine della seconda guerra mondiale. Essi sono qui sotto riportati. Art. 11 Costituzione Italiana L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo. Art. 26 Legge fondamentale tedesca (riportato in tedesco in traduzione italiana sulla scorta della traduzione italiana pubblicata in Le Costituzioni dei Paesi dell’Unione Europea, a cura di E. Palici di Suni Prat, F. Cassella e M. Comba (Padova, CEDAM, 1998) DEU (1) Handlungen, die geeignet sind und in der Absicht vorgenommen werden, das friedliche Zusammenleben der Völker zu stören, insbesondere die Führung eines Angriffskrieges vorzubereiten, sind verfassungswidrig. Sie sind unter Strafe zu stellen. (2) Zur Kriegführung bestimmte Waffen dürfen nur mit Genehmigung der

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Bundesregierung hergestellt, befördert und in Verkehr gebracht werden. Das Nähere regelt ein Bundesgesetz. ITA (1) Le azioni che possono turbare la pacifica convivenza dei popoli e intraprese con tale intento, in particolare al fine di preparare una guerra offensiva, sono incostituzionali. Tali azioni devono essere perseguite penalmente. (2) Le armi da guerra possono essere prodotte, trasportate e messe in commercio soltanto con l'autorizzazione del Governo federale. I particolari sono stabiliti da una legge federale. Art.9 Costituzione Giapponese (riportato in Giapponese, in trascrizione in alfabeto latino ed in traduzione italiana) JP 第九条 日本国民は、正義と秩序を基調とする国際平和を誠実に

希求し、国権の発動たる戦争

と、武力による威嚇又は武力の

行使は、国際紛争を解決する手

段としては、永久にこれを放棄

す る 。

二 前項の目的を達するため、

陸海空軍その他の戦力は、これ

を保持しない。国の交戦権は、

こ れ を 認 め な い 。

JP (trascritto) Daikujyou Nihonkumin wa, seigi to chitsujou o kichou to suru kokusai heiwa o seijitsu ni kikyuushi, kokken no hatsudoutaru sensou to, buryoku ni yoru ikaku mata wa buryoku ni koushi wa, kokusai funsou wo kaiketsu suru jyudan to shite wa, eikyuu ni kore o houki suru. Ni zenkou no muteki o suru tassuru tame, rikukaikuugun sono ike no seryoku wa, kore o hoji shinai. Koku no kosenken wa, kore o mitomenai. ITA Art.9 Il popolo giapponese, aspirando alla pace internazionale basata sulla giustizia e sull’ordine, rinuncia eternamente alla guerra come diritto sovrano della nazione e dell’uso della forza come strumento per la risoluzione delle dispute internazionali.

Cma. 2 Per portare a compimento le disposizioni del precedente

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paragrafo, non verrà tenuta in effettivo alcuna forza armata terrestre, aerea o marina o qualsiasi altro potenziale bellico. Dei tre, l’articolo 9 della costituzione giapponese è di sicuro il più limitante poiché tronca in blocco l’uso di qualsiasi strumento militare. Le origini dell’articolo sono opera del primo ministro giapponese Shidehara Kijūrō, che ne spiega le origini nel suo libro di memorie Gaikō Gojū-Nen (Cinquant’anni di diplomazia). Shidehara, diplomatico di lunga carriera, già per ben cinque volte vice-ministro degli affari esteri e per due volte ministro degli esteri a pieno titolo, era un forte sostenitore dell’idea di costruire un mondo senza guerre e solito dire “sensou nai sekai, sekai jinrui” (Un mondo senza guerra, un’umanità mondiale). La demilitarizzazione e la successiva fondazione delle “Forze di Autodifesa” come forma armata fa sorgere immediati paralleli con la Germania dell’immediato dopoguerra, ove si parlava allo stesso modo di smilitarizzazione. La grande differenza rispetto al Giappone consistette, dopo il fallimento del progetto dell’esercito integrato europeo (la Comunità Europea di Difesa o CED) e la modifica del trattato di Bruxelles, nell’emendamento della legge fondamentale tedesca per permettere alla Germania Ovest di avere nuovamente una propria forza armata. Il caso italiano invece è inequivocabilmente la versione più mite delle tre, con il divieto limitato, nei fatti, solo alla guerra di aggressione pura. I paralleli Giappone-Germania però finiscono lì, poiché il Giappone rimase effettivamente dipendente dagli Stati Uniti fino alla fine della guerra fredda. Ora vi è un forte dibattito sospinto principalmente da elementi conservatori, per una modifica od un’abolizione in toto dell’articolo 9. Le tesi avanzate sono principalmente di tipo revanscista: il Giappone dovrebbe riprendersi la forza che gli è stata tolta dagli americani, ma l’articolo 9 viene visto come un insieme di pastoie che impediscono al Giappone di raggiungere questo scopo ed esercitare l’uso della forza per i suoi (sempre legittimi) obiettivi. La riforma o l’eventuale abolizione dell’articolo 9 è uno spettro di cui si parla

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Rubrica

L'estetica giapponese a partire da un'interpretazione linguistico-cognitiva delle categorizzazioni percettive di Bianca Trovò

da molto tempo, sia da parte giapponese sia da parte statunitense, specialmente in seguito ai dispiegamenti delle forze di autodifesa effettuati dal Primo Ministro Koizumi in seguito all’invasione dell’Iraq. A cosa porterebbe una sua abolizione, tanto temuta e criticata da parte cinese e coreana e tanto agognata dai nazionalisti giapponesi? All’atto pratico cambierebbe ben poco, sia a causa della crisi economica, sia per il fatto che il mantenimento di un esercito moderno in grado di effettuare proiezioni di forza richiede un quantitativo non indifferente di addestramento ed effettivi, che al momento sono raggiunte da ben poche unità (ad esempio nelle Forze di Autodifesa Terrestri, le uniche unità capaci di mobilitarsi efficacemente nel giro di 24/48 ore sono il Western Army Infantry Regiment, creato sulla falsariga degli Army Rangers USA, e il Japanese Special Forces Group, addestrato dalla Delta Force USA). Sul piano diplomatico creerebbe però un fallout non indifferente, costringendo il Giappone ad affidarsi ulteriormente agli USA ed ai suoi alleati, mentre il fallout economico potrebbe restringere il più grande mercato dei prodotti giapponese, la Cina. È quindi assai probabile che la questione rimanga nel limbo e venga limitata a uno specchietto per le allodole politico da parte dei conservatori giapponesi alla stessa maniera delle visite di alti funzionari al santuario Yasukuni, ove sono interrate le salme di 30 criminali di guerra giudicati “di classe A” dal Processo di Tokyo.

«Noi dissezioniamo la natura lungo linee tracciate dalle nostre lingue madri. Le categorie e le tipologie che isoliamo dal mondo dei fenomeni non le troviamo lì in quanto esse guardano dritto in faccia ogni osservatore; al contrario, il mondo viene presentato in un flusso caleidoscopico di impressioni che deve essere organizzato dalle nostre

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menti; vale a dire, in gran parte dai sistemi linguistici presenti nelle nostre menti. Noi tagliamo a pezzi la natura, la organizziamo in concetti, e nel farlo vi attribuiamo significati, principalmente perché siamo parti in causa in un accordo per organizzarla in questo modo; un accordo che si mantiene in tutta la nostra comunità di linguaggio ed è codificato negli schemi della nostra lingua... »

(Benjamin Whorf Language, Thought and Reality, pp. 212-214. Trad.: V. Rota)

Stando all'ipotesi Sapir-Whorf (dal nome dell' antropologo e del linguista che la elaborarono a inizio '900) detta anche della relatività linguistica, la struttura linguistica produce Welthanschaaungen, visioni del mondo, differenti in virtù delle varie categorizzazioni mentali stabilite dalla lingua nativa. Il Whorfianesimo, nelle sue varie versioni, ha conosciuto alterne fortune soprattutto con l'insorgere, a partire dagli anni '50, del paradigma “universalistico” culminante negli studi di Chomsky sulla “grammatica universale”; sinché dagli anni '90 una serie di risultati sperimentali nel campo della psicolinguistica e l'antropologia linguistica hanno riportato in auge questa forma di “costruzionismo” che affonda le sue radici nell'analisi comparata delle lingue di von Humboldt (nonché nel dibattito filosofico kantiano circa le categorie dell'intelletto) e persino nelle teorizzazioni della tradizione linguistica indiana del VII secolo. Recentemente Lera Boroditsky, assistent professor di psicologia a Standford, ha pubblicato due articoli (2010 Do the language we speak shape what we think, 2011 How language shapes thought), in cui riscontra, sulla base di numerosi studi, maggiori evidenze, a favore della teoria secondo cui la madrelingua condizionerebbe il modo in cui le persone percepiscono il mondo e formulano giudizi: «Studies have shown that changing how people talk changes how they think» e «language plays a causal role in shaping cognition». Effettivamente dai risultati sperimentali emergerebbe come il linguaggio plasmi le nozioni di spazio, tempo, causalità e relazione con gli altri, influenzando aspetti non concettuali della percezione: ci sono lingue che inducono a prestare più attenzione al materiale rispetto alla forma degli oggetti o piuttosto alla forma ma non al colore. A livello di percezione spaziale i coreani nella loro lingua distinguono tra contenitori “stretti” ed

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“ampi”(es. una cassetta nella custodia ed un vestito nella borsa) e questa influenza dell'aderenza sulle relazioni di contenimento sembra determinante, laddove gli inglesi hanno linguisticamente solo un modo di concettualizzare il supporto (on) e il contenimento (in) (Bowerman e Choi 2000). Da Pederson et al (1998) è stato studiato invece che, in compiti di riallineamento di oggetti, dei tre quadri di riferimento possibili in una lingua, ovvero “relativo” (view-centered) -es. “il gatto è a sinistra dell'auto”-, “intrinseco” (object-centered) -es. “il gatto è dalla parte posteriore dell'auto”- e “assoluto” -es. “il gatto è a sud dell'auto”-, i giapponesi – come gli olandesi d'altronde- dispongono solo di quello orientato rispetto al sé. Quanto alla categorizzazione temporale i madrelingua mandarini hanno una tendenza ad usare relazioni spaziali verticali (sopra-sotto) per indicare il tempo, mentre i madrelingua inglesi hanno una linea del tempo “orizzontale”(davanti-dietro). Sempre Boroditsky (2010) scopre differenze di funzionamento della memoria nel ricordo di eventi intenzionali e accidentali nei task di testimonianza mettendo a confronto inglesi, spagnoli e giapponesi. Questi ultimi, come gli spagnoli e a differenza degli inglesi, tendono a ricordare meno il soggetto in termini di “agente” che ha causato un evento se non ne è direttamente responsabile, conformemente al fatto che le rispettive lingue preferiscono forme intransitive per la descrizione di eventi accidentali o eterodiretti: in giapponese esiste una forma causativa o fattitiva del verbo corrispondente a “far fare a qualcuno qualcosa”. Tutto ciò sembra inoltre essere fondatamente dimostrato da esperimenti condotti su individui bilingue: è stato verificato come passare da una lingua ad un'altra provochi uno slittamento di tutto un apparato culturale, con i suoi orizzonti di significato. A dei bambini anglo-cinesi è stato chiesto di fare un esempio di “statua con braccio alzato”. Se la richiesta veniva formulata in inglese, rispondevano “Statua della libertà”; quando veniva fatta in cinese, sorprendentemente la risposta era “la statua di Mao Tse-Tung”. In un altro studio, se a dei bilingui per l'inglese e il giapponese veniva chiesto di completare la frase “quando entro in conflitto con la mia famiglia...”, in inglese il completamento era “faccio quel che voglio”, mentre in giapponese diventava “attraverso un momento di grande difficoltà”. A tal proposito, vale la pena notare come

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il forte senso della gerarchia, dell'autorità, della divisione di classe e di generi nella società giapponese sia pesantemente sottolineato dalla “diastratia” (variazione linguistica che segnala la situazione del parlante), per cui i verbi si coniugano a seconda del ceto sociale (esistono in giapponese una forma piana, una gentile ed una onorifica) ed esiste una rigida separazione tra forma di linguaggio maschile e femminile. Che sia una condizione preesistente il linguaggio a condizionarne l'uso o che il secondo abbia effettivamente una sua performatività nel formare le concezioni degli individui, incorporate culturalmente, sarebbe una questione che meriterebbe di essere indagata. Alla luce di queste considerazioni si pongono le basi per un'analisi che metta in relazione gli aspetti più salienti dell'estetica nipponica con le caratteristiche della grammatica giapponese, attraverso l'esplorazione di una delle sue più efficaci forme di produzione letteraria: la poesia haiku

(俳句 ).

[continua]

Febbraio 2013 N°8

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