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Sommario RIVISTA UFFICIALE DELL’ASSOCIAZIONE PIACENZA MUSEI (FEDERATA FIDAM) - PERIODICO - AGOSTO 2011 ANNO XVI N. 2 Gli splendori della Roma farnesiana Arte e cultura, storia e passioni tra Piacenza e Roma Da Palazzo Farnese alla Farnesina a Castel Sant’Angelo, dalla Cancelleria Apostolica alla Chiesa del Gesù: le meraviglie romane legate ai Farnese I l viaggio nella Roma dei Farnese, realizzato a marzo 2011 da Piacenza Musei, è stata la continuazione del percorso culturale farnesiano prima su Piacenza e poi nel 2007 su Caprarola e il Viterbese, già identificato con il progetto ROSSOFARNESE elaborato da Piacenza Musei. Se il Palazzo Farnese di ABBONAMENTO ANNUO: PAGAMENTO ASSOLTO MEDIANTE QUOTA ASSOCIATIVA Roma, Palazzo Farnese: i tre ordini architettonici visibili nel grandioso cortile porticato SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 45% COMMA 20/B - ART.2 LEGGE 662/96 - FIL. DI PC - TIPOGRAFIA CASSOLA (PC) IN CASO DI MANCATO RECAPITO SI CHIEDE LA RESTITUZIONE IMPEGNANDOSI A PAGARE LA TASSA DOVUTA INSERTO Territor io e 1-5 Roma farnesiana: le meraviglie legate alla grande famiglia rinascimentale 6-8 La Val Tidone interpretata dal pittore Enrico Groppi 9-16 Inserto Arte e Territorio 18-20 San Sisto, la Sala della Filosofia: un gioiello nascosto 20-22 Da Van Dick a Sustermans, da Mulinaretto ad Appiani: grandi ritrattisti a Piacenza 23 Eventi a Piacenza e in provincia

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  • Sommario

    RIVISTA UFFICIALE DELL’ASSOCIAZIONE PIACENZA MUSEI (FEDERATA FIDAM) - PERIODICO - AGOSTO 2011 ANNO XVI N. 2

    Gli splendori della Roma farnesianaArte e cultura, storia e passioni tra Piacenza e Roma

    Da Palazzo Farnese alla Farnesina a Castel Sant’Angelo, dalla Cancelleria Apostolica alla Chiesa del Gesù: le meraviglie romane legate ai Farnese

    I l viaggio nella Roma dei Farnese, realizzato a marzo 2011 da Piacenza Musei, è stata la continuazione del percorso culturale farnesiano prima su Piacenza e poi nel 2007 su Caprarola e il Viterbese, già identificato con il progetto ROSSOFARNESE elaborato da Piacenza Musei. Se il Palazzo Farnese di

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    Roma, Palazzo Farnese: i tre ordini architettonici visibili nel grandioso cortile porticato

    SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 45% COMMA 20/B - ART.2 LEGGE 662/96 - FIL. DI PC - TIPOGRAFIA CASSOLA (PC)IN CASO DI MANCATO RECAPITO SI CHIEDE LA RESTITUZIONE IMPEGNANDOSI A PAGARE LA TASSA DOVUTA

    INSERTOTerritorio

    e

    1-5 Roma farnesiana: le meraviglie legate alla grande famiglia rinascimentale

    6-8 La Val Tidone interpretata dal pittore Enrico Groppi

    9-16 Inserto Arte e Territorio

    18-20 San Sisto, la Sala della Filosofia: un gioiello nascosto

    20-22 Da Van Dick a Sustermans, da Mulinaretto ad Appiani: grandi ritrattisti a Piacenza

    23 Eventi a Piacenza e in provincia

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    Caprarola esprime la compagine iconografica farnesiana dovuta al cardinale Alessandro, che riprende le simbologie farnesiane del nonno, aggiungendone una grande quantità attraverso le indicazioni di Annibal Caro (passato al suo servizio dalla corte del fratello cardinale Ranuccio morto nel 1565), il Palazzo Farnese di Roma è l’eccelso esempio di architettura rinascimentale e insieme la matrice di iconografia farnesiana. La grande fortuna dei Farnese, nobili delle terre viterbesi, ha inizio con il matrimonio di Pier Luigi Farnese con Giovannella Caetani, appartenente a una delle più nobili famiglie romane, da cui erano usciti il papa Bonifacio VIII e sei cardinali. È Giovannella che affida al primogenito maschio Alessandro (1468-1549) il futuro della famiglia con l’ambizione di salire ancora

    sul soglio di Pietro e dare gloria alla discendenza. Egli ricevette un’educazione eccellente prima a Roma da Pomponio Leto e poi a Firenze da Demetrio Calcondila per studiare il greco; qui fu determinante la frequentazione della corte medicea e in particolare l’amicizia con Giovanni, figlio di Lorenzo il Magnifico e futuro papa Leone X. Dopo aver attraversato i difficili tempi di Innocenzo VIII Cibo, iniziò la carriera curiale con i favori ottenuti da Alessandro VI Borgia, che si era innamorato di sua sorella Giulia; ebbe molti benefici da Giulio II della Rovere, che aveva sostenuto in conclave; diventò sempre più potente con i due papi Medici Leone X e Clemente VII (1513-1521 e 1521-1534) per giungere, come decano del Collegio e attivo in sei pontificati, ad essere eletto papa al primo scrutinio il 13 ottobre 1534 con il nome

    di Paolo III. Creò subito cardinali, come era costume per i neopapi, due nipoti (i nipoti Alessandro e Ascanio Sforza di Santa Fiora) e il cugino Nicola Caetani; l’altro nipote Ranuccio, terzogenito del figlio Per Luigi, sarà nominato cardinale appena compiuti i 14 anni nel 1544. Paolo III aveva bene in mente il progetto di costituire uno stato per i suoi discendenti, affinché potessero annoverarsi tra i regnanti, e di spianare la strada ai nipoti cardinali per un secondo pontificato. Aveva scelto il nipote primogenito Alessandro per la carriera curiale e il nipote secondogenito Ottavio per l’assegnazione del nuovo stato, ma nonostante ciò doveva governare le ostilità fra i nipoti, che si contendevano aspramente i ruoli. Per contestualizzare il Palazzo Farnese di Roma e vedere il crescendo degli interventi di Paolo III

    Panorama MuseiPeriodico dell’Associazione Piacenza Museiiscritto al n. 490 del Registro Periodici del Tribunale di Piacenza Anno XVI N. 2www.associazionepiacenzamusei.itinfo@associazionepiacenzamusei.it

    Direttore Responsabile

    Federico Serena

    Redazionec/o Studiart Via Conciliazione, 58/C29122 PiacenzaTel. 0523 614650

    Progetto Grafico Studiart

    Art DirectorNoemi D’AgostinoCoordinamento editorialeFederica Segalini

    Stampa TIPOGRAFIA CASSOLAdi FABRIZI MICHELE & C. sncStrada Dei Dossarelli, 3529122, Piacenza (PC)

    Disegni e foto, anche se non pubblicati, non verranno restituiti

    Roma, Palazzo Farnese: la volta affrescata della galleria dei Carracci, al cui centro spicca il Trionfo di Bacco e Arianna

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    sono stati scelti alcuni monumenti altamente significativi: la Farnesina, l’appartamento di Paolo III in Castel Sant’Angelo, il Palazzo della Cancelleria Apostolica, la Chiesa del Gesù, la Galleria Doria Pamphilj, ma anche Palazzo Venezia, residenza saltuaria del papa, e la piazza del Campidoglio, commissionata a Michelangelo dallo stesso Paolo III, appena eletto papa, insieme al completamento della Cappella Sistina sul tema del Giudizio Universale. La piazza capitolina, definita da tre palazzi di giusta proporzione, è posta in posizione dominante sul Foro Romano e sulla città moderna, con al centro la statua equestre di Marco Aurelio collocatavi nel 1538 e le due statue antiche ai lati dell’ampia scalinata.La prima meraviglia è stata la Farnesina, palazzo con parco e orti progettato da Baldassarre Peruzzi

    per il banchiere Agostino Chigi, entrambi senesi, che si armonizza con l’impareggiabile tessitura mitologica eseguita tra il 1511 e il 1518 da Raffaello nella Loggia di Galatea e nella Loggia di Amore e Psiche, mentre lo stesso Peruzzi traduceva in immagini l’Oroscopo del committente Chigi e Sebastiano del Piombo, giovane talento prelevato a Venezia, dipingeva le Metamorfosi di Ovidio,

    incorniciate nei festoni floreali da Giovanni da Udine. Il palazzo fu chiamato Farnesina quando fu acquistato dal gran cardinale Farnese per distinguerla dal Palazzo principale e quando fu progettato il collegamento sospeso sopra il Tevere tra i due edifici. La ripresa di questa figurazione, dove trionfano gli amori e le nudità dei corpi, si incontra anche nella sala di rappresentanza per l’accoglienza di ambasciatori e visitatori

    illustri e nell’appartamento di Paolo III in Castel Sant’Angelo, deliziosa apparizione negli interni dell’austera fortezza; memorabili le imprese con il delfino e il camaleonte con le code annodate e l’ossimoro “Festina lente” (affrettati lentamente) e con il liocorno con “Virtus securitatem parit” (la virtù, il valore genera sicurezza, stabilità); nella sala dei Fasti è richiamata la figura di Alessandro Magno il Macedone, nella sua attinenza storica ed eroica con Paolo III. Completa l’effetto la Loggia di Giulio II che si affaccia sul Tevere, offrendo uno dei panorami più suggestivi di Roma, e che costituisce l’accesso ufficiale alla Sala Paolina, impreziosita da affreschi e affiancata da due ali laterali coperte a botte. Un altro luogo farnesiano di eccellenza è il Palazzo della Cancelleria, splendido esempio di architettura

    Roma, Palazzo Farnese: la facciata su Piazza Farnese

    Roma, Palazzo Farnese: Sala dei Fasti farnesiani, attuale studio dell’Ambasciatore di Francia Piacenza Musei ha potuto ammirare questo spazio privato grazie ad una opportunità assolutamente esclusiva

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    rinascimentale a Roma, iniziato intorno al 1485 per volere del cardinale Raffaele Riario, nipote di Sisto IV della Rovere. I lavori, cui secondo il Vasari prese parte il Bramante, comportarono la distruzione della precedente chiesa, che venne ricostruita ed inglobata nel nuovo edificio, e si conclusero, tra il 1511 ed il 1513 e poco dopo il suo completamento sotto il pontificato di Giulio II della Rovere l’edificio venne confiscato ai Riario per divenire sede della Cancelleria Apostolica. La lunga facciata riporta lo stemma dei due papi della Rovere e un ritmo di lesene disposte ad interassi alternati, al cui centro è posto il grande portale voluto nella seconda metà del XVI secolo dal cardinale Alessandro Farnese, che era il Cancelliere Pontificio, succeduto al nonno Paolo III. Dal grandioso scalone si arriva al Salone dei 100 giorni, così chiamato perché Giorgio Vasari si vantò di aver affrescato in soli 100 giorni la grande sala al primo piano rappresentante la vita di Paolo III Farnese. Si giunge infine al Palazzo Farnese, capolavoro architettonico incontrastato (facciate, atrio, cortile, scalone) uscito dalle idee di quattro architetti (Sangallo il Giovane, Michelangelo, Vignola e Della Porta), dove s’incontrano anche i Fasti di Paolo III, che richiamano a loro volta quelli grandiosi della Cancelleria; essi esaltano le gesta del papa Farnese nella pacificazione tra Carlo V e Francesco I, nella creazione dello stato di Piacenza e Parma, nella approvazione dei nuovi Ordini religiosi, prima tra tutti la Compagnia di Gesù, e nella convocazione del Concilio di Trento per avviare la controriforma cattolica in

    decisiva risposta all’avanzata del protestantesimo. Diversi gli artisti vi lavorarono a più riprese: Daniele da Volterra nel 1547, Francesco Salviati (1552-1555), i fratelli Zuccari dal 1665. Questa stagione, in cui la natura e l’ideale classico si realizzano nell’espressione della bellezza assoluta che induce alla contemplazione, trova il suo culmine nella Galleria di Palazzo Farnese di Annibale Carracci (1598-1602), l’ultimo sublime esempio di arte rivolta ai modelli rinascimentali e capolavoro assoluto. In essa il Trionfo di Bacco e Arianna e i riquadri circostanti fanno a gara per l’estrema raffinatezza con i trionfi e gli amori di Galatea di Raffaello alla Farnesina, ma aggiungono alla perfezione pittorica l’illusionismo prospettico dei quadri riportati, delle finte statue e delle cornici, di straordinaria potenza, che diventano poi i fondamenti tecnici dell’arte barocca. Per non parlare del Camerino, o camera da letto del cardinale Odoardo, con Ercole al bivio tra Vizio e Virtù e infine e della Mostra dislocata al primo piano con i ritratti di famiglia, compresi i due strepitosi di Tiziano. Uno splendido spettacolo, che ha conquistato indistintamente tutti gli amici di Piacenza Musei. A seguire, la Chiesa del Gesù, in cui si trovano la nuova grandiosa spazialità ad aula unica e l’esplosione dell’arte della controriforma nello smisurato Trionfo del nome di Gesù eseguito da Giovanni Battista Gaulli detto il Baciccia, oltre che nello sfarzo di ori e lapislazzuli. Proprio in questa chiesa dallo schema innovativo si evidenzia l’azione congiunta dei due principali cardinali Farnese, Alessandro e Odoardo, che a loro spese come protettori dell’Ordine

    Roma, Palazzo della Cancelleria Apostolica: particolare degli affreschi

    Roma, Villa Farnesina: Raffaello, Trionfo di Galatea (1511-1512)

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    gesuitico provvedono alla costruzione - il primo - della chiesa e - il secondo - della sacrestia e del convento, i quali sono ritratti affiancati nella stessa tela della Sacrestia. Suggestiva la sepoltura del cardinale Alessandro davanti all’altare maggiore, segnata da un marmo circolare con lo stemma dei sei gigli. Una visita a Sant’Andrea della Valle, la basilica dell’Ordine dei Teatini dedicata al fondatore sant’Andrea Avellino, ha rievocato i rimandi alla chiesa teatina di San Vincenzo di Piacenza nelle parti strutturali e ha evidenziato l’affresco della cupola, eseguito tra il 1621 e il 1625 da Giovanni Lanfranco, giovane talento educato presso la bottega dei Carracci per volontà del marchese Scotti, piacentino. La cupola è seconda per grandezza solo a quella di

    San Pietro ed è la prima ad avere un affresco barocco.Non poteva mancare la visita alla Galleria Doria Pamphilj, nel palazzo costruito tra il 1505 e il 1507, sviluppato intorno al cortile quadrangolare di impianto bramantesco, che ancora oggi si apre sull’ingresso di via del Corso. Passato a Francesco Maria I della Rovere, duca di Urbino e prefetto di Roma, fu acquistato dal cardinale Pietro Aldobrandini nipote di Clemente VIII (il 6 ottobre 1601). Alla sua morte rimase unica erede del patrimonio Olimpia junior (1638), che nel 1647 sposò in seconde nozze Camillo Pamphilj, nipote del papa Innocenzo X. Alla morte senza eredi di Girolamo Pamphilj nel 1760, si aprì la successione, per la quale concorsero i Borghese e i Doria, che vinsero la causa e furono costretti a

    venire a Roma per obbligo di residenza. I Doria nel frattempo avevano acquisito anche il patrimonio dei Landi di Bardi e Compiano, tramite il matrimonio dell’ultima erede Polissena nel 1642; per questo l’archivio Landi si trova qui. Oltre alle sale decorate con uno splendore sorprendente, si può vedere la collezione privata più ricca del mondo con opere di Annibale Carracci, Caravaggio, Claude Lorrain, Velázquez, Domenichino, Guercino, Guido Reni, Tintoretto, Jan Brueghel il Vecchio, Raffaello, Tiziano, esposte in sequenze talmente fitte da creare disorientamento. In ognuno dei luoghi romani scelti per la visita c’è un capitolo di storia attinente a quella farnesiana, che coniuga strettamente il ducato di Parma e Piacenza con il papato e il ducato con le

    azioni dei cardinali residenti nel Palazzo di Roma, e anche quando la relazione storica non sembra diretta, i riferimenti a Piacenza sono stati frequenti. Questo viaggio a Roma ha creato la necessità di una visita al Palazzo Farnese di Piacenza, da rivedere con l’ampiezza della prospettiva romana, e preannuncia anche un viaggio a Napoli dove, a Capodimonte e al Museo Archeologico, sono esposte le collezioni farnesiane, là pervenute nel 1736 come eredità di Carlo di Borbone, figlio di Elisabetta Farnese. Queste esperienze culturali individueranno appieno il ruolo strategico dei Farnese nella storia d’Italia.

    Stefano Pronti

    Roma, Chiesa del Gesù: veduta della facciata e dell’interno

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    Un legame profondo e continuativo ha unito Enrico Groppi alla Val Tidone.Era nato a Codogno nel 1911, dove morì improvvisamente il 26 febbraio del 1972. Il suo naturale attaccamento a questa valle del Piacentino gli derivò da parte della famiglia materna: Ersilia Varesi era figlia di Pietro, negoziante di vini a Pianello. Nelle opere giovanili arrivò a firmarsi addirittura Enrico Groppi Varesi.Giovanissimo, realizzò la sua prima formazione nello studio di Angelo Prada (1839-1934), pittore di Casalpusterlengo. Successivamente si iscrisse all’Accademia di Brera dove fu allievo di Aldo Carpi. Fu legato da amicizia profonda a Ottavio Steffenini (1889-1971), più vecchio di lui

    di una ventina d’anni, ma la familiarità con questo pittore fece sì che i due si considerassero come se fossero fratello minore e fratello maggiore.Fra le sue amicizie ci furono Arturo Tosi, con cui condivise avventure pittoriche in Val Seriana e in Valle Imagna, Felice Carena e Raffaele De Grada. In ambito piacentino fu in relazione con due scultori: Vittore Callegari ed Antonio Cappelletti. Nel periodo della guerra e poco dopo ebbe modo di conoscere il poeta Ignazio Buttitta, che si trovava a Codogno dove aveva un’attività commerciale.Nel suo percorso figurativo si riscontra, dopo un iniziale avvicinamento alla corrente di Novecento, un successivo possibile richiamo alle opere di Fontanesi, di Gola, di

    Carlo Martini, di Francesco Filippini, come ebbe a dire Ferdinando Arisi nella presentazione della mostra personale tenutasi a Piacenza alla Galleria Città di Piacenza nel 1964. Oltre alla pittura di paesaggio, il genere pittorico che preferì fu la natura morta, spesso presentata con libri, candele, vasellame o utensili in rame, oppure con vasi di fiori o con composizioni di frutta oppure con la selvaggina morta. La figura umana è presente soprattutto nelle opere giovanili. Poi pare dimenticarsene, eccezion fatta per alcuni ritratti, e ritorna nelle opere più tarde. Dichiarò apertamente questo intendimento e si mise al lavoro: si trattava di figure quasi smaterializzate, simboliche, senza

    connotazioni naturalistiche. La morte interruppe questa ricerca. Ha partecipato a numerose esposizioni a Milano, a Piacenza, a Casalpusterlengo. I luoghi da cui trasse ispirazione per dipingere furono molteplici. Il paesaggio costituisce l’interesse fondamentale e prevalente della sua pittura e le zone che scelse per varie ragioni spaziano dal lago d’Iseo, a Venezia, a Capri, a Napoli, al Trentino, a Varsi, alla riviera ligure, Nervi in particolare. Risulta altresì la sua conoscenza di luoghi toscani: varie località della Versilia dove anche incontrava Felice Carena ed un piccolo paese, Acquaviva di Montepulciano, dove risiedeva un amico antiquario. Lo stesso Groppi affiancò alla pittura, che fu la

    Enrico Groppi, Torrente Tidone (anni Sessanta) Enrico Groppi al cavalletto sul Tidone

    Val Tidone: una terra di sfumature e tocchi leggeri

    Enrico Groppi, la pittura si fa poesiaGli Autori Ritrovati

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    Pubblicità Betonrossi

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    sua attività principale, anche il commercio di dipinti e oggetti antichi. Nel genere della pittura di paesaggio rientrano anche le vedute urbane che spesso Groppi realizzò nelle località a lui care: Pianello e Castelnuovo in Val Tidone, Venezia, Parigi e la Senna, Piacenza stessa dove ebbe per qualche tempo anche uno studio in Corso Vittorio Emanuele II; ovviamente

    dedicò a Codogno parecchi scorci.Dal 1940 al 1970 i soggiorni a Pianello e le digressioni per tutta la Val Tidone furono una costante della sua vita. Per molti anni gli veniva addirittura riservata una camera all’albergo Roma, e poi all’albergo Garibaldi, dove lasciava pennelli, colori e tele tra un periodo di permanenza e l’altro.I ricordi della sua presenza

    si affievoliscono col passare degli anni; le persone ormai anziane ne ricordano il carattere estroverso e gioviale, rammentano come amasse la compagnia degli amici e la buona cucina piacentina che solo negli ultimi tempi dovette stemperare per ragioni di salute. Nella sua pittura, invece, trova spazio l’aspetto più profondo della sua personalità incline ad un certo distacco dal quotidiano, alla ricerca di una solitudine venata di malinconia. Ecco che i suoi paesaggi non sono fatti di colori accesi, anche se spesso di linee e volumi vigorosi ma, come ebbe a scrivere Stefano Fugazza, di sfumature sottili, di trapassi armoniosi e colori ribassati, di tocchi leggeri, come sfatti e luminosi. Si può notare come ci sia stata per Groppi una corrispondenza tra il proprio modo di essere e le caratteristiche stesse di quella terra, la Val Tidone, nella quale amava perdersi per ritrovarsi. Il paesaggio assume connotazioni di pacatezza, di sottile malinconia, solcato da vie o dal letto del Tidone che proseguono verso un punto all’infinito, ad indicare un percorso. Accanto agli scorci naturalistici, Groppi ritrasse anche vedute urbane di Pianello e di Castelnuovo. In questi casi notiamo come siano analogamente caratterizzati: l’assenza pressoché totale di figure umane, gli edifici presentati come muti volumi metafisici, il tutto quasi sospeso in una dimensione senza tempo e connotati da una costante venatura di malinconia.Abile e poetico, Enrico Groppi ha saputo proporre un’immagine di questa terra a lui cara perché a lui simile. La sua spiccata sensibilità

    fornisce a noi, oggi, la possibilità di cogliere quello che è un aspetto reale ed autentico di quei luoghi che noi, con il suo aiuto, siamo spinti ad assaporare.Nel 2000 la città di Codogno gli ha dedicato una mostra a trent’anni dalla morte. Venne allestita al Soave, l’antico ospedale, da molti anni sede di mostre e di eventi culturali. Rimane il catalogo ancora reperibile in alcune copie presso il Comune di Codogno; fu curato da chi scrive e dall’indimenticato Stefano Fugazza. Quel catalogo costituisce il punto di riferimento degli studi su questo pittore e quindi su tutta la sua opera. In mostra furono presentati, tra gli altri, vari dipinti della Val Tidone. Anche la città di Piacenza costituì un legame per Groppi. Amicizie e oggetto di dipinti: la copertina della Strenna Piacentina del 2001 riporta una sua Piazza Cavalli e nel 1936 il dipinto Terra arata fu acquistato da Giuseppe Ricci Oddi per la sua collezione, dove ancora si trova. In tempi recenti il più importante dizionario degli artisti ha chiesto a chi scrive di comporre la scheda per la voce Enrico Groppi da inserire nell’aggiornamento in atto. Si tratta dell’Allgemeines Künstlerlexikon che si stampa a Lipsia. Un importante riconoscimento per Enrico Groppi e la sua opera.

    Laura Putti

    Enrico Groppi, Natura morta con zucca (1930)

    Enrico Groppi, Strada per Pecorara (1958)

  • Territorioe

    Sommario

    Monticelli d’Ongina, la cultura viaggia sul PoPaesaggi, storia e arte della Capitale dell’aglio

    Sulle rive del

    Grande Fiume,

    la storia ha il

    sapore antico di

    un borgo ricco

    di testimonianze

    artistiche e culturali

    Baluardo naturale sul Po, punto strategico collocato tra Piacenza e Cremona, Monticelli d’Ongina si trova sulla sponda destra del fiume, a circa 25 km da Piacenza e solo 10 da Cremona. L’area, che risulta abitata già in epoca romana, dal X secolo è legata a Cremona;

    nel 1335 passa al Ducato di Milano sotto i Visconti, che alla fine del secolo assegnano Monticelli in feudo alla famiglia Pallavicino. Al Quattrocento risalgono i primi insediamenti ebraici a Monticelli, oggi testimoniati dal cimitero e dai resti della sinagoga, rimasta attiva fino al 1930. Nel Cinquecento,

    9-12 Speciale Monticelli d’Ongina, arte e cultura sulle rive del Po

    12 Monticelli d’Ongina, gli eventi

    13-14 Bruno Missieri, la forza e la leggerezza del segno

    15-16 Galleria Transvisionismo, Studio e Laboratorio d’arte

    Monticelli d’Ongina: veduta del Castello Pallavicino-Casali, chiamato anche Rocca, fondato agli inizi del XV secolo

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    estinto il casato Pallavicino, Monticelli passa ai Farnese, che la concessero in feudo ai marchesi Casali. Nel 1797 entra a far parte della Repubblica Napoleonica e successivamente del Regno d’Italia, prima nel Distretto di Cremona e poi in quello di Piacenza.

    Dalla Rocca alle chiese tra i fratelli Bembo e Roberto de Longe

    Ricca di aspetti rinascimentali e barocchi, Monticelli riceve la prima impronta monumentale e artistica con l’insediarsi della famiglia Pallavicino. Agli inizi del XV secolo Rolando Pallavicino - detto il Magnifico - fonda la Rocca, possente struttura a pianta quadrangolare, con quattro torrioni e un mastio sopra il portone d’ingresso, un tempo dotato di ponte levatoio. Rilevanti sono il cortile interno, i camminamenti di ronda, gli appartamenti nobili e infine le cantine, che

    oggi ospitano l’Acquario e il Museo Etnografico del Po con testimonianze archeologiche, storiche e culturali della vita millenaria sulle rive del grande fiume. Sempre all’interno della Rocca, gioiello artistico di assoluto valore è la quattrocentesca Cappellina di Corte, pensata per essere la cappella privata del vescovo Carlo Pallavicino, con lo splendido ciclo di affreschi attribuiti ai fratelli Bonifacio e Benedetto Bembo. Tra gli elementi e le scene rappresentati troviamo angeli, profeti e personaggi del tempo, episodi della vita di San Bassiano da Lodi, l’Ultima Cena, San Giorgio che uccide il drago, la Vergine Maria con i Santi Bernardino da Siena e Bernardo da Chiaravalle, il Calvario con la Crocifissione, l’Annunciazione, la Deposizione dalla Croce, i quattro Evangelisti e il ritratto di Carlo Pallavicino. Lasciata la Rocca, edificio di grande rilievo è la Basilica di San Lorenzo, chiesa

    Collegiata, sorta tra il 1471 e il 1480 per volere di monsignor Carlo Pallavicino e restaurata verso la fine del Seicento. All’interno sono visibili opere pittoriche di importanti maestri attivi tra il XVI e il XVII secolo: da Altobello Melone (Madonna col Bambino) a Giovanni Battista Trotti detto Malosso (San Girolamo, Santa Lucia, Sante Cecilia e Caterina, Transito di San Giuseppe); da Andrea Mainardi detto Chiaveghino (Crocifisso e Santi, Decollazione del Battista, Santa Margherita, Santa Brigida) a Giovanni Battista Natali e figlio, sino al fiammingo Roberto de Longe con il grandioso ciclo pittorico nel presbiterio e nel coro (1682-1694) in cui spicca la tela con il Martirio di San Lorenzo. Da segnalare anche la chiesa di San Giorgio, fondata nel 1302 e inizialmente di pertinenza dell’abbazia di Nonantola; più volte ricostruita nel tempo, oggi presenta la struttura assunta negli ultimi decenni dell’Ottocento. La chiesa di San Giovanni decollato, costruita nel 1300 e rifatta tra 1870 e 1871, presenta un elemento di particolare interesse nella pala con la Decollazione di San Giovanni Battista, realizzata nel 1595 da Andrea Mainardi detto Chiaveghino.

    Conoscere il grande Po tra musei e navigazione

    Il Po scorre a meno di 1 km da Monticelli. Di grande interesse naturalistico, l’ambiente fluviale si presta a visite suggestive alla scoperta della grande varietà sia della flora, in cui la ricca vegetazione selvatica è affiancata dalle coltivazioni e dalla presenza dell’uomo,

    sia della fauna, che rende possibile ammirare animali eleganti come gli splendidi aironi bianchi e grigi. Da segnalare per l’alto valore naturalistico è l’Isola Serafini, classificata come Sito di Interesse Comunitario (Sic) in quanto punto di sosta e di alimentazione per numerose specie di uccelli migratori. Inoltre il Parco del Po, a San Nazzaro, ospita specie botaniche ormai rare come la quercia palustre. Il

    Monticelli, Basilica di San Lorenzo: Roberto de Longe, Martirio di San Lorenzo

    Monticelli, Rocca: gli affreschi della Cappellina di Corte realizzati dai fratelli Bonifacio e Benedetto Bembo (XV secolo)

    Monticelli, Basilica di San Lorenzo: Altobello Melone, Madonna col Bambino

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    percorso sul Po è reso ancora più piacevole dalla presenza di ristoranti, impianti sportivi, attracchi per natanti, tracciati per il trekking. Nei mesi estivi, anche per il 2011 con la rassegna Un Po di colori, è inoltre possibile vivere le atmosfere emozionanti del Po grazie a un ricco programma di percorsi di navigazione nelle aree fluviali più suggestive, con concerti dal vivo e cena a chiusura della serata. Oltre che nell’ambiente naturale, la vita del Po continua al Museo Etnografico che porta il suo nome. Al centro dell’esposizione è la preziosa piroga preistorica risalente a 4000 anni fa; il percorso va poi ad incontrare la grande varietà dei tipici strumenti di lavoro dei barcaioli e dei pescatori. L’ambiente del fiume è rappresentato anche dall’Acquario, che accoglie le diverse specie di pesci del tratto del medio Po, oltre ad alcuni esemplari di fauna impagliati e ad una piccola ma significativa raccolta di reperti preistorici e archeologici. Infine, le aree del Museo dedicate alla civiltà contadina locale testimoniano i gesti quotidiani di una vita certamente semplice e povera, ma assai intraprendente e ingegnosa.

    Itinerario tra i sapori:Monticelli d’Ongina Capitale dell’aglio

    Nota come Capitale dell’aglio, Monticelli d’Ongina svela tra le sue ricchezze anche il primato di alcuni sapori. Nella sua varietà piacentino bianco, l’aglio trova proprio a Monticelli ottime condizioni ambientali, climatiche e geofisiche per la sua crescita. Oltre alle straordinarie

    qualità aromatiche, alla ricchezza di vitamine e di sali minerali, questa tipologia di aglio - di uso sia gastronomico sia curativo - ha la caratteristica eccezionale di potersi conservare da un anno all’altro. Attualmente in attesa del riconoscimento comunitario Igp e diffuso nei principali mercati internazionali, l’aglio di Monticelli viene celebrato nel corso della tradizionale Fiera dell’Aglio, organizzata ogni anno intorno alla prima domenica di ottobre. Tra i piatti locali troviamo

    i salumi tipici piacentini - salame, coppa e pancetta, a cui si aggiungono lardo, prosciutto e culatello, ciccioli e sopressata - e alcuni primi della tradizione (‘marubein, anolini di pasta all’uovo; pisarei e fasò, gnocchetti con sugo ai fagioli), seguiti da una gustosa varietà di secondi di carne (picula ’d caval, carne di cavallo macinata; stracotto d’asino; faraona alla creta) e di pesce d’acqua dolce, cucinati sia fritti sia in umido (anguilla, pesce gatto, storione; infine gli stricc, piccoli pesci di fiume fritti in olio bollente).

    Tra i dolci spicca la Spongata di Monticelli, ricetta generalmente collegata alla tradizione ebraica, costituita di pasta frolla e da un ripieno molto aromatico a base di miele, mandorle, pinoli, cannella, chiodi di garofano, noce moscata, uva sultanina e arancia candita solo per citare alcuni ingredienti.

    Info:Comune di

    Monticelli d’OnginaTel. 0523 820441Fax 0523 827682

    www.comune.monticelli.pc.it

    Monticelli, uno scorcio suggestivo del fiume Po

    Monticelli, Museo Etnografico del Po: veduta di una sala espositiva

    L’aglio ha la sua capitale a Monticelli

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    12-15 agosto

    Località Chalet• Ferragosto allo Chalet

    Dalle ore 20, 4 giornate di festa per il Ferragosto con musica e cucina tipica della zonaSocietà Canottieri Ongina tel. 0523 820333

    Dal 12 giugno al 11 settembre

    Sul fiume Po• Un Po di colori

    Al tramonto, una navigazione suggestiva e romantica con concerti dal vivo e cena sulle rive del fiumePiacenza Turismi tel. 0523 [email protected]

    6, 9, 13 settembre

    Chiesa di San Giorgio• VII Edizione della Rassegna Pianistica internazionale “A. Zanella”

    Iniziativa dedicata inparticolare ai vincitori del

    concorso “A. Zanella” e alla celebrazione del II centenario della nascita di Franz Liszt (1811-1886)www.comune.monticelli.pc.it

    24-25 settembre

    Castello Pallavicino-Casali• Giornate Europee del Patrimonio 2011

    Ingresso gratuito a musei, gallerie e zone archeologiche dello StatoGruppo Culturale Mostre Onluswww.museodelpo.it

    24 settembre-9 ottobre

    Castello Pallavicino-Casali• Mostra Le Tre G. del Risorgimento

    Immagini, lettere autografe, mappe, quadri, giornali d’epoca, documenti con relative traduzioniGruppo Culturale Mostre Onluswww.museodelpo.it

    a Monticelli d’Ongina

    25 settembre e 6 novembre

    Castello Pallavicino-Casali• Visite guidate

    Acquario e Museo Etnografico del Po, Cappellina del Bembo, Basilica di San Lorenzo Martire. Visita ore 15:30Gruppo Culturale Mostre Onluswww.museodelpo.it

    25 settembre

    Località Fogarole• XXXIX Camminata lungo il Po

    Partenza ore 7:30 - 8:30Gruppo Marciatori AVIStel. 0523 820193

    30 settembre-3 ottobre

    Monticelli, Piazza Casali e centro paese• Fiera dell’Aglio

    Esposizione e vendita di aglio bianco tipico e di altri prodotti della zona, bancarelle e luna parkwww.comune.monticelli.pc.it

    2 ottobre

    Castello Pallavicino-Casali • Esposizione Strada del Po e dei sapori della Bassa Piacentina

    Storia, tradizioni e sapori dei paesi a ridosso del PoGruppo Culturale Mostre Onluswww.museodelpo.it

    2 ottobre

    Castello Pallavicino-Casali • Mercatino Il Villaggio Biologico

    Vetrina di prodotti biologici in collaborazione con Coldiretti e BioPiaceGruppo Culturale Mostre Onluswww.museodelpo.it

    6 novembre

    Monticelli, centro paese• Carri di San Martino e antichi mestieri

    Carri folkloristici, antichi mestieri e figuranti AVIS www.comune.monticelli.pc.it

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    B runo Missieri è uno dei maggiori incisori italiani contemporanei ed è colui che ha rilanciato in ambito nazionale l’incisione come opera artistica, come immagine creata per suscitare piccole visioni, sensazioni complesse, meditazione, piacere per gli occhi. A lui molto devono numerosi artisti che si sono accostati all’arte attraverso l’incisione e che hanno frequentato il celebre Istituto d’Arte “Felice Gazzola” di Piacenza, dove egli insegna da trent’anni. A lui si deve anche il merito di aver posizionato l’incisione come espressione artistica autonoma e professionale, emancipandola dal suo stato di mezzo grafico minore, strumentale e saltuario rispetto alla pittura e alla scultura, come sovente era accaduto nei tempi andati, quando l’incisione era l’indispensabile riproduzione di opere altrui (dipinti, sculture, architetture).L’artista ha iniziato il suo percorso nel 1968 sotto la guida pluriennale del pittore Ettore Brighenti, che aveva una stamperia-galleria a Castell’Arquato al piano terreno del Palazzo del Podestà, e ha rapidamente padroneggiato l’acquaforte, tecnica dell’alta tradizione post-rinascimentale, che richiede la costruzione del disegno con la punta sulla lastra di rame ricoperta di vernice, per ottenere un tratteggio con linee più o meno profonde; la lastra immersa nell’acido corrosivo (una o più volte per avere ombre più dense) è infine pronta per l’inchiostratura e

    per la torchiatura del foglio di carta. I soggetti prediletti sono stati i paesaggi ameni, le rive del Po e le nostre dolci colline, in una trama di linee essenziali e delicate. Il passaggio all’acquatinta avvenne subito dopo e gli consentì di impostare la

    sua congenita sensibilità pittorica verso le sfumature finemente sgranate del fondo e verso le ombre sul primo piano; con le diverse morsure divenne abile nella stesura di uno o più colori tenui e delicati, alla ricerca di una tessitura tonale e unitaria,

    senza contrasti forti (soltanto il marrone seppia, il verde scuro, il rosso salmone), e di una elegante sintesi formale. Uno dei tanti e grandi risultati raggiunti da Missieri nel suo lungo percorso è aver rievocato la maniera nera, tecnica nordica seicentesca diretta che raggiunge gli effetti opposti della calcografia prevalente: il fondo in nero e l’immagine in chiaro, delimitata dalle lumeggiature. La rarità del suo impiego è data dalla laboriosità della preparazione della lastra, che viene resa porosa con una mezzaluna finemente dentellata passata più volte in verticale e in diagonale, e dall’azione di spianamento per costruire i soggetti. La figurazione esce dallo sfondo densamente nero o scuro con una raffinata gradazione di mezzetinte, che richiamano gli effetti pittorici e le luminescenze proprie di tutta

    L’Artista

    Bruno Missieri, incisore e pittore intimistaLa forza e la leggerezza di un segno prezioso

    Bruno Missieri, Vegetazione padana (1985) - Acquatinta a quattro colori

    Bruno Missieri, Veduta di Algeri (2009) Tecnica mista su tavola

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    la produzione artistica dopo Caravaggio e Rembrandt. Nelle maniere nere dagli anni Ottanta ad oggi Missieri ha voluto portare in primo piano oggetti e narrare brani della natura-madre, e li rappresenta con l’occhio indagatore e con l’intento simbolico nelle sue acquetinte: all’inizio erano foglie di zucca accartocciate, girasoli recisi, conchiglie di varie striature, cespugli avvolgenti guard-rayl; ma ancora oggi le stoppie, i labirinti, i giardini sono la contaminazione tra paesaggio e natura morta, che si pone nell’area dell’osservazione di un habitat essenziale e fuori dal

    tempo, ma soprattutto in un insieme di segni che portano in una sfera esistenziale. Sempre attentissimo al rigore delle tecniche e alla scelta dei soggetti, Bruno Missieri ha educato decine di giovani - e meno giovani - che si sono avvicinati all’incisione, incuriositi o affascinati dalla magia di traslare su carta immagini disegnate e impresse sulla lastra, e che poi ha lasciato crescere nelle direzioni più confacenti e naturali. Da quindici anni Bruno Missieri si è dedicato anche alla pittura, che aveva affrontato agli esordi. Le due espressioni artistiche

    rappresentano lo stesso mondo, la stessa visione, ma hanno una notevole diversità: l’incisione non ammette errori o sommarietà perché deve essere perfettamente conclusa; la pittura, come tecnica aperta, ammette maggiore libertà di azione progressiva, ripensamenti, aggiunte e correzioni. Anche i temi sono simili, quasi le due espressioni fossero osmotiche. In particolare, se nell’incisione è sempre entrato il colore come elemento emozionale, nei dipinti ad olio è spesso entrato il tratto rettilineo, il segno tracciato per comporre una tessitura e un vano spaziale. È

    singolare che egli, dopo aver preparato rigorosamente la superficie della tavola con i composti tradizionali, definisca le forme e i confini dell’immagine sia con i pastelli colorati, che creano delicate barriere, sia con la pennellata ad olio, stretta e lineare, con un addensamento che rimanda ad una meticolosità propria degli impressionisti francesi, o dei divisionisti italiani, e insieme ad un reticolato particolarmente sofferto (Ennio Morlotti); tutto ciò è molto lontano dalla segnica forte, scavata e violenta degli espressionisti tedeschi. In

    verità c’è un interscambio tra incisione e pittura, e viceversa, e non poteva essere diversamente in un maestro della composizione formale come Missieri. In lui ci sono anche momenti di abbandono alla fluidità dei tocchi ad olio in qualche paesaggio notturno o mattutino, contrastato o trasparente, come nei Labirinti o nei Giardini, oppure in qualche suggestiva veduta esotica a volo di uccello come la Veduta di Algeri, un ricamo di geometrie ritagliate in cristallino e raccontate in violetto su un cuscino di sabbia azzurra, oppure nella Vegetazione padana, strati di terra, di fiume e di cielo fortemente accesi, oppure nel Giardino, una trama di steli scuri diradati da chiari e teneri petali. Come nella maniera nera il bianco e il nero sono in un dosato contrasto, così nell’acquatinta o sulla tavola dipinta i blu e gli azzurri con i rossi e i gialli stanno in equilibrato conflitto. Il colore in Missieri non può essere mai puro, perché troppo forte, ma è derivato da stesure metodiche e continuate proprio per ottenere un insieme di combinazioni, la presenza di vibrazioni cromatiche e la loro percezione emotiva. Questo vedutismo appartato, tutto composto di miriadi di segni addensati per suggerire le immagini, ha qualcosa di astratto, ripetitivo; è un campo di indagine che richiama un’inesausta ricerca tipica dell’essenzialità morandiana, percepita nella quotidianità, ma raggiunta nell’interiorità, dove pulsano insieme il conscio e il subconscio, l’esperienza e l’infanzia, la certezza e l’attesa.

    Stefano Pronti

    Bruno Missieri, Giardino (2010) - Olio su tavola

    Cenni biografici

    Bruno Missieri vive e lavora a Piacenza, dove è nato nel 1942. Dopo aver frequentato l’Istituto d’Arte “Felice Gazzola” e aver frequentato la Bottega dell’incisione del pittore Ettore Brighenti a Castell’Arquato dal 1968 al 1976, ha partecipato ai Corsi Internazionali di Grafica dell’Accademia Raffaello di Urbino con la guida di Renato Biscaglia e Carlo Ceci. Dal 1969 ha tenuto mostre personali e collettive ed è stato invitato nelle maggiori rassegne nazionali dedicate all’incisione, tra cui recentemente la Triennale Internazionale d’Incisione Gianni Demo - Premio Città di Chieri 2008. Dopo aver insegnato all’Accademia di Urbino, dal 1982 insegna all’Istituto “Gazzola” di Piacenza e ha tenuto Corsi di Specializzazione a Venezia, Milano, Portland (USA), Algeri ed è incaricato presso l’Accademia di Brera dal 2009.

    Bibliografia: Bruno Missieri, deserti e giardini, Tipleco, Piacenza 2007 (patrocinio del Comune di Castell’Arquato), con Testi di L. Lecci-P.Valenti, S. Fugazza, S. Signorini, con repertorio bibliografico; G. Di Genova, Storia dell’arte contemporanea, Bora, Bologna 2010; C. Gatti, Incisori italiani nel 150° dell’Unità d’Italia, Biblioteca Nazionale di Torino, Mondadori, 2011

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    A Castell’Arquato, borgo di origine romana, di illustre storia medioevale e di grande fascino monumentale, attraente per le sue bellezze naturalistiche e per le sue apprezzate specialità enogastronomiche, è nato nel 1995 il Transvisionismo, un movimento artistico che non guarda al passato ma al post-moderno. Il manifesto del movimento è stato pubblicato il 28 gennaio 1995 e sottoscritto da artisti che concordemente credono nell’arte astratta, informale e gestuale, un insieme di sensibilità estetiche che caratterizzano l’arte contemporanea, almeno quella che ha invertito la rotta rispetto alla tradizione

    della forma naturalistica. Il termine Transvisionismo si riferisce ad una visione possibile proiettata al di là della secolare pittura imitativa e della materia pittorica in se stessa per raggiungere uno stato di fruizione dinamico e virtuale, in cui si smarrisce l’esperienza e si apre una conoscenza nuova, fatta di gesti mossi da una istintività artistica senza inibizioni e senza barriere ideologiche, che si concretizzano in un insieme di segni, in grado di suscitare emozioni e rivelare forme materiche sconosciute. Il critico padovano Giorgio Segato (2001) aveva già individuato le coordinate del movimento, distinguendolo dal generico Informale

    come complesso di reazioni alla rappresentazione della figura umana: esso è stato la conseguenza di fatti storici ed epocali drammatici e disumani (i disastri della seconda guerra mondiale, gli stermini etnici, l’incrollabilità del dominio politico assoluto e combinato del mondo) e l’espressione della disperazione, di un deciso pessimismo, se non di un irreversibile nichilismo. Il Transvisionismo invece parte dalla volontà della liberazione dei sensi dai condizionamenti sociali e dall’individualismo diffuso tipico della società contemporanea e si compie attraverso il gesto della creazione pittorica e attraverso la metamorfosi

    Tutta l’energia della sperimentazione artistica

    La Galleria

    Transvisionismo, la galleria-laboratorio

    Transvisionismo, Studio e Laboratorio d’arteVia Sforza Caolzio, 78Castell’Arquato (PC)Tel. 0523 806061www.transvisionismo.it

    Stefano Sichel

    Transvisionismo, Studio e Laboratorio d’arte: veduta dello spazio espositivo

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    della materia cromatica manipolata, in cui si riflettono lo stato psichico e le sensazioni dell’artista. Esso è nato come laboratorio in cui sperimentare, senza vincoli, le proprie sensibilità verso la materia pittorica e plastica, che è portatrice di nuove visioni, di energie liberate, di elaborati artistici affidati alle combinazioni cromatiche degli impasti pittorici, volta per volta diversi e rivelatori. Insomma lo spirito innovatore, che sta alla base del movimento, è lo stesso che ha mosso le note e numerose avanguardie del Novecento, in cui la ricerca di nuove acquisizioni ideali ed estetiche, al di là dei risultati accumulati in secoli di invenzione e di produzione artistica, ha portato al Cubismo, al Futurismo, al Dada, al Fauve, all’Espressionismo, all’Automatismo e all’Astrattismo. Ecco dunque i fondatori del movimento attualmente operanti: Stefano Sichel (Piacenza), Marco Bellagamba (Fiorenzuola

    d’Arda), Mario Bernardinello (Rovigo), Ugo Borlenghi (Piacenza), Massimo Meucci (Firenze), Viviana Faiola (Frosinone), Erminio Tansini (Cremona). Tutti loro sono spinti dalla ricerca di nuove forme/non-forme pittoriche o plastiche, agiscono in modo istintivo e convinto, dando una particolare espressione al segno e alla pennellata. Bellagamba ricorre addirittura al bitume, per circoscrivere marcatamente lo spazio e per illuminare il nero con pigmenti

    contrastanti di colore; Bernardinello compone per spaziature geometriche e con un arcobaleno di colori; Borlenghi definisce le sue sculture in forme essenziali (Forme Silenti), monolitiche, quasi rapprese dopo un’eruzione vulcanica, oppure lignee, allungate e levigate; Faiola stende sulla tela pennellate ritmiche aperte o chiuse attorno a un concentrato focale; Meucci predilige colori forti accostati e disposti in guizzi e in rilievi, che

    creano movimento, oppure applica alla tela materiali di recupero colorati con acrilico; Sichel ricerca combinazioni cromatiche estremamente dinamiche in un magma spumeggiante, che lascia (Senza Titolo) spazio all’immaginazione e alle sensazioni più acute; Tansini accosta sulla tavola sezioni di impasti omogenei e colori gessosi e tenui, evitando sovrapposizioni. Ognuno ha una sua precisa caratteristica pittorica, quasi a confermare che nel movimento c’è spazio per tutti. Ecco perché il gruppo dei fondatori non è chiuso in se stesso, ma è rivolto a tutti coloro che vogliono tentare nuovi approdi. Nel 1995 i promotori erano una quindicina, ora sono in sette, ma si sono moltiplicati gli aderenti, per cui la Galleria di Stefano Sichel, uno dei principali fondatori e animatore del movimento, è denominata Transvisionismo, Studio e Laboratorio d’arte e organizza mostre di altri artisti e interessanti scambi di manifestazioni con la collaborazione di istituzioni pubbliche, ad esempio con la Provincia di Catania, con la Regione Sicilia a Palermo, con gli Istituti belga per artisti fiamminghi e berlinese per altri artisti contemporanei, che a loro volta hanno esposto a Castell’Arquato. Dunque una situazione particolarmente in progressione, perché il gallerista è anche pittore e anche fondatore di un movimento con una sua fisionomia; e poi la Galleria è un porto di approdo per giovani artisti anche alle prime armi, un po’ sperduti, che trovano un impatto morbido verso un pubblico abituato a vedere oltre.

    Stefano Pronti

    Il gruppo dei Transvisionisti con Barbara Bouchet. Da sinistra: Massimo Meucci, Marco Bellagamba, Mario Bernardinello, Barbara Bouchet, Viviana Faiola, Stefano Sichel, Erminio Tansini e Ugo Borlenghi

    Transvisionismo: inaugurazione della mostra di Donato Carlino. Da sinistra: Barbara Chiappini, madrina della manifestazione, Paolo Levi e Stefano Sichel

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    Pubblicità Nuova Caser

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    La basilica di San Sisto, edificata tra il 1499 e il 1511 su progetto di Alessio Tramello, una volta pertinenza dell’omonimo monastero benedettino, è uno dei monumenti più noti di Piacenza; fu per il suo altare maggiore che Raffaello, nel 1513, dipinse la celeberrima Madonna Sistina (ora esposta alla Gemäldegalerie di Dresda, dove è diventata l’attrazione più nota), venduta nel 1754 dai monaci ad Augusto III re di Polonia ed elettore di Sassonia e sostituita da una copia dipinta dal piacentino Pier Antonio Avanzini (1656-1733) nel 1728 per la famiglia Serafini. La chiesa di San Sisto, che si mostra nella sua magnifica struttura rinascimentale, ha antiche

    origini, essendo stata fondata, insieme all’omonimo convento femminile benedettino, intorno all’874 dall’imperatrice Angilberga (pronipote di Carlo Magno e

    moglie di Lodovico il Pio, imperatore di Germania e re d’Italia), che ne divenne badessa nell’882. L’imperatrice donò al suo monastero un cospicuo

    patrimonio in beni e privilegi, che si estendevano su molti terreni entro e fuori gli attuali confini provinciali. Anche per queste ricchezze chiesa e convento furono nei secoli contesi da diversi ordini monastici finché, nel 1425, vi si stabilirono i monaci benedettini cassinesi, ai quali si deve quasi tutta l’attuale struttura. Il convento fu soppresso nel 1809 e trasformato in caserma per le truppe napoleoniche, mentre la chiesa divenne parrocchia. Dal 1883 è occupato in massima parte dai militari del Secondo Reggimento Genio Pontieri (v. Panorama Musei, dicembre 2009).La struttura conventuale, decorosamente mantenuta negli anni dall’Esercito Italiano, conserva tuttora diversi elementi di pregio oltre il chiostro, tra cui lo scalone monumentale con affreschi e tracce di affreschi e la sala ora adibita a cappella con un affresco di Bartolomeo Rusca (1680-1750) raffigurante san Benedetto. La sala più interessante è quella, detta “Scuola della Filosofia”, in cui ha tra l’altro sede un piccolo ma interessante museo-sacrario, che conserva cimeli del Reggimento. Già entrando, la Sala offre al visitatore la meraviglia di scoprire un capolavoro sconosciuto. Perfetta nelle sue proporzioni, mostra affreschi ben conservati e di ottima qualità, eseguiti nel primo ventennio del XVII secolo. Le volte furono dipinte da Giovanni Mauro della Rovere (Milano 1575-1640), allievo di Camillo

    Uno spazio prezioso all’interno della struttura conventuale

    Il Gioiello Nascosto

    La Sala della Filosofia in San Sisto

    San Sisto, la Sala della Filosofia adibita a sacrario-museo con affreschi del primo ventennio del XVII secolo di Alessandro Tiarini

    San Sisto, Sala della Filosofia: un altro scorcio del sacrario-museo con affreschi di Alessandro Tiarini

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    Procaccini e seguace di Giulio Cesare Procaccini. Formatosi nell’ambiente tardo-manieristico milanese del Lomazzo e del Figino, si rivolse in seguito verso i Procaccini, il Cerano, il Morazzone, distinguendosi per i suoi modi più larghi ed esuberanti ispirati a Gaudenzio Ferrari. L’Autore, come scrive l’Orlandi, ebbe «fervida immaginazione ed il grande talento». Mentre il Malvezzi rileva che questi erano “congiunti a gran facilità di esecuzione, eseguì una quantità incredibile di opere all’olio e a fresco. Però non tutte sono stimatissime perché alcune o non sono ben pensate o troppo frettolosamente eseguite”, il Dell’Acqua aggiunge: “pittore di pratica, speditissimo quanto superficiale frescante, dall’onesto mestiere e dalla facilità inventiva buona per le diverse occasioni iconografiche, del comporre scontato, solo a tratti ispirato in qualche spiritoso guizzo di maniera, dai maggiori maestri locali e, soprattutto da Gaudenzio Ferrari”. Fu infatti dotato di una vena narrativa facile, spontanea e popolare, ben rispondente alle necessità della Controriforma. Assieme al fratello maggiore Giovanni Battista (figli di Riccardo, originario di Anversa), è conosciuto con l’appellativo di Fiammenghino. Sono noti soprattutto per gli affreschi del duomo di Milano, di quello di Monza, dell’abbazia di Chiaravalle Milanese, della chiesa di San Marco a Milano, del santuario della Madonna del Sasso a Locarno. La volta di questa Sala è suddivisa in riquadri ai quattro angoli, raffiguranti, inclusi in scudi ovali, personaggi biblici (da destra: Salomone, Isaia, Davide e Mosè), nelle due lunette minori

    le allegorie del Martirio e della Gloria, nei piedritti quelle della Pace (con la cornucopia) e della Guerra (con spada e fiaccola), con evidente valore simbolico ed educativo, non solo decorativo. Nell’ottagono centrale papa San Sisto si presenta alla Trinità. Sempre del Fiammenghino sono gli affreschi della parete di fondo (monaco benedettino in meditazione) e di ingresso (il Crocefisso adorato dagli indigeni americani).Le due pareti ai lati furono affrescate - la diversità dello stile balza subito all’occhio - da Alessandro Tiarini (Bologna 1577-1688), allievo di Prospero Fontana, di Bartolomeo Cesi e del Passignano, fu seguace di Ludovico Carracci. I suoi affreschi più noti sono le Storie di san Marco nell’omonimo convento a Firenze e il Martirio di santa Barbara nella basilica di San Petronio a Bologna. A contatto con gli ambienti pittorici di Parma, Venezia e Ferrara e soprattutto con la

    rilettura dell’opera del Correggio, schiarì la sua tavolozza mentre le figure acquistano monumentalità e maggiore naturalezza; ne sono esempi le Nozze mistiche di santa Caterina della Galleria Estense, la Pala del Rosario e l’Assunta a Budrio, gli affreschi in Palazzo del Giardino a Parma e Rinaldo e Armida del Musée des beaux-arts di Lilla. Operò anche a Reggio Emilia, a Modena e Pavia. Eseguì diverse opere su commissione di Margherita e Ranuccio I Farnese. Secondo

    Carlo Cesare Malvasia, si ritirò “cedendo i propri pennelli ad Andrea Sirani”, non riuscendo a tenere il passo di Guido Reni, tornato da Roma a Bologna. I due affreschi della parete di destra rappresentano: Pietro il Monaco (il benedettino san Pier Damiani), papa Martino V; quelli della parete di sinistra: Carlomanno assalito dai briganti, il rifiuto della tiara pontificia da parte di un monaco benedettino (Celestino V). Aderente alla scuola lombarda a cavallo tra XVI e XVII secolo, mostra di

    San Sisto, Sala della Filosofia: particolare della volta affrescata da Giovanni Mauro della Rovere

    San Sisto, Sala della Filosofia: particolare della volta affrescata da Giovanni Mauro della Rovere

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    Il ritratto occupa un posto a parte: la figura umana, protagonista del dipinto, è sicuramente il soggetto più difficile da realizzare e rappresentare, quello che rivela con più immediatezza il livello artistico dell’opera. Ma, un tempo, i teorici puristi del passato vollero espellerlo dal mondo dell’arte, relegandolo alla mera funzione di immortalare nell’immagine la caducità individuale.Il ritratto nasce nell’antichità essenzialmente come profilo e fu quindi presto usato nelle

    monete, in quanto il profilo permetteva di fissare i tratti caratteristici con un disegno lineare. Ma è con la definitiva introduzione della pittura ad olio, e con il cromatismo e le sfumature che questa tecnica permette, che il ritratto, uscito dal confine oscuro di “antenato della fotografia”, acquista il ruolo che gli è dovuto e diviene richiestissimo ai grandi artisti europei, dal XVI al XIX secolo. Il livello della ritrattistica presente nelle raccolte

    piacentine è inaspettatamente elevato. Un primo gruppo, che desidero sinteticamente presentare, riguarda tre opere legate ai nomi di altrettanti artisti fiamminghi che tra la fine del XVI e la prima metà del XVII hanno riscosso molto successo in varie corti italiane. Si tratta di Frans Pourbus II il Giovane, di Anton Van Dyck e dell’ambiente del ritrattista ufficiale del Granducato di Toscana, ossia quel Juste Sustermans che operò lungo un arco di sessant’anni nella

    corte medicea. Di grande interesse la miniatura su rame, 9 x 7 cm, eseguita da Frans Pourbus II il Giovane (Antwerpen 1569 - Parigi 1622), recante il ritratto dello scultore Pietro Francavilla (1548-1615). Il ritratto dovrebbe essere stato realizzato a Parigi tra il 1609 e il 1615 (cfr. R. de Francqueville, 1966, p. 38) ed è assai probabile che in quell’occasione Pourbus, autore del dipinto ora esposto a Palazzo Pitti in Firenze e un tempo ritenuto di Rubens, abbia ricevuto il mandato di

    ben conoscere anche il contemporaneo manierismo romano nella grandiosità della composizione, nel dinamismo, nella sicurezza

    compositiva e nel ricco cromatismo. Sono, questi, affreschi notevoli per la qualità dei tratti, la vivacità espressiva, la conservazione

    dei colori, le quasi tridimensionali prospettive, la modernità nella disposizione dei personaggi e delle loro posture, nonché la facilità della pennellata che, ben al di là di essere un difetto, è da giudicarsi un pregio. Non privi di pathos, possono certamente essere annoverati tra i capolavori eseguiti dall’Autore. L’attualizzazione, negli episodi narrati, degli abbigliamenti e delle armi raffigurati, non sono segno di ingenuità, ma utili a renderne più immediata la comprensione da parte degli astanti. Si parla in questi anni di dismissioni di aree militari, tra cui è prevista anche quella del monastero di San Sisto. Ci auguriamo quindi - e auguriamo a tutti i piacentini - che questo gioiello nascosto e tutta la monumentale struttura conventuale, ora vissuta dai militari, possa diventare patrimonio comune della città e degnamente accogliere l’ormai necessario ampliamento dei Musei Civici dell’attiguo Palazzo

    Farnese e altre collezioni ora non fruibili dal pubblico, divenendo così uno dei più importanti poli museali e culturali d’Italia, potendo anche ospitare nei suoi spazi mostre temporanee e dando finalmente il via al recupero di tutta la zona circostante, ivi compresi piazza Casali, piazza Cittadella e il complesso del Carmine (v. Panorama Musei, agosto 1998 e dicembre 2009).Ringraziamo il colonnello Fabio Cornacchia, il tenente colonnello Massimo Moreni, il maggiore Claudio Rossi, il cappellano don Bruno Crotti e tutto il personale della caserma Filippo Nicolai del Secondo Reggimento Genio Pontieri per la gentilezza e la disponibilità dimostrate nel consentirci la visita e nel fornirci le fotografie e le notizie qui riportate.

    Federico Serena

    San Sisto, Sala della Filosofia: particolare dell’affresco con Monaco benedettino che rifiuta la tiara

    Da Van Dyck a Sustermans, da Mulinaretto ad Appiani

    I grandi ritrattisti nelle raccolte piacentineL’Angolo del Collezionismo

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    eseguire pure uno o più “ritratti da viaggio” su rame, tratti dalla tela. La miniatura piacentina, che mi dicono essere da poco tempo nella nostra città, presenta un livello qualitativo estremamente elevato, sia per l’accuratezza certosina della composizione, sia per il particolare cromatismo che, sebbene giocato su di una tavolozza non particolarmente ampia, riesce a conferire profondità, ombreggiature e velature che denotano una padronanza tecnica degna della straordinaria scuola miniaturista fiamminga. Un interessante Autoritratto di Anton Van Dyck (Antwerpen 1599 - Londra 1641), olio su tela trasportata su tavola di 45 x 34 cm, è già noto per essere stato più volte pubblicato (cfr. E. Benkard, 1927, p. 31; G. Gluck, 1931, p. 517; D. Bodart, 1977, p. 110 e infine E. Lasen, 1979, p. 108 e ss., il quale, però, riteneva l’opera probabilmente perduta o comunque situata in “ubicazione ignota”). Il tempo dovrebbe essere tra la fine degli anni Venti ed

    i primissimi anni Trenta del XVII secolo, come testimoniano i suoi numerosi autoritratti del periodo che evidenziano la fisionomia coerente con un’età attorno ai trent’anni. Si può giungere a datare con discreta precisione l’opera anche perché il 5 luglio 1632 al pittore veniva conferito il titolo di cavaliere e veniva nominato “Sir Anthony Vandike principalle Paynter on Ordinary to their Majesties at St. James’s” (l’equivalente della romana “Accademia di San Luca”, di cui fece parte anche il nostro Giovanni Paolo Panini). Da quel giorno Van Dyck prese ad effigiarsi sempre con la collana d’oro regalatagli da Carlo I in quell’occasione. Probabilmente l’autoritratto “piacentino” è uno degli ultimi realizzati dal maestro prima della sua nobilitazione. Altro dipinto di gusto fiammingo presente a Piacenza è un ritratto a mezzo busto di Mattias de’ Medici (85 x 70 cm), eseguito nell’ambiente di Juste Sustermans (Antwerpen 1597 - Firenze 1681), ritrattista della corte medicea che, nonostante la maggior parte della sua vita trascorsa a Firenze, seppe conservare e trasmettere ai pittori della sua vasta bottega le tecniche apprese in patria nel corso della sua prima gioventù. Circa il riferimento del ritratto “piacentino” alla figura di Mattias de’ Medici (1613-1667), terzo figlio di Cosimo II e della granduchessa Maria Maddalena, che intraprese nel 1629 la carriera militare fino a divenire generale al servizio dell’imperatore, non sembrano esserci dubbi: convincente il confronto con la fisionomia del volto nel ritratto a figura intera attribuito a Carlo Dolci (Vienna, Kunsthistorisches Museum), del tutto

    Giovanni Maria delle Piane detto il Mulinaretto (Genova 1660 - Monticelli d’Ongina 1745)Filippo V di Spagna - Piacenza, collezione privata

    Anton Van Dyck (Antwerpen 1599 - Londra 1641)Autoritratto - Piacenza, collezione privata

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    dirimente il confronto con i tratti dello stesso soggetto nel ritratto eseguito da Juste Sustermans ed esposto alla Palatina di Firenze (Inv. Pal., n. 265). Passando al secolo successivo, un importante ritrattista genovese, ma piacentino d’adozione, presente in varie raccolte della nostra città (il ciclo più importante è quello del “Gazzola”) è stato Giovanni Maria delle Piane detto il Mulinaretto (Genova 1660 - Monticelli d’Ongina 1745). Nel dipinto di collezione privata viene raffigurato Filippo V di Spagna e il tempo non è lontano dal ritratto del conte Gian Angelo Gazzola (Piacenza, Istituto Gazzola) e del marchese Carlo Maria Anguissola (Soragna, Rocca Meli Lupi), quest’ultimo del 1705. Nei casi citati corrispondono il cromatismo della composizione, la posa, la parrucca, l’armatura, i panneggi e il pizzo della sciarpa, nonché l’acuta interpretazione del carattere. È un ritratto di elevata qualità, probabilmente destinato all’aristocrazia del Ducato farnesiano in occasione delle nozze di Filippo V di Spagna con Elisabetta Farnese. Per concludere la breve carrellata di ritratti proposti senza un percorso iconografico e scientifico preciso, ma volutamente rientranti in un periodo piuttosto ampio - dalla fine del Seicento all’Ottocento - per dar modo al lettore di apprezzare sia la eterogeneità che la rilevante qualità delle opere costituenti le raccolte private piacentine, con un ulteriore balzo nel tempo vengo a presentare una miniatura di Andrea Appiani (Milano 1754 - Milano 1817). Allievo di Carlo Maria Giudici e di

    Giuliano Traballesi, con l’arrivo a Milano nel 1796 di Napoleone Bonaparte, Andrea Appiani divenne il pittore ufficiale del futuro imperatore. Raggiunse un linguaggio neoclassico fortemente personalizzato, ma mediato dalle suggestioni dell’antico. Tra le sue opere più importanti si ricorda il celebre ciclo di affreschi a Palazzo Reale di Milano. L’opera presente a Piacenza ben interpreta il neoclassicismo dell’Appiani, di gusto arcaicizzante. Si tratta di una preziosa miniatura su avorio, dal diametro di soli 6 cm, già appartenuta alla collezione di S.A.R. Emanuele Filiberto di Savoia duca di Aosta. La qualità straordinaria, insieme alla rarità del pezzo, sono in grado di testimoniare l’importanza, di sicuro livello internazionale, della figura di un grande collezionista-mercante piacentino che oggi purtroppo non è più con noi.

    Marco Horak

    Frans Pourbus II il Giovane (Antwerpen 1569 - Parigi 1622)Ritratto-miniatura di Pietro Francavilla Piacenza, collezione privata

    Andrea Appiani (Milano 1754 - 1817)Miniatura su avorio - Piacenza, collezione privata

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    a Piacenza e in Provincia

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