© 2015 Edizioni Clichy - Firenze · cienze in questo metodo, ma all’epoca era molto à la page...

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Père LachaisePuò sembrare irriverente intitolare una collana a un cimitero, ma il cimitero parigino del Père Lachaise è da sempre molto

più di questo: è un luogo di memoria storica, culturale, monumentale, di culto anche pagano, di scoperta delle

proprie radici. In questa collana troveranno posto autori fondamentali della letteratura mondiale oppure scrittori meno noti ma comunque di grande rilevanza, dei quali proporremo

scritti inediti o testi da lungo tempo introvabili.

T. C. Worsley

Compagnidi viaggio

Traduzione e cura di Luca Scarlini

Edizioni Clichy

Il libro del desiderio e del rimorso di Luca ScarLini

Compagni di viaggioParte Prima

Parte SecondaParte Terza

Parte Quarta. SpagnaParte Quinta. SalvataggioParte Sesta. Conclusione

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Indice

Compagni di viaggio

Nota dell’autore

Questo non è un romanzo, è un libro di memorie, l’u-nico elemento fittizio sta nell’aver fuso insieme nei miei personaggi alcune persone esistenti; mentre gli eventi e le azioni, tutti realmente accaduti, sono stati manipolati e redistribuiti per adattarli al mio disegno narrativo.

Il viaggio è falso;il viaggio falso è una vera malattia.

W. H. Auden, Viaggio verso una guerra

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Poco prima dello scoppio della guerra, stavo riunendo in forma di romanzo il materiale che avevo raccolto sugli anni Trenta e la Spagna, e su alcune delle persone che conoscevo, risucchiate dal Maëlstrom. Dovevano esserci cinque perso-naggi principali, tutti fondati su creature reali; forse chi era ancora in circolazione se li ricordava. Martin Murray, il noto giovane romanziere, allo-ra aveva solo trent’anni, ma già con quattro libri all’attivo si era imposto come la figura significati-va della sua generazione. Era per noi un po’ come John Osborne qualche anno fa per i giovani degli anni Cinquanta.

Lui - o qualcuno come lui - doveva essere uno dei personaggi principali; e uno dei fili condutto-ri del romanzo doveva essere la sua relazione con Harry Watson, un attraente giovanotto «riscatta-to» dalle guardie scozzesi, che a quel tempo viveva un mènage piuttosto inquieto con Martin.

Un altro personaggio principale era Lady Nel-

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lie, ossia Lady Esmerelda Griffiths. Qualcuno for-se la ricorda, perché era una figura importante, in-sieme alla Duchessa di Atoll e a Hewlett Johnson, detto il Diacono Rosso, nel gioco di propaganda dei comunisti. Quando lei entrò nel Partito, tut-ti rimasero a bocca aperta, perché suo fratello, il Conte, era a quel tempo sottosegretario di Stato al Ministero degli Interni.

Il suo giovane nipote, Pugh, a cui era legatissi-ma, ottenne anche lui una certa notorietà, quan-do entrò a far parte delle Brigate Internazionali, e quando morì, la notizia uscì sui giornali: «Figlio di un conte ucciso in Spagna».

Infine, c’era Gavin Blair Summers, un brillan-te oxfordiano, che era tipico di quei tempi in un altro senso. Non era affatto un ideologo, se dal punto di vista intellettuale era di sinistra, d’altro canto era anche una persona completamente ari-da. Non credeva in niente, e men che meno in se stesso.

Quello che questi cinque personaggi aveva-no in comune era che, in differenti ruoli, erano piombati tutti in Spagna durante la guerra, e lo scopo del mio romanzo era ripercorrere il percor-so che li aveva fatti arrivare fin là.

La guerra interruppe il libro, ma forse non l’avrei terminato comunque. Avevo scelto come

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personaggi persone che allora mi erano troppo vi-cine, che erano troppo reali per essere trasferite in una vicenda narrativa. Ma questo all’epoca non mi preoccupava. C’era una teoria negli anni Tren-ta per cui i romanzi dovevano essere creati dopo una ricerca attenta e accurata: per cui il primo dovere del romanziere era raccogliere materiali e procedere da lì.

Da tempo stavo schedando documenti. Avevo molto: lettere e diari. Un romanzo non finito di Gavin, che avevo integrato nel corso degli anni con tutta una serie di «interviste» con le persone, in cui avevo cercato di capire cosa pensassero di se stessi, o gli uni degli altri. Oppure da loro avevo ricavato resoconti di fatti e aneddoti significativi, a mio parere, di quel momento storico e speravo che tutto questo si amalgamasse per magia in un romanzo. Facile oggi vedere quali fossero le defi-cienze in questo metodo, ma all’epoca era molto à la page lavorare in questo modo. Quando ebbi raccolto tutto, era un bel malloppo. Sembrava che avessi fatto un vero lavoro, e con il mio «materiale documentario» messo in pila sul tavolo accanto a me, mi sentivo come un romanziere esperto nella tradizione di Zola.

Faceva parte della teoria, bisognava essere sen-za volto: come un redattore anonimo, per così

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dire, senza punto di vista e senza individualità. «Sono un registratore», questo il motto.1 Quindi l’arte consisteva nel farsi da parte il più possibile e far parlare i personaggi. Le loro voci dovevano bastare per la magia.

Rileggendo più tardi quel materiale, mi diven-ne chiaro che, con qualche informazione neces-saria davano un quadro interessante degli anni Trenta: un periodo a cui le giovani generazioni hanno ricominciato a interessarsi. Perché c’è una forte somiglianza con il presente: noi che eravamo giovani a quel tempo, eravamo molto consapevoli di vivere nell’ombra di una guerra che sapevamo sarebbe scoppiata, proprio come la generazione di oggi sa di esistere nella scia della bomba atomica.

Le nostre reazioni erano abbastanza diverse dalle loro, e questa raccolta di materiali illustra quali sono le differenze. Non che la vita politica a quel tempo assorbisse le persone più di ora. Che si stia sotto l’ombra della guerra, o della bomba, la vita personale è un interesse predominante per tutti noi e lo è anche per i miei personaggi. Ma se la loro reazione politica era tipica del tempo, le

1 Riferimento esplicito all’opera di Christopher Isherwood, e al concetto centrale nel suo Addio a Berlino. La prima versione teatrale firmata da John Van Druten dei suoi racconti berlinesi poi adattati da Kander & Ebb nel musical Cabaret, si intitolava appunto Io sono una macchina fotografica. In Italia il testo venne presentato nel 1957 da Michelangelo Antonioni, protagonista Monica Vitti [N.d.T.].

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loro vite personali non lo erano, erano eccezionali almeno da un punto di vista. Ma le offro ora nella speranza che possano essere di qualche interesse a quelli che si chiedono come abbiamo reagito, quando eravamo giovani, a una situazione non dissimile da quella di oggi.

Parte Prima

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I. Lady Nellie

Nota dell’autore

Mi ricordo bene la prima intervista che ho tra-scritto. Era su Lady Nellie, e a parlare era Harry, che le era molto legato. Lo avevo cercato alla Li-breria Pleiades, dove si trovava di solito la matti-na. La Pleiades, o anche solo la Libreria, come la chiamavamo, era ai confini di Bloomsbury. Era gestita da uno zitello gentilmente empatico, Ed-mund Gladstone, che l’aveva caricata con la pol-vere da sparo e le pallottole di ogni movimento e gruppuscolo rivoluzionario del periodo, quindi era diventata una specie di rifugio o club per gio-vani intellettuali, poeti, artisti, studenti di sini-stra e bohèmien di passaggio. Edmund senz’altro non ne cavava molti soldi, perché i libri venivano

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più presi in prestito che comprati, ed era sempre pronto a essere «commosso» dalla sua clientela, a tirare fuori i soldi per una bevuta, un pasto o un pacchetto di sigarette. Senz’altro, come molte altre persone middle-class di quel periodo, aveva una piccola rendita, e la usava molto generosa-mente. Viveva sopra il negozio, ed era lui che of-friva rifugio ai fuggiaschi dalle scuole pubbliche, frequenti in quel periodo; ed era dalla Libreria che la loro rivista antiscuola pubblica e antiguer-ra, Out of Bounds, veniva pubblicata e distribuita.

Di fronte al negozio c’erano uno di quegli sporchi caffè proletari con le tovaglie incera-te, ognuna con sopra la sua sudicia bottiglia di ketchup, e un bollitore con accanto fette di tor-ta coperte di mosche. Era popolarissimo tra gli avventori, proprio per come era. In quei giorni tutto quello che era proletario era «in» per l’intel-lighenzia di sinistra, mentre essere davvero prole-tari, come Harry, era qualcosa di speciale.

Mi ricordo che lo incontrai al caffè, beveva tè con un ragazzo scappato da scuola, mentre spettegolava con la sua voce acuta e brillante. A un primo sguardo non si sarebbe detto proprio che Harry fosse una ex-guardia. In lui non c’e-ra niente di greve, pesante o grezzo. Senz’altro era rientrato nei requisiti fisici delle Guardie solo

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per un millimetro. Però nessun addestramento, per quanto pesante, gli aveva tolto la leggerezza e la disinvoltura con cui si comportava. In una stanza sembrava sempre che un po’ ballasse, e an-che quando si sedeva, la danza era nei suoi occhi. Erano così vivi, vivaci, pieni di piacere per ogni momento vissuto. Con i capelli neri inchiostro e gli occhi color prugna era innegabilmente at-traente.

Peraltro era uno dei giovani più duttili che avessi mai incontrato. Colpiva la sua capacità di adattarsi a qualsiasi situazione o circostanza sociale, in una persona che, dopo tutto, veniva da una famiglia di minatori. Era questa sua dote che gli era servita be-nissimo, quando era piombato a Londra e aveva scoperto che c’erano tanti signori contenti di ospi-tare una persona così piacevole. Se i suoi compagni venivano lo stesso ricercati per motivi più basici, Harry era il benvenuto perché si adattava a qualsi-asi occasione. Era molto «presentabile»; poteva es-sere introdotto anche ai rispettabili. Lo portavi in un ristorante di lusso o al grand hotel, e lui sapeva di istinto come comportarsi.

Quindi, già prima che Martin Murray arrivasse nella sua vita, aveva successo, sociale e sessuale, in quell’area di Londra dove le Guardie svolgevano i loro traffici. Era stato «riscattato» da un preceden-

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te ammiratore e insieme a lui aveva già visitato Parigi, Venezia e il sud della Francia. Ma la sua speciale qualità era che si trovava a casa ovunque: in quel sudicio caffè proletario, al ristorante Ivy, o al cabaret del Cafè de Paris.

Il suo legame con Martin durava già da tre anni. Era stata un’attrazione istantanea tra loro e Harry si era visto bene come il ragazzo di uno scrittore, e in specie di uno che faceva frequenti viaggi all’estero. Comprò una macchina da scrive-re e imparò da solo a battere in modo accettabile. Voleva essere un segretario-compagno di viaggio. Si vedeva a rispondere a lettere importanti, incon-trando persone interessanti. Ci avrebbe costruito sopra la sua esistenza. E se non fosse andata così, poco male: non aveva la tendenza al rimpianto.

Martin era inevitabilmente molto di sinistra e Harry in breve tempo assimilò tutti gli atteggia-menti e poi le parole dei rossi. Ma si era spinto oltre. Flirtava con il Partito e era pronto ad en-trarci. Per gli altri, almeno per Martin e certo per Gavin, era una decisione strana. Il puritanesimo e la disciplina che caratterizzavano la visione della vita del Partito sembravano davvero alieni a una personalità evanescente e edonista. Ma senz’altro, pensavano, avrebbe trovato un modo di entrarci, come faceva con tutto il resto e poi, lontano dal

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Partito, sarebbe rimasto il gioviale e pigro perso-naggio di sempre.

Probabilmente sono stato io a suggerire di pranzare insieme da Bertorelli, il piccolo ristoran-te italiano a Charlotte Street, dove a quei tempi potevi fare un pasto soddisfacente a un prezzo assurdamente economico. Harry senz’altro era stato d’accordo: era sempre d’accordo su tutto e di fronte a un piatto di spaghetti io l’ho fatto parlare, come volevo, di Lady Nellie. Questa è la registrazione della conversazione:

Documenti su Nellie I

«Donna stupenda», dice Harry. «Spettegolia-mo per ore, per arrivare sempre allo stesso punto: è molto comprensiva. Se litigo con Martin - e ca-pita spesso ormai - posso sempre scappare da lei, che mi sta a sentire, mi porta fuori a cena, e mi fa star meglio. Ovviamente è anche molto seria sulle cose importanti, come dovremmo essere tutti. Ma le piace un po’ spettegolare, il che è una gran cosa. Qualche volta mi annoio dell’intensità di persone tipo Martin. Non smettono mai. Ma con Nellie ti puoi rilassare e farti una bella chiacchierata. E non è per niente snob. Neanche per idea».