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© 2011 Fandango Libri s.r.l.Viale Gorizia 1900198 Roma

Tutti i diritti riservati

ISBN 978-88-6044-187-4

Copertina:QB Creativefotografia di Mario Amura.

C’è un’Italia miglioreda un’idea di Silvio Masellia cura di Vincenzo Cramarossaredazione Nico Bavaro, Danilo Calabrese, Ines Pierucci, MariaGrazia Rongo

www.fandango.it

Stampato su carta Oikos delle Cartiere Fedrigoni. Carta riciclata non patinata, composta dal 50% difibre riciclate e dal 50% di pura cellulosa ecologica certificata FSC.

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Nichi Vendolae le fabbriche di nichi

C’è un’Italia migliore

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Il cuore oltre l’ostacolo

Le fabbriche di nichi rappresentano un frammento digioventù che ha messo in piedi un’esperienza straordi-naria, eterogenea, nuova, effervescente, un’esperienzadi buona politica. Sono luoghi in cui si esprimono lecondizioni di possibilità per la partecipazione e la de-mocratizzazione della politica. Il lavoro proposto inqueste pagine, frutto del confronto e delle idee emersea partire dagli stati generali delle fabbriche dello scor-so luglio, ne è chiaro esempio.

Importanti spunti di riflessione, fili di una narrazio-ne nuova, appassionata, che offrono orizzonti più ampia un dibattito politico immiserito, che non guarda oltrel’ombelico e la pancia del nostro paese. Questo librovuole essere un contributo di idee, una traccia collabo-rativa e propositiva, per intraprendere un dialogo collet-tivo sul futuro possibile. Sull’Italia migliore.

Gli ingredienti di questa vicenda che potrei definiredel tutto anomala nel panorama politico e sociale italia-

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no, sono molteplici. A cominciare dall’ingrediente cen-trale che è quello di una costruzione segnata dall’ele-mento della cooperazione. Una costruzione che si ali-menta di un’attività politica di incontro, di scambio diinformazioni, di opinioni, per costruire un punto divista plurale e articolato sulle cose del territorio e sullecose del mondo, perché la politica è buona se cuce unatrama di relazioni ricche, al di là di ogni competizioneossessiva.

Competere infatti, significa sentirsi sempre in un at-teggiamento agonistico, con l’ansia di dover tagliareun nastro e raggiungere prima di qualcun altro unapostazione, il trionfo dell’egoismo che non tiene contodel concetto di comunità. Invece l’idea è che occorreraggiungere un luogo importante ma in tanti, e chemagari occorre essere un po’ più lenti perché ci sonoquelli che faticano a camminare, ci sono quelli chenon hanno la cadenza il ritmo e il passo che abbiamonoi, ci sono quelli che non hanno le nostre abilità fisi-che, quelli che sono inciampati, caduti, e che devonoavere il tempo di rialzarsi e riprendere il passo.

L’elemento cooperativo è il punto di svolta, è ilpunto attraverso il quale riusciamo a dotarci di unasorta di osservatorio astronomico per cogliere i segretidelle costellazioni del potere culturale dominante.L’elemento cooperativo è il seme buono che può darefrutti importanti anche in tanti ambiti della nostra so-

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cietà. Pensiamo al mutuo soccorso e alla collaborazio-ne fra i diversi enti pubblici, contro l’idea di un fede-ralismo pensato come una minaccia all’unità del no-stro paese; pensiamo a un nuovo e più proficuo ap-proccio alle cose della scuola e del sistema della forma-zione, depressi dai tagli e dall’imposizione di un mo-dello culturale anacronistico e poco attento al realeportato dell’educazione e dell’incivilimento nella no-stra società. Pensiamo a un nuovo welfare che sia stru-mento di sviluppo, di inclusione e di possibilità ancheper i diversamente abili.

Accanto all’elemento della cooperazione c’è un altroingrediente decisivo: la capacità di avere un piede benpiantato nel territorio, nella propria città, quartiere,paese, villaggio, e quindi usare quel piede per attraver-sare in lungo e in largo il territorio, conoscerlo, viverlo,agirlo, per non parlarne astrattamente con distacco so-ciologico, che il più delle volte contiene presunzione eseparazione dalle cose che in quel territorio accadono.Quel piede nel territorio è anche l’insieme delle prati-che e delle politiche per la protezione e la custodia dellaterra, dei fiumi, dei laghi, del mare. Vuole significaredifendere e investire sulla bellezza e la vita delle nostrecittà, delle nostre comunità, e aprirle all’integrazione.Integrarsi e integrare, favorire l’integrazione dei mi-granti, delle donne, dei disabili, dei bambini, connette-re altre culture, storie e narrazioni, con la nostra.

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Ecco perché, un altro piede, le fabbriche, lo hannomesso curiosamente nell’universo mondo. Hanno cerca-to di camminare, sia pure simbolicamente con gli stru-menti del viaggio culturale e della connessione senti-mentale, negli altri luoghi del pianeta, attraversandotutti gli altri territori del mappamondo, insomma hannoconiugato territorio e cosmopolitismo, perché hannoimmaginato che amare il proprio territorio comportassedei doveri particolari che sono quelli legati alla rottura diqualunque retorica localistica per potersi collocare inve-ce in uno scenario globale. Ogni cultura infatti ha signi-ficato se si collega ad altre culture, è un tassello che habisogno degli altri tasselli per disegnare il mosaico di unmondo plurale, di un mondo conviviale, un mondo didialoghi che intreccia narrazioni, che intercetta gli ab-bracci che legano gli esseri umani in ogni parte delmondo. A partire da queste idee abbiamo maturato laconvinzione di mettere in campo percorsi di dialogo,avendo come obiettivo la pace e il disarmo mondiale.Questa è la buona politica che le fabbriche, sfuggendo aqualunque richiamo di provincialismo o di miserabilesciovinismo, ci insegnano.

E poi le fabbriche hanno immaginato che i luoghidella politica, della buona politica, dovessero essere ac-coglienti e inclusivi, perché i luoghi della politica de-vono valorizzare le differenze e devono comprendere,

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ad esempio, che la politica deve essere agita dagli uo-mini e dalle donne e quindi imparare che gli orari delledonne sono diversi da quegli degli uomini, trovarequindi un compromesso tra il cronometro maschile equello femminile. Un luogo di buona politica devesaper accogliere nei tempi molteplici della vita tutti isoggetti che avessero voglia di fare politica. Per questosiamo convinti che queste necessità debbano essere ga-rantite dallo Stato, attraverso un welfare che permettatempi di vita più umani, che dia la possibilità alladonna di vivere la maternità senza dover rinunciare allavoro. Un luogo fa buona politica se non ha barrierearchitettoniche, se non è inaccessibile per una personadisabile e se porta luce e parole lì dove trionfano ilbuio e il silenzio delle periferie sociali e umane. Comeaccade nelle periferie delle nostre città, o nelle carceriin cui il sovraffollamento sta provocando un improv-viso innalzamento dei suicidi, in barba alla funzionerieducativa della pena.

Le fabbriche di nichi hanno avuto anche la visionefolgorante e innovativa di costruire una narrazione, unlessico vivo che si interroga sulla vita. In Puglia, sonostate il valore aggiunto nella costruzione di una politi-ca che si è tradotta in dialogo, in racconto corale, chesi caratterizza per l’ambizione capace di legare genera-zioni, di mettere anima e vitalità dentro le scommessedella politica. Così hanno costruito e radicato il senso

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di una vittoria che è stata la vittoria della politica inte-sa come vita, contro la politica come morte: la vita si èinsinuata nella fatalistica riproduzione del potere e haspezzato le sue dinamiche, aprendo un varco alla spe-ranza. La speranza di una politica che deve restituiredignità al lavoro, che deve liberare i giovani dall’incu-bo del precariato che uccide il diritto al futuro; la spe-ranza di chi considera la scuola, l’università, luoghi es-senziali della formazione, di chi non accetta che i benipubblici diventino risorsa di pochi, di chi pensa che ilMezzogiorno sia luogo vitale di questo paese, di chicrede che investire in cultura sia la possibilità per arric-chire menti e territori, perché un paese che non inve-ste in cultura, formazione, innovazione, talento, non èun paese libero.

In Puglia, le fabbriche hanno portato la speranza nelpalazzo della politica ufficiale e da quel momento nonne è più uscita. Nessuno è riuscito a sfrattare la speran-za. Da questa regione laboratorio la speranza è poistraripata fuori dai confini, ha contaminato tante re-gioni d’Italia e persino molte città del mondo.

E oggi le fabbriche di nichi vogliono riorganizzarsi at-torno a una parola d’ordine: c’è un’Italia migliore. C’èun’Italia che è stata soffocata, che è stata seppellita,umiliata e sventrata dall’Italia peggiore che si è fattaStato, governando con le sue dinamiche luride, con un

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plebeismo piccolo borghese che è diventata la linguaufficiale delle classi dirigenti. Siamo da troppo tempoin apnea, il berlusconismo ha messo in apnea l’intelli-genza collettiva, il sentimento della bellezza, ha prova-to a sterilizzare i codici che segnano le passioni civili.

Eppure c’è un Italia migliore che oggi si sta dandocoraggio, che vuole emergere. E allora le fabbriche dinichi sentono di poter essere in tutta Italia quella forzaquasi ostetrica che tira fuori da luoghi lontani, dall’esi-lio del disincanto e della rassegnazione, tante passionie le rimette in circolazione, un alito nuovo che nellapolitica nazionale ci aiuta a camminare verso un futu-ro migliore.

La ricerca e il cammino sono appena cominciati. Laricerca è un cammino inesauribile, non può dirsi maicompiuta, e questa è la ricerca della conoscenza, è la ri-cerca delle individualità che si fanno dialogo, la ricer-ca delle ragioni che spiegano la crisi dei sistemi di po-tere, la ricerca delle strade che ci possono consentire diguadagnare la libertà. La ricerca continua sempre ed èuna ricerca anche molto legata alle parole. Dopo unalunga stagione di modernità orwelliana, di inversionesemantica del significato delle parole, una manipola-zione del linguaggio e dei segni continuo e permanen-te, abbiamo bisogno di creare un nuovo vocabolario,che ci restituisca il significato autentico delle parole,quel significato umano delle parole che arricchisce il

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vocabolario del cambiamento. Un vocabolario liberodall’inganno lessicale che abbiamo vissuto in questianni, buono per un’antropologia di normodotati. Noiinvece abbiamo bisogno di restituire a ogni parola ilsuo significato umano, di cercare il significato autenti-co delle parole, che vada di pari passo con l’autentici-tà dei sentimenti, delle intenzioni, delle azioni.

Io sono con le fabbriche di nichi in questa ricerca esono contento della libertà che mi danno e della liber-tà che si prendono, perché le fabbriche sono il contra-rio di una celebrazione retorica di un leader carismati-co. Esse sono un’esperienza plurale di libertà del farpolitica. Io ho imparato e imparo tante cose da loro enon sento di rivolgermi a loro come un generale si ri-volge alle sue truppe, non mi sento un capo. Le fabbri-che di nichi sono un fermento, una semina e mi dannosperanza e libertà. Posso continuare a coltivare i mieidubbi, ad avere le mie incertezze, a non nascondere lemie debolezze, a non dovermi vestire con gli abiti delcomando, ma di poter invece con loro continuare unoscambio, che è uno scambio di competenze, di parole,di esperienze e che ci consente di collocarci nel puntopiù alto della speranza che sta nascendo in questoPaese.

Le fabbriche di nichi possono annunciare che inogni paese, in ogni quartiere, in ogni città, al terminedi questa lunga notte possiamo di nuovo innamorarci

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della luce, possiamo ritrovare l’alba di rapporti nuovi.Questo libro parla di noi, dell’Italia che c’è e di quellache vorremmo, un paese di volti veri, che è pronto alanciare il cuore oltre l’ostacolo, a condividere parole efatti di buona politica, a raccontare una storia diversada quella che abbiamo vissuto in questi anni, a costrui-re, a far vincere e a vivere la storia dell’Italia migliore.

Nichi Vendola, dicembre 2010

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Camminare domandando

“Se i giovani si organizzano, si impadroniscono di ogni ramo delsapere e lottano con i lavoratori e gli oppressi, non c’è scampo perun vecchio ordine fondato sul privilegio e sull’ingiustizia.”

Enrico Berlinguer

Questo libro è il frutto di un lavoro collettivo, ed è ilprimo risultato di una serie di incontri, i più diversi,susseguitisi in questo primo anno di vita de la fabbri-ca di nichi. Dai giovani esperti alle tante persone “co-muni”, diversissime per età ed esperienze, intervenuteagli Stati Generali delle Fabbriche – Eyjafjallajökull,eruzioni di buona politica – dalle persone incontrate gi-rando per la Puglia e poi per l’Italia, come pure dallepersone “conosciute” finora solo virtualmente (ma chetramite la rete non hanno fatto mai mancare la lorovoce critica) abbiamo imparato che esiste ancora lapossibilità di fare buona politica in Italia, riportando lavita reale laddove sembra esserci posto solo per tecno-crazia e difesa dello status quo.

Era nostra intenzione iniziare a confrontarci conidee nuove e diverse, a riflettere su quale direzione darea un Paese bloccato in un eterno presente, che sembraaver rinunciato a riflettere sul proprio futuro.

È con questo spirito che abbiamo lavorato per ela-

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borare delle tracce di discussione con cui alimentare ildibattito, che partendo dalle fabbriche di nichi sparseper l’Italia, possa raggiungere il maggior numero pos-sibile di realtà. Un piccolo contributo per iniziare aparlare dell’Italia migliore che vogliamo. Riscrivere illinguaggio della politica, contribuire a una società di-versa, ricongiungere comunità ed esperienze, è questol’orizzonte del nostro impegno.

Camminare domandando, alla ricerca di quanto dimeglio questo paese può ancora offrire, della societàreale che l’attuale classe dirigente sembra non riuscirepiù a vedere.

La nostra è una sfida che ha bisogno del coraggio ditutti.

È per questo che ciò che più amiamo di questo pic-colo testo, le pagine più importanti, sono quelle chescriveremo insieme.

la fabbrica di nichi

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Incoscienza di classe

Ascoltando Working Class Hero di John Lennon, John Lennon/PlasticOno Band, Apple Records, 1970)

Leggendo Il tallone di ferro di Jack London, Feltrinelli, 2000

Vedendo Precious di Lee Daniels, 2009

The time is out of joint—O cursed spite,That ever I was born to set it right!

Nay, come, let’s go together.

Il tempo è fuor di squadra! O sorte maledetta, Che proprio io sia nato per rimetterlo in sesto.

Ma, avanti, andiamo assieme.Shakespeare, Amleto, Atto I-V

Dei fantasmi si aggirano per l’Occidente: sono i sognidispersi, le vite future di milioni di persone disorienta-te che immaginavano una vita ricca di occasioni, disuccessi magari non semplici da raggiungere, ma pos-sibili, e lavori dignitosi. Per molti questi dovevano es-sere gli anni in cui la storia della nostra civiltà arrivavaal suo compimento, in cui le democrazie liberali, gra-zie e insieme al libero mercato, potevano contare su diuna crescita continua, un’abbondanza di risorse ingrado di garantire una esistenza migliore alle nuove ge-nerazioni. Al secolo del lavoro “…penetrato dal benes-sere e toccato dall’angoscia …dilacerato fra l’avere e l’es-

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sere… Un secolo di promozione sociale e di riscatto dalbisogno, di incivilimento materiale e di anomia spiritua-le… di sprechi immani e tecnologie sofisticate…”1 pote-va seguire quello della fine del lavoro2 in cui grazie aivantaggi di una terza rivoluzione industriale fondatasullo sviluppo tecnologico e alle conseguenze positivedella globalizzazione si sarebbe potuto lavorare meno ein modo meno faticoso, godere di maggior tempo li-bero. Un secolo post-ideologico pensato al servizio deisingoli, liberi di esprimere e sviluppare le proprie indi-vidualità e soprattutto di consumare.

Le statistiche internazionali fotografano una imma-gine molto diversa, fatta di diseguaglianza e povertàdiffusa. Secondo l’Ocse3 negli ultimi vent’anni il gaptra ricchi e poveri nella distribuzione del reddito è au-mentato praticamente ovunque, talvolta in mododrammatico. Della crescita economica degli ultimivent’anni, in altre parole, hanno beneficiato maggior-mente i ricchi piuttosto che i poveri. In alcuni paesi ledisuguaglianze sono addirittura cresciute. Ai vertici diquesta amara classifica troviamo Stati Uniti,Inghilterra e Italia, paesi in cui è particolarmente este-sa la fascia di popolazione che vive a rischio di pover-tà e in cui gli ascensori sociali sono bloccati e forte-mente condizionati dal reddito e dalle condizioni dellefamiglie di origine in cui spesso i giovani sono costret-ti a restare o tornare (e questo la dice lunga sulla peno-

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sa retorica dei bamboccioni nostrani).Certo nella dinamica dei redditi ci sono categorie

sociali che se la passano meglio di altre. Nella mediadei paesi analizzati, infatti, è fortunatamente diminui-ta la povertà degli anziani mentre è aumentata la po-vertà dei bambini e degli adulti soli (spesso a seguito diun divorzio o della perdita del lavoro). Nei paesi Ocsei bambini e i giovani adulti hanno il 25% di probabi-lità in più di essere poveri rispetto al resto della popo-lazione. Nel nostro paese l’Istat già da qualche anno se-gnala la crescita della povertà tra i minori; dato che,oltre ad essere grave in sé, tende a generare una tra-smissione intergenerazionale della povertà (le personegiovani povere genereranno figli poveri i quali, a causadella scarsa mobilità sociale, faranno fatica ad affran-carsi da questa condizione)4.

Scorrendo questi dati scopriamo che l’Italia è passa-ta da livelli di disuguaglianza vicini alla media Ocsevent’anni fa, a livelli attuali ben superiori. Siamo infat-ti il sestultimo paese sui 30 censiti per livello delle di-suguaglianze tra ricchi e poveri, cresciute del 33% ri-spetto alla metà degli anni Ottanta. Ancora più accen-tuata è la disuguaglianza nei patrimoni: il 42% dellaricchezza totale è detenuta, infatti, dal 10% dei citta-dini, mentre “solo” il 28% del reddito totale è ascrivi-bile allo stesso 10%.

Nel mondo la ricchezza prodotta è in aumento so-

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prattutto grazie alle nuove potenze economiche emer-genti (India, Cina e Brasile su tutte), eppure il tenoredi vita della popolazione che vive nei paesi più indu-strializzati, già da prima della crisi, è in costante calo.Qualcosa non deve aver funzionato nella teoria liberi-sta e oggi quel che resta del sogno americano si è oltre-modo scolorito, l’economia cresce a ritmi sostenutiproprio in quei paesi per nulla riconducibili alle demo-crazie liberali, dominati piuttosto da un forte capitali-smo di Stato (per la Cina già si parla di novello comu-nismo di mercato).

Negli ultimi trentanni, in realtà, la crescita econo-mica ha fortemente favorito la rendita dei capitali atutto svantaggio del reddito da lavoro. La distribuzio-ne del reddito – come abbiamo visto – si è polarizzata,rendendo ricchissimi i (pochi) ricchi e più poveri tuttigli altri, con il conseguente indebolimento dei ceti co-sidetti medi che, schiacciati verso il basso, sono oggi ir-riconoscibili alla luce delle categorie “classiche” alpunto da richiedere un aggiornamento dello studiodelle classi sociali.5 Qual è oggi la nuova piccola bor-ghesia? Possiamo ancora parlare semplicemente di clas-se operaia? È possibile identificare nel mondo cosìvario del precariato (che raccoglie insegnanti e consu-lenti, ricercatori e liberi professionisti, camerieri ecolf ) un nuovo soggetto politico o è questa solo unadiffusissima condizione individuale, una massa etero-

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genea di consumatori identificata dai nuovi meccani-smi di produzione globale che condivide paure e preoc-cupazioni verso un futuro quanto mai incerto?

Il lavoro, caposaldo delle passate conquiste sociali,ha smesso di essere considerato (così come ci ricorda lanostra Costituzione) strumento di promozione socialeed è stato ridotto al significato strettamente economi-co attribuitogli dagli economisti neoclassici: è uno deifattori della funzione di produzione, a contare è solo ilsuo prezzo di mercato.

Alla base di questo mutamento epocale, in cui coe-sione sociale e piena occupazione appaiono traguardisempre più irraggiungibili, ci sono anni di ideologiaipercapitalista che ha convinto i governi di tutto ilmondo, indipendentemente dal loro colore politico,che un certo modo di perseguire la crescita economi-ca, in cui gli Stati non interferivano troppo negli affa-ri dell’economia, fosse l’unico obiettivo di cui ci si do-veva necessariamente preoccupare, quasi che il resto –maggior benessere per tutti, giustizia sociale, financheuna migliore democrazia – seguisse da sé, a patto chegli stati non interferissero troppo negli affari dell’eco-nomia.

Meno stato e più mercato è stato il mantra delle po-litiche economiche degli ultimi decenni. Ispirato alleteorie neoliberali di Hayek e degli economisti dellascuola di Chicago, che vedevano nel libero mercato

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l’unico vero antidoto alle conseguenze negative deicontrolli pubblici, questo approccio ha fortemente in-fluenzato negli anni Ottanta i governi di MargaretThatcher e Ronald Reagan ma i suoi corollari – priva-tizzazione delle imprese pubbliche, deregolamentazio-ne dei mercati, guerra senza quartiere all’inflazione, ri-dimensionamento del ruolo dei sindacati e sgravi fisca-li ai ceti più abbienti (quelli normalmente in grado dispendere di più) – sono, con rare eccezioni, entrati afar parte dell’agenda di ogni “buon governo”.

Anche in Italia abbiamo assistito all’alternarsi di go-verni che, con deboli sfumature, hanno perseguito(spesso più a parole che con i fatti) politiche economi-che non affatto dissimili, tanto che si è potuto legitti-mamente parlare di “due destre”6. Ancora oggi, mentrelo stesso Labour Party col suo giovane leader, EdMilliband, sembra intenzionato a prendere le distanzedalla terza via inglese7 il centro-sinistra italiano conti-nua in campo economico ad attingere a quelle stessericette vecchie ormai di ventanni.

La third view di Anthony Giddens, Tony Blair e BillClinton (ma anche la sua versione tedesca, la cosidetteNeue Mitte di Schröder) hanno rappresentato il dispera-to tentativo di trascendere neoliberalismo e socialdemo-crazia attraverso una cornice di concetti e politiche non-dimeno basate sull’assunto che non esistesse oramai al-cuna alternativa al capitalismo.8

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Il “laburismo capitalista” ha sostituito, ai classiciobiettivi socialdemocratici, politiche ritenute in gradodi mettere la società al passo con un sistema economi-co immutabile.9 Alla piena occupazione si è sostituital’employability (occupabilità), alla crescita dell’econo-mia reale (l’industria) si preferiva quella basata su fi-nanza e servizi, alla tutela collettiva (inclusa quella sin-dacale) la promozione di libertà individuali, alla redi-stribuzione e alla coesione sociale la responsabilità so-ciale dei singoli a cui veniva richiesto più dinamismo incambio della promessa di maggiori opportunità future.Una crescita economica capace di creare costantemen-te più ricchezza è il dogma su cui si è retto e poi infran-to il successo di questo approccio che ha permessoall’Inghilterra, in continuità con le politiche thatcheria-ne, di restare un’economia dinamica, pronta a rispon-dere alle esigenze del mercato anche a costo di alti costisociali. Oggi, come abbiamo già potuto osservare, ilRegno Unito è uno dei paesi più diseguali d’Europa, amaggior rischio di povertà relativa e che si distingue peruna mobilità sociale tra le più basse.

Non deve stupire che anche le nuove ricette conser-vatrici quali la big society, il “meno stato più società”,del nuovo premier inglese David Cameron (ripresa inItalia dal Ministro del Lavoro Sacconi, ma che sembra-no affascinare anche Angela Merkel e NicolasSarkozy) – pur non potendo non tener conto della

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grave recessione in corso – restino nel solco dell’acco-modamento della società alle esigenze del mercato, la-sciando allo stato (e verrebbe da dire alla politica tutta)un compito residuale. La “nuova terza via” vorrebbeprivilegiare, tra lo stato e il mercato, il ruolo della so-cietà civile e degli individui: in tempi di crisi la solu-zione per una gestione più efficiente del welfare passe-rebbe dalla responsabilizzazione dei cittadini e il con-tributo delle associazioni filantropiche e delle comuni-tà locali; in questo modo si dovrebbero da un lato evi-tare gli sprechi (evidentemente giudicati inevitabili)della gestione statale e dall’altro evitare che il sistemaprivato svolga servizi pubblici guidato solo dalla neces-sità di ottenere un profitto.

Tralasciando una analisi più dettagliata dei puntideboli di questa proposta (che per essere credibile ne-cessiterebbe perlomeno di corpi intermedi forti e per-vasi da un civismo purtroppo difficilmente riscontra-bile e di uno stato efficiente in grado di stimolare e ga-rantire le capacità dei propri cittadini con investimen-ti importanti) urge qui sottolineare quanto la retoricasolidale della valorizzazione delle associazioni di volon-tariato e del “power to the people” abbia, alla prova deifatti, immediatamente svelato la sua vera natura mi-rante essenzialmente a contenere le insostenibili spesedei servizi sociali, restringendo le responsabilità dellostato. I primi interventi del governo Cameron hanno

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infatti imposto tagli di spesa radicali che colpisconodirettamente lo stato sociale – fra l’altro riducendoproprio i fondi destinati al non profit – e pianificatouna triplicazione delle rette universitarie che ha scate-nato manifestazioni studentesche di massa quali inInghilterra non si vedevano dagli anni Sessanta. Allostato attuale la big society appare solo come la giustifi-cazione ideologica di un liberismo dal volto umano,una versione più raffinata del capitalismo compassio-nevole dell’era Bush jr.

All’inseguimento di una economia sempre più dina-mica, spinta dalla globalizzazione e dal progresso tec-nologico si è tralasciata la lotta alle diseguaglianze esono passate in secondo piano le politiche redistributi-ve. Così, con una competizione globale che (dal latodel lavoro) coinvolge ormai centinaia di milioni dipersone e con salari in declino, per sostenere la cresci-ta e i consumi il sistema economico è dovuto ricorrereal debito privato La recente recessione ha preso il viaproprio dal tracollo del mondo della finanza america-na che aveva cavalcato temerariamente la bolla specu-lativa del mercato finanziario e dei mutui facili a fami-glie a rischio. Questo risultato non è stato casuale maè il risultato di precise scelte politiche: mentre da unlato si favorivano le fasce più ricche con tagli fiscali, ilceto medio veniva distratto dal credito facile10.

Dagli Stati Uniti la crisi si è estesa all’Europa e al

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resto del mondo, colpendo per primi quegli stati cheavevano condiviso le stesse scellerate scelte di derego-lamentazione e poca trasparenza del sistema finanzia-rio11. Dopo il collasso del sistema finanziario e il crol-lo dei mercati immobiliari la crisi ha rapidamente con-tagiato l’economia “reale” tramite l’aumento dei prez-zi delle materie prime e la contrazione dei consumi, re-stringendo l’accesso al credito e quindi gli investimen-ti. Gli stati hanno dovuto accrescere i loro deficit per“salvare” i sistemi bancari e le grandi imprese e il forterallentamento della crescita ha prodotto, infine, un au-mento della disoccupazione.

Le conseguenze delle turbolenze economiche si sca-ricano quindi, ulteriormente, sul mondo già indeboli-to del lavoro. Secondo i ricercatori dell’Ocse le cre-scenti disuguaglianze originano proprio nella trasfor-mazione del mercato del lavoro, con un aumento deilavoratori a basse qualifiche e di lavoratori poveri.Anche le misure di contrasto alla povertà e i sussidi so-ciali hanno perso efficacia negli ultimi vent’anni, ra-gione per cui sarebbe necessario ridisegnarli. In questoscenario si colloca l’attuale crisi economica: è lecitodomandarsi se a una crescita economica così disugua-le corrisponderanno effetti disuguali nella recessione(più dura per chi è già povero e più sopportabile per iricchi). È questa la domanda che si è posto ancheAtkinson, uno dei maggiori studiosi europei in mate-

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ria di distribuzione del reddito e disoccupazione.12

Dipenderà dalle politiche pubbliche che i governi attue-ranno, è la risposta dello studioso. Per ora i governi sisono comportati da prestatori di ultima istanza, corren-do in soccorso delle istituzioni finanziarie in difficoltà egarantendo così, in una certa misura, anche i piccoli ri-sparmiatori. Ma affinché gli effetti della recessione nonpesino maggiormente su chi già è in difficoltà è necessa-rio molto di più. Dipenderà dalla capacità delle coalizio-ni di governo di immaginare interventi sociali inediti,ancor più efficaci se studiati su scala sovranazionale. Perquanto riguarda l’Italia questo significa innanzitutto ri-scoprire la sua matrice europeista. I recenti casi dellaGrecia e dell’Irlanda, i cui fallimenti vengono arginatidall’intervento dell’Unione Europea sono destinati acambiare profondamente quest’ultima.

Alcuni dei problemi posti dall’attuale patto di stabi-lità e crescita sono abbastanza noti agli economisti: laregola che proibisce disavanzi superiori al 3% del Pilcompromette la funzionalità della politica fiscale men-tre vincoli fiscali troppo stringenti fanno sì che gli statinon possano ricorrere all’apporto anticiclico degli sta-bilizzatori automatici (che in recessione implicano lacreazione di disavanzi); mancano dunque gli strumentiadatti a controllare e gestire l’unione monetaria. Il pro-blema ancora una volta è innanzitutto politico: è giun-to il momento di chiudere la forbice tra moneta e so-

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vranità. Il tema è di rilievo assoluto. Per quanto ancoraè pensabile una moneta senza stato? Già molti anni fagli studiosi delle aree valutarie ottimali ci insegnavanoche “La politica monetaria e la politica fiscale devonoprocedere a braccetto e, per l’esistenza di una combina-zione ottima delle due, è necessario che esse abbiano lostesso dominio. Un unico Tesoro, in collaborazione oin concorrenza con la Banca Centrale, deve essere inve-stito del potere assoluto riguardo le decisioni in termi-ni di spesa e di tassazione.”13

Gli argomenti all’ordine del giorno – una riforma delpatto di stabilità e crescita che permetta politiche nonsoltanto anticicliche14, la creazione di un FondoMonetario o di un federalismo fiscale europeo sono rea-lizzabili solo a condizione di un forte rilancio politicodell’Unione Europea, che non può avvenire senza au-mentare il tasso democratico delle proprie istituzioni.Non sono sufficienti semplici interventi di aggiusta-mento, occorre riportare al centro dell’agenda europeala crescita del benessere, la salvaguardia dell’ambiente edel territorio e l’equità sociale: servono nuove politiche,che vadano oltre quelle dei bilanci in pareggio. Oggi allabase delle politiche di riduzione del debito troviamo trale motivazioni maggiori il contrasto della speculazioneche, in realtà si può combattere solo attraverso unnuovo modello di sviluppo, e non certamente distrug-gendo lo stato sociale imponendo riforme strutturali

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che pesano soprattutto sul mondo del lavoro.15 Invece leultime indicazioni della Banca Centrale Europea indivi-duano ancora nella moderazione e nella flessibilità sala-riale la via d’uscita dalla disoccupazione strutturalesenza far riferimento alcuno al fatto che la sicurezza so-ciale è anche un fattore produttivo: una società coesa egiusta è più efficiente finanche nella produzione di benimateriali ed è sicuramente più ricca da un punto di vistasociale e morale, erano questi del resto alcuni degliobiettivi al centro della strategia europea di Lisbona chesembra essere stata in parte abbandonata.16

L’elevata mancanza di lavoro è in effetti un proble-ma tanto grave da non essere più eludibile, nemmenonella visione dominante che si preoccupa innanzituttodi salvare le banche più che i redditi dei cittadini: neipaesi dell’Ocse riguarda ormai oltre 45 milioni di per-sone con un tasso di inoccupazione vicino ai massimidal dopoguerra (l’8,5%, ma secondo i dati diffusi dallaBanca d’Italia la disoccupazione reale italiana arriva aun tasso di sottoutilizzo addirittura superiore all’11%conteggiando i lavoratori in Cassa Integrazione e gli“scoraggiati”). Particolarmente allarmante è la dimen-sione della disoccupazione giovanile che supera ormaiil 26% e fa presagire che a pagare le conseguenze peg-giori del declino economico saranno proprio le giova-ni generazioni, normalmente occupate con contrattiprecari (e per questo più facili da licenziare in tempi di

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crisi) e con scarse possibilità di arrivare ad accumularecontributi pensionistici sufficienti.

La stabilizzazione delle condizioni dei lavoratoriprecari, la preoccupazione derivante dal forte dualismoesistente nel mercato del lavoro, ha apparentamentefatto breccia perfino oltre il recinto della sinistra. Il go-vernatore della Banca d’Italia Mario Draghi ha di re-cente riconosciuto le gravi difficoltà del sistema italia-no in tema di crescita e creazione di reddito, concate-nate alla perdita di competitività rispetto ai nostri vici-ni europei. Potrebbero essere buoni punti di partenzaper cominciare a mettere mano al dramma della preca-rizzazione di tanti lavoratori prodottasi in questi annie che origina in scelte passate scellerate. Fra la finedegli anni Novanta e l’inizio del decennio il pacchettoTreu e la riforma Biagi sono intervenuti (con l’obietti-vo di aumentare gli occupati) nella sola direzione dellaflessibilizzazione del mercato del lavoro, ma sono in-tervenuti al margine (le riforme si applicavano solo achi entrava nel mondo del lavoro da quel momento inpoi), creando di fatto una segmentazione del mercatodel lavoro in cui i neo-lavoratori sono privi di tutele edevono di fatto assorbire tutti gli aggiustamenti strut-turali che il segmento dei vecchi lavoratori, la cui rigi-dità non è stata scalfita dalle riforme, non può assorbi-re. A tal proposito occorre ripartire da una verifica cri-tica delle diverse proposte in campo (tra quali spicca-

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no quella di Boeri-Garibaldi17 e di Leonardi e Pallini18

sul contratto unico e quella più recente della Cgil sullariforma degli ammortizzatori sociali19) allo scopo di ve-rificare quanto siano coerenti con l’idea che chi utiliz-za il lavoro flessibile se ne deve anche accollare i mag-giori costi contributivi e sociali anziché scaricarli sullasocietà.20

Negli ultimi 15 anni la risposta alla necessità di mo-dernizzare il mercato del lavoro, elaborata dagli studio-si e divenuta poi una vera e propria strategia della Ue,è consistita nel tentativo di unire flessibilità del lavoro,sicurezza sociale e politiche attive del lavoro (cosidettaflexicurity).

A distanza di anni, tanto più in tempi di crisi21, que-sto modello mostra le proprie crepe essendo stato uti-lizzato in gran parte per promuovere riforme chehanno inciso sulla flessibilità dell’offerta di lavoro,senza adeguati interventi sugli ammortizzatori socialiche potessero effettivamente contemperare un “addol-cimento” dell’impatto del nuovo assetto del mercatodel lavoro.

I motivi di questo fallimento annunciato sono chia-ri: se la flessibilità può aiutare ad aumentare l’occupa-zione (seppur danneggiandone la qualità), le reti di si-curezza sociale sono costose. Nei paesi in cui la flexicu-rity è originata, Danimarca e Olanda, vi sono sì politi-che attive efficienti e flessibilità, ma anche altissimi e

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costosi tassi di copertura assistenziale finanziati dallostato con una elevata pressione fiscale che inDanimarca sfiora il 50%. Al di là della schiaccianteevidenza dei dati – con la crisi la disoccupazione èschizzata subito verso l’alto nei paesi che si sono spin-ti più avanti nella flessibilità del lavoro (come laSpagna, l’Irlanda, l’Inghilterra e gli Stati Uniti) – laflessibilità costruita sulle esigenze delle sole imprese haanche alti costi sociali che riguardano la carriera pro-fessionale, il reddito e l’identità stessa delle persone co-strette in un orizzonte improgrammabile e angusto. Inrealtà sinora alle sfide poste dalla globalizzazione si èfornita una risposta rinunciataria e adattiva, il prezzodi una competizione sempre più estrema è stato addos-sato in massima parte al lavoro, al mito della flessibili-tà come unico rimedio alla perdita di produttività.22

In tal senso occorre leggere anche il caso Pomigliano –Fiat, al cui centro c’è la volontà dell’azienda torinese(oggi proprietaria anche dell’americana Chrysler) di im-porre ai lavoratori un accordo separato che muta sia l’or-ganizzazione del lavoro interna, aumentando il ritmodella turnazione della catena di montaggio, che l’assettodei diritti dei lavoratori: i sindacati firmatari diventanonon solo responsabili delle proprie violazioni ma devonofarsi garanti anche del comportamento dei singoli lavo-ratori, iscritti o meno al sindacato, pena sanzioni e licen-ziamenti. L’obiettivo esplicito di tale contratto punta a

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ottenere la certezza di poter governare al meglio i propristabilimenti (per il rinnovo della produzione la Fiat di-chiara di essere disponibile a investire in Italia ben 20 mi-liardi) assicurandosi regole certe in grado di massimizza-re l’uso degli impianti, contrastare l’assenteismo ed evita-re conflitti e scioperi.

L’accordo è esplosivo per molteplici ragioni e secon-do molti mette a rischio l’intero sistema di relazioniindustriali italiano fondato sulla contrattazione collet-tiva (la recente ventilata uscita della Fiat da Feder -meccanica non fa che confermare tale ipotesi). Senzaentrare nel merito degli innumerevoli interrogativi cheil caso solleva e su cui occorrerebbe discutere a lungo(l’utilizzo retorico dell’assenteismo come leva del di-scredito verso i lavoratori “fannulloni”23, la riduzionedelle pause in catena di montaggio che abbassano latutela del diritto alla salute, la minaccia della delocaliz-zazione con l’apparente rinuncia della Fiat a riceverefinanziamenti statali italiani24, la necessità di pervenirefinalmente a un accordo sulla nuova legge di rappre-sentanza sindacale, il ricatto dello scambio fra occupa-zione, diritti e salari, la titolarità del diritto di sciope-ro, ecc.) vogliamo concentrare la nostra attenzione sulfondamento di quello che già viene chiamato “model-lo Pomigliano”.

Alla base dell’approccio dell’amministratore delega-to Marchionne c’è l’idea che per competere nel mondo

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attuale c’è una sola strada, fondata su un modellounico di produzione che fa dipendere la produttivitànon solo e non tanto dall’investimento tecnologico (inquesto caso dal rinnovamento dei modelli di auto daprodurre), ma soprattutto dal contenimento dei salarie dall’emarginazione dei sindacati non collaborativi.

Restano inevase molte domande: fino a che punto cisi può spingere per aumentare la produttività e quan-ta parte della maggior ricchezza prodotta andrà al la-voro? Quanta al capitale?25 Al fine di una gestione ot-timale è davvero necessario abbandonare completa-mente ogni idea di democrazia sindacale? Sicuramentei sindacati possono fare molto per modernizzarsi, ciòche non gli si può chiedere è di rinunciare a-priori allapratica del conflitto, pena la loro stessa esistenza.26

L’impressione è che ci si trova di fronte all’interiorizza-zione di un approccio individualistico anche al dirittodel lavoro, che apparentemente emancipa il lavoratorenelle proprie scelte (ridotte in questo caso alla sceltatra la disoccupazione o un contratto capestro) e dall’al-tro “lo costringe sotto l’egida ferrea dell’organizzazio-ne sindacale (di cui magari non fa nemmeno parte) sesolo si prospetta il rischio che, nella libertà di sciope-ro, possa derivarne un danno per l’azienda.”27 Il caso diPomigliano, nella plastificazione dello scontro capita-le-lavoro, ci riporta indietro a tempi che credevamoormai superati. Il “bravo” manager Marchionne che si

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autodefinisce con un’ipocrisia insopportabile “sempli-ce metalmeccanico”, guadagnando però 400 volte piùdi un operaio, è stato superato da se stesso nella suaversione neopadronale.

Il passaggio epocale in cui siamo immersi è segnatoanche da battaglie giocate sul piano linguistico. Dopo larecente ubriacatura di termini finanziari quali swaps, fu-tures e options (i cosidetti titoli tossici delle speculazioniinternazionali) e una realtà in cui a tutto è possibile ag-giungere la stessa desinenza (studi e ricerche, voci edesperti, manovre, bombe, fette e nicchie, tutto può esse-re “di mercato”)28, la cronaca recente ci restituisce una re-altà fatta nuovamente di operai, rapporti di produzione,alienazione, conflitto capitale-lavoro, scioperi generali.

Sono gli spettri di Marx, il grande rimosso della se-conda metà del Novecento, che continuano ad aggi-rarsi indisturbati per il mondo interrogandoci nuova-mente con la feconda radicalità delle sue domande29,riapparendo nelle discussioni sulle lotte operaie inCina e nelle catene di montaggio italiane, nelle minie-re cilene, sui tetti occupati dai precari della ricerca esulle gru su cui stanno giovani immigrati, aggrappatialle sorti di un futuro che non è stato pensato per loro.È venuto forse il tempo di riappropriarsi dei potentistrumenti di analisi elaborati più di un secolo fa dalgrande filosofo tedesco, liberato ormai dalla rugginedella storia, e fondamentali per cercare di porre rime-

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dio a una crisi ormai sistemica, non risolvibile con unacompetizione fondata esclusivamente sul minor costodel lavoro. Rinunciando a considerare entrambi i fat-tori della produzione (capitale e lavoro) siamo condan-nati a una analisi monca, a non realizzare che il mitodi un mercato che libero da interferenze pubbliche è ingrado di massimizzare la ricchezza per il bene di tuttiè tramontato e diventa sempre più difficile giustificareun sistema che difende e salva le banche mentre sacri-fica welfare e lavoro.

E anche scegliere come misurare la crescita econo-mica non è affatto una decisione neutrale. L’indicatoreeconomico per eccellenza, il prodotto interno lordo(Pil) non solo non è sufficiente a calcolare l’effettivosviluppo delle nazioni, ma dando per scontata l’inter-dipendenza necessaria tra crescita economica e crescitadel benessere, è spesso alla radice di politiche economi-che distorsive. È ora di introdurre stabilmente nel-l’analisi economica misuratori che tengano conto diespliciti obiettivi politici che considerino anche com-petitività, coesione sociale, ambiente30 e in grado dievidenziare il reale sviluppo umano31.

Emerge prepotente la necessità di restituire allo Statoquelle responsabilità di cui si era spogliato relegando alungo la politica economica a un ruolo “tecnico”. Allostesso tempo occorre con coraggio sfruttare le oppor-

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tunità che la crisi ci offre per ridisegnare il nostro siste-ma produttivo, chiedendo alle istituzioni di non abdi-care alle proprie responsabilità. L’intervento pubblicoin una democrazia moderna ha un ruolo indefettibilenella produzione e nella tutela dei beni pubblici, nellalotta all’inquinamento, nella redistribuzione della ric-chezza, nella correzione degli squilibri del mercato esoprattutto nella ricerca di una maggiore coesione so-ciale fondata sulla lotta alle diseguaglianze, contro lemille precarietà della vita. Vogliamo uno Stato ingrado di accompagnare lo sviluppo e le imprese senzasostituirsi agli imprenditori, ma che piuttosto favoriscagli investimenti più coraggiosi in innovazione e ricer-ca, aiutando le piccole imprese (anche grazie ad unaadeguata politica fiscale) a non aver paura di crescerein dimensione e qualità (siamo il paese delle piccole emedie imprese e non sempre questa è una scelta volon-taria) abbattendo le barriere in entrata per le start up,punendo le rendite di posizione, riscoprendo la mo-dernità delle nostre imprese artigiane, vere depositariedel made in italy apprezzato in tutto il mondo. Non sitratta di annodare o recidere “lacci e lacciuoli”, di de-cidere che ciò che fa lo stato è necessariamente buono,mentre ciò che fanno i privati è necessariamente catti-vo o viceversa, ma di farsi garanti della responsabiliz-zazione del sistema produttivo, perché la creazione delbenessere riguarda tutti. La crisi mostra che gli attori

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privati sono capaci di fare scelte efficienti nel breve pe-riodo ma mancano spesso di una visione globale, delmedio e lungo periodo. Lo Stato dovrebbe farsi caricodi incentivare attività e scelte che abbiano senso per ilpaese in un orizzonte temporale più lontano dell’oriz-zonte limitato dell’investitore interessato ad un ritornoimmediato. Perché non favorire le filiere industriali opromuovere la creazione di nuovi distretti tecnologici?Perché non si può recuperare il paradigma ecologicocome nuovo paradigma economico o scommetteresulla formazione permanente di nuovo capitale umanoe sulla riqualificazione di quello già esistente? Lo stes-so inarrestabile fenomeno migratorio, liberato dalla re-torica xenofoba, può essere un fattore di sviluppo im-portante se adeguatamente gestito. Occorre inoltre ri-disegnare un welfare attivo che non scarichi sulla fami-glia tutto il peso dell’assistenza, in grado di offriremaggiori opportunità e non semplici sussidi, che sap-pia offrire un riparo adeguato a chi resta senza lavoro(rivedendo, ad esempio, l’uso distorsivo e discrimina-torio della cassa integrazione) e lo metta in condizionedi ritrovarlo, che consenta alle donne di parteciparepiù attivamente al mercato del lavoro senza essere co-strette a scegliere tra un figlio e un impiego, che sbloc-chi la mobilità sociale garantendo percorsi di forma-zione garantiti per le nuove generazioni ancora troppocondizionate dalle condizioni delle famiglie di origine

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e che non hanno la possibilità di accedere ad affitti cal-mierati, né tantomeno possono permettersi di acqui-stare una casa. Non è necessario aumentare ulterior-mente la spesa pubblica ma utilizzarla meglio.Occorre una riorganizzazione del settore pubblico chelo renda più efficiente, un’assunzione di responsabilitàda parte delle amministrazioni statali e degli enti loca-li perché non un euro delle tasse vada sprecato. Se agi-remo cosi uno stato sociale generoso ed efficiente di-venterà l’inattaccabile orgoglio di un paese e non lacartina di tornasole del suo progressivo declino.

Bisogna recuperare una “visione generale”32 in gradodi riportare al centro il valore sociale del lavoro qualemezzo di emancipazione sociale e non più come mercepovera.33 In un’epoca a tutti gli effetti post-democrati-ca, in cui la politica è decisa in privato dall’integrazio-ne tra i governi eletti ed élite che rappresentano quasiesclusivamente grandi interessi economici, è fonda-mentale smascherare l’illusione di una società in cuiprotagonista può essere solo l’individuo e riscoprire ladimensione collettiva dell’esercizio dei diritti. Lo sman-tellamento progressivo del welfare state, inoltre, restrin-ge la nostra cittadinanza: non curarsi dello scadimentodel valore del lavoro riduce la nostra democrazia.34

Le cronache, italiane e internazionali, ci narranosempre più spesso di lavoratori (e persino studenti) sui-cidi perché hanno perso o non trovano lavoro o di im-

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prenditori che si ammazzano per la vergogna alle sogliedella bancarotta. Questa apparentemente incomprensi-bile fragilità è il frutto di una falsa rappresentazionedella realtà, della concezione distorta del proprio ruolonella società, del disconoscimento del valore intrinsecoe unico di ogni vita umana che vaga sconfitta alla ricer-ca di un proprio posto in un mondo dominato da unsistema valoriale rovesciato, che confonde il successo diuna vita con un vita di successo. Sommersi o salvati,non c’è alternativa nella deriva liberista.

L’individualizzazione dei rapporti di lavoro, la par-cellizzazione delle vite che passa dalla precarietà erettaa condizione esistenziale, la tentazione di offrire solu-zioni biografiche a contraddizioni sistemiche, il nonvedere quanto spesso il trionfo di uno nasconda lasconfitta di molti ci rende prigionieri di una nuova in-coscienza di classe35 da cui occorre al più presto risve-gliarsi per riconquistare un futuro che è necessaria-mente collettivo o non è, se non vogliamo continuaread illuderci di farcela sempre e soltanto da soli rima-nendo così in balia di un ipotetico mondo miglioreche non arriva mai, barche controcorrente, risospintisenza posa nel passato.36

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La speranza urbana (Il governo della cura al servizio di una città giusta )

Ascoltando Eclissi di periferia dall’album Ognuno fa quello che gli paredi Max Gazzè, 2009

Leggendo Il mestiere di vivere di Cesare Pavese, Einaudi, Torino 1950

Vedendo La fonte meravigliosa di King Vidor, 1949

“Beati voi beati voi che ve ne andate come padroni per le periferie della città e parlate della vita e della morte con le

prime parole che vi vengono alle labbra.”(da Uccellacci e uccellini, Pier Paolo Pasolini)

Le città stanno cambiando non solo pelle, ma ancheforma. Centri commerciali grandi come centri storici,anelli autostradali sempre più larghi e nuovi spazi do-mestici infinitamente confortevoli, danno vita a unanuova società per la quale l’equilibrio fra vita pubblicae privata pare avere un significato davvero diverso daquello sperimentato nelle nostre vecchie e affollatecittà storiche. Nelle città, l’equilibrio fra sfera pubbli-ca e privata sta mutando anche all’interno dei confinidelle “vecchie mura”. I “conflitti d’uso” dello spazioche si scatenano quotidianamente nelle nostre strade,piazze, parchi e mezzi pubblici mettono in discussionelo “spazio pubblico”, teso verso il moltiplicarsi di con-tatti fra gruppi sociali e culturali diversi, ma anche

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verso una certa riscoperta della “vita pubblica” di cuisono protagoniste alcune popolazioni urbane. Gli “usiortodossi” dello spazio sono insidiati da quelli “etero-dossi”: un vero e proprio rompicapo esistenziale eidentitario, soprattutto per i meno giovani. Fra immi-grazione, precarizzazione sociale, invecchiamento ge-neralizzato e nuove culture dell’edonismo (la neo-mo-vida italica), le nostre città si sono trasformate in labo-ratori della “diversità umana” nei quali la preoccupa-zione principale di chi ha il potere dovrebbe essere laprogettazione, la cura e il governo – intelligente e in-novativo – dello spazio pubblico. In una società com-plessa e frammentata le città sono un bene comune;ma maggiormente lo sono le relazioni fra le popolazio-ni che vi abitano. Molta della differenza che corre fral’avvenire di una democrazia giusta, dinamica e inclu-siva e uno scenario inquietante fatto di separatismo so-ciale, di un diffuso senso di insicurezza, latente o ma-nifesta, dipende dalle scelte che gli italiani compiran-no nelle loro città e regioni. Per questo la nuova sini-stra italiana deve mettere a punto un’ambiziosa agen-da urbana e metropolitana per il ventunesimo secolo;un’agenda che progetti un nuovo governo della cura,che sia al servizio dell’ideale di una città giusta.

Democrazia, Sostenibilità, Condivisione, Intelligenzae Bellezza sono le cinque parole con le quali vogliamoiniziare quel grande lavoro collettivo che porterà alla

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definizione di un’agenda urbana per la sinistra del ven-tunesimo secolo.

DemocraziaLa prima parola è democrazia. La democrazia nasce

in città e nelle città deve essere riscoperta. Non biso-gna andare tanto lontano nel tempo per trovare esem-pi di come le democrazie urbane abbiano rappresenta-to formidabili meccanismi d’inclusione sociale e di in-tegrazione politica. Pensiamo solo alla Roma delle bor-gate fra gli anni Sessanta e Settanta dello scorso seco-lo, oppure alla Milano e alla Torino operaie di queglistessi anni. Questo meccanismo virtuoso, con il tra-monto della società industriale, sembra essersi in granparte inceppato e le nostre città rischiano di diveniremacchine di esclusione. Per invertire la rotta, i nuovigoverni dovranno, prima di tutto, riaffermare il valoredell’azione collettiva, nel loro discorso pubblico comenel loro funzionamento quotidiano: le città dovrannotornare ad essere la scena dell’agire insieme, non piùdell’ideologia della salvezza individuale. Per fare questoci vorranno cambiamenti soprattutto nei rapporti con-creti fra le istituzioni e la società. La retorica del mer-cato nasconde troppo spesso il peso di vecchie e nuoveoligarchie che danno vita a veri e propri governiombra: l’antidoto è certo la trasparenza delle istituzio-ni ma soprattutto l’investimento da parte di queste nel

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rafforzamento della società di fronte ai poteri consoli-dati. Uno dei compiti fondamentali dei nuovi gover-ni urbani sarà quindi quello di investire direttamentenella creazione e accumulazione di nuovo capitale so-ciale e nella sua conversione in capitale politico soprat-tutto a partire dai gruppi sociali più svantaggiati. Frai compiti storici dei nuovi governi urbani nelVentunesimo secolo ci sarà quello di trasformare lepopolazioni oggi marginalizzate – a partire dai mi-granti oggi politicamente esclusi dalle democrazie ur-bane – da oggetto di un discorso a soggetto di una po-litica. Poi occorrerà moltiplicare le arene partecipati-ve. La continua espansione della democrazia digitalene sarà un ingrediente indispensabile, ma altrettantoimportante sarà ancorare la partecipazione dei cittadi-ni. Non basterà avviare consultazioni e inaugurareprocessi deliberativi, ma bisognerà assicurarsi che nelloro concreto dispiegarsi le differenze in termini dipotere e di capacità fra chi ha di più e chi ha meno siriducano. La ricerca internazionale dimostra comemolti dei percorsi di democrazia partecipativa abbia-no visto molto spesso la paradossale riproduzionedegli equilibri di potere precedenti. Questo problemacostituisce un’occasione non per buttare a mare le ideedella democrazia partecipativa e di una pratica demo-cratica di sussidiarietà ma per riflettere su quali strate-gie vadano perseguite per rafforzare il potere dei sog-

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getti più deboli nell’ambito delle arene locali. Come dimostrato dalla stessa esperienza dei labora-

tori urbani e delle politiche integrate per i quartieri spe-rimentate in Puglia, le grandi periferie urbane e metro-politane possono rappresentare una palestra straordina-ria dalla quale può emergere una nuova politica dei luo-ghi e della vita quotidiana. In Europa e nel mondo,nuove organizzazioni territoriali e comunitarie si sonoradicate nelle periferie fra le popolazioni svantaggiatepromuovendo percorsi di protagonismo collettivo, pro-getti di sviluppo e di housing sociale, interventi di ridi-segno partecipato dello spazio urbano, servizi innovati-vi auto-prodotti dai cittadini. Riuscendo così a impor-re la voce degli esclusi nei processi decisionali. I nuovigoverni urbani dovranno puntare alla creazione, anchein Italia, di nuovi attori collettivi di questo tipo nellenostre città e aree metropolitane. La democrazia si raf-forza dai margini, questa dovrà essere la parola d’ordi-ne di una nuova stagione partecipativa.

SostenibilitàImmaginate quanto spazio pubblico potremmo re-

cuperare liberando le nostre città da quei milioni diautomobili che le intasano, occupandole improdutti-vamente per la stragrande maggioranza del loro (e delnostro) tempo di vita. Immaginatevi per un istante dicamminare per Roma e per Milano – città oppresse da

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indici di motorizzazione che sono fra i più alti del pia-neta – senza quell’infinito e pervasivo groviglio di autoparcheggiate che pare essere divenuto ormai parte del-l’aspetto naturale delle nostre città. Mentre molte cittàeuropee competono fra loro sul terreno della sosteni-bilità e della migliore qualità della vita che ne risulta,gran parte di quelle italiane sono ancora vittime delblocco del cemento e del partito dell’automobile: duegrandi industrie che hanno bisogno di essere riconver-tite a modelli e stili produttivi più moderni. Da que-sto punto di vista, i vantaggi collettivi che le ammini-strazioni comunali sono riuscite a strappare nel corsodi uno dei più intensi cicli edilizi della storia – quelloche attraversati tutti gli anni Duemila si è conclusocon la grande crisi nella quale siamo ancora immersi –sono davvero modesti. La chiave interpretativa dellasostenibilità illumina l’insopportabile ritardo accumu-lato ma anche l’occasione straordinaria di cui dispo-niamo oggi per innalzare nettamente la qualità dellavita urbana. Nell’agenda urbana della sinistra del ven-tunesimo secolo dovranno senza dubbio figurare unadecisa proposta di fuoriuscita dalla civiltà dell’automo-bile, un riorientamento degli investimenti pubblici edella domanda privata verso il trasporto collettivo e lamobilità dolce, un governo dello sviluppo immobilia-re che arresti il parossistico consumo di suolo che fra-gilizza il nostro territorio mettendo a repentaglio le

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nostre vite e umiliando la nostra irrinunciabile aspira-zione alla bellezza.

Nelle città del futuro riavvicineremo la produzione dicibo al suo consumo, coltivando il senso di responsabi-lità ambientale degli italiani del Ventunesimo secolo.Riporteremo i nostri bambini a contatto con l’agricoltu-ra, school garden e urban farm – ma pensate anche a cosapotremmo fare dei tetti, a partire dai roof garden che simoltiplicano in giro per il mondo – si moltiplicherannonelle aree abbandonate e negli spazi interstiziali (moltopiù abbondanti di quanto si creda) delle nostre regioniurbane. Molta della produzione di energia sarà final-mente rinnovabile e decentrata grazie a una riconver-sione imponente ma molecolare della brutta e ineffi-ciente edilizia del boom: alcuni usi e consumi privatitorneranno ad essere collettivi – quindi “risparmiosi” dienergia ma generosissimi in relazioni sociali – con la dif-fusione di forme sempre più avanzate di co-housing. Il ri-torno dell’agricoltura urbana e periurbana alimenteràpoi la domanda di concimi naturali, che scaturirannodagli stessi rifiuti organici degli abitanti delle città, oraritornati ad essere risorse grazie a un’estesa rete di com-postaggio. Questi sono solo alcuni dei progetti che figu-reranno alla voce sostenibilità dell’agenda urbana delVentunesimo secolo. Avvicinare l’uomo alla propria esi-stenza e a quella degli altri: questa è la verità etica dellasostenibilità che ispirerà la nostra agenda.

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CondivisioneUna città che abbia spazi pubblici a ciclo continuo

può metterci al riparo da un avvenire indesiderabile.L’istinto maldestramente mercantile della nostra civil-tà sogna città con negozi, supermercati e centri com-merciali aperti ventiquattro ore su ventiquattro. Ma lavera urgenza è pensare a città che abbiano spazi pub-blici di nuova generazione. Occorre condurre una bat-taglia coraggiosa che disancori, per sempre, i luoghidal triste determinismo delle funzioni. Non possiamocerto ingabbiare la creatività sociale propria alle nostremetropoli entro gli schemi rigidi di una prescrizioneburocratica o di un orario inflessibile, o, ancor peggio,di recinti invalicabili che, recidendo i luoghi, separanole popolazioni. L’esperienza quotidiana di scuole comefortezze e di centri anziani come caserme è dolorosaper chiunque creda nell’inesauribile vitalità delle socie-tà urbane. Viceversa, i nuovi governi urbani dovrannodotarsi di dispositivi intelligenti e agili per la gestionedi quel grande patrimonio collettivo fatto di scuole,uffici pubblici, centri d’ascolto, atenei, immobili ab-bandonati, garantendone la porosità e quindi l’accessi-bilità da parte dei cittadini. Ma dovranno anche impa-rare a contrattare capillarmente forme di diritto d’usopubblico di proprietà tradizionalmente private: questipossono essere oneri di urbanizzazione, innovativi eforse più efficaci di quelli attualmente in uso. Un otti-

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mo esempio sono i centri commerciali: dato il lororuolo nella vita contemporanea è inutile demonizzarli,ma i nuovi governi urbani dovranno chiedere che l’al-lusione simbolica alla piazza non sia esclusivamenteuna retorica mercenaria ingannevole e offensiva. Sianoprevisti dei luoghi dove svolgere attività di interessecollettivo e dove esercitare i nostri fondamentali dirit-ti di libertà e di partecipazione. Anche nei nuovi svi-luppi immobiliari dovranno essere previsti spazi perservizi sociali di prossimità, finalizzati alla cura e allosviluppo delle relazioni umane, al supporto agli anzia-ni, all’auto-produzione di servizi.

IntelligenzaNel 1970, un giovanissimo Richard Sennett scrive-

va il suo primo libro, Gli usi del disordine. Identità per-sonale e vita nelle metropoli. Un testo ingenuo quantogeniale che illuminava i dilemmi della convivenza ur-bana. Da una parte la straordinaria complessità socia-le e culturale delle società urbane, dall’altro il deside-rio sempre più diffuso – in particolare da parte delleclassi medie bianche – di rifuggirla, riparandosi neinuovi ambienti separati e liofilizzati del suburbio. Iconflitti relativi all’uso degli spazi urbani e alla stessadefinizione dell’identità urbana – o quantomeno dellasua narrazione prevalente – saranno al centro della vitadell’Italia del Ventunesimo secolo.

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In un quadro di crescente frammentazione sociale ed’intollerabili diseguaglianze sociali – il sociologoCostanzo Ranci stima che a Milano il 10% della po-polazione disponga del 40% del reddito – il governodella complessità sociale e culturale delle nostre città èdivenuto una delle poste in gioco centrali nel futurodel paese intero. Lo spazio pubblico non è sempre incrisi, come potrebbe sembrare. Ma senza dubbio è intensione. Nei parchi, le comunità migranti celebranole loro feste, mentre la strada – sempre grazie agli im-migrati – è tornata ad essere in molti quartieri unluogo di incontro e di sviluppo delle relazioni. Usi an-tichi quanto la città e necessari quanto l’aria, che oggiperò infondono un senso di straniamento soprattuttofra chi in questi anni si è impoverito: e non si trattaesclusivamente di impoverimento materiale.

Nelle nostre città, la presenza migratoria diviene lospecchio su cui riflettere la paura – e talvolta l’espe-rienza – del declassamento da parte di settori crescen-ti delle nostre società urbane, in particolare fra i nuoviceti popolari. Si ha paura dell’altro perché si ha paura– ed è una paura fondata – del proprio declassamento.È questo l’humus della politica della paura: mentre ladestra cerca di renderne sempre più forte il riflesso, lasinistra dovrebbe invece svelarne l’inganno e proporreun’alternativa altrettanto netta. La politica della pauraalimenta se stessa: le ordinanze di coprifuoco e la mi-

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litarizzazione delle strade, imposte da amministrazionicomunali e governi per nulla interessati a risolvere iproblemi, serve soltanto a far loro incassare i parados-sali dividendi elettorali della politica della paura.

Alla sinistra occorre una scelta culturale di fondo:quella di una decisa politica dell’eguaglianza sociale eduna nuova intelligenza dei luoghi e del governo all’al-tezza della complessità attuale. Occorrerà sperimenta-re una nuova generazione di servizi urbani di prossimi-tà, équipe agili e flessibili capaci di intervenire laddovesi presentino dilemmi e conflitti nell’uso dello spazio,di produrre quel sapere sul territorio e sulle popolazio-ni senza il quale è oggi impossibile disegnare efficacipolitiche urbane, di offrire servizi immateriali in gradodi orientare le paure verso l’espressione di bisogni edaspirazioni, di accompagnare le veloci mutazioni delpaesaggio commerciale e dei quadri di vita. È spessol’autismo delle istituzioni a rendere altrettanto autisti-ci i luoghi ereditati e quelli che realizzano con i nuovisviluppi immobiliari. Anche in questo caso, avremobisogno di nuove professionalità urbane, e di unnuovo modo di essere dei nostri governi urbani.

L’architettura della BellezzaMai come oggi la percezione della bellezza dell’archi-

tettura assume giudizi così controversi. I luoghi comunisulle forme e i materiali dell’architettura contemporanea

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sono la causa principale della diffidenza oggi imperante.Purtroppo questo atteggiamento nasconde delle verità:l’ambivalenza delle forme, il mito espressivo di nuovimateriali, il culto mediatico dell’immagine rappresenta-no il principale ostacolo alla comprensione dell’operaarchitettonica. A questo si aggiungono le conseguenzedi un professionalismo, privo di una cultura progettua-le, responsabile della speculazione edilizia e dei danni daessa provocati ormai in modo irreversibile. Tuttavia lefalsità contenute in un giudizio negativo sull’attuale ar-chitettura risiedono principalmente in una retorica am-bientalista ed ecologica che vede il cemento armatocome principale fattore di bruttezza e fonte di inquina-mento. La causa di questo fraintendimento che vienequotidianamente propagandato e identificato comeunico capro espiatorio si ritrova nella considerevolequantità di manufatti edilizi, residenziali e pubblici, su-perficialmente pensati e volgarmente costruiti. I prota-gonisti di questo fenomeno sono tanto una categoria diprofessionisti quanto una classe politica colpevoli di es-sere caduti in facili compromessi a causa di spregiudica-ti interessi economici. Un ulteriore equivoco è rappre-sentato da una progettazione architettonica spesso di-stante da considerazioni urbanistiche. La difficoltà apensare l’architettura nella sua interezza e complessitàsposta di conseguenza l’attenzione progettuale sulla co-struzione del singolo manufatto edilizio che diventa ine-

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vitabilmente atto egoistico all’interno della compagineurbana mancando l’obiettivo di contribuirne organica-mente alla riqualificazione. Al singolo edificio architet-tonico sembra così affidato il compito di rappresentarel’architettura in una poetica tragica del frammento piut-tosto che il ruolo di elemento comunitario all’internodella città. Il rapporto con la bellezza dell’architetturanon può che rinascere superando pregiudizi e cambian-do comportamenti. Purtroppo al grave e prevedibile at-teggiamento di chi non s’identifica nell’architetturacontemporanea si aggiunge il non riconoscere in essa ilvalore di una disciplina in grado di agire positivamentesulle trasformazioni delle città e del territorio.

L’agenda urbana della sinistra del Ventunesimo secolo co-struirà città in cui essere cittadini significherà prima ditutto prendersi cura delle relazioni umane, della sostenibi-lità della vita, del benessere collettivo, della bellezza. E lacittà della cura – grazie all’intelligenza preventiva dei cit-tadini – spenderà infinitamente meno nel sanare i proprimali che nello sviluppare le proprie straordinarie capacità.

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La fabbrica della creatività

Ascoltando Go-Do di Jònsi, 2010

Leggendo Massa e potere di Elias Canetti, Adelphi, 1981

Vedendo Nashville di Robert Altman, 1975

“La gente non mangia cultura.” Giulio Tremonti

8.10.2010

Nel Paese che spende assai meno dell’1% del propriobudget in cultura, abbiamo dovuto sopportare anchele battute odiose del tremontismo coatto. Sedici annid’ignoranza pervasa dall’idea che artisti e produttori dicultura siano dei parassiti scansafatiche, inetti al lavo-ro vero. E che il dibattito politico possa farsi a suon ditabelline e diti medi.

Un ciclo che sta chiudendosi con il più drammaticotaglio al Fondo Unico dello Spettacolo della storia econ la totale assenza di idee per il rilancio di patrimo-nio artistico e attività culturali. Il crollo di una dellegallerie di Pompei ne è la metafora più atroce.

L’investimento pubblico in cultura è necessario perchéil mercato non investe dove non ci sono margini im-mediati. Lo dobbiamo a noi stessi e alle generazioni

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che verranno. Investire in cultura, tanto più nei mo-menti di crisi economica, salva il Paese dallo sfarina-mento morale e dalla deriva economica, perché cultu-ra significa innovazione e creatività. Innovare significaallargare la base produttiva, creando ricchezza da redi-stribuire.

La destra italiana non capisce questo processo.Perché non ha compreso che tutto sta cambiando nelmondo.

Avere vent’anni oggi infatti, non significa solo esserecerti che flessibilità e precarietà siano sinonimi.Significa anche raggiungere mete e persone lontanecon voli a basso costo, avere libero accesso a fonti diin/formazione multiple e plurali, conoscere cose che,gli esseri umani cresciuti anche solo cinquanta anni fa,non potevano nemmeno immaginare possibili.

È un mondo nuovo, innervato di conoscenza e dicompetenze diffuse, liberamente accessibili e condivi-sibili.

A patto che, per chiunque, sia consentito studiare,approfondire, conoscere e avere accesso alle nuove tec-nologie della comunicazione orizzontale, basate sulweb. A patto, cioè, che il tasso d’ingiustizia del futuro,non si misuri tra chi sa usare una macchina e chi ne su-bisce i suoi usi distorti. Tra chi ha accesso al sapere – eal potere – e chi rimane impigliato nel bozzolo dispe-

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rante della propria condizione sociale di partenza.Per questo pensiamo che vada immediatamente in-

nervata l’intera penisola di fibra ottica, per garantirel’accesso al web veloce e a servizi pubblici comuni. Unbene prezioso, la rete internet, perché veicola contenu-ti e facilita la comunicazione tra lontani e diversi.Comunicare e trasferire contenuti. Due lemmi, se sipensa bene, che solo apparentemente sembrano incontrasto fra loro. Sono, infatti, uniti dal formato eveicolati dall’industria culturale.

Conosciamo l’etica hacker e amiamo compulsiva-mente l’i-phone o il blackberry. E invidiamo il nerdcompagno di viaggio in treno o aereo che usa con di-sarmante disinvoltura palmari e touch screen, scivolan-do virtuosamente sugli schermi del nostro desiderioconsumistico. E ci innervosiamo, figli incantati e saet-tanti, nel vedere i nostri nonni e genitori alle prese conle penne usb o le connessioni adsl.

E allora occorre capire, di questa grande rivoluzionequotidiana e di questa guerra permanente tra formatie offerte premium, cosa dobbiamo salvare e cosa dob-biamo sconfiggere, per consentire al maggior numerodi cittadini d’aver accesso ai contenuti e diritto di pa-rola, senza censure né cesure della propria identità.

La parola scritta arriva ovunque e non trasporta sol-tanto l’informazione, che invece può essere nascosta,fermata, diffamata, ma trasferisce qualcosa che solo gli

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occhi del lettore possono smentire e confermare.Questa potenza non puoi fermarla se non fermando lamano di chi la scrive. La potenza della parola spaven-ta. Per il governo italiano è più temibile Saviano chefalso in bilancio.

La libertà di stampa, ripristinata dopo la caduta delregime fascista, è un baluardo fondamentale della no-stra Costituzione. È un principio su cui deve tornare adiscutere l’intera classe politica. Ma questo atteso di-battito è stato rimandato per troppo tempo. Oggi oc-corre ripensare all’intera strutturazione del panoramamediatico, ostaggio degli interessi di una sola personasu cui, peraltro, grava il conflitto di interessi più gran-de della storia italiana, del duopolio Rai-Mediaset edell’occupazione partitica della tv di Stato.

Contemporaneamente, crediamo sia possibile ab-battere i muri innalzati dai potenti e dai governi a pro-tezione dello status quo. C’è un Italia migliore che nonsi vede ma che vive nella realtà di internet e nel luogopossibile della Rete in cui un numero indefinito dipersone dialogano, si scambiano esperienze facilitandola conoscenza e la naturale predisposizione dell’essereumano all’empatia.

La Rete consente l’estensione delle capacità delledonne e degli uomini e preme per l’attuazione diforme di democrazia partecipata, in cui ognuno è chia-mato al proprio compito di cittadino del mondo.

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Internet rimpicciolisce il pianeta e allarga il dialogopermettendoci di osservare ciò che succede in ogniparte del mondo. Pensiamo al ruolo della Rete e dellesue applicazioni nella vicenda delle scorse elezioni po-litiche in Iran. Anche le grandi testate e i telegiornaliutilizzavano immagini e video amatoriali estratti dallarete. Pensiamo a come tutto il mondo abbia avuto lapossibilità di osservare e guardare ciò che altrimenti sa-rebbe stato impossibile per via della censura impostadal governo iraniano. E pensiamo a Neda, divenutasimbolo di quella lotta e di quelle rivendicazioni pro-prio perché la sua morte ha bucato i limiti e i confinidel suo paese, entrando nel nostro privato, riannodan-do i fili di un’umanità lacerata. La Rete costruisce paceperché unisce, perché narra porzioni di racconto chealtrimenti non avrebbero voce.

L’altro spunto di riflessione è l’ostacolo alla liberacircolazione della musica che minaccia lo sviluppodella produzione discografica e multimediale. Non èstata la tecnologia informatica a uccidere la musica e,insieme, a farla risorgere grazie ad i-tunes? E cosaaspettiamo ad abbassare l’iva sulla musica, introducen-do su tutta la filiera dei prodotti multimediali e cultu-rali una tassa di scopo capace di rispettare i vincoliposti dalla Ue?

Noi pensiamo vada riformata la gestione dei diritti diproprietà intellettuale a partire dalla Siae. E che vadano

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introdotte le licenze di creative commons che, insieme al-l’uso sapiente della leva fiscale che va necessariamenteabbassata sui prodotti culturali e alzata su quelli di merointrattenimento e consumo di massa, sono la migliorerisposta contro la pirateria, per sottrarre al controllo diaziende globali il controllo sulle idee di tutti.

Perché le idee sono il lievito del tempo nuovo, quello chestiamo già vivendo

Un mondo dalle mille possibilità. Di mille futuripossibili, di mille nuovi lavori di concetto e di occasio-ni di crescita economica immateriale. Per questa ragio-ne riteniamo opportuno che, nei tavoli ministeriali delTesoro, si calcoli, oltre al Pil, anche il Pns: il “ProdottoNazionale Sapere”37

E ancora, per riflettere sulle opportunità di questomondo e sulle sue insidie, si pensi alla moltiplicazionedei canali televisivi, indotta dal change over al digitaleterrestre. Oppure al diffondersi pervasivo dei tablet edegli smart phone che vivono di app(licazioni). Agli e-book. O, ancora, alla diffusione di contenuti cross me-diali via web.

Sono infinite, a pensarci bene, le possibilità di inve-stire per i privati nelle multiformi applicazioni dellenuove tecnologie e della produzione culturale. Perchéanche le imprese hanno compreso che l’unico modoper farcela è dare all’Italia una vocazione “glocale”, che

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faccia leva sulla ricchezza del patrimonio storico, oro-grafico, architettonico, artistico, naturale, trasforman-doli in fattore di conoscenza, competenza e promozio-ne della propria unicità nel mondo.

È tempo di immettere, nel circuito produttivo deicontenuti, un sapere finalmente critico, una leva digiovani talenti che abbia già sorbito e digerito le mariadefilippi e i grandi fratelli, come cascami di un tempoandato, morto, sepolto. Superato come la tv generali-sta del pleistocene, dato che la tv del prossimo futuroè quella delle nicchie e della multi piattaforma.

E la politica, le istituzioni, cosa possono fare per svi-luppare queste occasioni, garantendo profitti per le im-prese e buoni salari per i lavoratori, arricchimento cul-turale per i cittadini, rispetto per l’estetica, democrazianell’accesso alle fonti e libertà creativa agli sviluppatori?

La politica deve, innanzitutto, attenuare tutti i fumidella distrazione di massa, stimolando la creatività e nonla piatta comunicazione. Moltiplicando i luoghi di par-tecipazione collettiva al lavoro creativo, tramite il cowor-king; offrendo possibilità tramite il microcredito e l’ab-bassamento delle soglie di accesso al credito bancario.

Occorre fare una cosa grande e semplice: creare ilMinistero della produzione creativa38 e accorparvi tuttele deleghe oggi sperse nei mille rivoli di altrettantiministeri.

Un Ministero della produzione creativa significa

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uscire dalla trappola della sola conservazione dei beniculturali ai fini della promozione turistica, e introdur-re l’idea d’industria creativa. L’insieme, cioè, di origi-nalità, etica, cultura, estetica e identità. La capacità dicustodire e, insieme, innovare. Perché la cultura è te-stimonianza di civiltà.

Le industrie culturali e creative italiane, dispongonodi un potenziale in gran parte inutilizzato di crescita edi occupazione.

Il recente libro verde descrive un’industria della crea-tività europea capace di contribuire con il 2,6% al Pildella Ue a 27 paesi, occupando circa 6 milioni di per-sone.

Se il mercato del lavoro in Europa registra una con-trazione tra il 2002 e il 2004, negli stessi anni, l’occu-pazione nel settore culturale è cresciuta di un 1,85%.

Secondo il Creative Economy Report del 2008 l’in-dustria creativa rimane uno dei principali settori delcommercio mondiale in termini di crescita.

La bilancia commerciale dell’Ue a 27 paesi, peresempio, nei principali settori legati alla creatività haregistrato nel 2007 un surplus di 30 miliardi di euro.L’industria creativa è pertanto un settore caratterizzatoda notevoli prospettive di crescita nel lungo termine.

Questo potenziale riguarda tutti i paesi e le regioni delmondo. Ma noi siamo italiani, abbiamo in più la ric-

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chezza di un territorio unico e inimitabile.Creatività e innovazione sono i soli fattori in grado

di consentire a un sistema economico di reggere lesfide della competizione globale.

Con l’innovazione si diffondono idee che migliora-no l’efficienza dei sistemi produttivi e la funzionalitàdei prodotti. Con la creatività si guadagna in bellezza,perché l’atto creativo è il più appagante dei desideri rea-lizzati. E si passa “dal made in Italy allo styled in Italy”39.

Ma cosa intendiamo esattamente per industria crea-tiva?

Oltre ai settori tradizionali delle arti (arti dello spet-tacolo, arti visive, patrimonio culturale), l’industriacreativa comprende anche i film, i dvd e i video, la te-levisione e la radio, i videogiochi, i nuovi media, lamusica, i libri e la stampa, il design, la moda, la pub-blicità e la comunicazione.

Una riforma sistemica e nuovi investimenti pubblicisono decisivi per restituire all’Italia una visione ambi-ziosa: occorre, infatti, attenuare l’invasione di prodotticulturali stranieri e favorire la produzione di un’identi-tà multiculturale locale che aiuti anche l’integrazionedei popoli migranti che ci attraversano. Per farlo è ne-cessario parlare un linguaggio dei segni universale e tec-nologicamente avanzato aiutando le imprese a raffor-zarsi e unirsi in distretti culturali, favorendo la nascitadi scene artistiche territoriali, stimolando la mobilità

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degli artisti e aiutandoli a vivere in residenze artistichepermanenti che fungano da aggregatori di talenti e dipubblico e da incubatori della diversità culturale.

Occorre stimolare la concorrenza superando il duo-polio televisivo, stimolando l’accesso alle nuove tecno-logie, diffondendo la banda larga. Perché l’unicomodo per far aumentare i consumi culturali – obietti-vo indispensabile per la sinistra contemporanea – è au-mentare la base dei suoi produttori e favorire l’accessopopolare alle arti.

Molti economisti considerano i costi marginali40

della cultura bassissimi. E allora, riprendendo la pro-posta di Walter Santagata, perché non rendere gratui-to l’accesso ai musei pubblici? Poi questi venderannovalore aggiunto, come gadget, ristorazione o eventi. Ilnostro obiettivo politico mira ad abbattere gli ostacoliche impediscono la libera fruizione di cultura.

È indispensabile promuovere l’imprenditorialitàdiffusa, favorire gli editori puri, la cultura d’impresa edi management allo scopo di aiutare l’emersione dinuovi pubblici per nuove imprese e nuovi contenuti.

Va democratizzato l’accesso alle fonti culturali, ren-dendo diffuse le attività di formazione attraverso lapromozione di una collaborazione più intensa, siste-matica e ampia tra le arti, le istituzioni accademiche escientifiche e le iniziative comuni pubblico-privato.

L’accesso al finanziamento delle industrie culturali e

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creative è limitato perché numerose imprese soffronodi cronica sottocapitalizzazione e incontrano seri pro-blemi per ottenere una giusta valutazione dei loro atti-vi immateriali, ad esempio i diritti d’autore. Se si pensanon solo al cinema – la più popolare delle forme diproduzione artistica – è opportuno prevedere stru-menti finanziari innovativi, come il capitale di rischio,il microcredito, le garanzie e altri strumenti di condi-visione del rischio. Nuovi interessanti modelli finan-ziari, mirati in modo più specifico alle industrie cultu-rali e creative, sono emersi. I migliori agevolano l’ac-cesso al credito. Altri mettono in contatto investitori eimprese che necessitano di capitale di rischio per cre-scere, anche per mezzo di forme di finanziamento col-lettivo (crowdfunding).

Oggi sappiamo che, per il cinema italiano, tassa discopo e tax credit, rifinanziamento del Fondo Unicodello Spettacolo a valere su una tassa di scopo, ilCentro unico nazionale dell’audiovisivo sono la curaindispensabile. Parimenti fondamentale è la riformaradicale della Rai per impedirne la contiguità con lapolitica e liberarla dall’assillo della competizione conMediaset. Perché il credito fiscale funziona se esisteun mercato dei diritti veramente libero. E allora dicia-molo, una buona volta, che il mercato dei diritti cine-televisivi va liberato dal giogo del conflitto di interes-si e delle rendite di posizione e che vanno rafforzati e

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aiutati i produttori indipendenti.Le infrastrutture culturali e i servizi di alta tecnolo-

gia, le buone condizioni di vita e le buone possibilitàd’impiego del tempo libero, il dinamismo delle comu-nità culturali e la forza delle industrie culturali e crea-tive locali sono sempre più considerati i veri fattori diattrattività per imprese, talenti e pubblico.

Il turismo del futuro è in questo snodo: non basta piùoffrire meravigliose città d’arte per attrarre i grandi flus-si turistici internazionali. L’Italia deve essere un postoalla moda. Cosa lo è più della creatività e dei giovani?

Ciò di cui avremmo bisogno è un capovolgimentocompleto del modo di intendere la creazione. PerGoffredo Fofi “la cultura con cui dobbiamo quotidia-namente confrontarci è una specie di tranquillante odi sonnifero, che ci distrae e ci aiuta a non pensare in-vece che a pensare, a dimenticarci invece che a trovar-ci, è un consumo indifferenziato che nei propositi dichi lo propone e amministra deve servire a renderciinattivi invece che attivi. Le istituzioni della cultura e isuoi gestori si preoccupano del successo e del consen-so, della superficie e dell’attualità invece che del radi-camento, della lunga durata, della qualità e della pos-sibilità di incidere in profondità nell’humus di una po-polazione e di un’epoca”.

La creatività che abbiamo in mente richiede il rilan-cio delle politiche pubbliche e del protagonismo priva-

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to. È la creatività degli spiriti liberi e critici, incapaci disottomettersi ad alcun potere. L’unica in grado di ga-rantire uno sviluppo rapido e sano del Paese.

È un processo possibile, basta iniziarlo. Adesso.

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La scuola chiude la prigione

Ascoltando Another Brick in the Wall dei Pink Floyd, 1979

Leggendo Beata ignoranza di Cosimo Argentina, Fandango, 2008

Vedendo L’attimo fuggente di Peter Weir, Usa, 1989

“La scuola è quell’esilio in cui l’adulto tiene il bambino fin quando è capace di vivere nel mondo degli adulti senza dar fastidio.”

Maria Montessori

C’era una volta la scuola di pochi eletti, istituti di edu-cazione per i giovani rampolli “figli di”. Poi venne iltempo della coscienza e delle contestazioni, i tempi incui si cercava di rendere la scuola un’istituzione acces-sibile a tutti, a prescindere dalla condizione socio-eco-nomica e dal luogo di nascita degli studenti. Tanto dalegittimare la “pretesa” degli operai di volere i figli dot-tori. E molti passi avanti erano stati fatti davvero, e lascuola era diventata il traghetto che favoriva la mobili-tà sociale e offriva conoscenza e consapevolezza. Quelmeccanismo è stato in seguito distrutto da anni di po-litiche scellerate e il nostro paese ha fatto in pochi annimolti passi indietro.

Oggi l’Italia soffre di un tasso di analfabetismo fun-zionale che sfiora il 70%, secondo gli studi di TullioDe Mauro; questo significa che larga parte della popo-

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lazione non comprende appieno il senso delle paroleche dice o che legge, nonostante sappia leggere e scri-vere. La piena padronanza del lessico e la comprensio-ne delle parole costituiscono un’assicurazione sulla vitain una società caratterizzata dal sovraffollamento delleinformazioni e gli unici antidoti a questa malattia checontagia anche le nostre imprese, il nostro sistema pro-duttivo, sono una solida formazione e una adeguatacultura. Ma la politica, anch’essa contagiata, sembraessere colta da una preoccupante afasia e non riescenemmeno più a pronunciare le parole “cultura” e “for-mazione”. Ne sono dimostrazione i provvedimentisulla scuola e sull’università del duo Gelmini-Tremonti, che hanno fatto un’ulteriore e decisivopasso verso la riduzione degli istituti di formazione delpaese a fabbriche di disuguaglianza, in cui i giovanifanno tirocini per abituarsi alla precarietà e alla dispa-rità, in cui più del merito contano la provenienza geo-grafica e la condizione socio-economica della famigliadi origine.

Lo smantellamento del sistema della formazione co-mincia con un inganno linguistico, e non poteva esse-re diversamente. Licenziano 133.000 lavoratori (87mila cattedre e 46 mila di personale non docente),danno un colpo di forbice per 8 miliardi di euro, eli-minano tutele e garanzie per i ragazzi con disabilità,stipano fino a 35 alunni in un’unica classe, azzerano le

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borse di studio, espellono giovani ricercatori dal mon -do universitario e la chiamano “riforma epocale”. Nem -meno la Moratti era arrivata a tanto. In realtà si trattadi un vero e proprio licenziamento di massa, questo sìepocale, e di una mannaia sulla formazione pubblica esulle aspirazioni dei nostri giovani. E la conferma arri-va dalle dichiarazioni di Tremonti che nei mesi scorsiha detto che l’Italia non può permettersi un sistema diformazione che costa troppo. In realtà, l’Italia è nelleultime posizioni per gli investimenti in formazione ecultura.

La scuola e l’università hanno davvero bisogno diuna grande riforma, ristabilendo però un binomio,quello fra riforma e investimento, che non è solo unfatto linguistico. È qualcosa di estremamente concretoe urgente: il sistema della formazione del nostro paesecambia solo con l’impiego di risorse economiche im-portanti, di energie umane e di intelligenze motivate.

Il primo passo è certamente l’annullamento dellalegge 133 del 2008, la famigerata riforma Gelmini,ma non basta. Non è sufficiente perché la scuola su-bisce il bisturi della politica da oltre 20 anni, anche daparte della sinistra. E allora la politica deve compierescelte precise, organizzando il primato dell’interessepubblico, avendo ben chiara la centralità del sistemadella formazione, per contrastare gli effetti nefasti edeleteri che i tagli hanno prodotto in questi anni e che

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produrranno certamente in futuro.L’Italia necessita di una battaglia culturale e di una ri-

voluzione copernicana, rispetto ai concetti di cultura econoscenza, che sono oggi marginali nella società e nelmondo del lavoro. Sembra che il nostro paese e il siste-ma produttivo non sappiano che farne di giovani donnee uomini, dotati di un alto grado di cultura e professio-nalizzati. Qui sta tutto il senso del cambiamento che sivuole proporre: cultura e conoscenza devono tornare aessere cardini dello sviluppo del paese, sia perché creanocittadini liberi e consapevoli, sia perché portano innova-zione nel nostro sistema. Sono temi che hanno a chefare con il futuro dell’Italia migliore.

Pertanto è necessario ripensare a un modello di for-mazione che accompagni i cittadini per l’intero arcodella vita e che garantisca pari opportunità di forma-zione a tutti: la scuola e l’università devono valorizza-re i talenti, devono basarsi sul merito, avendo comebussola solidarietà e cooperazione.

La scuola del futuro deve restituire dignità ai lavora-tori della conoscenza, agli insegnanti, eroi civili, veri epropri militi ignoti della Repubblica, attraverso unpiano pluriennale di immissione in ruolo, che porti aesaurire le attuali graduatorie; nel contempo, bisognaassicurare agli insegnanti condizioni di lavoro più sere-ne e stabilire regole certe e durature per i nuovi percor-si abilitanti all’insegnamento. I lavoratori sono risorse

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indispensabili per la realizzazione di una scuola miglio-re. Di fatto, la compressione dell’organico scolastico haavuto pesanti ricadute sulla qualità dell’insegnamento:pensiamo alle classi pollaio con un unico insegnante, incui sicurezza e capacità di apprendimento non sono ga-rantite; o pensiamo alla riduzione del tempo scuola eall’impossibilità per molti bambini, soprattutto delleregioni meridionali, di usufruire del tempo pieno, gra-zie a un ricatto leghista. Qualche numero può forse il-lustrare al meglio la situazione critica: un bimbo di unascuola primaria lombarda, in cui il tempo pieno è ga-rantito dal 90% delle scuole, studierà 40 ore a settima-na; un bimbo siciliano invece, studierà 27 ore, perchéin Sicilia il tempo pieno è garantito solo dal 3% dellescuole. Una differenza di 13 ore settimanali. Con velo-ci calcoli si scopre che i bambini delle scuole primariesiciliane studieranno nei cinque anni, circa 429 giorniin meno, che equivalgono a più di 2 anni dell’interociclo scolastico. La scuola diventa così una fabbricadella disuguaglianza, in cui le possibilità di ciascunalunno sono determinate su base geografica e socio-economica. Un passo indietro lungo 50 anni. Nellascuola migliore, il tempo pieno è garantito a tutti glistudenti, a prescindere dal luogo in cui vivono.

Così come deve essere garantito il rapporto di uninsegnante di sostegno per ogni alunno con difficoltà,contro le misere 9 ore settimanali stabilite dai ragio-

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nieri Gelmini e Tremonti, che insistono nel proporrequesto abominio, nonostante la Corte Costituzionalesi sia espressa negativamente.

Vogliamo una scuola pubblica moderna che sappiaridefinire i programmi ministeriali e sappia investirenelle forme più avanzate di educazione alla cittadinan-za attiva e del rispetto degli altri e dell’ambiente. Unascuola pubblica moderna accetta la sfida dell’integra-zione e riconosce la multiculturalità come una risorsadella nostra comunità. Una scuola moderna è, inoltre,pienamente consapevole del suo ruolo fondamentalenella società. “Chi apre la porta di una scuola, chiudeuna prigione”, sosteneva Victor Hugo: la dispersionescolastica minaccia ancora il futuro dei nostri giovanie della nostra società se consideriamo che dopo lescuole secondarie di primo grado, uno studente su cin-que rinuncia a proseguire, perché va incontro a insuc-cessi scolastici. Ci sono zone delle nostre città, dellenostre periferie, in cui l’abbandono scolastico è stretta-mente legato alle dinamiche delle povertà, che finisco-no molto spesso per legarsi a trame malavitose. L’unicomodo per invertire la rotta è innalzare l’obbligo scola-stico gradualmente fino ai 18 anni. Un provvedimen-to di questo tipo deve essere associato a una revisionedei meccanismi della scuola secondaria superiore, chedeve recuperare le ore sottratte dalla Gelmini e preve-da da una parte l’unificazione dei cicli liceali e tecnico-

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professionali e dall’altra maggiori investimenti nellematerie professionalizzanti. In questo modo la scuolatornerebbe a esercitare un ruolo preminente nell’orga-nizzazione della società, della produzione e della for-mazione delle generazioni, che possono così scegliereconsapevolmente il proprio futuro. Perché è di questoche si tratta, è questa la sfida cui è chiamato il nostropaese dalla globalizzazione e dalla crisi economica.Non si tratta solo di assicurarsi che le persone sappia-no leggere e scrivere e abbiano quindi, una prima e sa-crosanta alfabetizzazione. Il punto è fare in modo cheil maggior numero di persone acceda a istruzioni supe-riori e universitarie e possa così mettere a frutto il pro-prio ingegno e le proprie capacità, contribuendo allosviluppo e all’innovazione.

Tutte le ultime proposte del governo vanno nella di-rezione esattamente opposta a esigenze di questo tipo,mentre c’è bisogno di un nuovo modello di welfare chepreveda un reddito di formazione, un assegno mensileche da una parte garantisca agli studenti universitari dicontinuare a formarsi e a mantenersi; e dall’altra con-senta a tutti di continuare a elevare il proprio grado diistruzione e formazione. Questa è una misura previstain quasi tutti i paese europei, con risultati eccellenti. Ec’è bisogno anche di ripensare l’università, come luogoche viva liberamente il sapere, oltre le strettoie dellasua organizzazione gerarchizzata e restituito alla sua

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funzione principale: formare la società di domani. Il sistema di impresa italiano degli ultimi quindici

anni ha mortificato gli studenti laureati e specializzati,soprattutto in campo umanistico, preferendo loro ma-nodopera a basso costo, con bassa scolarizzazione, con-vinti che la partita della competitività internazionale sigiocasse sul piano della compressione dei diritti e deisalari, come in un paese dell’Ottocento. Davvero ilPaese degli scavi di Pompei, di Vivaldi e Puccini o dellatino non sa che farsene dei suoi laureati umanistici?È possibile costruire un sistema che sulla base di que-sti saperi attragga persone da tutto il mondo desidero-se di formarsi e studiare? I giovani americani studianosempre di più il latino, in Italia invece ci muoviamoverso la mortificazione della cultura classica. Paradossi.

Interrogarsi su una riforma dell’università significaanche ripensare al rapporto fra la massima istituzionedi formazione del paese e il mondo del lavoro e delleimprese. E in un quadro di questo tipo, l’universitànon può rincorrere il mercato del lavoro in una sortadi corsa del gambero. L’università a cui pensiamo,piuttosto, deve mettere in campo una ricerca che siapiù avanti del mondo del lavoro, deve essere l’istituzio-ne del sapere complesso, capace di contribuire alla tra-sformazione del mondo del lavoro, attraverso un con-tributo di tecnologia che ne migliori le condizioni, eun contributo di creatività che ne susciti nuovi e diver-

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si orientamenti. Dobbiamo fare nostro il modello deipaesi anglosassoni che prevede un sostegno significati-vo per quegli studenti e quei ricercatori che voglionoiniziare nuove imprese in nuovi settori, basate sulleloro invenzioni e intuizioni. È da questi interventi chesi sono sviluppate negli ultimi decenni alcune delle piùimportanti invenzioni americane. È questo il modocon cui l’università può essere un pezzo della nostrapolitica industriale.

L’università deve superare, inoltre, la divisione tra ilsapere tecnologico e quello umanistico, perché questadistinzione non fa bene alla conoscenza e produce solouna separazione innaturale fra i soggetti che ne sonoprotagonisti. Bisogna superare anche quella frammen-tazione del sapere in specialismi e microspecialismi cheè stata per l’università una parte significativa della suarecente perdita di credito nella società, e che ha aiuta-to la conservazione di certe posizioni di potere divenu-te ormai inaccettabili.

La ricerca e i ricercatori devono essere i cardini delleuniversità e della società italiana, restituendo dignità ecentralità al Cnr e a tutti gli enti e le fondazioni di ri-cerca. Conferire un ruolo centrale alla ricerca, signifi-ca anche garantirne la libertà, vero e proprio fonda-mento dell’università italiana, e condizione essenzialeper praticare la ricerca in uno spazio pubblico e laico.

A chi pensa a pochi luoghi di eccellenza sostenuti da

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gruppi economici e potentati rispondiamo che tuttal’università è un centro di eccellenza da rivalutare e sucui investire. E a chi la sta usando come un’arma in piùper accentuare la divisione nord e sud del paese, ri-spondiamo che si tratta di una visione scellerata, che fapassare forme di provincialismo e di competitività diprovenienza commerciale in una istituzione il cui pre-stigio deve legarsi a valori completamente diversi,quali l’universalità e la cooperazione.

Per costruire una università migliore, vogliamo chesi ponga un legame indissolubile tra ricerca e didatti-ca, contro le forme di licealizzazione che il sistema 3+2ha avviato; vogliamo sia valorizzato il ricambio genera-zionale, prima che almeno un paio di generazioni di ri-cercatori vadano in pensione senza aver mai potuto fir-mare un progetto di ricerca. Riteniamo necessario chesia riconosciuto il ruolo reale non solo dei ricercatori,che rappresentano una parte attiva e propulsiva del-l’università italiana, ma della miriade di precari a variotitolo che popolano i dipartimenti, per realizzare unauniversità in cui non sia tutto lasciato nelle mani diuna governance dominata da logiche esclusivamenteimprenditoriali di concerto con le immobili baronieaccademiche, come vorrebbe l’attuale proposta di ri-forma. È necessario che l’università abbia un nuovorapporto con tutto il resto della società e che sviluppiuna relazione finalmente sana con tutto il panorama

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internazionale della ricerca, realizzando una mobilitànormale dei soggetti della ricerca, da e verso l’Italia.Oggi un premio Nobel intenzionato a farlo non trove-rebbe le condizioni per insegnare e fare ricerca inItalia.

Sono temi che appartengono a tutti noi, che tocca-no le nostre famiglie e i nostri figli. La politica nonpuò evitare il dibattito pubblico, non deve farselo sci-volare addosso fingendo che riguardi solo qualche mo-vimento studentesco o collettivo universitario o i ricer-catori precari. Proprio a questi ultimi, invece, va rico-nosciuto il merito di aver tenuto alta l’attenzione sultema. Di aver coinvolto gli studenti, i genitori, l’opi-nione pubblica e i media. Noi con loro, veri protago-nisti del mondo della scuola e dell’università, abbiamointenzione di dialogare e di confrontarci.

Vogliamo rimettere al centro dell’agenda politicapersone e saperi, investire sulla conoscenza come mo-dello di sviluppo. Perché una società più ignoranteforma cattivi cittadini, perché uno Stato che non con-sidera l’istruzione una priorità rinuncia a scommetteresul proprio futuro, perché – per dirla con Socrate –una vita senza ricerca non è degna per l’uomo di esserevissuta.

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Patria/Matria

Ascoltando I Wish I Knew How It Would Feel to Be Free di NinaSimone, Silk & Soul, 1967, RCA

Leggendo Un amore di Dino Buzzati, Mondadori, 1963

Vedendo Come eravamo di Sidney Pollack, Usa, 1973

“La differenza della donna sono millenni di assenza dalla storia.Approfittiamo della differenza...”

Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, 1974

Sogno una patria anti-retorica, pacifica e laboriosa. Maanche una “matria”, cittadinanza che germoglia sullamadre-terra: sui saperi tramandati dalla civiltà conta-dina, sulle memorie epiche della lotta di classe, sullafatica di una bonifica che tramutò latitudini di mala-ria e di pellagra in economie innovative e feconde, suquell’habitat che ospita valori d’uso irripetibili. “Ma -tria” come paese da scoprire e valorizzare, ma anchesimbolo di un capovolgimento di pensiero sul ruolofemminile in questo paese che tuttora mantiene nellasfera pubblica una netta divisione di ruolo, spesso di-scriminante, altre volte denigrante.

L’immagine delle donne nella cultura dell’Italia con-temporanea, ha assunto i tratti inconfondibili della

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mercificazione. Nell’arco di tre decenni “l’egemoniasottoculturale” berlusconiana sembra essere stata ingrado di liquidare la stagione dei movimenti femmini-sti e di liberazione della donna, tornando a un’idea for-temente stereotipata dei ruoli sessuali, penalizzante neiconfronti del genere cosiddetto “debole”. La televisio-ne commerciale si è rivelata un mezzo potentissimo direificazione della donna, di volta in volta nelle vesti divelina, letterina, meteorina, nel migliore dei casi con-duttrice piacente ossessionata dal trascorrere deltempo. È tornato così l’antico retaggio secondo cui ilcorpo è l’unica carta che la donna può giocare nellapartita per la sua affermazione professionale, ma ancheesistenziale. Una ragazza che voglia vedersi assicurato ilfuturo, nell’Italia dei nostri giorni, deve investire sullapropria avvenenza fisica e, magari: “sposare un milio-nario”. Il vero trionfo di questa riduzione dell’immagi-nario, sta nel fatto che tra i soggetti di sesso femminilesi è diffusa la convinzione che tutto ciò rappresentiquasi una forma di liberazione ed emancipazione. Unaconvinzione che è diventata senso comune, generandoun’assuefazione pericolosa, di cui siamo vittime quasiincoscienti: la negazione di un sogno collettivo, che siincarna oggi nell’emersione del proprio ombelico. Unaprospettiva di felicità ingannevole che deve essere mo-dificata, scossa da sguardi diversi, come quello diLorella Zanardo che col suo documentario Il corpo delle

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donne, punta il dito sulla rappresentazione univocadelle donne da parte dei media: un corpo ostentato evivisezionato nella sua femminilità. Giornalista e blog-ger, la Zanardo sta portando il suo lavoro nelle scuole,in giro per l’Italia, proprio per risvegliare le coscienzeanestetizzate di ragazze e ragazzi sull’argomento.

Il sessismo, però, non trionfa solo nell’industria tele-visiva. Il nostro paese è ancora terribilmente arretratoin materia di pari opportunità e i dati lo dimostrano inmodo schiacciante anche per quanto riguarda la rap-presentanza politica. In Italia le donne sono rappresen-tate per il 18% in parlamento e per il 16% nel governo(sono 4, infatti, le ministre, 21 sono invece gli uomini).Nelle istituzioni regionali (con l’eccezione della giuntapugliese dove le donne sono rappresentate al 50%, settecome i loro colleghi uomini) la quota femminile scen-de al di sotto del 10%, e in alcune giunte locali la loropresenza è addirittura nulla. Secondo il Global GenderGap Report del 2009, a cura del World EconomicForum, l’Italia è al 72° posto, su 134, per quanto ri-guarda partecipazione al lavoro e opportunità econo-mica, accesso all’istruzione, influenza politica, aspetta-tiva di vita, 23a sui 27 stati che compongono l’UnioneEuropea. Viviamo indiscutibilmente in una società pa-triarcale, in cui il protagonismo femminile è decisa-mente minoritario in quasi tutti i settori strategici, set-tori nei quali le donne con la loro professionalità, sen-

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sibilità, tenacia, potrebbero essere determinanti. Infatti,nonostante l’aumento dell’impiego femminile, ancoraoggi la metà delle donne in età lavorativa non parteci-pa alla vita economica, con l’aggravante che maternitàe matrimonio continuano a essere il motivo principaledi abbandono dell’impiego. Nei momenti di crisi poi,come quelli che stiamo vivendo, a rischiare il posto dilavoro sono proprio le donne (insieme ai giovani), poi-ché si considera prioritaria la salvaguardia del lavoro delmaschio adulto capofamiglia (cosidetto breadwinner).Ma ci sono altri dati che vanno dolorosamente riporta-ti: secondo i risultati Istat del 2007, infatti, il 31,9%delle donne fra i 16 e i 70 anni ha subito violenza fisi-ca o sessuale nel corso della propria vita, e nel 70% deicasi ne è responsabile il marito o il compagno.

Alla luce di questi dati, evidentemente scoraggianti,occorre che la politica ridiventi luogo e occasione di li-berazione, per donne e uomini, affermando innanzi-tutto l’autonomia, la libertà e la soggettività delledonne.

1. A cominciare da un welfare che sia in grado, at-traverso investimenti nei servizi di cura e assistenza dianziani e bambini, di sollevare le donne dal peso del-l’organizzazione familiare, che naturalmente dovrebbeessere maggiormente condivisa col partner. Riportareal desiderio di diventare madri anche da giovani conaiuti per la casa, sussidi e esentasse universitarie.

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Esistono tante madri sole, tante madri con lavoro pre-cario. Troppo dimenticate dalle agende dei governiprecedenti. Ma non basta: la responsabilizzazione degliuomini, l’esigenza di un loro apprendistato domesticoe relazionale, è un aspetto che bisogna ribadire conforza.

2. Pensiamo che garantire la parità perfetta tra uo-mini e donne negli organi decisionali della società co-stituisca una tappa irrinunciabile, l’unica possibile stra-tegia per dare uno scossone al “governo degli uomini”.

3. Attraverso un percorso di emancipazione chepassi per le politiche, i comportamenti pubblici e lacultura diffusa, bisogna porre fine alla mercificazionedel corpo femminile e alla sua riduzione a oggetto.Anche in questo caso non si può prescindere da un la-voro profondo sull’immaginario collettivo che consen-ta alle donne di ritrovare fiducia nelle proprie capaci-tà, nei propri talenti, di accedere a forme di realizzazio-ne che non passino necessariamente attraverso il corpodi “bella presenza” messa in mostra o quello portatoredi vita delle madri. Non c’è alcun destino prestabilito,né per le donne né per gli uomini. Il maschile e il fem-minile sono in larghissima parte prodotti culturali epertanto fluidi, modificabili, tutt’altro che fatali.

4. La sessualità è una delle espressioni più alte del-l’ingegno umano, una tra le più ricche e mature, ma inquesti altri tempi è divenuta un palcoscenico dell’effi-

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mero e della banalità, il trionfo della volgarità e deltrash. Anche la liberazione sessuale dovrebbe tornare aessere oggetto di dibattito, per proporre una “sana po-litica del piacere”, che superi l’attitudine dei maschi aimmaginare le donne come prede da cacciare e orna-menti per il trionfo del maschile, ma invece contemplila possibilità di una sessualità diversa, gioiosa, parteci-pata, agita e non subita, dove ci sia spazio per il desi-derio, l’ironia, l’invenzione e siano banditi la violenza,la sopraffazione, il dominio.

5. Rispetto alla complessità di questi temi, gli uo-mini non possono rinunciare a intraprendere un lungocammino “archeologico” alla ricerca delle origini delpotere maschile, scovando le profonde amputazioni edelusioni su cui regge. Le due “differenze”41 dovrebberotornare a parlarsi, aprire uno spazio comune in cuil’eredità del femminismo sia accolta come un pezzofondamentale della cultura e della storia di tutti e laquestione femminile possa superare le (poche) auleuniversitarie e le battaglie solitarie di alcune parlamen-tari. La pedagogia televisiva di cui abbiamo parlato hasaputo anche insinuarsi attraverso le pieghe della crisidella famiglia cominciata in un’epoca di trasformazio-ni radicali nel nostro paese. I soggetti oggi vivonochiusi all’interno di recinti generazionali e soffronouna profonda solitudine. Non bisogna temere di no-minare la crisi della famiglia, ma neanche accontentar-

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si di sposare una difesa incondizionata di un unicomodello familiare. La famiglia, che noi pensiamocome multiforme e non per forza aderente al modellomononucleare proposto dalla tradizione cattolica, èuna risorsa a cui attingere per interpretare le esigenzecontemporanee di una società in cui la relazione tra lepersone è stata progressivamente svalutata. E valorizza-re la risorsa-famiglia, presuppone l’abbandono dell’ap-proccio assistenziale e della sua difesa demagogica, alfine di realizzare interventi concreti che tengano contodi tutti i percorsi di crescita e di cura delle persone. Perquesto è necessario aumentare il numero dei consulto-ri, per prevenire e contrastare l’abuso e il maltratta-mento, per sostenere processi di affido e di adozione,mettendo finalmente al centro della politica anche ibambini. L’Italia deve investire in una cultura dell’in-fanzia che salvaguardi il diritto di ogni minore a esse-re e sentirsi figlio, amato, cresciuto e protetto.L’abbandono minorile, come status determinabile dal-l’assenza o dal rifiuto morale dei genitori biologici èun’emergenza connotabile su diversi livelli. Un’emer -genza generazionale che mette a rischio la dimensionestessa dell’infanzia ponendo il minore in una condizio-ne di maggiore vulnerabilità, vittima potenziale disfruttamento, abuso e violenza. I sistemi di protezioneall’infanzia sono insufficienti e inefficaci per arginare ilfenomeno. Affido e adozione nazionale e internaziona-

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le, discostandosi da una cultura adulto-centrica, devo-no necessariamente tener conto del diritto di ognibambino ad essere accolto nell’ambito di una famigliasenza alcun tipo di discriminazione etica, politica eculturale, nella piena consapevolezza del suo vissuto edei suoi bisogni. A sua volta il diritto a chiedere inadozione un bambino va garantito a chiunque si di-mostri in grado di provvedere alle sue cure con amoree responsabilità, a prescindere dall’orientamento ses-suale. I bambini sono il futuro del quale parliamo, per-ché sui loro passi si muoverà l’Italia che vogliamo co-struire, e quindi progettiamo anche città a misura dibambino, senza insidie e senza trappole.

Tanti amori, altri amori. Oscar Wilde diceva chel’amore omosessuale “è quello che non osa pronuncia-re il suo nome”. Oggi, in Italia, viviamo una situazio-ne ancora paragonabile a quella che condannava almutismo lo scrittore inglese nell’Ottocento, se la legge“contro l’omofobia”, proposta dalla parlamentare Pd,Anna Paola Concia, il 13 ottobre del 2009, è stata “fer-mata” alla Camera e a tutt’oggi non è ancora stata ri-calendarizzata. Viviamo in un teatro permanente dellavirilità che autorizza il presidente del Consiglio ad af-fermare la sua preferenza per le belle ragazze piuttostoche essere gay. In una sola frase, indubbia nella sua in-finita tristezza barzellettiera, l’essenza del machismoche ci hanno propinato in tutte le salse per anni e la

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consacrazione della condanna alla sofferenza per chiavrebbe la “colpa” di un amore “diverso”. Pensiamocome sarebbe doloroso, per un figlio, ancora oggi, ri-velare la sua vera identità sessuale a un genitore, a undatore di lavoro, persino a un amico, se lasciassimo chequesto tarlo continuasse ad attecchire, insinuandosigiorno per giorno nei nostri sguardi, nei nostri gesti,nelle nostre parole. La diversità in una società civile èinvece un valore, perché è proprio nella valorizzazionedelle differenze, nell’arricchimento che deriva dal con-fronto, nella continua dialettica e nell’incontro tra po-tenzialità diverse che nasce la bellezza di un paese cheguarda al suo futuro senza paure, senza inganni, senzareticenze. A dominarci è invece un linguaggio declina-to al maschile e permeato di violenza e pressapochi-smo, che ha relegato l’amore in tutte le sue forme,anche quello materno, anche quello familiare, nell’an-golo buio della inconsistenza, illuminandolo talvoltacon i riflettori impietosi di uno sfruttamento mediati-co raccapricciante o con le luci di una ribalta vergo-gnosa. La parola amore è stata abusata, violentata nelsuo reale significato, ridimensionata al mero materiali-smo. Il machismo, delle parole e delle azioni, si superae si vince invece con la cultura del rispetto.

E la sinistra deve avere il rimorso di non essere riu-scita a contrastare efficacemente quest’egemonia cultu-rale. Un codice comunicativo totalitario che ha attra-

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versato il nostro immaginario come un rumore difondo diventando grammatica quotidiana e sabotandoil vocabolario. Se priviamo la parola sessualità dei suoisignificati più intimi, quelli che afferiscono alla tenerez-za e al sentimento, lasciamo che a vincere siano ipocri-sia e prepotenza. Oggi scontiamo i limiti di una politi-ca che non è stata capace di mettere a tema la trasfor-mazione delle relazioni tra le persone, ed è invece pro-prio sulla relazione tra le persone che si fonda la buonapolitica. Noi sogniamo un’Italia libera dal sessismo edalla sessuofobia, capace di educarsi e di educare al ri-spetto delle differenze, considerandole valore, capace dinon ridurre l’umanità a un cumulo di etichette, doveuna donna è solo un simbolo sessuale, dove un minorevive nel mondo adulterato dai grandi, e una coppia, siaessa etero o gay, non vede riconosciuti i suoi diritti ba-silari. Restituire il loro significato principe alle parole èpremessa indispensabile per la rinascita di una nuovaeducazione sentimentale e politica.

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Uguali davanti alla legge

Ascoltando Khorakhané (A forza di essere vento) di Fabrizio de André,da Anime Salve, 1996, BMG/ricordi

Leggendo Gomorra di Roberto Saviano, Mondadori, 2006

Vedendo Philadelfia di Jonathan Demme, 1993

“Non basta dire, per avere la coscienza a posto: noi abbiamo un limite, noisiamo dei politici e la cosa più appropriata e garantita che noi possiamofare è di lasciare libero corso alla giustizia…”

Aldo Moro, 1977

Nelle domeniche di marzo del 2010, a quasi un annodi distanza da quei tre minuti che hanno inferto unduro colpo alla storia di un’intera comunità, il popoloaquilano si riuniva nel centro storico de L’Aquila, perchiedere che quel cuore tornasse a battere, per chiede-re di partecipare alla ricostruzione della loro città.Erano armati di carriole, simbolo di una rivendicazio-ne chiara e sacrosanta, la voglia di tornare a riconnet-tersi al loro territorio, alla loro vita. Il 28 marzo l’ama-ra sorpresa: ad attenderli nel centro storico de L’Aquilac’erano la Digos e la Polizia, che hanno identificato icittadini, come se si trattasse di pericolosi criminali ehanno sequestrato le carriole. Quelle carriole eranoarmi insopportabili per i potenti, da stigmatizzare, dasequestrare, perché erano espressione di un dissenso

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nei confronti di coloro che avevano fatto del terremo-to e della ricostruzione della città, una vetrina buonaper le campagne elettorali. Hanno usato il pugno diferro contro una comunità già ferita, straziata cheaveva il diritto di essere ascoltata. Un mese prima in-vece, esattamente il 25 febbraio, la Cassazione salvavaDavid Mills, dichiarando prescritto il reato di corru-zione in un processo che coinvolgeva anche il premierBerlusconi, per effetto della legge ex Cirielli che abbre-via i tempi per la prescrizione dei reati.

Questi episodi sono indicativi dello spirito delleleggi che anima il nostro paese, esempi concreti deldoppio codice tutto italiano: giustizialismo per le per-sone in difficoltà, per gli emarginati, per il dissenso;garantismo per i garantiti, per la classe dirigente.

E la storia del nostro paese è piena di episodi di que-sto tipo, di condanne senza appello per gli ultimi, dipugni duri contro i più deboli. La storia del nostropaese ha il volto tumefatto di Stefano Cucchi.

Il dibattito politico intorno alle cose della giustizia halo sguardo rivolto altrove e l’orizzonte ingombrato dal-l’anomalia berlusconiana e dal suo tentativo di sfuggi-re ai processi che lo riguardano. Dalla discesa in campodi Silvio Berlusconi, infatti, il Parlamento italiano e,più in generale, tutte le forze politiche e sociali, glioperatori del diritto, sono stati impegnati in una di-

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scussione forzatamente calendarizzata sulla base dellecontinue “esigenze di giustizia” di Silvio Berlusconi edelle inchieste che si sono susseguite sulle sue aziendee sulla sua persona. In questo quadro, il dibattito sullariforma della giustizia non si è fermato alla discussio-ne sui provvedimenti o sulle proposte, ma è stato lega-to a doppio filo alla questione del rapporto tra politi-ca e giustizia, agli equilibri tra poteri dello Stato e,spesso, alla qualità della democrazia nel nostro Paese.Con un elemento di inganno per i cittadini: è stata dif-fusa artificiosamente la convinzione malsana che l’in-troduzione di norme che garantiscono l’immunità peri potenti e i governanti, che in molti casi diventa im-punità, riguardasse esclusivamente il rapporto direttofra due poteri dello Stato, e non fosse piuttosto, unaforma pre-democratica, che coinvolge a pieno titoloproprio il rapporto fra la politica e i cittadini, e quin-di la salute della democrazia.

Protetti da questo scudo ideologico, negli ultimi 15anni l’interesse dei governi Berlusconi è stato quasiesclusivamente diretto a consentire la difesa dal pro-cesso di un pezzo di classe dirigente, degli imputati ec-cellenti. Il governo di centrodestra ha cercato, primacon il Lodo Schifani, quindi con il Lodo Alfano, disottrarre il Premier al giusto processo; fortunatamenteentrambi sono miseramente naufragati scontrandosisui solidi argini della Carta Costituzionale.

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Nella stessa direzione sono andate le altre leggi ver-gogna, come la legge sulle rogatorie internazionali, ladepenalizzazione del falso in bilancio, o il condono fi-scale per i detentori di capitali all’estero, o i diversicondoni edilizi che si sono susseguiti negli anni. E iltentativo, tutt’ora in corso, di cancellare le intercetta-zioni telefoniche. A fare da contraltare al garantismoper i potenti e per i furbetti del quartierino, il pugnodi ferro utilizzato contro il disagio sociale, contro lenuove povertà e contro le persone in difficoltà: la leggeBossi-Fini punisce il reato di clandestinità; la leggeGiovanardi prevede il carcere per i consumatori di stu-pefacenti e la legge ex Cirielli introduce pene più gravie più dure per chi reitera un reato, non senza però averconcesso un importante salvacondotto per Berlusconi,come abbiamo già scritto, abbreviando i tempi dellaprescrizione dei reati. L’effetto di questi interventi èche nelle carceri italiane sono aumentati a dismisura idetenuti per reati di tossicodipendenza, immigrazioneclandestina e per gli effetti della recidiva, con la conse-guenza che la popolazione carceraria sta esplodendo edè, nel momento in cui scriviamo, di 69.313 detenuti,24.705 in più rispetto ai 44.608 disponibili.

L’affollamento carcerario ha comportato un aumen-to dei casi di autolesionismo e del numero di suicidi,nonché l’accentuarsi delle tensioni tra detenuti e opera-tori, con buona pace della funzione rieducativa della

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pena che rimane sempre più lettera morta. E pensare dirisolvere il problema con programmi straordinari diedilizia carceraria, senza porsi neanche il problemadella riorganizzazione del sistema carcerario o delle gra-vissime carenze di organico nella polizia penitenziaria,appare davvero riduttivo. Una parziale soluzione al pro-blema sta certamente nella graduale riduzione del nu-mero complessivo di reati, chiedendosi se il consumo didroghe sia un reato socialmente più pericoloso di chitruffa lo Stato o specula sui risparmi dei cittadini.

Dietro il problema del sovraffollamento delle carce-ri si nasconde anche il dramma della condizione deidetenuti e, come già accennato, della mancanza dellafunzione rieducativa della pena. Spesso tendiamo a di-menticare, infatti, che le pene, secondo il dettame co-stituzionale, non devono essere semplicemente afflitti-ve ma tendere a una riqualificazione sociale di coloroche commettono i reati e devono consentire il recupe-ro e la reintegrazione sociale dei detenuti. Di pene sioccupa il terzo comma dell’articolo 27 della Costi -tuzione: “Le pene non possono consistere in tratta-menti contrari al senso di umanità e devono tenderealla rieducazione del condannato”; così come la stessalegge penitenziaria che afferma il medesimo principio.A tal proposito, è necessario incrementare l’utilizzo diforme alternative alla detenzione, come l’affidamentoin prova ai servizi sociali, la detenzione domiciliare e la

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semilibertà, che rispondono meglio al dettato costitu-zionale e alla funzione rieducativi della pena. Secondouno studio del Dipartimento dell’Amministrazionepenitenziaria, infatti, solo il 19% dei soggetti sottopo-sti all’affidamento sociale sono tornati a commetterereati, mentre la percentuale per i detenuti sottoposti acarcerazione la media è stata del 68%. Questi dati di-cono chiaramente quanto importanti siano le misurealternative e quanto efficaci i risultati che si possonoottenere.

Il problema della giustizia nel nostro paese, quindi, esi-ste ed è reale, ma occorre avere le lenti giuste per poter-lo focalizzare nella sua enorme complessità. Si tratta, al-lora, innanzitutto di affrontare i problemi nella loro og-gettività, partendo da quelli che incidono sulla durata esu tutti gli aspetti del giusto processo, sancito dall’arti-colo 111 della Costituzione. Da questo punto di vistaoccorre certamente intervenire su norme, procedure,strutture organizzative e disponibilità di risorse.

Fra gli obiettivi principali da realizzare c’è sicura-mente un approccio di sistema, per immaginare unariforma che recuperi l’efficienza dei tribunali, e la cre-dibilità delle istituzioni; molto importante è soprattut-to l’eliminazione del gigantesco macigno dei procedi-menti arretrati nel processo civile e penale: l’Asso -ciazione Nazionale Magistrati ha ultimamente comu-

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nicato che al momento ci sono più di 5 milioni dicause civili pendenti e oltre 1 milione e mezzo di pro-cedimenti penali in corso; successivamente è necessa-rio avviare un regime di ragionevole durata del proces-so, tenendo sempre presente che un processo rapidoche non abbia in sé tutte le garanzie del giusto proces-so, non può che approdare anch’esso a una decisioneingiusta; e inoltre, è necessaria la garanzia del processo“giusto” sul versante penale. Il raggiungimento di que-sti obiettivi è strettamente legato alla riorganizzazionedegli uffici giudiziari, che hanno bisogno di ingenti ri-sorse economiche e umane. La realtà dei fatti ci diceche la magistratura italiana soffre di una carenza strut-turale di circa 1000 magistrati, e che ogni finanziariasottrae ingenti risorse economiche: mancanze che an-drebbero colmate, per sveltire le pratiche e i processi. Imali della giustizia italiana, infatti, sono correttamen-te individuati nella lentezza e nell’inefficienza dell’ap-parato giudiziario che comportano un vero e propriodeficit di giustizia quotidiana, con il prodursi di peneinique per chi, innocente, attende una lontana senten-za di assoluzione o con l’incapacità di applicare la giu-sta pena a chi è colpevole di gravi reati. Consideriamoche a oggi, il 44% della popolazione carceraria è in at-tesa di una sentenza definitiva, che se arrivasse intempi brevi, potrebbe sia contribuire a risolvere il pro-blema del sovraffollamento delle carceri, sia ristabilire

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tanta umanità e libertà violata, che nessuna sentenzapuò mai restituire, quando si è innocenti.

Ugualmente per quanto attiene alla giustizia civile,l’esasperante lentezza delle cause civili comporta in-genti danni economici a chi, pur vittorioso, deve at-tendere anni e anni per ottenere materialmente il rico-noscimento del proprio diritto o il risarcimento che glispetta. Questo aspetto si riversa drammaticamentesulla società, in periodi di forte crisi economica comequesto: quante imprese sono fallite o rischiano di chiu-dere perché aspettano dieci anni per avere una pro-nuncia definitiva che consenta loro di recuperare i cre-diti che gli spettano?

Confartigianato spiega in uno studio che i ritardidella giustizia costano alle imprese italiane oltre 2 mi-liardi di euro, dal momento che la durata della proce-dura per il recupero di un credito in Italia è di 1210giorni. Più di tre anni.

Queste tematiche fondamentali offrono, a chi operada anni per smantellare i propri processi, lo scudo die-tro cui ripararsi ideologicamente per utilizzare la clavacontro la magistratura, delegittimando le istituzioni einfondendo un profondo senso di sfiducia nei cittadi-ni. Le continue proposte di riforma della giustiziamesse in campo dai governi Berlusconi, di fatto noncontengono indicazioni chiare e non hanno mai intro-dotto norme e principi in grado di risolvere la situazio-

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ne. Si sente parlare sempre e solo di separazione dellecarriere, e mai di certezza della pena o di processo giu-sto. Salvo utilizzare strumentalmente questi principiche dovrebbero essere garantiti a tutti i cittadini, pertentare di introdurre forme di immunità a vita per laclasse dirigente del paese.

L’informatizzazione del fascicolo giudiziario rappre-senta forse la più innovativa, e meno costosa, forma divelocizzazione del processo. Consentire di accedere invia telematica agli atti e documenti di giudizio elimi-nando montagne di carte e tempi morti non può chetradursi in un più razionale utilizzo del personale. LaPuglia ha fatto un importante passo avanti e si è mo-strata all’avanguardia, finanziando la sperimentazionepresso le Procure di Bari e di Lecce del “ProgettoAuror@”, un portale web finalizzato alla creazione delfascicolo informatizzato.

La soluzione dei problemi della giustizia nel nostropaese non può prescindere dal contrasto alle crimina-lità organizzate, dalla lotta alle mafie e ai tanti poteriocculti che tengono sotto scacco lo sviluppo e la vitanei nostri territori. Non si può ridurre la lotta allamafia ad arresti eccellenti e a carcerazioni di mafiosi ecriminali. Quando i magistrati, i carabinieri e le forzedell’ordine hanno compiuto il loro lavoro, la lotta allacriminalità non è finita. Bisogna piuttosto inquadrare

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il problema a livello sociale e culturale. Dobbiamochiederci e capire cosa è la mafia. In tutti questi anni eancora oggi, si è pensato alla mafia come a un fenome-no etnico, che riguardasse in qualche modo solo il suddel paese. Il ragionamento sulla mafia è sempre statoinquinato da una strana filosofia dell’altrove. La mafiaè sempre stata altrove.

E poi le dolorose scoperte che la mafia è nelle Asllombarde, come è nei traffici internazionali; è nei gran-di appalti pubblici, nella finanza internazionale, comenello smaltimento illecito dei rifiuti. La mafia non èpiù solo confinata nelle alterne vicende fra famiglie deipaesi del sud, non è chiusa nella riproduzione di codi-ci rituali incomprensibili e già da tempo ha abbando-nato l’immagine stereotipata della cicoria e della ricot-ta. La mafia si è fatta parola raffinata, ha incarnato per-sino un modello di sviluppo nel momento in cui è riu-scita a bucare lo strato sottile fra economia legale edeconomia illegale. È perfino riuscita a determinare laselezione di pezzi della classe dirigente del nostro paesee a sostituirsi in molti casi allo Stato nel governo e nel-l’amministrazione dei territori, privatizzando le cose ditutti, i beni comuni e utilizzandoli a suo piacimento.

La giustizia quindi non si esaurisce nelle aule di tri-bunale, né può essere considerata argomento esclusivoper giurisperiti e tecnici delle forme del diritto. PaoloBorsellino, dal suo osservatorio privilegiato sulle cose

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di mafia, aveva avvertito il pericolo che la politica de-legasse la lotta alla criminalità organizzata alla sola fun-zione repressiva e investigativa della magistratura. Lapolitica non può fare passi indietro. Il tema della giu-stizia e la lotta alla mafia riguardano le scelte politichee hanno a che fare con la possibilità di una vita digni-tosa per tutti, hanno a che fare con la situazione dellenostre città, del nostro territorio, delle nostre periferie.

Il tema della giustizia è quindi fortemente connessoal sociale, perché è in una società ingiusta, in cui nonsono garantiti la libertà, l’uguaglianza, il lavoro che sicreano le condizioni per i reati, per la proliferazionedelle mafie. Piero Calamandrei è stato molto chiaro, “Lalibertà è condizione ineliminabile della legalità; dovenon vi è libertà, non può esservi legalità”. Per cui nonbasta la forza, né è sufficiente la galera, che è ormai con-siderata una accademia per la specializzazione mafiosa.La giustizia e l’antimafia sono battaglie che si combatto-no con le armi della cultura, con la cura del territorio,creando importanti occasioni di sviluppo e di vita socia-le, iniziando dalla confisca immediata dei beni della cri-minalità e restituendoli alle comunità. Bisogna fare inmodo che i luoghi della mafia, quei luoghi privati edesclusivi, divengano luoghi condivisi, a disposizionedelle città, dei giovani, utili a creare e ricucire tessuti so-ciali. Solo colpendo il patrimonio economico dellamafia, la si spoglia dei segni del potere e la si sconfigge.

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Ecco perché consideriamo fondamentali le esperien-ze dell’associazione Libera, di Don Ciotti, o dei ragaz-zi di Addiopizzo in Sicilia, che fanno della lotta per lalegalità e la giustizia un tema di natura strettamenteculturale. Ed è di questo che l’Italia ha bisogno, diun’antimafia sociale legata all’antimafia investigativa,di un’antimafia sociale che supporti e stimoli l’attivitàdi inquirenti e politica. Contro il sistema della crimi-nalità organizzata abbiamo bisogno di quella che ilProcuratore Capo di Bari, Felice Laudati, ha definitoun sistema della legalità organizzata, basata sul corag-gio. Quello stesso coraggio che ha animato i ragazzi diLocri, contro la ’ndrangheta, e che era tutto espressonel famoso striscione “E adesso ammazzateci tutti”.

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C’è un mondo migliore

Ascoltando Non c’è più l’America di Piero Ciampi, da L’Album di PieroCiampi, 1990

Leggendo Il partigiano Johnny di Fenoglio, Einaudi, 1968

Vedendo The millionaire di Danny Boyle, 2008

“I metodi di Putin stanno generando un’ondata di terrorismo senzaprecedenti nella nostra storia. La ‘guerra al terrore’ di Bush e Blair haaiutato enormemente Putin.”

Anna Politkovskaja

Definiamo spesso il mondo attuale come un mondo incrisi: lo facciamo a partire da noi, da quell’Occidenteche ci ostiniamo a considerare ombelico del mondo.Con anacronistica arroganza pensiamo che il declinodella supremazia dell’uomo bianco coincida con lacrisi del sistema-mondo. Non è vero.

Lo sguardo sul mondo che ci viene spesso propostoè un misto di immagini apocalittiche e pulsioni salvi-fiche. Le une rinforzano le altre: il mondo è sull’orlodella catastrofe, il confronto con gli “altri” (siano essigli immigrati oppure gli operai cinesi) è sempre fontedi paura alla quale si può rispondere solo con i fonda-mentalismi, la guerra e la contrazione dei diritti.

Dobbiamo guardare agli “altri” con curiosità, fareuso della cultura delle complessità e delle mediazioni

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necessarie. Fuori dall’Europa ci sono gli Usa di Obamae il suo rifiuto dell’unilateralismo e della guerra infini-ta. Questo non vuol dire dimenticare le sconfitte e leinsufficienze della sua amministrazione, però non bi-sogna dimenticare che la sua presidenza ha aperto op-portunità che prima non c’erano: basta pensare alla sualinea sul disarmo nucleare, così diversa da quella della“guerra preventiva” di Bush. C’è poi il Brasile prima diLula e ora della “presidenta” Dilma Rousseff che lottacon fierezza e successo contro la povertà e l’analfabeti-smo. Ci sono tanti paesi che sembravano condannati aun destino di marginalità perenne e che in questi annici hanno stupito con i loro cambiamenti tumultuosi.Davvero possiamo avere paura di tutto questo?

La politica estera non è solo avere delle posizioni inmerito ad alcune questioni. È avere la capacità di capi-re come incidere sulla realtà. Serve quindi un nuovosguardo verso il mondo, ma anche una nuova praticaper la nostra politica estera. Il nostro compito nondeve essere quello di fare la conta ideologica dei torti edelle ragioni ma quello di definire percorsi di pace e didialogo in base a un approccio cooperativo. Il conflit-to israelo-palestinese ne è l’esempio più importante.Non serve trasformarsi in tifosi, ma guardare alle duetragedie, quella palestinese e quella israeliana, con ri-spetto. Non per essere equidistanti ma per costruire unincastro tra due beni fondamentali: il bene dello stato

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palestinese che deve nascere e il bene della sicurezza diIsraele che bisogna preservare.

Il disarmo mondiale è un altro esempio di questoapproccio cooperativo. Uno degli obiettivi principalidella nostra politica estera è arrivare a un mondo senzaarsenali nucleari. Non è un sogno ma un imperativo euna linea di azione concreta: non basta dire no all’ar-senale di questo o quel paese, bisogna lavorare concre-tamente per aumentare la cooperazione internazionalenella riduzione degli armamenti.

Il mondo è cambiatoPensando alle relazioni internazionali abbiamo an-

cora negli occhi quella fotografia di 65 anni fa che ri-trae tre maschi malandati e infreddoliti che a Yalta de-cidono i destini del pianeta. Fortunatamente qualcosaè cambiato. Il mondo di oggi, e forse ancor più quellodi domani, ci dice che il predominio dell’Occidentenon è più assoluto. L’Atlantico non è più il centro delmondo, può tornare importante il Mediterraneo,l’America Latina di oggi non è quella di venti anni fa,per non parlare della Cina e dell’India.

A quest’ultima, alla più grande democrazia delmondo, dobbiamo guardare con curiosità e voglia diimparare la lezione sulla non-violenza di Gandhi e lacapacità di compiere non scontri di civiltà ma sintesi diciviltà. Anche la Cina merita uno sguardo meno ste-

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reotipato e banale. Si tratta di un universo in tumul-tuoso e rapido fermento: non ci si può fermare a chie-dere il pure irrinunciabile rispetto dei diritti umanisolo quando fa comodo ai nostri interessi commercia-li, nascondendo spesso un peloso istinto protezionisti-co. Nella Repubblica Popolare Cinese o il regno dimezzo (Zhōngguó) – come si autodefinisce rivendican-do il fatto di essere stata per secoli il centro della civi-lizzazione – i cambiamenti sono partiti da quelle stes-se “fabbriche globali” che guardiamo con paura ma incui nell’ultimo anno la grande ondata di scioperi ope-rai ha portato a un deciso aumento dei salari e dellecondizioni di lavoro, seppure ovviamente ancora lon-tani dagli standard occidentali.

La storia di alcuni paesi emergenti ci rilascia una lineadifferente, ci impone una riflessione sugli assolutismidella crescita economica, che non può essere scissatroppo a lungo da quella culturale, civile, democratica.È andata così, con due velocità, in Giappone, Coreadel Sud o a Taiwan: dopo una prima fase in cui si dàpriorità allo sviluppo ce n’è un’altra in cui i lavoratorimigliorano le loro condizioni e dove poi si sviluppauna democrazia. Non siamo noi che ci livelleremo allecondizioni ottocentesche di un’Asia che ci è stata spes-so raccontata con penosa superficialità, sono loro che,forti della loro cultura e della loro storia millenaria,

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avranno molto da insegnarci in termini di modello disviluppo, democrazia e condizioni di vita.

Non si vogliono qui cantare le lodi del mondo glo-balizzato perché la crescita di paesi come Cina, India,Brasile con le stesse modalità con cui sono cresciuti ilNord America e l’Europa evidenzia ancora di più lapericolosità dell’attuale modello di sviluppo: cosa re-sterà del pianeta quando, tra non molti anni, questipopoli avranno il nostro stesso numero di automobili,consumeranno la stessa quantità d’acqua, inquineran-no come noi? E possiamo considerare come buono ilneocolonialismo solo perché non è portato avanti dauna potenza occidentale ma da qualcuno dei paesiemergenti? Questi problemi possiamo cominciare a ri-solverli a partire dal Mediterraneo.

L’orizzonte MediterraneoIl bacino del Mediterraneo ha sempre di più proble-

mi comuni: sproporzione dello sviluppo economico esociale tra le due rive, incremento demografico, flussimigratori, pressione dell’urbanizzazione e delle attivitàproduttive sui sistemi costieri, inquinamento e trasfor-mazioni climatiche, fonti energetiche, conflitti regiona-li, sicurezza. Tutti problemi che, associati a una forte in-terdipendenza economica, rendono inevitabile la colla-borazione di tutti i paesi per affrontare le problematicheambientali e socio-economiche nella loro globalità.

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Basti pensare, per esempio, agli squilibri nella produzio-ne e nella redistribuzione dei beni alimentari e allo scan-dalo delle eccedenze e degli sprechi a esse connessi.

Se il territorio, come scrive Alberto Magnaghi, èuna forma d’arte, forse la più alta e corale che l’uma-nità abbia espresso, allora l’Italia può avere l’ambizio-ne di giocare un ruolo importante, considerato che “ilMediterraneo è molte cose al tempo stesso, non unaciviltà ma più civiltà ammassate una sull’altra”(Braudel ).

Libero scambio e comune orizzonte commercialenon bastano più: dobbiamo immaginare forme semprepiù forti di condivisione per un modello di sviluppo edi integrazione tra nord e sud. Si tratta del partenaria-to territoriale, ossia dialogo costante tra le forze econo-miche, sociali e culturali di due o più territori peridentificare sinergie e strategie di co-sviluppo, scambioe collaborazione. Per fare questo bisogna orientarsi al-meno su tre grandi linee di intervento: la promozionedella crescita economica, l’appoggio alla democratizza-zione delle istituzioni e la promozione delle politichedi redistribuzione sociale dei vantaggi della crescitaeconomica. Questi obiettivi sono peraltro coerenti conle raccomandazioni contenute nella Dichiarazione diBarcellona che, sottoscritta nel 1995 dai ministri degliesteri dell’Unione Europea e dei Paesi della riva sud delMediterraneo, segnò la nascita del partenariato euro-

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mediterraneo e trasformò profondamente il paradigmadella cooperazione internazionale, non più intesacome assistenza alla lotta contro la povertà e allo svi-luppo endogeno dei paesi terzi ma come collaborazio-ne tra partner per affrontare e risolvere problematichedi area sulla base della reciprocità di interessi e conl’obiettivo dello sviluppo comune. Negli ultimi anni,la politica mediterranea si è però mossa su due gambe:una più politica, multilaterale, che aveva l’ambizionedi promuovere principi di democrazia e di giustizia so-ciale e l’altra più pragmatica, bilaterale, speditamenteorientata alla chiusura di accordi commerciali ed eco-nomici. C’è chi parla di fallimento del processo diBarcellona o ne denuncia il basso profilo: quello checolpisce è la frattura, quasi insanabile, scritta nella sto-ria degli ultimi anni, per cui il profitto corre veloce suicanali della grande politica, degli accordi silenziosipubblico-privati e della svendita dei territori mentrerimangono indietro i diritti alla salute, al cibo, all’ac-qua, all’educazione. Poco male, sembra che si pensi, cisaranno sempre “quelli della cooperazione” a salvare lacoscienza collettiva con pochi spiccioli di beneficienza.

L’obiettivo politico concreto e ambizioso che ci sipotrebbe invece porre, almeno a partire da questogrande lago imperfetto tra Europa e Africa, è quello diconiugare la crescita economica, l’appoggio alla demo-cratizzazione delle istituzioni e la promozione delle po-

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litiche di redistribuzione sociale con i vantaggi dellacrescita economica.

La nuova EuropaIn questo mondo che cambia noi dobbiamo avere

l’obiettivo di cambiare l’Europa. Dobbiamo fare no-stro il sogno federalista europeo di Altiero Spinelli,l’idea che la pace si potesse portare in questo continen-te abbattendo le frontiere, universalizzando i diritti,costruendo un modello sociale nuovo. Incentivare inostri giovani a lavorare all’estero. Formarsi nelle im-prese e nella burocrazia europea. La loro esperienzatornerà utile al paese quando saranno in Italia. Spessoci si lamenta che siamo sfortunati e poco protetti coni fondi dell’Ue. Ebbene le commissioni dell’Ue hannopochissimi italiani dentro. Dobbiamo stimolare quan-to più possibile i nostri giovani a lavorarci.

Oggi l’Europa vive una crisi sociale e una crisi istitu-zionale che sono molto più collegate di quanto non sidica generalmente. Il modello politico europeo è unmodello di cooperazione, codecisione, collaborazione emediazione tra posizioni diverse. Regge solo in una so-cietà che non sia lacerata, impaurita e impoverita comeè oggi la società di quasi tutti i paesi europei. Difenderee aggiornare il modello sociale europeo è il modo mi-gliore per rendere più forte e funzionale l’Europa poli-tica: perché non si può nascondere che l’attuale crisi e

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lo smantellamento del welfare in atto da un ventenniohanno contribuito enormemente alla crescita di movi-menti che sono allo stesso tempo (e non casualmente)euroscettici, xenofobi, sessisti, autoritari.

Ecco perché è importante affermare una politicaeconomica europea che combatta il capitalismo finan-ziario, sposti la ricchezza dalla rendita verso il lavoro erenda più universali i propri diritti sociali. Soloun’Europa politica che si occupi con la stessa cura deidiritti delle sue lavoratrici e dei suoi lavoratori può es-sere abbastanza forte per estendere quei diritti anche ainuovi europei che vengono dal sud del mondo. Lanuova Europa difenderà i diritti degli ultimi dimo-strando che non sono in contrasto con quelli dei “pe-nultimi”, potrà parlare della questione del velo solodopo aver combattuto la violenza contro le donne.

L’Europa, però, non è solo una questione di politi-ca economica. Si dice spesso, “l’Europa deve avere unapolitica estera”. Ma poi non si specifica quale o ci si il-lude che sia una questione puramente istituzionale.Eppure, l’Europa una politica estera importante ce l’hagià avuta: è stato il processo con cui ha accolto dentrodi sé tanti paesi dell’Europa orientale grazie alla politi-ca della “condizionalità” per cui bisognava raggiungeredeterminati standard per poter fare parte dell’Unione.Dobbiamo adattare la condizionalità per poter inclu-dere sempre nuovi soggetti: dalla Turchia ad altri paesi

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del Mediterraneo. Servono condizioni e standard cheleghino insieme modello sociale ed estensione dei di-ritti e della democrazia. Senza pensare che ci sia solo lanostra via per la modernità, senza credere che la demo-crazia o è occidentale o non è. Che immagine potenteche sarebbe, per dittatori e opinioni pubbliche deipaesi islamici, una Turchia allo stesso tempo democra-tica e rispettosa della sua civiltà islamica, ponte versol’Oriente ma parte dell’Unione Europea!

Guerra e PaceInfine, alcune parole su un tema che ha spesso divi-

so la sinistra e il centrosinistra: la guerra e gli interven-ti fuori dai nostri confini. Noi diciamo che bisogna ri-tirarsi dall’Afghanistan non solo perché amiamo, tuttaintera, la Costituzione italiana. Noi lo diciamo a par-tire da quel pragmatismo, da quella capacità di dare ri-sposte concrete e sul terreno che abbiamo imparatodalle donne e dagli uomini che fanno oggi cooperazio-ne e costruzione di percorsi di pace.

Le guerre in Kosovo, Iraq, Afghanistan sono statespesso delle scorciatoie che hanno prodotto dolore ecaos: la guerra, “umanitaria” o “infinita” ha lasciatodietro di sé sempre stati falliti, incapaci di far valere idiritti delle persone che li abitavano. Dobbiamo per-correre la strada più lunga del dialogo – anche regio-nale, quanto sarebbe importante coinvolgere l’Iran per

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pacificare Iraq e Afghanistan! – della lotta alle fonti difinanziamento e armamento dei terroristi di al-Qaedao dei talebani, della lotta alla corruzione e al cattivouso dei fondi per la cooperazione.

La cooperazione allo sviluppo è uno strumento digrande importanza strategica, a livello internazionale,nazionale e locale, per costruire un futuro di sviluppoumano sostenibile. Alla luce di questa considerazioneè necessario trovare il modo in cui superare le difficol-tà e fare in modo che l’azione cooperativa a livello in-ternazionale si presenti sempre di più come un lavorovolto alla comprensione tra gli esseri umani e tra tuttii popoli del pianeta, alla redistribuzione delle ricchez-ze, al riconoscimento delle potenzialità di tutti i conti-nenti e alla garanzia di un maggior livello di benessereper tutti. Per andare in questa direzione è necessario ri-pensare a fondo il concetto di cooperazione interna-zionale tra stati e regioni del mondo, bisogna costrui-re un solido concetto di “nuovo multilateralismo” nelquale diversi attori riescano a raggiungere l’obiettivo diun nuovo progetto umano globale.

Servirebbe ad esempio rafforzare la programmazio-ne partecipata con i soggetti dello sviluppo locale (leuniversità, i sindacati, gli istituti di credito, le associa-zioni di categoria, il terzo settore) e mirare al tempostesso a superare quella duplicazione di interventi rea-lizzati da soggetti diversi che spesso la cooperazione

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italiana (governativa e decentrata) ha conosciuto inquesti anni.

Infine, con urgenza e forza, dovremmo ribadire lanecessità di un’inversione di marcia nei continui taglialle sue risorse finanziarie: meno di un mese dopol’Assemblea Generale dell’Onu dedicata agli obiettividel millennio, il governo ha tagliato del 45% i fondiper la cooperazione allo sviluppo del nostro paese, toc-cando la cifra più bassa degli ultimi 20 anni, appena179 milioni di euro per il 2011. Cifra ridicola allaquale devono essere ulteriormente sottratti circa 80milioni di euro per le spese di gestione, lasciandomeno di 90 milioni per le nuove operazioni sul terre-no. Una scelta miope che viene presa non solo in con-trasto con gli impegni internazionali ma in controten-denza anche con gli indirizzi recenti di politica inter-nazionale che – dal Regno Unito al Brasile – vedononella Cooperazione non solo uno strumento di solida-rietà e pacificazione ma anche un investimento strate-gico per la sicurezza e la stabilità internazionali.

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Nessuna persona è illegale

Ascoltando Get up, Stand up di Bob Marley & The Wailers, 1973

Leggendo A sud di Lampedusa di Stefano Liberti, Minimum Fax, 2008

Vedendo Nuovomondo di Emanuele Crialese, 2006

I terroni non so, ma noi italiani non siamo razzisti.Ellekappa

È il 30 ottobre del 2010 a Brescia, quando sei migran-ti salgono su una gru in un cantiere edile e vi restanosospesi per 17 giorni. Passano pochi giorni e un altrogruppetto occupa l’ex torretta Carlo Erba di Milano.In entrambi i casi si tratta di episodi eclatanti che fo-tografano in maniera nitida la condizione degli immi-grati in Italia. Hanno sfidato freddo e maltempo perchiedere giustizia a un Governo, quello italiano, chenon intende riconoscergli i diritti essenziali, a partireda quel permesso di soggiorno garantito dalle autoritàcon una sorta di sanatoria e legato esclusivamente allasottoscrizione di un contratto di lavoro. Perché, secon-do la legge Bossi-Fini, senza quel contratto non si puòentrare. Per ottenerlo, è necessario che il datore di la-voro indichi espressamente nome e cognome di unapersona che nemmeno conosce. E solo in occasionedell’emanazione di un decreto flussi.

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Comincia in questo modo la nuova vita di un im-migrato in questa terra straniera, spesso ostile. Ma ilpeggio deve ancora arrivare. Quando il migrante riescea ottenere un contratto di lavoro con tutte le difficol-tà del caso, la sua nuova speranza può facilmente tra-sformarsi in un incubo. Il lavoratore ci mette pocotempo a capire che la permanenza in Italia dipendedall’onestà del proprio datore di lavoro. Perché il mi-grante diventa ricattabile: se il rapporto dovesse termi-nare infatti, si troverebbe nelle condizioni di dover ne-cessariamente trovare un altro impiego entro i sei mesiprevisti da un permesso di soggiorno per “attesa occu-pazione” non rinnovabile, oppure lasciare il Paese. Se,poi, non venisse assunto, non avrebbe altra scelta senon quella della clandestinità. Perché tornare indietroverso gli stessi luoghi di morte, fame e miseria che lohanno spinto fin qui, sarebbe innaturale. Restare inItalia da “irregolare”, invece, lo catapulta improvvisa-mente nella realtà oscura della clandestinità, che inevi-tabilmente favorisce lo sfruttamento del lavoro nero enon fa altro che alimentare l’odio razziale di chi nonconosce a fondo le modalità in cui lo straniero è co-stretto a vivere.

Paradossalmente, dunque, la Bossi-Fini premia pro-prio coloro che non hanno mai presentato alcun docu-mento per il permesso di soggiorno, ovvero gli immi-grati che non hanno lasciato alcuna traccia. Una con-

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traddizione evidente dalla quale emerge in manierainequivocabile che il fenomeno migratorio in Italiaviene affrontato come fosse un fenomeno passeggero.Non vi è traccia di una legge di cittadinanza paragona-bile a quelle di altri paesi europei caratterizzati da unprocesso di immigrazione storica. Tantomeno vi è trac-cia dello “jus soli”, il diritto di suolo, vale a dire il di-ritto per chiunque nasca nel nostro territorio di acqui-sire la cittadinanza italiana. Come accade negli StatiUniti d’America, paese sovente preso come modelloesemplare per la democrazia occidentale. L’Italia, alcontrario, ha scelto lo “jus sanguinis”, il diritto di san-gue, e cioè quel principio secondo cui è cittadino ita-liano solo chi è figlio di un altro cittadino italiano,scelta che risale addirittura all’inizio del secolo scorso.

Eppure facciamo parte di un tessuto sociale compostoper un decimo da migranti e dalle loro seconde, persinoterze generazioni, chiara dimostrazione del fatto chel’immigrazione oggi è un dato strutturale e non provvi-sorio. Basta scorrere alcune cifre: secondo i dati dell’ulti-mo rapporto sull’immigrazione Caritas/Migrantes, inItalia a gennaio del 2010 i residenti stranieri sono tre mi-lioni in più rispetto al 2001 e, in totale, ammontano apoco meno di cinque milioni, numeri che vanno au-mentando di anno in anno in maniera esponenziale.

Va da sé che le soluzioni approssimative fornitenegli ultimi anni rispondono più a logiche ipocrite e

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xenofobe che alla concreta volontà di mettere incampo politiche per l’immigrazione efficaci e risoluti-ve. Affrontare in questo modo la pur complessa que-stione, equivale a non prenderla nemmeno in conside-razione. E corrisponde a privare persone, cui non ven-gono riconosciuti i diritti fondamentali come la liber-tà di potersi muovere liberamente, anche della loro di-gnità. Ecco perché gli episodi di Brescia e Milano, dacui siamo partiti, sono un passaggio importante.Fanno quasi da spartiacque rispetto a un passato vissu-to quasi nel silenzio. Nelle città lombarde, ma nonsolo, i migranti si sono trovati a inscenare una protestaplateale perché consapevoli che solo in quel modoavrebbero acquistato quella visibilità di cui non hannomai beneficiato prima. Tanto più perché divenuti og-getto di una “sanatoria-truffa”, soprannominata inquesto modo da più parti. “Ci siamo stufati di esseretrattati come bestie, sfruttati nei luoghi di lavoro persalari più bassi di quelli dei nostri colleghi, addetti ailavori più duri e dequalificati anche se abbiamo laureee professionalità alte, guardati sempre male se cammi-niamo per la strada o chiacchieriamo nelle piazze comese fossimo tutti delinquenti. Siamo spremuti quandoserve fare cassa da uno Stato che in cambio non ci dànulla, nemmeno la dignità di essere riconosciuti comepersone e non come stranieri. Per questo ora diciamobasta, chiediamo il rispetto che si deve a persone che

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lavorano, pagano le tasse, contribuiscono alla ricchez-za del paese e al benessere di questa Italia. Chiediamoche venga concesso il permesso di soggiorno a tutti co-loro che hanno partecipato alla sanatoria, che in quan-to tale deve sanare tutte le irregolarità precedenti,compresa la posizione di chi ha il reato di clandestini-tà.” Questo è solo un pezzo del comunicato diramatoin occasione delle proteste, seguite un anno dopol’emanazione della sanatoria-truffa, che bene illustra lereazioni da parte dei migranti.

Ricapitoliamo l’accaduto: ad agosto del 2009 unalegge che avrebbe dovuto “regolarizzare” badanti e colf(la norma riguarda solo queste due categorie di lavora-tori), già presenti in Italia ma con contratti “a nero”,ha prodotto invece diverse vittime. La norma che pre-vedeva a carico dei datori di lavoro il versamento di500 euro, pagati ovviamente dal migrante e corrispon-denti a tre mesi di occupazione, contemplava anchequei soggetti colpiti da un decreto di espulsione.Questi ultimi avrebbero dovuto dormire sonni tran-quilli perché la loro vicenda personale sarebbe stata fi-nalmente sanata. Dopo sei mesi, però, la beffa: ilMinistero dell’Interno diffonde la famigerata circolareministeriale “Manganelli” che contraddice quanto af-fermato precedentemente, ponendo un veto alla rego-larizzazione nei confronti di coloro che, prima dellapresentazione della domanda o durante il periodo in-

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tercorso tra la stessa e la risposta, avevano subito unprovvedimento di espulsione. Inoltre, cavilli di ognitipo impediscono a più del 10% delle richieste di an-dare a buon fine. Rabbia e sdegno raccontano il restodi questa assurda vicenda, contornata da consistentiperdite di denaro degli extracomunitari e dall’imman-cabile business a opera di chi ha lucrato, come spessoaccade, sulla pelle dei più deboli. Sono stati molti, in-fatti, i casi segnalati da associazioni e sindacati in cui ipiù disperati sono arrivati a sborsare fino a 10.000euro per ottenere false assunzioni, che però avrebberoconsentito di essere in regola davanti alla legge. Diquei “datori di lavoro” naturalmente si è persa ognitraccia, come la si è persa di tutti i risparmi investitidai lavoratori. Non solo. In cambio, quei migrantihanno ricevuto solo gli effetti di un’autodenuncia alleautorità.

Si comprende da sé che ci troviamo di fronte all’ur-genza di una discussione seria e approfondita sul feno-meno della immigrazione. Sul fatto ormai innegabileche ai migranti mancano dei canali di accesso legale alterritorio italiano, mentre le leggi che dovrebbero rego-larlo diventano sempre più una corsa a ostacoli per gliuomini, le donne e i bambini in fuga dai loro paesid’origine dove rischiano la fame, la persecuzione e spes-so la morte. È la stessa carta costituzionale a richiamar-ci ai nostri doveri. Ne è un chiaro esempio il diritto di

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asilo, istituto espressamente previsto dai padri costi-tuenti in favore di un rifugiato nel caso in cui a questi“sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle li-bertà democratiche garantite dalla Costituzione italia-na”. Invece, i governi che si sono succeduti non solo nonhanno mai dato vita a una legge organica che garantiscauna protezione perenne a chi è costretto a scappare per-ché oggettivamente in pericolo di vita, ma hanno forte-mente limitato la concessione dello status di rifugiatopolitico. Le statistiche sono davvero impietose: l’Italiarisulta essere uno dei paesi a più bassa soglia di accogli-mento delle domande con appena il 10%.

Accoglienza e solidarietà hanno sempre distinto ilnostro paese dagli altri. Da qui desideriamo far ripar-tire, anche in Europa, un dibattito che riporti al cen-tro la dignità dell’essere umano, da qualunque terraprovenga. Che affermi con forza che i diritti dei mi-granti passano dal conseguimento più agevole dellacittadinanza al conseguente diritto di voto. Dalla rea-lizzazione di strutture di prima e seconda accoglienzaquasi inesistenti alle cure sanitarie per chi un permes-so di soggiorno non è riuscito a ottenerlo. Che sosten-ga che l’Europa del terzo millennio non può porre vetialla libera circolazione delle persone, a meno che nonsi tratti di cittadini comunitari. Perché proprio qui stala bizzarria moderna: viviamo in un’epoca in cui il di-ritto alla mobilità è considerato sacrosanto per le merci

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e i capitali, ma per gli esseri umani le cose vanno diver-samente. Questo è un approccio che genera, più chealtro, risentimenti razzisti, partoriti da antiche supersti-zioni e ideologie regressive, a scapito di una convivenzamulticulturale e pacifica. E la “caccia agli immigrati” di-viene lo spauracchio da agitare ogniqualvolta bisognacercare a tutti i costi un capro espiatorio. Come se nel-l’immaginario collettivo il migrante debba incarnare perforza l’uomo nero, l’essere oscuro e spaventoso, la per-sona bandita dalla comunità perché colpevole di qualco-sa, il capro espiatorio delle fobie sociali collettive.Pensiamo al reato di clandestinità, una norma che ci hafatto balzare indietro di diversi secoli. Proprio come ac-cadeva nell’Inghilterra del Quattrocento e Cinquecento,oggi vengono criminalizzate le persone al margine. Senell’era vittoriana divennero reato l’indigenza, l’accatto-naggio e il vagabondaggio, nell’era moderna il bersaglioè il clandestino, identificato come soggetto pericolosoper la stabilità sociale con la falsa scusante di un bisognodi maggiore “sicurezza”.

Ma davvero, nella storia, si è mai visto un mafioso oun terrorista sbarcare dai barconi o arrivare sprovvistodi documenti? La verità è che, per quanto ignobile, èpiù semplice rispedire al mittente pacchi indesiderati eingombranti. Illudere gli altri di aver eliminato il pro-blema costruendo campagne di demonizzazione ad hoc

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verso determinate categorie sociali in base alla loroetnia o alla scala dei loro bisogni. Come si può decide-re di respingere un barcone senza conoscere chi vi è abordo? Senza sapere se al suo interno vi sono uomini,donne, bambini rimaste vittime di persecuzioni neiloro paesi e per questo aventi diritto all’asilo politico?O molto più semplicemente, persone disperate chepreferiscono rischiare la morte pur di arrivare nella“terra promessa” che continuare a vivere in condizionidisumane nel luogo in cui peraltro sono nati? Eppuredai porti di Bari, Venezia, Ancona e Brindisi, per citar-ne solo alcuni, partono continuamente le riammissio-ni verso la Grecia, paese di provenienza delle navi,paese più volte richiamato per le condizioni in cui ver-sano i centri di detenzione per immigrati irregolari42

dal Comitato Europeo per la prevenzione della tortura edei trattamenti e delle punizioni inumane e per il rim-patrio illegittimo di potenziali richiedenti asilo neipaesi di provenienza.

Combattere le migrazioni, credendo di poterle arresta-re. Questo è il disegno, valorizzato poi dalla reclusionenel Centro di Identificazione e Espulsione (Cie), strut-tura carceraria in cui vengono rinchiusi migranti la cuiunica colpa è quella di non avere il permesso di sog-giorno. Nel Cie può finire chiunque, purché sia extra-comunitario e senza documenti. Per rendere possibile

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un’operazione che ricorda molto i manicomi, un nonluogo dove ogni diritto viene automaticamente sospe-so, è stata introdotta la detenzione amministrativa chepuò durare sei mesi. Un periodo durante il quale sipriva coattivamente un essere umano della propria li-bertà personale senza che questi abbia commesso alcunreato.

Proprio in quelle strutture detentive si registranoperiodicamente atti di violenza e di abuso nei confron-ti degli “ospiti”, a volte culminati in rivolte e atti di au-tolesionismo, fino al suicidio. Vi hanno rinchiuso ad-dirittura persone colpevoli di essersi ribellate alla ma-lavita e allo sfruttamento del caporalato nelle campa-gne. È quanto accaduto ai protagonisti delle dramma-tiche giornate di Rosarno. E i migranti, allo stessotempo spaventati e coraggiosi, in quella circostanzanon hanno goduto di alcuna protezione da parte delloStato. Anzi, dopo essere rimasti ostaggio della camor-ra e aver reagito con dignità, sono stati premiati con lareclusione, alcuni con l’espulsione.

Il Cie va superato. È necessario affermarlo con de-terminazione. Al suo interno si tengono quotidiana-mente condotte che non sono strumentali a una rapi-da espulsione (visto il prolungamento della reclusionea sei mesi), ma si alimentano azioni che produconoesclusione sociale e altra clandestinità.

Servono soluzioni equilibrate, solidali e lungimiran-

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ti che prendano atto della portata di un fenomeno inar-restabile e assolutamente fisiologico. I Paesi dell’Asia,Africa, Sud America ed Est europeo, spremuti per annidalle cosiddette civiltà occidentali e dall’imperialismodi Stato, sono stati travolti dall’economia globalizzata ecostretti a giocare una gara persa in partenza perchéprivi dei mezzi necessari. Era, dunque, inevitabile per ilmondo occidentale diventare spettatore involontario diun avvenimento così significativo e di così grande rilie-vo. Ma il rimedio non è nell’innalzamento delle barrie-re. Bisogna agire su due fronti: quello interno e quellointernazionale. Da un lato, è doveroso partire dall’as-sunto che nessuna persona è illegale. I diritti umani,della persona e del lavoratore, devono essere tutelati dalpieno riconoscimento di una universalità dei diritti, inpiena armonia con quanto scritto nella nostraCostituzione. Dall’altro, occorre abbandonare, unavolta per tutte, pratiche come gli accordi bilaterali fatticon la Libia, che eludono il problema reale: a dispettodei successi vantati dalla Lega, gli sbarchi rappresenta-no solo una piccola parte degli ingressi “irregolari” nelnostro territorio visto che la maggior parte dei migran-ti entra legalmente, attraverso un visto turistico o di la-voro, e vi resta illegalmente una volta scaduto il visto.È costoso e agghiacciante, per il governo italiano, inve-stire nella costruzione dei campi dell’orrore libici, veri epropri lager dove i migranti vengono rinchiusi, senza

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alcuna garanzia di uscirvi, e privati di ogni dirittoumano. È disumano rispedire, sempre nello Stato diGheddafi, i sopravvissuti delle traversate di fortuna nelMediterraneo, sul cui fondo negli ultimi anni giaccio-no migliaia di corpi innocenti. In cambio, peraltro, an-ziché una reale diminuzione dei flussi, abbiamo ricevu-to solo pallottole sparate ai nostri pescatori da quellestesse motovedette donate loro dall’Italia per contrasta-re l’immigrazione irregolare.

Gli accordi, invece, devono servire a stabilire unamigrazione circolare, rapporti di lavoro temporaneo.Ci vogliono azioni mirate, attraverso l’identificazionecerta dei sospetti, accompagnata però da politiche diinclusione e coinvolgimento delle comunità stesse deimigranti.

Non possiamo chiudere gli occhi sul bisogno deimigranti di restare in Italia, in Europa e, come ovvioche sia, di portare qui le loro famiglie. Proviamo a spe-rimentare nuove metodologie, non certo basate su untest d’italiano propedeutico all’ingresso. Quanti sareb-bero davvero in grado di sostenerlo? E poi, perché chiapproda qui, magari costretto a farlo nel più brevetempo possibile, dovrebbe conoscere la nostra linguase non dopo un periodo di soggiorno assicurato? Sitratta solo dell’ennesimo indizio che costituisce laprova: il tentativo di ostacolare, e non regolarizzare, iflussi migratori.

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Cominciamo col riconoscere che la situazione ne-cessita di politiche strutturate, che guardino a un siste-ma in grado di distinguere tra irregolari e criminali, ta-rato sui singoli casi, e che consentano all’immigratocon permesso di soggiorno di richiedere un visto tem-poraneo per un proprio familiare intenzionato a lavo-rare in Italia oppure di usufruire di un anno di tempoper la ricerca di una nuova occupazione. Allo stessomodo, smontiamo definitivamente il falso mito leghi-sta degli immigrati che “ci rubano il lavoro” e gravanosui nostri servizi sociali, dimenticando che determina-no l’11% del Prodotto Interno Lordo (Pil) nazionale.Sono, quindi, portatori di diritti fondamentali tantoquanto noi, oltre ad essere dei contribuenti delle no-stre pensioni. Sarebbe, perciò, auspicabile impiegaretutte le energie affinché i datori di lavoro siano incen-tivati a sottoscrivere dei contratti regolari. E sarebbeopportuno inserire nuovi strumenti che facilitino laloro integrazione, come la portabilità dei diritti pen-sionistici dal loro paese al nostro.

Altrimenti, le sacche di irregolari, che il centrode-stra con i suoi spot propagandistici fa credere di avereliminato, ingrosserà le proprie fila a dismisura. Perchéin Italia la riduzione in schiavitù non riguarda solol’agricoltura, ma anche l’edilizia, il commercio e spes-so l’industria.

Il bisogno del migrante deve tramutarsi in esercizio

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del diritto di cittadinanza. L’accesso alla casa, ad esem-pio, costituisce un vincolo sia per la stipula del con-tratto di soggiorno, sia per il ricongiungimento fami-liare. Ma non è semplice in quanto il mercato offrefitti onerosi per abitazioni precarie o appartamenti re-golari, spesso abitati da più nuclei familiari. Ancorapiù complesso è acquistare un’abitazione. Tutte condi-zioni generali che il più delle volte degenerano nel-l’esclusione sociale di intere comunità, spesso pronte aesplodere.

Invertiamo la rotta. Diamo l’immagine di un’Europadiversa da quella dei cacciatori di Rom alla Sarkozy.Rom e Sinti, ricordiamolo, sono quasi sempre cittadinicomunitari, e per questo hanno gli stessi diritti (e dove-ri) degli altri e il loro tasso di criminalità è, contraria-mente a quanto si crede, ben al di sotto di quello dei cit-tadini italiani. Criminalizzarli, in quanto portatori diuna cultura diversa e solo su presupposti ideologici, èl’anticamera dei nuovi pogrom. Non possiamo arrender-ci ai pregiudizi, ma promuovere una nuova stagione didiritti che ci consenta di riappropriarci della ricchezza,della bellezza e del dono che ciascuna diversità offre allastoria umana. Siamo ancora in tempo per vivere in unmondo in cui la fortuna di ciascuno di noi non sia fun-zione della propria condizione di origine. È paradossaleche delle vantate radici cristiane europee, di cui è zeppala retorica di molti politici nostrani, sboccino solo i frut-

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ti avvelenati dell’odio e del razzismo. Cer tamente nonsiamo tutti uguali, per fortuna unici nelle nostre diffe-renze e nelle nostre debolezze, ma questa distanza restasempre all’interno del recinto della comunità umana.

E a chi è capace, credente o meno, di praticare ladoppia morale per cui “i valori sono importanti” ma“gli stranieri restino a casa loro”, rispondiamo con la le-zione di Don Tonino Bello: “Perdonaci, fratello maroc-chino. Un giorno, quando nel cielo incontreremo il no-stro Dio, questo infaticabile viandante sulle strade dellaterra, ci accorgeremo con sorpresa che egli ha il coloredella tua pelle. P.S. Se passi da casa mia, fermati”.43

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Černobyl’ non è più qui

Ascoltando Before the Deluge di Jackson Browne, 1974

Leggendo Omeros di Derek Walcott, Adelphi, 1992

Vedendo Avatar di James Cameron, 2009

“La biosfera può soddisfare i bisogni di tutti se l’economia globale rispettai limiti imposti dalla sostenibilità e dalla giustizia. Come ci ha ricordatoGandhi: ‘La Terra ha abbastanza per i bisogni di tutti, ma non per l’avi-dità di alcune persone.’”

Vandana Shiva

Nel lontano ’86 il disastro di Černobyl’ svelò tragica-mente al mondo intero il fallimento delle politicheenergetiche e di sicurezza ambientale dei governi con-temporanei, incentrati molto più sullo sviluppo eco-nomico che su tematiche inerenti alla salute dei citta-dini e alla tutela del territorio. Il pianeta impallidì difronte alla tragedia che si andava consumando e chebuona parte dell’Europa pagò a caro prezzo, e checontinuerà ancora a pagare per altri cinquanta o ses-sant’anni attraverso decessi, tumori, leucemie, malfor-mazioni genetiche. Quell’evento drammatico diventòindubbiamente lo spartiacque tra le politiche “distrat-te” rispetto alle questioni ambientali e quelle più “so-stenibili”.

Negli ultimi anni il tema dello sviluppo a impatto

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zero ha così impegnato le riflessioni e, spesso, le azio-ni di teorici e governi di tutto il mondo. Illustri ricer-catori e studiosi hanno messo a disposizione del siste-ma politico mondiale le loro teorie per evitare unanuova Černobyl’.

Nell’aprile del 2010 abbiamo dovuto constatare ancorauna volta che i migliori studi e le continue analisi siscontrano troppo spesso con le medie e grandi lobby in-dustriali. E a distanza di quasi venticinque anni da quel-l’evento letale, la tragedia si è nuovamente consumata.

Siamo nel Golfo del Messico, dove l’incidente tec-nico di una piattaforma petrolifera ha causato unosversamento massiccio di petrolio, durato addiritturasei lunghissimi mesi. E i danni provocati sono tuttoraincalcolabili.

Alla luce dell’ennesimo episodio nocivo per l’uomoe l’ambiente, sembra chiaro che non è più possibilepianificare o realizzare interventi di ogni sorta senzatener conto dell’impatto sull’ambiente e della salutedei cittadini. Perché aria, acqua e suolo sono risorse fi-nite che vanno preservate come bene assoluto, inquanto fonte stessa di vita, e l’idea che l’uomo possautilizzare le risorse ambientali all’infinito è assoluta-mente anacronistica. Tutte le scelte di sviluppo chehanno segnato l’intero corso del Novecento, un secoloperaltro contraddistinto da risultati eccezionali sotto il

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profilo scientifico ed economico, vanno integralmenteripensate.

Ancora oggi ci ritroviamo a fare i conti con le guer-re per l’accaparramento delle risorse naturali, con l’au-mento smisurato del prezzo del petrolio, l’inquina-mento e i rischi per la salute dei lavoratori e di ampiefasce della popolazione, con l’esaurimento dei combu-stibili fossili e con il riscaldamento globale del pianeta.Proprio a tal proposito, è bene ricordare che undicidegli ultimi quindici anni sono stati fra i più caldi mairegistrati da quando esiste il pianeta. La calotta articaprosegue una corsa inarrestabile verso il proprio scio-glimento e il tempo a disposizione per limitare i danniè davvero molto limitato. Se si ha intenzione di rallen-tare gli effetti del global warming, i nostri governi de-vono necessariamente trovare soluzioni per contenereentro 2°C gli incrementi della temperatura nei prossi-mi 5-10 anni.

Per tutti questi motivi si è imposta fortemente unariflessione più ampia sulla ricerca di nuovi modelli so-stenibili di sviluppo. È necessario cambiare paradigma,ripensando completamente il rapporto tra uomo e am-biente: la visione antropocentrica deve fare spazio a unnuovo biocentrismo. L’uomo fa parte di un eco-siste-ma, all’interno del quale convivono diverse speciestrettamente interdipendenti. L’intera biosfera va inte-sa come spazio in cui inserire un’idea di progresso.

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Bisogna accettarlo. È in questo ragionamento che am-bientalismo ed ecologia non sono più confinati in unaprospettiva di lotta e di resistenza, ma acquistano unsignificato positivo, un ruolo decisamente da protago-nisti. Devono entrare nelle scelte strategiche dei gover-ni, attraversare la vita quotidiana di ciascuno di noi,influire su ogni forma di sviluppo, avere un impattodeterminante sulle nostre decisioni, dalle più semplicia quelle più complesse.

Sovvertire la priorità delle cose, questo è l’obiettivocruciale. Allo sfruttamento delle risorse è necessariocontrapporre la tutela dei beni comuni. Come l’acqua,bene non assoggettabile alle logiche di mercato perchédiritto umano inalienabile, appartenente a tutti, inpiena armonia con le recenti risoluzioni Onu e con labattaglia portata avanti dall’ambientalista indianaVandana Shiva.

Finora i processi di privatizzazione dell’acqua, infat-ti, hanno prodotto solo un peggioramento di servizi el’inevitabile innalzamento delle tariffe. Questo perchécapitalismo e teorie derivanti, hanno clamorosamentefallito. I beni comuni non possono essere svincolati dalprincipio di gratuità dell’accesso e dell’uso di beni es-senziali per la vita stessa dell’essere umano. È un pas-saggio fondamentale, affrontato nelle grandi democra-zie occidentali, dalla Francia agli Usa. È ora che anchein Italia se ne prenda atto.

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Con altrettanta chiarezza dobbiamo affermare che,nella gestione dei rifiuti, non possiamo limitarci a unalogica di contrapposizione su inceneritori e discariche,pure utili nell’emergenza a evitare i disastri visti tra lestrade di Napoli. Ma cominciare a ripensare l’interociclo di vita dei prodotti e della gestione dei rifiuti,uscendo dalla logica di chi vorrebbe sostituire alla dit-tatura delle discariche quella degli inceneritori. Seavessimo puntato sulla riduzione della produzionedella spazzatura, sulla raccolta differenziata e sul recu-pero di materia, staremmo già a godere degli immensibenefici.

Proviamo a immaginare un nuovo ciclo industrialecapace di allungare il ciclo di vita dei prodotti e che siain grado, al termine delle utilità, di recuperare in mas-sima parte ciò che residua. Da un lato perché si gene-rerebbero nuove forme di occupazione legate al riuti-lizzo dei materiali. Dall’altro proprio perché il limitedi sopportazione dell’ambiente è stato ampiamente su-perato.

Le fonti fossili, parimenti, devono lasciare il passo aquelle alternative, all’idea di un nuovo sviluppo econo-mico fatto di imprese, di donne e uomini e di lavorobasato sulla green economy. Passare dai combustibili allefonti rinnovabili, dalla produzione concentrata all’au-toconsumo per rivoluzionare il sistema energetico.Vento, sole, acqua, mare non rappresentano solo un

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modo pulito di produrre energia, ma anche una razio-nalizzazione proficua che consente di utilizzare le risor-se là dove esistono per natura. Per l’estrazione del pe-trolio, del carbone e del gas sono state combattute neisecoli delle guerre sanguinosissime che ancora oggi siriaccendono ciclicamente. L’oro nero viene estratto nelSud del mondo sulle teste delle popolazioni e utilizzatoper far muovere la cosiddetta civiltà occidentale. Iltutto con immensi costi sociali, economici e ambienta-li. Dovremmo, invece, avvicinare sempre più i luoghidi produzione a quelli di consumo. Gli edifici, le areeindustriali delle nostre città, i capannoni, rappresenta-no un immenso potenziale patrimonio energetico ingrado di sostituire l’attuale modello di produzione.

Al contrario, in Italia si torna a parlare di nucleare –pur sconfitto in un referendum popolare nel 1987 –come la vera alternativa alle fonti fossili. Più sicuro,più moderno, più economico, ci dicono. Eppure il nu-cleare fa paura, e non c’è una sola regione che lo vogliasul proprio territorio.

Il nostro paese non ha bisogno del nucleare per di-versi motivi. In primo luogo, perché non esiste unserio programma energetico nazionale. Si procede perslogan e interessi, su sensazioni vere o costruite.Sarebbe molto più proficuo definire invece una strate-gia, capire quali sono i fabbisogni energetici e comesoddisfarli.

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In secondo luogo, perché il nucleare è antieconomi-co. Allo stato, non esiste una quantificazione puntualedi quali siano i costi di smaltimento delle scorie e degliimpianti. Basti pensare che le vecchie centrali in Italianon sono ancora state smantellate.

In terzo luogo, perché l’Italia è una magnifica, stret-ta penisola al centro di un mare meraviglioso: ilMediterraneo. Un malaugurato incidente significhe-rebbe la fine di ogni prospettiva di vita, di economia edi benessere per l’intera area.

Sviluppare la produzione energetica da fonti rinno-vabili, invece, significherebbe anche far accrescerenuovi segmenti produttivi, nuova occupazione, nuoveprofessionalità. Discussione che, se inserita in una vi-sione più ampia, diventa fondamentale non solo permeglio inquadrare i limiti del presente, ma per comin-ciare a costruire un progetto complessivo di futuro.Pensiamo, ad esempio, ai modelli di pesca o agricoltu-ra fondati sull’ipersfruttamento delle risorse e all’im-poverimento dei suoli e dei mari. O alla violenza di al-cune aree industriali che, negli anni, hanno determina-to solo sfruttamento e abbandono.

La questione ambientale, dunque, non può esserevista come la mera difesa di una riserva indiana, macome nuovo modello di sviluppo, che non può trascu-rare l’evoluzione dei nostri centri urbani. Lo stato incui versano molte città italiane è ampiamente al di

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sotto della media europea a causa dell’assenza di untrasporto pubblico moderno, per fare un esempio. Mase ne possono fare molti altri: poche le metropolitane,scarsissime le piste ciclabili, inesistente la movimenta-zione delle merci sui binari.

Perché non sviluppare una cultura dell’intermodali-tà? Non grandi infrastrutture isolate, ma un territoriointerconnesso da una rete di collegamenti in grado diunire fra loro i principali nodi di accesso del territorionazionale (porti, aeroporti, stazioni ferroviarie), consoluzioni combinate di trasporto e costi accessibili. Inquesto modo, potremmo concentrarci di più sulla co-struzione di politiche di sviluppo della mobilità soste-nibile mediante l’analisi della domanda dei cittadiniper ciò che attiene i percorsi quotidiani casa-lavoro ocasa-scuola, e studiare misure di intervento risponden-ti alle diverse esigenze, come il car-pooling e il car-sha-ring, per chi non può abbandonare l’auto come mezzodi spostamento, o il bike-sharing.

Lo stesso vale per una nuova visione turistica e delsuo immenso indotto. Si possono finalmente metterein pratica diverse forme di ecoturismo, che integrinotutela ambientale e ottimizzazione del patrimonio cul-turale. Oggi tutte le comunità riescono a esprimere leproprie capacità di marketing territoriale, e lo statodeve essere in grado di indicare la rotta tramite finan-ziamenti e politiche infrastrutturali e fiscali mirate alla

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valorizzazione degli agriturismi, delle masserie e ditutto quanto può far parte di un sistema di offerta abasso impatto per il territorio.

Pensiamo agli insegnamenti di Slow Food, alla basedella ricomposizione di un’armonia persa tra uomo,terra e storia. Carlo Petrini ha immaginato un’enoga-stronomia guidata dal rispetto del territorio e delle suetradizioni, e riassunta nei principi “buono, pulito e giu-sto”. Così è possibile realizzare forme di economia loca-le, o meglio ancora glocale, finalizzata a tutelare le qua-lità organolettiche del prodotto, mantenute con un tipodi agricoltura meno intensivo e quindi più pulito, gra-zie a una nuova alleanza tra produttori e consumatori.

Non possiamo più decidere di non decidere: è ne-cessario porre un limite all’idea di crescita e di svilup-po dell’economia umana, e quel limite è rappresentatoproprio dall’ecosistema di cui facciamo parte. E non èsufficiente riconvertire i principali processi industrialiriducendone l’impatto, se non modifichiamo alcuneabitudini umane: risparmio energetico, consumo re-sponsabile, utilizzo di prodotti a km 0, mobilità soste-nibile sono solo alcuni esempi di ciò che può significa-re scegliere uno stile di vita più “etico”.

Indubbiamente è un processo non facile, tantomenospontaneo. Serve impegno da parte di tutti, serve co-raggio da parte delle istituzioni. Bisogna agire sull’edu-cazione ambientale e individuare incentivi e strumenti

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per rinforzare i modelli di comportamento positivo, econtestualmente lavorare in termini repressivi, penaliz-zando comportamenti dannosi verso l’ambiente.

Un soggetto politico che si propone questi obiettivideve necessariamente confrontarsi con un’idea dellapolitica capace di spostare il senso comune, invece diinseguire facili consensi. Viviamo in una società piùcolta e matura che in molti luoghi si è dimostrata abilenell’opporsi al ricatto sotteso al presunto conflitto trapolitiche ambientali e condizioni occupazionali. E intanti oggi comprendono le opportunità connesse allosviluppo delle economie verdi.

Ma senza un intervento pubblico sui sistemi indu-striale ed energetico, nei settori dell’educazione e dellaricerca scientifica e tecnologica, sulle forme di gestio-ne dei cicli delle acque e dei rifiuti, sulla difesa del ter-ritorio e sulla tutela del patrimonio naturale, non po-tremmo nemmeno immaginare di affrontare la sfidache le attuali condizioni del pianeta ci impongono.

Non dimentichiamo che il ritorno alle tradizioni ge-nera filiere turistiche con grosse percentuali di crescitacome il turismo agricolo, culturale, storico, naturalisti-co ed esperienziale, che per primi hanno sposato la re-gola del viver bene e del viver meglio, nel rispetto deiritmi e dei tempi biologici della terra.

Quest’approccio allo sviluppo sostenibile è possibile.Ognuno di noi deve prenderne coscienza e fare la pro-

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pria parte contribuendo alla realizzazione di una formadi organizzazione che riesca da un lato a far fronte allenecessità dei cittadini, dall’altro alle scelte dei competi-tor industriali che sposano filosofie antitetiche.

In questa visione diventa centrale il ruolo svolto dauno Stato che regoli e faccia da guida nella ricerca del-l’armonia con il territorio, l’eco-sistema, la vita.

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Il fisco giusto

Ascoltando Soldi soldi soldi di Betty Curtis, 1962

Leggendo La grande trasformazione di Karl Polanyi, Einaudi, Torino1974

Vedendo Wall Street di Oliver Stone, 1987

“Gli italiani guadagnano netto, ma vivono lordo.”Giuseppe Saragat

Chi non ricorda lo slogan “meno tasse per tutti”, veroe proprio mantra berlusconiano, che dal 1994 a oggiha avuto il solo effetto di indebolire la credibilità delloStato nella gestione dei servizi e della cosa pubblica, edi sdoganare l’evasione fiscale come si trattasse di unamarachella, o in taluni casi, persino di un atto di sacro-santa disobbedienza civile contro lo Stato assetato delnostro denaro?

Come dimenticare gli annunci elettoralistici sulle ri-forme fiscali possibili o sugli aiuti alla famiglia, chequasi mensilmente gli esponenti dei diversi governiBerlusconi proponevano nelle televisioni, o sui giorna-li, salvo poi rimanere lettera morta, e anzi, diminuirela spesa sociale a danno proprio delle fasce più svantag-giate della società?

In realtà non è stato fatto nulla, e per fortuna ag-

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giungeremmo, dato che l’unica proposta berlusconia-na, quella di ridurre il numero delle aliquote di paga-mento dell’Irpef da 5 a 2, costituirebbe un ulteriorevantaggio per i più ricchi e comporterebbe un peggio-ramento della situazione economica italiana.

La proposta di riduzione del numero delle aliquoteè in netto contrasto con il principio stabilito dalla no-stra Costituzione, della progressività del carico fiscalegravante sui singoli cittadini. Perché, come vennedetto in Assemblea Costituente, “la progressione appli-cata ai tributi […] dev’esser tale da correggere le iniqui-tà derivanti dagli altri tributi, ed in particolare da quel-li sui consumi” e non può negarsi che “una Costituzionela quale, come la nostra, si informa a principi di demo-crazia e di solidarietà sociale, debba dare la preferenza alprincipio della progressività.”44

La riduzione del numero delle aliquote è inoltredannosa perché non considera i cambiamenti socialied economici che sono intervenuti nel nostro paese.Come rilevato dall’Ocse, negli ultimi anni la forbicefra ricchezza e povertà in Italia si è costantemente al-largata e adesso il 10% della popolazione possiedequasi il 50% della ricchezza generata; questo dato as-sume contorni ancora più preoccupanti se pensiamoche la crisi economica sta agendo con tutta la suaforza, contro le fasce più deboli della popolazione econtro il cosiddetto ceto medio italiano. È così che la-

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voratori dipendenti, impiegati, lavoratori autonomi etutto il settore delle piccole e medie imprese fanno unagrande fatica per arrivare a fine mese e non caderenella rete delle nuove povertà. Di fronte a questo peri-coloso smottamento sociale, il governo di centrodestrasi comporta come un Robin Hood al contrario che to-glie ai poveri per dare ai ricchi.

La verità è dunque che la disuguaglianza regna sovra-na in Italia e quello che doveva essere il compito prin-cipale della Repubblica è stato ormai accantonato: “ri-muovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, li-mitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini,impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’ef-fettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizza-zione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3,comma 2 della Costituzione).

E come sempre, è il lavoro a pagare dazio. I lavora-tori italiani hanno patito negli ultimi quarant’anni unacostante compressione dei loro salari, che negli anniSettanta erano fra i più alti d’Europa. La perdita delpotere d’acquisto non è certo stata compensata da unaumento del livello dei servizi, né ha riguardato tuttigli strati sociali della popolazione. Tutt’altro. Negli ul-timi anni, come già detto, ben dieci punti di Pil sonopassati dalle tasche dei lavoratori ai profitti e alle ren-dite. Un esempio più chiaro: negli anni Cinquanta,

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l’allora manager Fiat, Vittorio Valletta, guadagnava 20volte il reddito della media dei suoi dipendenti; SergioMarchionne oggi percepisce un reddito 435 volte su-periore a quello di un operaio italiano. Questo è il qua-dro dell’Italia di oggi.

Ad aggravare ulteriormente la situazione è interve-nuto anche l’inesorabile processo di sostituzione del-l’economia reale con una economia meramente finan-ziaria, che in poco tempo ha negato al lavoro materia-le e immateriale il ruolo di elemento cardine della pro-duzione di ricchezza per le comunità, e ha messo alprimo posto, la finanza, le transazioni e le operazionidi speculazione borsistica. Si obietterà che questi sonofatti che ormai riguardano tutto il mondo occidentalee i paesi in via di sviluppo, è vero. È la tendenza detta-ta dal modello economico vigente, è vero e comunquequesta non è una realtà immodificabile. Quello cheperò è inaccettabile e che accade solo da noi, è chel’economia dell’alta finanza e della speculazione sia inqualche modo protetta da un regime fiscale fin troppodocile e permissivo: il nostro paese prevede infatti, unatassazione delle rendite finanziarie del 12,5%, mentrenegli altri paesi europei la quota di prelievo va benoltre il 20%. Quando parliamo di rendite finanziarie,sia chiaro, non parliamo dei risparmi delle famiglie,investiti in titoli di Stato. Questi ultimi rappresentanouna ben modesta entità dei titoli in circolazione. Per

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tutelare il piccolo risparmio, anche quando si indiriz-za verso la detenzione di titoli di stato, basterebbe sta-bilire una franchigia di esenzione fiscale. Ci riferiamopiuttosto alle attività speculative e a quelle sui derivatifinanziari, che sono, fra l’altro, una delle cause dellacrisi economica che attanaglia Usa ed Europa.

Per cui va rovesciato il paradigma economico e so-ciale proposto dal liberismo in questi anni di globaliz-zazione senza regole, avvallato dalle scelte di molti go-verni, secondo cui “soldi generano soldi” al di là dellaproduzione e del lavoro, ed è necessario riportare alcentro degli interessi della politica la tutela del lavoroe della produzione e la cura della persona. È necessarioriscrivere un grande compromesso tra Stato e mercato,su basi etiche e umanistiche, come suggerito daEdmondo Berselli nel suo ultimo libro45. Non a caso,Berselli parla di imbroglio liberista e legge un connu-bio profondo fra la crisi economica, la diseguale distri-buzione delle ricchezze e il modello liberista: “La gran-de recessione è un problema totale di distribuzione fal-limentare della ricchezza a vantaggio dei ricchi e a sfa-vore dei poveri”.

Occorre pertanto, in primo luogo, preservare l’eco-nomia sana, reale, e irrobustire i sistemi di controllocontro le attività speculative, attraverso la separazionedi banche di risparmio e banche di investimento e diaffari; la limitazione dei bonus e dei diritti di stock op-

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tions di manager e banchieri; l’introduzione di sanzio-ni pesanti a chi spaccia titoli spazzatura con rating po-sitivi fasulli. E soprattutto, bisogna introdurre un pre-lievo sulle transazioni finanziarie. Si può cominciarecon la proposta più semplice, che viene ampiamentepromossa sul web: applicare lo 0.05 su tutte le transa-zioni finanziarie. Si tratta di una applicazione sempli-ficata della celebre tassa Tobin, che il premio Nobelper l’economia propose nell’ormai lontano 1972.

In secondo luogo, è necessario mettere in campoproposte che agiscano nel senso della redistribuzionedelle risorse e delle ricchezze: questo è lo snodo centra-le intorno al quale costruire un’Italia migliore, più giu-sta e più equa, è la bussola che deve indicare la stradamaestra a tutte le riforme, da quella fiscale, a quella delwelfare, fino a quella del federalismo.

Bisogna però agire con una certa urgenza anche pervia della crisi economica, perché l’enorme disponibili-tà di capitali a disposizione dei soggetti che dominanoil mercato viene proprio dallo sfruttamento di lavoroumano, di materia e di energia.

Da questa breve analisi si comprende quindi che itremontismi, intesi come i tentativi maldestri di risol-vere i problemi italiani, sono del tutto inadeguati, dalmomento che concentrano l’attenzione esclusivamen-te sulla riduzione del debito pubblico, all’ombra delquale crescono le difficoltà e l’indebitamento delle im-

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prese, delle famiglie e delle persone. Se Tremonti avolte appare addirittura come il paladino di un inter-vento statale, un moderno Colbert, ciò deriva più chealtro dalla tradizionale debolezza della capacità del si-stema capitalistico italiano di assumersi rischi in primapersona e la sua abitudine ad essere un capitalismo as-sistito dallo Stato. La sua polemica nei confronti del“mercatismo” serve in realtà a nascondere la sua totalee sostanziale adesione al neoliberismo, il quale peraltronon ha mai escluso in via teorica e pratica l’interventodello Stato, ma sempre in aiuto e subordinatamenteagli interessi dell’impresa e del mercato.

Il governo italiano affronta la crisi e le politiche delcontenimento del debito pubblico, come fuga defini-tiva dalla crescita e dal cambiamento. È necessariopiuttosto preoccuparsi del declassamento del lavoro, ènecessario tenere ben presente che ormai la busta pagaè solo una componente minima, quasi residuale nel-l’economia delle famiglie: senza il contributo fonda-mentale dei genitori pensionati, del lavoro femminile,o persino del lavoro in nero, assisteremmo a un disse-sto ben più grave di quello attuale. E la necessità di in-tervenire sui redditi e ridistribuire le ricchezze non ri-sponde solo a considerazioni di ordine etico, sia chia-ro, ma ha piene ragioni economiche, dal momento checi troviamo di fronte a un pericoloso rallentamento dei

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consumi, che automaticamente inghiotte diversi setto-ri dell’economia italiana.

Serve, quindi, un riordino di tutta la normativa tri-butaria e fiscale, tenendo ben presente però il princi-pio già enunciato della progressività, secondo il qualechi più ha, maggiormente contribuisce al buon anda-mento e allo sviluppo dello Stato, e operando realmen-te in ottica redistributiva, per riequilibrare le disugua-glianze economiche e sociali, come sancito dallaCostituzione, e per costruire un nuovo e più saldopatto sociale che contribuirebbe all’unione del paese eal suo armonico funzionamento.

Pertanto, se vogliamo parlare di riforma fiscale e diritocco delle aliquote, è bene che lo si faccia partendodal basso, tutelando i redditi più bassi, senza favorirela speculazione o l’accumulazione fine a se stessa.Bisogna privilegiare il lavoro e la produzione, che oggisono gravate in maniera eccessiva, come già detto, ri-spetto alla rendita e al profitto, e bisogna recuperare ri-sorse che oggi sono allocate in maniera errata e squili-brata, partendo proprio dalla tassazione sui proventidalle attività finanziarie, che deve raggiungere il livellodei paesi europei. Il che significa raggiungere almenol’aliquota del 20% per le rendite finanziarie (con lafranchigia per il piccolo risparmio come già detto).Contemporaneamente si deve portare l’aliquota dellatassazione sui conti correnti bancari dal 27% al 20%

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in modo da creare un’uniformità dei trattamenti fisca-li. Ma soprattutto va introdotta una tassa patrimonia-le (sempre con una franchigia per la prima casa e perpatrimoni modesti), poiché la ricchezza italiana è for-temente patrimonializzata e quindi o si introduce unamisura del genere o non si otterrà mai una giustizia fi-scale secondo i principi costituzionali.

Le risorse ricavate potrebbero avviare sia azioni po-derose di stimolo dei consumi, agendo direttamentesui redditi, e sia promuovere gli investimenti delle im-prese in sviluppo, ricerca, green economy e sostenibilitàambientale. È questa l’unica vera via per uscire dallacrisi e prepararsi ad affrontare meglio la competizioneinternazionale e la sfida della globalizzazione. È l’uni-co vero modo per creare nuova occupazione.Dobbiamo, in sostanza, stimolare la responsabilità so-ciale, altrimenti in breve tempo, l’Italia finirebbe nellaperiferia del mondo produttivo.

Un altro dei mali italiani che assorbe una parte impor-tante di risorse e che impedisce una più equa redistri-buzione della ricchezza nel nostro paese è sicuramentel’evasione fiscale. Un buco nero da circa 120 miliardidi euro, una quota di gettito fiscale mancato che po-trebbe in un solo colpo ridurre di quasi un decimo ildebito pubblico del nostro Paese, stimato invece inquasi 1800 miliardi di euro. C’è da condurre una vera

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e propria battaglia culturale, congiuntamente ai con-trolli severi, per recuperare queste risorse fondamenta-li. Abbiamo già detto infatti, di come quindici anni diberlusconismo abbiano costruito un impianto cultura-le diffuso nella popolazione, quasi giustificatorio neiconfronti di uno dei reati più odiosi, come è quellodell’evasione, che è, questa sì, una pesante tassa che siabbatte sul futuro del nostro paese e delle giovani ge-nerazioni, perché scarica i costi del funzionamentodello Stato e della convivenza, solo sui lavoratori di-pendenti, e perché impedisce di pensare a riforme im-portanti e decisive per l’Italia. Scudi e condoni fiscalielargiti con magnanimità dal governo sono certamen-te il modo peggiore per intraprendere una battagliasenza quartiere nei confronti degli evasori, e creano lecondizioni per alimentare sommerso ed evasione.

Le forme di controllo sono allo stato attuale ancoralargamente insufficienti. Le banche dati sono moltolontane dal funzionare in maniera congiunta, per cuil’incrocio di dati quali utenze, beni posseduti e accata-stati, flussi di reddito guadagnato, beni acquistati sog-getti a registrazione è ancora un’utopica richiesta cheperò consentirebbe un controllo preliminare su quan-to dichiarato. Una forma di contrasto all’evasione è si-curamente quella della tracciabilità dei pagamenti. Latracciabilità colpisce nel segno due volte, la prima nellaprevenzione e la seconda nell’emersione dell’evasione e

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con la crescente velocità di circolazione della monetaelettronica diventerà uno dei metodi principali di con-trasto. È ragionevole supporre che nell’arco dei prossi-mi cinque anni la tracciabilità dei pagamenti debba es-sere estesa e generalizzata.

C’è però da specificare che parte dell’evasione è do-vuta alla stessa incomprensibilità del sistema fiscale eda alcune misure inique e svantaggiose per chi lavora eproduce ricchezza. Una delle prime e più importantiiniziative per abbattere l’evasione è sicuramente quelladi approntare un sistema che risponda a criteri di giu-stizia, per cui lavorare, produrre e assumere lavoratorisiano considerati elementi premianti.

La mancanza di risorse dovuta all’evasione e successi-vamente, i buchi della crisi economica, hanno costitui-to in Italia un ottimo scudo utilizzato dai politici pergiustificare le loro scelte di smantellamento del welfa-re e la costante compressione della spesa sociale. Comese la crisi e l’evasione dipendessero dal welfare e dallatutela dei più deboli. Ebbene, noi siamo convinti chela spesa sociale sia un investimento, quando fatta concriterio, controllandone l’efficacia e l’efficienza. Siamoconvinti che il sistema del welfare vada cambiato e in-centivato, siamo convinti della necessità di potenziareil welfare, affinché promuova le persone e le loro op-portunità. Vogliamo un welfare che stimoli lo svilup-

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po e non spesa passiva, che sia pensato per i giovani eper la loro formazione. Vogliamo un welfare inclusivo,per le persone disabili, che garantisca loro inclusione enuove possibilità. È poi necessario un sistema di pro-tezione anche per le persone anziane, a partire dalla ga-ranzia dell’assistenza sanitaria pubblica e da una riva-lutazione delle pensioni, che saranno quasi scomparseper i più giovani che oggi lavorano. Il nuovo welfaredeve considerare i nuovi italiani migrati sul nostro ter-ritorio, che contribuiscono alla ricchezza del paese, masenza ricevere servizi adeguati. Un nuovo welfare puòessere quindi lo strumento attraverso cui ripensare l’in-dirizzo delle scelte economiche e l’organizzazione dellanostra società, che deve prevedere nuove tutele univer-sali di cittadinanza.

A tal proposito, è arrivato il momento per l’Italia diraggiungere i livelli delle più avanzate democrazie eu-ropee, dotandosi di una forma di reddito di cittadi-nanza, perché siamo convinti che una società evolutariconosca il diritto di avere i mezzi minimi per nutrir-si, avere un tetto e non finire ai margini della società.

Il sistema fiscale italiano, lo abbiamo già spiegato, èbasato sul principio di tassazione progressiva. Sebbenesi tratti di un principio costituzionale, l’attuale struttu-ra dell’Irpef non garantisce la progressività per alcunecategorie di cittadini. Un lavoratore dipendente cheguadagni appena 7 mila euro l’anno, ad esempio, non

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pagherà tasse, per cui la sua aliquota risulta essere paria zero. Secondo il principio della progressività, un in-dividuo ancora più povero, con un reddito lordo di ap-pena 3500 euro, dovrebbe pagare meno tasse di quan-to non faccia il primo, che ha un reddito doppio delsuo. Chiaramente appare difficile esigere il pagamentodi una cifra inferiore a zero, a meno che non si appli-chi una Irpef negativa, ovvero il cittadino riceva untrasferimento da parte dello Stato invece che una con-tribuzione da parte da parte sua.

Questo tipo di trasferimento è molto diffuso nelmondo occidentale, anche a seguito della raccomanda-zione 441/92 del Consiglio Europeo, tanto che nel-l’area Euro il nostro paese e la Grecia sono rimasti gliunici ad esserne sprovvisti. Perché l’Europa insiste sulreddito minimo garantito? Perché negli ultimi decen-ni all’idea di uno stato sociale diviso in compartimen-ti per categorie professionali, di matrice bismarkiano-ottocentesca, si è andata sostituendo l’idea di uno statosociale universale nel quale i diritti di sicurezza socialeminimi debbano essere garantiti a tutti, senza condi-zioni o appartenenze. Quest’idea di sicurezza socialenon è una prerogativa delle socialdemocrazie europee,è proposta da autori insospettabili di simpatie social-democratiche come Friedman, campione del liberismodi destra americano. Naturalmente per MiltonFriedman il reddito garantito vuole sostituire quello da

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lavoro, poiché per il massimo teorico del neoliberismonella società moderna la piena occupazione è impossi-bile, anzi è inevitabile che un numero crescente di per-sone resti escluso dalla produzione sociale. Per questomotivo il reddito minimo si è diffuso in tutta Europae nessun governo di destra ne ha messo in discussioneil ruolo e l’importanza. Noi invece crediamo che red-dito minimo e piena occupazione siano obiettivi che sisostengono l’uno con l’altro, poiché il primo può edeve permettere la ricerca di un lavoro soddisfacente ela fuoriuscita dal ricatto del precariato. Dobbiamoquindi discutere della forma di reddito di cittadinanzada adottare, guardando ai bisogni della nostra societàe alla sostenibilità nel lungo periodo, dobbiamo pen-sare come renderlo compatibile con il sistema di am-mortizzatori sociali già esistenti che a loro volta vannoriformati, ma il reddito minimo garantito è uno stru-mento di sicurezza sociale presente in tutta Europa, edè un elemento di arretratezza il fatto che il nostro statosociale non lo preveda.

In ultima analisi, vogliamo affrontare brevemente laquestione del federalismo, chiarendo che gli ideali fe-deralisti di un Cattaneo o di un Salvemini poco hannoa che fare con l’attuale prevalente impostazione leghi-sta, che creerebbe nuove disuguaglianze e disparità so-ciali ed economiche su base geografica. Il federalismo

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è uno dei mantra del governo e della Lega. Nei fattiperò centralizzano le decisioni su tematiche fonda-mentali per i territori e sottraggono i fondi destinatiallo sviluppo del Mezzogiorno e del Paese per destinar-lo a operazioni di clientela. Le ultime manovre fiscali,per di più, hanno accentrato le risorse e mortificato gliamministratori locali, costringendoli a tagliare i servi-zi primari ai cittadini. Non v’è alcun dubbio, quindi,che il federalismo in salsa leghista è una grande pro-messa propagandistica che poco o nulla ha a che vede-re con la possibilità per le regioni e i comuni di gesti-re in proprio le entrate derivanti dalla tassazione.Altrimenti, non si spiega il perché dell’abolizione del-l’unica imposta federalista di peso considerevole cheera presente in Italia ovvero l’Imposta Comunale sugliImmobili. Sulla base del decreto legislativo recente-mente approvato, peraltro quanto mai confuso, si puòcalcolare che, a seguito della perdita di quote di trasfe-rimenti fiscali, a partire dal 2012 il federalismo coste-rà al sud 64 euro per ogni cittadino e le regioni meri-dionali dovrebbero perdere complessivamente 904 mi-lioni di euro all’anno, a fronte di un guadagno che perla sola Lombardia si prospetta di 582 milioni l’anno.Non solo, ma il federalismo fiscale così concepito ac-centuerà la spinta alle privatizzazioni dei servizi pub-blici. In questo modo vediamo avanzare concreti peri-coli di rottura dell’unità del nostro paese e di vera e

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propria secessione delle regioni del nord.Il federalismo così come pensato dalla Lega rappre-

senta un pericolo per la capacità redistributiva internaal Paese e per la tenuta dei conti pubblici, perché illoro primo assunto sostiene che “i nostri soldi devonorestare a casa nostra”. Questa affermazione non consi-dera che le imposte non nascono per ragioni di accu-mulazione, bensì per una causa redistributiva. Inoltre,non considera in nessun modo che alle entrate corri-spondono le spese. E per poter pianificare le spese bi-sognerebbe una volta per tutte, stabilire con critericerti quali sono i livelli e gli ambiti di intervento degliEnti locali.

Abbiamo bisogno di un governo dei territori reale esolidale, non propagandistico; l’Italia ha bisogno delfederalismo istituzionale, prima che fiscale: è necessa-rio ripartire le funzioni fra chi ha la capacità di svolger-le e quando queste capacità difettano, bisogna crearlee svilupparle, anche attraverso forme di collaborazionefra enti locali. Il federalismo che vogliamo ha comecardine il principio di sussidiarietà stabilito dalla CartaCostituzionale, che stabilisce l’intervento di un livellodi governo superiore, in caso di funzioni che non ven-gono svolte in modo appropriato dai livelli inferiori.Perché siamo tutti cittadini italiani.

Le tematiche sviluppate in questo capitolo dimostra-no una volta di più che le scelte economiche in un

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paese non rispondono solo a istanze di natura tecnica,così come i tagli alla spesa sociale non sono ineluttabi-li; il cambiamento del fisco, la ricostruzione del welfa-re, la redistribuzione delle risorse e delle ricchezze,quindi, sono questioni che non possono passare in se-condo piano, ponendo al centro del dibattito politicosolo il ridimensionamento del debito pubblico, perchécon la crisi che morde, rischiamo di lasciare indietropezzi importanti di futuro della società italiana. Siamoconvinti che le misure di Tremonti, cui pure alcuniesponenti del centrosinistra hanno dato il lasciapassarenegli anni precedenti, siano la soluzione finale ai pro-blemi del nostro paese, nel senso che i tagli lineari ope-rati rischiano di infliggere il colpo di grazia allo svilup-po. C’è bisogno piuttosto di una politica economica efiscale complessivamente alternativa, di una visione chenon ritenga necessariamente inconciliabili efficenza edequità46 fondata sul rilancio di un nuovo ruolo delloStato in economia, su più alte retribuzioni e miglioridiritti, su un’istruzione migliore, sulla tutela della pic-cola impresa, del lavoro creativo, sulla difesa dei benicomuni e l’universalizzazione dello stato sociale. Questisono temi di natura squisitamente politica, cui è neces-sario dare risposte chiare e una linea precisa, con unacerta urgenza, perché si tratta di passi fondamentali dacui dipende il futuro di un’Italia migliore.

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Il talento fa quello che vuole

Ascoltando Don’t Stop Me Now dei Queen dall’album Jazz, 1978, EMI

Leggendo Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane di James Joyce,Mondadori, 1997

Vedendo L’uomo che verrà di Giorgio Diritti, 2009

“La vita è piena di scelte, ma a te non ne viene data alcuna!”Charlie Brown da PEANUTS di Charles M. Schulz

Le immagini televisive delle folle urlanti di dolorenella cittadina siciliana di Favara – dove il crollo di unavecchia palazzina inabitabile a causa delle forti pioggeaveva provocato la morte di due bambine – ci restitui-scono una strana sensazione di disagio. Una sensazio-ne simile a quella provata qualche mese prima, in oc-casione della frana di Giampilieri e di Scaletta Zanclea.È lecito chiedersi se tutto quel dolore non nascondaaltro che una gigantesca ipocrisia. Punto di vista illu-minista di chi non conosce il Mezzogiorno, si potreb-be dire. Ma com’è potuto accadere che una comunitàlocale affondasse in condizioni di degrado tali da mi-nacciare la sopravvivenza di chi la abita? Dov’eraFavara mentre il suo centro storico affondava e quan-do le sue case popolari – che erano pronte da anni e

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che avrebbero alleviato il disagio abitativo di molti –venivano travolte dai vandali? Dov’era Favara quandoveniva eletta un’amministrazione comunale che, nelmigliore dei casi, era inefficace e, nel peggiore, compli-ce di poteri che ne inquinano la vita?

Realisticamente i favaresi erano lì. Ma non eranocittadini. O non lo erano abbastanza. Le istituzioni diFavara erano lì, ma non si comportavano da istituzio-ni democratiche. In una situazione ottimale, il degra-do del centro storico avrebbe visto la pronta rispostadelle istituzioni e la mobilitazione dei cittadini, deter-minando un circolo virtuoso fra domanda e offerta dipolitiche volte a risolvere il problema. Allo stessotempo, ai primi ritardi nella consegna delle tanto atte-se nuove case popolari, si sarebbe inevitabilmente crea-ta ulteriore mobilitazione. Il problema sarebbe arriva-to sulle pagine della stampa locale e nelle riunioni delleorganizzazioni politiche e sociali, accelerando l’inter-vento delle istituzioni responsabili che di lì a poco –sotto l’occhio vigile dei cittadini e delle organizzazioniciviche – avrebbero finalmente consegnato gli alloggiai loro legittimi inquilini. Se così non fosse accaduto icittadini di Favara si sarebbero senz’altro organizzatiper eleggere un sindaco e un’amministrazione più ca-paci e in linea con le loro aspettative. In una situazio-ne ottimale, le sorelline di Favara oggi sarebbero anco-ra vive per una ragione semplice: perché la democrazia

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locale funzionava e funzionava bene.Ma, purtroppo, nelle mille Favara d’Italia siamo ben

lontani dalla “situazione ottimale”. E, in questo, ilMezzogiorno è solo una metafora dell’Italia intera: sin-tomi di differente gravità, ma la sindrome è la stessa. Èdel tutto improbabile che vi sia “offerta” di “buona po-litica democratica” se di buona politica democraticanon c’è “domanda”. È anche per questo che, probabil-mente, la stagione del rinnovamento amministrativonel Mezzogiorno iniziata negli anni Novanta, puravendo lasciato una promettente eredità, sembra esser-si in gran parte esaurita. Non si trattava di creare,come purtroppo molti hanno pensato, leader musco-lari e accentratori che tutto decidevano, quanto arenepubbliche nelle quali il piccolo capolavoro di istituzio-ni funzionanti e cittadini attivi potesse replicarsi ognigiorno, fino a trasformarsi in norma virtuosa capace diautoalimentarsi. E allora viene il sospetto che, oggi,nel Mezzogiorno così come nel resto d’Italia, si debbasoprattutto investire nella costruzione della democra-zia, anche per via “straordinaria”.

Per arrivare al punto, abbiamo bisogno di una brevedigressione americana. Lyndon Johnson è stato senz’al-tro uno dei presidenti più sfortunati della storia ame-ricana: pur avendo realizzato alcuni progetti mirabil-mente progressisti che hanno incivilito quel paese, è

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per lo più ricordato per il disastro vietnamita. Tra leiniziative più progressiste che ha assunto nel suo man-dato, vi è uno dei più spericolati esperimenti democra-tici che il paese ricordi. Nel quadro dell’impegno del-l’amministrazione a sostegno dell’integrazione dellacomunità afro-americana, Johnson aveva introdottoun programma chiamato community action che avevafra i suoi obiettivi quello di aumentare la partecipazio-ne degli afro-americani e delle altre minoranze alla vitaurbana. Grazie al programma, giovani e dinamici or-ganizzatori di comunità – gli spesso citati communityorganizer, proprio come il giovane Obama negli anniOttanta – erano inviati nei peggiori ghetti del paesecon il compito di sostenere e stimolare i loro abitantinella formazione di una domanda locale di “buona po-litica democratica”. Attraverso la mobilitazione degliabitanti, si voleva esercitare pressione sull’operato delleamministrazioni locali e delle istituzioni economiche,costringendole a divenire più efficienti nella fornituradi servizi nei ghetti e a divenire più trasparenti e demo-cratiche nel loro funzionamento. L’idea era semplice:“per riformare le istituzioni in senso democratico esconfiggere le discriminazioni, ci vuole una domandadi riforma che provenga dalla comunità afro-america-na oggi esclusa. Noi investiremo sulla creazione diquesta domanda con i soldi pubblici”. Con il sostegnodei community organizer, gli abitanti dei ghetti diveni-

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vano capaci di comprendere il funzionamento di unabanca o di un ufficio comunale, di auto-organizzarsi difronte a un diritto oppresso o a un ritardo ingiustifica-bile nella fornitura di un servizio pubblico, di organiz-zare una campagna per l’iscrizione dei giovani nelleliste elettorali o di rivendicare e realizzare il riutilizzosociale di immobili abbandonati: in sostanza, gli abi-tanti dei ghetti si stavano emancipando e trasforman-dosi finalmente in cittadini. La grande maggioranzadei sindaci e delle amministrazioni delle città coinvol-te non era per nulla entusiasta degli esiti e della filoso-fia stessa del programma: doveva fare fronte alla mobi-litazione continua da parte della comunità afro-ameri-cana, che la costringeva a interrompere il loro confor-tevole “business as usual ”. E l’idea che questa mobilita-zione fosse foraggiata con i soldi del governo federaleera per loro inaccettabile. Anzi, era del tutto parados-sale – ai loro occhi – che il governo federale sostenessei residenti nei loro conflitti con le istituzioni locali. Main realtà si trattava di una lettura appena radicale deicompiti fondamentali delle istituzioni democratiche:l’idea era che, se le istituzioni non funzionano, è lorocompito fondamentale quello di riformarsi e che lastrada migliore per farlo è quella di sostenere i cittadi-ni nei loro sforzi di riformarle. Per via “straordinaria”,se necessario, investendo sui cittadini affinché faccianofunzionare meglio le loro istituzioni.47

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Qualcosa di simile sta succedendo forse in Puglia, conalcuni programmi che intrecciano gli obiettivi di qualifi-care il capitale umano, trattenere e impiegare i giovani,produrre beni pubblici locali in modo nuovo e rafforza-re la democrazia locale, innovando l’azione e lo stile delleistituzioni. L’istituzione del nuovo Dipar timento per laTrasparenza e la Cittadinanza attiva ne è senza dubbioun segno. A livello più concreto, nel quadro del pro-gramma “Bollenti Spiriti”, sono stati finanziati settantu-no laboratori urbani che hanno portato alla riqualifica-zione di circa 150 proprietà pubbliche su iniziativa diret-ta di gruppi di giovani talenti che hanno ricevuto finan-ziamenti sia per la progettazione sia per la fase di start-updelle attività. I laboratori urbani hanno l’obiettivo di of-frire attività culturali, servizi urbani innovativi e luoghidi aggregazione e di crescita civile prima inesistenti. Sitratta di piccoli progetti che, in diversi casi, sono peròriusciti a creare dinamiche virtuose fra mobilitazione deiresidenti, attivazione di competenze e professionalità deigiovani e innovazione dell’azione istituzionale. Questiinterventi hanno una forte e distinta filosofia di fondo.L’obiettivo – per riprendere l’espressione di un sociologofrancese, Jacques Donzelot – è quello di fare società, lad-dove ve ne è più bisogno ma anche laddove le potenzia-lità appaiono più promettenti: ai margini della societàmeridionale, fra le nuove generazioni sottoimpiegate enei territori urbani e metropolitani degradati.48

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Quanto sperimentato in Puglia, da questo punto divista, è un’ottima base di partenza per creare unanuova generazione di organizzatori di comunità chesostengano le società locali nel loro cammino demo-cratico. Per fare ciò va iniettato un capitale sociale cheargini quello tossico diffuso dalle reti clientelari e degliinteressi mafiosi. È una strada a basso costo e a forteimpatto perché consente di contenere l’emorragia digiovani qualificati che ogni anno lasciano la loro terra.Dare loro, dunque, la possibilità di ideare e gestireprogetti di cambiamento sociale, per valorizzare titolidi studio, esperienze sul campo e formazione.

Il nostro paese è il più grande esportatore di studen-ti, ricercatori, accademici e lavoratori del vecchio con-tinente: l’esodo non riguarda solo i giovani che voglio-no specializzarsi o al primo impiego, ma anche lavora-tori qualificati in cerca di migliori opportunità, di mo-tivazioni, di occasioni per se stessi e per le proprie fa-miglie. Vanno via, senza troppo rimpianto o nessunaipotesi di rientro perché non esiste alcuna forma di sti-molo o di incentivo per fare in modo che chi parte,una volta specializzato o maturato attraverso esperien-ze lavorative qualificanti, possa tornare o restare incontatto con l’Italia per mantenere un legame, unoscambio proficuo di conoscenze acquisite e di compe-tenze maturate.

In questo scenario le migliori risorse italiane stenta-

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no a prefigurarsi un ruolo attivo, propositivo, utile eimportante nella nostra geografia sociale. La politica alpotere ha il dovere di indagare le cause dell’emorragiae di misurare il potere del talento e gli effetti che pro-voca sul nostro territorio. C’è bisogno di una politicalungimirante, che pensi all’Italia di qui a vent’anni conun programma che metta al centro le risorse umane,finanziarie e fiduciarie. La fuga dei cervelli è in primisuna questione occupazionale e retributiva. Fuori dalsistema formativo superiore, quello che aspetta i talen-ti più giovani è un ambiente sociale ed economicobloccato, incapace di assorbire e utilizzare al meglio leloro competenze e il loro potenziale.

Il nostro è l’unico paese dell’area Ocse in cui il tassodi disoccupazione nella popolazione tra i 30 e i 40anni è maggiore tra i laureati che tra i diplomati. Glistipendi dei laureati sono mediamente molto bassi,conformati a quelle dei neodiplomati. La maggiorparte dei neolaureati vive con meno di 1000 euro almese. Sotto la soglia degli 800 euro ci sono più giova-ni laureati che titolari di licenza elementare. I laureatipiù vecchi sono retribuiti molto di più di colleghi piùgiovani che abbiano lo stesso titolo.

Per le nostre risorse migliori, si tratta di un alluci-nante meccanismo di disincentivazione all’impegno eall’attivazione all’interno del nostro sistema nazionale.

Le attuali economie del nord del mondo vivono

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un’epoca di trasformazione, post-industiale, post-mo-derna e post-fordista in cui prevale la posterità, la di-stanza e la radicale discontinuità rispetto alle formedella produzione del valore del Novecento: gli inputmateriali – il lavoro, le macchine, le materie prime –lasciano spazio a quelli immateriali legati alla cono-scenza, alle idee e alla creatività, aspetti nodali per con-vertire i saperi in innovazione e sviluppo.

In questa transizione, il nostro paese si è smarrito,incapace di scegliere se competere con i paesi emergen-ti sul minor costo della manodopera (una battagliapersa prima di cominciare) o con i Paesi più avanzati,investendo su ricerca e innovazione, effettuando quel-la che l’economista Gianfranco Viesti chiama oppor-tunamente “manutenzione straordinaria” della pro-grammazione economica italiana. “Quello della crisi èun tempo che richiede abilità fuori dal comune: gesti-re l’esistente, impedire che svanisca; e al tempo stessoprogettare e attuarne il progressivo cambiamento.”49

E non si tratta solo di una questione economica. Atre anni dalla laurea, dicono le statistiche, un terzo deilaureati che trova lavoro non svolge un’occupazioneper la quale è necessario il titolo di cui è in possesso.Un esercito di sottoccupati che svolge compiti per cuisono necessarie qualifiche decisamente inferiori rispet-to alla laurea.

Mentre il mondo è in cerca di nuove soluzioni, di

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nuove vie d’uscita dalla crisi, esplorando con il lanter-nino le strade nell’economia della conoscenza, dell’in-novazione, delle competenze altamente specializzate equalificate, il sistema italiano sembra precipitare perinerzia nella direzione opposta: verso livelli inferiori dispecializzazione, verso una minore valorizzazione dellecompetenze, verso un’insopportabile e gerontocraticasclerosi sociale ed economica.

Il talento quindi deve tornare ad essere un’unità dimisura. Anticamente era usato come misura moneta-ria. Oggi è nuovamente sinonimo di produzione diricchezza. I giovani che viaggiano per il mondo creanouna fitta rete di contatti che le istituzioni dovrebberoessere in grado di non disperdere.

Seguendo questa direzione la Puglia ha puntato sullegame tra il suo territorio e i suoi emigrati “eccellen-ti”, favorendo lo scambio di conoscenze tra le figurepiù autorevoli del mondo accademico, imprenditoria-le, umanistico e scientifico. Grazie alla “Rete dei talen-ti”, i pugliesi che hanno lasciato la regione tornano adavere un rapporto con la propria regione; aggiornatisullo stato dell’arte delle politiche regionali contribui-scono a informare la regione sulle opportunità di for-mazione all’estero e partecipano a commissioni tecni-co-scientifiche per la valutazione di progetti sulle poli-tiche giovanili. Restituire fiducia alle istituzioni, farletrovare aperte al dialogo favorisce anche il rientro dei

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cervelli. Recentemente questo ha consentito aGiancarlo Logroscino, pluripremiato neurologo di ori-gini pugliesi e professore presso il Department ofEpidemiology School of Public Health della HarvardUniversity di Boston, di rientrare in Italia pressol’Istituto di Neurologia della facoltà di Medicina diBari.

Il paese potrebbe solo trarre beneficio dall’impattomolecolare di alcune migliaia di giovani brillanti invia-ti allo Zen come a Favara, a Librino come a VillaLiterno – ma non solo, perché non nel resto del paese?– e impegnati in una capillare campagna di alfabetiz-zazione civica oppure in un progetto innovativo con-tro la dispersione scolastica, in una campagna per lapartecipazione elettorale fra i giovani oppure in unprogetto di agricoltura urbana con la partecipazionedegli adolescenti. Trattenere molti dei giovani destina-ti alla migrazione, impegnarli al servizio della comuni-tà, reinventare la democrazia locale a partire dai suoimargini, prendersi cura di un territorio violentato: sa-rebbero questi i capisaldi della nuova stagione politicaitaliana. Un nuovo programma capace di dare il sensodi come dovrebbe essere percepito il Mezzogiornodagli italiani del Ventunesimo secolo: come una nuovafrontiera, da conquistare collettivamente, grazie alleenergie dei suoi giovani migliori.50

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Noi crediamo che ci sia un’Italia migliore: un paesesenza paura, capace di puntare sul talento delle perso-ne che vi abitano e lavorano, in cui le competenze e leenergie vengono stimolate, coltivate e valorizzate.

Noi accettiamo la sfida globale della circolazione,agendo da protagonisti, attraverso nuovi patti etici emateriali con chi prova l’avventura dell’altrove da qui.

Pensiamo a un programma nazionale per la valoriz-zazione del talento, che coinvolga il sistema delle uni-versità, delle imprese e dei meccanismi pubblici di in-centivi.

Un’azione ad ampio raggio capace di innescare uncortocircuito positivo tra talento, inventiva e passionedegli italiani e quel bisogno di innovazione sociale, eco-nomica e culturale indispensabile per risalire la china.

Un dispositivo in grado di restituire ai talenti spe-ranza verso il sistema Italia, che trasmetta fiducia alproprio paese, dove è possibile costruire percorsi pro-fessionali gratificanti per sé stessi e per l’intera comu-nità, dove le capacità e i meriti sono al centro della va-lorizzazione delle competenze acquisite.

Vogliamo restituire dignità, riconoscimento socialee opportunità a chi lavora per cercare soluzioni, a chiapre e persegue nuove strade, a chi sperimenta nuovisaperi, produce nuove scoperte e invenzioni, premian-do i più preparati invece dei raccomandati.

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Da una società in frantumi, da un sud etichettatocome la palla al piede dello sviluppo italiano c’è biso-gno di tornare a un’Italia in grado di rispecchiarsi nelleenergie migliori dei propri giovani ma per questo oc-corrono investimenti e fiducia: il talento non si puòdefinire fin quando non gli venga offerta l’opportuni-tà di riconoscersi.

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Cosa sono le fabbriche di nichi

“Gruppi di sostegno”, “circoli on-line”, “un po’ atelier,un po’ internet point”, “dal sapore vintage”. Così lastampa nazionale, definisce le fabbriche di nichi. I po-litici di professione si affrettano a etichettare l’espe-rienza come: “Sono solo comitati elettorali!”. PersinoGiulio Tremonti, il Ministro dell’Economia si scomo-da per sentenziare: “Sentendo parlare di fabbriche unopensa si tratti di manifatturiero, poi scopre che sono icentri sociali finanziati da Nichi Vendola”.

Come nasce e cos’è, invece, la fabbrica di nichi?Cosa vuole il movimento nato nel tacco d’Italia a so-stegno della rielezione di Nichi Vendola a presidentedella regione Puglia?

PrologoAutunno 2009: alle soglie della scadenza del primo

mandato di governo, tutti si chiedono “che ha fattoNichi Vendola”? Che risultati porta a casa il governo

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nato 5 anni prima dall’innovazione politica e socialedelle primarie (prima) e dalla clamorosa vittoria con-tro la corrazzata del centro-destra pugliese (poi)?

A parlare, sono i fatti. La Puglia è leader in Italia perproduzione di energie rinnovabili. Il Governo regiona-le tutela il diritto al lavoro attraverso interventi di inter-nalizzazione e stabilizzazione che coinvolgono migliaiadi lavoratori. Con il programma per i giovani “BollentiSpiriti”, i progetti dell’Apulia Film Commission e delTeatro Pubblico Pugliese e le misure dell’Agenzia per laTecnologia e l’Innovazione, l’Amministrazione regio-nale mette in campo dispositivi d’avanguardia di soste-gno all’alta formazione, alla ricerca, alla cultura e allacreatività. Nonostante la crisi internazionale, il borsinoregionale del turismo registra segno positivo sui dati diarrivi e presenze nelle località pugliesi. La Regioneprende posizione a tutela dell’acqua come bene comu-ne contro ogni ipotesi di privatizzazione dell’acquedot-to pugliese.

La Puglia di Nichi appare una regione proiettataverso il futuro, più ricca e attrattiva, innovativa, soste-nibile e accogliente. “È il sud che non vuole essereGomorra”, sostiene Vendola.

La fabbrica, atto primoIl 15 novembre 2009 Nichi Vendola convoca il

primo raduno della fabbrica di nichi, una giornata di

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politica e partecipazione aperta a tutti i cittadini pu-gliesi, alle realtà associative, alle esperienze di attivazio-ne e cittadinanza, alle forze politiche e sociali, demo-cratiche e progressiste.

Il presidente chiama a raccolta il suo popolo in ungrande evento all’insegna dello slogan “Tutti protago-nisti, nessuno spettatore”. Durante la lunga giornata dilavori, traccia il bilancio della sua esperienza di gover-no, raccoglie idee per il futuro della Puglia e proponeal centrosinistra l’indizione di nuove primarie.

Da un lato c’è un popolo che sostiene la continuitàdi un’esperienza di cambiamento, dall’altro i principa-li politici pugliesi e nazionali del centro-sinistra chechiedono al governatore un passo indietro.

La fabbrica di nichi nasce così: un movimento dipartecipazione popolare, a difesa di un’esperienza digoverno. Un’inedita alchimia tra vicende di palazzo emobilitazione di piazza.

Solo contro tuttiLa pressione popolare da un lato e il montante im-

barazzo dentro le stanze della politica dall’altro spingo-no il Partito Democratico ad accettare le primarie, in-dette per la fine del mese di gennaio 2010. Le prima-rie per la fabbrica di nichi rappresentano il momentodell’organizzazione. Nello schema tradizionale, si crea-no comitati elettorali al fine di promuovere mobilita-

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zione elettorale allo scopo di vincere le elezioni. Alcontrario, nell’esperienza della fabbrica, la spinta dalbasso e la nascita di una comunità di attivisti, generauna nuova forma di organizzazione. Non un semplicestrumento di campagna elettorale, ma un vero e pro-prio progetto di partecipazione. Una “piattaforma” ingrado di coinvolgere volontari di tutta la Puglia in unprocesso di attivazione e connessione in cui idee, pro-poste e informazioni di ogni genere nascono e si dif-fondono in tutta la regione, attraverso il web e la rea-lizzazione di iniziative sul territorio.

Il refrain dei sostenitori di Boccia è “Vendola è solocontro tutti”. La fabbrica gioca con le parole. Tira unalinea sulle ultime tre lettere della parola “contro” e ri-balta il concetto. È vero, Nichi è solo. Con tutti.

Il 23 gennaio 2010 Nichi Vendola chiude la campa-gna elettorale delle primarie a Bari di fronte a unapiazza entusiasta gremita di uomini, donne, giovani eanziani.

L’esito delle urne supera anche le aspettative dei piùottimisti: Vendola, con il 67% dei consensi, è (per laseconda volta) il candidato presidente della regione delcentro-sinistra.

Reti e strumenti Mentre si alzano i toni della campagna elettorale, da

Bari la fabbrica promuove la creazione e la messa in

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rete di nuove fabbriche su tutto il territorio regionale. Il 13 febbraio 2010, le fabbriche si riuniscono nuo-

vamente a Bari con oltre 200 referenti di gruppi terri-toriali che ricevono informazioni sulle strategie e suglistrumenti on e off line “per la realizzazione di unacampagna partecipativa, creativa e low cost”.

La fabbrica di Bari fa da hub e, attraverso il sito,mette a disposizione della rete contenuti e strumentiper l’attivazione, favorendo così le relazioni. Creandoil proprio profilo è possibile accedere ad alcune funzio-ni di base per aprire una fabbrica nel proprio territo-rio, creare un evento, mettersi a disposizione dellacampagna elettorale come volontario.

La mappa georeferenziata comincia a popolarsi ditante piccole icone rosse, tracce virtuali degli oltre 200gruppi che dal Gargano al Salento si mobiliterannofino alla data del voto.

Alla fine della campagna elettorale, senza una pro-grammazione centrale e grazie alla spontanea messa incampo di preziose competenze professionali, sarannooltre 300 gli eventi auto-organizzati dalle fabbriche intutta la Puglia.

Le fan-page su Facebook di Nichi Vendola e dellafabbrica hanno un ruolo strategico per la circolazionedei contenuti prodotti dalle fabbriche, stimolano ladiffusione di idee e opinioni, veicolano dati e informa-zioni. Le videolettere su Youtube in breve tempo di-

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ventano uno dei principali strumenti del presidenteper dettare l’agenda della campagna elettorale, rispon-dere agli avversari, comunicare con tutti i cittadini pu-gliesi.

Nasce Nichipedia, l’enciclopedia aperta gestita daeditori volontari, uno strumento on-line per promuo-vere il dibattito e la produzione di contenuti da partedei cittadini sul futuro della Puglia.

Con le “buone azioni”, le fabbriche promuovono lapartecipazione dei cittadini tramite interventi di mi-glioramento del territorio e di comunicazione socialenon convenzionale. Un esempio tra gli altri è rappre-sentato da “Questa aiuola è di tutti” – un’azione digiardinaggio sociale ispirata alla pratica del guerrillagardening – che ha coinvolto i cittadini di più di 300comuni pugliesi impegnati nella riqualificazione parte-cipata di un’area verde degradata.

La fabbrica è un luogo dove i legami tra cittadini,comunità e territori producono un nuovo senso civico.

Epilogo. Questa è una storia a lieto fineIl 29 marzo 2010 Nichi Vendola e le sue fabbriche

vincono le elezioni. La Puglia può continuare a porta-re avanti il laboratorio di innovazione politica, socialeed economica sperimentato in questi anni.

“La Puglia si è voluta bene” è la prima frase pronun-ciata dal presidente sul palco della vittoria. Il primo

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ringraziamento è per le fabbriche e per tutti gli attivi-sti impegnati nella campagna elettorale, a riconosci-mento di una soggettività politica e sociale che, al di làdi ogni pianificazione, ha assunto “in corsa” forma econtenuti sulla base di intuizioni distribuite e ognivolta parziali.

Nel frattempo, la sinistra italiana versa in una crisiapparentemente senza soluzione: una crisi di relazionicon vecchi e nuovi corpi sociali che si traduce in unacrisi di consenso e di idee, di visione e di metodo chesi trasforma in immobilismo politico.

Il nome: “La fabbrica (di) nichi” – in cui di non è lapreposizione che indica l’appartenenza ma il comple-mento di origine – non è la ricerca di un leader, mal’origine di una narrazione alternativa. Il racconto ini-zia a materializzarsi il 15, 16 e 17 luglio conEyjafjallajökull – Eruzioni di buona politica. Una tre-giorni dedicata agli stati generali delle fabbriche in cuitutte le fabbriche attive sul territorio e tutte le personee i collettivi interessati al progetto si sono dati appun-tamento a Bari per parlare dell’Italia e del mondo e co-struire la politica del futuro. Un festival della buonapolitica che ha visto la partecipazione di oltre 5000partecipanti a 20 seminari (con relatori rigorosamenteunder 40), e al barcamp con oltre 100 interventi pro-posti dalle fabbriche.

Le ormai oltre 500 fabbriche, nate su tutto il territo-

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rio nazionale, condivideranno una scelta costruita sullascommessa di un sistema a intelligenza distribuita, chericonnette parole e pratiche di buona politica.

La fabbrica di nichi sostiene oggi una nuova sfida:riconnettere il meglio del nostro passato col meglio delnostro futuro, mettere insieme tutti quelli che credonosia ora di provare a cambiare davvero questo paese. Perun’Italia migliore.

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Istruzioni per l’uso

UNOLibertà è partecipazioneGiorgio GaberLa fabbrica di nichi è un’esperienza plurale, aperta e collaborati-va che vuole rinnovare il linguaggio e le pratiche della politica.

DUENon cercare di diventare un uomo di successo, ma piuttosto unuomo di valore.Albert EinsteinL’azione della fabbrica di nichi è ispirata all’uguaglianza, alla giu-stizia sociale, alla libertà, al bene comune, alla cooperazione, allanon violenza, alla partecipazione attiva, alla solidarietà, al mu-tualismo, alla differenza, all’interculturalismo e ai valori fondan-ti della Costituzione italiana.

TRESe i partiti non rappresentano più gli elettori, cambiamoli questibenedetti elettori.Corrado GuzzantiLa fabbrica di nichi non si presenta alle elezioni e non è un nuovopartito politico. La fabbrica di nichi è fatta di persone. Non cisono tessere. Si può partecipare senza dover “appartenere”.

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QUATTROSe hai mille idee e soltanto una risulta essere buona, sii soddi -sfatto.Alfred NobelLa fabbrica di nichi è un luogo pubblico, uno spazio per incon-trarsi e condividere idee, esperienze, progetti.Aprire una fabbrica di nichi significa prima di tutto essere ungruppo. Non importa se più o meno numeroso: sarà possibile al-largarsi e crescere di giorno in giorno.È preferibile scegliere per la fabbrica di nichi una sede funzionale,accogliente e con spazi necessari a ospitare le attività.Indipendentemente dalla natura del luogo in cui è ospitata(sede propria, circolo di partito, associazione, ecc.) la fabbricadi nichi deve essere un luogo aperto a chiunque voglia parteci-pare al progetto.Occorre nominare un referente, una persona del gruppo con ilcompito di coordinare le attività e mantenere i rapporti con lafabbrica di nichi di Bari e con le altre fabbriche.

CINQUETutte le idee che hanno enormi conseguenze sono sempre ideesemplici.Lev TolstojLa fabbrica di nichi utilizza come base organizzativa e di coordi-namento la piattaforma http://fabbrica.nichivendola.itPer rendere pubblica la fabbrica di nichi, occorre utilizzare lapiattaforma, registrandosi e accedendo alla funzione “Apri unafabbrica”.L’unica formalità richiesta per l’apertura di una fabbrica è l’ap-provazione iniziale da parte della fabbrica di nichi di Bari.Attraverso la piattaforma sarà possibile accedere e condividere

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strumenti e materiali di comunicazione.

SEINella vita ci sono un mucchio di cose più importanti del denaro.Ma costano un mucchio di soldi!Groucho MarxOgni fabbrica di nichi si autofinanzia mediante contributi vo-lontari e attività di fundraising.Per ogni raccolta va redatto un rendiconto trasparente che de-scriva in modo scrupoloso e inequivocabile fonti di finanzia-mento e utilizzi.

SETTEL’ingiustizia in qualsiasi luogo è una minaccia alla giustiziaovunque.Martin Luther KingLa fabbrica di nichi di Bari funge da hub per tutte le altre fab-briche sul territorio e, in caso di controversie, ha la responsabili-tà di decidere, in base ai i valori fondanti e alla salvaguardia delfuturo dell’esperienza.

OTTOSi fanno regole per gli altri ed eccezioni per sé.Charles LemesleOgni regola ha le sue eccezioni. Cerchiamo però di ridurle al mi-nimo. Resteremo, comunque, un’esperienza eccezionale.La fabbrica di nichi?

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Sostieni

La fabbrica di nichi si fonda sull’autofinanziamento e su contribu-ti volontari, se vuoi aiutarci puoi farlo con una sottoscrizione onli-ne o tramite bonifico bancario.

Sottoscrizioni mediante carta di credito “online” sul sito:http://fabbrica.nichivendola.it/sottoscrizione-on-line/

Sottoscrizioni mediante bonifico bancarioLe sottoscrizioni a mezzo bonifico bancario vanno effettuate sulconto corrente bancario intestato a Associazione “La Fabbrica diNichi” c/o Banca Federiciana – filiale di BARI con le seguenticoordinate bancarie: IT35 B 03323 04000 0000 1001 3407.La causale da indicare nel bonifico è la seguente: “Sottoscrizioneattività La fabbrica di Nichi”.Per sottoscrizioni di importo superiore a 1000,00 euro prima dieffettuare il bonifico si prega di contattare direttamentel’Associazione inviando una mail all’indirizzo: [email protected]

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Note

1. Accornero A., Era il secolo del lavoro, Il Mulino, 1997.2. Rifkin J., La fine del lavoro, Baldini e Castoldi, 1997.3.http://www.oecd.org/document/14/0,3343,en_2649_33933_

38910286_1_1_1_1,00.html.4. Tajani C., Crescita diseguale, diseguale recessione, www.eco-

nomiaepolitica.it, 2008.5. Sylos Labini P., Saggio sulle classi sociali, Laterza, 1988.6. Cavallaro L., Tra due destre, Cattedrale, 2008.7. http://www.rassegna.it/articoli/2010/09/28/66944/ed-mili-

band-e-il-nuovo-corso-del-labour.8. Giddens, A., (2000) “The Third Way and its critics”,

Cambridge Polity Press.9. Berta G., Eclisse della socialdemocrazia, Il Mulino, 2009.10. http://www.project-syndicate.org/commentary/rajan7/English

“se avessero potuto permettersi una macchina nuova e una va-canza esotica ogni tanto, forse non avrebbero notato che il lorosalario restava stagnante”.

11. Roubini N., Mhim S., La crisi non è finita, Feltrinelli, 2010,p. 158.

12. http://www.oecdobserver.org/news/fullstory.php/aid/2751/13. Kenen P., (1969), “The Theory of Optimum Currency

Areas: an eclectic view”, in Monetary Problems of theInternational Economy, a cura di Mundell R., e Swooboda,A., University of Chicago Press, p. 45.

14. Watt A., Una politica fiscale anticiclica in Dopo la crisi,Edizioni dell’Asino, 2010.

15. http://www.letteradeglieconomisti.it/.16.http://www.bancaditalia.it/eurosistema/comest/pubBCE/mb

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/2010/dicembre/mb201012.17. http://www.lavoce.info/articoli/pagina1000075.html.18. http://www.nelmerito.com/index.php?option=com_con-

tent&task=view&id=34&Itemid=1.19. http://www.cgil.it/tematiche/default.aspx?ARG=POLAV.20. http://www.economiaepolitica.it/index.php/lavoro-e-sinda-

cato/un-contratto-precario-per-tutti-2/21. Tangian A., Not for bad weather: macroanalysis of flexicurity

with regard to the crisis, ETUI WP 2010/6.22. Gallino L., Il lavoro non è una merce, Laterza, 2007.23. In Italia l’assenteismo è ben al di sotto della media europea

http://www.eurofound.europa.eu/ewco/studies/tn0911039s/it0911039q.htm.

24. Ma accettandoli prontamente negli Usa e in Serbia.25. Panara M., “La Fiat, Mirafiori e il mantra ambiguo della

produttività”, La Repubblica 6-12-2010.26. Giugni G., Diritto sindacale, Cacucci, 2006, p. 43.27. Leonardi S., Gli accordi separati: un vulnus letale per le rela-

zioni industriali, Quaderni di Rassegna Sindacale 2010/3.28. http://www.economiaepolitica.it/index.php/mercati-com-

petizione-e-monopoli/di-mercato-che-cosa-significava/.29. Derrida J., Spectres de Marx 1993; trad. it. di G. Chiurazzi,

Spettri di Marx, Raffaello Cortina, 1994.30. Monni S., Spaventa A., Shifting the Focus from Paradigms to

Goals: A New Approach Towards Defining and AssessingWellbeing, Working paper n. 114, Department ofEconomics, Roma Tre University, April 2010.

31. http://hdr.undp.org/en/statistics/.32. Reichlin A., Il midollo del leone, Laterza, 2010.33. Panara M. La malattia dell’Occidente. Perché il lavoro non

vale più, Laterza 2010.

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34. Crouch C., Postdemocrazia, Laterza, 2003.35. Raimo C., su il manifesto il 30 ottobre 2010 “Berlusconi.

Trasgressioni al potere”.36. Fitzgerald F.S., Il grande Gatsby, Oscar Mondadori, 1965,

traduzione di Fernanda Pivano.37. Dobbiamo questa idea del Pns al Prof. Umberto Sulpasso

che ne sta facendo una battaglia globale assai condivisibile.38. Si legga l’importante libro La fabbrica della cultura di Walter

Santagata, Il Mulino, 2007.39. Idem.40. Per costo marginale s’intende il costo sopportato per garan-

tire l’accesso di ogni spettatore in più allo spettacolo o almuseo.

41. Stefano Ciccone, Essere maschi. Tra potere e libertà, Rosenberg& Sellier, 2009.

42. http://www.cpt.coe.int/documents/grc/2009-20-inf-eng.htm.

43. Alla finestra la speranza. Lettere di un vescovo, Don ToninoBello, San Paolo Edizioni, 2004.

44. Salvatore Scoca, Assemblea Costituente, 23 maggio 1947.45. Edmondo Berselli, L’economia giusta, Einaudi, 2010.46. Stiglitz, J.E., Il ruolo economico dello Stato, il Mulino 199747. Alessandro Coppola, Come impedire una nuova Favara,

Rassegna.it,http://www.rassegna.it/articoli/2010/01/29/57661/come-impedire-unaltra-favara.

48. Id., E se i giovani meridionali tornassero a casa?, Il Mese diRassegna Sindacale, ottobre 2010, http://www.rassegna.it/arti-coli/2010/10/14/67547/e-se-i-giovani-meridionali-tornasse-ro-a-casa.

49. Gianfranco Viesti, Più lavoro, più talenti, Donzelli, 2010.50. Alessandro Coppola, E se i giovani meridionali tornassero a

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casa?, Il Mese di Rassegna Sindacale, ottobre 2010,http://www.rassegna.it/articoli/2010/10/14/67547/e-se-i-giovani-meridionali-tornassero-a-casa.

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Ringraziamenti

L’elenco seguente racchiude i nomi di chi ha collabo-rato in modo diverso alla produzione materiale di que-sto libro, ma tante altre sono le persone che hannopermesso che questo lavoro fosse possibile. Anche aloro va il nostro grazie.

Antonello Antonicelli, Nico Bavaro, Paolo Brunori,Danilo Calabrese, Gaetano Cataldo, Luigi Cavallaro,Alessandro Coppola, Stefano Ciccone, ValentinaColonna, Roberto Covolo, Vincenzo Cramarossa,Vito Cramarossa, Corrado Cristiano, VincenzoD’alba, Maurizio Di Fronzo, Lea Durante, FlaviaGiordano, Marco Gozzellino, Elda Grazioso, RenatoGrelle, Francesca Gruppi, Calogero Guzzetta,Francesca La Forgia, Francesco Maggiore, FrancescaMarchetta, Silvio Maselli, Salvatore Monni, CeciliaNavarra, Giampietro Occhiofino, Sonia Pellizzari,Sabino Persichella, Ines Pierucci, Germana Pignatelli,Francesca Ranieri, Domenico Riccio, Maria GraziaRongo, Ernesto Maria Ruffini, Kita Schiralli, AntonioSpera, Valerio Sterzi, Cristina Tajani, Mattia Toaldo,Mattia Venturato, Gabriella Viesti, Giorgio Zecca.

Infine il Centro per l’Autonomia AusiliotecaCampana (CAAC)

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Indice

Il cuore oltre l’ostacolo 5Camminare domandando 14

Incoscienza di classe 17La speranza urbana (Il governo della cura al servizio di una città giusta ) 41La fabbrica della creatività 54La scuola chiude la prigione 67Patria/Matria 78Uguali davanti alla legge 88C’è un mondo migliore 100Nessuna persona è illegale 112Černobyl’ non è più qui 127Il fisco giusto 138

Il talento fa quello che vuole 157Cosa sono le fabbriche di nichi 170Istruzioni per l’uso 178Sostieni 181

Note 183Ringraziamenti 189

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Finito di stampare per conto di Fandango Libri s.r.l.nel mese di gennaio 2011presso Grafiche del Liri

03036 Isola del Liri (FR)

Redazione Fandango Libri