© 2010 Fandango Libri s.r.l. -...

72

Transcript of © 2010 Fandango Libri s.r.l. -...

© 2010 Fandango Libri s.r.l.Viale Gorizia 1900198 Roma

Tutti i diritti riservati

ISBN 978-88-6044-179-9

Copertina:foto di Frank Heuer/Caption/Contrastoprogetto grafico Studio Jelliciinserto fotografico di Antonio Cilurzo, courtesy artist

www.fandango.it

Stampato su carta Oikos delle Cartiere Fedrigoni. Carta riciclata non patinata, composta dal 50% di fibrericiclate e dal 50% di pura cellulosa ecologica certificata FSC.

Mauro Francesco Minervino

Statale 18

La vicenda umana non è altro che una ininterrotta geo-grafia… Nulla affina e forma la ragione addestrata piùdella geografia… e una delle più grandi manchevolezze èquando non si sa in quale luogo una cosa sia accaduta, oche cosa questo abbia comportato.

Immanuel Kant, Geografia fisica

Viviamo su una montagna.Proprio sulla cima

C’è una vista bellissima.Dalla cima della montagna

ogni mattino cammino verso i limitie butto giù piccole cose

come pezzi di macchina,bottiglie e posate

o qualsiasi cosa io trovi lì intorno.È diventata un’abitudine

un modo per cominciare la giornata.Faccio tutto questo

prima che tu ti svegliper sentirmi più felice

di essere ancora in salvo qui con te.

Björk, Hyper Ballad

do ci sto dentro fino al collo, come nell’immaginazio-ne di prima. Lo faccio per sfuggire con un qualche sal-vacondotto della mente all’esilio di un mondo chenon so più se riconosco e, mi rendo conto, non è maistato il mio.

Statale 18, a sud di GomorraArriva in Calabria sbucando a nord dalla costa roc-

ciosa e ancora quasi spopolata sotto Maratea, ma nelgiro di qualche chilometro la SS18 è destinata adiventare via via come uno spiedo appuntito che tra-passa e infilza tutta la polpa umana e sociale dei cen-tri principali che stanno affacciati uno dopo l’altrosulla costa tirrenica. Paesi antichi e un tempo isolati,balconi affacciati sul mare, sulle campagne verdi eubertose e sulle spiagge sgombre di case e libere finoagli anni Sessanta. Ora la strada che li ha sgonfiati erigonfiati a dismisura facendoli scivolare fin sotto lespiagge, salda tutti i centri abitati a un’unica frangiadi cemento e asfalto di fronte al mare. Uno dopo l’al-tro la statale oltrepassa decine di comuni, contrade efrazioni. Le marine congestionate di Tortora, Praia aMare, San Nicola Arcella, Scalea, Santa Maria delCedro, Cirella, Diamante, Belvedere Marittimo, San-gineto, Cittadella del Capo, Cetraro, Acquappesa,Guardia Piemontese, Fuscaldo, Paola – il nodo citta-dino più grosso tra i centri costieri inanellati dallaSS18 –, San Lucido, Fiumefreddo Bruzio, Longobar-di, Belmonte, Amantea, Falerna Marina, Gizzeria

14

mariafarago
mariafarago
mariafarago
mariafarago
mariafarago

Lido, passa poi vicino alla piana di Lamezia, a margi-ne dell’area industriale e all’aeroporto di LameziaTerme, riaccosta di nuovo il mare e attraversa la costaintensamente turistizzata tra Pizzo Calabro e ViboValentia (con le concentrazioni immobiliari di Tropeae Capo Vaticano), Nicotera e Mileto. Poi viene lapiana di Rosarno e gli agrumeti controllati da coschee caporali. La strada rivede la costa a Gioia Tauro,Palmi, Bagnara Calabra, Scilla, Villa San Giovanni(da dove partono i traghetti e passa tutto il traffico sugomma per la Sicilia), e arriva infine davanti allostretto, terminando il suo percorso a Reggio Calabria,spegnendosi quasi anonimamente dopo aver attraver-sato tanti luoghi diversi e portato con se tanto traffi-co, agitazione e scompiglio, in un modesto vialettoche si perde tra le auto parcheggiate sotto le case delquartiere urbano di Santa Caterina.

La SS18 è una delle strade più battute dalla storia delsud. Quella che fu la Strada per le Calabrie, dai Bor-boni al Risorgimento, è poi la stessa che ha cambiatola storia e il paesaggio di chi ci vive dal secondo dopo-guerra fino ad oggi. Si comincia quando con l’urgen-za della ricostruzione, e forti di ben altre ragioni, sirimettevano in piedi le case dei paesi distrutte dallebombe, quando gli abitanti delle vecchie contradecollinari e delle campagne hanno cominciato a spo-starsi sulla costa per vedere e toccare finalmente ilmare. Il sud è terra di paradossi e sangue pazzo, e spes-so l’eterogenesi dei fini ammazza ogni ragionamentoe avvelena le sorgenti di ogni buona intenzione. Dalla

15

ricostruzione in poi si è aggiunto cemento a cementoe sulla via del mattone con i cantieri e le ruspe non cisi è più fermati: fino all’espansione incontrollata, l’a-poteosi del brutto che coincide con la più recente emostruosa saturazione urbanistica della storia. È unaderiva inarrestabile, che lascia ancora oggi mano libe-ra alla devastazione delle aree più belle per il paesag-gio e la storia che questi luoghi rappresentano per laciviltà, non solo dei calabresi ma di tutti gli italiani.Basta dare uno sguardo a qualche vecchia cartolina,persino a colori e neanche troppo ingiallita, per farsiun’idea del salto. Fino agli anni Cinquanta-Sessantadel Novecento questo pezzo di Calabria di fronte almare di Odisseo era un paesaggio ameno e ordinato,circoscritto alla geografia minore ma pur sempre vita-le che nel lungo periodo segnava i luoghi con un cam-panile, un castello, un borgo antico e la bella campa-gna intorno coltivata con cura. Ma c’è altro che gliinteressi edilizi e il saccheggio del territorio compiutoin mezzo secolo lungo tutto il percorso della statale 18significano da queste parti. Il sacrificio non ha ricevu-to contropartite felici. C’è un’ineludibile moralitàdelle cose quando si parla di terra, di uomini e dinatura. C’è un’altra contabilità che di questo olocau-sto è ingrato fare, ma che va fatta. Il consumo del ter-ritorio e l’invadenza delle costruzioni oggi non grava-no solo sull’ambiente. Non sono solo più terreno sot-tratto alla natura e all’agricoltura, e perciò meno bel-lezza, meno aria, meno cielo e mare, meno acquapulita e spazio per tutti. Costruire, abitare e pensaresono in fondo una cosa sola. Qui sono anche causa ed

16

effetto di una cocente disfatta culturale, di un muta-mento di costume e di abitudini umane e sociali le cuiconseguenze non sono in minor grado gravi e dispe-rate dei danni terribili già inferti dalle pretese spazia-li: la mostrificazione antropologica della vita dei paesie degli abitanti raccolti sulla strada è l’ulteriore con-ferma del dominio di un’ideologia per la quale non cisono, non ci sono mai state e non ci saranno maialternative all’individualismo più sfrenato, al neolibe-rismo più distante dalla vera libertà, al ripiegamentonel passato feudale e reazionario più lontano dallamodernità. La SS18 rappresenta tra il discreto deisuoi piccoli indizi e gesti quotidiani avvelenati dallamutazione e l’ostentato miserabile e grandioso del suopaesaggio edificato dai disastri del cemento, l’affer-mazione di quell’ideologia per la quale il privato valepiù del pubblico, il mercato più dello stato, il pro-prietario più dell’abitante, il cliente più del cittadino,il prepotente più del mite, l’arrogante più del solida-le: risultato una nemesi di natura e cultura a cui si èaggiunto il veleno del crescente disordine sociale – ilconsumo, l’eccesso, l’anomia, la noia – che si mesco-la all’insicurezza e al pericolo che dominano questianni di crisi a cavallo dei millenni. La strada che havisto trasformarsi il paesaggio e la vita della Calabriatirrenica in quella frangia continua e disordinata dicemento e asfalto che oggi vede lo scempio macrofisi-co e microfisico del fai da te della speculazione immo-biliare e dell’abusivismo saldamente in mano a mafiee privati, è ancora oggi la più importante arteria dicollegamento tra la Campania e la Calabria. Sicura-

17

mente la strada più “vissuta”, più affollata e impor-tante della Calabria. Più importante della stessa auto-strada A3. L’autostrada serve soprattutto per movi-mentare il traffico pesante e quello di scorrimentoverso la Sicilia, il suo tracciato scende all’interno dellaregione, isolata in aree montuose e disabitate in piùpunti, mentre la SS18 è diventata sempre più unasuperstrada urbana, un vasto “corridoio urbanizzato”che invece costeggia, incontra e conurba i centri abi-tati intersecandoli come un unico nastro trasportato-re su cui sale e scende ogni giorno la vita di migliaiadi persone. Ed è anche una delle strade più impor-tanti ed estese del sud Italia la statale 18, dato che per-corre per più di 600 km la costa tirrenica da Napoli aReggio Calabria, collegando così i due centri urbanipiù estesi e rappresentativi di due regioni problemati-che come la Campania e la Calabria.

Su questa strada è cresciuto un altro sud e un altropaesaggio: foruncoloso, aggressivo, invadente, e altriabitanti mobili vi hanno trovato dimora. Su questobordo sfrangiato del Belpaese è cresciuta una societàmutagena e collosa, nuova e sempre in fuga, apparen-temente invisibile e troppo spesso incistata di malaf-fare. Una società border-line estesa e dilatata in millefilamenti e terminazioni mobili, esattamente come lastrada, teatro su cui su ogni cosa qui si dispone emimetizza. Sulla strada tutto è vendibile e realizzabi-le. La strada col suo movimento volubile e in conti-nua espansione rappresenta un vero e proprio insedia-mento sociale. Il suo assetto a differenza del passato si

18

basa su una mobilità continuamente dislocata e si svi-luppa in tre forme di evasione-eversione : quella fiscalecon la crescita esponenziale di imprese avventizie, spe-culazioni e commerci che sfuggono a qualsiasi con-trollo e contabilità pubblica; quella sociale, che siregge sullo sfruttamento intensivo della precarietà, dellavoro sommerso e di una quota di forza lavoro ecce-dente di tipo schiavistico costituita oggi dagli immi-grati senza diritti (Rosarno docet); quella ambientale,più complessa e riassuntiva delle tre, che si manifestabrutalmente nell’accaparramento e nell’abuso dirisorse pubbliche e di beni indisponibili del paesaggioe della natura. È la pratica abitudinaria di una limita-zione generale della libertà a favore del prepoteredelinquenziale che ricorre alla speculazione abusiva,agli incendi, all’inquinamento delle coste e del mare,alle discariche di scorie e veleni. È il frutto avvelenatoche si nutre di un’ideologia apocalittica e distruttivache fomenta il disprezzo della memoria, della naturae della bellezza dei luoghi collettivi a favore del mer-cimonio e del consumo privatistico che ha elevato l’e-lusione e l’abuso a norma e consuetudine di vita quo-tidiana, in una pratica sociale dello spazio e delle rela-zioni umane ormai largamente piegata a forme discelleratezza criminale e a condotte di vita contrariealla salvaguardia del patrimonio pubblico e al rispettodelle leggi. A cominciare da quelle a tutela dell’urba-nistica e del paesaggio. In mezzo alla statale 18,insomma, corre un mondo e una vita che fermentacome il mosto di una cattiva vendemmia. Qui c’ètutto quello che sta a sud di Gomorra.

19

quando penso a cose così che mi metto in macchina emi lascio stordire, o forse cullare dalla strada.

Consuma che ti consumaQualche mese fa la popolazione urbana ha supera-

to nel mondo quella dei non urbanizzati. È una dellegrandi rivoluzioni del nostro tempo. L’urbanesimovince, e la città è ovunque. Ma questa prevalenza delmodello urbano per la prima volta nella storia coinci-de con la crescita incontrollata di elementi negativi,con una complessità che rende l’habitat urbano criti-co per la vita, con danni economici e pericoli ambien-tali talmente gravi da assumere valenze per certi versiopposte al comune “senso del progresso” che haaccompagnato per lungo tempo l’affermazione delmodello occidentale dalla città moderna. Proprioquando si afferma su scala mondiale tramonta l’im-magine, e forse l’immaginario stesso, delle città comeluogo del benessere e della razionalità, icona di liber-tà e di progresso illimitato.

Intanto crescono le macerie dell’urbanesimo. L’uo-mo del ventesimo secolo ha costruito e realizzatodopo la Seconda guerra mondiale una quantità di“sostanza insediativa”, un insieme fatto di edilizia abi-tativa e di costrutti dell’urbanizzazione (infrastruttu-re, insediamenti industriali, ambienti tecnici, reti stra-dali e di servizio), pari a 5 volte quello esistente dal-l’epoca della preistoria umana sino al 1945. In tuttol’Occidente questo rapporto sale ancora e arriva quasi

29

mariafarago
mariafarago

a moltiplicarsi per 7. Nella piccola e vecchia Europala piramide del cemento cresce ancora fino a toccareuna quota che sale oltre l’8,5 volte. La forma della“città diffusa” in tutto il territorio italiano ha disegna-to specie negli ultimi decenni nuove megaurbanizza-zioni che vanno cancellando il volto più conosciutodel Belpaese. L’alternanza di città e campagna – l’ar-monizzazione del paesaggio fra vuoti e pieni, tra segnidella civilizzazione e della storia e bellezze della natu-ra e del territorio – cede il passo alla città diffusa. Nonfa differenza la Calabria, anzi. In questo caso numerie dimensioni dei fenomeni parlano di primato. Uninsospettabile primato nella corsa al consumo del ter-ritorio, tanto più incredibile se paragonato alle condi-zioni vere o sceneggiate dalla solita, ricorrente, tradi-zionale litania della “Lamentatio Calabriae”.

In Italia il cemento spalmato sul Belpaese arriva giàadesso al vertice dei raddoppi registrati nel continenteche ha fatto la storia del mondo; siamo a quasi diecivolte di più di quella prima soglia del mattone su cuisi innalza la storia umana. E veniamo a noi. Nelle trere gioni del sud d’Italia dove più alta è la densità diorganizzazioni della criminalità mafiosa (in ordine digrandezza: Calabria, Sicilia e Campania) – secondo leelaborazioni dei dati satellitari Clc – questo rapportogià vertiginosamente catastrofico è ancora più alto, ilpiù alto: arriva ad oltre 13,5 volte, quasi 14. E certonon si tratta di cattedrali, di città ideali e di architet-ture firmate da archistar. Il panorama è sotto gli occhidi tutti. Ed è anche certo che nel frattempo la colata dicemento non si arresta, anzi. Nell’ultimo decennio,

30

anche di fronte alle contrazioni del mercato immobi-liare e alla crisi generale dell’economia, nonostante ilristagno di una domanda di case sostanzialmente sopi-ta, a parte alcuni segmenti particolari, tutti a redditotendente a zero, compresi gli immigrati, si è continua-to a costruire senza freni, specie al sud e con ragguar-devole ostinazione in Calabria, terra di primati nel di -sastro di un paese che pare aver smarrito ogni riguar-do per la bellezza, per l’ambiente, per la memoria.

In soli 15 anni (fra il 1990 e il 2005) in Calabria sonostati edificati 269.560 ettari, pari al 26,13 per centodell’intero territorio regionale (dati ISTAT e SVI-MEZ). Una percentuale mostruosa che colloca laCalabria ai vertici della graduatoria nazionale per l’oc-cupazione dei suoli. Una percentuale folle, che faimpallidire persino l’intensa attività edilizia registratanelle grandi aree metropolitane e industriali delleregioni del nord-est più sviluppato, dalla Lombardiaal Veneto.

In Calabria si è costruito e si costruisce ovunque: neigreti dei fiumi, sugli arenili, sulle scarpate, nei parchi enelle aree protette, fino all’azzardo mostruoso di uncentro commerciale costruito sulla frana dell’Angitola,il caso più recente finito sulle prime pagine dei giorna-li. È sempre più chiaro che se non si inverte questomodello di “accumulazione primitiva” non si riuscirà abloccare il degrado, non solo ambientale, della regione.È un vero dispendio, una dépense alla calabrese. Il mer-cato politico-mafioso del territorio, che produce l’illu-

31

sione dello sviluppo ma in realtà distrugge solo risorsee ipoteca il futuro. La SS18 sta a dimostrarlo.

Non è infatti un caso che in questo quadro didegrado l’unico segmento di domanda insoddisfatta èrappresentato dai nuovi miserabili: gli immigratiextracomunitari e i nuovi poveri locali. Negli ultimianni sulla via del mattone non si costruisce in rispo-sta ad alcuna domanda sociale, né ad alcuna logica dimercato. Si è costruito prevalentemente per soddisfa-re l’intreccio tra speculazione finanziaria, interessimafiosi e rendita immobiliare, per spostare sul merca-to finanziario e movimen tare sempre più parossistica-mente – e virtualmente – portafogli di abi tazioni evolumi “che non potevano valere meno della sogliadettata dai livelli più alti della rendita immobiliare”.Anche qui si sono mosse le più potenti leve del mer-cato finanziario, lo stesso che ha portato alle bolle chehanno innescato la tremenda crisi monetaria ed eco-nomica da cui non siamo ancora usciti. La domandadi case è estranea a questa logica, serve solo a legitti-marne i meccanismi. Il problema della casa esiste, eresta irrisolto anche qui che siamo pieni di case vuote.Resta il problema di chi la casa non ce l’ha, di chi nontrova un alloggio decente, in un luogo adeguato, a unprezzo commisurato alla sua capacità di reddito. E ilproblema del giovane lavoratore pendolare o precario,dello studente universitario fuori sede, dell’immigra-to, della famiglia disagiata, dell’anziano solo. Inveceno, nulla per questa gente: invece di rimettere in piedii paesi e le vecchie abitazioni a prezzi bassi per chi habisogno di alloggio e non lo trova, aiutiamo chi la casa

32

ce l’ha già (seconda o terza, e magari qui ha anche ilcapannone industriale vuoto, o l’albergo che potreb-be rendere di più se avesse più stanze).

La montagna che cammina, lo spettacolo prepoten-te e apocalittico che grazie al video che l’ha immorta-lata per i telegiornali ha mostrato al mondo la frana diMaierato, ha illustrato le conseguenze più catastrofi-che degli abusi sulla terra calabrese, in un paesaggioche già da un secolo a questa parte era stato dipintodai meridionalisti come “un paese di isole instabili”(Isnardi), “lo sfasciume pendulo sul mare” (Fortuna-to); “la crisi dei presepi” (Compagna). Adesso è purepeggio: nel frattempo nel corso degli ultimi 50 annisono state stravolte trame insediative e storiche cheerano arrivate, pur con le ferite inferte da numerosecatastrofi storiche e naturali, pressoché intatte allaseconda metà del Novecento. E via così.

Ovunque l’aumento dell’urbanizzazione diffusa inCalabria ha come posta le aree agricole, divorate dal-l’espansione. Nonostante ciò accada in presenza dimodeste attività economiche e di un bilancio demo-grafico della popolazione regionale ormai tendenteallo zero scandinavo. I comuni ormai ricavano le loroentrate quasi esclusivamente dagli oneri di urbanizza-zione e sono portati all’andazzo delle concessioni faci-li: edificazioni in cambio di consenso. L’abusivismoormai riguarda tutte le fasce sociali e ha ovviamenteconsegnato la guida delle comunità locali agli interes-si criminali delle mafie (dall’edilizia alla sanità, dalturismo alle politiche ambientali).

33

La diffusione del cemento urbano su una strada comela SS18 ha realizzato un patrimonio insediativo assolu-tamente sovrabbondante rispetto alla domanda. Lastrada è la madre di tutte le catastrofi calabresi. Più stra-da c’è più abusi nascono. La città diffusa cresciuta sulTirreno nel disordine dei centri minori che si spolpanolo spazio risicato di questa costa è resa invivibile erischiosa proprio dalla strada che li unifica. La cementi-ficazione che continua a ritmi da vertigine a mangiarsispazio lungo il percorso della statale 18 tra Campania eCalabria tirrenica, è una di quelle configurazioni incer-te dell’abitare nella modernità che si identificano nella“sprawltown occidentale” e nelle megalopoli costituiteprevalentemente dall’accumulo di slum o di barrios, for-mazioni tipiche del terzo e del quarto mondo. Comedire che alle nostre latitudini del sud si manifesta ilrisvolto tutto italiano della “megaurbanizzazione mon-diale”. Con città-stradali estese ma provinciali, invivibi-li e rischiose per la congestione del traffico, per l’assen-za di spazi verdi e di spazi di vita pubblica, per le minac-ce delle alluvioni e delle frane, per la prepotenza dellemafie che vi spadroneggiano, per la noia e l’opacitàdella vita di chi vi sopra-vive tra il caos, il pericolo e lafatica quotidiana. Se in tutta Italia le stanze vuote ten-dono ormai a raggiungere l’impressionante sogliacumulativa di 20 milioni, in Calabria già oggi meno didue milioni di Calabresi sparsi per la regione, potreb-bero contendersi una quantità esorbitante di vani: piùdi 8 milioni di stanze. Come se ogni abitante dellaregione, neonati compresi, avesse già a disposizionedalla nascita una casa nuova di almeno quattro stanze in

34

cui mettere piede. Una famiglia media di quattro per-sone potrebbe abitare comodamente un castello dicemento di 16 vani. Sembra già di vedere l’albergo diShining, e il bambino col triciclo terrorizzato dagli spazideserti e popolati da inquilini fantasma.

Insomma la Calabria di oggi occupa e consumasuolo in modo intensivo. Già oltre il 26 per cento delsuo territorio è coperto di case e cemento: una conur -bazione lineare costellata di orridi urbanistici, checoincidono non a caso con la geografia dei distretti apiù alta densità mafiosa, ricalca ormai con un cordo-ne di cemento e asfalto quasi senza soluzione di con-tinuità tutto il perimetro costiero della regione, ben750 km di sviluppo litoraneo, dall’Alto Tirrenocosentino, girando fino al fondo dello Stretto per risa-lire sul versante opposto al confine segnato dall’altoJonio lucano. Mentre la montagna e gli ambientiinterni semi-abbandonati e residuali presentano anco-ra un paesaggio di piccoli centri e bellezze ambientalitanto prezioso quanto fragile, incustodito e facilmen-te aggredibile. Con le formazioni sociali spesso in“liquefazione” l’unico argine sarebbe la presenza diregole legate ai valori intrinseci dei luoghi; una nuovasoggettività sociale in cui riemergano “dalla societàfluida” nuove, seppur modeste intese di tipo comuni-tario. Riaggregare la gente ai paesi, attorno ai valoriecologici e culturali di una misura sostenibile. Più ingenerale basterebbe favorire le opzioni di ri-territoria-lizzazione e di difesa del patrimonio ambientale.Basterebbe in fondo amare i luoghi, voler bene dav-vero alla terra, la propria.

35

Resta il fatto che la Calabria è oggi la regione italia-na a più alto tasso di abusivismo edilizio. Un prima-to che genera enormi squilibri territoriali, insieme auna degenerazione del paesaggio che tende via viaall’apocalittico: in poco più del 20 per cento del ter-ritorio costiero e nelle piccole aree di pianura vicinoal mare si è formato un labirinto di cemento e stradetutto costruito e congestionato. Dentro la strisciacontinua di questo suburbio ininterrotto si affolla il75 per cento di tutti gli abitanti della regione. Qui simuove caoticamente anche tutta l’economia dellaregione, vi si registra oltre l’80 per cento degli inve-stimenti e il 70 per cento degli insediamenti produt-tivi. A ridosso di queste aree esiste ancora un patri-monio ‘naturale’, l’interno, l’osso montuoso e colli-nare della vecchia Calabria che è paesisticamentetanto ingente quanto fragile e languente. Ma è den-tro questa ribollente polpa esterna della Calabriacostiera che permangono e crescono i grandi proble-mi sociali della regione: di soccupazione e mafia,abusi ambientali, un tessuto civile talmente laceratoe caotico da illividire anche la condizione storica-mente consolidata dell’emigrazione e del sottosvilup-po materiale e ideale di queste aree del vecchio sudcosì come ci venivano raccontate fino a qualche annofa dal meridionalismo classico.

Si tratta caso mai di un sud-surmoderno, investitopesantemente dal degrado dell’ambiente e della quali-tà della vita, costellato di infrastrutture e mega-attrez-zature inutili e dannose, asservito a una monocultura

36

del turismo e di attività pseudo-produttive costruite arimorchio di uno sviluppo che resta tanto ipoteticoquanto gravemente impattante. Un ambiente semprepiù opaco e difficilmente decifrabile, ormai omologa-to al peggio del nord del paese nel grigiore, spessosquallido, della socialità e dei costumi, nei modelli diinsediamento, di mobilità e residenza che si afferma-no anche in città provinciali e piccoli centri, negliinteressi discutibili di privati e governati locali, nellacorsa forsennata ai consumi e nell’incapacità di acco-gliere e convivere con i nuovi immigrati.

Qui nessuno prevede di recuperare l’esistente, disostituire il brutto riqualificando eco-paesaggistica-mente il patrimonio vuoto, i centri storici in abban-dono, risanandone ampie parti per la domanda socia-le, oltre che per nuove filiere del turismo sostenibile.La carenza di una forte rete di associazionismo e dimovimenti di sensibilità ambientalista e culturale nonha ancora favorito nella regione una nuova attenzio-ne, allargata se non generalizzata, per le risorse eco-paesaggistiche. Le voci contro finora sono state flebilie impacciate, del tutto inferiori all’impegno necessa-rio. Hanno tentato di de-peggiorare uno scempio cheè culturale prima che urbanistico, invece di denun-ciarlo e contrastarlo con l’esempio.

E la cultura, l’accademia, gli intellettuali? “Quelliche sanno” davvero si contano sulle dita di un paio dimani. Quelli che ‘dicono’ sono ancora di meno. Glialtri, quelli che hanno denunciato con forza, chehanno protestato, che hanno scritto e levato forte la

37

voce, esponendosi e rischiando qualcosa in prima per-sona, non me li sono mai visti intorno in questi anni.Io il mio prezzo lo pago tutto, gli altri si accomodanonel cerchiobottismo e nei proclami del non solo, maanche, sono ramarri e salamandre del posizionamento,strisciano evitando il fuoco tra convenienze infallibilie strategie mimetiche. Il coraggio non è il loro forte.

Il 2010 si è aperto in Calabria sulla strada, con la“battaglia di Rosarno”. I lavoratori agrumicoli immi-grati, vivendo in condizioni bestiali, si sono ribellatiagli ennesimi soprusi e attacchi in un quadro sociale ecivile ultradegradato, condizionato dalla presenzadella criminalità mafiosa e da una diffusa indifferenzasociale. I migranti ribelli languivano in condizioni daaparthaid sudafricano, in vecchi capannoni fatiscenti,a pochi chilometri delle migliaia di seconde e terzecase lasciate vuote sulla costa, a fianco alla statale 18,in attesa della toccata e fuga dei turisti agostani.

Metafisica, politica, autodromicaUna volta da ragazzo conobbi al mio paese un indi-

viduo. Erano gli anni di piombo, in mezzo alla crisipetrolifera, la crisi dell’auto, gli scioperi alla Fiat. Ioavevo sì e no 17-18 anni. Sognavo la rivoluzione ecome molti ragazzi della mia generazione cercavamomaestri. A quell’età ognuno li trova dove, e come può.Per quelli come me si trattava di un avvocato e unpolitico molto rispettato e di una certa anzianità,

38

mariafarago
mariafarago
mariafarago
mariafarago
mariafarago
mariafarago
mariafarago
mariafarago
mariafarago

determina. Il disegno della strada può dissolversi ungiorno dopo l’altro in una specie di tornante anima-to, un ghirigoro sconfinato di tutte le vite e di tutte lecose, formare un girone circolare e alla fine contener-ne la maggior parte.

Statale 18. Flora, fauna e cementoLa Calabria degli ultimi cent’anni è una terra cre-

sciuta a modo suo, una regione d’Italia fatta ancora dipaesi e di piccoli centri secondari. Nel frattempo larealtà che nella geografia dei luoghi è cresciuta di piùè la rete stradale. E con le strade il cemento, e con ilcemento gli abusi, il disordine, la prepotenza dellemafie. I comuni calabresi sono ben 409, ma i centriche superano i 15.000 abitanti sono solo una ventinao poco più in tutta la regione. In Calabria quindi nonci sono grandi città. Ci sono cinque piccole città-capoluogo, cinque province, ma nessuna di questeancora oggi arriva a raccogliere entro i suoi confinipiù di 200.000 abitanti; sono Catanzaro (capoluogodella Regione), Cosenza, Crotone, Vibo Valentia,Reggio Calabria (la più grande, con i suoi 186.000abitanti). In mezzo a queste città storiche di una certaantichità e importanza, c’è una città mobile, incerta,transitoria. Invisibile come città. Una città che se lacercate non la trovate, perché non si trova segnata sunessun atlante. Un posto che si può cogliere solo inmovimento e raccontare solo in una descrizione diviaggio, attraversandola come un piccolo continente

57

mariafarago
mariafarago
mariafarago
mariafarago
mariafarago

ignorato, passandola da un capo all’altro, dato che èpiuttosto come un lungo nastro trasportatore chesparpaglia e tiene precariamente unite le persone e lecose. Questa specie di via Emilia delle Calabrie ècome un ago che scuce e ricuce al bordo di una solastrada le vite di almeno 500 mila persone. Ogni gior-no. Una città a nastro. Un nastro fatto d’asfalto e dicase, case e ancora case, e in mezzo, tra semafori e rac-cordi stradali, cavalcavia e sottopassi, si possonoincrociare pezzi di varia umanità, grumi di abitazioni,negozi di moda e di computer, stazioni ferroviarie edue aeroporti, alberghi, porti pescherecci e turistici,villaggi turistici (“turistico” da queste parti è siasostantivo che aggettivo, parola chiave, un sesamobuono per tutti gli usi), mobilifici, cementifici, scuo-le, cave, uffici, bar, ospedali, ristoranti per ricevimen-ti e banchetti di nozze, bancarelle di pesce, frutta eprodotti tipici, centri commerciali, rottamai, nego-zietti di cianfrusaglie, venditori di macchine usate,stazioni di servizio, drugstore e bar all’americana cheimpregnano l’aria con l’odore di hamburger fritti nel-l’olio, capannoni di non si sa cosa, discoteche e localiporno, e persino chiese e congreghe religiose. Inmezzo a questa fungaia c’è quello che resta della natu-ra, scogliere, promontori, fari, pezzi di spiagge, dimare, di terra. Tutto alla rinfusa, senza un ordine pre-ciso che non sia una specie di ammasso su una lineaspezzata. E poi c’è la gente. La strada è come un sifo-ne che aspira tutto, una pancia sempre vuota e sem-pre piena che rimette all’esterno a ondate il suo bolovivente e mai digerito. Tanta gente. Un mucchio di

58

gente che ci passa la vita dentro e fuori in questi posti;ma sempre in movimento, spostandosi in macchina.Matrimoni o funerali la macchina è indispensabileper vivere come per morire in posti così. Il posto mac-china nella geografia domestica di questi posti èimportante come e più della casa; tutti in giro, tutti inmacchina. Ogni giorno dell’anno, ogni notte di ognistagione. Peggio in quella turistica, che è l’apoteosi ditutto, la fissione atomica del combustibile stivato inquesto sifone impazzito.

L’automobile, la mobilità: un posto così è inconce-pibile senza mezzi in movimento, senza spostamentiquotidiani, senza la nevrosi dell’impermanenza chevedi marchiata come un ghigno sulla faccia di tutti.Tutto si fa in macchina; c’è chi si imbarca per trovarei parenti, per andare a parlare con un amico e per farela spesa, chi porta i bambini a scuola nel comune piùvicino, chi cerca un parcheggio per andare al mare,chi un negozio di parrucchiere o un ufficio dell’ASL,chi tra un concessionario d’auto o un panificio abusi-vo cerca in un condominio anonimo lo studio di unmago-cartomante o il recapito di una prostituta del-l’est che lavora in casa. Come città è davvero strana;in realtà la statale 18, la strada del cemento, somigliaa qualcos’altro. Un ibrido senza fine, un contenitorecilindrico, un altoforno in cui si squaglia una porzio-ne del caos planetario. Per certe cose forse, ancora incerte piccole cose, un posto così rimane più similemagari a un paese solo, ma un paese nuovo, orizzon-tale, gelatinoso, striato, steso in modo anomalo, allun-gato a dismisura come un filone di pane o un torrone

59

da guinnes dei primati. La cosa non è priva di conse-guenze. Sì, un po’ di pietà però perché comunque par-liamo di un organismo vivente, di persone, di un postoin cui la gente “abita”, vive, cresce i figli, lavora, ama,muore; sono i tempi di adesso. È la vita di adesso. Per-ciò qui si può e si deve vivere, rannicchiarsi e scaldar-si, trovare dimora, rendere domestico anche un postomobile e proliferante, un blob di organismi mutantiche nel tratto più denso si prolunga da nord a sud perquasi 170 chilometri sulla Strada del Cemento, la stata-le 18. C’è stata una vera mutazione antropologica nelgiro di una o due generazioni che ha trasformato que-sti abitanti della costa in cittadini mobili e post-moderni. Loro che sono tutti figli e nipoti di genteche ha vissuto per secoli nel chiuso di una camera-casa, in un abituro fumoso di paese, in cima a unmondo chiuso in sé. C’è vita anche così nella città anastro: la gente riesce ad adattarsi e a fare l’abitudinea tutto, quasi subito; al traffico, ai morti per strada,alle mafie che comandano su tutto, alle discariche acielo aperto, al pendolarismo, alla precarietà e aidomicili plurimi di un’esistenza sempre in bilico, inmoto, accettata come se fosse una quieta routine diprovincia. I calabresi sono maestri della fungibilità,hanno imparato prima, sono più bravi dei cinesi.Questa strada raccoglie tutto quello che conta per lacostruzione dell’oggi di migliaia di persone che sono,come noi, cittadini italiani.

Ma anche posti così che sembrano nati dal nientehanno una storia, un loro precoce invecchiamento.

60

Parlo di “costruzione” a ragion veduta. Qui il matto-ne è Storia e Geografia, costume e politica, vita,amore e morte. È un posto pieno di storie che si rin-corrono. Belle certe volte, ma soprattutto brutte.Brutte come le costruzioni che si affastellano ovun-que, come tutti gli sfregi e gli abusi che si consumanosenza fine davanti alla maestà del mare, come le mafieche qui spadroneggiano incontrastate, brutte come lanoia che ristagna nei cuori, come la fretta che spingeil traffico, come le file ai semafori, come i viaggi afflit-ti dei pendolari, come le cronache di violenza e imorti che la strada macina ogni giorno. Tutta la vitaqui rimbalza sull’asfalto, si sporge fuori. Si getta incu-rante su questo ciglio di strada come un cane sbanda-to che arrivata l’estate non ritrova il padrone. Tuttoquello che pure c’è di buono resta fuori dall’ordina-rietà scriteriata della strada. Potrei dare dettagli rasse-renanti, offrire qualche statistica confortante (neconosco anch’io, ce ne sono sempre), illustrare impor-tanti attrazioni di centri storici e monumenti da vista-re, sviare l’attenzione in posti più gradevoli e raccon-tare particolari di colore, portare il discorso ai margi-ni, etc. Addolcire la pillola insomma. Ma questa nonè una guida turistica. Io detesto il turismo. Questa èla statale 18, e per me è come fosse casa mia.

Dopo la ferrovia che congiungeva dal 1875 Salernoa Reggio Calabria, correndo coi binari sempre accan-to allo spettacolo allora intoccato del mare, la statale18, la Tirrenica Inferiore, è stata l’unica vera arteriastradale per il sud, la prima grande opera della moder-nità del Novecento. Anche se alcuni tratti erano pree-

61

sistenti, la strada nazionale venne interamente costrui-ta negli anni Trenta del novecento, quando in pienoFascismo si procedette al riordino viario di tutto ilpaese. Allora però era ancora una strada e basta, lalinea impercettibile e sinuosa di un solco “macada-mizzato” che si notava a malapena sul terreno intonsodelle vecchie calabrie dei viaggiatori del Grand Tour.Una traccia morbida che univa paesini e contradeferme da secoli; tutto il resto era campagna, spiaggia,collina, montagna. Qualche volta un paese più grandeinterrompeva la monotonia del belvedere e la meravi-glia immobile del paesaggio. Era rimasto intatto tuttoquello spazio di natura che stava di mezzo, nella stri-scia di terra tra il mare e le creste dell’Appennino. Finoad allora l’unica vera via d’accesso dal nord verso laCalabria era la cosiddetta “Strada delle Calabrie”, unvecchio tracciato ottocentesco. Era la strada borboni-ca che, seguendo la scia romana della antica consolarevia Popilia, partiva da Capua, si inerpicava sul Pollino,attraversava Cosenza e l’entroterra e raggiungeva PizzoCalabro sul mare, per poi proseguire fino a ReggioCalabria bordeggiando tutta la costa del Tirreno finoallo spettacolo mozzafiato dello Stretto. Questa stradaoggi esiste ancora. È la SS19 delle Calabrie, una venadi strada sottile e contorta che si imbocca dall’auto-strada all’altezza di Polla. Qualche volta funzionaancora, assieme alla SS18, come percorso alternativo,la SS19, quando i cantieri eterni dell’A3 si bloccano osaltano per un qualche motivo. Una parte più facile diquel vecchio tracciato è stato ricalcato, per volere delcosentino Giacomo Mancini (allora ministro sociali-

62

sta), dai lavori dell’A3 negli anni Settanta. Contem-poraneamente ai lavori dell’autostrada, anche la stata-le 18 fu modificata, con parziali ampliamenti e cam-biamenti nel tracciato, raddoppiandola nel tratto tir-renico che va da Praia a Mare fino a Pizzo Calabro.Quella strada è la statale 18 di oggi, la Tirrenica Infe-riore, la prima Salerno-Reggio Calabria del Novecen-to. Una strada che oggi è anche l’unica vera grandecittà della Calabria moderna. In due ore e mezza circadi macchina, da Praia a Mare, passando per Paola, lacittà di San Francesco – il patrono della Calabria, finoa Pizzo Calabro, la città del tartufo gelato, questo caosanimato e mobile assume diverse configurazioni.Tutte originate, però, dal fatto di trovarsi allineate eincatenate come i suoi stessi abitanti a un’unica con-nessura, alla stessa strada. Il paesaggio è informe, inco-stante, alto e basso, marino con qualche impennatacollinare, e mantiene sempre più visibile un minimocomune denominatore: la costante presenza delcemento, delle auto, dei cantieri, degli scavi in corso,dei segni violenti della delinquenza, dell’agitazione edella frenesia che marchia la gente che ci vive, similealla stessa follia edificatoria che ha ricoperto questiluoghi con un nastro di costruzioni e di edifici ecletti-ci, prevalentemente residenziali. “Risiedere” in posticosì è però stare sempre con un piede fuori, risucchia-ti sulla strada, intrappolati in macchina. La statale quiè infatti anche l’unica via di comunicazione tra i cen-tri della costa tirrenica, dato che l’A3 resta dentro lapolpa della Calabria interna, oltre l’osso sporgentedell’Appennino che si alza bruscamente proprio

63

davanti a questo trancio roccioso della costa del Tirre-no. L’autostrada corre lontana da qui, parallela e invi-sibile, all’altezza di Cosenza. I lati della Strada delCemento sono ormai quasi tutti disseminati di “caset-te”, quattro muri tirati su in fretta spesso accanto avecchi casolari lasciati cadere in rovina. Case nuove,tutte insalvabilmente orrende, laccate di colori pazze-schi, molto spesso autocostruite, tutte però congegna-te secondo lo schema elementare e primitivo ereditatodella cultura dei vecchi paesi della costiera. Gli stessiabitati secolari che i residenti delle marine hannoabbandonato al proprio destino, come se il tempo deidisagi e dei patimenti che marchiavano le case deipadri e dei nonni costretti a emigrare non si fosse maifermato, rinnovandosi come un virus regressivo nelsangue degli ex contadini inurbati. Quelli che ancoraoggi abitano la città-nastro della statale con la menta-lità del contadino e con la mentalità del campagnolo.Gente che fa il professionista o l’impiegato e in paesegira magari col suv, ma che vive e costruisce la sua casasulla strada nuova come fosse ancora impantanatonella stessa miseria, nella stessa lontananza recintatadegli avi ripudiati: commercio/bottega + appartamen-to genitori + 1 o più appartamenti per i figli. Bottegheche diventano garage e figli che in queste case non ciabiteranno mai, dato che da qui i giovani se ne vanno.Emigrano appena possono per paura della mafia e pernoia, per studiare e per vivere altrove. Al massimodopo essersi salvati la vita con un posto di impiegatoal nord qui gli eredi di questo sfacelo ci tornano per leferie e per quindici giorni di mare.

64

Qualcuno tra gli abitanti di questi abituri nuovi dicemento armato si ricorda che la terra di questi postiera fino a non molto tempo fa una campagna felice difronte al mare, e che prima, tutti, erano contadini. Ecosì quando la casa nuova è corredata di un residuospicchio di terreno racchiuso entro gli spazi esterni,questi mozziconi di terra ridiventano nel migliore deicasi piccoli giardini e orticelli privati, con qualchestentata pianta di olivo e di arancio, con alberelli dafrutto e lattughe che crescono in mezzo al traffico e aigas di scarico, dietro i muraglioni di cemento degliedifici che già soffocano malinconicamente ogni cosaintorno. Certe volte abbasso il finestrino passandodavanti alle zone vuote in cui si riaffaccia un brandel-lo di campagna o in prossimità di questi avamposti dicemento isolati sulla strada. Il catalogo degli odori edegli aromi che vi si respirano e si distinguono perqualche secondo sembra venire da un sottofondosempre più lontano. Sono talvolta ancora quelli fra-granti e remoti del vecchio paese: il fieno e i campifioriti in primavera, il pane fresco e l’odore di bottegadel macellaio nei tempi del salame, il vino nuovo deitempi di vendemmia, l’odore dei frantoi e dei fichisecchi infornati, dei pomodori di Belmonte e poi ilsale secco delle conserve e dei pesci offerti dalle ban-carelle degli ambulanti che sembrano implorarti dalbordo impolverato della statale. Il riassunto di un pic-colo e perduto occidente favoloso; sentori dellamemoria che poi si mescolano con la brusca frenatache riporta alle sensazioni ingannevoli e disperse nellamegalopoli d’oggi: l’odore di benzina e di catrame,

65

l’ebbrezza finta delle insegne colorate, la puzza varie-gata della strada e dei cassonetti lasciati pieni diimmondizia, il fetore pungente delle fogne e deidepuratori che ristagnano nell’aria ferma dell’estate,l’afrore chimico degli scarichi di solventi, i capannonipieni di polveri e ferraglie. Poi ogni odore si dileguaper far posto al dilagare del cemento; ricomincia lateoria vanagloriosa delle case e delle casette, le villettepretenziose, la ricorrente presenza degli enormi scato-loni di cemento che identificano indifferentemente ilmodello dell’albergo-ristorante-mobilificio-conces-sionaria. Opere solenni in vetro-cemento dalle foggestrambe e avveniristiche firmate dagli architetti localiin vena di capolavorismi da archistar internazionale.Una mostra pazzesca sfila sempre accanto all’arteriaprincipale del Tirreno, la statale 18. La strada èimpacciata nei tratti peggiori dal suo contorno soffo-cante di macerie degne di un museo dell’orrore delmodernariato: “una fila di casette bianche tirate sualla brava, un cantiere accanto all’altro… Quellecostruzioni da rifinire mostravano a nudo una pre-sunzione di fantasia e benessere – piani convessi econcavi, scalette incavate dentro muretti dall’orloscannellato – invogliata a replicare, dai fumetti diFlash Gordon o Spider-Man, una eventuale fanta-scientifica cittadella per vacanze… Quei torsi ciechiin costruzione sembravano essersi sfasciati nello stessofarsi. La salsedine aveva bruciato le paratie di legnopronte per la colata di cemento armato e i tondini diferro, accatastati fra i sassi, nella luce grigia, eranotinti dal rosso della ruggine. Sembrava esserci stata

66

risacca lunga, e orli unghiati di alghe secche facevanomostra sui ciottoli di pomice”. Dopo una curva, “lasirena di un camion sulla strada, e uno stridore gravedi freni”, sono gli unici segni che ci riportano allarealtà, come accade in una pagina che Enzo Sicilianoin uno dei suoi ultimi romanzi di ambientazione cala-brese, Non entrare nel campo degli orfani, nel 2003aveva dedicato a un suo faticoso e sofferto ritorno suquelli che furono gli stessi luoghi della sua infanziacalabrese. In questi posti accanto alla SS18 ci siamotornati insieme poco prima che morisse: siamo anda-ti in giro in macchina a controllare le stesse locationfinite tra le sue pagine. Erano già peggio di come liaveva visti lui quando scriveva il libro, solo un paiod’anni prima.

Microfisica della città stradaleTutti questi frantumi tenuti insieme e spalmati

lungo la tratta costiera dalla traccia della statale 18,formano piccole porzioni di sprawl urbano, assaggi diuna città spezzettata e interrotta. Questa città a nastroè il regno di un’umanità eterogenea, mescolata, disar-monica, sfusa e spesso imperscrutabile, sparpagliatacom’è su un’unica strada, in una dispersione umana esociale che a uno sguardo superficiale può persinoapparire normale. Simile nell’aspetto e nelle abitudinia una qualsiasi periferia urbana. Come a indicare cheuna rapida e disordinata crescita degli edifici ciapprossimi all’ingresso in una più vasta e strutturata

67

area metropolitana. Una città vera, finita. Sulla stradadel cemento ti aspetti che la città, anzi la metropoli,arrivi da un momento all’altro. Dopo le casette pre-tenziose, dopo le pompe di benzina, i centri commer-ciali, il traffico che scorre e i semafori intermittenti.Tutta la statale 18 in fondo sembra la periferia anodi-na di una qualsiasi grande città pronta ad avvolgertida un momento all’altro con le sue luci, con la suavasta e solida configurazione, pronta ad assorbirtidentro la sua fitta laboriosità, dentro il suo recinto diabitudini ordinate. Una città rimandata dopo l’enne-sima svolta, che sembra si annunci a ogni incrocio, aogni singhiozzo della strada. Il fatto è che però nonc’è, non ci si arriva mai. Filamenti sparsi che si salda-no, certe lacune che si colmano, nuove congiunzioniche si stabiliscono all’improvviso nel paesaggio inter-rotto, ma mai qualcosa che assomiglia a un ordinemen che sporadico traspare dietro un vasto caos spar-pagliato a redimerne l’aspetto.

La massicciata ferroviaria a limitare la spiaggia, uninterstizio di terra punteggiato di case e costruzioninuove, la traccia della superstrada a separare il dossodelle case dal resto della costa, uno scarico a mare ealtre case abusive. Si va avanti così per chilometri echilometri. I tralicci dell’elettrodotto scandisconocome crocifissi lo spazio tra le case su cui incombono.I fili passano sopra i tetti, il ronzio dell’alta tensioneaccompagna i pensieri nelle teste dalla gente, si unisceai motori delle auto in movimento, al lampeggiare deisemafori, alle luci accese nelle vetrine dei negozi. Gli

68

edifici ora si addensano, ora si diradano come nuvolecapricciose in un cielo in tempesta. Tuttalpiù la mac-chia delle case si raccoglie più fitta e disordinata nellavicinanza evocativa dei vecchi centri abitati migratidalla collina alla marina, con i paesini di una voltalambiti ma mai attraversati. Si tratta per lo più di pic-coli e piccolissimi centri, tutti collegati dalla statale18, con l’eccezione di Paola e Amantea, centri piùgrossi che si attestano rispettivamente sui 20.000 e sui15.000 abitanti, e che per il resto quasi mai superanoi 3000-5000 abitanti. D’estate, per un mese o due,tutti i rinsecchiti paesini del Tirreno si rianimano dro-gati a dismisura dagli steroidi del breve interludiovacanziero. Attraversati dalla vena rigonfia della stata-le si spanciano a dismisura per effetto di un turismoresidenziale sempre più incasinato, fatto di affitti, difine settimana al mare, di discoteche improvvisate e ditransumanze periodiche in abitazioni di seconde eterze case. Questi insediamenti hanno tutti però unacaratteristica comune: il centro abitato si trova sversa-to sulla costa e il tratto di statale su cui si allunganogli edifici è parte integrante del paese nuovo e in certitratti spesso lo è anche il lungomare, immancabileteatro di posa dell’ebbrezza estiva. Nessuno dei paesioriginariamente, infatti, era attraversato dalla statale,dato che la strada vecchia passava a una quota piùalta, verso mezzacosta. Con il raddoppio costierodella 18 e le modifiche del tracciato veloce dellasuperstrada degli anni Settanta, la crescita edilizia si èpoi orientata verso la nuove borgate marine tagliatedalla statale, passando fuori dai centri storici, in basso

69

davanti alle spiagge, nell’area sempre più trafficata eintasata in prossimità della linea di costa. Le marinenate per il turismo vivono ormai senza turismo. Lagente ci vive accampata e la provvisorietà è diventatadefinitiva. I nuovi abitati mostrano talvolta alcuni ele-menti “canonici” delle strade urbane: una certa ani-mazione domestica, il commercio ai piani terra, edifi-ci per abitazioni che arrivano anche a 5-6 piani, unamescolanza di servizi e di spazi funzionali, come cen-tri commerciali e uffici pubblici, spazi pedonali unpo’ più curati e definiti, parcheggi a bordo strada.Insomma qualcosa che vorrebbe rassicurare mimandoin modo ingannevole aspetti isolati dell’ambienteurbano. Ma basta fare un giro di compasso entro 500-1000 metri di macchina e piombi in un altro mondo.Un intervallo opaco fatto di interstizi vuoti, di spaziindistinti, depositi di non si sa cosa, avamposti preca-ri, spazzature abbandonate, ambienti sordidi e senzafaccia, né più natura né ancora umanità. Plaghesospese in un’attesa che prepara l’assalto del cementoche qui sosta, prima di consumare lo sbocco dell’e-spansione finale verso la costa. Tutto tenuto insiemein un’unica saldatura edilizia. Ovunque la stessa cata-strofe, lo stesso sfregio che veloce e inesorabile è avve-nuto negli ultimi trent’anni; soprattutto abusivamen-te, o anche legalmente. Il risultato non fa mai nessu-na differenza.

Da queste parti il salto dello spazio corrisponde a unsalto nel tempo. Il reticolo di vecchie provinciali estrade comunali che dalla nazionale sulla costa si iner-

70

picano verso l’interno è rimasto così com’era. Un gro-viglio di stradine secondarie, spesso semiscassate dafrane e incuria, che menano a contrade suburbaneanche più misere rispetto alla vita dei centri storiciisolati e svuotati dalla prepotente espansione dellemarine. Superati questi tratti di confine, dunque, laSS18 è una vera e propria strada extraurbana, un’arte-ria veloce, dove auto e camion sfrecciano senza scam-po, micidiale per i passanti e i pedoni sbadati. La stra-da in questi tratti è senza marciapiedi, delimitata soloda guard-rail, e lungo il tracciato gli edifici si allinea-no solo in prossimità dei centri abitati. Ai paesi e allezone abitate si accede all’improvviso, spesso mediantesemplici, pericolosissimi e mortali incroci a raso.Rampe e viadotti piazzati come coltelli, in genere incorrispondenza delle strade che un secolo fa portava-no ai vecchi centri storici rimasti come ossa calcinateal sole dei crinali. Il resto è vuoto, ma un vuoto messolì in attesa di essere riempito da “oggetti” che sembra-no non temere il dissidio e la smentita del paese anti-co, né la voce del tempo.

Sulla SS18 ormai sono semplicemente le chiassoseinsegne pubblicitarie, la selva di targhe, insegne,deviazioni e tabelle stradali, più o meno vistose e inu-tilmente prolisse, a suggerirci dove siamo, a indicarcicosa stiamo attraversando, a darci il punto provvisorioin mezzo ai cascami e al caos brulicante che fermentae si accumula senza sosta ai bordi di questo pezzettodi mondo. L’espansione non si arresta. Già buttandol’occhio fuori dalla macchina ci si accorge che l’onda

71

di cemento è inarrestabile. L’infezione si allarga e salegià verso l’interno. Le gru e le ruspe sempre in azioneper colonizzare gli ultimi ritagli di terra rimasti liberisulla costa, ora azzannano come lupi affamati risalen-do a grandi balzi verso l’alto. Ovunque sulla collinadel Tirreno sta succedendo qualcosa; strade che siaprono in mezzo al vuoto e, in alto, una nuova seriedi villette insulse, sbancamenti corrosivi e cantieri dicostruzioni nuove, cubature esagerate, abusi che simangiano altra terra, senza ragione. È qui che la sta-tale 18, la città a nastro più grande della Calabria, hadeciso di arrampicarsi per espandersi ancora, risalen-do come uno tsunami inarrestabile dal mare fino alcielo.

In mezzo a queste trappole di cemento qualche pez-zetto di natura è rimasto, offeso sì ma ancora porten-tosamente vivo. Certi intervalli di verde e di blu chesopravvivono sparpagliati o in abbandono in certeanse del tragitto sui bordi trafficati della statale 18,ancora rappresentano i pochi momenti di tregua perrifiatare e riposare l’occhio lungo il percorso di guerratra gli edifici e i cantieri. È l’ultimo tratto veramentecostiero della SS18: un intermezzo di sette chilometriin cui il mare non è più nascosto dalla ferrovia e daipalazzoni ma si staglia libero e potente sull’orizzonte.L’accesso alla spiaggia ampia e a porzioni di costamiracolosamente aperte e sgombre di edifici, è possi-bile svoltando direttamente verso il mare dal bordodella strada, tra i canneti e le tamerici. In mezzo scor-re il fiume Savuto che si allarga sino alla foce in una

72

specie di giungla fitta di vegetazione palustre. Laspiaggia in certi punti è larga quasi un chilometro espesso è battuta dai venti di libeccio che scaricanosulla battigia cavalloni enormi e fragorosi di spumabianchissima. Sull’orizzonte del Tirreno nelle giorna-te più terse compare maestosa l’ombra vulcanica delcono di Stromboli. Una meraviglia che ha dell’incre-dibile. Siamo a metà strada tra il comune di Amantea,ultimo paese della provincia cosentina, e quello diNocera Terinese, primo paese della provincia diCatanzaro. Anche qui purtoppo i segni di un’antro-pizzazione incipiente che comincia a stringere d’asse-dio questo intervallo di terra. Per ora due o tre edificiincomprensibili, capannoni, un nuovo albergo, unacava di inerti che succhia la sabbia dal letto del Savu-to, i segni di case sparse non finite, l’immancabile pre-tenzioso porticciolo turistico (a Campora, sequestratoa lungo per i traffici delle mafia locale), un vasto piaz-zale per camion che serve da caravanserraglio per ibestioni che fanno sosta prima e dopo l’autostrada inun distributore di benzina installato di fronte al mare.In alto il taglio dell’autostrada che si inerpica verso lavalle alta del Savuto. Il rialzo isolato di Piano dellaTirena come un altare di fronte al mare ancoranasconde le vestigia dell’antica Terina, la polis magno-greca toccata dal viaggio di Ulisse. Intorno molticampi lunghi allineati alla spiaggia e intensamentecoltivati a cipolle e ortaggi. Colture ricche, che per orasalvano la terra. Tra i campi e la strada qualche putta-na si rannicchia nei canneti vicino alla foce del Savu-to in attesa dei camionisti e dei clienti di passaggio.

73

Sul confine di questa insidiata terra di nessuno, anco-ra contrada rurale, questa è l’unica zolla di terra semi-selvatica che sul lungo tracciato della SS18 favorisce eocculta questo genere di commerci stradali consuma-ti all’aperto.

Il fatto che questo tratto della SS18 sia rimasto perora sostanzialmente libero dal cemento non è certoper un caso di sensibilità ambientale. È un fatto dipura convenienza economica, di logistica. Finiràquando cambieranno gli interessi. Si attraversa unazona ancora troppo lontana dalle ‘attrezzature’ resi-denziali e dai servizi di Amantea. E anche lo svincoloautostradale di Falerna, che sta più a sud, è ancoratroppo lontano perché questo tratto possa essere subi-to preso d’assalto dalle seconde case o diventare unposto per residenze stabili. Ma forse c’è anche un fattogeografico e culturale: Amantea e Campora sonocomunque legate al nord della regione, a Cosenza,città capoluogo di provincia che attrae ogni giorno ilforte pendolarismo della SS18. Nocera invece volge lespalle a Cosenza ed è rivolta verso Lamezia Terme,così come lo saranno tutti gli “agglomerati” che siincontrano da qui in avanti in direzione sud. Unazona di confine, dunque, una frontiera fisica e relati-vamente culturale che segna una piccola e consolantediscontinuità nel percorso tra gli orrori della statale.

A Falerna, appena oltrepassato il confine tra le dueprovince in direzione di Catanzaro, al km 363 dellaSS18, il lato destro della statale si slarga e diventa un

74

quasi-lungomare, una specie di viale attrezzato inmezzo al traffico. È uno dei luoghi di consumo dell’e-state turistica e delle “vasche” estive, con chioschi, pan-chine, alberi. Il quasi sta nel fatto che tra la promena-de e il mare c’è un ampio parcheggio a pagamento. Icartelli ci informano che un pezzo di questo quasi-lun-gomare è di Falerna, mentre l’altro pezzo ricade nelterritorio di Gizzeria (altra frazione marina di un paesecollinare). Gli edifici e il lungomare terminano dicolpo quando la ferrovia (che da Campora abbiamosul lato sinistro) si fa più vicina alla strada. Troppovicina per lasciare spazio a qualsiasi costruzione.

I 7 km compresi tra Nocera e Falerna (e Gizzeriaper un breve tratto) sono l’opposto del sistema-cemento Amantea/Campora. Lì c’è un nastro che ècresciuto in presenza di due centri piccoli ma stabil-mente abitati; qui c’è la crescita di un nastro fatto solodi alberghi semidiroccati, di villaggi e seconde casedisertate per 11 mesi all’anno. Una crescita mostruo-sa che è avvenuta per singole unità immobiliari o almassimo per piccole lottizzazioni, e che non ha maivisto formarsi un centro, qualcosa di domestico chesomigli a un paese di mare. Il lungomare infatti è cosarecente e la sua differenziazione a seconda del comu-ne di appartenenza è solo l’ultimo esempio di un’as-senza di funzioni a giustificazione di questa crescitarigonfiata da ogni genere di abuso.

Completamente spopolato da settembre a giugno,congestionato ai limiti della praticabilità nei mesi esti-vi, vista anche l’assenza di una strada alternativa, il

75

mega villaggio per forzati della vacanza a basso costoformato da Nocera e Falerna è un continuum di edi-fici, grandi e piccoli, più o meno vicini al mare (alcu-ni troppo – così vicini da piantarsi nella sabbia dellaspiaggia). C’è una spiegazione dietro questa situazio-ne. In Calabria la strada è l’unica architrave del pae-saggio moderno. Spiega tutto, si prende tutto. Qui èla vicinanza dell’autostrada A3. Non è un caso, infat-ti, che lo svincolo autostradale della Salerno-ReggioCalabria stia più o meno al km 360, a 3 km dall’in-gresso di Nocera e a 4 km dall’uscita da Falerna. Unaperfetta rendita di posizione se si pensa che a 20 km asud dallo svincolo di Falerna c’è quello di LameziaTerme, centro di 80.000 abitanti che reclama la suaprovincia. Negli ultimi trent’anni molti lametinihanno eletto il compound di Nocera-Falerna a postoprediletto per le vacanze estive di lungo periodo. I vil-laggi estivi sulla 18 crescono a ridosso dei punti diaccesso al mare fin da Lamezia: ce n’è per chi provienedall’autostrada tra Nocera e Falerna, e per chi provie-ne dalla statale verso Gizzeria. I conti tornano. Tuttivorrebbero trovare qui un ricettacolo per questo tipodi vacanze da transumanti: vicino a casa loro, lontanodalla casa degli altri. Alla fine è un formicaio. Cosìl’ambiente, il paesaggio, la qualità della vita anche quiè andata a farsi fottere. Procedendo oltre, oltrepassia-mo, tra il km 373 e il km 375, un altro snodo impor-tante della statale. È dove si incrociano, in una granderotonda tra gli aranceti abbandonati, gli accessi all’ae-roporto internazionale, alla stazione di Lamezia, allasuperstrada per Catanzaro e alla provinciale che rag-

76

giunge il centro di Lamezia. Se proseguiamo oltre untratto in sopraelevata ci evita il transito sulla rotonda.La statale riprende il suo corso e da qui fino a Pizzo ea Gioia e Rosarno il paesaggio è abbastanza omogeneo:pochissimi edifici, molti campi coltivati – soprattuttofrutteti specializzati –, i vivai e la floricultura comeattività prevalente. In questo ambiente risaltano parti-colarmente i capannoni, nuovi e vecchi, nell’area indu-striale dell’ex-SIR, il sogno di industrializzazione chequi ha lasciato solo l’incubo delle ferraglie e dell’in-quinamento di quella che doveva diventare la piùgrande area progettata per essere industriale del meri-dione. Di fatto mai finita, mai resa utilizzabile.

Il mare da qui in poi resta abbastanza lontano pervedere costruzioni a ridosso della strada, ma nonmancano gli ingressi ai resort e ai grandi complessituristici seminascosti nel verde. Anche qui la stradanazionale, la 18, corre parallela all’A3, con a fiancoanche la ferrovia. La lontananza dal mare e il fatto chequi sia l’autostrada il corridoio privilegiato per il tra-sporto su gomma ha fatto sì che questo pezzo rima-nesse una lacuna nel panorama del continuum abita-tivo cementificato costruito lungo la statale.

Statale 18 e A3 si ricongiungono più avanti come ner-vature della stessa gamba in un groviglio di svincoli esvolte sotto il grande viadotto ferroviario presso ilbivio dell’Angitola (che prende il nome da un lagovicino). Un posto spettrale, soffocato da piloni dicemento enormi che torregiano altissimi. Una redou-te sfilacciata e incongrua che sembra venuta fuori

77

dalla fantasia sgangherata di un B-movie futuribile,tipo Blade Runner. Sotto l’ombra sinistra dei pilonidella soprelevata ferroviaria si sta costruendo unnuovo centro commerciale e vi albergano perenne-mente le baracche abusive di alcuni rivenditori difrutta e souvenir. Da qui le strade seguono poi trac-ciati diversi fino a Vibo Valentia e oltre fino alla Pianadi Gioia Tauro e Rosarno; il fatto che questo bivio siaun vero e proprio crocevia (qui arriva anche la statale19, la vecchia Strada delle Calabrie) è testimoniatodalla presenza costante nel tempo di questi bazar sottoi piloni.

Oltre l’enorme viadotto dell’Angitola si ha la sen-sazione di valicare un altro confine spaventoso, irri-solto tra natura e presenza umana. Il panorama diquesto tratto della provincia di Vibo Valentia sulleprime si alleggerisce e si fa un po’ diverso rispetto alcontinuum di edifici che si tende rettilineo tra Praia aMare, Paola, Pizzo e lungo tutta la statale 18 nel trat-to tirrenico calabrese. In questo caso, la mancanza dicostruzioni e casermoni è dovuta alla morfologia dellastrada, che su questo pezzo di costa rocciosa sale diquota con strettoie e continui tornanti. Un’illusioneche dura lo spazio di qualche chilometro. Gli edificipiù densi e sconnessi fanno di nuovo la loro compar-sa arrivati al km 428, all’ingresso di Pizzo. Il mare quiè bellissimo e il panorama che si gode dal bordo spor-gente della 18 verso il Tirreno potrebbe fare a garacon i tratti più belli della costiera amalfitana. Ma larealtà è un pugno nello stomaco. Case tirate su anchesugli strapiombi e le scogliere. Una sequela di edifici

78

non finiti, sghembi e ripugnanti si levano ovunquesequestrando a tratti anche la vista del mare. Ritrovia-mo qui certe apparenze caotiche di vita urbana sullastrada che avevamo già visto ad Amantea, con unadensità edilizia sempre maggiore e se possibile di peg-giore qualità. Anche in questo caso la nuova tracciadella statale 18 negli anni Sessanta-Settanta ha com-portato la saldatura di un centro storico davvero sug-gestivo, bello e antico, che si affaccia sul mare adagia-to a una quota più bassa, con la distesa delle nuovecostruzioni sorte a ridosso della nuova strada a monte.Un vero scempio.

Una cosa è chiara da queste parti. Che al centro diogni interesse c’è il cemento. La quota di cementoconquistata o assegnata per tirare su la casa, per lagrande speculazione abusiva o per l’abuso domestico;le differenze sono solo di scala. Ogni paesetto di unacerta attrattiva ha sognato lo sviluppo e ha puntatotutto sul cemento, senza farsi problemi di urbanistica,di bellezza o scrupoli di socialità. Non è più questio-ne di soldi, di povertà atavica. C’è invece un’illegalitàdiffusa. Il controllo delle mafie qui più che altrove haguidato e favorito l’abusivismo e lo scempio, ne hafatto un sistema integrato, un’ideologia implicita: daquello grande degli alberghi e dei centri commercialia quello di piccolo “taglio”, con le sue brutture sordi-de e ordinarie ossessivamente ripetute, giustificate espacciate per necessità.

Su e giù per questa strada della Calabria di adessoho capito che non possiamo misurare la ricchezza diquesti posti sulla base dell’indice Dow-Jones, né la

79

storia recente e i successi e i disastri di questi paesidella città-a-nastro sulla base del Prodotto InternoLordo (Pil).

Il Pil dovrebbe comprendere anche l’inquinamentodell’acqua, della terra, dell’aria e del mare, la pubblici-tà falsa del turismo della Calabria che ci mette il cuoredi Gattuso e gli occhioni di Miss Italia, le ambulanzeche d’estate corrono di notte per sgombrare la stataledalle carneficine dei fine-settimana estivi.

Qui il Pil, questo stesso pil che misura tutto, nonmette in conto la paura della gente per bene, nonmette nel conto la fatica e la stanchezza dei pendola-ri, la solitudine delle vite sbandate e nemmeno il prez-zo delle serrature speciali per le nostre porte di casa ele prigioni che si devono costruire per mafiosi che cer-cano di forzarle. E il Pil che conta è quello che invecenon fa che aumentare quando si riciclano nel cemen-to e negli ipermercati la pioggia dei soldi sporchi dellemafie, quando sulle ceneri dei vecchi paesi e dellemarine di un tempo si ricostruiscono i villaggi abusi-vi e questi nuovi pretenziosi bassifondi popolari dovela gente spende i suoi soldi e si abbandona nell’indif-ferenza e nella nausea di esistere.

Qui il Pil non tiene conto della salute delle nostrefamiglie, della qualità della loro educazione o dellagioia dei loro momenti di svago. Non comprende labellezza del paesaggio, né di quello perduto e nem-meno del poco che resta. Neanche considera il nostroantico decoro e la nostra amara poesia del sud, la gen-tilezza o la solidità dei valori familiari, l’intelligenzadel nostro dibattere, la preparazione degli insegnanti

80

o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tieneconto né della poca giustizia nei nostri tribunali, nédell’equità che manca nei rapporti fra di noi cittadini.

Il Pil cresce, è vero, e se non cresce crescerà, anchein Calabria. E se cresce il PIL da solo riesce a nascon-dere le nuove povertà nel trionfo del consumo ditutto. Ma questo Pil che deve crescere, qui fa comodochiamarlo a discolpa di tutto, anche se non misura néla nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostrasaggezza, il nostro onore, né la nostra conoscenza, néla nostra compassione né la devozione ai santi, ainostri luoghi e al nostro paese. Su questa strada che èlo specchio della Calabria di adesso il PIL cresce emisura tutto. Eccetto quello che rende la vita vera-mente degna di essere vissuta.

Anima dei luoghi, luoghi senz’animaMettere al riparo. Portare qualcosa al riparo. Il ripa-

ro, la dimora dell’uomo dentro lo spazio della natura,è una delle “archai”, uno degli archetipi del costruire.Quando attraverso la SS18 mi chiedo dov’è finitaquesta archai che dà inizio alla civiltà dell’occidente,che sarebbe anche la nostra civiltà. Mi chiedo delsenso delle case, e con che occhi guardare questi luo-ghi e tutte queste costruzioni senza architettura, privedella misura domestica, dei segni pazienti della con-suetudine umana che rende possibile l’abitare. Comeoffrire un riparo a questi luoghi, a questi paesaggi,almeno dentro di me? Non trovo mai una buona

81

risposta. Gli occhi vagano intorno. Mi separo dallaguida, cerco di stare con quello che vedo. Scelgo laclemenza dentro di me, sorella dell’impotenza. Nonresta che arrendersi al guardare, ma guardare conattenzione, almeno con attenzione. L’attenzione comeforma minima di redenzione. Con la mente in sub-buglio provo a mettere riparo a questo spettacolo diadesso. Solo con l’immaginazione e uno sguardo piùattento ai dettagli si riesce a cancellare e rimettereall’aria il paesaggio frantumato da decenni di espan-sione edilizia, di disordine edificatorio, di abbandonoe cattiva gestione del territorio. Sulla strada ogni cosache appartiene al regno della natura qui sembra disin-carnata, usurpata per sempre. La terra andrebbe resti-tuita alla vita della natura, al respiro profondo di quel-lo che la gente di qui non sente più, l’eco soffocatodell’antico genius loci di queste contrade oggi immi-serite dalle forme eccedenti della modernità presentein ogni sua ridondanza. Mentre attraverso questo suddella città a nastro capisco anche perché posti così peressere raccontati non hanno più bisogno della pennaeclettica dei viaggiatori stranieri o di quella moltomeno alata degli inviati speciali. Le didascalie deiviaggiatori a cottimo degli inserti turistici, le rubricheestive dei giornali sono spazzatura. Nel contempora-neo il Grand Tour di questa nuova miseria che si dise-gna sui bordi delle statali alle latitudini del sud si scri-ve, o si riscrive, fuor di letteratura e di apologo antro-pologico. Basta registrare lo sguardo riflesso dei luo-ghi. Si legge nel frammento umano, nelle posture enei gesti delle persone, si specchia come un residuo di

82

anima nell’immagine infranta del paesaggio, in ciòche vi abbiamo costruito, nelle forme incongrue cheoccupano lo spazio. Quella che viene incontro è l’im-magine corriva e spiazzante che occupa, qui e ora, ilreale così com’è. Qui l’architettura, la forma dello spa-zio costruito, è insieme documento e sguardo riflessodi ciò che siamo. Qualcosa che non teme più dimostrarsi com’è. Priva di anima e di grazia, ma pienadi prepotenza, sovraccarica di presenza. Lo sguardodovrebbe essere allora già esso stesso conoscenza,attenzione, autopsia. Però qui nessuno vuole incol-parsi della nostra cattiva coscienza, della nostra man-canza di cura, per la nostra mancanza di anima che siriversa fuori. L’anima di questi luoghi infranti si lasciacogliere solo nella profondità e nel nitore di unosguardo più umile e ravvicinato, nel dissidio di un’ap-partenenza che affronta e riconosce con sgomento ciòche l’uomo ha costruito sulla terra per la sua dimora.Il luogo qui ormai possiede un’anima fragile e dimi-diata che è in contrasto con lo spazio. E così, comeogni luogo precede lo spazio che lo ha rinnegato, ioogni volta mi riprometto di esplorare i significatinascosti di questo paesaggio oltre le apparenze: i luo-ghi cresciuti ai lati della statale rivelano loro stessi nontanto attraverso la concentrazione di dettagli tecnici,o dall’accumulo di particolari descrittivi, architettoni-ci ed edilizi, o attraverso ricostruzioni antropologichee geografiche dettagliate, quanto piuttosto regalandoloro un po’ di attenzione, la forza di comprensioneumanizzatrice che è propria dello “sguardo”, dellapena che anima o nega la vita di questi paesaggi.

83

Bastano i resti di una casa diroccata, un viandantesolitario – e ormai sono quasi soltanto gli stranieri, gliextracomunitari che vivono ai lati della strada a muo-versi a piedi o in sella a biciclette sgangherate –, lasagoma di un bambino che si sposta a piedi con la car-tella sulle spalle sfidando le auto che sfrecciano lungola strada trafficata, e la coscienza si apre alla visione diquel che vive a fatica, a una carità che deve acconten-tarsi di frammenti. Che deve accogliere tutto come“anima”, “atmosfera”, “natura”, “genio del luogo”. LaSS18 con i suoi cascami moderni ha disdetto la suaarchai. La sua indolenza mediterranea si è scambiatacon la tecnica, col cemento che ha fatto presto a tra-sformare la natura in “prodotto”. Qui tutti pensandodi salvarsi partecipando allo sviluppo hanno spinto lapercezione del mondo su una strada sbagliata, contri-buendo al perdersi del senso della misura, del senti-mento dei luoghi nell’illimitata uniformità della“cosa”, res extensa, che si manifesta proprio nellamancanza di anima. Manca l’anima nella casa, nellapratica sociale dello spazio e nell’architettura, chenell’era della tecnica è divenuta l’attività di un “fare”alla cieca, costruzione senza memoria e senza luogo.La fotografia di questo paesaggio calabrese, a volteancora sorprendente poiché insieme sordido e bellis-simo, ci mostra invece all’estremo come il luogoviene prima di tutto. Che il luogo esiste come neces-sità e resta nonostante tutto, prima della sua stessastoria, prima dell’architettura, prima e dopo dell’uo-mo che se ne servirà nel tempo per abitare, costruire,lavorare, consumare. Ma nello sguardo opaco di noi

84

contemporanei, oggi tutto è asservito a uno svilupposenza testa, senza la qualità della leggerezza, senza lafrugalità del passato. Ciò che appartiene alla memo-ria dei luoghi occupati dalla pervasività della stradadiventa subito presenza esorbitante, ingombro sovru-mano. Tutto ciò che abbandona il guscio dei paesi edegli insediamenti storici che formavano l’identitàdiffusa dell’insediamento umano su questa costaoccidentale della Calabria, è ormai ab-usato, cancel-lato e non si vede più. Questa Calabria dei centri sto-rici rivieraschi è stata il luogo di una civiltà antica edi una cultura dell’abitare (la fitta maglia dei centrisecondari e dei paesi millenari) che oggi per una sortadi nemesi della storia è diventata tra sfregi e abusivi-smo, un’area simbolo del paradosso sociale e del non-luogo. La catastrofe dei luoghi oggi si consuma senzainterruzioni, senza ripensamenti. Si continua acostruire non più per l’esigenza di abitare ma peroccupare lo spazio. La geografia insediativa si sfrangia,si formano periferie in centri che raccolgono anchemeno di 1000 abitanti. Questo è lo stigma che aggra-va la complessità del paesaggio di questo spicchiodella Calabria di oggi, antica e post-moderna. In que-sto disincanto del moderno occorre che il cemento sifermi per riedificare il paesaggio, non più cancellandoma inseguendo tracce, riattualizzando memorie.Occorre che ciò che viene edificato restituisca allavisione simulacri del passato che devono rivivere.Rivivere come oracoli della casa, nell’iperbole folledella vita quotidiana di persone, cose e luoghi delcontemporaneo. Occorre ricostruire e restaurare pae-

85

saggi, conservare e riedificare nei luoghi di sempre:l’anima dei luoghi affiora nella costruzione di ciò cheda sempre è in luogo, riappaesato nella fatica del vis-suto e nello spazio di un mondo che nonostante il dis-sidio del moderno ancora si riconosce in una piazzavivace e affollata, nei gesti e nei ritmi che accompa-gnano il fare di tutti i giorni. Costruire sì ma sololasciandosi sedurre dal luogo e dalla storia. Lavorandosoprattutto sulla qualità estetica piuttosto che sullatecnica, puntando sulle tecnologie edilizie biocompa-tibili per oltrepassare le contraddizioni del moderno.I luoghi dell’abitare devono restare un patrimoniodelle comunità, espressione dello spirito pubblico, atestimoniare la continuità di un passaggio epocale.Un documento in cui comunque riconoscersi, perrinnovarne la memoria e la vita. Invece di continuarea rinnegare e a spingere il cemento, lo “spostamentodi prospettiva” potrebbe iniziare solo con alcuni cam-biamenti qualitativi localizzati. In Calabria una cosaprima di tutto: basta costruire, ripristinare il paesag-gio, sostituire il brutto, poco e meglio, aprendo cosìalla logica del “locale” e dei valori perseguibili. Unalogica dello sviluppo che restituisce dignità alla terra,e alla sua vita naturale, che arretra sulle posizioni delcreato e prescinde dalle proiezioni dell’ideologia delprogresso e dell’espansione senza limiti.

È solo percorrendo ogni giorno la strada che ti accor-gi che qui il consumo del territorio ha bruciato giàquasi tutti gli spazi. Non esiste più la campagna. Nonsi vede più il mare. La natura in abbandono è ridotta

86

a interstizio improduttivo tra le superfici costruite.Dopo l’invadenza e i fuori scala del recente passato, cisi potrebbe allora riferire al piccolo. Non alla stradama alla via, alla tradizione e al metodo del piccolo,dove il piccolo è la via, non è la meta definita, il finestabilito, ma il senso di un fine. Solo in certi luoghifamiliari sentiamo di avere uno scopo, sentiamo cheesiste una via e che per una via ci si sta muovendo.Occorre allora abbandonare definitivamente la vec-chia “ideologia del progresso” a cui abbiamo sacrifica-to spazio, natura e cultura per introdurre una nuova“ideologia dei limiti”, della sostenibilità ambientale.Fermare gli abusi può essere considerato un appello acessare di privilegiare la spinta al consumo del territo-rio, con la consapevolezza del come costruire anzichéassecondare la deriva del perché costruire. Questo èforse l’unico modo per riconciliarci anche in Calabriacon il tema fondamentale dell’abitare. È un modo diconiugare estetica e politica, per riportare la bellezzanei nostri interessi e nel nostro ambiente, per restitui-re efficacia e consapevolezza al nostro abitare i luoghi.La storia della bellezza in Calabria ci dimostra che essaè efficace anche nella sfera dell’utile. Mi chiedo infattise è davvero utile, oltre che esteticamente obbrobrioso,abbandonare i paesi, continuare a degradare il paesag-gio, costruire periferie prive di socialità, o ancora vil-laggi turistici, seconde e terze case destinate a restaredimore per fantasmi undici mesi all’anno come abbia-mo fatto finora? Il centro del costruire, del fare animasui luoghi, è un interesse umano generale, che si affer-ma solo quando l’architettura si pone come risposta al

87

dimorare dell’uomo in armonia con la natura. La bel-lezza investe non solo un modo di raccontare i luoghi.Si manifesta socialmente proprio nel costruire e nell’a-bitare i luoghi della vita comunitaria, nell’edificazionedello spazio sociale e umano. La si scorge ancora neipaesi, in manifestazioni benigne della vita quotidiana,nelle immagini vere che il mondo offre di sé.

Lo sconforto dei miei soliti giri. Una cosa è certa peradesso: si vive in un eterno presente nella città a nastroe il futuro non sembra molto più roseo del tempo e delcemento che si espande adesso sulla strada. Si scivolasenza freno alcuno. Uno stato di fatto difficilmentemodificabile. Ci sono soluzioni possibili? Prendereatto della tendenza esistente e agevolare la saldaturacontinua della città a nastro? Coprire con una coltre dicemento, un sarcofago continuo di case e costruzioni,come sta facendo Amantea con le nuove lottizzazioni?Dichiarare guerra aperta all’abusivismo e procederecon le demolizioni per ripristinare lo status quo comesta faticosamente provando a fare qualche sindaco? Ionon lo so. La Regione si è inventata un programma,“Paesaggi e identità” (sic), “volto a coinvolgere lapopolazione e le istituzioni locali nella lotta agli eco-mostri costieri”. Intanto nessuno frena l’avanzata delcemento. Io certe volte faccio sogni agitati. Sogno unacatastrofe, un terremoto selettivo, uno tsunami genti-le. Sogno l’Apocalisse, che si porti via tutto, tutto ilbrutto della SS18, lavato via da una gioiosa marea.

Ce lo dirà forse il turista per caso che tra qualcheanno si affaccerà di nuovo sulla terrazza di Fiumefred-

88

do o di Guardia Piemontese per ammirare il panora-ma. Che ancora c’è, o che forse non c’è più.

Se si incazzano i santi. Il Minimo, al massimo Si capisce dal traffico sulla statale intasata che è un

giorno importante. Ne parlano tutti, ogni anno è unodegli appuntamenti che scandiscono la vita in Cala-bria. “In questi giorni Paola è la capitale spirituale ditutti i calabresi”, titolano con immancabile stucche-vole banalità i quotidiani regionali, farciti come sem-pre del solito pastone di notizie truculente, gossip ecircolari emesse dai palazzi per le cronache del politi-chese locale. I santi spezzano la monotonia della prosacalabra di attualità. Un bagno di buoni sentimenti, lamemoria spenta di una religione di popolo ridotta amacchietta, la fede secolarizzata che nessuno pratica eche non costa niente tranne invettive e proclami.C’era una volta un santo, “u santu nuastru”, e c’erapure un eremo, un santuario. Una specie di Porziun-cola come quella del Francesco di Assisi, di cui l’ere-mita paolano era stato seguace. Un angolo di Calabriada cartolina: un romitorio di grotte scavate nella roc-cia, isolato tra i dirupi e le balze scoscese di un tor-rente limpido, un anfratto segreto nascosto dallamontagna che sale ripida tra i boschi della costiera. Infondo al vallone sotto il piccolo convento si spalanca-va la specchiera azzurra del Tirreno. Una dimora perasceti e spiriti forti. Era la pace di un monastero fattoper il raccoglimento e la preghiera. Un luogo appar-

89

mariafarago

e straordinario, riconoscere qualcuno davvero percaso a un certo punto della notte, sarà qui tra unacurva e l’altra della vita. Con la strada che si fa aiuo-la, piazza, parco, panchina, spiaggia, stanza, letto. L’e-den fiorito del primo giorno del mondo che si schiu-de dopo una curva e ci accoglie prima di scendere aun semaforo per abbracciare chi ti manca da sempre.Ritrovarsi in mezzo alla strada che facciamo tutti. Inmezzo ai fantasmi, agli sconosciuti, in mezzo al pae-saggio che scorre scipito, nella stessa solitudine cheadesso continua a confonderci. La stessa strada e unincontro imprevisto; è la sola speranza, anche se è unabalordaggine dirselo.

RiveQuesta strada, la statale 18, è per la metà dei cala-

bresi, gli abitanti del versante occidentale, la stradadel mare. La strada delle vacanze. È la strada che acco-sta il mare meridiano dove cade il sole: il Tirreno, chequi non è solo uno spicchio di Mediterraneo. In certigiorni ha la vastità dell’oceano, un mare aperto, uncontinente d’acqua, un Occidente totale che quasi tiviene incontro senza ostacoli per sommergere tutto.Oggi la corona delle Eolie dorme impigrita nel gelomarino. Alle spalle di una tenda di nuvolaglie spessenon si avvista neanche la piramide nera dello Strom-boli. Il mare è così imbizzarrito e alto e sterminatodietro a miglia e miglia di nulla che “il suo odore –come scriveva da qui Elsa Morante – scavalca i monti

111

mariafarago

e si sente al di là dalla catena costiera”. Dal cielo nonancora serale sul mare di Paola sta scendendo uno diquei tramonti immobili e sconfinati tessuti di ombree di fatue luci invernali che rendono sbiadita ognialtra cosa su cui cade lo sguardo. L’orizzonte del mareè così remoto e intenebrato da far pensare che la glo-ria del sole non abbia mai illuminato il giorno. Quel-lo che vedo sembra avere ancora qualcosa del presagiodei primordi; il paesaggio che precede la creazione easpetta come un lampo la scaturigine di un gran lucesenza origine. Questo è stato il mare del viaggio odis-seo, il mare del mito, la via d’acqua illuminata daglieretici, la rotta dei perseguitati e dei profughi di oggi.Il mare dell’immaginazione romantica e del pensieromeridiano da cui salparono le conoscenze libere e“immorali” di geni nordici come Nietzsche, Freud eBenjamin. Per me è il mare che si guarda a occhi chiu-si. L’unico mare che riconosco dall’odore, quello chesomiglia come un fratello allo specchio d’acqua cheillumina altre città che conosco come mie: lo stessomare che ho toccato con le dita, che ho annusato eassaporato a Genova, Napoli, Palermo, Marsiglia,Tunisi, Smirne. Per me il mare di casa è anche quelloche bagna la letteratura che amo. Lo stesso mare cala-brese “tanto amato” da Enzo Siciliano. Il Tirreno dalla“luce esplosiva”, il mare di “un sentimento che – dice-va sempre Enzo – risucchia ogni energia”, che nean-che “quando il volo dell’aereo lo affronta sempre piùdall’alto, avrei mai potuto lasciare fuori da tuttoquanto mi portavo dietro”. Lo stesso mare che ispiròle novelle di Leonardo Sciascia ne Il mare colore del

112

vino; con la fatalità della tela inquieta del Tirreno chesi svela nel cuore della notte: “Eravamo già nelle Cala-brie; alle fermate, nell’improvviso dilagare del silenzionotturno, si sentivano frasi in dialetto. Ad unmomento il treno si fermò in riva al mare, e il suonodel mare si fece immagine, come nelle illusioni delcinema, una di quelle dissolvenze in cui le figureumane si dissolvono nell’avanzare delle onde”. Il mareche è anche il mare del marasma tragico che affliggeun episodio de La Storia di Elsa Morante, quandoNora salì sull’ultima cremagliera serale partita daCosenza per andare a morire nelle acque del Tirreno,“la spiaggia dove l’hanno ritrovata, è a vari chilometridi distanza dal lido di Paola, in direzione di Fuscaldo,di là dalla ferrovia”, dove una volta si stendevano i“campi collinosi di granturco, che ai suoi occhi vaneg-gianti nel buio con la loro distesa ondulante potevanodare l’effetto d’un’altra apertura marina”. “Là Nora ècaduta, e la marea l’ha ricoperta, appena quantobastava a farla morire, senz’altro rumore che il succhioimpercettibile dell’acqua calma.” Questo stesso mareè stato anche il mare elettivo di Francis Marion Craw-ford, grande e dimenticato scrittore americano deiprimi del Novecento che qui vicino, nella baia di SanNicola Arcella, trovò il suo “buen retiro” in una sce-nografica torre costiera del Cinquecento. Ci venivaogni anno, fino alla morte, con la bellissima moglie,insieme a Sarah Bernhardt e una piccola corte diamici fidati, vecchi marinai sorrentini, il pittore dane-se Henry Brokmann-Knudsen e scrittori della coloniabritannica come Norman Douglas, che ricorderà

113

Crawford nei suoi Biglietti da visita. Qualche voltanelle sue traversate sul Tirreno lo accompagnavaanche Joseph Conrad, con il quale Crawford, che eracapitano della marina americana, si alternava al timo-ne del suo magnifico veliero a tre alberi, The Alda,uno schooner “grande e bello” che lo stesso scrittore,esperto navigatore, pilotava dall’atlantico fino inCalabria. E infine il Tirreno, forse più dello Ionio, fuil mare di George Gissing, lo scrittore inglese che nel1889 dal ponte di un vapore, il traghetto Florio diret-to a Messina, in un “cielo color cremisi, perfetto esenza una nuvola”, ammirava gli ultimi bagliori di “unnobile tramonto sul Tirreno”. Davanti al lui il pae-saggio maestoso della costa calabra avvolta come sta-sera di “un blu purpureo e intenso”. Era la rivelazionedella bellezza per questo vittoriano solitario: “A sini-stra le colline selvagge della Calabria appaiono comeuna lunga piega di corpi ondulati, colline su colline diun oscuro color pervinca. Sono rimasto a lungo aguardarle, pensando a cose inesprimibili”.

Oggi questi stessi paesaggi litoranei solcati da un gro-viglio di strade e dagli ingombri delle case e delcemento sono sobborghi. Rive di paesi, lidi, porti,approdi, stecche di case e piccole città per turisti eabitanti provvisori di un altro mare. Quello che restaappartiene all’irriconoscibile e al seriale, mentre unavolta erano visioni mozzafiato, luoghi quieti e ameni,bellezza da angina pectoris. Il mare, la culla dellaragione occidentale che qui cedeva alla terra i colori diquel “cielo perfettamente specchiato dalle acque nella

114

sua parte capovolta”. Il mare della rapsodia dei pae-saggi italiani del sud che incantava i pittori e gli scrit-tori del Grand Tour. Dalle coste della Sicilia sino allerive di Marsiglia, passando per tanta Calabria, Cam-pania, Lazio, Toscana, Liguria. Qui intorno il marestuprato è quasi sempre un mare che ha perso il colo-re, non più “il mare colore del vino”, l’acqua odisseadel Tirreno azzurro e spumoso. Identico scempio,quasi intercambiabile nei suoi orrori più vicini, versosud. Ma non è meglio verso un nord che da qui sfumatra le fabbriche arrugginite e i cantieri le sue brutturerivierasche e sembra un sud meno luminoso, con l’i-ninterrotta sequela del malfatto che continua a risali-re i paralleli di un mondo alla rovescia. Ovunque lestesse spiagge avvizzite, gli stessi ridossi smangiati, edietro i promontori i vecchi paesi a strapiombo dellecime scure che dalla schiena spossata dell’Appenninosi nascondono alla vista delle tante marine che risal-gono le rive della Calabria fino all’osso duro del Pol-lino, le nostre Alpi Marittime. I segni di adesso sonole massicciate ferroviarie che slineano le coste, le sta-zioni, le strade trafficate e rumorose, i lungomari scas-sati che si perdono nel nulla, il mortorio delle marine,il turismo dei villaggi di seconde e terze case. Paesag-gi industriali in abbandono – come nel groviglio dimacroscopiche ferraglie della ex Sir, lasciate nellacampagna dopo l’aeroporto, sulla sponda lametina.Segni di presenze minuscole o spropositate, mai inarmonia con ciò che questi suburbi degli ultimi tempihanno saputo mettere al mondo. Periferie anodine espaesanti, dove senza una didascalia minima che riag-

115

ganci al mare e alla sponda marittima del Tirrenoquesti bordi di strada, è facile perdersi e soffocare dinausea, naufragare di sconforto. Luoghi dove il mareche prima c’era ora si nasconde e si perde come unfantasma, condannato a retrocedere dietro un murodi case, a una distanza che dispera.

Dalla strada ti accorgi che il mare che smette di farecompagnia alle rive diventa un lago amaro, comenelle cosmologie demoniache dei mondi partoritidelle fantasie medievali, locus pletore, locus malus. Unadistesa sterile di vita, malsana, miserabile, sconfortan-te, oscura. Anche qui adesso il mare è ricacciato,degradato. Le belle rive calabresi si metamorfizzano inposti di cascami e di polveri velenose, di ferragliearrugginite, ricoveri di un’umanità precaria e reiettacome i segni sparuti che lascia in vista ognuno di que-sti insediamenti. La Liquichimica, Praia a Mare. Pae-saggi choc del degrado cresciuto sulle rive del Tirrenodi adesso. Non c’è poesia e denuncia che tenga per chivuol raccontare questo disastro. Ci sono anche coseche non si vedono, che restano fuori da questi scattidi istantanee, e che pure già si intuiscono fuoricampo.Come gli abusi ambientali e i giacimenti di rifiuti tos-sici, interrati sulle stesse spiagge violate del Tirrenocosentino. Qui nelle vicinaze di Amantea è stato tom-bato il segreto della Jolly Rosso, la nave dei veleni chetraslocava bidoni radioattivi e scorie tossiche dispersee insabbiate tra le acque e le spiagge della costa.Immagini di una disfatta della ragione che non puòpiù consolarsi nello specchio della natura, nella bel-

116

lezza delle rive, ma solo nei suoi rovesci umani, aibordi di un mare che ha perso il suo colore, il suorespiro. Queste frange d’acqua e di terra calabrese sulconfine naturale della storia del sud, sempre imper-fette e refrattarie, un tempo potenti e consolatrici,oggi dismesse a usate illegalmente da pretese di svi-luppo, dopo mille abbandoni e servitù.

Belvedere, Cetraro, Campora, Vibo-Pizzo. Porti emarine, approdi nuovi, sponde turistiche. Un tempoqueste coste erano luoghi di soglia dell’umanizzazionemillenaria della terra dal mare. Oggi sono i segni diun’Italia alla deriva. Sponde di un sud e di una Cala-bria minore che qui la modernizzazione recente haimmiserito con l’invadenza e il disamore di una frene-sia brutta e sconcia, assoggettata a scopi che così spes-so sconfinano nella follia, nell’ordinario, nell’inutile.In Calabria questi luoghi-relitto ci dicono che la natu-ra è irresponsabile perché innocente. Il mare di ogniriva è senza colpe, indifferente anche quando intornosi crea la catastrofe dei luoghi. Il mare basta a se stes-so. L’uomo no, è responsabile sempre. E quando rin-nega il mare, rinnega se stesso. “Uomo libero semprecaro tu avrai il mare”, recita un bel verso di Baudelai-re. Non mi interessa il mare dei turisti, il consumodell’estate, il caos esteriore delle vacanze. Il mare perme assolve sempre al bisogno di verità, con il calore ela profondità di una preghiera umana. Una possibilitàdi redenzione che si riconquista solo attraverso losguardo che oltrepassa il presente. Anche nel qui e oradi questi nostri tempi senza luce. Anche di fronte a

117

queste rive di mare che sembrano oramai negate persempre alla bellezza. Anche su questo mare per ora havinto la strada. La SS18, negatrice di esistenze.

Lo faccio anch’io, anni e anni ormai sono, come unpendolare qualsiasi, quel tratto da Paola a Falerna, edè da brividi. Col traffico che corre sempre, i rallenta-menti improvvisi, i mille rivoli di strade che si incro-ciano e si aggrovigliano una sull’altra. La vita dellagente che all’improvviso trabocca fuori dalle case escende sulla strada straripando, mettendo tutto sotto-sopra. Anche quando il tempo è buono e tutto sem-bra normale hai la sensazione di aver portato a casa lapelle per un miracolo. Di solito si muore facilmenteper gli incidenti sulla superstrada, basta un attimo didistrazione e la morte è in agguato. La SS18 nel trat-to del Tirreno calabrese anche in questo è una stradada primato. È piena di edicolette, altarini e foto didefunti che ricordano tragedie e stragi tra le lamiereaccadute ad ogni miglio della SS18. È una specie dicimitero chilometrico, pieno di improvvisati cippifunerari, ricordini minuscoli ai bordi della strada, vasidi fiori di plastica e corone di rosari, sciarpe di tifosimorti annodate ai guardrail, minuscole preghiere ebigliettini spillati, alcuni montano foto di defunti elucine elettriche. Un’antologia palatina di lapidi edepigrammi del ricordo e delle misericordia automobi-listica. Tragedie e stragi tra le lamiere sulla SS18, neltratto del Tirreno calabrese sono all’ordine del giorno.Non è solo colpa del traffico. Ci sono i cantieri, gliscavi, il movimento terra, i massi da buttare a mare

118

per salvare la speculazione sulla costa, con la spiaggiache arretra rosicchiata da mareggiate e abusi edilizi. Icantieri sono sempre all’opera sulla SS18, ogni giornospunta una gru nuova, un recinto di cantiere, un traf-fico feroce di betoniere e di camion che si muovonocome vespe impazzite intorno ai nuovi nidi di cemen-to. Bisogna fare in fretta, tirare su tutto prima chearrivi un controllo. Cantieri, non solo di case. Sicostruiscono ancora inutili villaggi per turisti assenti efilari di casette in meno di un mese dove prima c’erasolo sodaglia bruciata e sterpi e canne al vento vicinoalle spiagge. Ma anche roba grossa: centri commercia-li e capannoni, depositi e fabbricati vagamente indu-striali, silos, parcheggi, albergoni, ristoranti per ban-chetti e nuovi e spropositati scheletri di cemento; sicostruisce sempre, senza soste. I cantieri sono l’affarepiù grosso sulla SS18; con poche eccezioni sono tuttiin mano a oscuri appaltatori e mafie, a speculatori, asindaci e politici compiacenti che della sicurezza e delrispetto per l’ambiente naturalmente se ne fottono.L’importante è guadagnare spazio, e con lo spazio isoldi della speculazione. Per occupare altri suoli, ter-reni da riempire di cemento e nuove cubature. Quiormai la speculazione combatte la sua battaglia defi-nitiva, da ultimare con tutti i mezzi; la posta in giocoè oltrepassare con un nuovo fronte la soglia di tuttoquello che è già stato costruito. Dilagare sempre piùaccanto al mare, mettere le costruzioni più in vista, ilpiù vicino possibile al litorale, portare la trincea delmattone fin sul bagnasciuga delle spiagge, riempireogni spazio, ogni interstizio da saturare. Costruire.

119

Cementare tutto, fino all’ultima zolla, fino all’ultimometro di crosta utile. Anche se chi costruisce in mezzoalle brutture, chi infoltisce il cemento sino all’horrorvacui che invade tutto quello che spunta tra questocaos edificatorio, sa benissimo che potrà farlo lucran-do sempre di meno, con profitti sempre più margina-li. Anche se costruire non rende, si costruisce e basta.Né la rendita né l’economia del profitto speculativo,giustificherebbero tutto questo sperpero folle e obbro-brioso di cemento. Ma una ragione per proseguire lacorsa folle al cemento c’è. Cetto La Qualunque, lacaricatura del sindaco calabrese di queste parti, unducetto rozzo, osceno e spaccone, impersonato magi-stralmente dal comico Antonio Albanese, sogna intor-no a sé orizzonti affollati di gru, betoniere e foreste dipilastri di cemento armato. Ma non è da adesso che larealtà supera la fantasia. La SS18 è già da tempodrammaticamente più avanti del sogno svergognatodel sindaco-palazzinaro di Albanese. La più recenterelazione sulla ’ndrangheta della Commissione Nazio-nale Antimafia, ha certificato che il ciclo del cementoper le cosche e i gruppi criminali che spadroneggianosul Tirreno calabrese rappresenta uno dei principalicanali di riciclaggio dei proventi mafiosi. Cifre enor-mi che in traduzione diventano colate di cemento. Èuna storia che viene da lontano. Gli anni del debuttodel cemento armato sulla SS18, la prima città-strada-le della Calabria, sono stati gli anni d’oro della primarepubblica democristiana. Gli anni di Misasi e diMancini, i proconsoli cosentini del potere romano.Due dioscuri del cemento facile, entrambi padroni di

120

ampi feudi vacanzieri sul Tirreno, residenze dorate evilloni di cemento simil-pompeiano a San NicolaArcella, Diamante e Sangineto. Dopo di loro la scia alseguito di speculatori, avventurieri, vipperia d’accattoe cortigiani del generone politico demo-socialistadegli anni d’oro; un sottobosco di costruttori e palaz-zinari improvvisati che qui hanno potuto crescereindisturbati e fare man bassa esibendo protezionipolitiche ministeriali e una tessera governativa. Eranogli anni che inauguravano il ciclo del cemento cheinvadeva come un’ondata di tsunami le belle coste delTirreno, ancora libero e azzurro. Erano gli anni dellemigliaia di preferenze elettorali segnate sulle schedecon una croce, dei voti barattati con i posti nel pub-blico impiego amministrati “alla calabrese”, con imetodi spicci e materialistici che hanno fatto le fortu-ne dalle clientele e del sottogoverno locale. Cambiomerce: voti e posti. Tutto pagato con la terra, con lacuccagna dei demani marittimi e delle opere di boni-fica; risorse pubbliche e terra vuota su cui speculare epiazzare cantieri, colate di cemento da scaricare sullebelle marine ancora intonse. Tutti i generi di abusi edi accaparramenti abnormi consentiti e propagandatiin nome di una modernizzazione apocalittica e barba-rica. Le parole d’ordine erano sviluppo, turismo,vacanze e case per tutti, ville e condomini al mare pertutti. Dopo è andata anche peggio, e adesso ogni abu-sivismo col suo colpevole disastro ambientale è legal-mente promulgato in una sorta di antropologia della“necessità” edificatoria. Una metafisica del mattone edella sua onnipotenza che gareggia in egoismo e dis-

121

sacrazione con una frase di Sant’Agostino: “Dueamori fecero due città: la città terrena l’amore di séfino al disprezzo di Dio, la città celeste l’amore di Diofino al disprezzo di sé”. Qui ha vinto il cemento edi-ficando la città del disprezzo. E con il cemento “l’a-more del mondo fa Babilonia. Ognuno dunque siinterroghi su cosa ama e capirà di quale città è citta-dino”. Città che non c’è, che qui vuol dire periferiaprofonda, consumo del suolo alla cieca che si manife-sta in “urban sprawl”. C’era bisogno di una didascalianuova, dell’international style urbanistico per sdoga-nare il cancro incontrastato dell’edilizia caotica e delcemento a basso costo che qui adesso con terminolo-gia asettica si chiama “sviluppo lineare dei centricostieri intensamente abitati”. Sì, intensamente abita-ti e sempre più nelle mani delle mafie e di speculato-ri senza scrupoli. Un enorme paradosso: qui in unaregione senza grandi città è arrivata l’ultima mutazio-ne moderna delle grandi concentrazioni urbane, lamalattia della metropoli approdata sulla risicata stri-scia di terra calabra che fu la riviera più nobile e sel-vatica del Tirreno. Le “marinelle di poco pane” dellungo medioevo rurale trasformate all’improvviso neiquartieroni spalmati di una polis acefala. La nemesidella storia che precipita là dove fino a pochi decennifa non c’erano che paesini millenari arroccati e disco-sti per diffidenza atavica dal respiro possente delmare. Spiagge deserte di ciottoli e sabbie vulcaniche,canneti umidi, ficare, viti, oliveti, gelseti e verzieridove ora tutto e cemento e artificio. L’insediamentomoderno si è sguaiatamente sdraiato sulla risicata ed

122

elegante striscia di terra che costeggiava il Tirreno,usurpando ogni spazio. Si costruiscono ancora altrestrade inutili e costose che si perdono nel nulla, zoneindustriali che sono solo teorie di capannoni vuoti, sicontinua a bruciare, si abusa della terra, dell’acqua, siinquina senza risparmio e si costruiscono albergoniinutili davanti alle spiagge sporche e senza fogne. Laspazzatura e i veleni si accumulano come a Napoli e lagente cammina su strade e marciapiedi costruiti coltossico delle fabbriche del nord. Ogni estate in più chivive da queste parti fa il bagno in un mare contami-nato da liquami e veleni, e adesso che si sa, forseanche dai rifiuti radioattivi affondati con le navi aperdere. Nelle marine la gente abita case nuove e lindetirate su in fretta. Migliaia di abitanti sotto i piedihanno veleni interrati alla meglio. Vite che convivonoimpastate con le discariche, come a Campora, Aman-tea, Belvedere, Praia a Mare.

Davanti a questo inarrestabile disastro, all’aggres-sione alla salute, alla dignità della gente, alla bellezzadei paesaggi e del mare guastati dalla squallida edili-zia della “città stradale” che si stende come un fune-bre lenzuolo di cemento sulla SS18, a volte vorreiinvocare davvero la mano di Dio. Una maledizioneterribile, un salmo da Qoelet, uno tsunami gentileche dal mare si abbatta sullo sporco che orla la terraper scioglierlo come un enorme twist di lavatrice. Unterremoto selettivo che inghiotta tutto il marcio diadesso e lasci in piedi solo le povere cose, solo quelloche c’era prima. Ma sì, una bella catastrofe provvi-denziale che convinca i miserabili e stolti abitatori di

123

questa Gomorra di cemento alla retrocessione, allosmarketing territoriale, all’intangibilità della terra edel mare. Una resipiscienza umana che promulghi inlegge di Dio la riconsacrazione dello spazio, la “tota-le intrasformabilità” di quel che c’era. L’unica utopiadesiderabile è sempre il contrario della realtà. Sì,quello che invoco dal cielo è insieme un castigo e unapreghiera.

Certe volte attraversando le contrade del sud e laCalabria di adesso mi chiedo se il destino di tanta bel-lezza nei tempi che viviamo non sia invece proprioquello del paradosso di essere vinta e sopraffatta defi-nitivamente dal caos. Oggetto di uno sfregio perma-nente al passato, sottomessa alla sventura di un futu-ro esitante, oltraggiata, sfasciata e fatta a brani dallepretese di tanti mediocri usurpatori e profittatoriimmemori della sua magnificenza. È come una ven-detta. La vendetta incosciente di chi rinnega e oltrag-gia. Perché non ha mai saputo godersela questa bel-lezza, proprio perché troppo bella, esorbitante, fuorimisura, all’eccesso rispetto alla sua manchevole capa-cità di trarne profitto semplicemente amandola, percustodia e con cura, avendone ricevuto per natura eimmeritatamente il dono.

Certe volte dalle mie parti quando guido a lungo inmacchina per andare al lavoro, prima dello stradonedi Falerna Marina che si biforca tra l’ingresso dell’au-tostrada e il vecchio tracciato della statale che si rial-laccia verso il faro di Capo Suvero, mi volto e giro la

124

testa verso il mare. Mi godo il mare. La sua cupolablu, alta e tesa da un punto all’altro dall’orizzonte delprimo cielo primaverile. Quando d’inverno nellegiornate più fredde la linea tesa tra cielo e mare è per-fettamente liscia e sgombra di ogni presenza invaden-te, è un altro spettacolo. Le onde di libeccio che sciac-quano furiosamente la massicciata ferroviaria, arriva-no rombando sugli arenili deserti e spazzano via comelo schiaffo di un gigante tutta la spiaggia del Tirreno,portandosi in mare i detriti e i segni di ogni bruttura,i costrutti incongrui della recente “urbanizzazione”. Ivillaggi miserabili di seconde case per il mare, i casso-ni di cemento scorticati dei motel spuntati tra i can-neti e le tamerici mozzate, il finto porticciolo turisti-co di Campora, fatto in fretta con una gettata di massidi cemento buttati di sbilenco sulla spiaggia davanti alSavuto, subito affogato dalla duna portata dalle lun-ghe risacche oceaniche dei giorni di burrasca. Qui ilmare è forte e grosso. Il mare si difende e si riprendeil maltolto in una gara insensata che si ripete a stagio-ni. Guardo il mare per non vedere tanta bellezza sciu-pata e presa a calci. Guardare dalla parte del mare misalva sempre dal disgusto che riesce invece a procura-mi quello che vedo sottocosta, intorno e vicino allastrada. Così penso anch’io che sarebbe “tempo diandare un po’ per mare a guardare il mondo: è questoil mio metodo per scacciare la melanconia e regolarela circolazione del sangue”. Ma così poteva scrivereMelville in Moby Dick. Vorrei fare come lui, o comeConrad, capitano di lungo corso con l’orrore per ildomicilio e sempre in fuga su rotte sbandate per i

125

sette mari. Ma io qui sulla statale sto guidando la miamacchina per andare al lavoro. Vado a fare la mialezione di pendolare della cultura nella proverbialeCatanzaro, e non sono un marinaio. Resto qua, in filasu questo corridoio trafficato di strada statale 18 delleCalabrie dispersa tra Fiumefreddo e Gizzeria. Unasequela di disarmonie e di brutture, piena di ingom-bri eterogenei e di teorie di abituri di cemento arma-to. Poi dopo una curva, la sirena di un’ambulanza, uncamion sulla strada, uno stridore grave di freni miriportano alla realtà. In questi paesaggi immemori chesi incontrano verso il mare, nella banale ordinarietà diquegli oltraggi alla terra c’è un’insolenza gratuita chemi avvilisce sempre. Mi avvilisce e mi fa problema.Eppure io non posso farci niente. Così va il mondo daqueste parti. Vivere nel brutto senza accorgersi che èbrutto, è possibile.

“In ogni creatura vi è uno stato sano e uno difettoso, esolo il primo può essere ritenuto in grado di darci lavera norma del gusto e del sentimento.” Così nel 1757scriveva David Hume nel saggio La norma del gusto. Labellezza delle cose e delle persone dipende sempre dacome sono fatti i sensi, da quanto sono “sensibili”, dacome sono stati allenati a distinguere, a percepire, dif-ferenze e qualità. Ma i giudizi (anche quelli le gati alpaesaggio, ai luoghi, alle persone) per aver un valorenon possono mai essere solo puramente soggettivi,hanno bisogno di regole: il bello e il brutto, come ilbene e il male, navigano in un terri torio nebuloso dovele sensazioni e i contenuti dati dalla cultura e dal

126

tempo – elaborati dall’esperienza dei singoli e rinego-ziati ogni volta nella dialettica dei gruppi umani – inrealtà hanno un bisogno continuo di aggiustamenti, dicompromessi e di verifiche laboriose. Questa variabili-tà fa parte dell’antropologia umana. Però quasi semprenell’età dei moderni questo allargamento quantitativodelle leggi del gusto alla platea sociale ha introdotto ret-tifiche dubitabilmente migliorative, se è vero, comeconcludeva Hume già ai suoi tempi, che è “necessarioestendere questo assioma al senso comune, che tantospesso si discosta dalla filosofia”. Insomma l’insensibili-tà per il bello avanza col numero e si confonde con levisioni della tecnica.

Penso spesso a certo stranieri, agli inglesi cheamano il sud più di casa loro, e per pudore non lodicono, lo fanno. Una visione di questa modernità cor-riva, caotica e distruttrice, era stata quasi oniricamenteintravista e malinco nicamente preconizzata, come peranticipare anche nei segni criptici la sceneggiatura e ilset iperrealista di certi film di Amelio, nel viaggio cheun vittoriano solitario, George Gissing, compiva giànel sud di cento anni fa. C’era già in quel viaggio diGissing qualcosa che pochi stranieri, e oggi molti nostricontemporanei, non hanno avuto ancora il bene dicapire e il coraggio di affrontare guardando tutto più davicino: una forma di carità, di passione attiva e parteci-pe che vuole redimere la vita, così com’è, non come cipiacerebbe fosse.

127