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7/23/2019 Wolfgang Borchert - Ventisette coniglietti tra le macerie della guerra
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Wolfgang Borchert
Ventisette coniglietti
tra le macerie della guerra
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7/23/2019 Wolfgang Borchert - Ventisette coniglietti tra le macerie della guerra
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Traduzione dal tedesco a cura di Nicola Spinosi (spinnic@libero.it).
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Presento la traduzione di alcuni dei testi componenti Die Hundeblume,
un'opera narrativa di Wolfgang Borchert (1921-1947). Si tratta di una
testimonianza contro la guerra, scritta da chi alla guerra '39-'45 aveva
partecipato come soldato. Ai tempi si parlò di letteratura delle rovine, dinarrativa delle macerie; la ragione di ciò si comprende riflettendo sullo
stato di devastazione radicale che la Germania ebbe da fronteggiare dal
1945 in poi. Si pensi del resto al film di Rossellini, “Germania anno
zero”.
I miei sentiti ringraziamenti vanno alla Dott. Angela Storjohann per
quanto mi ha aiutato ed incoraggiato a questo lavoro.
Nicola Spinosi
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Voci nell'aria, nella notte.
Ma di notte i topi dormono.
Il pane.
Questo martedì.Fratello viso pallido.
Lungo la strada.
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Voci nell'aria, nella notte.
Il tram avanzava nella nebbia del pomeriggio, giallo nel grigio. Era
novembre, vie vuote e silenziose, solo il giallo nuotava isolato nelpomeriggio nebbioso. Dentro sedevano al caldo, respirando inquiete,
solo cinque o sei persone sfuggite alla nebbia, sotto le gradevoli luci
basse, tutte da sole - scampate all’umido. Il tram viaggiava vuoto, erano
solo in cinque, tutti da soli. Il bigliettaio era il sesto, in quel tardo
solitario pomeriggio nebbioso, là con i suoi rassicuranti bottoni d’ottone,
a disegnare facce storte sul vetro umido. Il tram giallo arrancava dentro
il novembre. I cinque scampati sedevano, il bigliettaio stava in piedi, ed
ecco che il vecchio con le enormi occhiaie riattaccò a farsi sentire: “Sono
nell’aria, nella notte. Sono nella notte. Perciò non si dorme. Solo per
questo. E’ solo colpa delle voci, mi credano, è solo a causa delle voci”. Il
vecchio si piegò in avanti. Le occhiaie gli tremavano, e quel suo dito
indice troppo chiaro s’agito sul petto cadente dell’anziana signora
seduta di fronte. Lei, soffiando rumorosa dal naso, fissò inquieta l’indice
chiaro. E continuava a soffiare affannata, non poteva farne a meno, era
afflitta da un incredibile raffreddore novembrino, certamente
polmonare. Il dito del vecchio la inquietò. Le due ragazze dall’altro lato
ridacchiavano. Non si guardavano, dal momento che lo sapevano già,
delle voci notturne. Era tutta colpa delle voci. Per prima cosa. Anche gli
altri ridacchiavano imbarazzati, infatti sedevano uno davanti all’altro. E
il bigliettaio disegnava facce storte sul finestrino guarnito di nebbia.
C’era anche un giovane, teneva gli occhi chiusi ed era pallido,
pallidissimo sotto la luce bassa. Teneva gli occhi chiusi, oppure dormiva.
E il tram giallo nuotava a fatica attraverso la solitaria nebbia
pomeridiana. Il bigliettaio disegnò una faccia storta nel vetro e disse al
vecchio con le occhiaie: ”Sì, chiaro, ci sono le voci. Soprattutto la notte,
è naturale”. Le due ragazze provarono imbarazzo, nascostamente, e si
trattennero dal ridacchiare; una disse: la notte, soprattutto la notte.
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Il vecchio con le grandi occhiaie allora spostò il suo dito chiaro dal
petto dell’anziana signora raffreddata e lo agitò verso il bigliettaio:
”Ascoltate quel che dico! Ci sono le voci. Nell’aria. Nella notte. Signori
miei - spostò l’indice dal bigliettaio e ora lo drizzò in alto - sapete checosa c’è nell’aria? Le voci, di notte, le voci. E sapete perché, vero?”.
Le occhiaie tremavano. Dall’altra parte il giovane pallidissimo teneva gli
occhi chiusi, oppure dormiva. “Sono i morti, i numerosissimi morti –
sussurrò quel vecchio con le occhiaie – i morti, signori miei. Ce ne sono
tanti. Di notte salgono nell’aria. Sono numerosissimi. Non hanno dove
stare. Perché il cuore ne è colmo, strapieno. E soltanto nel cuore
possono stare, è sicuro. Ma sono troppi: dove stare? Non lo sanno.”
Gli altri smisero di respirare, mentre il giovane pallido con gli occhi
chiusi, come se dormisse, respirava a fatica.
Il vecchio agitò l’indice chiaro contro i suoi ascoltatori, uno per volta.
Verso le ragazze, verso il bigliettaio e verso l’anziana signora. E poi di
nuovo mormorò: “Per questo non si dorme, solo per questo. C’è una
quantità di morti nell’aria. Non hanno dove stare. Di notte parlano e
cercano un cuore. Perciò non si dorme, perché i morti di notte non
dormono. Ce n’è una quantità. Specie di notte. Loro di notte parlano,
quando tutto tace. La notte, quando non c’è null’altro. Di notte quindi
hanno voce. Perciò si dorme tanto male”.
L’anziana signora con il raffreddore tirò su l’aria fischiando e fissò
inquieta le rugose occhiaie tremanti del vecchio. Invece le ragazze
ridacchiarono. Conoscevano voci notturne, ma d’altro genere, vive come
una mano calda di uomo sulla pelle nuda, lieve o invece prepotente,
specie di notte. Ridacchiarono imbarazzate una davanti all’altra. E non
sapevano, nessuna delle due, che anche l’altra sentiva la voce, nei sogni.
Il bigliettaio disegnò facce sul finestrino umido di nebbia e disse: “Sì, ci
sono i morti. Parlano nell’aria. Nella notte, sì. E’ chiaro. Le voci sono
questo. Volteggiano nell’aria, sopra il letto. Di conseguenza non si
dorme. E' chiaro”.
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L’anziana signora tirò su con il naso fischiando e annuì: “I morti, sì, i
morti: le voci sono questo. Sopra il letto. Oh sì, sempre sopra il letto”.
Le ragazze sentirono strane mani di uomo, segretamente, sulla pelle, e
arrossirono, in quest’orribile pomeriggio. Il giovane, quello pallido emolto solo nel suo angolo, invece teneva gli occhi chiusi, oppure
dormiva. Là, verso quell’angolo dove quel giovane pallido sedeva, piazzò
il suo dito chiaro il vecchio con le occhiaie, e mormorò: “Eh, i giovani!
Riescono a dormire. Di pomeriggio, di notte, in novembre, sempre. Loro
non sentono i morti. I giovani, loro si perdono le voci segrete, dormendo.
Solo noi vecchi abbiamo le orecchie sveglie, di notte i giovani han poco
orecchio per le voci. Loro riescono a dormire”.
L’indice s’agito sprezzante verso il giovane pallido, e tutti presero fiato
con rabbia. Allora il giovane aprì gli occhi, si alzò di scatto e s’avvicinò al
vecchio. L’indice si rattrappì nella mano, e quel vecchio con le occhiaie
si calmò. Quello pallido, il giovane, strinse la faccia del vecchio e disse: ”
Oh, per favore, non buttate via la sigaretta, datela a me per favore, che
mi farà bene: ho un po' di fame, date qui, fate il buono, che mi sento
male”.
Le occhiaie s’inumidirono, tremarono rugose, penosamente, dallo
spavento. E il vecchio disse: “Eh sì, lei è molto pallido, ha una cattiva
cera. Non ha un cappotto? Siamo in novembre.”
“Lo so, lo so - disse il giovane pallido – mia madre me lo diceva ogni
mattina, dovevo metterlo, era novembre. Lo so. Ma è morta da tre anni, e
non sa che non ho un cappotto. Ogni mattina lo diceva, mia madre: è
novembre. Ma non può saperne niente, è morta.”
Il giovane prese la sigaretta accesa e uscì barcollando dal tram. Fuori
c’era la nebbia, il pomeriggio, il novembre. E in questo solitario tardo
pomeriggio un giovane camminava - un uomo molto pallido con una
sigaretta. Aveva fame. Non aveva cappotto. Dentro il tram stavano gli
altri, e trattenevano il respiro. Quel vecchio con le occhiaie tremava
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penosamente. E il bigliettaio dipingeva facce storte nel finestrino. Le sue
facce storte.
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Ma di notte i topi dormono.
La finestra incavata nel muro solitario s’apriva colma di rosso e azzurro,
verso il tramonto. Tremavano nuvole di polvere tra i resti alti deicomignoli. Le macerie desolate sonnecchiavano. Lui teneva gli occhi
chiusi. D’un tratto si fece più scuro. Sentì che era venuto qualcuno e che
ora gli stava davanti. Ora mi prendono! – pensò, socchiuse gli occhi, ma
vide solo due misere gambe dentro un paio di pantaloni. Gli stavano
davanti piuttosto arquate, tanto che riusciva a guardare oltre, tra loro.
Gettò una breve occhiata al di sopra dei pantaloni e distinse un uomo
anziano. Aveva un coltello e un cesto. E un po’ di terra sulla punta delle
dita.
Ci dormi bene qui? - domandò l’uomo guardando dall’alto quel cespuglio
di capelli. Juergen ammiccò al sole attraverso le gambe dell’uomo e
disse: No, non dormo. Ci devo fare la guardia. L’uomo annuì: così è per
questo che hai quel gran bastone, eh? Sì, rispose ardito Juergen, e lo
strinse forte. A cosa la fai, la guardia?
Questo non posso dirlo. E strinse forte la mano sul bastone.
Soldi? L’uomo mise giù il cesto e si strofinò il coltello sui calzoni.
No, non certo ai soldi, disse Juergen sprezzante. A qualcosa di
completamente diverso.
Allora a cosa, dai.
Non posso dirlo. A qualcos’altro.
Va bene, allora no. E naturalmente nemmeno io ti dico che cosa ho qui
nel cesto. L’uomo tenne un piede sul cesto e richiuse il coltello.
C’arrivo da solo, a cosa c’è nel cesto, affermò sprezzante Juergen, cibo
per conigli.
Porca miseria, è vero! Disse l’uomo stupito, sei davvero un tipo sveglio.
Quanti anni hai?
Nove.
Oh, pensa, appena nove. Allora lo sai quanto fa tre per nove?
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Sicuro, disse Juergen, e per guadagnare tempo disse: è facilissimo.
Guardò oltre attraverso le gambe dell’uomo. Tre per nove, no? Domandò
di nuovo, ventisette. Lo sapevo benissimo.
Bravo, disse l’uomo, e io ho esattamente ventisette conigli. Juergen restò a bocca aperta. Ventisette?
Li puoi vedere. Sono ancora piccolini. Vuoi?
Non posso mica, disse Juergen incerto, ho da fare la guardia.
Di continuo? – domandò l’uomo, anche di notte?
Anche di notte. Di continuo, sempre. Juergen guardò in su le gambe
arquate. E’ da sabato, mormorò.
Ma allora a casa non ci vai proprio? Però dovrai mangiare.
Juergen alzò una pietra. Sotto c’era una mezza pagnotta. E una scatola
di latta.
Fumi?- domandò l’uomo, c’hai la pipa?
Juergen strinse forte il suo bastone e disse esitante: mi arrotolo le
sigarette. La pipa non mi piace.
Peccato, l’uomo si chinò verso il suo cesto, avresti potuto
tranquillamente vedere i conigli. Soprattutto quelli piccoli. Avresti
potuto sceglierne uno. Invece qui non avrai nulla.
No, disse Juergen triste, no, no.
L’uomo prese su il cesto. Allora, se devi restare qui, peccato. E si girò
per allontanarsi.
Se non mi tradisci, disse veloce Juergen, questa è la via dei topi.
Le gambe arquate fecero un passo indietro.
Sì, mangiano i morti. Persone morte. Ci campano.
Chi lo dice?
Il nostro insegnante.
E tu fai la guardia ai topi? - domandò l’uomo.
Non ai topi, e poi disse pianissimo: a mio fratello, che sta anche lui
sottoterra, là. Juergen indicò con il bastone il muro solitario. La nostra
casa s’è beccata una bomba. Una volta andò via la luce della cantina, e
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lui pure. L’abbiamo chiamato. Era molto più piccolo di me. Appena
quattro anni. Doveva essere ancora qui. E’ molto più piccolo di me.
L’uomo guardò dall’alto il cespuglio di capelli. E poi disse brusco: ma il
vostro insegnante non ve l’ha detto che di notte i topi dormono?No, mormorò Juergen, e guardò tutto assonnato, non ce l’ha detto.
Che maestro è, disse l’uomo, che non sa che i topi di notte dormono?
Di notte potresti tranquillamente andare a casa. Di notte dormono
sempre. Quando fa buio. Sicuro.
Juergen fece con il bastone piccole buche nella polvere dei detriti.
Tutti lettini sono, pensò, tutti lettini.
Allora l’uomo disse (e le sue gambe arcuate tremavano tutt’e due): sai
che? Ora alla svelta do da mangiare ai conigli, poi quando fa scuro ti
vengo a prendere. Magari ne posso portare uno, uno di quelli piccini,
che ne pensi?
Juergen fece piccole buche nella polvere dei detriti. Tutti piccoli conigli.
Bianchi, grigi, grigio bianchi. Non lo so, disse piano, e guardò verso
le gambe arcuate, se dormono per davvero, di notte.
L’uomo s’arrampicò per il sentiero tra i resti del muro verso la strada. E’
certo, disse, che il vostro insegnante se ne deve andare, se non sa queste
cose. Allora Juergen si alzò e domandò: e ne potrò avere uno, magari
bianco?
Vedremo, gridò forte l’uomo mentre camminava, ma devi aspettare qui.
Poi andiamo insieme a casa tua, eh? Lo devo dire a tuo padre che ci sarà
da costruire una gabbia da conigli, lo deve sapere.
Sì, gridò Juergen, aspetto. Devo ancora far la guardia fino a quando
viene scuro. Aspetto di certo. E gridò: oltretutto a casa abbiamo anche
delle tavole, una cassetta fatta di tavole, gridò: ma l’uomo non sentiva
più nulla. Camminava con le sue gambe arcuate contro sole. Era una
sera rossissima, e Juergen poteva vederla splendere attraverso quelle
gambe, tanto erano storte. E il cesto andava su e giù. Dentro c’era il cibo
per i conigli. Verde, ma un po’ impolverato dai detriti.
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Il pane.
Di colpo si svegliò. Erano le due e mezzo. Si chiese perché s’era
svegliata. Ah, ecco! In cucina qualcuno aveva urtato una sedia. Si misead ascoltare dalla parte della cucina. Niente rumori. Troppo silenzio,
allora spostò la mano di fianco, nel letto, e trovò vuoto. Mancava il
respiro di lui, ecco cos’era tutto quel silenzio. S’alzò e andò a tentoni
nell’appartamento buio verso la cucina, dove s’incontrarono. L’orologio
segnava le due e mezzo. Vide qualcosa di bianco vicino alla dispensa.
Accese la luce. Si trovavano uno davanti all’altra in camicia da notte.
Alle due e mezzo. In cucina.
Sopra il tavolo c’era il tagliere del pane. Lei vide che lui aveva tagliato
delle fette. Il coltello ancora vicino al tagliere. E sulla tovaglia sparse
delle briciole. Quando la sera andava a letto, lei lasciava sempre la
tovaglia pulita. Ogni sera. Ma ora sulla tovaglia erano sparse delle
briciole. E il coltello. Sentì il freddo del pavimento salire pian piano
dentro di lei. E guardò verso il tagliere.
“Io credevo di sentire qualcosa, di qua”, disse lui, e guardò in giro nella
cucina.
“Anch’io”, replicò lei, contemporaneamente valutando che lui di notte in
camicia pareva proprio un vecchio. Proprio com’era. Sessantatré anni. Di
giorno sembrava più giovane, a volte. Lei sembra molto vecchia, pensò
lui, in camicia aveva un aspetto davvero vecchio. Forse dipendeva dai
capelli. Di notte con le donne è sempre un fatto di capelli, questo le fa di
colpo così vecchie.
“Ti saresti dovuta mettere le scarpe. Così a piedi nudi sul pavimento
freddo. Ti raffreddi.”
Lei non lo guardava, infatti non riusciva a sopportare che lui mentisse.
Che mentisse dopo trentanove anni di matrimonio.
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“Credevo di sentire qualcosa di qua”, disse un’altra volta lui
all’improvviso, e di nuovo guardò in giro in modo totalmente assurdo.
“Cosa sentivo di qua, stavo a pensare.”
“Anch’io. Ma non c’era proprio nulla”. Alzò il tagliere dal tavolo e tirò via le briciole dalla tovaglia. “No, non c’era proprio nulla”, le fece eco
lui, incerto.
Lei gli venne in aiuto: “Su, vieni. Era da fuori che veniva. Vieni a letto. Ti
raffreddi. Sul pavimento freddo.”
Lui guardò verso la finestra.”Sì, dev’essere stato fuori, forse. Credevo
che fosse qui.”
Lei alzò la mano verso l’interruttore della luce. Devo spegnere la luce,
ora, altrimenti sono costretta a vedere il tagliere. Non devo vederlo.
“Vieni”, disse, e spense la luce, “sarà stato fuori. Con il vento la grondaia
sbatacchia sempre contro il muro. Possibilissimo che fosse la grondaia.
Con il vento sbatte sempre.”
Tutt’e due andarono a tentoni per il corridoio al buio verso la camera da
letto. I loro piedi nudi tonfavano sul pavimento.
“Sì, è il vento”, fece lui. “Ha tirato un gran ventaccio tutta la notte.
Quando furono sul letto, lei disse:”Sì, ha tirato un ventaccio tutta la
notte. Possibilissimo che fosse la grondaia”. ”Sì, io stavo in pensiero che
fosse qualcosa in cucina. Possibilissimo che fosse la grondaia”. Disse
queste parole, lui, come già mezzo addormentato.
Tuttavia lei considerò come suonava falsa la sua voce, ora che lui stava
sul letto. “E’ freddo”, disse, e sbadigliò piano, “io m’infilo sotto la
coperta. Buonanotte.”
“Notte”, rispose lui, e poi:”sì, fa freddo, proprio un gran freddo”.
Poi tacquero. Dopo parecchi minuti lei si accorse che lui, attento e
silenzioso, masticava. Respirò con intenzione in modo profondo e
uniforme, perché lui non dovesse sforzarsi di non svegliarla. Ma il suo
masticare era così metodico che lei lentamente ci prese sonno.
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Quando la sera dopo lui venne a casa, lei gli mise davanti quattro fette di
pane. Di solito ne poteva mangiare solo tre. “Puoi mangiarne quattro
tranquillamente”, disse lei, e s’allontanò dalla luce della lampada. “Io
non lo sopporto, questo pane. Su, mangiane una in più. A me non mipare così buono.”
Lo guardò come si piegava profondamente sul tagliere. Non vedeva
nulla. In quel momento le fece pena.
“Tu però non puoi mangiare solo due fette”, disse lui. “Ma sì! La sera
non mi fa bene, il pane. Su, mangia, su.”
Dopo poco si sedette a tavola sotto la lampada.
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Questo martedì.
La settimana ha un martedì
L’anno una cinquantinaLa guerra ha molti martedì
Questo martedì
A scuola si sono esercitate con le maiuscole. La maestra aveva occhiali
con lenti spesse. Con la montatura leggera. Così spesse che gli occhi si
vedevano poco.
Quarantadue ragazzine guardavano la lavagna nera e scrivevano in
lettere maiuscole:
IL VECCHIO FRITZ AVEVA UN BICCHIERE DI LATTA. LA GROSSA
BERTA COLPI’ PARIGI. IN GUERRA OGNI PADRE E’ SOLDATO. <La
“grossa Berta” è un tipo di cannone>
Ulla spingeva la punta della lingua verso il naso. Proprio allora la
maestra le dette un buffetto. Hai scritto guerra con una erre, Ulla.
Guerra si scrive con due erre, come terra <nell'originale il gioco di
parole è naturalmente diverso: Krieg (guerra) si scrive, dice
l'insegnante, non Chrieg, ma con la “g” come Grube (fossa)>. Quante
volte l’ho ripetuto? La maestra prese un registro e fece un segno accanto
al nome di Ulla. Per domani scriverai la frase per dieci volte da quel
punto, bella ordinata, hai capito? Sì, disse Ulla, e pensò: lei e i suoi
occhiali. In cortile le cornacchie mangiavano il pane che era stato
buttato.
Questo martedì
Il sottotenente Ehlers fu nominato comandante di battaglione.
Signor Ehlers, vi dovete togliere la sciarpa rossa.
Come, signor maggiore?
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Ma sicuro, Ehlers. Nella seconda compagnia non gradiscono cose del
genere.
Vado nella seconda?
Sì, e loro non amano cose del genere. Lì con la sciarpa rossa non ci venite. La seconda è abituata alla correttezza. Con la sciarpa rossa non
farete nessun passo avanti. Cose del genere il capitano Hesse non le
indossa.
Hesse è ferito grave?
No, s’è dato malato. Si sentiva non bene, ha detto. Da quando è capitano,
quell' Hesse, s’è un po’ rammollito. Non capisco. Di solito era così a
posto, sempre. Su, Ehlers, vedrete che con la compagnia andrà benone.
Hesse ha educato bene i subalterni. E levatevi la sciarpa, chiaro?
Gnorsì, signor maggiore.
E badate ai subalterni con la sigaretta, che stiano in campana. A un
tiratore scelto che si rispetti gli prude l’indice, quando vede queste
lucciole ronzare in giro. La scorsa settimana abbiamo avuto cinque teste
saltate. Insomma, adeguatevi un pochino, eh?
Sissignore, signor maggiore.
Andando alla seconda compagnia il sottotenente Ehlers si tolse la
sciarpa rossa, e si mise in bocca una sigaretta. Comandante di
compagnia Ehlers, gridò.
E ci fu lo sparo.
Questo martedì
Il signor Hansen disse alla signorina Severin: bisogna mandare qualche
altra cosa a quell’Hesse, cara la mia Severin. Da fumare, da mangiare.
Un po’ di letteratura. Un paio di guanti o cose simili. Ai ragazzi laggiù
gli tocca un inverno dannato, so quel che dico. Per forza.
Hoelderlin forse, signor Hansen?
Assurdo, cara la mia Severin, assurdo. No, qualcosa di più sereno, un po’
più tranquillo. Tipo Wilhelm Busch <noto soprattutto per le storie
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(illustrate) di Max und Moritz>. Di certo Hesse era più per il genere
leggero. E’ contento veramente, quando ride. Del resto voi lo sapete. Dio
mio, cara la mia Severin, quanto sa ridere, questo Hesse!
Sì, disse la signorina Severin, sa ridere.
Questo martedì
Portarono il capitano Hesse in barella al centro disinfestazione. Sulla
porta un cartellino:
GENERALE O GRANATIERE
LA RAPA E’ DI DOVERE
Fu rapato. L’addetto aveva dita lunghe e sottili. Tipo zampe di ragno. Le
nocche un po’ arrossate. Lo sfregavano leggermente, sapevano di
farmacia. Dopo, le zampe di ragno gli sentirono il polso e scrissero su un
gran registro:temperatura 41,6.Polso 116. Privo di conoscenza.
Probabile febbre petecchiale. L’addetto mise giù il registro. Ospedale
Smolensk per malattie infettive, ci stava scritto sopra. E sotto: 114 letti.
I portantini sollevarono la barella. Per le scale gli oscillò la testa che
spuntava dalla coperta, di qua e di là a ogni gradino. Rapata. Eppure
aveva sempre riso dei russi. Uno dei portantini aveva il raffreddore.
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Questo martedì
La signora Hesse suonò alla vicina. Quando la porta si aprì cominciò a
sventolare la lettera. E’ diventato capitano. Capitano e comandante di
compagnia, scrive. 40 gradi sotto zero, hanno. La lettera ci ha messonove giorni.
Alla signora del capitano Hesse lui aveva scritto queste cose. Lei sollevò
la lettera aperta, ma la vicina non ci guardò. 40 sotto zero, disse. Poveri
ragazzi. 40 sotto zero.
Questo martedì
Il maresciallo medico domandò al primario dell’ospedale Smolensk per
le malattie infettive:
Quanti ce ne sono al giorno?
Una mezza dozzina.
Mostruoso, disse il maresciallo.
Sì, mostruoso, disse il primario.
Ma non si guardarono.
Questo martedì
Era in programma Il flauto magico. La signora Hesse si dette il rossetto.
Questo martedì
L’infermiera Elisabetta scrisse ai suoi genitori: senza l’aiuto di Dio non
ne veniamo fuori.
Poi quando venne l’aiuto primario si alzò in piedi. Camminava così curvo
attraverso la sala che pareva reggesse sulla schiena la Russia intera.
Gli devo dare ancora qualcosa? Domandò l’infermiera. No, rispose l’aiuto
primario, piano, come se si vergognasse. Dopodiché portarono fuori il
capitano Hesse. Fuori c’era un rimbombare continuo, uno sbattere.
Perché non erano capaci di metter giù i morti per bene. Li fanno cascare
in terra, e sbattono sempre, disse uno. Il suo vicino cantò sottovoce:
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forza, evviva,
lesta va la fanteria
L’aiuto primario andava di letto in letto. Ogni giorno. Giorno e notte. Per giornate intere. Di notte. Procedeva curvo. Pareva che trascinasse per la
sala l’intera Russia. Fuori due portantini con una barella vuota
incespicarono. E 4, disse uno di loro. Aveva il raffreddore.
Questo martedì
La sera Ulla si mise a sedere e scrisse sul quaderno in maiuscole:
IN GUERRA OGNI PADRE E’SOLDATO.
IN GUERRA OGNI PADRE E’SOLDATO.
Dieci volte lo scrisse. In stampatello. E guerra con due erre come terra.
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7/23/2019 Wolfgang Borchert - Ventisette coniglietti tra le macerie della guerra
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Fratello viso pallido.
Non c’era mai stato niente di così bianco come questa neve. Quasi
cangiante nell’azzurro. Azzurro verde. Bianca da far paura. Il sole astento osava esser giallo davanti a questa neve. Nessuna domenica
mattina era mai stata così tersa. A parte che dietro s’alzava una
montagna scura. Ma la neve era fresca e pulita come un occhio di
animale. Nessuna neve era mai stata così bianca come questa domenica
mattina. Nessuna domenica mattina era mai stata così tersa. Il mondo,
questo nevoso mondo domenicale, sorrideva.
Ma da qualche parte c’era una macchia. Era un uomo che giaceva
scomposto nella neve, a pancia sotto, in divisa. Un mucchio di stracci.
Un misero mucchietto di pelle, ossa, cuoio e stoffa. Sporco di sangue
rosso annerito. Capelli senza vita, morti, addomesticati come una
parrucca. Scomposto urlava l’ultimo grido alla neve, abbaiava, se non
pregava: un soldato. Macchia in quel bianco di neve mai visto nella più
tersa delle domeniche mattina. Quadretto di guerra suggestivo, pieno di
sfumature, allettante spunto per pittura all’acquarello: sangue, neve e
sole. Fredda, fredda neve con dentro del sangue. E l’amato sole al di
sopra di tutto. Il nostro caro sole. Tutti i bambini del mondo dicono: il
caro, caro sole. E il sole illumina un morto che urla il grido inaudito di
tutte le marionette morte: il pauroso muto muto grido! Chi di noi,
fratello pallido, eh, chi di noi ferma il grido muto delle marionette,
quando staccate dal filo giacciono sparse sul palcoscenico, stupide,
disarticolate? Chi, eh, chi tra noi tollera il muto grido dei morti? Solo la
neve lo ferma, gelida. E il sole, il nostro amato sole.
Davanti alla marionetta straziata stava una marionetta ancora intera.
Ancora funzionante. Davanti al soldato morto stava un vivo. In questa
tersa domenica bianca di neve mai vista prima, il Ritto tenne addosso al
Giacente lo spaventoso muto discorso che segue:
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Già già già. Hai chiuso con le tue spiritosaggini, caro mio. Con le tue
solite spiritosaggini. Ora non parli proprio più, eh? Ora non ridi più
tanto, eh? Se quelle tue donne lo sapessero, che sguardo penoso hai,
caro mio. Da far pietà, senza le tue spiritosaggini. E poi in questastupida posa. Perché hai le gambe così tremendamente rattrappite sul
ventre? Ah, già, te ne sei beccato uno nelle budella. Ti sei imbrattato di
sangue. Non c’hai un aspetto appetitoso, caro mio. Ti sei sporcato tutta
la divisa. Sembri macchiato di vernice nera. E’ bene, che quelle tue
donne non ti vedano. Ti davi sempre un’aria, con la tua divisa. Ti vestiva
proprio come un guanto. Diventato caporale, portavi solo stivaletti di
vernice. Lucidati con la cera per delle ore, quando la sera c’era da
andare in città. Ma ora non ci vai più in città. Le tue donne se la godono
con altri. Tu ora non cammini più per niente, lo capisci? Mai più, caro
mio. Mai mai più. Ora non ridi più per niente, con le tue solite
spiritosaggini. Ora stai lì, come se tu non sapessi contare fino a tre. Non
lo sai più. Non puoi più per niente contare fino a tre. E’ grama, caro mio,
grama all’ultimo stadio. Ma va bene così, molto bene. Capita che non
starai più a dirmi “ecco il fratello viso pallido, eccolo con la sua palpebra
mezza chiusa”. Mai più, ora, caro mio. Da ora in poi basta. Tu no, fine. E
gli altri la finiranno di aizzarti, e di ridere di me quando mi dici “ecco il
fratello viso pallido, eccolo con la sua palpebra mezza chiusa”. E’ una
cosa che conta molto, per me, lo sai? Te lo posso dire, è una cosa che per
me conta un sacco. A scuola mi hanno parecchio denigrato. Come
pidocchi mi stavano addosso. Perché il mio occhio aveva quel piccolo
difetto, e perché la mia palpebra stava mezza chiusa. E perché la mia
pelle è così bianca. Pare formaggio. Dicevano sempre, eccolo un’altra
volta il nostro viso pallido nato stanco. E le ragazze mi domandavano se
dormivo, con quel mio occhio mezzo chiuso. Dormiglione, dicevano,
dormiglione, caro te. Io vorrei sapere chi di noi due ora è il dormiglione.
Tu o io, eh? Chi è ora “il fratello viso pallido con la sua palpebra mezza
chiusa”. Eh? Chi, dunque, mio caro, tu o io? Io, per caso?
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Quando chiuse dietro di sé la porta del rifugio una dozzina di facce
ingrigite gli si avvicinarono. Una era la faccia del maresciallo. Signor
capitano, l’avete trovato? – domandò quella faccia ingrigita,paurosamente ingrigita.
Sì. Vicino all’abete. Colpito al ventre.
Dobbiamo andare a prenderlo?
Sì. Vicino all’abete. Sì, certo. Bisogna raccoglierlo. Vicino all’abete.
La dozzina di facce ingrigite sparì. Il capitano sedette vicino alla stufa di
ferro e iniziò a spidocchiarsi.
Come ieri, preciso. Ieri sera si sentiva veramente in forma. Uno doveva
andare al battaglione. Miglior cosa, il capitano, cioè lui stesso. Mentre
s’infilava la camicia, sentì. Si sparava. Non si era mai sparato così. E
quando il portaordini aprì la porta, il capitano vide la notte. Valutò che
non c’era mai stata una notte tanto nera. Il sottufficiale Heller cantava.
Poi continuò a raccontare di quelle sue donne senza smettere un minuto.
Infine questo Heller, con il suo solito spirito, aveva detto: signor
capitano, io al battaglione non ci andrei. Prima di tutto farei domanda di
doppia razione. Ci si può suonare lo xilofono, sulle nostre costole. E’ una
vera pena, il vostro aspetto. Così aveva detto Heller. E nel buio forse
tutti avevano sogghignato. E uno doveva andare al battaglione. Il
capitano aveva detto: su, Heller, cercate di smorzare un po’ le vostre
solite spiritosaggini. Ed Heller disse: signorsi. E fu tutto. Di più non si
dissero. Solo: signorsi. Quindi Heller era andato. E poi non era tornato.
Il capitano si tirò la camicia sulla testa. Sentì che fuori gli altri
tornavano indietro. Con Heller. Non mi dirà mai più “ecco il fratello viso
pallido con la palpebra mezza chiusa”, mormorò il capitano. Non
l’avrebbe più detto, d’ora in avanti.
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Un pidocchio gli capitò sotto l’unghia del pollice. Scricchiolò. Il
pidocchio era morto. Sulla fronte il capitano aveva una piccola goccia di
sangue.
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La lunga strada.
Sinistr’,due tre quattro, avanti Fischer! Sinistr’,due, avanti, Fischer!
Veloce, Fischer! Tre quattro, respira profondo, Fischer! Avanti, Fischer,sempre avanti, forza, due tre quattro, lesta va la fanteria, forza, in alto i
cuori! Lesta va la fanteria...
Sono ancora in cammino. Due volte sono già caduto in terra. Voglio
prendere il tram. Devo. Due volte sono già caduto in terra. Ho fame. Ma
devo prendere il tram. Devo. Due volte sono già caduto in terra... Tre
quattro, sinistr’, due tre quattro, ma io devo, tre quattro, forza, tre
quattro, evviva la fanteria ...
Cinquantasette ne han sepolti a Woronesch <o Voronesch: città russa
situata a sud rispetto a Mosca, da cui dista più che non dal confine
dell'Ucraina, a ovest>. Cinquantasette che non avevano assolutamente
previsto di morire, nemmeno lì per lì. Hanno pure cantato, prima. Forza,
forza, in alto i cuori! E uno ha scritto a casa: dopo ci compriamo un
grammofono. Ma da quattromila metri lontano gli altri hanno ordinato
di premere un pulsante. C’era un fracasso come se un camion carico di
barili vuoti passasse su un acciottolato: il rumore dei cannoni. Dopo ne
han sepolti cinquantasette a Woronesch. Prima avevano cantato. Poi più
detto nulla. Nove meccanici, due giardinieri, cinque impiegati, sei
commessi, un parrucchiere, diciassette contadini, due maestri, un
pastore, sei operai, un musicista, sette liceali. Sette liceali. Sepolti a
Woronesch. Senza averlo previsto. Cinquantasette. Me mi hanno
dimenticato. Non ero ancora proprio morto. In alto i cuori! Ero ancora
quasi vivo. Ma gli altri sono sepolti a Woronesch. Cinquantasette.
Mettici anche uno zero. Cinquecentosettanta. Ancora uno zero e ancora
uno. Cinquantasettemila. E ancora, ancora. Cinquantasette milioni.
Sepolti a Woronesch. Non l’avevano previsto assolutamente. Mica lo
volevano, non l’avevano voluto affatto. E prima avevano cantato una
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volta di più. In alto i cuori! Poi più detto nulla. E quello non aveva
comprato il grammofono. L’han sepolto a Woronesch e con lui gli altri
cinquantasei. Cinquantasette pezzi. Solo io, io, non ero ancora
veramente morto. Devo andare a prendere il tram, la strada è grigia. Mail tram è giallo. Giallo, una chicca. Devo andare a prendere il tram. Solo
che la strada è tanto grigia. Due volte sono già caduto per terra, forza,
avanti, Fischer! Veloce, Fischer! Sinistr’,due, a passi distesi, tre quattro.
Forza, in alto i cuori! Lesta va la fanteria. Sinistr’, due tre quattro,
invece impera la fame, la miserabile fame, sempre, sinistr’, due tre
quattro...
Se almeno non ci fossero le notti. Se almeno non ci fossero le notti. Ogni
rumore è una bestia. Ogni ombra è un uomo nero. Mai cala la paura che
danno gli uomini neri. Tutta la notte i cannoni tuonano sul cuscino: è il
battito del polso. Non avresti dovuto lasciarmi mai solo, madre. Ora non
ci ritroviamo. Mai più. Mai avresti dovuto farlo. Tu hai conosciuto
certamente le notti. Hai certamente saputo delle notti. Eppure mi hai
chiamato fuori da te. Da te e in mezzo a questo mondo con queste notti,
mi hai chiamato. E da allora ogni rumore è una bestia nella notte. E
nell’angolo scuro gli uomini neri fanno paura. Madre, madre! Gli uomini
neri sono dappertutto. E ogni rumore è una bestia. Ogni rumore è una
bestia. E il cuscino è così torrido. I cannoni tuonano sul cuscino per
tutta la notte. E i cinquantasette sono sepolti a Woronesch. E l’orologio
incespica come una vecchia in ciabatte, avanti avanti. Incespica,
incespica, e nessuno lo ferma. E le pareti s’avvicinano sempre di più. E la
coperta si fa sempre più spessa. E il suolo, il suolo ondeggia, è un’onda,
il mondo. Madre, madre! Perché mi hai lasciato solo, perché? Ondeggia,
il suolo, ondeggia il mondo. Cinquantasette. Brum! E voglio andare fino
al tram. I cannoni rombano. Il terreno ondeggia. Brum. Cinquantasette.
E io sono ancora quasi vivo. E voglio andare fino al tram. Che è giallo
nella strada grigia. Una chicca, giallo nel grigio. Ma non ci arrivo. Due
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volte sono già caduto in terra. E ho fame. E il suolo ondeggia. Ondeggia
talmente, giallo, una chicca, ondeggia il mondo. Ondeggia il mondo,
dalla fame che ho. Mondondeggia, mondo fame giallo tram.
Ora uno m’ha detto: buongiorno signor Fischer. Sono io, il signor
Fischer? Posso essere il signor Fischer, semplicemente di nuovo il signor
Fischer? Dopotutto ero il capitano Fischer. Posso essere ora di nuovo il
signor Fischer? Posso essere il signor Fischer? Buongiorno, ha detto
quello. Ma non sa che ero il capitano Fischer. M’ha augurato un
buongiorno – per il capitano Fischer non c’è più buongiorno. Lui non l’ha
augurato a me.
E il signor Fischer va per la strada. Per la lunga strada. Che è grigia.
Vuole andare fino al tram. Che è giallo. Una chicca, così giallo. Sinistr’,
due , signor Fischer. Sinistr’, due tre quattro. Il signor Fischer ha fame.
Non smette più di camminare. Vuole sempre il tram, che è così giallo,
nel grigio è una chicca. Due volte è caduto, il signor Fischer. Ma il
capitano Fischer comanda: sinistr’, due tre quattro, avanti signor
Fischer! Svelto signor Fischer! Deciso, signor Fischer! Comanda il
capitano Fischer. E il signor Fischer marcia per la strada grigia, la grigia
lunga strada. La Muelleimerallee, l’Aschkastenspalier, il Rinnsteinglacis,
gli Champs Ruinés, la Muttschuttschlagindutt Broadway, la
Truemmerparade. E il capitano Fischer comanda. Sinistr’,due
sinistr’,due. E il signor Fischer, il signor Fischer marcia, sinistr’, due
sinistr’, due avanti avanti avanti...
La fanciulla ha le gambe sottili come dita. Come dita d’inverno. Sottili
livide e arrossate, tanto sottili. Sinistr’, due tre quattro, fanno le sue
gambe. La fanciulla continua a dire, e il signor Fischer le cammina
accanto, continua a dire: buon Dio, dammi un po’ di minestra. Buon Dio,
dammi un po’ di minestra. Solo un cucchiaio. Un cucchiaio. Soltanto. La
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mamma ha i capelli senza vita. Tutti senza vita da parecchio tempo. La
mamma dice: il buon Dio non può darti un po’ di minestra, non può, no.
Perché il buon Dio non può assolutamente darmene, di minestra? Non
ne ha nemmeno un cucchiaio. Non ce l’ha. La fanciulla cammina, gambesottili come dita, sottili livide gambe d’inverno, accanto a lei sua madre.
E accanto a loro il signor Fischer. I capelli della madre sono senza più
vita. Sono diventati completamente estranei. E la fanciulla danza
tutt’intorno, e sua madre intorno al signor Fischer, vicino. Dio non ha
proprio un cucchiaio di minestra. Proprio nessuno. Nessun cucchiaio,
nemmeno uno, niente. E dunque danza la fanciulla intorno. E il signor
Fischer cammina dietro. Mentre ondeggia tutt’intorno il mondo.
Mondondeggia. Ma il capitano Fischer comanda: sinistr’, due, alé,
avanti, deciso, signor Fischer, sinistr’, due, mentre la fanciulla canta:
Egli non ha veramente nessun cucchiaio di minestra. E due volte il
signor Fischer è caduto. Caduto per la fame. Egli non ha proprio nessun
cucchiaio di minestra. E l’altro comanda: in alto i cuori! Evviva la
fanteria, la fanteria, la fanteria...
Cinquantasette ne han sepolti a Woronesch. Io sono il capitano Fischer.
M’hanno dimenticato. Non ero ancora veramente morto. Due volte sono
caduto in terra. Sono ancora il signor Fischer. Ho venticinque anni.
Venticinque moltiplicato cinquantasette. E li han sepolti a Woronesch.
Soltanto io, sono ancora in cammino. Devo ancora andare a prendere il
tram. Ho fame. Ma il buon Dio non ha proprio un cucchiaio di minestra.
Ho venticinque moltiplicato cinquantasette anni. Mio padre m’ha tradito
e mia madre m’ha espulso da sé. M’hanno gridato contro e stop. In un
modo tremendo e stop. Abbandonato. Ora cammino per la lunga strada.
Che ondeggia come ondeggia il mondo. Ma uno suona il pianoforte.
Quando mio padre vide mia madre – uno suonava il pianoforte. Quando
sono nato – uno suonava il pianoforte. Per la festa in memoria degli eroi,
a scuola – uno suonava il pianoforte. Quando, venuta la guerra, ci siamo
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permessi di diventare eroi – uno suonava il pianoforte. All’ospedale – uno
suonava il pianoforte. Quando la guerra è finita – uno suonava ancora e
sempre il pianoforte. Sempre ne suona uno. Sempre suona un
pianoforte. Lungo tutta la lunga strada.
La locomotiva fischia. Tim dice:piange. Quando si guarda in alto,
tremano le stelle. Di continuo fischia la locomotiva. Ma secondo Tim
piange. Di continuo. Tutta la notte. Per tutta la notte, questo è certo.
Piange, è dentro lo stomaco che lo fa, quando piange così, secondo Tim.
Piange come fanno i bambini, dice. Avevamo un vagone carico di
legname. Profumava come la foresta. Niente tetto, nel nostro vagone. Le
stelle tremano, quando si guarda in alto. Fischia ancora. Hai sentito,
dice Tim, piange di nuovo. Io non capisco perché piange. Ecco cosa dice
Tim. Come dei bambini, dice. Tim dichiara: non avrei dovuto spintonare
il vecchio giù dal vagone. Io non ho spintonato il vecchio giù dal vagone.
Tu non lo avresti permesso, dice Tim. Io non l’ho fatto. Piange, hai
sentito come piange, dice Tim, tu non avresti permesso di farlo. Io non
ho spintonato il vecchio giù dal vagone. Non piange. Fischia. Le
locomotive fischiano. Piange, secondo Tim. E’ caduto da solo giù dal
vagone. Tutto da sé, il vecchio. Dormiva, dormiva, te lo dico io. E’ caduto
da sé, dal vagone. Tu non avresti permesso che si facesse una cosa del
genere. La locomotiva piange. Tutta la notte, di sicuro. Tim dice: non è
permesso che un vecchio sia spintonato giù dal vagone. Non l’ho fatto.
Dormiva. Tu non avresti permesso una cosa così, dice Tim. Dice che in
Russia una volta ha dato un calcio nel sedere a un vecchio. Perché era
lentissimo. E prendeva solo pochi pezzi alla volta. Loro si erano spinti
vicino alle munizioni. Aveva dato dunque un calcio nel sedere al vecchio.
Il vecchio s’era messo lì. Piano piano, dice Tim, e l’aveva guardato con
un’aria tristissima. Tutto qui. Ma aveva un’espressione che assomigliava
a mio padre, dice Tim. Esattamente come suo padre, questo dice Tim. La
locomotiva fischia. Qualche volte si sente come se urlasse. Tim
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addirittura crede che pianga. Forse ha ragione. Ma io non ho spintonato
il vecchio giù dal vagone. Dormiva. Cioè, è caduto da solo.
Effettivamente dava gran scosse, il treno in movimento. Quando si
guarda in alto, tremano le stelle. Il vagone ondeggia come ondeggia ilmondo. La locomotiva fischia, piange, fischia. E le stelle tremano.
Perché è il mondo, che ondeggia.
Ma io sono sempre in cammino. Due, tre, quattro. Verso il tram. Due
volte sono caduto. Il suolo ondeggia come ondeggia il mondo. Dalla fame
che ho. Ma io sono in cammino. Sono da così tanto tempo in cammino
per la strada tanto lunga. La strada.
Il ragazzino stende la mano. Io gli lascio prendere i chiodi.
Il fabbro conta i chiodi. Per tre, signore? Chiede. Papà ha detto per tre,
signore.
I chiodi gli finiscono in mano. Il fabbro ha dita spesse e larghe. E molto
sottili, il ragazzino, che si piegano sotto il peso dei grossi chiodi.
E’ lui, quello che dice d’essere figlio di Dio?
Il ragazzino annuisce.
Continua ancora a dire d’essere figlio di Dio?
Il ragazzino annuisce. Il fabbro prende in mano altri chiodi. Poi li lascia
cadere nelle mani del ragazzino. Le piccole mani si piegano ancora. Poi
dice il fabbro: eh già.
Il ragazzino si allontana. I chiodi sono belli lucidi. Il ragazzino corre.
Così i chiodi fanno rumore. Il fabbro prende il martello. Eh già, dice.
Quindi il ragazzino sente alle sue spalle: pink pank pink pank. Martella
ancora, pensa il ragazzino. Fabbrica chiodi, lucidissimi chiodi. Perché ne
han sepolti cinquantasette a Woronesch. Io sopravvivo. Ma ho fame.
L’Impero, il mio, fa parte di questo mondo. E il fabbro ha fabbricato i
suoi chiodi inutilmente, evviva la fanteria, inutilmente, i lucidi bei
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chiodi. Perché ne han sepolti cinquantasette a Woronesch. Pink pank, fa
il fabbro .Woronesch, pink pank. Pink pank moltiplicato per
cinquantasette. Pink pank fa il fabbro. Pink pank fa la fanteria. Pink
pank fanno i cannoni. E uno suona il pianoforte di continuo pink pank pink pank...
Ogni notte cinquantasette arrivano in Germania. Nove meccanici, due
giardinieri, cinque impiegati, sei commessi, un parrucchiere, diciassette
contadini, due insegnanti, un pastore, sei operai, un musicista, sette
studenti. Cinquantasette vengono ogni notte intorno al mio letto, e
chiedono ogni notte: dov’è la tua compagnia? Woronesch, rispondo io.
Sepolta, rispondo. Sepolta, Woronesch. E uno per uno i cinquantasette
domandano: perché? E io per cinquantasette volte resto muto.
Cinquantasette vanno di notte dal padre. Cinquantasette e il capitano
Fischer. Io sono il capitano Fischer. Cinquantasette domandano al
padre: perché? E lui resta per cinquantasette volte muto. Gela nella sua
camicia da notte. Ma viene con noi.
Cinquantasette vanno di notte dal capo dell’amministrazione locale.
Cinquantasette, il padre e io. Cinquantasette gli domandano: perché? E
lui resta per cinquantasette volte muto. Gela nella sua camicia da notte.
Ma viene con noi.
Cinquantasette vanno di notte dal prete. Cinquantasette, il padre, il capo
dell’amministrazione locale e io. Cinquantasette gli domandano: perché?
E lui resta per cinquantasette volte muto. Gela nella sua camicia da
notte. Ma viene con noi.
Cinquantasette vanno di notte dal maestro di scuola. Cinquantasette, il
padre, il capo dell’amministrazione locale, il prete e io. Cinquantasette
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gli domandano: perché? E lui resta per cinquantasette volte muto. Gela
nella sua camicia da notte. Ma viene con noi.
Cinquantasette vanno di notte dal generale. Cinquantasette, il padre, ilcapo dell’amministrazione locale, il prete, il maestro di scuola e io.
Cinquantasette gli domandano: perché? E il generale, be’, il generale
non si volta neanche una volta verso di noi. Allora il padre lo fa fuori. E il
prete? Il prete resta muto.
Cinquantasette vanno di notte dal ministro. Cinquantasette, il padre, il
capo dell’amministrazione locale, il prete, il maestro di scuola e io.
Cinquantasette gli domandano:perché? Il ministro s’è preso paura e si
nasconde dietro una cesta di spumante. Da lì dietro alza il calice e
brinda in direzione sud, nord, ovest ed est. E poi risponde: per la
Germania, camerati, per la Germania, ecco perché. E i cinquantasette si
guardano tra loro. Muti. A lungo, muti. E guardano in direzione sud,
nord, ovest ed est. Infine domandano:per la Germania, per questo? E non
si guardano più tra loro. Cinquantasette giacciono di nuovo a Woronesch
nelle loro fosse. Hanno vecchie misere facce da donna, da madre. E
dicono per sempre: per questo? Per questo?
Cinquantasette ne han sepolti a Woronesch. Io sopravvivo. Sono il
capitano Fischer. Ho venticinque anni. Voglio andare fino al tram. Voglio
andare in tram. Sono in cammino da moltissimo tempo. Solo che ho
fame. Ma devo. Cinquantasette sepolti: perché? E sono sopravvissuto.
Sto marciando lungo la strada, lunga e poi ancora lunga. In cammino.
Un uomo. Il signor Fischer. Sono io. Ma il capitano si ferma dall’altra
parte e comanda: sinistr’, due tre quattro, sinistr’, due tre quattro, forza,
in alto i cuori! Due tre quattro, sinistr’, due tre quattro, la fanteria, la
fanteria, pink pank pink pank, tre quattro, pink pank pink pank, tre
quattro, pink pank, tre quattro lungo la lunga strada, pink pank sempre
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lunga, sempre, per questo sono sepolti, Woronesch, per questo, pink
pank, lungo la lunga strada. Un essere umano. Venticinque anni. Io! La
strada. La lunga. Io. Casa casa casa, muro muro, latteria, giardinetto,
odore di vacca, porta d’ingresso.
Dentista
Il sabato solo su appuntamento
Hilde Bauer è una scema
Il capitano Fischer è muto. Cinquantasette domandano perché. Muro
muro muro, porta, finestra, vetro vetro vetro, lampione, vecchia signora,
occhi rossi, profumo di patate al forno, casa casa, lezione di piano, pink
pank lungo l’intera strada, i chiodi sono talmente lucidi, i cannoni sono
talmente lunghi, pink pank lungo tutta la strada, bambino bambino,
cane, palla, automobile, macadàm, testa, pink pank, pietra pietra, grigio
grigio, violaceo, macchia di benzina, grigio grigio lungo la lunga strada,
pietra pietra, grigio, blu scolorito, scolorito, talmente grigio, muro
muro, smalto
Difetti della vista guariti ben
Secondo piano - Ottico Terboben
Muro muro muro, pietra, cane cane, bau bau, alza la zampa, albero,
anima, sogno di cane, automobile, suona la tromba, altro cane che
scorreggia nonostante il clackson, selciato, cane rosso, morto, cane
morto, muro muro muro, lungo la lunga strada, finestra, muro, finestra,
muro, finestra finestra, lampada, gente, luce, persone, sempre di nuovo
persone, lustre facce come chiodi, talmente lustre, delle chicche...
Cent’anni fa giocavano a skat. Già giocavano. E ora continuano a
giocare. Sempre a skat. I tre uomini dalle lustre facce per bene.
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<battute intraducibili tra i tre giocatori di skat>
Quando battono sul tavolo il pugno, c’è un tuono. Come una cannonata.Come cinquantasette cannoni.
Ma la finestra più oltre una madre siede con tre foto vicine a lei. Tre
uomini in divisa. A sinistra il marito. A destra il figlio. E in mezzo il
generale. Il generale da cui dipendono il marito e il figlio della donna. E
quando a sera la madre va a letto, dispone le foto per vederle da distesa.
Il figlio, il marito, e il generale. Quindi legge le lettere che il generale
scrisse.1917. Per la Germania – recita la prima. Per la Germania – recita
la seconda. Non legge oltre, la madre. Ha gli occhi tutti rossi. Talmente
rossi.
Ma sopravvivo. In alto i cuori! Per la Germania. Sono sempre in
cammino. Verso il tram. Due volte sono caduto per terra. Per la fame. In
alto i cuori! Ma devo andare avanti. Il capitano comanda. Sono già in
cammino. Da molto tempo.
Là in un angolo scuro sta un uomo. Nell’angolo buio ci sono sempre
uomini. Uomini scuri. Là uno spinge avanti una scatola e un cappello.
Piramidone!, latra l’uomo. Piramidone!, sono venti compresse.
Sogghigna, quando l’affare va in porto. E l’affare va. Cinquantasette
donne, donne dagli occhi rossi, che comprano il piramidone. La scatola
si svuota. E il cappello si riempie. E l’uomo sogghigna. Ne ha motivo. Lui
non le vede, le 57 donne dagli occhi rossi.
Ma io sopravvivo. Sono già in cammino. E la strada è lunga. Così
orribilmente lunga. Ma io voglio andare al tram. Sono sempre in
cammino. Lungo cammino.
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7/23/2019 Wolfgang Borchert - Ventisette coniglietti tra le macerie della guerra
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In una stanza siede un uomo. L’uomo scrive a inchiostro sulla carta
bianca. E recita, verso la stanza vuota:
Sopra il terreno bruno
S’agita verde un’erba.
Un fiore azzurro
Umido di mattino.
Lo scrive sulla carta bianca. Lo legge alla stanza vuota. Cancella tutto
con l’inchiostro. E recita, verso la stanza:
Sopra il terreno bruno
S’agita verde un’erba.
Un fiore azzurro
Ogni rancore scioglie.
Questo scrive l’uomo. Lo legge alla stanza vuota. Cancella tutto con
l’inchiostro. Quindi recita, verso la stanza:
Sopra il terreno bruno
S’agita verde un’erba.
Un fiore azzurro
Un fiore azzurro
Azzurro
L’uomo si alza. Cammina intorno al tavolo. Continua a camminare
intorno al tavolo. Rimane in piedi:
Azzurro
Azzurro
Sopra il terreno bruno
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7/23/2019 Wolfgang Borchert - Ventisette coniglietti tra le macerie della guerra
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L’uomo continua a camminare intorno al tavolo.
Cinquantasette ne han sepolti a Woronesch. Ma la terra era grigia e
sembrava di pietra, no s’agitava alcuna erba verde chiara. C’era la neve,
come di vetro, e niente fiori azzurri. Neve, milioni di volte neve, e nessun
fiore azzurro. Ma l’uomo nella stanza non lo sa, lo ignora del tutto.
Continua a vedere il fiore azzurro, soprattutto il fiore azzurro. Eppure ne
han sepolti cinquantasette a Woronesch, sotto la neve vitrea. Nella
sabbia grigia come cenere. Senza verde e senz’azzurro. Sabbia gelata e
grigia. E la neve era come di vetro. La neve non scioglie alcun rancore.
Perché a Woronesch ne han sepolti cinquantasette. Cinquantasette.
E non è ancora nulla, davvero, fa il caporalmaggiore armato di
stampella. L’appoggia sopra la punta del suo unico piede e prende la
mira. Stringe un occhio e prende la mira dalla punta del piede. Non è
ancora nulla, dice. Ne abbiamo sistemati ottantasei in una notte sola, di
Ivan. Ottantasei Ivan con un mitra, caro mio, con un fucile mitragliatore
solo. Li abbiamo contati la mattina dopo. Erano ammonticchiati,
ottantasei Ivan. Uno aveva la bocca ancora aperta, molti anche gli occhi,
già, molti avevano ancora gli occhi aperti. In una notte sola, caro mio. Il
caporalmaggiore prende di mira con la stampella una vecchia signora
che siede sulla panchina di fronte. Prende di mira una vecchia signora e
ne colpisce ottantasei, di vecchie signore. In Russia, tuttavia. Lui non lo
sa, ma va bene, che non lo sappia. Cosa dovrebbe fare? Ormai è calata la
sera.
Io soltanto, lo so. Io, il capitano Fischer. Cinquantasette ne han sepolti a
Woronesch, ma io non ero morto del tutto, e sono ancora in cammino.
Due volte sono già caduto in terra, per la fame. Perché il buon Dio non
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ha un cucchiaio di minestra. Ma lo stesso voglio arrivare fino al tram. Se
soltanto la strada non fosse così piena di madri! Cinquantasette, ne han
sepolti a Woronesch, e il caporalmaggiore ha contato ottantasei Ivan, la
mattina dopo. E con la stampella ha sparato a morte su ottantasei madri.Ma questo lui non lo sa, va bene. Eppure dovrebbe saperlo. E il buon Dio
non ha un cucchiaio di minestra. Van bene, i poeti che fan sbocciare fiori
azzurri, va bene quando qualcuno continua a suonare il piano, va bene,
se si gioca a skat. E la vecchia signora con le tre foto sul letto, il
caporalmaggiore con la stampella, e gli ottantasei Ivan morti, la madre
della fanciulla che chiede una minestra, e Tim, che ha spintonato il
vecchio sul vagone? E loro?
Eppur devo andare lungo la lunga strada. Muro muro porta lampione
muro muro finestra muro muro e manifesti colorati a stampa.
Siete correttamente assicurati?
Offrite un felice Natale a voi e alla vostra famiglia,
stipulate un contratto
presso
Urania – Assicurazioni ramo vita.
In cinquantasette non hanno assicurato la loro vita correttamente, e
nemmeno gli ottantasei Ivan morti hanno offerto un felice Natale alle
loro famiglie. Gli hanno offerto occhi rossi di pianto, nient’altro. Perché
non erano assicurati con l’Urania? E io sono coinvolto da occhi rossi di
pianto e di singhiozzi, occhi di madre, di donna. Perché non si sono
assicurati, i cinquantasette? Nessuna assicurazione, hanno stipulato, per
le loro famiglie. Solo occhi rossi, e ciò nonostante migliaia di manifesti
colorati Urania, Urania, Urania...
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7/23/2019 Wolfgang Borchert - Ventisette coniglietti tra le macerie della guerra
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Evelyn canta al sole, il sole su di lei. Traspare tutto, da sotto il vestito, le
gambe e il resto. Canta con voce nasale e rauca, canta appena un
pochino. Stanotte è rimasta a lungo sotto la pioggia, e cantando lei mi
eccita tantissimo, sto ad occhi chiusi. E quando li riapro vedo le gambee, sopra, il resto. Evelyn canta, e agli occhi mi si confonde tutto. Canta il
dolce disfarsi del mondo. Canta la notte e l’acquavite infida e bruciante,
sospiro del mondo ferito in pieno. Canta la fine, la fine del mondo
dolcemente in mezzo alle sue gambe nude e scarne di fanciulla:
celestiale caldissimo disfarsi del mondo. Ecco, Evelyn canta come erba
umida, tanto greve di odori e di voluttà, tanto verde. Verde scuro, verde
bottiglia, sulla panchina dove stasera le sue ginocchia spuntano pallide
come la luna dall’abito, e mi eccitano tantissimo.
Canta, Evelyn, cantami morto, canta il dolce disfarsi del mondo, canta
una bruciante acquavite, un fumo verde prato. Evelyn stringe la mia
mano fredda come erba tra le sue ginocchia pallide come luna, e mi
eccita tantissimo.
Evelyn canta, viene maggio e prospera, l’amato maggio, canta e mi tiene
la mano fredda d’erba tra le ginocchia. Viene l’amato maggio e colora di
verde le fosse. Questo, canta Evelyn. Viene l’amato maggio e colora di
verde i campi di battaglia, tu colora le macerie e l’immensità delle
rovine, falle verdi come il mio canto, il mio canto del disfarsi dolce
d’acquavite. Evelyn canta sulla panchina una canzone torrida e febbrile,
e mi gela. Viene l’amato maggio e di nuovo gli occhi si fanno lucidi,
canta Evelyn, e mi tiene la mano tra le ginocchia. Canta, Evelyn, cantami
sotto l’erba verde bottiglia, dov’ero sabbia, argilla, terra. Canta, Evelyn,
canta per me di macerie e di campi di battaglia e di fosse comuni, da
dentro il tuo dolce torrido segreto di fanciulla, sbornia lunare. Canta,
quando marciano le mille compagnie nella notte, canta, quando i mille
cannoni arano e concimano i campi con il sangue. Canta, quando dalle
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7/23/2019 Wolfgang Borchert - Ventisette coniglietti tra le macerie della guerra
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pareti si staccano i quadri e gli orologi, cantami l’ebbrezza verde grappa
nel tuo dolce disfarsi del mondo. Cantami, da dentro la tua vita di
fanciulla, della tua segreta notturna emozione, è così dolce da eccitarmi,
da ridarmi ancora l’ardore della vita. Viene l’amato maggio e coloral’erba di verde, verde bottiglia, verde Evelyn, canta!
Ma c’è una fanciulla che non canta, perché ha la pancia tonda. Troppo
tonda. Tutta la notte sulla banchina della stazione, deve stare, perché
uno dei cinquantasette non era assicurato. Conta i vagoni tutta la notte.
Una locomotiva ha diciotto ruote, un vagone passeggeri otto, un merci
quattro, e la ragazza con la pancia tonda conta vagoni e ruote – ruote
ruote ruote – settantotto, dice una volta, che bello! Sessantadue forse
non basta: allora centodieci sono sufficienti. Si lascia cadere davanti al
treno, una locomotiva, sei vagoni viaggiatori e cinque merci, che fanno
ottantasei ruote. Bastano, e la fanciulla con la pancia tonda non c’è più,
mentre il treno è passato con le sue ottantasei ruote. Non c’è più, tutto
qui. Neanche un po’, c’è più, neanche meno di un po’. Senza fiori
azzurri, senza qualcuno che suoni il piano, senza qualcuno che giochi a
skat con lei. E niente minestra dal buon Dio. In compenso sotto la
banchina passano molte belle ruote. Dove altro avrebbe dovuto andare,
lei? Cos’altro avrebbe dovuto fare, se il buon Dio non ha neanche un
cucchiaio di minestra? Ora non le resta niente, niente.
Soltanto io. Sono in cammino, lunghissimo cammino. La strada è lunga,
cammino e non sento la fame. Lunga fame, lunga strada, lungo
cammino.
A tratti smettono di gridare, a sinistra dal campo di calcio, a destra dal
grande edificio. Smettono a tratti di gridare. La mia strada passa nel
mezzo, io sono il capitano Fischer, venticinque anni, ho fame, vengo
direttamente da Woronesch, sono in cammino da molto tempo. Sinistra,
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7/23/2019 Wolfgang Borchert - Ventisette coniglietti tra le macerie della guerra
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campo di calcio, destra, grande edificio. Dentro mille, duemila, tremila.
Tutti in silenzio. Davanti fanno musica e alcuni cantano. I tremila non
dicono una parola. Tutti belli puliti, capelli in ordine, camicia di bucato.
Sono dentro la grande casa <chiesa> e si abbandonano allacommozione, o si lasciano edificare, o intrattenere. Distinguere non si
può. Belli ripuliti si fan commuovere, ma ignorano la mia fame, non lo
sanno che ho fame. E che sono qui appoggiato al muro, io, quello che
viene da Woronesch, in cammino sulla lunga strada, affamato da lungo
tempo, che sto appoggiato al muro perché dalla fame non ne posso più.
Ma loro non possono saperne niente. Il muro, grosso e stupido, ci
separa, e io ci sto dietro mentre le ginocchia mi tremano, e loro sono
dall’altra parte belli puliti di bucato e si fan commuovere domenica dopo
domenica. Si lasciano rovistare dentro l’anima per dieci marchi,
rivoltare lo stomaco, addormentare i nervi. Dieci marchi, che sono tanti
da far paura, per la mia pancia. Ecco perché sta scritta la parola
PASSIONE, sul foglio che loro ricevono in cambio di dieci marchi.
PASSIONE DI MATTEO. Tuttavia, quando il gran coro canta BARABBA,
urla BARABBA, assetato di sangue, ubriaco di sangue, loro non cadono
mica dai banchi, le migliaia in camicia di bucato. No, e non piangono
neanche, e neanche pregano, e le loro facce, le loro anime vere non sono
visibili affatto, quando il gran coro urla BARABBA. Sui biglietti c’è
scritto PASSIONE DI MATTEO, dieci marchi. Ci si siede proprio davanti
alla passione, dove la passione vien sofferta a voce alta, o anche un po’
dietro, dove vien sofferta più piano, smorzata. Ma è lo stesso. Le loro
facce vere non si vedono, quando il gran coro urla BARABBA. Tutti
restano belli calmi, davanti della passione. Non un capello fuori posto,
per l'angoscia, per la pena. Echeggiano per dieci marchi, l'angoscia e la
pena, cantate e sviolinate là davanti. E chi urla BARABBA, finge,
dopotutto viene pagato per urlare. E il gran coro urla BARABBA. Madre!,
grida il capitano Fischer lungo la strada senza fine. Sono io, il capitano
Fischer. BARABBA!, urla il gran coro dei ben ripuliti. FAME!, abbaia la
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7/23/2019 Wolfgang Borchert - Ventisette coniglietti tra le macerie della guerra
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pancia del capitano Fischer. Che sono io. RETE!, urlano le migliaia dal
campo di calcio. BARABBA!, urlano da sinistra. RETE!, urlano da destra.
Woronesch!, urlo io nel mezzo. Ma le migliaia mi urlano contro.
BARABBA!, da destra. RETE!, da sinistra. A destra recitano la passione,a sinistra il calcio. E io nel mezzo, il capitano Fischer, venticinque anni,
giovane, vecchio di cinquantasette milioni di anni, anni Woronesch, anni
madre, anni strada. Da destra BARABBA!, da sinistra RETE!, e nel mezzo
io, senza madre, sull’onda del rotondeggiante, solo senza madre.
Venticinque anni. Sono quello che sa dei cinquantasette che han sepolto
a Woronesch, ignari, che non volevano, io li conosco, giorno e notte.
Come gli ottantasei Ivan che giacevano di mattina mitragliati, a bocca e
occhi aperti. So della fanciulla senza minestra, so del caporalmaggiore e
della sua stampella. BARABBA!, si urlano a vicenda nelle orecchie ben
lavate laggiù a destra, dieci marchi. E so della vecchia signora con le tre
foto sul letto, e della fanciulla con la pancia tonda, che si buttò davanti
al treno in arrivo. RETE!, urlano da sinistra, cento volte rete! E so di
Tim, insonne perché ha spintonato il vecchio, so delle cinquantasette
signore con gli occhi rossi che comprano dal cieco il Piramidone, due
marchi alla scatoletta. Il biglietto costa passione, passione a dieci
marchi, là a destra. Incontro valevole per la Coppa, sta scritto sui
biglietti, quattro marchi, azzurri, azzurri come fiori, là a sinistra.
BARABBA!, urlano da sinistra, e il cieco seguita a latrare: Piramidone!
Io nel mezzo, solo, solo senza madre sul mondondeggiante, solo con la
fame che mi latra dentro. E so dei cinquantasette, sono il capitano
Fischer. Quelli urlano RETE e BARABBA in coro. Solo io sono
sopravvissuto, orribilmente, ma va bene che quelli là, i ben ripuliti, non
sappiano dei cinquantasette di Woronesch. Come farebbero altrimenti a
resistere davanti alla Passione, davanti alla partita di coppa? Solo io
ancora sono in cammino, da Woronesch a qui, affamato, in cammino da
lungo tempo. Perché sono sopravvissuto, gli altri sepolti a Woronesch, a
me mi hanno mancato: perché solo con me non ci hanno preso? Ora
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7/23/2019 Wolfgang Borchert - Ventisette coniglietti tra le macerie della guerra
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davanti ho soltanto il muro, che mi regge. Devo andare lungo il muro.
Rete!, urlano qua dietro. Lungo la lunga strada, e già non ce la faccio
più, ma proprio più, con davanti il muro e basta, perché mia madre non
c’è. Ci sono soltanto i cinquantasette, le cinquantasette milioni di madricon gli occhi rossi, che orrendamente mi sono dietro. Lungo la strada.
Ma il capitano Fischer ordina: sinistr’, due tre quattro, sinistr’, due tre
quattro, forza, Barabba, il fiore azzurro è talmente umido di pianto e
sangue, dai, dai, in alto i cuori, seppelliam la fanteria, sotto il campo di
calcio, sotto il campo di calcio.
Già sono esausto, ma il vecchio con l’organino fa una musica che
rincuora, lieta vi sia la vita, canta lungo la strada, lieta per voi di
Woronesch, in alto i cuori, tanto lieta vi sia, fino a che il fiore azzurro
sanguina, lieta vi sia la vita fino a che il suono dura...
Canta fesso come una bara piena, il vecchio dell’organino, lieta vi sia,
fino a che, canta talmente fesso, fino alla fossa, la verminosa, la terrosa,
così fino a Woronesch, canta, lieta vi sia, fino a quando rimane accesa la
bugia, finché sanguinano le bende!
Sono il capitano Fischer! Urlo io. Sono sopravvissuto, sono in cammino
già da tempo lungo la strada, e cinquantasette ne han sepolti a
Woronesch, io li conosco.
Lieta vi sia, canta quell’uomo.
Ho venticinque anni, urlo io.
Lieta vi sia, canta.
Ho fame, urlo.
Lieta vi sia, canta, e i suoi burattini dondolano, arlecchini semoventi - ha
un pugile che scuote i pugni lustri arlecchinati e grida: boxo!, mentre si
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7/23/2019 Wolfgang Borchert - Ventisette coniglietti tra le macerie della guerra
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muove da maestro. Ha un ciccione con sulle spalle un sacco lustro
arlecchinato zeppo di soldi. Governo!, grida il ciccione, mentre si muove
con maestria. Ha un generale dalla lustra uniforme arlecchinata.
Comando!, continua a gridare, comando, comando!, mentre si muove conmaestria. E ha un dottor Faust con il camice lustro arlecchinato, e
occhiali neri, che non grida, non urla, ma si muove, si muove
orrendamente.
Lieta vi sia, canta quell’uomo, e i suoi burattini dondolano
orrendamente. Hai dei burattini belli, gli faccio. Lieta vi sia, lui canta.
Ma cosa fa l’occhialuto in camice bianco?, gli domando: non grida, non
boxa, non governa, non comanda, cosa fa, lui che si muove così
orribilmente? Lieta vi sia - pensa, canta l’uomo con l’organino, pensa,
cerca e inventa. Cosa cerca, dunque, l’occhialuto, quando si muove così
orribilmente? Lieta vi sia – cerca di fabbricare una polvere, una polvere
verde, verde speranza. Ma cosa si fa con la polvere verde, quando lui si
muove così orribilmente? Lieta vi sia, canta l’uomo, con un cucchiaio di
polvere verde speranza si può far morire perfino cento milioni di uomini,
quando il soffio è colmo di speranza. L’occhialuto inventa, inventa,
inventa. Lieta vi sia la vita lungamente, canta. Inventa!, urlo io. Lieta vi
sia la vita lungamente.
Sono il capitano Fischer, venticinque anni, ho rubato all’uomo con
l’organino il burattino in camice bianco, lieta vi sia la vita lungamente,
gli ho staccato la testa, lieta vi sia la vita, gli ho storto via le braccia,
all’occhialuto in camice bianco, al burattino della polvere verde, lieta vi
sia la vita, l’ho spezzato in due, l’inventore verde speranza, ora non
mescola più nessuna polvere, non scopre più nessuna polvere, l’ho
spezzettato in due.
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7/23/2019 Wolfgang Borchert - Ventisette coniglietti tra le macerie della guerra
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Perché hai rotto il mio bel burattino?, grida l’uomo, era così intelligente,
saggio, saggio da non credere, intelligente, inventivo, perché mi hai
rotto l’occhialuto?, domanda l’uomo con l’organino.
Ho venticinque anni, urlo, sono ancora sulla strada, ho fame, urlo, ecco
perché l’ho rotto. Noi abitiamo catapecchie fatte di legno e di speranza,
ma viviamo. Davanti ci crescono rape e rabarbaro, patate e tabacco. Noi
si ha paura!, urlo. Si vuole vivere!, urlo, nelle catapecchie fatte di legno
e di speranza, e patate e rabarbaro crescono ancora. Ho venticinque
anni, ecco perché ho spezzato il burattino in camice bianco, ecco perché,
ecco perché...
Lieta vi sia, canta l’uomo, lieta vi sia la vita lungamente, e tira fuori da
quella sua orrida grossa cesta un nuovo burattino occhialuto in camice
bianco, con un cucchiaio, sì, colmo di polvere verde speranza. Lieta vi
sia, canta, lieta vi sia la vita lungamente, ne ho ancora tanti, di uomini in
bianco, tanti da far paura. Ma si muovono in modo orribile, grido io, ho
venticinque anni, abito in una catapecchia fatta di legno e di speranza, e
patate e tabacco che crescono ancora.
Lieta vi sia la vita lungamente, canta l’uomo.
Ma si muove in modo orribile, urlo io.
No, che non si muove, lui viene mosso, viene.
E chi lo muove, allora, chi lo muove?
Io, dice orribile l’uomo, io, io!
Ho paura, urlo, stringo il pugno e colpisco in faccia l’uomo con
l’organino. E invece no, non lo prendo, perché non mi riesce di trovargli
il muso orrendo. L’ha talmente alto sul collo, che non ci arrivo con il
pugno, e lui a ridere orrendo. Non ci arrivo, non ci arrivo, poi quel muso
s’allontana e ride, orrido ride.
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7/23/2019 Wolfgang Borchert - Ventisette coniglietti tra le macerie della guerra
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Per la strada una persona corre, ha paura, sua madre l’ha lasciata sola,
ora sta gridandole dietro. Perché, urlano i cinquantasette di Woronesch,
perché? La Germania, urla il ministro, BARABBA, urla il coro,Piramidone, urla il cieco, e gli altri urlano, rete! Cinquantasette volte
rete. E l’occhialuto in camice bianco si muove orribilmente, e inventa,
inventa, inventa, e la fanciulla non ha neanche un cucchiaio di minestra,
mentre l’occhialuto in camice bianco uno ne ha. Tocca la stessa fine a
cento milioni. Lieta vi sia la vita, canta l’uomo.
Una persona corre per la strada, lungo la lunga strada, ha paura, corre
per il mondo con la sua paura, per il mondondeggiante. Io sono quella
persona, venticinque anni, e sono in cammino da tanto e ancora e
sempre, voglio andare al tram, devo andare sul tram, tutti sono dietro di
me, orribilmente dietro di me.
Una persona corre per la strada con la sua paura, sono io, una persona
scappa via dalle grida, sono io, un uomo pensa patate e tabacco, sono io,
una persona salta sul tram, il buon giallo tram, sono io. Viaggio in tram,
il giallo buon tram, dove andiamo?, domando agli altri, al campo di
calcio, alla Passione di Matteo, alle catapecchie fatte di legno e di
speranza, con le patate e il tabacco? Dove andiamo?, domando agli altri.
Nessuno apre bocca, ma là siede una signora che in grembo tiene tre
foto, e tre uomini siedono vicini per il loro skat, e c’è anche l’uomo con
la stampella, e la fanciulla senza minestra e la fanciulla con la pancia
tonda. E uno disegna le facce sul vetro, e uno suona il piano, e
cinquantasette marciano accanto al tram. Forza, in alto i cuori, svelta
andò la fanteria, Woronesch, in alto i cuori. In testa il capitano Fischer,
che sono io, e mia madre dietro, cinquantasette milioni di volte dietro di
me. Dove andiamo?, chiedo al controllore, che mi dà un biglietto verde
speranza. MATTEO-PIRAMIDONE, vedo laggiù. Tutti dobbiamo pagare, e
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7/23/2019 Wolfgang Borchert - Ventisette coniglietti tra le macerie della guerra
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allunga la mano. Cinquantasette, signore!, gli grido. Ma dov’è che
andiamo, domando agli altri, lo dobbiamo ancora sapere, dove? Dice
Timm: ancora non sappiamo, lo sa quella troia, e tutti annuiscono, e
strepitano, lo sa quella troia. Intanto viaggiamo, tingeltangel,scampanella il tram, e nessuno sa per dove, ma tutti viaggiano, e il
controllore fa una faccia incomprensibile di vecchio controllore con
centomila rughe, indistinguibile, un controllore buono, un controllore
cattivo? Ma tutti lo pagano, e tutti viaggiano, mentre nessuno sa: cattivo
o buono?, e nessuno sa per dove. Tingeltangel, scampanella il tram, e
nessuno sa per dove, tutti vanno, e nessuno, nessuno, nessuno...
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7/23/2019 Wolfgang Borchert - Ventisette coniglietti tra le macerie della guerra
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