Tra immagine documentaria e Found Footage Wawe

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Tra immagine documentaria e Found Footage Wawe. L’immagine documentaria. La televisione italiana gioca un ruolo importante nell'innovazione delle forme documentarie. - PowerPoint PPT Presentation

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Tra immagine documentaria e Found Footage Wawe

L’immagine documentaria

• La televisione italiana gioca un ruolo importante nell'innovazione delle forme documentarie.

• Lo fa soprattutto grazie alle cosiddette “inchieste filmate” . Ne ha girate per esempio Mario Soldati (Viaggio nella valle del Po. Alla ricerca di cibi genuini 1957) e Mario Soldati con Cesare Zavattini (Chi legge? Viaggio lungo il Tirreno 1960).

Viaggio nella valle del Po. Soldati (1957)

Soldati Zavattini Chi legge? (1960)

L’immagine documentaria

• Attraverso queste inchieste si afferma l'uso del 16 mm che consente maggiore libertà espressiva e movimenti più agili. Inoltre arriva l'insonorizzazione della mdp per la presa diretta. La durata cinematografica dei 10 minuti si disintegra in favore di temporalità dilatate e queste innovazioni televisive arrivano anche nell'ambiente dei documentaristi più sensibili ai cambiamenti in atto.

L’immagine documentaria

• Anche il documentario inizia a usare modalità come l'intervista, l'impiego della camera nascosta, l'impiego dell'obbiettivo trasfocatore che permette di passare, senza soluzione di continuità, dal campo lungo al primo piano, l'impiego del cosiddetto montaggio lento o lungo che tende a conservare alle riprese il loro respiro naturale.

• L’utilizzo di questi accorgimenti consente di scivolare dal tempo cinematografico con salti tagli ellissi a un tempo prossimo a quello della vita quotidiana, un tempo miracolosamente sovrapposto a quello del normale fluire dell'esistenza.

Buongiorno, notte Bellocchio (2003)

L’immagine documentaria

• Perché Buongiorno, notte come elemento per ragionare sull'immagine documentaria? Perchè la televisione italiana come abbiamo visto con i lavori di Soldati e Zavattini, gioca un ruolo importante nell'innovazione delle forme documentarie.

• Usando il documento d'archivio ovvero il servizio giornalistico e i programmi dell'epoca Bellocchio tesse una trama drammaturgica di grande finezza riuscendo a cogliere tanto nell'appartamento dei sequestratori quanto nel mondo esterno che entra ed esce da lì grazie appunto al televisore il nesso inscindibile che mescola e unisce normalità e follia quotidianità e catastrofe.

L’immagine documentaria

• Il personaggio di Chiara cui Bellocchio delega il compito di usare l'immaginazione come contrappunto alle tragiche vicende reali di cui è coprotagonista e corresponsabile sogna talora a occhi aperti talora durante il sonno.

Il personaggio di Chiara in Buongiorno, notte

L’immagine documentaria

• I sogni di Chiara, le sue visioni si materializzano sullo schermo mediante immagini di film. Immagini che quando la ragazza è ancora convinta della purezza del gesto che sta compiendo sono non a caso la panchina innevata su cui si dice sia morto Lenin (da Tre canti su Lenin ) 1934 di Dziga Vertov e sequenze tratte dai film di propaganda stalinista.

• Quando poi Chiara comincia a rifiutare l'idea di uccidere Moro sogna le fucilazioni di partigiani da Paisà (1946) di Roberto Rossellini o abbina le lettere di Moro a quelle dei condannati a morte della Resistenza.

L’immagine documentaria

• Così facendo Chiara introduce un ferita uno iato nell'universo concentrazionario del carcere brigatista e attraverso l'immaginazione diventa un congegno che apre la porta al dubbio lasciando addirittura che Moro passeggi libero all'alba sotto la pioggia per le vie di Roma dalle parti dell'EUR.

L’immagine documentaria

• Proprio perché Buongiorno, notte compie un riciclo poetico della storia, è interessante partire da qui per disvelare una pratica come il found foutage fondamentale per l'elaborazione teorica stessa del cinema contemporaneo e modalità di integrazione fra diversi materiali d'archivio in grado di riesumare/manipolare/reinventare il senso primigenio delle immagini.

Tra Found Footage e Recycled cinema

• In “Buongiorno, notte” Bellocchio attraverso un misf-atto poetico riattiva un cristallo di memoria mischiando una moltitudine di immagini nella promessa di una nuova scrittura filmica.

• I sogni di Chiara sono un campo iconografico da rivisitare, un magma del passato da ricomporre con un nuovo cemento emozionale.

Tra Found Footage e Recycled cinema

• Found footage è termine che accoglie una vastità di intenti e come tale suggerisce cautele metodologiche e chiarimenti preliminari.

• Letteralmente significa “metraggio trovato”, dove metraggio sta per pellicola cinematografica o parte di essa, e “trovato” indica una vasta gamma di occasioni di recupero da film emersi per caso in mercatini delle pulci, raccolte private, fondi cinetecari a film volutamente cercati (è il caso di Bellocchio) per essere manipolati.

Tra Found Footage e Recycled cinema

• Il montaggio a partire dal found footage può essere di tre tipi:

• una compilation quando il film non giunge a sfidare la natura realista delle immagini riutilizzate;

• una appropriation quando il film produce accomodanti simulacri;

• ed è solo il collage/montage film a illuminare una attitudine critica, fortemente in contrasto con l’istituzione cinetelevisiva.

Tra Found Footage e Recycled cinema

• I filmmaker generalmente sono attratti piuttosto dalla riconfigurabilità dell’immagine in termini estetico-politici. Essi sono dunque lontano dal compilation film perché rischiano raccordi inusitati, decomposizioni e ricomposizioni del quadro, ralenti o accelerazioni del flusso filmico, reiterazioni, sottrazioni, abrasioni, colorazioni delle immagini.

Tra Found Footage e Recycled cinema

• Il found footage è dunque una palestra estetica rafforzativa dell’assunto che esistano verità anacronistiche. Onde anomale, cine frammenti in attesa di redenzione.

• Dimostrazione di ciò sono per esempio le “Histoire(s) du cinéma” (1999) di Jean-Luc Godard.

“Histoire(s) du cinéma” Jean-Luc Godard (1999)

• Con “Histoire(s) du cinéma” Godard realizza un corpo di immagini, un pensiero di immagini, un mondo di immagini dispiegato in otto episodi attraverso un montaggio fortemente evocativo che dà vita a una stratificazione di senso e di emozioni, di citazioni e di memorie.

“Histoire(s) du cinéma” Jean-Luc Godard (1999)

• Le immagini si rincorrono in un ondivago flusso memoriale: scritte, fotografie, sequenze celebri, visioni pornografiche incastonate tra distruzioni belliche, volti icona della storia del cinema o volti della storia dell’arte.

• “Histoire(s) du cinéma” diventa quindi attraverso il found footage un luogo della memoria, una forma oscillante, densa di rimandi talora evidenti tal’altra sotterranei.

“Histoire(s) du cinéma” Jean-Luc Godard (1999)

• Nelle mani di Godard la Storia del cinema evoca aperture e riscritture, critiche profonde e amori primigeni.

• Come mostra il capitolo in cui Godard racconta il Neorealismo italiano, a fare la storia è la prossimità delle immagini che intersecandosi hanno la capacità di ritrovare con il cinema, Rossellini in primis, e sulle immagini di Piero della Francesca, sia un pensiero che forma, sia una forma che pensa.

“Histoire(s) du cinéma” Jean-Luc Godard (1999)

• Godard dunque usa il found footage per dare vita a una vasta operazione di rimessa in forma della Storia del cinema come Storia delle immagini al termine della quale, le domande che restano, riguardano la Storia, la sua essenza, la possibilità di raccontarla.

“Histoire(s) du cinéma” Jean-Luc Godard (1999)

• Nelle “Histoire(s) du cinéma” Storia del cinema e storia degli uomini, diventano un intreccio che ha segnato il Novecento: memorie a pezzi eppure pienamente contemporanee ed è per questo che Godard come altri autori che incontreremo o abbiamo incontrato, diviene pregnante incarnazione del nostro tempo.

“Histoire(s) du cinéma” Jean-Luc Godard (1999) Il

Neorealismo

“Histoire(s) du cinéma” Jean-Luc Godard (1999) Il

Neorealismo

“Histoire(s) du cinéma” Jean-Luc Godard (1999) Il

Neorealismo

L’immagine documentaria

• Autori che erigono il recupero delle memorie a percorso di creazione poetica sono Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi che negli anni novanta realizzano una serie di film che paiono giungere da un passato di siderali lontananze mediatiche frutto di preziose rielaborazioni scopiche.

• Si tratta di opere aliene al tradizionale documentario a base d'archivio quello caratterizzato dal privilegio del letterario e poco fiducioso nell'autonoma forza delle immagini.

Gianikian e Ricci Lucchi

Tra Found Footage e Recycled cinema

• Gianikian e Ricci Lucchi come il Bellocchio di Buongiorno, notte sembrano minare “lo stato delle cose ” reintroducendo temporalità del sentire negate dalla quotidiana sovraesposizione ai media.

• Hanno girato film come Dal Polo all'equatore nel 1987 e Oh uomo nel 2008.

Dal polo all’equatore Gianikian Ricci Lucchi (1987)

• E’ un film di montaggio e ricostruzione di materiale trovato nell'archivio del cineasta milanese Luca Comerio (1878-1940), girato nel primo ventennio del secolo: un treno che attraversa le montagne del Tirolo; la spedizione italiana (1899) col Duca degli Abruzzi al Polo Sud; immagini della guerra 1914-18 sul fronte italo-austriaco; scene di caccia in Uganda (1910) al seguito del barone Franchetti; combattimenti in India (1911); cartoline esotiche dall'Africa e dall'Indocina; l'operatore Vitrotti sul confine russo-persiano (1911).

Dal polo all’equatore Gianikian Ricci Lucchi (1987)

• Luca Comerio (1878-1940), pioniere del cinema documentario in Italia, con uno spirito che per vari aspetti lo avvicina al futurismo, amò i viaggi, il rischio, le macchine e la velocità.

• Fotografò e filmò la guerra di Libia e la prima Guerra Mondiale, le conquiste coloniali italiane e l’impresa di Fiume del poeta-soldato Gabriele D’Annunzio.

Dal polo all’equatore Gianikian Ricci Lucchi (1987)

• Come fotografo ufficiale della Real Casa, Comerio aveva realizzato varie pellicole dedicate ai sovrani d’Italia. Inoltre aveva avuto l’esclusiva per le riprese sui vari fronti della Prima Guerra Mondiale e aveva potuto effettuare riprese cinematografiche nei più lontani paesi del mondo.

Dal polo all’equatore Gianikian Ricci Lucchi (1987)

• Comerio, nonostante i suoi tentativi di avere incarichi dal regime fascista, con l’avvento del fascismo, cessò quasi del tutto le sue attività di documentarista e si dedicò alla cura del suo archivio (dove aveva collezionato pellicole sia sue che di altri operatori). Poté così realizzare alcuni film di montaggio, dedicati per lo più al tema della guerra: Sulle Alpi riconsacrate, Al rombo del cannon, Perché il mondo sappia e gli Italiani ricordino, che già a partire dai titoli si qualificano come opere retoriche concepite per assecondare la politica ultranazionalista del regime fascista.

Dal polo all’equatore Gianikian Ricci Lucchi (1987)

• Questi film sono andati perduti, mentre è sopravvissuto Dal Polo all’Equatore che, a differenza degli altri, non è uscito nelle sale e probabilmente non è mai stato concluso.

• Realizzato verso la fine degli anni venti, Dal Polo all’Equatore rimase a lungo sconosciuto, finché in anni recenti non fu scoperto da due cineasti italiani di avanguardia, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi.

Dal polo all’equatore Gianikian Ricci Lucchi (1987)

• I due cineasti con immagini prese da questa e da altre pellicole della collezione Comerio, realizzarono un film dallo stesso titolo, Dal Polo all’Equatore (1986), divenuto ben presto una delle pellicole più note e apprezzate dell’avanguardia italiana degli anni ottanta.

Dal polo all’equatore Gianikian Ricci Lucchi (1987)

• Date le condizioni in cui versavano le pellicole, Gianikian e Ricci Lucchi hanno dovuto rifotografarle fotogramma per fotogramma mettendo a punto quella che essi stessi hanno chiamato «la nostra camera analitica», un dispositivo che permetteva lo scorrimento della pellicola nonostante il deterioramento dei fori laterali e una visione/riproduzione analitica dei singoli fotogrammi.

Dal polo all’equatore Gianikian Ricci Lucchi (1987)

• In tale modo i due autori non solo hanno reso visibile i materiali dell’archivio di Comerio, ma ne hanno, per così dire, offerto una lettura, un’interpretazione critica.

• Gianikian e Ricci Lucchi riproponendo per il loro film lo stesso titolo di Comerio riprendono l’idea del viaggio, del percorso. Il film è suddiviso in dieci sezioni, corrispondenti a differenti spazi geo-antropologici.

Dal polo all’equatore Gianikian Ricci Lucchi (1987)

• Per avere un’idea più precisa del metodo di lavoro e del tipo di operazione fatta esaminiamo la prima sezione del film.

• Il materiale di partenza è costituito da riprese (di) e da treni in movimento lungo il paesaggio del Tirolo: si tratta di 5.044 fotogrammi per un totale di 97 metri di pellicola. Nel montaggio-manipolazione di Gianikian e Ricci Lucchi, la durata risulta almeno tripla.

Dal polo all’equatore Gianikian Ricci Lucchi (1987)

• Per ottenere tempi di percezione alterati rispetto all’originale essi utilizzano il ralenti, la ripetizione delle sequenze. Il tutto produce un effetto di persistenza ossessiva delle immagini, accentuato dalla musica di Keith Ulrich e Charles Anderson e dai viraggi che erano assenti dall’originale.

Dal polo all’equatore Gianikian Ricci Lucchi (1987)

• La ripetizione rallentata delle inquadrature e l’insistenza sull’effetto di dissolvenza in nero ottenuto nelle inquadrature di entrata e uscita del treno dai tunnel trasformano profondamente queste immagini caratterizzate da un certo gusto del pittoresco tipico dei film di montagna.

Dal polo all’equatore Gianikian Ricci Lucchi (1987)

• La ripetizione ossessiva dei tragitti dei treni lungo i binari produce l’impressione di una rete di linee rette che si sovrappone al paesaggio. Il montaggio e la manipolazione delle sequenze di Gianikian e Ricci Lucchi vogliono darci l’impressione di un paesaggio romantico che viene delimitato, penetrato, circoscritto dall’intervento della tecnologia e dalla volontà di dominio.

Dal polo all’equatore Gianikian Ricci Lucchi (1987)

Oh uomo Gianikian Ricci Lucchi (2004)

• Questo film completa la trilogia che gli autori hanno dedicato alla Prima Guerra Mondiale e agli anni immediatamente successivi. Attraverso l'analisi del totalitarismo sino alla descrizione della sofferenza fisica e psichica delle persone, i realizzatori hanno creato una sorta di catalogo anatomico dei corpi feriti e mutilati, vittime della violenza dell'uomo, soffermandosi in particolare sulle conseguenze del conflitto sui bambini dal 1919 al 1921. Dalla decostruzione alla ricomposizione artificiale dei corpi, cercano di comprendere cosa spinga l'umanità a commettere questi orrori ogni volta dimenticati e rinnovati.

Oh uomo Gianikian Ricci Lucchi (2004)

Oh uomo Gianikian Ricci Lucchi (2004)

Oh uomo Gianikian Ricci Lucchi (2004)

Tra Found Footage e Recycled cinema

• I lavori di Gianikian e Ricci Lucchi come il Bellocchio di Buongiorno, notte e vedremo di Vincere propongono un montaggio senza imporlo in una durata fissa ed è lo spettatore che impone egli stesso la propria cadenza la propria andatura. Un atto di visione un atto di memoria.

Vincere Bellocchio (2009)

L’immagine documentaria Un regine in LUCE

• Quanto incide il documentario nelle politiche culturali del regime fascista?

• Mussolini intuisce pienamente le potenzialità del mezzo cinematografico. Egli stesso inventa il nome LUCE (acronimo di “L’Unione Cinematografica Educativa”) e coglie l’importanza di un organismo votato alla propaganda e teso alla diffusione di pellicole didattiche ed educative. Il 3 aprile 1926 con decreto legge n. 1000 viene resa obbligatoria la proiezione in tutte le sale del regno di uno o più documentari LUCE.

L’immagine documentaria Un regime in LUCE

• Da questo momento il duce inaugura l’iconografia zelighiana di un attore poliedrico pronto a indossare le vesti di una sequela interminabile di personaggi: minatore e nuotatore ferroviere e violinista ballerino e mietitore cavallerizzo e aviatore schermidore e maresciallo dell’Impero.

• Così facendo Mussolini mette in atto una strategia di immagine tesa a fascistizzare il mondo nelle sue varie funzioni.

L’immagine documentaria Un regime in LUCE

• A brevissima distanza dalle kinopravde sovietiche e ben prima dell’edificazione del culto della personalità hitleriano il Giornale Luce illustra il “riscatto” di un paese condotto per mano grazie al cinema dal suo capo supremo.

• Grazie al Giornale Luce emerge un paese ideale come il regime avrebbe voluto che fosse.

L’immagine documentaria Un regime in LUCE

• Forte è il processo di risematizzazione della notizia la sua fusione con apparati verbo-visivi (le didascalie) o uditivi (la voice over) capaci di ribaltare il significato originale delle notizie.

• Poco a poco il cinegiornale scolpisce una laica ritualità legata al tempo del non lavoro un cerchio unificante al pari della radio e prima dell’avvento della televisione.

• E’ un momento in cui i processi di riproducibilità tecnica delle immagini investono profondamente l’immaginario collettivo degli italiani ricalibrandone identità regionali e collocazioni internazionali.

L’immagine documentaria Un regime in LUCE

• Con l’avvento del sonoro si teme che la novità infici i progressi linguistici del cinema come “arte della visione”. La possibilità che si torni al declamato al teatrale al romanzesco è concreta tanto è vero che in Russia registi come Ejzenstejn e Pudovkin auspicano una prospettiva antinaturalistica nella riproduzione del suono e nel 1928 firmano il “Manifesto dell’asincronismo”.

• In proposito in Italia se si esclude una importante presa di posizione di Pirandello la riflessione teorica resta debole e le preoccupazioni soprattutto tecniche.

L’immagine documentaria Un regime in LUCE

• Superata la questione dell’avvento del sonoro il regime arma i cinegiornali per giustificare auspici di gloria e progetti di un radioso avvenire. Centinaia di titoli LUCE definiscono un ideale programma divulgativo di urbanistica dal vivo ed esaltano la solerzia cine-cementifera di una capitale che vuole dominare il Mare Nostrum ovvero il Mediterraneo.

L’immagine documentaria Un regime in LUCE

• Mussolini sente l’esigenza di tarare al meglio il peso della sua immagine e così parallelamente all’acquisizione di competenze delle maestranze del LUCE avviene una progressiva calibratura dell’immagine del capo.

L’immagine documentaria Un regime in LUCE

• A volte Mussolini appariva “sgraziato” per una gestualità ereditata dai comizi di piazza e così ecco che lo vediamo limare i suoi gesti cedendo il passo a più studiate definizioni dello spazio e del rito con più soppesate alternanze di campi e controcampi tra lui sempre più spesso dal balcone di piazza Venezia e la folla. Ora le ampie panoramiche che abbracciano le camice nere i balilla i figli della lupa le giovani italiane mentre circondano un capo dalla parola rarefatta esaltato da scarnificate asserzioni senza scampo sono

assai più frequenti rispetto ai cinegiornali degli anni ‘20.

L’immagine documentaria Un regime in LUCE

• A questo punto possiamo tornare a Vincere di Marco Bellocchio (2009) infatti questo film è un lucido dolce e feroce atto d’accusa nei confronti dell’eterno fascismo italiano ovvero nei confronti di quella disposizione antropologica prima ancora che psicologica ideologica o sociale fatta di succube servilismo di velleitarismo arrogante di odio nei confronti del diverso e di disprezzo nei confronti delle donne che da qualche secolo a questa parte periodicamente attraversa la nostra storia e il nostro sentire.

Vincere Bellocchio (2009)

L’immagine documentaria Un regime in LUCE

• All’inizio il duce di Vincere è il corpo di Filippo Timi. Corpo che freme e che ringhia corpo che sanguina e copula corpo che pulsa e si gonfia. Poi questo corpo si iconizza e diventa immagine che anche dentro il rettangolo stretto dell’inquadratura continua a pulsare urlare e fremere. Alla fine diventa una statua, la testa di una statua ed è a questo punto che Marco Bellocchio chiude un film che lavoro sul corpo mediale del capo è tra le cose più esplosive che il cinema italiano abbia mai realizzato.

L’immagine documentaria Un regime in Luce

• La Ida Dalser di Giovanna Mezzogiorno invece rispetto al corpo del duce con «i pugni in tasca» si oppone al braccio teso del saluto fascista, e proprio per questo Bellocchio regala allo sguardo della sua protagonista come già a Chiara che in Buongiorno, notte libera Moro un venticinquesimo, un ventiquattresimo di secondo che, continuamente rimescolato, è lo stesso che le permette di sperare nella perfezione dell'uomo che ama (lo avverte che ha la stringa di una scarpa slacciata e a un certo punto gliela allaccia) e anche le fa presagire quel che il fascismo sarà, quando la mano le resta insanguinata dopo il primo bacio a colui che diventerà il Duce. Benito Mussolini appare così – e con lui il fascismo e il popolo italiano – come un doppio mostruoso ben prima che il film lo trasformi da «uomo» a «immagine».

L’immagine documentaria Un regime in LUCE

• I materiali d'archivio dell'Istituto Luce documentano la progressiva caduta nel fascismo della coscienza collettiva, una coscienza che ironicamente, riconoscerà nella sanità mentale della Dalser un pericoloso strumento di sovversione.

L’immagine documentaria Un regime in LUCE

• Per Bellocchio gli occhi di Ida Dalser sono gli unici a brillare di lucida consapevolezza; ed ecco allora che, nelle sequenze ambientate o avvolte dal cinema, sembrano sempre soli: come quelli del regista, guardano, costruiscono, soffrono senza lasciarsi mai accecare.

La scena degli affetti: della forma amatoriale

• Nel 1920 si inaugura il simbolico sposalizio con il mondo celebrato dalla diffusione di cineprese a basso costo.

• Grazie alla propagazione dei dispositivi casalinghi si diviene attivi cittadini del cinematografo: tutto è da filmare e così, la presunta zona di immunità iconografica dell’album privato di fotografie, esplode in film girati in normali contesti familiari.

La scena degli affetti: della forma amatoriale

• I rituali laici e religiosi, la vita di casa e le vacanze, danno vita a film che sembrano palpitare da un altro pianeta: psico-geografie incastonate in volti-paesaggio, sguardi in macchina e imbarazzi prossemici, lontananze, che inducono a riflettere sul rapporto tra micro e macro storia. Un valore iconico inestimato riposa, attendendo solo di essere risvegliato.

La scena degli affetti: della forma amatoriale

• Alla salvaguardia si associa il riutilizzo: un cantiere di sguardi investe frammenti sepolti, nella convinzione che si possa rimetterli in gioco per colmare una lacuna fra lontani atti del vedere e vicine volontà di sapere.

• Basti pensare ai film di famiglia di cui si serve Alina Marazzi per “Un’ora sola ti vorrei” nel 2002.

La scena degli affetti: della forma amatoriale

• Alina Marazzi stessa ricorda che rivedendo le sequenze girate dal nonno materno si rese conto di quale costruzione scenica sottintendesse quella società, di come essere spensierati e felici costituisse quasi un obbligo, ben al di là dell’apparente ingenuità del film di famiglia.

La scena degli affetti: della forma amatoriale

• L’aspetto sorprendente dei film di famiglia è che nel momento del montaggio tutto torna primigenio, immagini “nuove” alla deriva del senso globale e guizzanti di vita propria, disponibili per migliaia di altre storie.

Alina Marazzi “Un’ora sola ti vorrei” (2002)

• Nel film della Marazzi entriamo in una prospettiva che attesta il valore “realistico” dell’interiorità, dei suoi sbandamenti, dei suoi miraggi.

• La sua opera ricostruisce la memoria della madre, morta quando la regista aveva sei anni.

Alina Marazzi “Un’ora sola ti vorrei” (2002)

• Addensando i film girati dal nonno, l’editore Ulrico Hoepli, la Marazzi, come osserva Antonio Costa, porta a termine “un’operazione di alto profilo stilistico e linguistico, tutt’altro che consueta nel (cosiddetto) genere documentario [ …] In realtà il film ci costringe a un percorso all’interno della soggettività femminile, facendo emergere tra le pieghe della scrittura e della parola che intersecano il teatrino di famiglia, il non detto (e forse non dicibile)”.

Alina Marazzi “Un’ora sola ti vorrei” (2002)

Alina Marazzi “Un’ora sola ti vorrei” (2002)

• Riferendosi al film la Marazzi afferma: “Lavorare a «Un’ora sola» mi gettava nell’urgenza di una scoperta e nella paura della seduzione, nel potere del passato e nell’emozione di scoprire e guardare negli occhi il volto, ancora pulsante, di mia madre. Un rispecchiamento fondativo un nuovo percorso della mia vita: ora potevo finalmente riannodare i fili del passato”.

Alina Marazzi “Vogliamo anche le rose” (2007)

• La mescolanza dei materiali di repertorio si accentua in “Vogliamo anche le rose”, per il quale la Marazzi utilizza film in super8, materiali delle Teche RAI, della Cineteca di Bologna, di film sperimentali e dell’archivio di Pieve Santo Stefano. Utilizza anche materiale d’animazione sia d’epoca che contemporaneo.

Alina Marazzi “Vogliamo anche le rose” (2007)

• “Vogliamo anche le rose” compone una serie di racconti diaristici in un raffinato impasto audiovisivo: privo di retorica, “rischiando” di sfiorare momenti altamente poetici, scivola via un quindicennio fondamentale per l’affermazione dei diritti delle donne e della sessualità femminile.

Alina Marazzi “Vogliamo anche le rose” (2007)

• In “Vogliamo anche le rose” il discorso documentario attraverso il cinema già girato attrae consapevolezze originali in un corpo a corpo sulla memoria che diviene corpo a corpo estetico.

Alina Marazzi “Vogliamo anche le rose” (2007)

Alina Marazzi “Vogliamo anche le rose” (2007)

Alina Marazzi “Vogliamo anche le rose” (2007)

Alina Marazzi “Tutto parla di te” (2013)

• “Tutto parla di te” è il primo film (parzialmente) “di finzione” scritto e diretto da Alina Marazzi. Il film, infatti, prevede anche degli inserti documentaristici girati nella Casa del Quartiere San Salvario di Torino un centro di sostegno per le madri.

Alina Marazzi “Tutto parla di te” (2013)

• Il pretesto per inserirli nel film è il lavoro di ricerca della misteriosa etologa Pauline che vediamo ascoltare ossessivamente vecchie registrazioni e della quale intuiamo un passato rimosso.

• La crediamo madre in cerca di redenzione. La scopriremo, lungo un lento disvelamento, figlia ferita e coraggiosa.

Alina Marazzi “Tutto parla di te” (2013)

• Spiega la Marazzi nelle note pubblicate sul blog di lavorazione del film: “Quello che voglio raccontare nel mio film, è la misura della distanza, spesso indicibile, tra la fatica di essere madri e l’impreparazione culturale e sociale per affrontare e ammettere questo disagio”.

Alina Marazzi “Tutto parla di te” (2013)

• Se in “Un’ora sola ti vorrei” la maternità era solo una delle tante facce che disegnavano il male di vivere e la mortale senesazione di inadeguatezza di Liselei, in “Tutto parla di te” - il cui titolo provvisorio era “Baby Blues” - la depressione post parto viene affrontata di petto.

Alina Marazzi “Tutto parla di te” (2013)

• In questo film la madre è la danzatrice Emma che è l’aggancio che consente ad Alina Marazzi di innestare nel racconto materiali diversi per evocare i vari livelli emotivi della tensione materna scissa tra amore e rifiuto.

• La commistione di linguaggi eterogenei che in “Vogliamo anche le rose” creava con efficacia l’impressione di un magmatico flusso storico-comunicativo tra generazioni differenti, qui funziona meno forse perché lo spettatore si focalizza sulla parte di fiction.

Alina Marazzi “Tutto parla di te” (2013)

• Se sullo schermo ci sono degli attori infatti, è a loro che va lo sguardo mentre tutto il resto, il documentario, le suggestioni della danza e l’animazione in stop motion, viene percepito come elemento secondario a meno che non si riesca, ma non è questo il caso, a tenerlo tutto insieme con un’idea di regia molto forte.

Alina Marazzi “Tutto parla di te” (2013)

• In “Tutto parla di te” ogni frammento cammina da solo, lancia spunti ma non li approfondisce e finisce per essere motivo di dispersione anziché di arricchimento.

• La fiction può rivelarsi meno elastica rispetto al cinema del reale e scardinarla richiede una spericolata risolutezza che la mano della Marazzi, a cui va comunque riconosciuta una fresca, curiosa originalità, per il momento non possiede.

Alina Marazzi “Tutto parla di te” (2013)

Alina Marazzi “Tutto parla di te” (2013)

Alina Marazzi “Tutto parla di te” (2013)

Appendice: il circuito dell’arte

• Nel circuito dell’arte il found footage film cui non basta più la sala cinematografica, si inventa spazi, modi e tempi di visone sganciati dal luogo tradizionale della sala cinematografica.

• Ormai è dunque evidente che produrre da found footage non significa realizzare un tipo preciso di film, bensì ampliarne i modi di lettura e gli orizzonti semantici.

Appendice: il circuito dell’arte

• Non esiste un’unica estetica del riuso filmico, ma esiste un comune orizzonte cinematografico teso alla rinconversione di immagini girate da altri.

• Il mélange di pratiche e generi non più percepiti secondo gerarchie nobiliari ma ridefiniti e riconfigurati nella prospettiva della molteplicità possibile delle esperienze estetiche e delle forme simboliche.

Appendice: “The Clock” Marclay (2011)

• Attraverso una gigantesca messa in serie di sequenze tratte da centinaia di film classici l’opera di Marclay, Leone d’oro alla Biennale d’arte di Venezia nel 2011, ha la peculiarità di seguire attraverso la temporalità del film quella della vita.

Appendice: “The Clock” Marclay (2011)

• Ogni frammento filmico riutilizzato contiene un orologio che sia da polso, sveglia, pendolo o orologio pubblico.

• Il film dura 24 ore ed è contrassegnato dalla presenza continua di orologi che indicano, minuto dopo minuto lo scorrere del tempo.

Appendice: “The Clock” Marclay (2011)

• Tommaso Isabella così recensisce l’opera di Marclay: “«The Clock» conserva una propria oscura necessità, che è difficile rischiarare ma è impossibile liquidare. Deve avere in qualche modo a che fare con la dimensione interstiziale tra arte e cinema in cui si colloca quel territorio che oggi è buona etichetta definire «post-cinema», ma che è sempre esistito ai margini delle istituzioni, in quanto zona di sperimentazione e di interrogazione dell’immagine in movimento”.

Appendice: “The Clock” Marclay (2011)

• In “The Clock” potremmo pensare a un tempo in scala 1:1 che destrutturando l’originale giunto di montaggio induce la ricerca spasmodica dell’orologio in campo.

• In questo modo negando la presenza di immagini che la completano, l’unica immagine davvero presente è quella attuale, quella che si dà nel momento stesso in cui la percepiamo hic et nunc.

Appendice: “The Clock” Marclay (2011)

Appendice: “The Clock” Marclay (2011)

Appendice: “The Clock” Marclay (2011)

Appendice: “The Clock” Marclay (2011)

Appendice: “The Clock” Marclay (2011)

Appendice: “The Clock” Marclay (2011)

Appendice: “The Clock” Marclay (2011)

Appendice: “24 Hours Psycho” (1993)

• Il ralenti, è una tecnica molto utilizzata con la quale instauriamo un tempo diverso da quello “naturale”- i 24 fotogrammi al secondo - modulando altre velocità di scorrimento del film.

• L’effetto è molteplice: da un lato esaltiamo l’artificialità del processo, la sua appartenenza al dispositivo cinema; dall’altro evidenziamo il valore delle immagini che stiamo trattando consegnandole a un supplemento di sguardi.

Appendice: “24 Hours Psycho” (1993)

• Il montaggio cinematografico che di solito si presenta quale costruzione di un senso unico, unito, lineare, in questo caso lavora sulla sparizione di quel senso, sulla incerta sopravvivenza della immagine alla collisione fra tempi diversi, non visibili nella percezione ordinaria.

Appendice: “24 Hours Psycho” (1993)

• Avviene dunque la distruzione di un significato noto per l’esaltazione di altri possibili significati: “Psycho” di Hitchcock riletto da Douglas Gordon non proietta più le sue antiche sequenze ma, piuttosto, nuovi blocchi spazio temporali. O forse il tempo, il tempo stesso, nella materializzazione del suo non banale passaggio.

Appendice: “24 Hours Psycho” (1993)

Appendice: “24 Hours Psycho” (1993)

Appendice: “24 Hours Psycho” (1993)

Appendice: “24 Hours Psycho” (1993)

Bibliografia

• V. Alfonsi, Un bambino non è un fatto privato, “Cineforum” n° 524, pp. 43 - 45

• M. Bertozzi, Storia del documentario italiano, Marsilio, Venezia 2008, pp. 182 -186; 263 - 267; 279 - 282

• M. Bertozzi, “Recycled cinema. Immagini perdute, visioni ritrovate, Marsilio, Venezia 2012

Bibiografia

• G. Canova, Cinemania, Marsilio, Venezia 2010, pp. 103 - 107; 281 - 283

• A. Costa, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi

• A. Costa, Luca Comerio: dal Polo all’Equatore• M. Pellanda Mussolini versus Dalser in Fata

Morgana, Quadrimestrale di cinema e visioni, n. 13 "Potenza", pp. 183-187.

Filmografia

• M. Bellocchio, Buongiorno, notte (2003)• M. Bellocchio, Vincere (2009)• Y. Gianikian, Angela Ricci Lucchi, Dal Polo

all’Equatore (1987)• Y. Gianikian, Angela Ricci Lucchi, Oh! Uomo

(2004)• D. Gordon, 24 Hours Psycho (1993)• A. Marazzi, Un’ora sola ti vorrei (2002)• A. Marazzi, Vogliamo anche le rose (2007)• A. Marazzi, Tutto parla di te (2013)