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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI
FEDERICO II
FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN FILOSOFIA
TESI DI LAUREAIN
FILOSOFIA MORALE
Kant
la formazione dell’etica
Relatore Candidato
Ch.mo Prof. Paolo Bosso
Marco Ivaldo Matr. 263-126
ANNO ACCADEMICO 2010/2011
1
Indice
Introduzione………………………………………………….p. 6
Parte I: scritti “precritici” e fondazionali
Gli anni ‘60
1. Principi formali e materiali: l’Indagine, p. 9 - 2. Le
Osservazioni: il nuovo ruolo del sentimento morale, p. 14 - 3. Le
Annotazioni alle Osservazioni: Socrate, Rousseau e la filosofia
analitica, p. 17 - 4. I Sogni di un visionario: il formalismo
dell’etica e il sentimento morale come riflesso, p. 23
Gli anni ‘70
5. La Dissertazione: la filosofia pratica non si “rompe”, p. 28
Gli anni ‘80
6. La Fondazione della metafisica dei costumi: la teoria morale
verso una difficile sistematizzazione, p. 32 - Excursus:
l’interesse, efficacia pratica dell’etica: il problema della
valutazione e della motivazione, p. 53
Parte II: le novità della Critica della Ragion Pratica
1. La Critica della Ragion Pratica: la sua funzione
aggregatrice e il fatto della ragione, p. 69 - Excursus: i
presupposti teorici del “fatto della ragione” nelle riflessioni
degli anni ’70, p. 84 - 1.1 Il movente, p. 86 – Excursus: il
movente come disposizione soggettiva. La questione
terminologica del sentimento morale in alcuni scritti degli anni
2
’60 – ’70, p. 90 – 2. La rinuncia alla deduzione trascendentale.
Un ritorno di metodo nel solco della continuità, p. 95
Parte III: lo statuto della filosofia morale di Kant
1. Obbligazione: l’eredità di Baumgarten nella teoria morale
kantiana e la critica alle sue leggi morali, p. 97 – 2.
L’insostenibilità di un’etica pre-critica. L’evoluzione della
filosofia morale kantiana non è un figliol prodigo, p. 109 –
Conclusione: il difficile statuto dell’etica di Kant e l’ironia di
una morale non-teoretica: il punto cieco della motivazione e
l’emancipazione dall’antropologia, p. 117
3
Desidero ringraziare il professore
Marco Ivaldo, relatore di questa tesi,
per i suoi preziosi consigli, l’aiuto e la
grande disponibilità e cortesia
dimostratemi.
4
“La filosofia morale ha questa particolare sorte, di
avere, ancor più della metafisica, l’apparenza di
scienza e l’aspetto di sapere ben fondato, sebbene non
sia né l’una né l’altra cosa”
Immanuel Kant, Programma di lezioni per il semestre invernale
1765-66.
5
Introduzione
Da tempo si sa che la teoria morale di Kant, quella degli
imperativi categorici, dell’obbligazione e del rispetto della
legge, non si trova per la prima volta nella Critica della Ragion
Pratica. L’interpretazione storico-evolutiva dell’etica kantiana1,
che vuole un filosofo morale a due anime influenzato da
“Hutcheson e altri” prima e dalle posizioni della
Schulphilosophie poi, non sembra più valida. A partire dagli
anni ‘50 del secolo scorso gli studi di Henrich2, seguiti
dall’imponente lavoro filologico di Schmucker3, hanno
permesso di scoprire che l’evoluzione dell’etica del filosofo di
Königsberg non segue la stessa strada dell’idealismo
trascendentale e dalla teoria della conoscenza. Dalla prima
formulazione dei concetti morali, riscontrabile a partire dal
17554 fino alla fatidica data del 17855, emergerebbe una teoria
etica già completa nei suoi concetti fondamentali. Questo non
significa che la morale degli scritti precritici ha gli stessi
contenuti delle opere fondazionali e della Critica della Ragion
Pratica. Certo è però che i concetti e i principi morali presentati
in quel periodo non subiranno modifiche sostanziali.
L’evoluzione dell’etica kantiana cosiddetta precritica, nel
periodo che va dalla metà degli anni ‘60 fino alla metà degli
anni ‘80 del XVIII secolo, va letta come un lungo tentativo di
emancipare la teoria morale dall’antropologia. Che si ritenga
1 Così com’è chiamata da GIOVANNI B. SALA in Immanuel Kant, Critica della Ragion Pratica. Un commento, ed. Vita e Pensiero, Milano 2009, parte I, Due interpretazioni dell’etica di Kant. Come nota Sala, è l’opera fondamentale di J. SCHMUCHER: Die Ursprünge der Ethik Kants in seinen vorkritischen Schriften und Reflexionen, 1961, a rappresentare il superamento della rigida distinzione tra un etica precritica e un’etica critica. 2 D. HENRICH, Hutcheson und Kant, in «Kant-Studien». 49 (1957). Tale testo, e le sue citazioni, sarà riportato nel corso della tesi così com’è contenuto in S. Bacin, Il senso dell’etica. Kant e la costruzione di una teoria morale, ed.Il Mulino, Napoli 2006.3 J. SCHMUCKER: Die Ursprünge der Ethik Kants in seinen vorkritischen Schriften und Reflexionen, Meisenheim 1961. Tale testo, e le sue citazioni, sarà riportato nel corso della tesi così com’è contenuto in S. Bacin, Il senso dell’etica. Kant e la costruzione di una teoria morale, ed.Il Mulino, Napoli 2006. 4 Anno di pubblicazione della Storia Generale della natura e teorie del cielo e della Nuova illustrazione dei principi della conoscenza metafisica. Generalmente, però, si ritiene che la prima trattazione articolata di etica e filosofia pratica, come nota S. BACIN in Il senso dell’etica. Kant e la costruzione di una teoria morale, ed.Il Mulino, Napoli 2006, avvenga nel periodo compreso tra il 1762-1764 grazie agli appunti di HERDER sulle lezioni del filosofo tedesco tenute in quegli anni.5 Anno di pubblicazione della Fondazione della Metafisica dei Costumi.
6
questo tentativo riuscito o in parte fallito dipende da come si
considera il razionalismo etico che Kant formula lentamente,
con correzioni e ripetizioni, lungo un arco di quasi trent’anni. Se
si guarda l’etica kantiana come un tentativo di rendere la morale
autonoma da ogni fondazione empirica e da ogni descrizione
della “natura umana” allora tutto sommato si tratta di un
tentativo riuscito. Se invece si considera il razionalismo etico di
Kant come un tentativo radicale di purificazione dei principi
etici da qualunque senso morale, allora il suo lavoro può dirsi
fallito perché di fatto impossibile da realizzare.
La concezione di una morale che differisse da quelle in voga nel
periodo in cui il filosofo scriveva non richiedeva una rivoluzione
copernicana - come nella teoria della conoscenza - ma proprio il
contributo di quelle stesse filosofie morali a lui contemporanee,
considerate però dallo stesso autore fondamentalmente
incomplete.
Questo lavoro di tesi verterà dapprima su un’indagine storica
della morale kantiana precritica. Infine, dopo aver rintracciato i
concetti etici nelle opere di quel periodo6, ritornerò sullo status
questionis del “non-senso” di un’etica precritica, ovvero
sull’insostenibilità di un argomento che giudichi l’etica degli
anni ’60-70 sostanzialmente diversa da quella che inizia con gli
scritti degli anni ‘80.
Kant, guardando al contesto e al dibattito morale di quegli anni,
dominato da un lato dai moralisti inglesi/scozzesi (Hume e
Hutcheson in particolare) e, dall’altro, dalla Schulphilosophie,
considerava negativamente i primi per il ruolo dato al
sentimento morale, i secondi invece, con Wolff e Baumgarten
massimi rappresentanti, erano criticati per i loro principi etici
considerati vuoti e formali7, con tratti eccessivamente 6 Oltre agli appunti di Herder e le lettere di quest’ultimo a Kant presentati nel testo di S. BACIN, Il senso dell’etica. Kant e la costruzione di una teoria morale, i testi precritici che seguirò saranno quelli raccolti nel volume Scritti precritici, ed. Laterza, Bari 2000. In particolare saranno i seguenti: Nuova illustrazione dei principi della conoscenza metafisica; Indagine sulla distinzione dei principi della teologia naturale e della morale; Annotazioni alle osservazioni sul sentimento del bello e del sublime; Sogni di un visionario chiariti con sogni della metafisica; La forma e i principi del mondo sensibile e intellegibile.7 Si pensi alla definizione dell’azione morale in BAUMGARTEN come «respectus et habitudo actionis liberae ad perfectionem» (Initia philosophia practicae primae § 36) criticata da Kant come astratta e formale.
7
psicologici. Eppure entrambe le posizioni – l’inglese/scozzese in
forza della concretezza dei concetti, la tedesca grazie alla
sistematicità del metodo8 - offrono a Kant spunti di riflessione
determinanti per la formazione di un’etica del dovere costruita
attraverso una filosofia pratica soggettiva. Per il filosofo il
confronto con i pensatori morali del suo tempo ha rappresentato
una palestra nella quale ha potuto mettere alla prova i suoi
concetti morali. Un periodo nel quale matura un razionalismo
etico scevro quasi del tutto di elementi antropologici, anche se
non ancora sistematizzato.
Parte I: scritti precritici e fondazionali
8 Come osserva KUEHN in The moral dimension of Kant’s inaugural dissertation: a new prospective on the great light of 1769?, in Procedings of the English international Kant-congress, ed. by H. Robinson, Milwaukee 1995, vol. I, pp.372-92; cf. M. KUEHN, Kant, a biography, ed. Cambridge University Press, Cambridge 2001, p. 183, cit. in S. Bacin, Il senso dell’etica, ed. Il Mulino, Napoli 2006, pp. 1-14; secondo Kuehn per Kant non vi era opposizione completa tra le teorie della scuola wolffiana e della linea scozzese/inglese. Anzi, negli anni ’60 il suo intento principale era quello di combinarle in una teoria nuova.
8
Gli anni ’60
1. Principi formali e materiali : l’Indagine (1763)
Tralasciando i due scritti nei quali Kant accenna per la prima
volta a questioni di filosofia morale9, la prima trattazione degna
di nota sull’etica risale al periodo che va dal 1762 al 1764, anni
nei quali ritroviamo non solo gli appunti di Herder alle lezioni di
Kant sulla filosofia pratica, ma soprattutto l’importante saggio
Indagine sulla distinzione dei principi della teologia naturale e
della morale pubblicato nel 1764. Nella meditazione IV di
questo testo si affacciano, per la prima volta, in un’esposizione
non sufficientemente articolata a causa dei tempi di consegna
per il concorso dell’Accademia delle Scienze di Berlino, due
concetti morali fondamentali dell’etica kantiana:
l’obbligazione10 e il sentimento morale.
Per quanto riguarda il primo concetto qui Kant, dopo la debita
distinzione fatta nei capitoli precedenti tra metodo matematico-
sintetico e filosofico-analitico11, afferma che l’obbligazione è
quel principio che dice che «si deve fare questa o quella cosa ed
ometterne un’altra». Da qui la famosa distinzione tra necessitas
problematica e necessitas legalis, ovvero il dovere di un’azione
come mezzo o come fine (distinzione centrale nella Fondazione
della Metafisica dei Costumi per l’introduzione degli
imperativi). Solo la necessitas legalis vale come norma dato che
mi impone di fare immediatamente qualcosa senza che alcun
mezzo abbia necessità alcuna. La necessità dei fini impone
l’azione come immediatamente necessaria, non già come
9 Storia Generale della natura e teorie del cielo e Nuova illustrazione dei principi della conoscenza metafisica, entrambi pubblicati nel 1755. Questi scritti non vanno oltre meri accenni all’etica. Per esempio, nello scritto per l’abilitazione Nuova illustrazione, Kant affronta principalmente argomenti logici e gnoseologici, limitandosi verso la fine del testo ad un breve excursus sul problema dell’azione libera e indeterminata (Scritti precritici, ed. Laterza, Bari 2000, sez. II, Addizioni al problema nono, pp. 35-37). 10 Normatività nel testo.11 Secondo il filosofo le matematiche procedono per “collegamenti arbitrari” (cit. p.219) di concetti considerati come dati “secondo la [loro] rappresentazione chiara e comune” (cit. p. 221); la metafisica invece parte da concetti che “derivano il loro significato dall’uso corrente” (cit. p. 228). Il metodo matematico parte dalle definizioni, la metafisica necessariamente no, dovendo chiarire preliminarmente l’uso adatto e il significato specifico di ogni concetto.
9
condizionata da un certo fine e quindi mediata da un mezzo. Da
qui Kant, ereditando la formula wolffiana12, pone il principio
formale del dovere: fa la cosa più perfetta che sia possibile per
tuo mezzo, ometti di fare ciò che per tuo mezzo è
d’impedimento alla massima perfezione possibile13. Ma per il
filosofo questo principio non è sufficiente, risulta vuoto, non
può spingere il soggetto ad agire moralmente (non a caso lo
chiama principio formale), a meno che accanto ad esso non si
ponga un principio materiale nel quale l’uomo, anziché
rappresentarsi solamente il bene, possa sentirlo. Ed è proprio il
sentimento morale il principio materiale che nel testo viene
subito dopo definito come «quella facoltà di sentire il Bene»
(p.245). La funzione materiale del sentimento morale permette a
Kant di distinguere questo sentimento da quello prettamente
estetico14.
La filosofia pratica deve essere indipendente tanto da una
fondazione teoretico-intellettuale di scuola wolffiana, quanto da
una empirica di scuola scozzese, rispecchiando invece due
esigenze: l’una descrittiva dove non basta dire “fa ciò che è in
tuo dovere” o “fa la cosa più perfetta” ma come agire
moralmente; l’altra normativa dove l’agire morale è sentito
come un dovere che viene posto necessariamente, ovvero
avvertito come un comando soggettivo.
Per Kant quindi la volontà, considerata come libera, viene spinta
dalla perfezione e dal bene, quest’ultimo sinonimo, in questo
caso, del fine. Ma si tratta di due principi, l’uno formale e l’altro
materiale, senza mediazione alcuna. Il principio formale di
perfezione è privo di contenuto e il principio materiale del bene
è del tutto indimostrabile, ovvero non ulteriormente riducibile.
L’assenza di mediazione tra questi due principi si riflette in
12 C. WOLFF, Etica Tedesca, § 12: «Fa quello che rende te e il tuo stato, o quello degli altri, più perfetto; tralascia quello che rende questo stato meno perfetto».13 cit. I. KANT, Scritti precritici, p.245.14 Così in I. KANT, Annotazioni alle osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, ed. Guida, Napoli 2002, a cura di M. T. Catena: «Nei principi metafisici dell’estetica è possibile riscontrare il sentimento a-morale nella sua diversità; e nei principi della filosofia morale, il diverso sentimento morale degli uomini secondo la diversità di sesso, età, educazione, governi, razze e climi».
10
un’incertezza di fondo nel testo dell’Indagine, riassunta da Kant
verso la fine quando afferma che «i concetti fondamentali
supremi della normatività devono ancora esser determinati con
maggior sicurezza» (cit. p.246).
Obbligazione e sentimento morale, nel significato che ne dà
Kant, sono due termini risalenti a due correnti di pensiero in
voga in quel periodo. Il primo appartiene alla cosiddetta
Schulphilosophie ed ha in Alexander Gottlieb Baumgarten15 il
suo massimo rappresentante. Per Baumgarten l’obbligazione è
ciò che rende una determinazione libera moralmente necessaria
e moralmente impossibile il suo contrario16 - come si può notare,
si tratta di una formula non dissimile da quella kantiana secondo
cui l’obbligazione è ciò in base al quale “si deve fare una cosa
ed ometterne un’altra”. Il sentimento morale così come viene
presentato da Kant risale invece all’uso che ne fa la filosofia
morale di stampo scozzese, in particolare in Francis Hutcheson,
dove il sentimento viene riconosciuto come una sensibilità
connaturata al soggetto agente, legato al «piacere immediato che
si prova per delle azioni libere»17.
Nonostante l’incertezza di fondo del testo e l’esposizione non
esauriente, da questa prima lettura dell’Indagine possiamo trarre
due importanti conclusioni. In primo luogo che la morale
kantiana, pur essendo in una fase inaugurale, ha già un’identità
specifica, un taglio concettuale e un’impostazione che non
subirà modifiche sostanziali: un’etica del dovere, della norma18,
con l’obbligazione come concetto fondante. In secondo luogo
che un’etica così concepita è incompleta, ha ancora molta strada
da fare sotto l’aspetto teorico. Poiché il fine o il bene non sono
15 In A. G. BAUMGARTEN, Initia philosophiae praticae primae e in Ethica philosophica.16 cit. S. BACIN, Il senso dell’etica, Kant e la costruzione di una teoria morale, cit., p.15.17 Appunti di Herder alle lezioni di filosofia pratica di Kant, cit. da S.BACIN, ibidem.18 Seguo qui la classica distinzione kantiana tra etica antica “della vita buona” ed etica moderna del “dovere”. Come scrive C. Schwaiger in La Filosofia Pratica tra metafisica e antropologia nell’età di Wolff e Vico, Alfredo Guida Editore, Napoli 1999, a cura di G. Cacciatore, V. Gessa-Kurotschke, H. Poser, M. Sanna: «Ernst Tugendhat ha una volta sintetizzato la fondamentale svolta della ‘via antiqua’ alla ‘via moderna’ con questa incisiva formulazione: “La problematica dell’etica antica era: cosa voglio davvero per me; quella dell’etica moderna è: cosa devo fare in rapporto agli altri”». All’etica antica corrisponde un etica del desiderio, in quella moderna un etica del dovere.
11
contenuti nella regola della perfezione – perché, secondo Kant,
dice sostanzialmente che l’agire morale è agire moralmente - è
necessario porre accanto a questo principio formale un principio
materiale che mi avverta che sto agendo moralmente. Questo
principio è il sentimento morale, a sua volta indimostrabile
perché immediatamente sentito.
La quarta meditazione mette in scena due termini molto diversi
tra loro che si rifanno a un’idea di filosofia pratica fondata su
presupposti differenti. Quella di scuola appartiene alle
cosiddette etiche intellettualistiche e Kant ne eredita
l’impostazione partendo dai manuali di Baumgarten. Quella
cosiddetta “scozzese” che, invece, segue le esigenze di una
Popularphilosophie da cui il filosofo prende spunto a partire
dalle riflessioni di Hutcheson.
Secondo Kant, la causa principale «riguardo i difetti della
filosofia pratica» (cit. p.246) risiede proprio nell’incompletezza
di queste due influenti teorie etiche. A Baumgarten Kant
imputava l’astrattezza di un concetto – l’obbligazione – che
sembrava quasi essere indifferente a un soggetto come referente,
a Hutcheson un sentimento morale “egoistico”19. Egli sa bene
che la soluzione non sta nell’unione di due filosofie così diverse,
né in medias res. Tutt’al più entrambe riflettono per Kant una
doppia esigenza nella costruzione di una teoria etica: teorico-
sistematica nei tedeschi e teleologica negli scozzesi. Per Kant
l’obbligazione, per quanto sia un concetto chiaro, non è stato
ancora inquadrato in un’elaborazione teorica sufficiente, e il
sentimento gode al momento solo di “belle osservazioni” di
natura antropologica. Resta il problema di come mediare questi
due concetti da cui derivano la forma e la materia dei principi
morali. In realtà vedremo come Kant non seguirà la strada della
mediazione. Definirà meglio cos’è il sentimento morale,
19 Su questa critica la riflessione di S. BACIN nel Senso dell’etica rende giustizia alle teorie di Hutcheson. In realtà, osserva Bacin, la critica di Kant al filosofo scozzese non è fondata poiché quest’ultimo ha sempre contestato chiaramente la riduzione dei moventi dell’azione all’interesse privato. Secondo Bacin la giustificazione a questo fraintendimento da parte di Kant, visto che è molto probabile che avesse letto i testi di Hutcheson, risiede nel suo impegno a costruire una teoria morale che non si fondi su impulsi non morali, ovvero da un lato sul mero sentimento senza un supporto razionale e, dall’altro, su un dovere astratto a cui manca una motivazione materiale.
12
emancipandolo sempre più dall’antropologia, ma la strada che
seguirà lo porterà verso una concezione del dovere che valga
esso stesso come principio materiale.
2. Le Osservazioni : il nuovo ruolo del sentimento morale
(1764)
La seconda sezione delle Osservazioni sul sentimento del bello e
del sublime20 contiene una nuova caratterizzazione del
20 L’edizione di riferimento per questo testo sarà I. KANT, Scritti precritici, cit.
13
sentimento morale, determinante in vista degli scritti
fondazionali e nella formulazione del secondo imperativo
categorico.
Nel carattere morale dell’uomo Kant vede il bello nelle “buone
qualità morali” (p.301) e il sublime nella virtù. Ora è proprio il
discorso sulla “vera virtù” (p.303) a dare al sentimento morale
una svolta decisiva:
«La vera virtù […] può essere inculcata solo in base
a principi i quali, quanto più sono generali, tanto più
la rendono sublime e nobile. Tali principi non sono
regole speculative, ma consistono nella
consapevolezza di un sentimento che abita in ogni
cuore umano […]. Credo di riassumere tutto quanto,
se dico che si tratta del sentimento della bellezza e
dignità della natura umana»21.
Quel “sentimento del bene non riducibile ad altro”22 che si trova
nell’Indagine è ora diventato una qualità specifica: non è
soltanto semplice, ma universale. In questo modo il fondamento
materiale dell’obbligazione riceve una nuova determinazione,
nella direzione che troverà una felice espressione nella seconda
formula dell’imperativo categorico: l’uomo quale fine in se
stesso23.
Si tratta di una piccola “svolta” che coinvolge non solo il
sentimento ma il metodo dell’indagine filosofica, in direzione di
una filosofia pratica soggettiva24. L’etica baumgartiana -
fondamentale nella formulazione del principio di obbligazione
su cui si basa l’agire morale kantiano – lasciava poco spazio al
soggetto. Anzi, era prettamente oggettiva25. Il «moralmente 21 cit. I. KANT, Scritti precritici, ibid., p. 303.22 cit. Indagine sulla distinzione dei principi della teologia naturale e della morale, in Scritti precritici, cit., p.245.23 Così nella Fondazione della Metafisica dei Costumi, ed. Laterza, Bari 2009, p. 91: «agisci in modo da trattare l’umanità, così nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre insieme come fine, mai semplicemente come mezzo».24 Per l’approfondimento di questo termine, rimando al testo di S.BACIN, ibidem, pp.51-66.25 Cf. BAUMGARTEN, Inizia, § 36: «moralitas actionibus tribuitur, vel quatenus spectantur, ut per se bonae malaeve, obiectiva (…) vel quatenus bonae malaeve sunt, propter arbitrium alicuius liberum, subiectiva».
14
possibile» di Baumgarten26, in cui l’obbligazione esercita il suo
comando, va distinto per Kant in un senso oggettivo - ciò che è
lecito - e in un senso soggettivo - ciò che rientra nella facoltà
pratica degli esseri che agiscono27. Il limite di Baumgarten, e in
generale nella filosofia di scuola tedesca, era quello di
mantenersi all’interno di una dimensione oggettiva, con il
risultato di avere a che fare solo con principi formali astratti.
L’integrazione dell’impostazione di scuola con le letture di
Hutcheson e dei filosofi inglesi (Hume e Locke) permettono a
Kant di fare un passo oltre le tautologie del razionalismo etico
tedesco, concretizzando la teoria morale in forza di una
scomposizione del sentimento28: non ci si domanda più perché
gli uomini agiscono moralmente, ma quali sono le ragioni, le
appetizioni che spingono il soggetto ad agire in forza dei propri
motivi. Il sentimento in Kant ha una concezione ubiqua: da un
lato è legato alla sensibilità che ci porta a distinguere piacere e
dispiacere, dall’altro questa stessa distinzione porta a
determinarsi liberamente per il bene e per il male. Come
chiarirà ulteriormente Kant nelle Annotazioni alle osservazioni:
«Il sentimento di piacere o dispiacere può riguardare
o ciò rispetto a cui siamo passivi, o noi stessi,
considerati come un principio attivo in base alla
libertà del bene o del male. Quest’ultimo è il
sentimento morale»29.
Il sentimento morale non va confuso, quindi, con gli altri
sentimenti perché è tale che dà origine a principi che, in quanto
tali, sono universali. Il nuovo ruolo del sentimento nella
moralità rispecchia l’esigenza di un’indagine che tenga ben
presente la distinzione tra ciò che è soggettivo – la realtà
26 Così come citato da S.BACIN, ibid., p. 54, cf. BAUMGARTEN, Inizia (§ 10).27 Così in S. BACIN, ibid., p.54. Il testo di riferimento in cui Kant parla del moralmente possibile sono le lezioni di metafisica contenute negli appunti di Herder, Metaphysik Herder.28 Così in S.BACIN, ibid., p.55. 29 cit. I. KANT, Annotazioni alle osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, ed. Guida, Napoli 2002, a cura di M. T. Catena, p. 164.
15
dell’oggetto nella conoscenza che se ne ha - e ciò che è
oggettivo – le proprietà della cosa -, tra metodo analitico e
sintetico, filosofico e matematico.
3. Le Annotazioni alle Osservazioni : Socrate, Rousseau e la
filosofia analitica
Prima di analizzare le novità contenute nelle Annotazioni alle
Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, sarebbe
utile affrontare, in via preliminare, due argomenti largamente
dibattuti: la concezione della filosofia che Kant matura nel corso
della prima metà degli anni ’60 e il rapporto tra il filosofo di
Königsberg e Jean-Jacques Rousseau.
16
L’importanza e l’ammirazione che Kant nutre per il filosofo
francese è innegabile. Basti tener conto delle stesse Annotazioni
quando afferma:
«la prima impressione che un lettore competente
[…] riceve dagli scritti di J.J.Rousseau, è che costui
sia uno scrittore dotato di una straordinaria
perspicacia di spirito»30.
Famosa è la nota dei biografi di Kant che raccontano di come il
filosofo tedesco fu talmente preso dalla lettura dell’Emile e del
Contrat Social da portarlo a rinunciare all’usuale passeggiata
pomeridiana.
Più spinosa è invece la questione a proposito dell’influsso che il
filosofo francese ebbe sul filosofo tedesco. Anche qui, come
nella storia dell’interpretazione dell’etica kantiana, verso la fine
degli anni ’50 del secolo scorso l’influsso del moralismo
rousseauiano su Kant è stato ridimensionato. Prima di questo
periodo si riteneva che nella formulazione dei primi principi
etici kantiani la figura di Rousseau, attraverso il suo pensiero
politico e i personaggi dei suoi romanzi, fosse determinante.
Con il lavoro di Schmucker invece avviene il cambio di
prospettiva quando quest’ultimo conclude che “ai grandi
rappresentanti dell’Illuminismo tedesco, Wolff e Crusius, va
attribuita un’importanza essenzialmente maggiore per lo
sviluppo dell’etica kantiana di quanto abitualmente non si faccia
e, viceversa, l’influsso dei moralisti britannici, e in un certo
senso anche di Rousseau, è stato corrispondentemente esagerato
dalla maggior parte degli interpreti”31. D’altronde è lo stesso
Kant, in un’annotazione molto nota32, a sottolineare la differenza
30 Cit. I. KANT, Annotazioni alle osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, ed. Guida, Napoli 2002, a cura di M. T. Catena, p. 63.31 J. Schmucker, Die Ursprunge der Ethik Kants, 21 s., così come tradotto nel testo di G.B. Sala, Immanuel Kant, Critica della Ragion Pratica. Un commento, cit., pp. 29-30.32 «Rousseau. Procede sinteticamente e comincia dall’uomo allo stato di natura; io procedo analiticamente e comincio dall’uomo costumato», cit. I. KANT, Annotazioni alle osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, ed. Guida, Napoli 2002, a cura di M. T. Catena.
17
tra sé e il filosofo di Ginevra. Da Rousseau Kant riceve un forte
impulso alla ricerca morale partendo da elementi concreti, anti-
intellettuali, senza “esperimenti mentali” di sorta. Una spinta a
una riflessione etica non puramente epistemologica ma a partire
dal “vivente”. Come sintetizza degnamente Cassirer33, Kant non
prende concetti e argomenti da Rousseau ma un “movimento del
pensiero”.
La differenza sostanziale tra i due autori la troviamo
nell’impostazione metodologica della ricerca morale. Se
entrambi partono dall’uomo, per Kant si tratta dell’uomo
civilizzato e il problema morale rientra nell’ottica di ciò che
contrasta con quanto è effettivamente presente in natura, mentre
Rousseau parte dall’uomo allo stato di natura e la riflessione
morale prende una piega genealogica34. Proprio la preferenza in
ambito morale dell’uomo civilizzato rispetto all’uomo allo stato
di natura35 rispecchia quella che è una delle caratteristiche della
morale kantiana: l’universalità. L’uomo allo stato di natura è un
uomo solo, soffre di solipsismo morale36, quello civilizzato è
non solo reale ma si presenta in quanto tale in relazione agli altri
uomini. Tutta l’autenticità della coerenza della volontà con se
stessa – la volontà pura, quella che nel contraddire se stessa
contraddice la volontà di tutti - si ritrova in questa
considerazione “civica” dell’uomo.
Questa differenza di metodo viene maturata da Kant proprio
intorno alla prima metà degli anni ’60 del XVIII secolo, quando
inizia a concepire un metodo filosofico sempre più lontano da
elementi antropologico-empirici e più vicino a una concezione
33 «Secondo Cassirer, la peculiarità del pensiero di Rousseau fu quella di non costituire una “salda e compiuta dottrina”, bensì “un movimento sempre rinnovatesi del pensiero”» cit. S. BACIN, Il senso dell’etica, Kant e la costruzione di una teoria morale, cit. da E. Cassirer, Rousseau, Kant, Goethe, ed. Donzelli, Roma 1999, a cura di G. Raio.34 Su questa interpretazione S. BACIN, Il senso dell’etica, ibid., p.35.35 Così nelle Annotazioni, ibid., p. 35: «Si distingua accuratamente tra un uomo buono per natura e uno buono secondo la morale. Il primo non ha bisogno di domare gli istinti mal orientati perché i suoi sono naturali e buoni […]. Il secondo è 1. solo un uomo costumato e 2. dotato di morale. Nel primo caso, l’uomo ha molte gioie fantastiche alle quali, per restare buono, oppone un’idea che non può mai diventare intuitiva. Il secondo è un uomo morale che, portando la sua moralità al di là dello stato di natura, l’estende fino all’oggetto del suo desiderio e della sua fede».36 «La disposizione ad agire in base a una volontà singola è solipsismo morale; quella ad agire in base a una volontà generale è giustizia morale». Cit. I. KANT, Annotazioni, ibid., p. 164.
18
razionale e “socratica”. Scrive il filosofo in una lettera a
Lambert datata 1765:
«Per diversi anni ho rivolto le mie riflessioni
filosofiche in tutte le direzioni immaginabili e, dopo
aver mutato molte volte opinione, cercando sempre
le fonti dell’errore e della corretta intelligenza del
modo di procedere, sono finalmente giunto al punto
di considerarmi sicuro del metodo che si deve
osservare, qualora ci si voglia sottrarre a
quell’illusione di sapere la quale fa sì che ad ogni
momento si creda di essere giunti alla soluzione»37.
Ritroviamo qui tutta la terminologia dei dialoghi socratici:
l’opinione, l’errore, l’illusione di sapere. E’ il metodo
dell’analisi – opposto al metodo sintetico di Rousseau – e
dell’attenzione38. Alla deduzione astratta di un uomo impossibile
da trovare quale è quello allo stato di natura, Kant predilige
l’indagine dei concetti morali così come gli uomini in quanto
tali li possiedono. Una concezione maieutica della riflessione
filosofica – a cominciare dalla distinzione tra metodo
matematico e filosofico che ritroviamo nell’Indagine - che non
poteva non avere ripercussioni sulla concezione della morale. La
figura di Socrate richiama l’esigenza di un’indagine e di una
teoria dell’agire senza elementi sovrannaturali. In questo modo
si rende possibile la concezione di una riflessione morale che si
basa sulla coscienza comune senza per questo essere mera
antropologia39. L’antropologia morale non è sufficiente a
37 I. KANT, Epistolario filosofico 1761-1800, tr. it. di O. Meo, ed. Il Melangolo, Genova 1990, Briefwechsel, 41. Un altro esempio di riflessione “socratica” la ritroviamo nelle Annotazioni, ibid., p. 55: «Non posso rendere nessuno migliore se non attraverso quel poco di bene che è in lui; non voglio rendere nessuno più assennato se non sfruttando quel resto di intelligenza che è in lui». Ancora a p. 50: «Non posso mai convincere un altro uomo se non attraverso i suoi stessi pensieri». C’è però da sottolineare come entrambe le riflessioni siano attinenti alla concezione kantiana della natura morale dell’uomo più che all’arte maieutica. Infatti le due riflessioni seguono idealmente l’affermazione precedente a p. 45: «La differenza tra una morale falsa e una sana è che la prima cerca soltanto rimedi contro il male, mentre la seconda provvede a che non ci siano affatto cause del male». 38 Termine adoperato da M. T. Catena nell’introduzione alle Annotazioni, ibid., p. 15. 39 Per l’approfondimento dell’approccio “socratico” di Kant si veda S. BACIN, ibid., pp. 39-42, 94-96.
19
fondare una teoria dell’azione che sia insieme universale e
necessaria. Certo, considera l’agire all’interno di una
dimensione soggettiva, ma rinuncia a ogni normatività. Ciò che
emerge dalle considerazioni sparse delle Annotazioni è una
filosofia analitica e pragmatica insieme, nel suo doppio compito
di un’analisi delle passioni e delle “rappresentazioni oscure”
dell’umano e di individuazione di una regola, di una norma cui
conformare ciò che si è osservato.
L’emancipazione della teoria morale di Kant dall’antropologia,
ma soprattutto dall’estetica, inizia in queste pagine. Un
cammino che non si concluderà mai, in coerenza con la sua
stessa concezione della filosofia che non parte dalle definizioni
ma distingue i concetti senza mai contrapporli.
L’esigenza di emancipare la morale da una fondazione
antropologica ci porta alle novità contenute nelle Annotazioni. In
questo testo le considerazioni più importanti in ambito morale le
troviamo nella parte iniziale - già analizzata in precedenza a
proposito del rapporto con Rousseau e dell’approccio socratico,
note incluse - e nella parte finale. Qui, nella parte conclusiva, vi
è una nuova caratterizzazione della volontà. Essa non è più
fondata sul doppio registro materiale-formale che abbiamo visto
contenuto nel concetto di obbligazione così come presentato
nell’Indagine, ma è in sé essa stessa sufficiente a sostenere la
propria necessità. Scrive Kant:
«Un’azione, osservata secondo la volontà generale
degli uomini è, dal punto di vista esterno,
moralmente impossibile (illecita) se si contraddice in
se stessa»40.
E più avanti:
40 cit. I. KANT, Annotazioni alle osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, ibid., pp.179.
20
«Infatti, fintanto che qualcosa dipende interamente
dalla volontà di qualcuno, allora sarà impossibile
che egli stesso si contraddica (oggettivamente) […].
La volontà degli uomini invece si contraddirebbe se
essi volessero ciò che, secondo la volontà generale,
aborriscono. In caso di conflitto, la volontà generale
prevale sulla volontà del singolo»41.
Il sostegno materiale del sentimento morale non c’è più, è
sufficiente la coerenza della volontà con se stessa42. Il
sentimento morale ha sempre l’importante ruolo di suscitare
piacere o dispiacere per ciò che si fa, ma non funge più da
principio materiale dell’azione. Se la volontà privata è in
accordo, o meglio è essa stessa un tutt’uno con la volontà
comune, allora è buona.
«La bontà oggettiva di un’azione libera […] o, detto
in altri termini, la sua necessità oggettiva, può essere
sia condizionata sia categorica. La prima è la bontà
di un’azione come mezzo, la seconda, come fine
[…]. Una buona azione libera condizionata non è
pertanto categoricamente necessaria: ad esempio, la
mia generosità è utile ad altri bisognosi, si deve
quindi essere generosi. Per niente. Ma se qualcuno
vuole essere utile agli altri, allora, che sia generoso!
Se invece l’azione nata da una generosità sincera, è
non solamente utile agli altri, ma buona in sé, allora
è un dovere»43.
Qui è contenuta tutta la forza del razionalismo kantiano.
L’antropologia non può da sola valutare la bontà di un’azione
basata com’è sull’osservazione empirica: mi accorgo che “la
41 cit. I. KANT, ibid., p. 179-180.42 Così come la definisce GIOVANNI B. SALA in Immanuel Kant, Critica della Ragion Pratica. Un commento, cit., p. 49. 43 cit. I. KANT, Annotazioni alle osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, ibid., p. 167-168.
21
mia generosità è utile agli altri, quindi sono generoso”; semmai
è il contrario, è la stessa volontà a determinare l’agire pratico: se
voglio “essere utile agli altri, allora, che sia generoso!”44.
Queste annotazioni finali, oltre a segnalare l’influsso di
Rousseau nella terminologia (vedi “volontà generale”) e
l’origine della prima formulazione dell’imperativo categorico45,
segnano un’importante passo in avanti della teoria etica:
l’universalizzabilità delle nostre azioni in base al principio
formale e insieme materiale della volontà.
4. I Sogni di un visionario : il formalismo dell’etica e il
sentimento morale come riflesso (1766)
Sebbene questo scritto si occupi quasi per intero della
“visionaria” questione sulla presunta comunione della nostra
anima con il mondo immateriale degli spiriti, nondimeno sono
presenti importanti osservazioni che rafforzano e pongono in
maniera estremamente chiara i concetti di obbligazione e
sentimento morale. Questo testo potrebbe essere considerato
come una sorta di preambolo all’impostazione critica46 della
44 cfr., ibid., p. 167-168.45 «Agisci soltanto secondo quella massima per mezzo della quale puoi insieme volere che essa divenga una legge universale». Cit. I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, ed. Laterza, Bari 2009, p. 75.46 «La metafisica […] dà due vantaggi. Il primo è questo: soddisfare i compiti proposti dall’animo desioso di sapere, scrutando con la ragione le proprietà più recondite delle cose […]. L’altro vantaggio è più conforme alla natura dell’intelletto umano e consiste in ciò: conoscere se il compito è anche determinato per ciò che si può sapere, e qual
22
filosofia kantiana che troverà non a caso quattro anni dopo il suo
manifesto nella Dissertazione.
E’ curioso il modo in cui procede il testo. L’argomento, il
credere o non credere al mondo immateriale degli spiriti, è
alquanto poco “filosofico”. Dissertare su tali questioni è
rischioso, a maggior ragione se a farlo è un amante della
saggezza. Chi tra questi, si domanda Kant, non ha mai «pur una
volta fatto la più ingenua figura che si possa mai
immaginare?»47. Kant, giudicando in fallo la classica
impostazione “accademica”48, sembra quasi sfruttare tale tema
da trampolino di lancio per importanti considerazioni di natura
morale. Nel secondo capitolo del testo troviamo, condensate in
tre pagine, quello che ci interessa.
Tra le forze che muovono il cuore umano, scrive Kant49, ce ne
sono alcune che non si riferiscono, come mezzi, all’interesse
personale, come un fine interno dell’uomo, ma pongono il loro
moto fuori di noi. Cosicché sorge un conflitto tra vantaggio
proprio e vantaggio comune. Questa tendenza fondamentale
dell’uomo si manifesta nell’ambito della conoscenza
nell’esigenza di conformare il nostro giudizio a quello altrui.
Ancor più importante e “plausibile” però, secondo il filosofo
tedesco, è osservare questa tendenza nella volontà, dove una
potenza segreta ci spinge a indirizzare la nostra intenzione al
benessere altrui.
«Non è adunque soltanto in noi il punto in cui
concorrono le linee direttive dei nostri impulsi, ma
vi sono anche, fuori di noi, nell’altrui volere, forze
che muovono noi. Da ciò nascono gli stimoli morali
che spesso ci trascinano contro quanto richiede
rapporto ha la quistione con i concetti dell’esperienza, sui quali devono sempre poggiare tutti i nostri giudizi. In quanto la metafisica è scienza dei limiti della ragione umana». Cit. I. KANT, Scritti precritici, cit., p. 399.47 cit. I. KANT, ibid., p. 349.48 «Siccome il non credere, senza ragione, nulla del molto che vien raccontato con una qualche apparenza di verità, è un pregiudizio altrettanto sciocco quanto il creder, senza esame, tutto ciò che la voce comune dice, così l’autore di questo scritto, per evitare il primo pregiudizio, si lasciò trascinare dalla parte del secondo». Cit. I.KANT, ibid., p. 350.49 I. KANT, ibid., p.365.
23
l’interesse personale in modo che manifestano la
loro realtà la forte legge del dovere»50.
E’, come dirà qualche rigo dopo, la “regola del volere
universale”. L’”unità morale” delle nature pensanti viene qui
considerata a tutti gli effetti, per la prima volta, come una legge:
la volontà è una forza normativa determinata dalla dipendenza
della volontà privata da quella comune, che diventa così volontà
universale. Il fatto che Kant più avanti respinga l’ipotesi
secondo cui questa volontà universale è l’effetto dell’unità delle
anime degli uomini o delle sostanze spirituali51, non fa che
rafforzare razionalmente piuttosto che indebolire la regola del
volere universale. Ciò che è contenuto nelle annotazioni finali
delle Osservazioni52 a proposito della volontà riceve qui la sua
più sintetica espressione. Eliminando ogni residuo metafisico
(sinonimo in questo caso di “visionario” e “soprannaturale”)
quello che resta è l’autentica dimensione razionale, o meglio
formale, della volontà: la legge morale quale legge della volontà
universale. L’etica approda così a tutti gli effetti nel formalismo.
Che fine ha fatto il sentimento morale? Se la legge morale è,
ridondantemente, secondo la forma la volontà universale e
secondo la materia l’accordo della volontà con se stessa – in
pratica si parla della stessa cosa – sembra che il sentimento di
piacere e dispiacere non abbia peso nel valorizzare l’azione.
Eppure le cose non stanno così. Anzi, qui il sentimento morale
riceve una sistemazione tale che, per quanto sia sempre stata
ritenuta problematica dallo stesso filosofo all’interno
dell’impianto sistematico e formale dell’etica, non subirà più
altre modifiche sostanziali. Subito dopo aver esposto la regola
del volere universale, infatti, il filosofo afferma:
50 cit. I. KANT, ibid., p. 366. 51 Quando Kant conclude il capitolo secondo citando il cocchiere di Tycho Brahe: «Buon signore, voi vi intenderete certo del cielo, ma qui, sulla terra, voi siete un pazzo». Cit. I. KANT, ibid., p. 373. 52 Rimando al mio testo, pp.15-17.
24
«Se questa costrizione del volere universale […] la
si vuol chiamare sentimento morale, si parla di essa
soltanto come fenomeno di ciò che in noi avviene,
senza stabilirne le cause […]. Non dovrebbe esser
possibile rappresentarsi tal fenomeno in modo che il
sentimento morale sia questo sentir la dipendenza
del volere singolo dal volere universale?»53.
Le novità sono due. In primo luogo che il sentimento morale è la
manifestazione di qualcosa, ovvero un fenomeno, non più un
principio. In secondo luogo che questo fenomeno è una sorta di
riflesso della volontà. Inoltre, essendo il sentimento qui in gioco
legato ad un agire in conformità con la volontà di tutti gli altri
uomini, ed essendo la “singolarità propria in lotta con l’utilità
universale”, è chiaro che viene avvertito in primo luogo come
una costrizione. E quattro anni dopo in una Reflexion troviamo:
«La teoria del sentimento morale è più una ipotesi
per spiegare il fenomeno dell’approvazione che
accordiamo ad alcuni tipi di azioni, piuttosto che una
dottrina che debba stabilire massime e principi primi
che valgano oggettivamente su come si debba
apprezzare o respingere, fare o non fare qualcosa»54.
Il sentimento – o senso - morale non stabilisce più un principio
materiale dell’agire ma accompagna l’azione approvando ciò
che si è scelto di fare.
Seppur in poche pagine, all’interno di considerazioni dallo
scarso sapore speculativo e sistematico, questo testo ci presenta,
in un modo che potremmo dire definitivo, due concetti cardine
53 cit. I. KANT, ibid., p. 367.54 cit. Reflexion 6626, XIX 116-17; 1769-70. Le Reflexionen sono – com’è noto - appunti manoscritti compresi nei volumi XIV-XIX dell’edizione dell’Accademia delle Scienze di Berlino, Berlin-New York 1900. La citazione è stata presa in S. BACIN, Il senso dell’etica, cit., pp. 75-76.
25
della teoria etica kantiana, quello fondante dell’obbligazione e
quello più problematico del sentimento morale.
Dopo i Sogni di un visionario la riflessione etica di Kant ebbe il
suo secondo periodo di silenzio (dopo quello del 1759-1762)55
che, escludendo alcune pagine della Dissertazione, terminerà
circa dieci anni dopo. E non è un caso. In questo periodo il
filosofo inizia a considerare insufficiente una concezione
dell’etica che impiegasse la nozione di senso morale56. Non
soltanto perché il sentimento morale non garantisce
l’universalità delle nozioni di bene e male, ma soprattutto perché
manca di un’efficacia reale57. Non basta dire che le cognizioni
morali sono accessibili a tutti, ma anche come possano
consolidarsi. Questa nuova consapevolezza rispecchia l’esigenza
teorica di Kant – probabilmente sotto la spinta delle letture dei
romanzi di Rousseau – di non accontentarsi della tendenza
comune delle filosofie morali a lui contemporanee che
consideravano l’insegnamento morale come la coltivazione di
passioni buone che fungessero da contrappeso a quelle cattive58.
La via morale per le azioni buone è soggettivamente universale,
ma essa deve basarsi su principi che fungano da fine, non da
mezzo. Comincia a farsi strada, insomma, l’idea di un’etica
sotto lo sguardo della metafisica che lo porterà fino alla
Fondazione della metafisica dei costumi. Ma prima del 1785 c’è
un’altra data, spartiacque per la teoria della conoscenza: il 1770.
55 Così come riferisce S. BACIN, cit., p. 67.56 Sulle considerazioni di Kant sul ruolo del senso morale formulate in questo periodo mi rifaccio all’opera di S. BACIN, cit., pp.67-75.57 Cfr. S. BACIN, cit. p. 72. Qui Bacin cita gli appunti critici di Kant alle Lezioni di morale di Christian Fürchtegott Gellert in Anthr. Friedländer, XXV 629; cf. già in Anthr. Collins XXV 206; Anthr. Parow, XXV 406: «compiere ogni bene per bontà di cuore, e non in base a principi», dove la «bontà di cuore» è un «orientamento della volontà che deriva dall’istinto, e non da principi», priva di qualsiasi regola.58 Come afferma S. BACIN in ibidem, p. 73, tali erano le posizioni di Spinoza, Descartes, Hume e degli illuministi francesi.
26
Gli anni ’70
5. La Dissertazione : la filosofia pratica non si “rompe” (1770)
Con La forma e i principi del mondo sensibile e intelligibile59 si
inaugura la nuova impostazione critica della filosofia kantiana,
caratterizzata dalla revisione del concetto di rappresentazione.
Alla differenza graduale tra conoscenza sensibile e intellettuale
– la prima confusa, la seconda chiara - della dottrina liebniziano-
wolffiana Kant contrappone nel § 7 una distinzione “originaria”.
Confusi possono essere anche i concetti dell’intelletto e chiari
quelli sensibili, la differenza sta nel fatto che nel primo caso la
59 L’edizione di riferimento che adopererò sarà quella contenuta in I. KANT, Scritti precritici, cit., pp. 419-461.
27
conoscenza è intellettuale, al di fuori del campo dell’esperienza,
e l’oggetto con cui si ha a che fare è noumenico, nel secondo
caso invece, essendo la conoscenza legata all’esperienza, si ha a
che fare con apparenze, fenomeni. Alla base di tale distinzione
vi è un duplice uso dell’intelletto stesso: reale o logico60.
La considerazione che ci interessa la troviamo sempre nel § 7
quando Kant afferma che i concetti morali appartengono alla
conoscenza intellettuale, e quindi vengono «conosciuti non per
via di esperienze ma per opera del puro intelletto come tale»61.
Si tratta di un’affermazione capitale per lo sviluppo della teoria
morale ma, se teniamo presente l’analisi fatta in precedenza
nelle Annotazioni e nei Sogni di un visionario sul ruolo primario
assegnato al concetto di volontà, non si tratta di una novità.
La Dissertazione rappresenta il momento in cui Kant pone la
filosofia della conoscenza sotto una nuova luce. Lo stesso
filosofo, come ben si sa, riconosce a tal punto le novità
teoretiche contenute in questo scritto da richiedere all’editore
Tieftrunk nel 1797 di non includere le pubblicazioni precedenti
la Dissertazione nella raccolta dei propri scritti minori. La
Dissertazione è un nuovo inizio critico, ma si cade in errore se si
pensa che questa “rottura” coinvolga anche la filosofia pratica.
Certo, l’affermazione secondo cui i concetti morali sono concetti
puri dell’intelletto al di fuori dell’esperienza segna una
riconsiderazione profonda del ruolo del senso morale all’interno
dell’impianto teorico dell’etica, ma già le affermazioni degli
anni precedenti sulla regola della volontà universale e le
considerazioni sul sentimento come riflesso della perfezione
della volontà andavano in questa direzione. Mancava il carattere
specifico dell’oggetto della conoscenza morale – noumenico
60 I. KANT, ibid.: «La cognizione sensoriale ha dunque una materia […] ed una forma, per la quale le rappresentazioni sono dette sensitive, anche se questa forma sia trovata senza sensazione alcuna. Per quanto riguarda invece gli elementi intellettuali occorre innanzi tutto porre bene in rilievo che l’uso dell’intelletto […] è duplice: in forza del primo uso, che è l’USO REALE, vengono dati i concetti stessi sia delle cose che delle relazioni; in forza invece del secondo uso – che è l’uso LOGICO – i concetti dati – non importa donde – vengono solamente subordinati tra loro […] e vengono correlati tra loro secondo il principio di contraddizione» (p. 429). L’errore di Wolff, secondo Kant, consiste nel «fatto di ritenere meramente logico il discriminante tra fatti sensitivi e fatti intellettuali» finendo per abolire completamente «l’istituzione antica nobilissima di distinguere tra la natura specifica dei fenomeni e dei noumeni».61 I. KANT, ibid., p. 431.
28
appunto – ma la razionalizzazione dell’etica era già in atto da
tempo. Scrive Kant:
«Il fine dei concetti intellettuali è duplice: il primo è
quello elenctico […]. Il secondo fine è quello
dogmatico, per cui i princìpi generali dell’intelletto
puro […] danno luogo ad un modello, concepibile
unicamente mediante l’intelletto puro […], che è la
PERFEZIONE dei NOUMENI. Questa perfezione poi è
tale o in senso teoretico o in senso pratico. Nel
primo caso è l’ente sommo, DIO; nel secondo senso è
la PERFEZIONE MORALE. La filosofia morale
pertanto, in quanto fornisce i primi principi del
discernimento, non si conosce se non mediante il
puro intelletto e appartiene di per sé alla filosofia
pura»62.
Giunti a questo punto, l’evoluzione della teoria morale kantiana
potrebbe somigliare a una parabola: l’incompletezza delle teorie
morali del suo tempo spinge Kant a fondare inizialmente i
principi morali sul doppio registro formale/materiale,
coadiuvando le esigenze teoriche della Schulphilosophie tedesca
con quelle più efficaci della filosofia popolare britannica; infine,
insoddisfatto per il ruolo assegnato al senso morale
nell’impianto teorico, il filosofo “ritorna” ad una posizione
formale assegnando alla facoltà dell’intelletto il campo specifico
per la formulazione dei concetti morali. In realtà le cose non
stanno così. In primo luogo perché il suo punto di partenza non è
mai stato formale nel senso di intellettuale: Kant ha sempre
considerato fin dall’inizio incompleto e vuoto il concetto di
perfezione della volontà così come veniva presentato dalle
filosofie di scuola. In secondo luogo perché è l’intelletto stesso,
in questo caso la ragione, ad avere un compito specifico che lo
62 I. KANT, ibid., p. 432.
29
discosta da ogni deriva “intellettualistica”. In una tradizione
terminologica risalente almeno a Hobbes, la ragione viene intesa
come il nome di una facoltà di calcolo. Fredda, prudente, logica.
Il modo in cui Kant la intende invece è sensibilmente differente.
La ragione è naturalmente dotata di concetti puri, ma tali
concetti non sono inclusi all’interno di categorie esclusivamente
logiche, sono compresi in essi anche i criteri del bene e del
male. La facoltà della ragione non sceglie solo i mezzi più
idonei a conseguire un certo fine, calcolando i vantaggi e gli
svantaggi, ma valuta i criteri in base al quale scegliamo di agire
in un modo piuttosto che in un altro. Questi criteri non sono
chiari, altrimenti sarebbe sufficiente una loro deduzione sulla
base di un’inferenza logico-formale. Il passo iniziale di Kant fu
allora, nella prima metà degli anni ’60, di cercare una facoltà
sensibile in base alla quale la valutazione di un’azione potesse
avere una sua efficacia, formulando così inizialmente il concetto
di sentimento morale sulla base delle osservazioni formulate da
Hutcheson. Successivamente, con le note alle Osservazioni, gli
accenni dei Sogni di un visionario e la preliminare
sistematizzazione della Dissertazione, le qualità morali non sono
più concepite come determinazioni della sensibilità ma come
idee dell’intelletto o della ragione ancora oscure alla coscienza.
I principi morali devono avere carattere intellettuale, ma senza
risultare tautologici ed estrinseci come in Wolff e Baumgarten –
il primo con il concetto di perfezione, il secondo con quello di
obbligazione – né eccessivamente intrinseci ed empirici come si
ritrovano nelle dottrine sentimentalistiche britanniche. Qual è
allora il nucleo più caratteristico della morale che Kant
concepisce sul finire degli anni ’60? Esso sarà nel compito di
realizzare ciò che è buono sulla base del fatto che «la bontà di
ogni azione stia nell’azione stessa [corsivo mio]», ovvero «nel
compiacimento o nel dispiacere da parte della sola ragione
[corsivo mio] per un’azione libera»63. E’ l’uso corretto della
63 cit. Prakt. Phil Powalski, XXV 109-110, così come citato da S. BACIN, Il senso dell’etica, ibid., p. 85.
30
ragione a dare valore morale ad un’azione. Resta da capire quale
sia questo uso corretto. Più avanti Kant gli darà un nome
specifico – interesse – senza mai chiarirlo a sufficienza.
L’indagine morale ha carattere concettuale, ma al di fuori di
dimensioni estranee a quelle della prassi (volontà perfetta,
volontà di Dio, volontà fisiologica).
«La filosofia pratica non è pratica quanto alla forma,
bensì quanto all’oggetto, e tale oggetto sono le
azioni libere e il comportamento libero»64.
Si badi bene come in questi appunti ai corsi di Kant tenuti tra il
1777 e il 1781 le azioni sono considerate tali in quanto libere,
ovvero scelte sulla base di un corretto uso della ragione - che si
potrebbe a questo punto chiamare “ragione pratica” ma sarebbe
filologicamente scorretto. La teoria morale di Kant giunge così
ad un traguardo importante, sforzando di emanciparsi da una
dimensione puramente antropologica, mantenendosi però
all’interno di un soggetto morale che, eliminata la sensibilità,
non ricorra al calcolo astratto, a una norma esterna o alla volontà
divina.
Gli anni ‘80
6. La Fondazione della metafisica dei costumi : la teoria morale
verso una difficile sistematizzazione (1785)
Abbiamo visto come con la regola della volontà universale
l’obbligazione trova il suo principio “forte”, rendendosi
autonomo da ogni fisiologia delle sensazioni65 quale è quella che
si ritrova in una morale fondata sul sentimento. Questo significa
che, mantenendosi all’interno di un’indagine descrittiva e
soggettiva, la teoria morale kantiana parte dalla coscienza
64 cit. Moralphilosophie Collins, XXVII 243; Ethik Kaehler, così come citato da S. BACIN, ibid., p.86.65 Termine utilizzato da S. BACIN, Il senso dell’etica, cit., pp. 55-61, per descrivere l’impostazione “britannica” della filosofia morale.
31
morale comunemente intesa e la analizza nei suoi contenuti
strutturali anziché contingenti, allontanando la necessità di
fondare i suoi principi su base empirica.
Possiamo così stabilire dei punti di approdo della filosofia
morale di Kant:
1) La dottrina dell’obbligazione come regola del volere
universale.
2) La legge morale come la forma con la quale si esprime
l’universalità della massima. Non una regola pratica,
altrimenti fondata sulla semplice esperienza, ma un
fondamento a priori che ha il suo luogo di origine nella
ragione.
3) Il sentimento morale come riflesso della perfezione della
volontà e come costrizione di fronte al conflitto tra volontà
singola e volontà “generale”.
La Fondazione della metafisica dei costumi66 è sempre stata
considerata un’opera “improvvisa”. Basti pensare alla prima
sezione dove, senza premesse, viene stabilito il punto di
partenza dell’indagine: la volontà buona. Questa impressione è
dovuta al fatto che con quest’opera la filosofia morale di Kant
esce dai seminari universitari e si presenta al pubblico colto. Ma,
per chi ha seguito l’evoluzione del pensiero morale kantiano,
essa non è nient’altro che il risultato di un naturale percorso di
indagine che arrivato a questo punto è spinto da un’ulteriore
esigenza: quella sistematica.
«Ogni filosofia, in quanto poggi su fondamenti di
esperienza, si può chiamare empirica; quella, invece,
che tragga le sue dottrine esclusivamente da principî
a priori, si può chiamarla filosofia pura.
Quest’ultima, se è semplicemente formale, si chiama
66 L’edizione di riferimento di questo testo sarà I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, ed. Laterza, Bari 2009.
32
logica; se invece è limitata a certi oggetti
dell’intelletto, si chiama metafisica»67.
In questa distinzione, seguendo le conseguenze della
Dissertazione, Kant adopera un termine – metafisica - di uso
comune all’epoca ma in un significato ben preciso, decisamente
differente da come è stato adoperato nei Sogni di un visionario.
Il debutto dell’espressione ‘metafisica dei costumi’ così come lo
intende il filosofo la troviamo in una sua lettera a Lambert del 2
settembre 1770, in accompagnamento a una copia della
Dissertazione68. Per metafisica il filosofo non intende altro che
la filosofia pura, fondata su presupposti non empirici ma a
priori. Infatti, nella stessa prefazione della Fondazione, Kant
distingue tra metafisica della natura – che trova la sua
sistematizzazione nella Critica della Ragion Pura – e una
metafisica dei costumi, ovvero la filosofia morale vera e propria.
La Fondazione non è il momento sistematico vero e proprio
della filosofia morale kantiana - quello avverrà, si sa, con la
Critica della Ragion Pratica e ancor di più nella Metafisica dei
costumi - ma, come precisa lo stesso Kant nella prefazione
all’opera, è il momento in cui la ricerca morale, stabiliti i suoi
concetti primi, assume un taglio ben definito, quello verso «la
ricerca e la definizione del supremo principio della moralità»69.
L’emancipazione della teoria morale kantiana dall’antropologia
avviene definitivamente in queste pagine, ed è lo stesso Kant a
rendere esplicito questo momento. Come si legge nella
prefazione:
«Ognuno deve ammettere che una legge, quando sia
morale, ossia quando debba valere come fondamento
67 cit. I. KANT, ibid., p.5.68 Così come accennato da S. BACIN, Il senso dell’etica, ibid., p. 141.69 cit. I. KANT, ibid., p.13.
33
di una obbligazione, non possa non comportare
necessità assoluta; deve ammettere che il comando
‘tu non devi mentire’ non valga, ad esempio, solo
per gli uomini, ma che altri esseri razionali [corsivo
mio] non dovrebbero voltar loro le spalle di fronte
ad esso […]; deve ammettere che perciò il
fondamento dell’obbligazione qui non deve essere
cercato nella natura dell’uomo o nelle circostanze in
cui egli si trova nel mondo, bensì a priori in concetti
della ragione pura»70.
E qualche rigo dopo:
«Tutta la filosofia morale riposa interamente sulla
sua parte pura e, applicata all’uomo, non trae il
minimo elemento dalla conoscenza di quest’ultimo
(antropologia)».
Non è più l’uomo e le sua “natura” ad essere oggetto di indagine
morale ma la ragione, e non la sua ma quella di ogni essere
razionale. E’ chiaro che la filosofia morale si rivolge in
definitiva all’uomo, non ha altro scopo se non quello di definire
cosa sia l’agire morale per l’uomo. Ma stabilire come punto di
partenza non il soggetto come uomo ma tutti gli “esseri
razionali” permette a Kant di inserire l’agire all’interno di un
rapporto di necessitazione71, allontanando la teoria dalle
esigenze di scuola tedesca e britannica, rispettivamente
dall’obbligazione quale norma astratta ed estrinseca fondata
sulla perfezione, e dal sentimento morale quale principio
materiale empirico dell’azione. E’ l’alternativa alla filosofia
morale quale philosophia practica universalis, una delle
70 cit. I. KANT, ibid., p. 7.71 Come chiarirà più avanti lo stesso Kant: «[…] se non si vuole contestare alla moralità ogni verità […], non si può non mettere in dubbio che la sua legge abbia un significato tanto ampio da dover valere non solo per gli uomini, ma per ogni essere razionale in generale, non semplicemente sotto le condizioni contingenti e con eccezioni, ma in modo assolutamente necessario». cit. I. KANT, ibid., p. 47.
34
innovazioni più personali del maestro Wolff. Questa, come
spiega Kant72, non prende in esame la volontà pura, ma il volere
in generale, con la conseguenza di avere a che fare con una
dottrina pratica condotta però su basi psicologiche e
antropologiche.
Se l’indagine sulla struttura della ‘coscienza morale comune’
non si riconduce alla natura umana ma alla ragione - “sia la più
comune che quella speculativa nel più alto grado”73 – la quale
opera per rappresentazioni ancora ‘oscure’ alla coscienza, è
chiaro che gli strumenti da adoperare non possono essere quelli
dell’antropologia o della fisiologia ma solo quelli del pensiero.
La conseguenza è che l’unico strumento per una teoria morale
così concepita può essere solo quello che segue il modello della
logica. La novità dell’impostazione kantiana risiede così
nell’uso di strumenti logici nella filosofia morale. Ma in questo
modo non si approda proprio a quel metodo della filosofia
pratica universale con il suo concetto tautologico di perfezione?
Niente affatto, e per una ragione ben precisa. Kant distingue la
logica e la morale come due discipline separate. Proprio questa
distinzione – mai avvenuta nella Schulphilosophie – permette al
filosofo di determinare un’analogia tra la morale come
disciplina della volontà pura e la logica come disciplina in grado
di delineare un organo dell’uso della ragione. La logica pratica -
la disciplina morale che non si basa sulla distinzione suddetta - e
la filosofia pratica universale appiattiscono la morale sulla
logica e soffrono così dello stesso difetto: l’assenza di un
riferimento intrinseco all’attività pratica, ovvero come il
riconoscimento di un fac bonum possa orientare l’azione74. Da
qui l’esigenza di Kant di percorrere un’altra strada, quella
classica dell’indagine filosofica, in coerenza con il suo stesso
metodo analitico che distingue ma non oppone: legare tra loro
72 Sempre nella prefazione alla Fondazione, ibid., p. 9.73 cit. I. KANT, ibid., p. 53.74 Cfr. S. BACIN, ibid., p. 139: «Un principio come fac bonum, o l’esposizione astratta dei doveri che si ricava da una trattazione come quella dell’Ethica philosophica [di Baumgarten] non sono che parole, se non vengono sorretti da una ricerca in grado di spiegare la relazione intrinseca tra i due termini, chiarendo come il riconoscimento di un bonum orienta il fare nella forma del dovere».
35
cose che non sono legate. Nasce così una nuova
“collaborazione” tra logica e morale, un legame sistematico con
un nome specifico: metafisica75.
«La logica tratta delle leggi oggettive della ragione,
cioè di come essa deve procedere. La metafisica
[tratta] di quelle soggettive della ragione pura, di
come essa procede»76.
Il legame tra logica e morale è quello tra uso oggettivo e
soggettivo della ragione.
Abbiamo visto così che questa impostazione, presa sulla base
della ‘svolta’ della Dissertazione, invece di condurre l’indagine
morale verso una dimensione astratta la rende maggiormente
efficace, sistematizzando la teoria morale ed emancipandola da
posizioni antropologiche. Ma c’è un’altra conseguenza ancora
più importante che caratterizza e specifica le finalità di un uso
logico dei concetti morali. Se in ambito teoretico quest’uso della
logica trova nella Critica della Ragion Pura la sua piena
applicazione, in ambito morale l’uso di strumenti logici per la
costruzione di una teoria etica permette la creazione di un
modello di disciplina normativa77. Non solo l’esposizione di
regole per un uso corretto della ragione in ambito morale ma
norme specifiche per la volontà pura, istruzioni necessarie per il
suo corretto uso. Tale è la razionalizzazione dell’etica kantiana.
A seguito di queste debite distinzioni. Possiamo così procedere
all’analisi approfondita della Fondazione.
Fondazione: prima sezione
Come una sorta di compendio, la prima sezione ci presenta le
posizioni, il metodo e i concetti che abbiamo colto negli scritti
75 Per l’approfondimento del legame tra morale e logica e del ruolo di quest’ultima nell’impianto sistematico kantiano si veda S. BACIN, ibid., pp. 136-140.76 cit. Reflexion 3939, XVII 356; 1769. Così come citato da S. BACIN, ibid., p. 147.77 Termine adoperato da S. BACIN, ibid., p. 137.
36
precedenti: l’allontanamento dalla morale di scuola, il metodo
dell’analisi - e il suo carattere “socratico” – e infine il rifiuto
netto di fondare la teoria sul senso morale.
L’esigenza di costruire una teoria morale sulla base di un
criterio analitico-soggettivo fondato sull’agire reale universale,
senza per questo derivarlo da cognizioni empiriche, spiega
perché Kant parta, senza mediazioni o spiegazioni preliminari,
dal concetto di volontà buona. Affermare che nient’altro possa
essere ritenuto buono se non una volontà buona esclude
implicitamente tutto ciò che superficialmente viene posto alla
base di un’azione morale: intelletto, felicità, risolutezza,
coraggio, saldezza di propositi, potere, ricchezza, onore. Tutte
qualità del temperamento “buone e desiderabili”, certo, ma
soggette a «diventare anche estremamente cattive e dannose se
la volontà che deve far uso di questi doni naturali […] non è
buona»78. Una morale che si fonda sulla natura umana, sul
sentimento e sulle sue qualità non può essere incondizionata. E’
volubile, soggetta alle inclinazioni, ciò che essa presuppone è
comunque una volontà buona.
In queste pagine è in atto un confronto serrato tra la nuova
impostazione della filosofia morale di Kant - la metafisica dei
costumi – e la filosofia popolare di cui fanno parte sia gli autori
britannici che quelli tedeschi. Un confronto che si traduce in una
vera è propria autocritica delle posizioni assunte negli anni
precedenti. La “resa dei conti” definitiva con la natura umana
avviene in queste pagine quando Kant afferma:
«Se, ora, in un essere che possiede la ragione e una
volontà, il vero fine della natura fosse la sua
conservazione, il suo benessere, in una parola la sua
felicità, la natura, scegliendo la ragione di una tale
creatura come esecutrice di questo suo scopo, ne
avrebbe indovinata assai male la dotazione. Infatti
78 cit. I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, ibid., p. 15.
37
tutte le azioni che la creatura deve compiere a questo
scopo […] avrebbero potuto esserle indicate con
molta maggiore esattezza dall’istinto»79.
E qualche rigo dopo:
«[…] in una parola, la natura avrebbe evitato che la
ragione si fosse risolta nell’uso pratico e avesse
avuto la presunzione di elaborare da sé, con la sua
debole comprensione, il progetto della felicità e i
mezzi per raggiungerla; la natura si sarebbe
incaricata essa stessa non solo della scelta dei fini,
ma anche dei mezzi, e li avrebbe affidati entrambi,
con saggia previdenza, esclusivamente all’istinto».
E’ curioso notare come in queste osservazioni l’istinto, facoltà
con la quale opera la natura umana, si presenta con un grado di
chiarezza ed esattezza superiore alla stessa ragione che invece
possiede un “debole grado di comprensione”. L’istinto è un
impulso non mediato, la ragione deve “ritirarsi” e riflettere o, se
è pura, organizzarsi adeguatamente. Abbiamo qui tutta la
conseguenza dell’impostazione critica kantiana inaugurata dalla
Dissertazione. Se bastasse la natura umana a motivare e
spingere l’agire morale perché è ancora così difficile stabilire
cos’è un’azione buona? Che debba essere la ragione, e solo
quella, il luogo d’origine dei concetti morali è in parte
dimostrato proprio dal fatto che questi stessi concetti si
presentano in rappresentazioni “ancora oscure alla coscienza”. E
chi non è consapevole di questo, aggiunge Kant, e usa la ragione
per il “godimento della vita e della felicità” – tutti scopi in cui la
natura umana basta a se stessa per raggiungerli – compie una
sorta di corto circuito e finisce per odiare la stessa ragione80.
79 cit. I. KANT, ibid., p. 19.80 cfr. I. KANT, ibid.: «In effetti, noi vediamo che tanto più una ragione coltivata si dedica allo scopo del godimento della vita e della felicità, tanto più l’uomo s’allontana dalla vera contentezza; sicché in molti, e proprio nei più esperti nell’uso della ragione, quando siano abbastanza sinceri per riconoscerlo, nasce un certo grado di misologia, ossia di
38
In queste pagine iniziali è possibile intravedere la concezione
‘socratica’ del pensiero alla base della kantiana “presa di
coscienza” dei concetti morali: se è la ragione – “sia la più
comune che quella speculativa nel più alto grado”81 - il luogo
d’origine dei concetti morali, e se essi si presentano inizialmente
in maniera oscura, è chiaro che «per sviluppare il concetto di
una volontà in se stessa sommamente degna di stima e buona
senz’altra considerazione»82 occorre che questo concetto sia
rischiarato piuttosto che insegnato. Emerge così, in tutta la sua
evidenza, un tratto autentico e originario del pensiero morale di
Kant: l’ispirazione internalistica83, ovvero la concezione
secondo cui la norma contiene o è intimamente connessa con le
ragioni della sua osservazione. Per questo motivo la vera
destinazione della ragione in campo morale è quella di produrre
«una volontà non come mezzo per altro scopo, bensì una volontà
buona in se stessa»84.
Proseguendo nel testo, Kant pone tre proposizioni che portano
gradualmente alla formulazione del primo imperativo
categorico. Se il concetto della volontà buona deve bastare a se
stesso, deve essere incondizionato, e risiede in un soggetto la cui
volontà non è pura - non si accorda necessariamente con la legge
morale ma può invece seguire anche le inclinazioni, i desideri -
allora è chiaro che esso viene avvertito in primo luogo come un
dovere.
Nella prima proposizione Kant passa in rassegna tutti quei casi
in cui il dovere sembra apparentemente conforme a se stesso in
odio per la ragione».81 cit. I. KANT, ibid., p. 53. 82 cit. I. KANT, ibid., p. 23.83 Termine coniato da S. BACIN ne Il senso dell’etica, ibid., p. 127, per contestualizzare la dialettica che si instaura tra l’approvazione e la scelta di un’azione, in pratica tra la valutazione, che comporta la preferenza di un’azione su un’altra, e la motivazione che spinge ad agire. Secondo Bacin, la dialettica di questi due termini è ciò che porta la morale kantiana ad una sorta di “stallo”, divisa com’è tra un’indagine pura e uno svolgimento effettivo-pratico: lì dove i principi/doveri bastano per se stessi, la loro applicazione richiede invece l’appoggio di quelle filosofie “popolari” che hanno il loro fondamento in concetti empirici o psicologici.84 cit. I. KANT, ibid., p. 21.
39
modo immediato e distingue tra azioni conformi al dovere e
azioni compiute per il dovere85. In entrambi i casi il dovere può
essere avvertito immediatamente, ma solo quando le azioni sono
compiute per il dovere si ha a che fare con azioni morali.
Un’azione conforme al dovere può essere compiuta
apparentemente anche per dovere ma in realtà è un caso raro,
poiché quando si agisce in conformità al dovere non lo si fa
necessariamente. Un’azione conforme al dovere, infatti, può
essere in quanto tale solo imposta dall’esterno, consolidata
dall’abitudine, basata su convenzioni o sull’interesse personale
(come nel caso del bottegaio attento a non perdere i propri
clienti86). Un’azione compiuta per il dovere, invece, ha origine
nel soggetto, precisamente in un principio di ragione, ed è
quindi necessaria, incondizionata in quanto non riceve
determinazioni dall’esterno e, ovviamente, proprio per questo,
universale.
Prima di analizzare i contenuti della seconda e terza
proposizione occorre introdurre due termini relativamente nuovi
che vengono qui per la prima volta presentati con un significato
preciso: quello di massima e di rispetto della legge.
Il termine massima è sempre oscillato storicamente tra un uso
logico originario e uno retorico derivato87. Nel primo caso
massima è intesa teoreticamente come la maxima propositio di
un sillogismo fondata sul principio di identità. Nel secondo caso,
a partire dal XVI secolo, massima è un tratto caratterizzante
dell’etica laica intesa come un principio soggettivo, una verità
morale strettamente legata al lessico della prudenza. Con Wolff
il concetto viene ripreso secondo il suo uso logico e si presenta
come un assioma che consolida la visione morale del soggetto.
Con Baumgarten, invece, viene messo in luce sia il suo
85 I. KANT, ibid., pp. 23-27.86 L’esempio è riportato da Kant a p. 23-25 della Fondazione: 87 Per un approfondimento dell’argomento si vedano le indicazioni principali sul concetto di massima elaborate da R. BUBNER, Handlung, Sprache und Vernunft. Grundbegriffe praktischer Philosophie, Frankfurt/main 1982; trad. it. Bologna 1985, pp. 177-181, così come vengono sintetizzate da S. BACIN in Il senso dell’etica, ibid., pp. 181-193.
40
significato logico che pratico, ovvero come una premessa
maggiore di un sillogismo pratico costituita da «regole del
comportamento libero acquisite per abitudine»88. La posizione di
Kant è invece lontana tanto da interpretazioni strettamente
logico-sillogistiche che pratiche89. Massima non è né un
sillogismo pratico, né una regola consolidata dall’abitudine,
bensì un principio soggettivo del volere - distinto dal principio
oggettivo che è la legge - in base al quale uno effettivamente
agisce. In altre parole è la forza motivante dell’azione, originaria
nel soggetto stesso, che non si acquisisce attraverso l’esperienza
né si ricava attraverso un mero calcolo del pensiero. E’ lo stesso
Kant infatti a chiarire che chi agisce in base a stimoli, e non
secondo massime, «può avere certo la regola in mente, ma non
comunque la massima nel cuore»90. Possiamo così passare alla
seconda proposizione:
«[…] un’azione compiuta per dovere possiede il suo
valore morale non nello scopo che deve attuarsi per
suo mezzo, ma nella massima in base alla quale
viene decisa; tale valore non dipende dunque dalla
realtà dell’oggetto dell’azione, ma esclusivamente
dal principio del volere in base al quale è stata
compiuta»91.
Detta in questi termini, il principio del volere quale è la
massima, presentata per la prima volta così chiaramente,
richiede di essere completata dal suo principio oggettivo, ovvero
deve essere sottoposta alla legge morale e mediata
dall’imperativo categorico. Kant amplia il concetto di massima
rispetto al suo uso storico, allarga il contesto pratico in cui farla
88 A. G. BAUMGARTEN, Ethica philosophica, § 246, così come citato da S. BACIN, ibid., p. 186.89 I primi accenni al concetto di massima in Kant è possibile trovarli negli appunti di Herder alle lezioni intorno al 1764 (Praktische Philosophie Herder, 1762-64) e nei commenti di Kant al § 246 dell’Ethica philosophica di Baumgarten.90 cit. appunti alle lezioni tenute da Kant, Praktische Philosophie Powalski, 1775-78, XXVII 207.91 cit. I. KANT, Fondazione, ibid., p. 29.
41
valere domandandosi «come può una massima diventare
legge?».
Anche il concetto di rispetto della legge, come quello di
massima, si presenta immediatamente nel testo senza alcuna
introduzione preliminare nella forma della terza e ultima
proposizione, corollario delle due precedenti:
«dovere è necessità di un’azione per rispetto della
legge»92.
La determinazione del volere avviene oggettivamente con la
legge e soggettivamente nel rispetto che si prova per essa. Quel
sentimento morale come riflesso della volontà, quel “sentir la
dipendenza del volere singolo dal volere universale” che
abbiamo trovato nei Sogni di un visionario riceve qui un nome
specifico: rispetto della legge. Un sentimento avente ruolo
attivo, non legato alla sensibilità, non «ricevuto per mezzo di un
influsso», bensì prodotto per sé «per mezzo di un concetto di
ragione»93. E’, in altre parole, la coscienza della mia
subordinazione alla legge morale, è l’effetto della legge sul
soggetto.
Il concetto di rispetto della legge appare problematico perché
mette in campo una specifica qualità, il sentimento morale, mai
sufficientemente approfondita da Kant all’interno dell’impianto
sistematico della teoria etica. In realtà connotare questa qualità
sensibile di un ruolo attivo è fondamentale all’impianto
sistematico della morale al fine di legare la legge morale al
soggetto senza che gli sia estranea la forza motivante dell’agire.
Il rispetto della legge permette di fissare e rendere efficace per il
soggetto la struttura a priori del dovere. Se il rispetto non è un
sentimento ma un effetto della legge, si tratta di un effetto
interno al soggetto, non legato ad alcuno scopo. Potremmo
chiamarlo un ‘effetto di ragione’. Scrive Kant:
92 cit. I. KANT, ibid. 93 cit. I. KANT, ibid., p. 31.
42
«[…] non posso provare rispetto per un’inclinazione
in generale. […] Solo ciò che è legato alla mia
volontà come fondamento, ma mai come effetto,
solo ciò che non serve la mia inclinazione bensì la
sovrasta […], può essere oggetto del rispetto e, con
ciò, un comando. Ora, se un’azione compiuta per
dovere deve interamente prescindere dall’influsso
dell’inclinazione e quindi da ogni oggetto della
volontà, non resta null’altro che possa determinare la
volontà se non, oggettivamente, la legge e,
soggettivamente, il puro rispetto per questa legge
pratica, e dunque la massima di seguire questa legge
anche a danno di tutte le mie inclinazioni»94.
Da qui per la formulazione del primo imperativo categorico non
occorre che un passo: domandarsi quale sia il contenuto di
questa legge. Se fin’ora abbiamo definito la forma con la quale
si presenta al soggetto, bisogna ora chiarirne il suo contenuto,
cosa essa dice, o meglio cosa comanda. E Kant non può che
formulare tale comando in questi termini: se non ha un
contenuto sensibile, ovvero non è retta dalle inclinazioni, allora
la legge non può che volere se stessa, «non le resta altro che la
universale conformità alla legge delle azioni in generale»95.
Un’istanza che per il soggetto non può che tradursi in un «volere
che la mia massima debba diventare una legge universale»96. In
realtà, come osserva H. J Paton in The categorical imperative, la
formula del primo imperativo categorico è duplice. Vi è una
prima che è la sua presentazione vera e propria:
94 cit. I. KANT, ibid.95 cit. ibid., p. 33.96 cit. ibid.
43
«agisci unicamente secondo quella massima in forza
della quale tu possa insieme volere che essa divenga
legge universale»
E una seconda che serve a rendere più intuitiva la prima:
«agisci come se la massima della tua azione dovesse
diventare per tua volontà una legge universale della
natura»
Secondo Kant c’è “natura” quando le intuizioni empiriche sono
inquadrate e unificate in leggi universali. Allo stesso modo, c’è
moralità quando le leggi universali si attuano nella condotta
umana. Per cui se voglio sapere se un’azione è morale è
sufficiente chiedermi se essa può rientrare in un ordine retto da
leggi universali; se invece voglio sapere se una mia massima è
morale basta che guardi se essa darebbe luogo a una natura
ordinata da leggi universali97.
La legge morale, in questa sua prima formulazione, ha un forte
carattere ‘socratico’: il soggetto che agisce moralmente non è un
saggio. Per quanto sia razionale, la forza motivante dell’azione
non ha alcun carattere intellettuale. “Cosa devo fare?” è una
domanda che non richiede alcuna conoscenza preliminare, né un
riscontro empirico, è sufficiente invece domandarsi se quello
che voglio, o meglio, ciò che mi spinge ad agire – la massima –
debba valere per tutti:
«Per sapere cosa devo fare affinché il mio atto del
volere sia moralmente buono, non ho dunque affatto
bisogno di profondo acume. Inesperto
sull’andamento del mondo, incapace di trovarmi
preparato di fronte a tutti i casi che in esso
97 cfr. S: V. ROVIGHI, Introduzione allo studio di Kant, ed. La scuola, Brescia 2001, p. 239.
44
avvengono, mi domando soltanto: puoi anche volere
che la tua massima divenga una legge universale?»98.
Non devo essere particolarmente intelligente, è sufficiente solo
che rischiari99 - ecco il carattere socratico - ciò che la ragione
contiene in maniera oscura. Tale processo di rischiaramento non
porta che al rispetto per ciò che si vuole se lo si vuole come
valido universalmente. Per cui - e qui sta tutta la forza socratica
della teoria morale kantiana - non c’è bisogno di alcuna
conoscenza particolare, di alcuna scienza o filosofia morale per
essere onesti e buoni poiché non c’è alcuna necessità di
comprendere il rispetto che si prova nel volere la propria
massima come valida universalmente.
Eppure di una filosofia morale c’è bisogno. Anzi essa diventa
necessaria proprio quando questo principio del volere è
costantemente messo alla prova dalle “potenti inclinazioni”, dal
desiderio e dai bisogni. Questa messa alla prova è talmente
inevitabile da determinare un gioco tra inclinazione e puro
volere, quello che Kant chiama una dialettica naturale100 tra
ragione e inclinazioni. Ora, affinché il principio del dovere
possa avere un’efficacia e una durevolezza, è necessario che
esso venga compreso, altrimenti alla lunga si rischia di mettere
in dubbio i propri precetti al fine di renderli quanto più possibile
conformi ai nostri desideri.
«L’innocenza è una cosa splendida , ma è anche un
gran peccato che essa non sappia ben difendersi e
che si lasci sedurre facilmente»101.
98 cit. ibid., p. 37.99 «Ma, per sviluppare il concetto di una volontà buona in se stessa sommamente degna di stima e buona senz’altra considerazione […], non bisognoso di essere insegnato quanto piuttosto rischiarato […], vogliamo prendere in esame il concetto di dovere». Cit. I. KANT, ibid., p. 23.100 cfr. I. KANT, ibid., pp. 39-41.101 cit. ibid., p. 39.
45
Al difetto dell’innocenza arriva in soccorso la scienza, la
sapienza. La comune ragione umana approda nel campo della
filosofia pratica: la metafisica dei costumi.
Fondazione: seconda sezione
Il passaggio dalla filosofia morale popolare (analisi della
coscienza morale comune) alla metafisica dei costumi (analisi
della struttura a priori dei principi morali) è il momento del
passaggio dal momento descrittivo a quello normativo della
teoria morale, una diretta conseguenza dell’impostazione
razionalistica della teoria morale che rispecchia tanto l’esigenza
di emancipazione dall’antropologia quanto il bisogno di rendere
efficaci e immediatamente accessibili alla coscienza i contenuti
a priori dei principi morali. Un passaggio che non denota un
cambiamento di metodo dell’indagine: Kant conserverà sempre
il carattere descrittivo della teoria morale anche all’interno
dell’esposizione degli imperativi categorici. L’indagine morale
kantiana si mantiene sempre su questo doppio registro, puro e
insieme non astratto, razionale e insieme pratico, cosa che non
darà pochi problemi alla sistematicità della teoria.
Proprio sulla base di questa esigenza Kant non rinnegherà mai la
“popolarità filosofica”, importante proprio ai fini
dell’”applicabilità” della stessa indagine a priori:
«Infatti, se si mettesse ai voti se sia da preferire la
conoscenza razionale pura, separata da ogni
elemento empirico, quindi la metafisica dei costumi,
o la filosofia pratica popolare, si indovinerebbe
subito da quale parte penderebbe la bilancia»102.
102 cit. I. KANT, ibid., p. 49.
46
A maggior ragione, proprio per rendere valida la filosofia
pratica popolare, occorre prima di tutto fare una corretta
filosofia:
«Questa condiscendenza verso concetti popolari
sarebbe certo assai lodevole, quando prima sia
avvenuta l’ascesa ai principî della ragione pura […].
Ma è un’assurdità senza limiti voler ammettere
questa popolarità già nell’indagine prima […]. Non
solo un tale modo di procedere non può mai
pretendere il titolo, raro in sommo grado, di una vera
popolarità filosofica […], ma ciò fa nascere un
ripugnante guazzabuglio di osservazioni
raffazzonate e di principî pseudorazionali»103.
In queste pagine iniziali, poco prima dell’approfondita
presentazione degli imperativi, la metafisica dei costumi e la
filosofia morale popolare trovano il loro campo di applicazione
specifico: la prima è un’indagine preliminare sulle strutture a
priori della ragione al fine di ricavare i principi con i quali
questa comanda l’azione, la seconda l’applicazione di tali
principi a priori che ha proprio nell’antropologia il suo metodo
specifico.
E’ importante ricordare come questa oscillazione tra carattere
descrittivo e normativo della teoria morale deriva direttamente
dal bisogno di dotare la stessa teoria di un’efficacia reale
sull’agire. Un’indagine empirica non potrà mai soddisfare
questo bisogno, anche se apparentemente proprio in ciò
risiederebbe il suo punto di forza. Secondo Kant le inclinazioni,
per quanto immediate, denotano una volontà incerta,
imprevedibile e volubile che può contare solo su esempi di
condotta. Una teoria morale costruita su questi presupposti non
103 cit. I. KANT, ibid.
47
può essere niente di peggiore104. Mentre un desiderio
determinato può avere un influsso imprevedibile, spingendo ad
agire prima in un modo e poi in un altro, un principio morale
come quello del dovere determina un comando univoco e
necessario che si riflette non sul freddo calcolo razionale del
soggetto ma proprio su di esso in quanto agente (ciò che Kant
chiama “cuore umano”). Allontanando ogni spettro empirico,
non resta che la ragione dotata a sua volta di un’efficacia pratica
diretta:
«Infatti, la pura rappresentazione del dovere e in
generale della legge morale, non frammista ad
alcuna aggiunta estranea di stimoli empirici, ha sul
cuore umano [corsivo mio], per il tramite della sola
ragione, un influsso tanto più potente di tutti gli altri
moventi che si possono ricavare dal campo
empirico, che la ragione […] li disprezza e può poco
a poco divenire loro padrona»105.
Di nuovo ritorna questo termine: il cuore. Cos’è questo cuore?
Pare che Kant non vi abbia mai dedicato che qualche accenno106,
limitandosi a parlare di una “massima nel cuore”107 o, come qui,
di un influsso del dovere sul cuore umano. Sembra quindi di
avere di fronte quella forma di sentimento attivo che è il rispetto
della legge, oppure l’interesse. Questo non è chiaro. Quel che è
certo però è che si tratta del soggetto agente, colui che avverte
l’effetto della legge morale su di lui senza che questo effetto
risulti essere una affetto, una passione. Di nuovo Kant dimostra
di tener ben presente l’importanza del soggetto-uomo – oltre al
soggetto-ragione – all’interno della teoria morale, fattore che
104 cfr. I. KANT, ibid., p. 47: «Non si potrebbe neppure immaginare qualcosa di peggio, per la moralità, che volerla trarre da esempi».105 Cit. I. KANT, ibid., p. 53. 106 cfr. I. KANT, La religione entro i limiti della sola ragione, cap. I.107 cfr. p. 36 della tesi.
48
determina la costante oscillazione dell’indagine pratica tra
esigenze descrittive e normative.
Generalmente i contenuti delle prime due sezioni della
Fondazione vengono considerati come profondamente
differenti. Se nella prima parte è il concetto di volontà buona a
essere il protagonista, nella seconda l’argomento centrale sono
gli imperativi, mai più presentati così approfonditamente come
in quest’opera. In realtà il passo in avanti dall’ambito descrittivo
a quello normativo, dalla filosofia della coscienza morale alla
metafisica dei costumi, non smuove l’indagine dal suo centro.
La ricerca non si allontana dal suo punto di partenza che è il
concetto di dovere, ora più che mai pronto per essere
ulteriormente approfondito ed esplicitato. Non c’è alcuna
discontinuità tra le due sezioni: il procedere del lavoro di analisi
nella seconda sezione dell’opera è di fatto un ulteriore momento
di sviluppo della dimensione pratica. Se la prima parte ha
spiegato che la valutazione del bene implica il riferimento a un
dovere, la seconda chiarisce quali siano le regole che stanno alla
base del dovere: gli imperativi.
Il termine imperativo era ampiamente utilizzato nel linguaggio
filosofico dell’epoca108, molto più legato però al lessico logico-
grammaticale di quanto Kant lo intenda. Se la teoria morale del
filosofo rifiuta ogni fondazione empirica e stabilisce come punto
di partenza la ragione è chiaro che gli elementi che compongono
questa facoltà, in quanto concettuali, hanno un carattere logico.
Ma al filosofo tedesco un uso prettamente logico della ragione
in campo morale, come abbiamo visto109, non soddisfa le
esigenze pratiche di una sua teorizzazione.
Come è accaduto con il concetto di obbligazione, anche qui
Kant parte dalle brevi considerazioni di Baumgarten, secondo il
108 cfr. S. BACIN, Il senso dell’etica, ibid., pp.103-105. L’autore, appoggiandosi all’indagine di C. SCHWAIGER, Kategorische und andere Imperative. Zur Entwicklung von Kants praktischer Philosophie bis 1785, Stuttgart-Bad Cannstatt 1999, pp. 165-167, formula un breve excursus sull’uso del concetto di imperativo nel periodo in cui Kant scriveva. 109 Per il modo in cui Kant intende la ragione e la sua “fenomenologia” rimando al mio testo, pp. 24-26.
49
quale «Imperativi in disciplinis pratici significant: homine
obligari»110, una definizione che allarga l’uso dell’imperativo
all’ambito della prassi. Ma ancora non basta. Guidata
dall’ispirazione internalistica, la novità di Kant consiste nel
definire gli imperativi non come dei semplici comandi, ma come
regole dell’obbligazione. Non solo una formula del dovere,
come si limita a intenderla Baumgarten, ma anche il modo in cui
il dovere comanda un’azione sulla base di regole specifiche. Gli
imperativi sono uno degli esempi più lampanti del metodo
logico e morale111 della filosofia pratica di Kant: sono da un lato
regole con le quali la ragione – che ora possiamo chiamare
“pratica” - pensa un’azione e, dall’altro, comandi pratici effettivi
non ricavati e formulati sulla base di una deduzione ma
direttamente contenuti nella stessa regola.
Gli imperativi sono un topos della teoria morale di Kant poiché
condensano tutto l’atteggiamento critico del pensatore tedesco.
Sono l’esplicitazione del dominio della morale, distinto da
quello teoretico: se la conoscenza si esprime all’indicativo,
descrivendo ciò che l’intelletto fa per organizzare i contenuti
sensibili, i concetti morali si esprimono all’imperativo nella
forma del comando, stabilendo non ciò che è ma ciò che deve
essere.
La forza degli imperativi sta tutta nel mantenere il loro orizzonte
interpretativo all’interno del doppio ordine del discorso
descrittivo/normativo. Se ci si limitasse a descrivere il bene o la
volontà buona si avrebbe a che fare solo con uno stato di cose,
esempi di condotta, azioni post factum che, in quanto già
compiute, non rientrano in un rapporto di necessitazione con
l’agente. All’inverso, privilegiando solo l’aspetto normativo del
bene il comando si presenterebbe come una legge che sì precede
e comanda l’azione, ma nella forma di una prescrizione esterna a
110 cit. A. G. BAUMGARTEN, Initia philosophiae praticae primae, § 39, così come citato da S. BACIN, ibid., p. 105. Secondo lo studioso italiano Baumgarten rappresenta l’indizio più notevole dell’esigenza kantiana di legare l’uso logico dell’imperativo con la prassi. 111 Basti pensare a quando Kant introduce gli imperativi nella Fondazione con la frase con cui iniziava i suoi corsi di logica: «Ogni cosa della natura opera secondo leggi», cit. I. KANT, Fondazione, ibid., p. 55.
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cui il soggetto agente deve conformarsi senza alcuna
motivazione intrinseca. L’efficacia degli imperativi kantiani sta
nel mantenimento di entrambe le esigenze: non hanno per
oggetto degli stati di cose ma modi di agire, a loro volta
formulati non sulla base di un’osservazione empirica o su una
legge esterna ma su principi della ragione pratica112.
Questo doppio registro è ancora una volta la conseguenza della
svolta critica fondata sulla distinzione tra ciò che è soggettivo e
ciò che è oggettivo. Scrive Kant:
«Ma se la ragione per sé sola non determina la
volontà in modo sufficiente, se essa continua a
sottostare a condizioni soggettive (certi moventi) che
non sempre s’accordano con quelle oggettive; in una
parola, se la volontà non è in sé interamente
conforme alla ragione (come è in effetti per gli
uomini), allora le azioni che oggettivamente
vengono riconosciute come necessarie sono
soggettivamente contingenti, e la determinazione di
una tale volontà in conformità a leggi oggettive è
costrizione»113.
Ecco spiegato perché il concetto di volontà buona implica quello
di dovere. La legge è oggettiva, ovvero è, potremmo dire, una
diretta emanazione della ragione pratica, ma la volontà del
soggetto è, appunto, soggettiva, quindi contingente. Se la
volontà fosse santa, ovvero in sé conforme alla ragione, allora
non avrebbe bisogno di alcun imperativo limitandosi
semplicemente ad agire, volendo ciò che la ragione determina.
Ma essendo la volontà dell’uomo una volontà esposta
all’inclinazione, non può che avvertire come una costrizione ciò
112 cfr. S. BACIN, Il senso dell’etica, ibid., pp. 108-115. Per lo studioso italiano gli imperativi hanno una valenza descrittiva.113 cit. I. KANT, Fondazione, ibid., p. 57.
51
che la ragione pratica comanda. Per questo l’uomo dipende dagli
imperativi per agire moralmente.
Prima di proseguire con l’analisi del testo, occorre approfondire
la questione del doppio registro soggettivo/oggettivo della teoria
morale. Esso apre un nuovo spazio problematico mai
definitivamente risolto da Kant: quello tra valutazione e
motivazione.
Excursus: l’interesse, efficacia pratica dell’etica: il problema
della valutazione e della motivazione
Nella seconda sezione della Fondazione, in forza delle note più
che del testo vero e proprio, notiamo tutta la maturità della
riflessione raggiunta da Kant sul ruolo del sentimento morale114
all’interno dell’impianto sistematico. Esso non viene neanche
più considerato un sentimento, legato com’è ad un bisogno, ma
un interesse115.
114 cfr. ibid., p. 59: «La dipendenza della facoltà di desiderare da sentimenti si chiama inclinazione, e questa dimostra quindi sempre un bisogno. Ma la dipendenza da principî della ragione di una volontà determinabile in modo contingente si chiama interesse».115 Una facoltà attiva che non riceve impressioni dall’esterno, distinta così da quella facoltà passiva quale è la sensibilità tout-court.
52
Il concetto di interesse è il risultato di un lungo processo di
emancipazione dall’antropologia mai definitivamente compiuto.
Il motivo risiede nella difficile combinazione di due momenti
differenti dell’agire: quello della valutazione e della
motivazione116. L’efficacia della teoria morale kantiana si gioca
tutta qui. La valutazione è il campo della legge oggettiva, dei
principi della ragion pratica, e il valore di una legge sta nel
rispetto che il soggetto ha per essa. La motivazione è il campo
dell’agire vero e proprio dove è in gioco il motivo, l’interesse
appunto, la massima in base alla quale si compie un’azione. La
differenza tra legge oggettiva e principio soggettivo dell’agire
obbliga a tenere distinti questi termini ma nello stesso tempo,
per non scindere la stessa ragione pratica, riconoscere a
entrambi un unico dominio. L’ispirazione internalistica della
morale di Kant si imbatte così in questo problema: come tener
distinti e insieme non distanti valutazione e motivazione?
Già dieci anni prima della stesura della Fondazione Kant
affronta in via definitiva la difficile posizione del senso morale:
«non si deve addurre il sentimento morale per la
valutazione, ma in seguito ad essa, esclusivamente
per suscitare l’inclinazione; quando il sentimento, p.
es. la compassione, anticipa la massima, allora si ha
un giudizio sbagliato»117.
Kant è chiaro: non si valuta in base al sentire, ma si sente
moralmente sulla base di una valutazione formulata da un
giudizio. Il sentimento morale è l’effetto della qualità della
valutazione. Non c’è alcun sentimento alla base di una corretta
valutazione, semmai esso sopraggiunge confermando il fatto che
stiamo valutando correttamente. Ancora Kant:
116 cfr. S. BACIN in Il senso dell’etica, ibid., pp. 119-135. Questi termini sono stati adoperati da Bacin per riassumere il problema tra quaestio diiudicationis e quaestio executionis.117 cit. I. KANT, Reflexion 6677, XIX 131 (1769?), così com’è citato da S. BACIN, ibid., p. 123.
53
«quindi il sensus moralis viene denominato così
soltanto per analogiam, e non dovrebbe chiamarsi
senso, bensì disposizione [corsivo mio], in base alla
quale nel soggetto necessitano anche i motivi morali,
oltre agli stimuli. In sensu proprio quindi è
un’assurdità, un mero analogon sensus, e serve
esclusivamente a esprimere una facoltà (e non una
recettività) per cui non abbiamo un nome»118.
Rifiutando qualunque ruolo moralmente fondante al sentimento,
per Kant risulta sempre più difficile trovare un termine adatto a
ciò che spinge concretamente l’azione. E’ l’interesse, certo.
L’interesse immediato per l’azione, interesse a realizzare ciò che
la ragion pratica comanda. Non un’inclinazione ma al massimo
un desiderio di tipo superiore a quello della mera inclinazione.
Ma come si produce tale disposizione nel soggetto? Impossibile
da sapere. Si può solo constatare che c’è, non come
sopraggiunge. Gli esiti estremi della Dissertazione emergono in
tutta la loro forza. Il volto oggettivo della norma, la valutazione,
ha nel rispetto della legge il suo percorso corretto, rendendo
possibile la costruzione di una metafisica dei costumi. Il volto
soggettivo della norma, la motivazione, apre un’altro campo di
indagine, di tipo osservativo. Così Kant è costretto a compiere
una scelta: approfondire l’indagine antropologica a scapito
dell’efficacia teorica o lasciare insoluta la questione della
motivazione per proseguire sulla strada indicata dalla metafisica
dei costumi. Ma Kant opta per una terza strada: rimandare119 la
questione della motivazione per approfondire quella della
valutazione morale. Le conseguenze di questa scelta si
ritroveranno nella Critica della Ragion Pratica quando troverà
un termine specifico per giustificare la condizione di possibilità
118 cit. I. KANT, Refl. 5448, XVIII 185 (1776-1778), così come citato da S. BACIN, ibid., p. 123.119 Come vedremo più avanti, nella Critica della Ragion Pratica il capitolo terzo dell’Analitica sarà dedicato proprio ai Moventi della Ragion Pura Pratica dove il filosofo analizzerà il ruolo del sentimento.
54
dell’imperativo categorico: la legge morale come un fatto della
ragione.
Dopo aver chiarito la difficile questione tra quaestio
diiudicationis e quaestio executionis, possiamo proseguire con
l’analisi della Fondazione.
---
L’oscillazione costante tra la valenza normativa e insieme
descrittiva degli imperativi giustifica la loro classificazione di
stampo “antropologico”. La triade di abilità, prudenza e moralità
rientra in un’indagine osservativa poco lecita dal punto di vista
sistematico120. Eppure non è la dimostrazione della dipendenza
della morale kantiana dall’antropologia, semmai una diretta
conseguenza del fatto che la regola con cui un dovere viene
formulato contiene implicitamente una prescrizione ed
esplicitamente la sua motivazione: non si presenta come un
comando ma è un modo di agire, e questo modo di agire viene
avvertito (nel cuore umano) come un comando, ovvero non nella
forma di un’azione possibile ma necessaria. Non a caso la
definizione più asciutta dell’imperativo la troviamo circa dieci
anni prima della Fondazione quando nelle Reflexion Kant
afferma che «gli imperativi sono regole (oggettive) delle
azioni»121 (soggettive). Ovviamente questa qualità
dell’imperativo vale nel caso in cui esso è categorico, dove il
fine non dipende dal mezzo con cui lo si realizza in vista di uno
scopo possibile (problematico) né per il conseguimento di uno
scopo reale122 (assertorio) - entrambi infatti comandano
ipoteticamente - ma in quanto esso comanda immediatamente
questo comportamento, senza alcuna rilevanza per il mezzo
utilizzato. Cosa comanda? Lo abbiamo già visto verso la fine
120 Come riferisce S. BACIN in ibid., p. 109.121 cit. Reflexion 6936, XIX 2010; 1776-1778, così come citata da S. BACIN, ibid., p. 110.122 cfr. I. KANT, Fondazione, ibid., p. 63. L’imperativo teso al conseguimento della felicità, fondato su un principio assertorio, è di grado superiore rispetto a quello formulato sulla base di un principio problematico. Purtroppo non potrà mai essere categorico perché è un concetto empirico, quindi non universale, determinato in maniera diversa in ogni essere razionale.
55
della prima sezione: se l’imperativo, dice Kant, comanda la
conformità della massima alla legge, allora «non resta altro che
la conformità alla legge in generale come ciò a cui la massima
dell’azione deve essere conforme»123. Eccoci approdati al primo
imperativo categorico che non occorre qui ripresentare.
Possiamo invece passare, brevemente, all’esposizione degli
ultimi due imperativi.
- Il secondo imperativo categorico
Se dunque la natura umana è tagliata fuori dal processo di
formulazione degli imperativi, il passo successivo di Kant sarà
nel dimostrare che l’imperativo categorico consiste in un
comando a priori, giungendo così alla sua seconda
formulazione. Per il filosofo la questione è la seguente: “è una
legge necessaria per tutti gli esseri razionali giudicare sempre le
proprie azioni secondo massime tali che essi possano volere
debbano servire da leggi universali?”124. La ragione è la causa
del retto comportamento, causa non di ciò che accade ma di ciò
che deve accadere, anche se non accade mai, e la volontà è la
facoltà di determinare se stessa in conformità alla
rappresentazione di certe leggi125. Il fondamento oggettivo
(universale) dell’autodeterminazione della volontà è il fine e
anch’esso dovrà essere oggettivo se è dato dalla sola ragione.
Ma questo fondamento è anche soggettivo visto che, oltre ad
avere lo stesso valore per tutti, ha lo stesso valore anche per noi.
Cos’è fine in se stesso oggettivamente e soggettivamente?
L’uomo, l’umanità, meglio ancora tutti gli esseri razionali.
Trattare l’umanità come fine, mai semplicemente come mezzo, è
il secondo imperativo categorico126.
La cosa interessante da notare in questa seconda formulazione è
ciò che Kant chiama specificamente il fine: non l’uomo, ma
123 cit. I. KANT, Fondazione, ibid., p. 74-75.124 cfr. Ibid., p. 87. 125 cfr. ibidem.126 cfr. ibid., p. 89.
56
l’umanità, non la persona ma ogni essere razionale. Ancora una
volta il filosofo ha ben presente la conseguenza di una teoria
morale che rifiuta ogni fondamento empirico-sentimentale e
normativo-astratto. Non è la natura dell’uomo a caratterizzarlo
come fine in sé, ma la sua ragione, l’unica ad essere principio
supremo insieme soggettivo e oggettivo127.
- Il terzo imperativo categorico
«Il fondamento di ogni legislazione pratica, infatti,
sta oggettivamente nella regola e nella forma
dell’universalità che la rende in grado di essere (in
base al primo principio) una legge (nel caso, della
natura), soggettivamente, invece, sta nel fine, e il
soggetto di tutti i fini è però ogni essere razionale,
come fine in se stesso (in base al secondo
principio)»128.
Se il soggetto è fondamento oggettivo e soggettivo della
legislazione pratica allora la sua volontà non può che essere
autolegislatrice, autrice della legge a cui si sottopone129. E’ «la
suprema condizione dell’accordo di essa [la volontà] con la
ragione pratica universale»130. Eccoci così approdati al terzo
imperativo categorico.
La volontà come autolegislatrice conferma il mantenimento
degli imperativi sotto il profilo razionale, senza alcun principio
estrinseco o antropologico.
127 cfr. ibid., p. 91: «Il fondamento di questo principio è: la natura razionale esiste come fine in sé. Così, necessariamente . l’uomo si rappresenta la propria esistenza; e in tal misura questo è un principio soggettivo delle azioni umane. Così, però, anche ogni essere razionale di rappresenta la propria esistenza, in conseguenza del medesimo fondamento razionale che vale per me; dunque esso è insieme un principio oggettivo». 128 cit. ibid., p. 95.129 Qui risiede, secondo Kant, la sublimità e la dignità della persona: «[…] in una tale persona non v’è certo sublimità in quanto sia sottoposta alla legge morale, ma invece in quanto, riguardo alla legge, tale persona sia insieme legislatrice e solo per questo ad essa sottoposta». cit. ibid., p. 115. 130 cit. ibidem.
57
«Quando infatti pensiamo una tale volontà, sebbene
una volontà che stia sotto leggi possa pur essere
legata a questa legge per mezzo di un interesse, è
impossibile che, in quanto essa stessa supremamente
legislatrice, dipenda da qualche interesse»131.
Si noti qui tutta la difficoltà di trovare un termine adatto per ciò
che interessa l’uomo sotto l’aspetto puramente razionale. E’
interesse dell’uomo, in quanto essere razionale, sottoporre la
volontà alle leggi che essa stessa si pone, ma questa stessa legge
non deve essere legata ad alcun…interesse. Si potrebbe
affermare che da un lato c’è l’interesse tout-court come interesse
empirico, ma anche l’interesse razionale senza alcun carattere
empirico, che quindi sarebbe più adatto definire disposizione
morale, sulla base di quanto lo stesso Kant ha affermato dieci
anni prima132. L’impossibilità di spiegare cosa sia l’interesse per
la legge morale è, potremmo dire, per quanto sia inappropriato il
termine, un dato di fatto. E’ nella qualità dello stesso interesse
l’impossibilità di poterlo comprendere. Una qualità in comune
con un altro elemento, un’idea, quella di libertà. Sarà lo stesso
Kant, nella terza sezione, a chiarire questa difficoltà:
«L’impossibilità soggettiva di spiegare la libertà
della volontà è tutt’uno con l’impossibilità di
rendere manifesto e concepibile un interesse che
l’uomo potrebbe prendere per le leggi morali; e
tuttavia realmente egli prende per queste un
interesse, il cui fondamento in noi chiamiamo
sentimento morale, falsamente considerato da alcuni
come il criterio del nostro giudicare di moralità»133.
131 cfr. ibid., p. 97.132 cfr. p. 47 della mia tesi, ovvero I. KANT, Refl. 5448, XVIII 185 (1776-1778), così come citato da S. BACIN, ibid., p. 123. 133 cit. I. KANT, Fondazione, ibid., pp. 155-157.
58
La preoccupazione per Kant risiede sempre nel rendere più
efficace la sua teoria morale rispetto a quelle in voga nel suo
tempo, efficacia che trova la sua strada in un fondamento
razionale, oggettivo (universale) e soggettivo (gli esseri
razionali). Questo è il motivo per cui formula tre imperativi
categorici anziché uno quando in realtà il primo è già
sufficiente134. Scrive Kant:
«Infatti, che io debba limitare la mia massima […]
alla condizione della sua validità universale, come
legge, per ogni soggetto, significa lo stesso che dire:
il soggetto dei fini […] non deve mai essere posto a
fondamento delle massime semplicemente come
mezzo, bensì come suprema condizione limitativa
nell’uso di tutti i mezzi, ossia sempre insieme come
fine.
Di qui segue allora in modo inoppugnabile che ogni
essere razionale come fine in se stesso deve potersi
considerare […], insieme come universalmente
legislatore»135.
Abbiamo affermato in precedenza136 che Kant abbandona
l’aspetto motivante della norma per concentrarsi sulla sua
valutazione. In verità l’approfondita esposizione degli imperativi
in tre formule dimostra come il filosofo non abbia mai
abbandonato questa strada e come gli risulti difficile seguire
entrambe le strade. L’aspetto motivante solleva troppi problemi,
per questo Kant sceglie di concentrarsi su quello valutativo che
gli permette di postulare gli imperativi senza che la loro
“assiomaticità” li renda incerti137. Ma resta pur viva la 134 cfr. I. KANT, Fondazione, ibid.: «I tre modi sopra indicati di rappresentare il principio della moralità sono però, in fondo, solo altrettante formule di una stessa legge».135 cit. ibid., p. 109-111.136 cfr. pp. 47-48. 137 Per Kant l’imperativo è una proposizione sintetica che per essere “sciolta” richiede una critica della ragione pratica. Spiega il filosofo nella nota a p. 73 della Fondazione: «Io, senza una presupposta tratta da una qualche inclinazione, connetto a priori con la volontà in atto, quindi in modo necessario […]. Questa è dunque una proposizione pratica, che non deduce analiticamente il volere una azione da un altro volere già presupposto». E ancora, più avanti, a p. 115: «Che
59
preoccupazione di rendere accessibile il precetto morale,
compito affidato al secondo e terzo imperativo categorico. Il
principio, o meglio la legge, per cui bisogna “agire secondo la
massima che può fare di se stessa una legge universale” è
l’espressione più propria della legge morale: è universale e
attiene all’agire pratico del soggetto come essere razionale e non
come essere vivente. Eppure è fredda, lontana proprio
dall’essere umano in quanto agente. Il rischio è che quest’ultimo
lotterà sempre per anteporre i propri bisogni, facendo pendere la
dialettica naturale tra dovere e inclinazioni dalla parte di questi
ultimi. Così Kant ritiene utile far passare un’azione attraverso
tutti e tre gli imperativi ai fini dell’accessibilità della legge
morale «e con ciò avvicinarla, per quanto sia possibile,
all’intuizione»138.
Le ultime pagine139 della seconda sezione riassumono la
differenza tra la teoria morale kantiana e quelle in voga nel suo
tempo. Il supremo principio della moralità è il principio di
autonomia della volontà, ogni altra volontà che cerca “la legge
che deve determinarla in un qualsiasi altro luogo che non sia la
conformità delle sue massime alla propria legislazione
universale” è eteronoma. Kant stabilisce una volta per tutte che
né il sentimento morale né la felicità possono fondare leggi
morali, per un motivo determinante: non possono pretendere
universalità. Il motivo di ciò risiede nel fatto che senso morale e
felicità traggono il loro fondamento dalla “particolare
costituzione della natura umana”140.
E’ un punto molto importante ai fini della comprensione della
particolare piega che ha ormai preso l’etica di Kant. Il filosofo
non esclude la natura umana dal campo dell’azione, sarebbe un
questa regola pratica sia un imperativo non può essere dimostrato con una semplice analisi dei concetti che occorrono nella volontà, perché tale regola è una proposizione sintetica; si dovrebbe andare oltre la conoscenza dell’oggetto e spingersi sino ad una critica del soggetto, ossia della ragione pura pratica […] il che è un ufficio che però non appartiene alla presente sezione».138 cit. I. KANT, ibid., p. 107.139 Mi riferisco a ibid., pp. 115-125 dove Kant espone il principio dell’autonomia e dell’eteronimia della volontà. 140 cit. ibid., p. 119.
60
grave errore farlo, e gli accenni al “cuore umano” e i concetti di
rispetto della legge e di interesse dimostrano che non l’ha mai
fatto. Piuttosto la natura umana non può essere il fondamento
dell’etica, non è lì che bisogna ricercare il luogo di origine di
concetti morali che spingono ad agire. Si tratta di
un’impostazione terribilmente delicata che porterà la teoria
morale a una sorta di stallo. Abbiamo già visto che i concetti
morali hanno una “consistenza” noumenica rispetto a quelli con
i quali conosciamo gli oggetti, ma nello stesso tempo, come
afferma Kant Critica della Ragion Pura141, essi sono ciò che
spingono il soggetto ad agire, per cui non possono essere
completamente puri, altrimenti non motiverebbero all’azione. E’
la difficoltà più grande: come rendere efficace una teoria morale
siffatta? Un’etica razionalistica di questo stampo richiede una
costruzione teorica dove l’indagine pura è necessaria al fine di
rendere universale ciò che è in mio dovere, ma se vuole essere
efficace deve anche contenere uno svolgimento applicativo:
cos’è che mi spinge ad agire, che mi motiva?
Le ultime pagine della seconda sezione servono da ponte per
introdurre la terza e ultima sezione. Kant chiarisce che la regola
con la quale il dovere si espleta, l’imperativo categorico, è il
frutto di un’indagine analitica di proposizioni pratiche sintetiche
a priori. Affinché sia possibile conoscere l’uso sintetico della
ragione pratica, ovvero come siano possibili tali proposizioni,
occorre una critica della ragione pura pratica, “di cui nell’ultima
parte presenteremo i lineamenti principali e sufficienti ai nostri
scopi”142.
Fondazione: terza sezione
141 «i concetti morali sono concetti della ragione non completamente puri, perché hanno alla base qualcosa di empirico (piacere e dispiacere)» così come citato da S. BACIN, Il senso dell’etica, ibid., p. 160.142 cit. I. KANT, Fondazione, ibid., p. 125.
61
La terza sezione della Fondazione costituisce un capitolo a sé.
Mentre in precedenza Kant ha analizzato la costituzione morale
sulla base della “conoscenza razionale comune della moralità”,
in quest’ultima parte opera una deduzione trascendentale per
spiegare non come, ma se sia possibile una tale costituzione
morale che opera nella forma della legge. Si tratta di una
deduzione che verrà abbandonata nell’impianto sistematico
futuro della filosofia morale143. Nondimeno vi sono importanti
considerazioni su cui possiamo soffermarci che riguardano la
“costrizione morale” che l’uomo avverte nella forma del dovere.
Kant presenta la curiosa situazione in cui si trova un essere
razionale che si pensa libero nell’ordine delle cause efficienti e
insieme sottoposto a queste stesse leggi, contraddizione che al
livello morale si presenta in un soggetto che si sottopone alle
leggi che esso stesso si da:
«Perciò un essere razionale […] ha dunque due punti
di vista dai quali può considerare se stesso […]: un
primo, in quanto appartiene al mondo sensibile, sotto
leggi di natura (eteronomia), un secondo, in quanto
appartenente al mondo intelligibile, sotto leggi che,
indipendenti dalla natura, non sono fondate
empiricamente bensì solo sulla ragione»144.
Mai fu più chiara una presentazione così sintetica della ‘svolta
critica’. Essa spiega molte cose. La costrizione che si prova
nell’agire sulla base di un principio di ragione è il dovere, ed è
avvertito come tale nel momento in cui il soggetto smette di
pensarsi come volontà pura e agisce concretamente. Il concetto
di obbligazione riceve così una sistemazione sua propria
all’interno della coppia soggettivo/oggettivo: ci pensiamo come
obbligati perché ci consideriamo, in quanto agenti concreti,
143 L’idea della libertà come causa della legge morale sarà lasciata cadere dal filosofo tedesco tre anni più tardi nella Critica della Ragion Pratica quando affermerà che la legge morale è un “fatto della ragione”.144 cit. I. KANT, Fondazione, ibid., p. 141.
62
appartenenti al mondo sensibile e tuttavia nello stesso tempo, in
quanto agenti morali – sotto l’idea della libertà - al mondo
intelligibile. Non si tratta di un paradosso, per lo stesso motivo
per cui possiamo considerare una stessa cosa nel modo in cui ci
impressiona (fenomenicamente) e nel modo in cui è in sé stessa
(noumenicamente). Si tratta di due rapporti differenti in cui è
coinvolto il soggetto:
«E’ però impossibile sfuggire a questa
contraddizione se il soggetto che si presume libero
pensa se stesso, quando si dice libero, nello stesso
senso o nello stesso rapporto secondo il quale,
riguardo la medesima azione, si assume come
sottoposto alla legge naturale145».
Eppure – riferisce Kant qualche rigo dopo - le due cose:
«Non solo possono benissimo stare l’una accanto
all’altra, ma devono anche essere pensate come
necessariamente riunite nello stesso soggetto»146.
Tradotto sul piano morale significa che:
«Il dover essere morale è dunque, in quanto è
membro di un mondo intelligibile, proprio volere
necessario, e viene da costui pensato come dover
essere solo in quanto si consideri insieme come
membro del mondo sensibile»147.
La libertà è quindi sempre un concetto negativo, come
indipendenza, e insieme un’idea positiva. Poiché la libertà si
espleta in un individuo che agisce nel mondo, che fa della sua
145 cit. ibid., p. 149146 cit. ibid.147 cit. ibid., p. 145.
63
causalità indeterminata qualcosa di determinato, essa non può
che presentarsi nella forma di una legge, di un comando. Un
imperativo siffatto non può essere concepito se non in questi
termini, per cui ci resterà sempre precluso come esso sia
possibile – «come la ragione pura possa essere pratica»148 -
perché la comprensione è tale solo lì dove un’esperienza è
possibile. Essendo incomprensibile la legge morale, lo è allo
stesso modo l’interesse per essa, non avendo per oggetto niente
di sensibile ma un principio di ragione. Questo è il motivo per
cui non è l’interesse che mi spinge ad agire moralmente ma la
massima che, nel momento in cui la voglio oggettiva, suscita un
interesse per me.
«[…] allora la spiegazione del come e del perché la
universalità della massima in quanto legge, dunque
la moralità, ci interessi, è per noi uomini del tutto
impossibile. Una sola cosa sin qui è certa: che la
legge non ha validità per noi perché interessa […],
ma interessa perché vale per noi in quanto uomini, in
quanto è sorta dalla nostra volontà come
intelligenza, dunque dal nostro proprio sé; ciò che
però appartiene al puro fenomeno, viene dalla
ragione necessariamente subordinato alla
costituzione della cosa in sé»149.
Lo scioglimento effettivo del paradosso avviene quindi nel
momento in cui si considera il piano intelligibile fondamento di
quello sensibile.
Lo scoglio della motivazione morale - l’impossibilità di spiegare
cos’è che mi spinge ad agire moralmente - è così in parte
giustificato dal fatto che è un campo nel quale la conoscenza
non ha alcun potere. La valutazione non è motivata così come la
motivazione non è valutabile. Due campi distinti e insieme
148 cit. ibid., p. 153.149 cit. ibid., p. 159.
64
compresenti nel dominio soggettivo. In altre parole, la
trattazione a priori della motivazione morale resta preclusa, lì
dove è invece possibile un’analisi pura per ciò che attiene le
regole con le quali la ragione organizza i principi del volere.
Kant ha chiarito a sufficienza, nell’approfondita analisi degli
imperativi svolta nella Fondazione, cosa egli intenda per ragione
pratica. Nell’ambito morale la ragione non è un semplice
strumento chiarificatore che illumina l’agire. Quest’ultimo è
piuttosto il suo uso “tecnicamente pratico” volto alla
formulazione di imperativi ipotetici: la ricerca di mezzi idonei
alla realizzazione di scopi sollecitati dall’inclinazione. Ciò
significa che la ragione pratica vera e propria non è una
semplice guida, non illumina bensì determina: ha una specifica
causalità in principi a priori che valgono come leggi per un
essere che agisce nel mondo sensibile. Per cui essa non riceve i
principi dall’esterno ma li formula in tutta autonomia. Inoltre, ed
è qui che risiede a mio avviso l’originalità e la forza del pensiero
morale kantiano, tale causalità, parafrasando la felice
espressione di S. Bacin150, è tutta interna al soggetto. Ciò
significa che nel principio a priori non si trova soltanto la regola
per agire ma anche il motivo: niente che non provenga dalla
ragione mi spinge ad agire moralmente. La ragione pratica,
quindi, non guida ma comanda e, oltre a comandare, spinge ad
agire. E’ insieme norma e motivo.
Tale ispirazione internalistica dell’indagine morale kantiana la
troviamo fin dagli anni ’70, quando il filosofo inizia a occuparsi
di teoria morale e si domanda cosa sia un’azione morale:
«la bontà di ogni azione sta nell’azione stessa […],
nel compiacimento o nel dispiacere da parte della
sola ragione per un’azione libera»151.
150 cfr. S. BACIN, Il senso dell’etica, ed. Il Mulino, Napoli 2006, p. 127. Lo studioso parla di ispirazione internalistica del pensiero morale di Kant.151 cit. Prakt. Phil. Powalski, XXV 109-110, così come citato da S. BACIN, Il senso dell’etica, ibid., p. 85.
65
Pur essendo ancora terminologicamente ambiguo nel descrivere
l’uso pratico della ragione, in queste righe emerge già quale
debba essere il punto di partenza e di arrivo della buona azione:
la ragione e nient’altro.
L’antinomia della libertà non si può sciogliere, se così fosse la
svolta copernicana non avrebbe più senso, piuttosto essa non
rientra più nel campo dell’indagine morale. Fintanto che si
pretende di conoscere la causalità spontanea della libertà il
circolo vizioso che rimanda libertà e legge morale ritorna senza
soluzione di continuità: la conoscenza si riferisce a oggetti che
appaiono e questi ultimi non possono mostrarsi che in un
determinismo senza scampo. Ma la causalità spontanea non è un
fenomeno bensì una cosa in sé.
«Come ora la ragione pura […] possa essere per sé
pratica […] è cosa di cui ogni umana ragione è del
tutto incapace»152.
La soluzione allora sta nell’incomprensibilità della libertà,
ovvero nel fatto che quest’idea è tale per cui essa può esser
pensata ma non certo conosciuta, ed è proprio questo il senso
dell’affermazione di Kant nella nota conclusiva della
Fondazione:
«E così noi certo non concepiamo la necessità
pratica incondizionata dell’imperativo morale, ma
concepiamo la sua inconcepibilità»153
Possiamo così riassumere lo status pratico dell’uomo in questo
modo:
152 cit. I. KANT, ibid., pp. 160-161.153 cit., ibid., p. 165.
66
a) E’ membro del mondo intelligibile.
b) In quanto membro di questo mondo intelligibile è
libero.
c) Se la libertà è spontaneità (indipendenza da
qualsiasi motivo determinante empirico) deve
necessariamente connotare la volontà pura come
autonoma.
d) L’autonomia è tale che, poiché l’uomo agisce nel
mondo, si espleta in una volontà soggetta alle
inclinazioni.
e) L’autonomia in un uomo soggetto alle
inclinazioni si presenta come dovere154.
Ora, se la libertà non può esser dedotta, ciò significa che la
libertà non può essere conosciuta? La risposta è ovviamente
negativa perché l’uso teoretico dell’idea della libertà è nella sola
forma di un’antinomia. Ma il suo uso pratico ha un’altra forma.
Non richiedendo un corretto uso logico del pensiero ma una
regola pratica nella forma di un imperativo che pretende validità
categorica, il fine della libertà non è la conoscenza ma il suo
“uso” da parte di una volontà determinata da un principio a
priori. In conclusione, spiegare come la ragione pura possa
essere pratica è impossibile, perché è impossibile spiegare la
realtà della libertà.
«La ragione travalicherebbe tutti i suoi limiti se essa
osasse spiegare a se stessa come la ragione pura
possa essere pratica, ciò che sarebbe tutt’uno col
compito di spiegare come la libertà sia possibile»155.
Il rischio di approdare nello scetticismo è alto, Kant lo sa bene,
ma esso è scongiurato nel momento in cui la questione viene
posta in termini diversi: se ci è preclusa la possibilità di sapere
154 cfr. M. IVALDO, Libertà e moralità a partire da Kant, ibid., p. 21.155 cit. I. KANT, Fondazione, ibid., p. ?.
67
come la ragione pura possa essere pratica, nondimeno è
possibile mostrare che vi è una ragione pura pratica. Questo è il
compito affidato alla Critica della Ragion Pratica.
Parte II: le novità della Critica della Ragion Pratica
1. La Critica della Ragion Pratica : la sua funzione aggregatrice
e il fatto della ragione (1788)
Presentare la seconda Critica come il frutto di un impulso
architettonico impedisce di cercarne le motivazioni autentiche.
Se si trattasse di un’opera spinta da un’esigenza sistematica non
si spiegherebbe il motivo per cui Kant abbia dovuto scrivere
successivamente una Metafisica dei Costumi che assolve, in
campo morale, degnamente questo compito. Invece la stesura
della Critica della Ragion Pratica156 rispecchia due esigenze. In
primo luogo quella di perseguire gli obiettivi posti a partire dalla
conclusione della terza sezione della Fondazione: sviluppare –
con una critica della ragion (pura) pratica, lì dove sette anni
prima la critica ha riguardato la ragione (speculativa) pura - e
non completare la metafisica dei costumi. In secondo luogo
156 Su questo testo mi atterrò a I. KANT, Critica della Ragion Pratica, ed. Laterza, Bari 2008, abbreviato in KpV, così come la Critica della Ragion Pura, ed. Laterza, Bari 2010, sarà abbreviata in KrV.
68
rispondere alle critiche dello scritto del 1785157, compito affidato
alla prefazione.
Lo sviluppo di una metafisica dei costumi doveva ovviamente
continuare sulla base dell’impostazione data dalla Fondazione,
in particolare dalle prime due sezioni, ma la Critica della
Ragion Pratica si costruisce in parte su un piano differente
rispetto allo scritto del 1785. Giunti a questo punto, il progetto
di una metafisica dei costumi non poteva partire nuovamente
dagli stessi strumenti concettuali dello scritto di tre anni
precedente altrimenti ci si sarebbe ritrovati di fronte ad una
sterile ripetizione. Kant ricerca così una base più profonda per
l’elaborazione della teoria morale. Il nuovo strumento
concettuale non è più la “coscienza morale comune” ma la
volontà concreta che si esprime nella forma del dovere.
Apparentemente l’una sembra escludere l’altro – la volontà
concreta si esprime in massime soggettive e il dovere in leggi
oggettive – ma in verità, trattandosi di una filosofia pratica
soggettiva, entrambe risiedono in un unico dominio pratico-
morale. L’ispirazione internalistica della filosofia morale
kantiana è un tratto caratteristico della sua teoria che il filosofo
porta avanti fin dagli anni ’60, da quando distinse tra principi
materiali e formali158. Per cui, come spiega S. Bacin, il rapporto
tra massima e legge non è mai stato problematico visto che la
norma morale, per poter essere valida come tale, deve avere un
rapporto costitutivo con la determinazione effettiva della
157 Si tratta delle critiche ricevute dai seguenti filosofi e studiosi: G. A. Tittel che sulla Grundlegung: Ueber Herrn Kants Moralreform, Frankfurt und Leipzing, 1786, p. 35, criticava gli imperativi come semplici formule senza alcun nuovo principio della moralità, per cui secondo lo studioso Kant “annuncia come nuove in un linguaggio incomprensibile cose del tutto note”, accusa respinta perché non critica niente ma conferma proprio ciò che Kant intende con gli imperativi, ovvero nient’altro che formule; il pastore H. A. Pistorius che nella Grundlegung, «Allgemeinen deutschen Bibliothek», Bd. 66, p. 447 e sgg., obiettava che il concetto di bene non è stabilito prima del principio morale. Kant risponde (in KpV, ibid., A105-A111, pp. 129-137) con la distinzione tra bene come gute e wohl e male come böse e uebel arrivando alla conclusione che partire dal concetto di bene anziché dalla legge significa rinnegare il suo stesso metodo che analizza prima di definire; infine J. Fr. Flatt osserva che il rimando reciproco di legge morale e libertà è un circolo vizioso. In una nota nella KpV, ibid., p. 5, Kant risponde con la famosa distinzione tra la libertà come ratio essendi della legge morale e quest’ultima come ratio cognoscendi della libertà. «Poiché, se la legge morale non fosse prima pensata chiaramente nella nostra ragione, noi non ci terremmo mai autorizzati ad a m m e t t e r e una cosa come la libertà […]. Ma se non vi fosse libertà, la legge morale non si potrebbe assolutamente t r o v a r e in noi». 158 cfr. I. KANT, Scritti precritici, ed. Laterza, Bari 2000, in Indagine sulla distinzione dei principi della teologia naturale e della morale, pp. 219-236.
69
volontà, che si esprime in massime159. La norma, quindi, risiede
nel soggetto che agisce sulla base di una massima. Vedremo
come nella Critica della Ragion Pratica il rapporto tra la
dimensione soggettiva della volontà e la sua determinazione
oggettiva (la legge morale) costituirà il vero nucleo tematico
innovativo apportato alla teoria morale: la legge morale come un
fatto della ragione.
La Critica della Ragion Pratica rispecchia nella sua struttura
esteriore, ma in senso inverso160, la KrV: Dottrina degli elementi,
suddivisa in Analitica e Dialettica, e Dottrina del metodo.
Mentre però nella prima Critica la sezione sull’Architettonica
della Dottrina trascendentale aveva avuto un ruolo preminente,
le parti corrispondenti della seconda Critica non avanzarono
affatto un progetto sistematico. Questo dimostra come la
seconda Critica non segue nella sostanza la prima, essendo
guidata com’è da un interesse pratico e non teoretico. La
somiglianza esteriore tra la prima e la seconda Critica riflette
quindi soltanto un’identità di strumenti concettuali piuttosto che
di contenuti: in entrambe le opere si tratta di un’analisi teorica.
La Critica della Ragion Pratica prosegue quindi il percorso di
ricerca avviato nella Fondazione anche se, come vedremo, si
distacca del tutto dai contenuti della terza sezione di
quest’ultima opera.
159 cfr. S. BACIN ne Il senso dell’etica, ed. Il Mulino, Napoli 2006, p. 206: «Se deve esserci una norma morale pienamente valida come tale, essa deve avere un rapporto costitutivo con la determinazione effettiva della volontà, che si esprime in massime». 160 A confrontare l’architettura della KrV con la KpV ci pensa lo stesso Kant nella Critica della Ragion Pratica, ibid., A 161, p. 197: «Così l’analitica della ragion pura pratica divideva in modo affatto analogo all’analitica della teoretica l’intero campo delle condizioni del suo uso, ma in ordine inverso. L’analitica della ragion pura teoretica veniva divisa in estetica trascendentale e logica trascendentale; quella della ragion pura pratica, invece, in logica ed estetica della ragion pura pratica (se mi è lecito qui usar semplicemente per analogia queste denominazioni, che d’altronde non sono del tutto convenienti): la logica, a sua volta, si divideva là in analitica dei concetti e analitica dei princìpi, qui in analitica dei princìpi e analitica dei concetti. L’estetica là aveva ancora due parti […]; qui la sensibilità non viene affatto considerata come capacità d’intuizione, ma semplicemente come sentimento, e relativamente ad esso la ragion pura pratica non permette nessuna divisione ulteriore». Sul ruolo del sentimento nella KpV faremo un’analisi approfondita più avanti.
70
La seconda Critica si presenta come un aggregatore161 degli
elementi di teoria morale sviluppati nei vent’anni precedenti.
Col rischio di risultare eccessivamente semplificativo, si
potrebbe affermare che la Critica della Ragion Pratica è stata
scritta in ultima analisi sulla spinta di tre fattori:
1) Rispondere alle critiche dei recensori della Fondazione.
2) Rinunciare alla deduzione trascendentale della libertà e
dimostrare la condizione di possibilità della legge morale
presentando quest’ultima come un fatto della ragione.
3) Aggregare in un’unica esposizione i concetti presentati in
vent’anni di scritti.
Le risposte ai critici della Fondazione si trovano nella
prefazione del testo, e non è necessario approfondire qui come
Kant ribatta ai recensori162. Possiamo quindi iniziare
direttamente dal punto 2: la legge morale come un fatto della
ragione, contenuto nuovo della teoria morale kantiana
Com’è noto la Critica della Ragion Pratica è stata scritta in un
periodo piuttosto breve, nel giro di pochi mesi, tra la primavera
e l’estate del 1787. Il motivo risiede in parte nello spazio
lasciato aperto dalla terza sezione della Fondazione dove Kant,
come ho mostrato nel capitolo precedente, cerca di rispondere
attraverso una deduzione trascendentale alla domanda circa la
condizione di possibilità dell’imperativo categorico, ovvero se
sia possibile una legge morale. Tale condizione è la libertà,
ovvero l’indipendenza della volontà dalla legge naturale dei
fenomeni163, indipendenza alla quale appartiene non solo l’uomo
ma - seguendo l’impostazione di metodo dell’indagine morale -
161 Termine preso dal linguaggio informatico: «[…] in linea di principio, gode lo status di aggregatore qualsiasi software o applicazione web che abbia il compito di ricercare informazioni o contenuti frammentati sul web e riproporli in "forma aggregata" per una migliore fruizione», fonte Wikipedia, link: http://it.wikipedia.org/wiki/Aggregatore. In questo caso i “contenuti frammentati” sono gli elementi di teoria morale degli scritti pre-critici e fondazionali, inclusa la Dissertazione.162 Si veda la nota alla pagina precedente.163 cfr. I. KANT, Critica della Ragion Pratica, ibid., A53, pp. 61-63.
71
ogni essere razionale. Purtroppo, come osservano i recensori
della Fondazione164, la libertà rapportata alla legge morale crea
un circolo vizioso: siamo liberi perché seguiamo la legge morale
e seguiamo la legge morale perché siamo liberi. La deduzione
gira senza soluzione di continuità intorno alla domanda iniziale:
è possibile un imperativo categorico?
Già nella prefazione della Fondazione165 Kant precisa che il
problema della critica della ragione pratica non è tanto di
esonerarla dagli errori in cui la ragione speculativa si imbatte
quanto di esibirne la sua realtà, ovvero dimostrare come la
ragione pura è per se sola pratica166. Da questo presupposto si
può quindi intuire come la dialettica tra libertà e legge non può
essere un ostacolo insormontabile per la ragione. La terza
sezione della Fondazione affronta proprio questa questione ma,
pur sostenendo che il concetto della moralità si riconduce
all’idea della libertà, il filosofo deve ammettere di non aver
dimostrato la realtà della libertà. Perciò il problema della
deduzione resta e può essere riassunto in questi termini: se
dall’idea della libertà scaturisce la legge morale non si spiega
perché, come esseri ragionevoli, ci si debba sottoporre a questa
legge167. In realtà la soluzione è a portata di mano e risiede nella
svolta critica, Kant ne è consapevole, e nelle ultime pagine della
Fondazione anticipa quella che sarà la strada da percorrere per
evitare il circolo vizioso:
«Cercare se, quando ci pensiamo come cause
operanti a priori con libertà, non ci mettiamo da un
altro punto di vista da quello in cui ci mettiamo
quando ci rappresentiamo noi stessi, nelle nostre
azioni come effetti che ci stanno dinnanzi»168. 164 In particolare J. Fr. Flatt.165 cfr. I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, ibid., p. ?.166 cfr. M. IVALDO, Libertà e moralità a partire da Kant, ed. Il Prato, Saonara 2009, p. 18.167 cfr. I. KANT, Fondazione, ibid., p. 135: «[…] che ci consideriamo liberi nell’agire, e dobbiamo tuttavia ritenerci sottoposti a certe leggi per trovare, semplicemente nella nostra persona, un valore che possa compensarci di ogni perdita di ciò che procura un valore al nostro stato, e come ciò sia possibile, quindi perché la legge morale ci obblighi, non possiamo in questo modo ancora comprenderlo». 168 cit. ibid., p. 151.
72
Mettersi da “un altro punto di vista” non è nient’altro che la
prospettiva critica:
«Il concetto di un mondo intelligibile è dunque solo
un punto di vista che la ragione si vede costretta a
prendere al di fuori dei fenomeni, per pensarsi come
pratica»169.
L’uomo, in quanto essere razionale e insieme senziente, è
cittadino di due mondi, o meglio vede lo stesso mondo da due
prospettive differenti, intelligibile e sensibile, in forza del quale
uno stesso oggetto può essere ora pensato in se stesso, ora
intuito empiricamente come fenomeno per poter esser
conosciuto. Ma, se il concetto di fenomeno presuppone la cosa
in sé170, quando l’uomo pensa se stesso come fenomeno della
natura deve ammettere che a fondamento di tale soggetto stia il
suo io non-fenomenico. Tale soggetto “in sé” è ovviamente
libero poiché non è affetto, non appartiene al mondo sensibile
bensì a quello intelligibile dove l’indipendenza dalle leggi di
natura lo pone come pura spontaneità. La facoltà che lo
distingue da tutto ciò a cui è affetto, una facoltà spontanea
quindi, è la ragione. Perciò l’uomo grazie alla pura attività della
ragione appartiene al mondo intelligibile e, anche se il
determinismo è la legge causale della natura, la pura spontaneità
della ragione lo sottrae nel pensiero a questa causalità,
rendendolo libero.
In realtà questa non è la soluzione del problema (è possibile un
imperativo categorico?) perché non fa che ripetere la terza
antinomia della Critica della Ragion Pura: nel mondo, al
determinismo della legge di natura si affianca come una retta
parallela la causalità spontanea della ragione mediante la libertà.
169 cit., ibid., p. 153. 170 Ibid., p. 159: «ciò che appartiene al puro fenomeno, viene dalla ragione necessariamente subordinato alla costituzione della cosa in sé».
73
Resta quindi incomprensibile se questa pura spontaneità possa
causare un’azione libera nel mondo sensibile. La risposta non
c’è, afferma la ragion pura, poiché avvilupperebbe il pensiero in
una contraddizione. Invece c’è, ribatte la ragion pratica, perché
il circolo vizioso teoretico tra libertà e legge non ha ragione di
esistere sul piano pratico. La causalità spontanea della libertà,
anche se risiede in un essere che non può sottrarsi al
determinismo della legge di natura, per cui non può conoscere
tale causalità, pur essa gli appartiene nella sua essenza. Vediamo
come.
Kant osserva che la ragione pratica per poter esser giustificata
nella sua realtà non deve, come abbiamo visto, conoscere ma
piuttosto esercitare il suo ufficio che consiste nel determinare la
volontà171. Ma se questa volontà non è libera, cos’è che permette
alla ragione di essere pratica, cos’è che nella coscienza
dell’uomo viene avvertito immediatamente come un prodotto di
essa? Non può essere nient’altro che la legge.
Per il filosofo è innegabile che il soggetto morale nutra un
interesse verso la legge. Una convinzione che risale fin dagli
albori della sua ricerca del principio della moralità. Ora tale
coscienza di una realtà pratica della ragione è la legge morale, la
sua realtà che, seppur problematica, ovvero indimostrabile,
nondimeno è reale. «[…] Qui la ragion pura pratica in sé è
immediatamente legislativa»172. La cosa è abbastanza singolare,
Kant ne è consapevole:
«Poiché il pensiero a priori di una legislazione
universale possibile, il quale dunque è
semplicemente problematico, vien presentato
incondizionatamente come legge, senza prendere in
171 I. KANT, Critica della Ragion Pratica, ibid., p.35: «I principi pratici sono proposizioni che contengono una determinazione della volontà»..172 cit., ibid., p. 65.
74
prestito qualcosa dall’esperienza o da una volontà
esterna»173.
E se la coscienza della legge resta, mentre è preclusa la sua
conoscibilità, allora è necessario stabilire la legge morale come
un fatto, ovvero è tale non perché la si possa dedurre ma perché
si impone174. La coscienza della legge morale è la realtà della
ragion pura pratica, il fatto. In termini inversi, la realtà della
ragion pratica è la coscienza di essa, il fatto della ragione.
La teoria morale kantiana arriva così ad un traguardo
importante. Kant rinuncia definitivamente alla deduzione della
libertà perché quest’ultima non è giustificabile: la legge è un
fatto non perché si può dedurre dalla coscienza della libertà ma
perché si impone come proposizione sintetica a priori175.
L’impasse in cui si cade nel dedurre la libertà, concetto
mediante il quale una legge morale è possibile, si evita
mantenendo da un lato la funzione della libertà come condizione
di possibilità della legge (ratio essendi), dall’altro rinunciando
alla sua giustificazione per il fatto che l’interesse della ragione
pratica è solo per la legge. La libertà non è la ratio cognoscendi
della legge ma è la legge ad essere ratio cognoscendi della
libertà:
«[...] la spiegazione del come e del perché la
universalità della massima in quanto legge, dunque
la moralità, ci interessi, è per noi uomini del tutto
impossibile. Una sola cosa sin qui è certa: che la
legge non ha validità per noi perché interessa […],
ma interessa perché vale per noi come uomini, in
173 cit. ibid., pp. 65-67.174 cfr. ibid., p. 67: «La coscienza di questa legge fondamentale si può chiamare fatto della ragione, non perché si possa dedurre per ragionamento da dati precedenti della ragione, per es., dalla coscienza della libertà (perché questa coscienza non ci è data prima), ma perché essa ci s’impone per se stessa come proposizione sintetica a priori, la quale non è fondata su nessuna intuizione né pura né empirica».175 cfr. ibid supra.
75
quanto è sorto dalla nostra volontà come
intelligenza»176.
Lo status in cui il soggetto si trova nel momento in cui si chiede
cosa debba fare è questo: egli è libero di fare ciò che deve non
semplicemente ciò che vuole. Se la sua libertà fosse tale perché
fa, la sua volontà sarebbe santa e una legge non sarebbe più
necessaria. L’esercizio della libertà non è così ulteriormente
deducibile se non a partire dal fatto che la ragione pratica è
immediatamente legislativa. Vediamo come l’impostazione della
terza sezione della Fondazione è abbandonata del tutto, ma non
la sua convinzione di fondo: la libertà, pur non essendo
deducibile, nondimeno costituisce l’essenza dell’azione morale.
Il motivo per cui ci sentiamo obbligati risiede nel fatto che la
volontà morale, anche se è libera perché determinata in tutta
autonomia dalla ragione, pur è costantemente soggetta alle
inclinazioni. Se le cose non stessero così il determinismo
sarebbe la legge che comanda l’agire morale e una filosofia
morale non sarebbe nient’altro che una filosofia della natura.
La legge è quindi il principio morale supremo che, non avendo
fondamento empirico ma a priori, ci dà la coscienza della nostra
libertà. Essa viene avvertita in noi come un fatto della ragione in
quanto si manifesta immediatamente nella nostra coscienza, e la
coscienza di tale legge permette di conoscere la libertà,
presupposto quest’ultimo della realtà della legge.
Riassumendo quindi, la legge morale non ha bisogno di una
deduzione ma si giustifica da sé. Anzi, essa, come fatto,
consente di dedurre la realtà pratica del concetto di libertà. Dal
punto di vista teoretico, infatti, l'esistenza della libertà non è
suscettibile di dimostrazione, dal momento che essa, in quanto
tesi della terza antinomia cosmologica, cade al di fuori
dell'ambito fenomenico. Dal punto di vista pratico, invece, la
libertà è una condizione sostanziale (ratio essendi) della
176 cit. I. KANT, Fondazione, ibid., pp. 157-159.
76
moralità: una moralità priva di libertà non sarebbe possibile,
perché verrebbe meno la capacità del soggetto di essere causa
prima della propria azione, e quindi dell’uomo morale di essere
legislatore di se stesso. D'altra parte, attraverso l'esperienza della
libertà l'uomo acquista la consapevolezza del "fatto" morale: la
moralità è dunque la condizione cognitiva (ratio conoscendi)
della libertà. Pur non potendo mai accertarne teoreticamente la
verità, occorre quindi ammettere la libertà umana per non
contraddire la realtà di fatto della legge morale: la libertà è un
postulato della ragion pratica. In ultima analisi, quindi, il circolo
vizioso tra libertà e legge non è aggirato né sciolto ma soltanto
posto lì dove si presenta: nello spazio teoretico del pensiero. In
tale luogo la morale non ha giurisdizione non trattandosi di
alcuna attività pratica:
«La libertà è senza dubbio la ratio essendi della
legge morale, ma la legge morale è la ratio
cognoscendi della libertà. Poiché, se la legge morale
non fosse prima pensata chiaramente nella nostra
ragione, noi non ci terremmo mai autorizzati ad
ammettere una cosa come la libertà […]. Ma se non
vi fosse la libertà, la legge morale non si potrebbe
assolutamente trovare in noi»177.
Fra libertà e legge morale vi è quindi un rimando reciproco
all’interno di una dimensione pratica e non teoretica, per cui il
rischio di un circolo vizioso speculativo è scongiurato. E’ il
rapporto tra due realtà pratiche incondizionate, con la differenza
che della libertà possiamo avere un concetto negativo
(l’indipendenza da qualsiasi motivo determinante empirico) –
per cui possiamo conoscerla indirettamente, come possibilità, a
partire dalla legge morale - mentre la legge morale la
avvertiamo immediatamente in noi nella coscienza quando
177 cit. ibid., nota a p. 5.
77
giudichiamo di poter fare qualcosa perché siamo consci di dover
fare qualcosa. Quando noi, in virtù della libertà, pensiamo a noi
stessi quali cause efficienti a priori, assumiamo un punto di vista
diverso da quello nel quale noi ci rappresentiamo come effetti
visibili. E’ il doppio status dell’essere umano in quanto
individuo finito dotato di ragione: può pensare le cose in se
stesse e conoscerle solo come esse appaiono.
Ricapitolando, la libertà è quindi inconoscibile sul piano
teoretico, pensabile com’è nella sola forma di un’antinomia, (è
quindi pensabile solo in senso logico, nel senso di non
contraddittorio); non è conoscibile neanche sul piano morale
(non siamo assolutamente liberi), ma la sua possibilità pratica è
invece assolutamente reale, essendo ancorata alla coscienza
immediata della legge, al fatto che la ragion pratica non può che
esercitarsi nella forma di una costrizione, di uno schiacciamento
delle inclinazioni, di un comando. In altre parole noi ri-
conosciamo a priori la possibilità della libertà ma a questo tipo
di conoscenza178 non arriviamo mai realmente se non a partire
dalla legge morale.
Abbiamo in questo modo un soggetto morale che, nel momento
in cui agisce, lo fa in tutta autonomia. A mio avviso M. Ivaldo
descrive efficacemente la particolare condizione di un soggetto
morale autonomo posto in questi termini allorché definisce
l’autonomia kantiana come il progetto della volontà pura179. Una
volontà santa è una volontà esente dalle inclinazioni che agisce
immediatamente in conformità ai principi razionali. Invece la
volontà umana, che in quanto finita è costantemente sotto il
gioco degli appetiti, si pone immediatamente come un progetto.
178 Sembrerebbe sconsiderato utilizzare il termine “conoscere” dal momento che si è affermato poc’anzi l’assenza di un uso teoretico della ragion pratica. In realtà l’uso del termine “possibilità” affranca il concetto di libertà da ogni contenuto sensibile: esso si presenta come una forma di conoscenza a priori. E’ il duplice uso delle categorie: da un lato sono concetti vuoti “riempiti” dall’intuizione empirica, dall’altro possono estendersi «più in là dell’intuizione sensibile, poiché pensano oggetti in generale, senza ancora guardare alla speciale maniera (di sensibilità) nella quale gli oggetti possono esserci dati», cit. I. KANT, Critica della Ragion Pura, ibid., Analitica, lib. II, Cap. III, p. 209. 179 «L’autonomia è, verrebbe da dire, un’idea pratica - un progetto della volontà pura non un possesso già concluso dell’io volente – e l’azione a essa conforme si presenta come dovere» in.M. IVALDO, Libertà e moralità a partire da Kant, ed. Il Prato, Saonara 2009, p. 21.
78
Occorre però spiegare come Kant inquadri il termine “fatto”
all’interno di una teoria morale che fa del formalismo il suo
punto di partenza. L’uso di questa parola, insomma, sembra
inappropriato.
L’obiezione alla “fattualità” della legge è prima di tutto
terminologica, poiché “fatto” rientra nel campo di ciò di cui si fa
esperienza. Può risultare fuorviante quindi usare l’espressione
“dato di fatto” per ciò riguarda l’uso, seppur pratico, della
ragione pura. D. Henrich sintetizza così il dubbio circa l’uso di
questi termini:
«Un concetto del genere contiene apparentemente un
controsenso. Se la ragione viene definita come
facoltà di conoscenze a priori, non si vede come essa
possa contenere qualcosa di meramente fattuale. Il
fattuale sembra appartenere all’ambito
dell’esperienza, mentre la ragione deve esigere la
pura trasparenza propria del capire»180.
Sembra quindi di trovarsi di fronte a uno sconfinamento dei
limiti tracciati dalla metafisica, riassumibile in questo problema:
com’è possibile un’esperienza - seppure interna – di qualcosa di
dato a priori? A ben vedere in ambito morale la questione è
facilmente risolvibile. Se “fatto” fosse ciò che accade, allora ad
esso si applicherebbe un giudizio. Il fatto della ragione invece
non è affatto un giudizio ma ciò che la ragione pratica fa quando
esercita se stessa. Come spiega chiaramente M. Ivaldo181, il
termine factum, sia nel suo uso latino che nella traslitterazione
tedesca, deve essere inteso come una Tat, un’azione, e non come
un tatsache, uno stato di fatto. «Il factum – spiega Ivaldo – è un
atto della ragione, ovvero […] la ragione è pratica in quanto fa
180 D. HENRICH, Der Begriff der sittlichen Einsicht und Kants Lehre vom Faktum der Vernuft, 93; così come riportato da G. B. SALA, Immanuel Kant, Critica della Ragion Pratica, un commento, cit., pp. 128-129. 181 cfr. M. IVALDO, Libertà e moralità a partire da Kant, cit., pp. 23-25.
79
qualcosa»182. La ragione pratica non produce conoscenza ma
determina la volontà esercitando un comando in un essere finito.
La coscienza immediata di questa obbligazione è l’esperienza
interna che ogni adulto fa quando si pone la domanda: “Che
cosa devo fare?”. E’ l’esperienza inesplicabile e incomprensibile
di poter scegliere tra i molteplici corsi di azione fisicamente
possibili183, non importa se su tale scelta pesa l’incognita della
sua realizzazione.
Nella Critica della Ragion Pratica il fatto della ragione viene
presentato in una serie di termini diversi: coscienza della legge
morale184, autonomia del principio di moralità185, legge
morale186. Tutti sinonimi che insieme indicano una ragione
pratica, che agisce. La norma come attività, il fatto della legge
come un dover essere per il volere. “Fatto della ragione”, allora,
non è un oggetto posto di fronte a un soggetto ma la volontà del
soggetto come presenza attiva187 di un presupposto normativo
oggettivo. Per questo si tratta di un concetto che rientra nel
dominio pratico e non teoretico.
La fattualità della legge come la presenza attiva di un
presupposto normativo significa, in ultima analisi, che non si
può argomentare la legge morale ma solo riscontrarne
l’esercizio, il suo fatto appunto. Questo è il motivo per cui la
legge morale non accade, è bensì la ragione pura che si fa
pratica. Come riassume S. V. Rovighi:
«il termine “fatto” indica un dato, una realtà che si
trova, si scopre, non si deduce; il termine “della
182 cit. ibid., p. 24.183 cfr. G.B. SALA, ibid.184 cfr. I. KANT, Critica della Ragion Pratica, ibid., p. 67.185 cfr. ibid. p. 42; ibid. p. 91.186 Cfr. ibid. p. 43; ibid. p. 93.187 S. BACIN, Il senso dell’etica, cit., p. 212: «E’ stato notato che spesso Kant chiamò “fatto” tanto la legge morale, quanto la consapevolezza di essa; questo si spiega appunto perché non si tratta di un oggetto posto di fronte a un soggetto […]. Nel “fatto” emerge il momento portante dell’operare della volontà, come presenza attiva di un presupposto normativo, e proprio questo non potrebbe emergere in una dimostrazione teoretica».
80
ragione” indica che quella realtà che è la legge
morale non è una realtà sensibile»188.
Non essendo la legge morale alcunché di intuibile (per Kant
l’intuizione è la rappresentazione di un oggetto sensibile), essa è
ciò che si impone alla coscienza nell’atto di formarci una
massima per l’agire189. Norma e volontà, legge e massima o, per
usare i vecchi termini, principio formale e materiale dell’agire,
trovano ora una corrispondenza reciproca nell’io volente che
sceglie cosa fare sulla base di una massima che sia preminente
sulle altre.
La “domanda morale” ha una sola risposta, secondo questa
forma: la massima in base alla quale compio un’azione deve
valere per tutti gli esseri razionali come fosse una legge
universale di natura. Ed è questa legge, nella sua pura forma, a
presentarsi come un fatto. Scrive Kant:
«[…] Per riguardare senza falsa interpretazione
questa legge come d a t a, si deve bene notare che
essa non è empirica, ma è il fatto particolare della
ragion pura, la quale per esso si manifesta come
originariamente legislatrice»190.
E qualche pagina più avanti:
«[…] la legge morale […], pure presenta un fatto
assolutamente inesplicabile con tutti i dati del
mondo sensibile e con tutto l’ambito teoretico della
nostra ragione, un fatto che ci indica un mondo
dell’intelletto puro, anzi lo d e t e r m i n a in modo
affatto p o s i t i v o e ce ne fa conoscere qualcosa, e
cioè una legge»191.
188 cit. S. V. ROVIGHI, Introduzione allo studio di Kant, ed. La Scuola, Brescia 2001, pp. 259-260. 189 cfr. M. IVALDO, ibid., p. 26.190 cit. I. KANT, Critica della Ragion Pratica, ibid., A56, p. 67.191 cit. ibid., A74, p. 93.
81
La conoscenza che l’uomo fa della sua libertà è il frutto
dell’esperienza della manifestazione della legge morale in lui
come di una legge avvertita immediatamente nella coscienza. La
metafisica non è violata; lo sarebbe stata se avesse confermato la
deduzione trascendentale della libertà, mentre invece il principio
supremo della ragion pratica si può esporre ma non dedurre:
«come sia possibile questa coscienza delle leggi
morali, o, che è lo stesso, quella della libertà, non si
può spiegare di più»192.
Se ne può solo prendere atto quindi, come un fatto. L’oggetto
della ragion pratica è ora uno solo, la legge, con due qualità
specifiche fondamentali: un universale concetto della ragione
prodotto in tutta autonomia.
L’indagine morale si è mossa fin qui nel campo sicuro della
valutazione, dove il formalismo dell’etica kantiana ha il suo
approdo sicuro. Ma il filosofo sa bene che l’altro campo, quello
della motivazione, non può esser lasciato in sospeso. Nella KpV
al carattere motivante dell’agire morale Kant dedica un capitolo
intero, il terzo dell’Analitica, pur senza andare al di là di quanto
già affermato nei Sogni di un visionario, nelle Reflexion e nella
Fondazione.
192 cit., ibid., A79, p. 99.
82
Excursus: i presupposti teorici del “fatto della ragione” nelle
riflessioni degli anni ’70
Nella seconda Critica la qualità attiva della norma - la volontà
come presupposto normativo – connota la legge morale come un
fatto della ragione. Ma già negli anni ’70, durante i corsi svolti
all’Università di Königsberg, Kant sottolineava questa qualità
specifica della legge morale:
«Ogni obbligazione implica non solo una necessità
dell’azione, ma anche una costrizione, un rendere
necessaria l’azione; perciò l’obligatio è una
necessitatio e non una necessitas»193.
193 cit. I. KANT, Lezioni di etica, ed. Laterza, Bari 1984, p. 18.
83
In questi elementi di teoria dell’obbligazione kantiana,
presentati sulla base dei manuali di Baumgarten, possiamo
notare l’impostazione teorica del primo capitolo dell’Analitica
della ragion pura pratica. Se l’obbligazione morale, che non è
ipotetica ma categorica, fosse semplicemente ciò che è
necessario, non avrebbe importanza sapere se ciò che mi obbliga
sia la mia ragione, la ragione di altri o, peggio, un’inclinazione,
e la filosofia morale non avrebbe più come postulato la libertà,
né il presupposto dell’universalità, trasformandosi di
conseguenza in un’antropologia. Ma se si definisce
l’obbligazione come un rendere necessario (necessitatio), un
volere un’azione come necessaria, l’azione morale diventa
l’attività razionale propria di un essere libero, seppur finito.
Sentirsi moralmente obbligati, quindi, non è un esser costretti,
quella è solo la curiosa situazione in cui si trova un soggetto
morale che guarda se stesso dal punto di vista delle inclinazioni.
Obbligare è invece un obbligarsi, volere ciò che deve essere.
Il presupposto della legge è quindi la libertà come ciò che è in
mio potere. Kant lo afferma già negli anni ’70:
«Quando le azioni non sono libere e la personalità
non vi è coinvolta, neppure si produce alcun
obbligo. Così un uomo non ha alcun obbligo di
trattenersi dal singhiozzo, perché non è cosa che sia
in suo potere. Un obbligo presuppone, dunque,
l’esercizio della libertà»194.
Dieci anni dopo, nella seconda Critica, tale presupposto attivo di
un’esigenza normativa riceve un nome e una funzione: fatto
della ragione.
194 cit., ibid., p. 25.
84
1.1 Il movente
La legge morale è un fatto, l’unico fatto per la ragion pratica.
Nel dominio di tale legge entrano in gioco tanto la valutazione
che la motivazione di un’azione. Kant ne è ben consapevole,
infatti scrive [corsivo mio]:
«Dunque, la legge morale, com’è il motivo
determinante formale dell’azione mediante la ragion
pura pratica; com’è anche il motivo determinante
materiale, ma soltanto oggettivo, degli oggetti
dell’azione chiamati bene e male; così è anche il
motivo determinante soggettivo, cioè il movente di
quest’azione»195.
195 cit. I. KANT, Critica della Ragion Pratica, ibid., A124, p. 165.
85
Come abbiamo visto, nei Sogni di un visionario Kant parla del
sentimento morale come di un riflesso della volontà e, in un
appunto delle Reflexionen196, come di un’ipotesi per spiegare “il
fenomeno dell’approvazione che accordiamo ad alcuni tipi di
azioni, piuttosto che una dottrina che debba stabilire massime e
principi primi che valgano oggettivamente”. Tutte definizioni
negative del sentimento morale. Ora, forte del ruolo definitivo
dato alla legge morale attraverso il “fatto”, il filosofo è ora
pronto ad andare più al fondo della questione: dare al sentimento
morale una connotazione affermativa.
In questo terzo capitolo della seconda Critica Kant aggrega le
riflessioni sparse sul sentimento morale fatte negli scritti
precedenti, rendendo questo concetto - così inevitabilmente
legato al campo delle inclinazioni - meno ambiguo per la teoria
morale.
Se, afferma il filosofo, ciò che determina la volontà è la legge
morale che esclude ogni impulso sensibile, allora:
«In questo senso, dunque, l’effetto della legge
morale come movente è soltanto negativo, e come
tale può essere conosciuto a priori […]. Quindi
possiamo vedere a priori che la legge morale, come
motivo determinante della volontà, perché reca
danno a tutte le nostre inclinazioni, deve produrre un
sentimento che può esser chiamato dolore»197.
Questo dolore è frutto, afferma Kant, di un indebolimento della
presunzione, ovvero della compiacenza verso se stessi. Eppure
questo schiacciamento del proprio ego, essendo causato dal
proprio intelletto in forza del concetto della causalità
intellettuale198 (libertà) - e non da qualcosa di esterno ad esso -
196 cfr. p. 20 della tesi.197 cit. I. KANT, Critica della Ragion Pratica, ibid., A129, p. 159.198 cfr. ibid., A130-131, p. 161.
86
eleva il soggetto in quanto essere dotato di ragione. Per cui il
dolore è tale solo se considerato sotto l’aspetto di un soggetto
che agisce per impulsi, ma è insieme rispetto della legge per
quello stesso soggetto consapevole di agire in base a principi di
ragione, ovvero in tutta autonomia. Così questa legge:
«[…] quando in opposizione al contrario soggettivo,
cioè alle inclinazioni in noi, indebolisce la
presunzione, essa è nello stesso tempo un oggetto di
rispetto»199.
Dunque il sentimento morale non è tale per cui sentiamo
qualcosa come oggetto dei sensi, ma perché avvertiamo il peso
della legge, in opposizione ad ogni impulso dei sensi, come un
principio di ragione, per cui esso si presenta come dato a priori.
Così qualche rigo dopo Kant afferma:
«[…] il rispetto alla legge morale è un sentimento
che vien prodotto mediante un principio
intellettuale; e questo sentimento è il solo che noi
conosciamo affatto a priori».
Il sentimento morale si presenta esclusivamente sul piano
razionale. Ma resta pur sempre un sentimento. Ragion per cui la
condizione del sentimento morale è la sensibilità, le nostre
inclinazioni, ma il suo fondamento è la legge. Così esso
presuppone, per essere avvertito, non la sensazione ma la
ragione nel suo essere pratica, ovvero la legge morale stessa:
«[La legge morale] non precede nessun sentimento
nel soggetto […]. Invero ciò è impossibile, perché
ogni sentimento è sensibile […]. Piuttosto, il
sentimento sensibile, che è fondamento di tutte le
199 cit. ibid.
87
nostre inclinazioni, è bensì la condizione di quella
sensazione che chiamiamo rispetto, ma la causa
della determinazione di quel sentimento risiede nella
ragion pratica»200.
La terminologia usata da Kant non è delle più efficaci visto che
il sentimento come tale presuppone insieme la sensibilità e nello
stesso tempo, come sentimento morale, la ragione pratica. Ma
quello che intende è chiaro: il sentimento sensibile è la
condizione del sentimento del rispetto, ma tale sentimento ha la
sua causalità in uno schiacciamento delle inclinazioni. In altri
termini il sentimento morale è il gioco tra legge morale è
inclinazione, gioco in cui ad avere la meglio è la legge che
determina la sensazione di sentirsi costretti da qualcosa che non
è ma deve essere. Quel “riflesso della volontà” descritto nei
Sogni di un Visionario è ora ulteriormente specificato come una
“condizione causata a priori di quella sensazione che chiamiamo
rispetto”. Ma, se tale sentimento è scatenato dall’assenza di ogni
inclinazione, poiché è causato dalla legge morale, quindi in una
pura forma, che senso ha continuare a usare il termine
“sentimento”, così legato a ciò che si patisce, tenendo anche
presente, come precisa Kant, che non si tratta di una sensazione
patologica ma prodotta praticamente?201. Ed ecco infatti che
Kant affronta la questione terminologica del sentimento morale
con una chiarezza espressiva mai raggiunta in precedenza:
«E così il rispetto della legge non è un movente alla
moralità, ma è la moralità stessa considerata
soggettivamente come movente»202.
Eccoci alla chiave di volta, la formula che a Kant mancava. Se il
sentimento fosse il movente l’azione morale non sarebbe niente
200 Ibid., A134, p. 165.201 cfr. ibid.: «[…] e perciò questa sensazione, per la sua origine, non si deve chiamare patologica, ma p r o d o t t a p r a t i c a m e n t e».202 cit., ibid. pp.165-166.
88
di più che un’agire motivato dal senso morale. Invece il movente
in sé, oggettivo, dell’azione è solo la legge morale, il suo essere
un fatto. Mentre è il movente soggettivo ad essere il rispetto
della legge. Solo quando consideriamo soggettivamente la legge
avvertiamo in noi un sentimento morale, e tale sentimento è
motivante solo quando valutiamo soggettivamente la necessità
oggettiva di un’azione.
Excursus: il movente come disposizione soggettiva. La questione
terminologica del sentimento morale in alcuni scritti degli anni
’60 e ‘70
Abbiamo visto come i contenuti del terzo capitolo dell’Analitica
della Critica della ragion pratica non apportano nessuna novità
di rilievo alla teoria morale, semmai chiariscono con termini più
appropriati quale ruolo abbia quel sentimento che sorge quando
l’uomo-essere-finito-dotato-di-ragione avverte il prodotto
pratico della sua ragione: la legge. A questo punto sarebbe allora
più appropriato definire il sentimento morale come una
disposizione soggettiva piuttosto che un sentimento, ovvero,
proprio come afferma Kant nell’Analitica, la “moralità
considerata soggettivamente come movente”.
89
L’autore si è sempre reso conto del ruolo terminologico
“scomodo” del sentimento morale in un’etica con un impianto
teorico formale. Ma nello stesso tempo sa bene che ignorarlo
non avrebbe reso la sua teoria morale così diversa dalla morale
di scuola tedesca. Trascurare questo aspetto avrebbe indebolito a
tal punto il suo costrutto teorico da farlo ricadere negli stessi
errori dei suoi predecessori. Egli è consapevole della difficoltà
di descrivere in termini adeguati la condizione di un uomo che
subisce la legge quasi come se ne fosse affetto. Infatti,
l’inadeguatezza del termine “sentimento” è stata sottolineata fin
dagli ’70, a partire dagli appunti delle Reflexionen. E proprio qui
la questione non solo terminologica ma sistematica del
sentimento morale viene definita in termini ancora più chiari di
quelli adoperati nella seconda Critica203. Così Kant, nell’appunto
5448 delle Reflexion, afferma:
«il sensus moralis viene denominato così soltanto
per analogiam, e non dovrebbe chiamarsi senso,
bensì disposizione [corsivo mio], in base alla quale
nel soggetto necessitano anche i motivi morali, oltre
agli stimuli. In sensu proprio quindi è un’assurdità,
un mero analogon sensus, e serve esclusivamente a
esprimere una facoltà (e non una recettività) per cui
non abbiamo un nome»204.
Il sentimento morale è un’assurdità se la morale ha un
fondamento a priori. Ma se nutriamo un interesse per la legge,
quindi in un certo modo la patiamo, allora tale passione sarà
esclusivamente sulla base di un’attività propria della ragione,
per cui tale interesse è una facoltà e non una recettività. Se nella
Fondazione questa “facoltà senza nome” è stata definita come
203 In particolare in I. KANT, Critica della Ragion Pratica, ed. Laterza, Bari 2008, A134, p. 165: [La legge morale] non precede nessun sentimento nel soggetto […]. Invero ciò è impossibile, perché ogni sentimento è sensibile […]. Piuttosto, il sentimento sensibile, che è fondamento di tutte le nostre inclinazioni, è bensì la condizione di quella sensazione che chiamiamo rispetto, ma la causa della determinazione di quel sentimento risiede nella ragion pratica».204 cit. I. KANT, Reflexion 5448, XVIII 185 (1776-1778), così come citato da S. BACIN, ibid., p. 123.
90
rispetto della legge, ora nella seconda critica tale sentimento del
rispetto viene analizzato sotto l’aspetto motivante, richiamando
indirettamente i contenuti degli appunti delle Reflexionen e dei
Sogni di un visionario205.
In conclusione quindi, se tra il 1766 e il 1785 il sentimento
morale era inteso in rapporto alle inclinazioni nella forma di una
costrizione e in rapporto ai principi nella forma di un fenomeno
che vi sopraggiunge, ora nella Critica della Ragion Pratica la
sua accezione negativa e affermativa riceve una
sistematizzazione unitaria.
Se confrontiamo la definizione del sentimento morale data nella
seconda Critica con le espressioni utilizzate negli scritti
precritici notiamo che la sostanza non cambia. Nei Sogni di un
visionario il sentimento morale era definito solo nella sua
accezione negativa, quella “costrizione del volere universale sul
volere del singolo”; in alcuni appunti delle Reflexionen viene
definita la sua attività, ma in maniera piuttosto vaga, come
un’ipotesi per spiegare “il fenomeno dell’approvazione che
accordiamo ad alcuni tipi di azioni”; infine nella Fondazione
viene specificata la sua causalità come ciò che è generato “per
mezzo di un concetto di ragione”. Tutti questi spunti vengono
così raccolti nel terzo capitolo della seconda Critica dove viene
stabilito definitivamente il suo ruolo motivante: non è neanche
più il movente in senso proprio, oggettivo, ma la considerazione
soggettiva della legge in un uomo che, in quanto essere finito,
anche quando agisce moralmente non può non escludere del
tutto le inclinazioni. E’ in quanto esseri finiti che, quando ci
pensiamo come spinti da un movente, non possiamo che patire il
peso della legge morale ma, dal momento che questa legge ci
vien data da noi stessi come un fatto della nostra ragione, quindi
205 I. KANT, Scritti precritici, ed. Laterza, Bari 2000, in Sogni di un visionario chiariti con sogni della metafisica, p. 367: «Se questa costrizione del volere universale […] la si vuol chiamare sentimento morale, si parla di essa soltanto come fenomeno di ciò che in noi avviene, senza stabilirne le cause […]. Non dovrebbe esser possibile rappresentarsi tal fenomeno in modo che il sentimento morale sia questo sentir la dipendenza del volere singolo dal volere universale?».
91
non ci vien data ma la poniamo, il dolore si trasforma in rispetto
e lo schiacciamento ci eleva.
Ma c’è un altro testo precedente alla seconda Critica in cui Kant
affronta con sufficiente ampiezza il posto che spetta al movente
nella teoria morale. Si tratta dei corsi di lezioni tenuti
all’Università di Königsberg tra il 1770 e il 1780 circa e raccolte
successivamente da Paul Menzer sotto il titolo Lezioni di etica.
Nel capitolo Del principio supremo della moralità l’autore
distingue con chiarezza la norma dal movente. La prima è il
principio di discriminazione dell’obbligo, la seconda quello del
suo adempimento206. Il filosofo è consapevole della delicatezza
di questi due momenti, tanto che avverte subito dopo: «andata
perduta questa distinzione tutto si è corrotto nella morale», «il
principio che regge l’impulso non va confuso con il principio
che guida il giudizio. Questo è la norma, l’altro il movente. Il
movente non può far le veci della norma»207. E’ chiaro fin da
subito che, in generale, norma e movente fanno capo a due
campi distinti, il primo teoretico e l’altro pratico: la norma è un
giudizio, il movente è l’adempimento di un giudizio, l’uno è il
principio della valutazione, l’altro il principio dell’esecuzione.
Ma la natura del giudizio normativo è pur sempre pratica, la sua
funzione non è quella di produrre conoscenza ma dare alla
ragione una regola dell’agire. Sicché se i campi di riferimento
della norma e del movente sono differenti, entrambi cadono
nello stesso dominio: pratico.
La lezione sul “principio supremo della moralità” prosegue in
questo modo: mostrare prima cosa non è il principio di moralità
e poi cosa è. In queste pagine viene così anticipato il progetto di
ricerca della Fondazione che, come sappiamo, si propone di
mostrare proprio quel “supremo principio della moralità”208.
Per quanto riguarda la definizione di cosa non sia un principio di
moralità, occorre soffermarsi su un aspetto in particolare.
206 cfr. I. KANT, Lezioni di etica, ed. Laterza, Bari 1984, p. 42.207 cit. ibid.208 cfr. I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, ed. Laterza, Bari 2009, p. 13.
92
Abbiamo visto come la critica di Kant al razionalismo etico di
scuola tedesca è rivolto contro i suoi principi morali, giudicati
dal filosofo come comandi vuoti, tautologici. Così anche qui
l’autore ritorna a soffermarsi sul principio del fac bonum
ribadendo le stesse considerazioni fatte nei testi precedenti209.
Ebbene è curioso notare come questa critica coinvolga qui non
solo Wolff e i suoi seguaci ma allo stesso modo anche i teorici
del moral sense. Secondo l’autore, infatti, anche i principi
dell’etica del sentimento sono in un certo senso tautologici. La
legge morale, spiega Kant, comanda categoricamente, per cui
non può richiamarsi al sentimento fisico o morale. Così:
«Ogni sentimento ha soltanto una validità personale
e riesce incomprensibile per un altro. Tutto questo è
anche intrinsecamente tautologico: se qualcuno
afferma di avvertire qualcosa in un certo modo,
questo tuttavia non può valere per altri, ai quali
rimane ancora ignoto come egli lo avverta, sicché
chi si richiama una volta al sentimento rinunzia ad
ogni principio razionale»210.
Pare che qui “tautologico” non sia ciò che nel predicato ripete il
contenuto del soggetto, ma ciò che non può valere per tutti.
Credo che ciò che Kant vuole dire consista nell’affermare che se
fac bonum et omitte malum è una proposizione tautologica nel
senso proprio del termine (fare il bene è fare il bene e omettere il
male), agire sulla base di un principio sentimentale non produce
certo una tautologia, ma l’effetto è lo stesso: l’incomprensibilità
dello stesso principio e, trattandosi di morale, la sua
inapplicabilità.
209 Si veda, ad esempio, nell’Indagine sulla distinzione dei principi della teologia naturale e della morale in I. KANT, Scritti precritici, cit., p.245, la necessità di porre accanto ai principi formali dell’azione dei principi materiali che permettano ai primi di non essere formule vuote.210 cit. ibid., p. 43-44.
93
Dopo aver distinto tra principio patologico e principio
intellettuale211 - quest’ultimo a sua volta suddiviso in principio
intellettuale mediato dalle inclinazioni e principio puro – Kant
giunge così a mostrare cosa sia il principio supremo della
moralità. Egli si domanda: in cosa consiste questo principio?
«La moralità è l’accordo delle azioni con la legge
universalmente valida del libero arbitrio […].
L’essenza della moralità sta in questo, che le azioni
vengono compiute secondo motivi dettati dalla
regola universale»212.
Come ha già ribadito nel 1766 nei Sogni213, e come ribadirà
costantemente nella seconda sezione della Fondazione, se voglio
agire moralmente è sufficiente che mi domandi se voglio che la
mia massima valga come legge universale.
2. La rinuncia alla deduzione trascendentale. Un ritorno di
metodo nel solco della continuità
La scelta di fare della legge morale e non l’idea della libertà il
momento primo della volontà buona rappresenta il punto di
arresto del progetto di ricerca della terza sezione della
Fondazione che si proponeva di ricercare il fondamento della
morale sulla base di una deduzione trascendentale. Ma in realtà
se con il fatto della ragione la teoria morale non va più nella
direzione tracciata nella parte finale della Fondazione, la ricerca
del principio primo non subisce alcun arresto, semmai un ritorno
di metodo, la ripresa di un’indagine iniziata a partire dagli anni
’60, proseguita negli anni ’70, come abbiamo visto in
precedenza analizzando gli appunti delle Reflexionen e le
211 Per approfondire l’argomento si vedano le pagine 42-48 in ibid.212 cit. I. KANT, Lezioni di etica, ibid., p. 48.213 cfr. Sogni di un visionario chiariti con sogni della metafisica, , in I. Kant, Scritti precritici, cit., p. 366: «Non è adunque soltanto in noi il punto in cui concorrono le linee direttive dei nostri impulsi, ma vi sono anche, fuori di noi, nell’altrui volere, forze che muovono noi. Da ciò nascono gli stimoli morali che spesso ci trascinano contro quanto richiede l’interesse personale in modo che manifestano la loro realtà la forte legge del dovere».
94
Lezioni di etica, e ripresa negli anni ’80. Ragion per cui la terza
sezione della Fondazione rappresenta più un tentativo, un
progetto di ricerca a sé stante rispetto a quello tracciato nelle due
sezioni precedenti. Questo è uno dei motivi per cui l’evoluzione
della teoria morale kantiana non può ammettere una distinzione
tra un momento precritico e uno critico. La teoria morale di
Kant è fin dagli inizi già critica - si vedano alcuni passi delle
Annotazioni214 e dei Sogni 215 dove la volontà morale è tale per
cui esclude ogni impulso sensibile. La sua ricerca morale è
sempre proseguita con continuità lungo un arco temporale che
va dalla prima metà degli anni ’60 fino alla Critica della Ragion
Pratica. Un percorso senza salti, cambiamenti radicali o
revisioni sostanziali. Il cammino del filosofo nella sua indagine
sui principi etici si basa su di un assunto fondamentale e
caratteristico, che ritroviamo fin nell’Indagine, dove la volontà
si esprime nella forma di un dovere (quindi in un rapporto di
obbligazione); e nei Sogni dove i principi oggettivi (universali)
della ragione pratica, che non trovano fondamento
nell’esperienza, si presentano in un essere razionale soggetto
costantemente alle inclinazioni. Concludendo, la rinuncia alla
deduzione è la conferma che la strada battuta fin dagli spunti
formulati nell’Indagine va nella giusta direzione.
214I. KANT, Annotazioni alle osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, ed. Guida, Napoli 2002, a cura di M. T. Catena, p. 167-168: «La bontà oggettiva di un’azione libera […] o, detto in altri termini, la sua necessità oggettiva, può essere sia condizionata sia categorica. La prima è la bontà di un’azione come mezzo, la seconda, come fine […]. Una buona azione libera condizionata non è pertanto categoricamente necessaria: ad esempio, la mia generosità è utile ad altri bisognosi, si deve quindi essere generosi. Per niente. Ma se qualcuno vuole essere utile agli altri, allora, che sia generoso! Se invece l’azione nata da una generosità sincera, è non solamente utile agli altri, ma buona in sé, allora è un dovere».215I. KANT, Sogni di un visionario chiariti con sogni della metafisica, in Scritti precritici, ed. Laterza, Bari 2000, p. 366: «Non è adunque soltanto in noi il punto in cui concorrono le linee direttive dei nostri impulsi, ma vi sono anche, fuori di noi, nell’altrui volere, forze che muovono noi. Da ciò nascono gli stimoli morali che spesso ci trascinano contro quanto richiede l’interesse personale in modo che manifestano la loro realtà la forte legge del dovere».
95
Parte III: lo statuto della filosofia morale di Kant
1. Obbligazione: l’eredità di Baumgarten nella teoria morale
kantiana e la critica alle sue leggi morali
Se c’è un filosofo a cui Kant si è ispirato maggiormente per la
sua etica del dovere questo è sicuramente Baumgarten,
pensatore che per primo ha contribuito in maniera determinante
a far ruotare l’etica intorno al concetto di obbligazione. Non a
caso al tempo di Kant questo concetto inizia a subire, in ambito
morale, una significativa trasformazione.
Nel XVIII secolo il termine obbligazione oscillava tra un
significato giuridico-religioso, come ciò che si presenta nella
96
forma di un dovere imposto dall’esterno, ed etico, come ciò che
è in mio dovere. Prima di Baumgarten, un altro filosofo che dà
all’obbligazione un significato primariamente etico è Christian
Wolff. Anche quest’ultimo denota inizialmente l’obbligazione
come un dovere imposto dall’esterno ma, dopo la critica di
Leibniz216, riformula il concetto in termini etici. Così, secondo
Wolff, nella fase matura del suo pensiero il dovere è una
necessità morale che integra movente e azione; la prima è
caratterizzata da un obbligo passivo, la seconda da un obbligo
attivo e, se un passivo essere obbligati presuppone un attivo
venire obbligati, la nuova formula per l’azione buona sarà
quindi: obbligazione è uguale a motivazione217. Wolff però, che
concepisce la filosofia morale come la conoscenza intellettuale
della propria perfezione, relega l’obligatio ad una posizione
marginale che occupa solo una sezione di un capitolo della sua
Philosophia practica universalis. Baumgarten invece va più a
fondo e, distinguendo tra obligatio passiva e obligatio activa - la
prima è l’obbligazione nella sua accezione giuridica, la seconda
nel suo significato autenticamente etico218 - fa dell’obbligazione
il fondamento della morale, articolando tutta la Initia
philosophiae practicae sulla base del dovere. Si tratta di una
novità importante poiché grazie a questa impostazione teorica
l’etica viene intesa per la prima volta come la scienza delle
obbligazioni dell’uomo, lì dove per Wolff, invece, l’etica è la
scienza della guida delle azioni libere mediante regole. Il
concetto di obbligazione in Baumgarten, colonna portante della
sua teoria morale, non poteva quindi essere ignorato da Kant.
216 Influenzato da Hobbes, Wolff intende inizialmente l’obbligazione come il timore di una sanzione da parte dell’obbligato, riconducendo quindi il concetto ad un significato giuridico-religioso, per approdare poi ad una posizione etica dopo la critica diretta di Leibniz con la famosa affermazione “anche per gli atei sussiste un’obbligazione”. Su questa breve storia del concetto di obbligazione da parte di Leibniz, Wolff e Baumgarten cfr. C. SCHWAIGER, La teoria dell’obbligazione in Wolff, Baumgarten e nel primo Kant, in La filosofia pratica tra metafisica e antropologia nell’età di Wolff e Vico, cit., pp. 323-340. 217 cfr. ibid., p. 334. 218 Si veda la descrizione dell’obbligazione baumgarteniana che Kant compie nei corsi tenuti all’Università di Königsberg tra il 1775 e il 1780-1 raccolti in I. KANT, Lezioni di etica, ed. Laterza, Bari 1984, in De obligatione active et passiva, pp. 23-32.
97
Il filosofo di Königsberg ha sempre avuto Baumgarten come
punto di riferimento nelle sue lezioni di filosofia morale. Un
interesse che lo ha spinto sempre più a preferirlo al “classico”
Wolff. Kant era obbligato dai regolamenti delle Università ad
adottare un testo, ma la scelta su quale utilizzare spettava al
professore219. Così col tempo la sua scelta cadde sui testi di
Baumgarten220. Come afferma Clemens Schwaiger, «Kant
all’inizio della sua attività di insegnamento deve aver studiato
anche Wolff, ma più tardi il suo uso costante dei manuali di
Baumgarten si è più o meno sovrapposto a quello che era
l’insegnamento proprio di Wolff»221.
Un’approfondita analisi compiuta dallo stesso Kant
dell’obbligazione baumgarteniana la troviamo in una serie di
lezioni svolte presso l’Università di Königsberg in un periodo
che va dal 1775 al 1780 circa, raccolte nelle menzionate Lezioni
di etica222. In questi testi, oltre all’attenta analisi del dovere in
Baumgarten, troviamo un’anticipazione significativa degli
elementi fondamentali della teoria morale kantiana, con un
linguaggio e un uso di alcuni termini specifici che saranno però
successivamente abbandonati perché troppo vicini
all’antropologia. Osserviamo da vicino di cosa si tratta
analizzando in particolare il capitolo “De obligatione activa et
passiva”223.
Kant, sulla base dei manuali di Baumgarten, distingue tra
obbligazione activa e passiva. La differenza tra i due tipi sta nel
principio di autonomia: nella prima si resta padroni di ciò che è
necessario fare, trattandosi di un comando della ragione, nella
seconda l’obbligazione si produce “mediante l’intervento di un
altro”224. E’ chiaro quindi che solo l’obligatio activa è
219 Come riporta S.V. ROVIGHI in Introduzione allo studio di Kant, ed. La Scuola, Brescia 2004, p. 223.220 Ovvero gli Initia philosophiae practicae primae e l’Ethica philosophica.221 CL. SCHWAIGER, Kategorische und andere Imperative. Zur Entwicklung von Kants praktischer Philosophie, Stuttgart-Bad Cannstatt, 1999, 33 s; la citazione è presa così come tradotta da G. B. SALA in Immanuel Kant, Critica della Ragion Pratica, un commento, cit., p. 32.222 Si tratta, come ho già detto, del corso di lezioni raccolte da Paul Menzer e pubblicate in italiano con il titolo Lezioni di etica, Laterza, Bari 1984.223 Pagina 23 del testo.224 cit. ibid., p. 24. Un tipico esempio di obligatio passiva è il contratto, che Baumgarten definisce actus obligatorius.
98
l’obbligazione propriamente morale. Questa qualità è data dal
fatto che, trattandosi di un principio razionale, comanda
all’agente ciò che deve fare e non, contrariamente a ciò che ci
direbbe il senso comune, comanda ciò che non gli lascia altra
scelta. E’ una differenza importante, fondamentale per il
significato moderno di questo concetto. Ciò che è in nostro
dovere non costituisce un ordine che siamo obbligati ad eseguire
per coazione225. Se così fosse l’obbligazione rientrerebbe in ciò
che ci accade – quindi come ciò che è - senza che ad esso
possiamo anteporre una scelta – ciò che deve essere – con la
conseguenza che il presupposto dell’autonomia e della libertà
svanirebbe del tutto. Se singhiozzo, afferma Kant226, non sono
obbligato (in senso morale) a singhiozzare, piuttosto l’astenermi
dal farlo è per me impossibile. Se invece agisco moralmente in
un certo modo è perché non solo voglio, ma perché il mio volere
si impone come un dovere. E’ il volere a presentarsi nella forma
del dovere, non il contrario: devo perché voglio non voglio
perché devo. La chiave per distinguere l’obbligazione morale da
un semplice comando è, come ribadisce Kant227, questa: l’azione
morale non è necessaria ma necessitata, un rendere necessario.
In questo modo il dovere si presenta a tutti gli effetti come
l’esercizio della libertà228. Possiamo qui vedere nuovamente,
come abbiamo analizzato in precedenza229, l’anticipazione di
quello che circa quindici anni dopo costituirà il fatto della
ragione: la legge morale come ciò che la ragione pura fa quando
è pratica.
Secondo Kant, seguendo l’impostazione data nella sua lezione
precedente in cui l’autore enuclea en passant gli imperativi230,
225 cfr. ibid., p. 18: «L’obbligo è un obbligo pratico, e precisamente morale. Ogni obbligo è o per dovere o per coazione».226 cfr. ibid.: «Così un uomo non ha alcun obbligo di trattenersi dal singhiozzo, perché non è cosa che sia in suo potere».227 cfr. ibid., p. 18: «[…] perciò l’obligatio è una necessitatio e non una necessitas».228 cfr., ibid., p. 25: «Quando le azioni sono libere e la personalità non è coinvolta, neppure si produce alcun obbligo. Così un uomo non ha alcun obbligo di trattenersi dal singhiozzo, perché non è cosa che sia in suo potere. Un obbligo presuppone, dunque, l’esercizio della libertà». 229 Nell’excursus: Excursus: i presupposti teorici del “fatto della ragione” nelle riflessioni degli anni ’70, p. 82.230 Lezione intitolata Del principio della moralità, in ibid., pp. 14-23. Cfr. ibid., p. 18. Qui Kant pone tre specie di imperativi: problematico, ciò che è buono come mezzo; pragmatico, conforme alla prudenza come fine; infine morale, che enuncia la bontà di un’azione in sé e per sé.
99
l’obbligazione morale comanda l’azione e nient’altro,
indipendentemente dal mezzo con cui la si compie o dal fine che
si è posto. Non solo. La sua qualità morale non è data
dall’azione - altrimenti non sarebbe razionale ma empirica - ma
solo dal fatto che comanda incondizionatamente:
«L’obbligazione si distingue in positiva e naturalis.
La obligatio positiva è un prodotto positivo della
volontà, la obligatio naturalis proviene invece dalla
natura delle azioni»231.
In questa distinzione è possibile notare il formalismo in atto
della teoria morale kantiana. Un formalismo ancora in fieri
poiché utilizza due termini – “natura” e “intenzione” - che in
seguito saranno ritenuti inadeguati all’impianto teorico della
morale:
«Ogni moralità consiste in questo, che le azioni sono
compiute in virtù della loro intrinseca natura; non
dunque l’azione costituisce la moralità, ma
l’intenzione secondo cui io la eseguo»232.
Nell’epoca in cui il filosofo scriveva, l’appello alla natura
umana era la principale via percorribile per chi cercasse una
teoria morale applicabile concretamente, che soddisfacesse in
pratica quei requisiti che Kant ha stabilito fin dall’inizio delle
sue ricerche sull’etica: una teoria morale formale ma non
astratta, concreta ma non empirica. L’uso di due termini così
vicini all’antropologia non deve quindi far ritenere che
l’impostazione iniziale della teoria morale kantiana sia
antropologica. Piuttosto riflette l’esigenza di costruire una
morale adeguata alle capacità umane, raggiungibile233 e,
231 cit. ibid, p. 25. 232 cit. ibid., p. 26. 233 Sull’uso del termine “natura” nella morale kantiana, cfr. S. BACIN, Il senso dell’etica, ed. Il Mulino, Napoli 2006, pp. 25-30.
100
soprattutto, universale. Mancano ancora, insomma, i termini più
appropriati per descrivere una morale siffatta. “Intenzione” e
“natura”, infatti, non saranno più ritenuti in futuro gli strumenti
concettuali più adeguati per la costruzione di una teoria morale
fondata sulla ragione: come un filosofo-esploratore, Kant
scoprirà che l’intenzione di un’azione è il suo fondarsi su
principi razionali e la natura dell’uomo, la sua essenza morale in
questo caso, non è nient’altro che la sua destinazione morale,
l’interesse per la legge morale da parte di un uomo soggetto alle
inclinazioni. Infatti nella prima Critica (A840=B868), quando
ogni riferimento alla natura era stato bandito dalla sfera della
fondazione dell’etica, la morale viene indicata come la
disciplina filosofica che tratta della destinazione dell’uomo234.
Scopriamo così che la ricerca sulla natura dell’uomo riflette le
stesse intenzioni di fondo della ricerca metafisica delineata a
partire dai Sogni di un visionario235: la scienza dei limiti della
ragione umana. La caratteristica prima della teoria morale
kantiana, fin dalle sue origini quindi – come la ricerca di un
principio razionale universale che mi spinge ad agire bene -
resta intatta, a prescindere dall’uso di termini come “natura” o
“intenzione”.
Così, dopo aver definito cos’è l’obligatio naturalis, Kant
afferma:
«Se io faccio qualcosa perché è comandato o perché
reca vantaggio e tralascio qualche altra cosa perché è
proibito o procura danno, in ciò non è ravvisabile
alcuna intenzione morale. Se io faccio qualcosa
perché è in se stessa assolutamente buona [corsivo
mio], allora ciò rivela un’intenzione morale»236.
234 cfr. ibid.235 cfr. I. KANT, Scritti precritici, ed. Laterza, Bari 2000, p. 399: «In quanto la metafisica è scienza dei limiti della ragione umana».236 cit., Lezioni di etica, ibid., p. 26.
101
Un’azione “in se stessa assolutamente buona” è un’azione che
vale categoricamente per tutti poiché non è causata dai sensi ma
dall’intelletto, pur rimanendo un’azione compiuta in forza di ciò
che il soggetto vuole per se stesso. Infatti due pagine dopo Kant
afferma:
«Per distinguere ciò che è moralmente buono o
cattivo si deve giudicare rimettendosi all’intelletto, e
dunque oggettivamente, ma per compiere un’azione
vi possono essere nondimeno anche ragioni
soggettive […]. Tutte le leggi soggettive sono tratte
dalla natura di questo o quel soggetto […]. Le leggi
morali, invece, devono valere universalmente e in
genere per tutte le azioni libere senza riguardo alla
diversità dei soggetti»237.
L’azione morale è tale perché è incondizionata, ovvero è
assolutamente buona senza alcun criterio di valutazione
empirico. La ragione di ciò risiede nel fatto che tale azione è
giudicata dall’intelletto e la sua qualità normativa è oggettiva,
ovvero universale. Possiamo così ritrovare in queste pagine
degli importanti elementi costitutivi della filosofia pratica
soggettiva di Kant, riassumibili all’estremo quando il filosofo
afferma:
«Distinguere la moralità in oggettiva e soggettiva è
assurdo. La moralità è oggettiva, sebbene le
condizioni per l’applicazione di essa possano essere
soggettive»238.
Ad agire, quindi, è sempre il soggetto, ma il suo criterio di
valutazione è quello fornito dalla ragione e dalle sue leggi, tale e
quali si trovano in tutti gli esseri dotati di questa facoltà.
237 cit., ibid., p. 28.238 cit., ibid.
102
Purtroppo però, secondo Kant, è proprio la legge a costituire il
punto debole della teoria morale baumgarteniana. Le riserve di
Kant alla teoria dell’obbligazione di Baumgarten iniziano
proprio qui, nel momento in cui vengono presentate le sue leggi
morali.
Se per Baumgarten l’obbligazione è la moralità – distinguendo
così nettamente la sua etica da quella di Wolff - e la sua essenza
consiste in un comando necessitato e non necessario, proprio
nella formulazione dei contenuti del comando Baumgarten non
si differenzia molto dalla morale di scuola tedesca, ereditandone
gli stessi difetti. La prima legge morale di Baumgarten suona
infatti così: «Fac bonum et omitte malum», nella stessa formula
adoperata da Wolff. E il principio del fac bonum viene da Kant
inteso in questi termini: «Fa ciò che il tuo intelletto ti presenta
come bene e non ciò che riesce gradevole ai tuoi sensi». In
questo modo, in opposizione all’etica fondata sul senso morale,
ciò che è buono è distinto da ciò che è piacevole e il concetto di
bene rinvia ad un oggetto che piaccia a tutti, ovvero valutato dal
solo intelletto. Ma, prosegue Kant, un contenuto siffatto della
legge non tiene più conto proprio del principio morale alla base
di essa, l’obbligazione, poiché l’autentica formula per agire bene
non è una semplice regola - una regola per l’agire è
generalmente ogni regola, sia essa empirica o razionale – ma ciò
che si presenta nella forma di un dovere. Per cui la regola del fac
bonum non è nient’altro che una tautologia con la conseguenza
che la distinzione tra i diversi tipi di azione (secondo il mezzo, il
fine e in sé e per sé), quindi tra i diversi tipi di imperativi, non
sussiste più. Questo è il motivo per cui secondo Kant una legge
morale così formulata è un principium vagum e tautologicum239.
«[…] la massima Fac bonum et omitte malum non
può costituire alcun principio morale di
obbligazione, perché il bene può essere tale a più
239 cfr. ibid., p. 29.
103
titoli, per i fini più diversi. Esso, dunque, è un
principio di abilità o di prudenza; se però si
richiamasse al bene in vista di azioni morali, esso
sarebbe allora un principio morale»240.
Oltre al fac bonum, Kant espone altre tre proposizioni, tre leggi,
che Baumgarten adotta come principio di obbligazione: vive
convenienter naturae, ama optimum quantum potes e quaere
perfectionem quantum potes. Tutti giudicati insufficienti e
incompleti per una ragione molto semplice: il principio primo
dell’etica è uno e, quando in essa «vi sono diversi principi primi,
di fatto esso non ne contiene alcuno»241. Ma di questi tre,
l’ultimo in particolare permette a Kant di criticare con un solo
gesto tanto i contenuti della legge morale baumgateniana quanto
la filosofia morale di scuola tedesca. I primi due principi –
quello del vive convenienter naturae e del ama optimum
quantum potes - sono dal filosofo giudicati come imperativi
della prudenza e non morali, mentre l’ultimo rappresenta un
passo in più rispetto al principio del fac bonum di Wolff: «è se
non altro una formulazione più determinata, essa non è
completamente tautologica e pertanto possiede un certo grado di
utilizzabilità»242 afferma Kant. Ma, se non è astratta,
quantomeno denota, insieme al principio del fac bonum, un
cattivo uso del concetto di perfezione:
«Perfezione e bontà morale sono cose differenti»243.
Con una sola, perentoria affermazione Kant distingue così la sua
teoria morale da quelle in voga nel suo tempo. Secondo il
filosofo, i principi intellettuali fondamentali sono due: il
principio della perfezione (principium intellectuale internum) e
il principio di obbedienza a Dio (principium intellectuale
240 cit. ibid.241 cit. ibid., p. 31.242 Cit., ibid., p. 30.243 cit. ibid., p. 31.
104
externum). Tralasciando il giudizio di Kant in merito al
principio intellettuale esterno – l’obbedienza a Dio oltre ad
essere un principio esterno vale solamente come principium
executionis: induce gli uomini ad operare bene ma non spiega
perché un’azione sia buona – secondo l’autore perfetto è in
generale l’uomo completo in tutte le sue facoltà. Ora un
individuo siffatto non rientra ancora nel campo della moralità,
poiché non è detto che egli farà un uso appropriato - quindi
giusto, morale - di queste facoltà. In ultima analisi, la perfezione
morale consiste quindi nella perfezione del nostro volere e non
delle nostre facoltà244: l’uomo è un essere dotato di ragione, ma
può anche agire tutta la vita non tenendo conto dei suoi principi.
Allora ciò che bisogna tener conto nell’analisi dell’agire morale
non è tanto l’azione perfetta quanto l’azione che l’uomo può
compiere in virtù di come essa viene descritta dalla ragione,
ovvero nella forma di una norma. Questa distinzione tra l’azione
perfetta di un santo e l’azione morale propria di un essere finito
costituisce uno degli aspetti fondamentali della teoria morale di
Kant, dove la relazione tra l’azione soggettiva, la norma e la
perfezione del proprio stato – inteso qui come la capacità di
usare appieno le proprie facoltà – dunque in sintesi tra il
soggetto agente e la perfezione245, sta alla base del suo progetto
di ricerca che si distingue così, fin dai suoi momenti iniziali,
tanto dalla filosofia di scuola tedesca che scozzese.
L’obiezione di Kant al concetto di perfezione in queste Lezioni
di etica, quindi, mette in scena il suo sforzo di emancipare la sua
teoria morale tanto dalle etiche del sentimento scozzesi quanto
da quelle “intellettuali” tedesche. Il filosofo critica le leggi
morali di Baumgarten e indirettamente la filosofia pratica di
scuola capeggiata da Wolff. Ad entrambi imputava un concetto
di perfezione troppo generico che non può essere usato allo
stesso modo tanto in un contesto morale quanto metafisico. In
realtà Baumgarten, rispetto a Wolff, distingue due aspetti della
244 cfr. ibid.245 Come ha mostrato S. BACIN in Il senso dell’etica, ed. Il Mulino, Napoli 2006, cfr. p. 20.
105
perfezione: come mezzo o come scopo. Ma è ovvio che per Kant
si tratta di una distinzione che non denota alcuna qualifica
morale visto che sia nel mezzo che nello scopo rientrano solo gli
imperativi ipotetici.
Già nello scritto sull’Indagine Kant distingueva tra necessità
morale legalis e problematica246 appoggiandosi proprio a
Baumgarten. Il fatto che aggiunga subito dopo come ancora
troppo poco si sia indagato sul concetto di obbligazione247 mette
in luce le sue perplessità sui contributi dei maggiori autori
filosofici contemporanei della moralità, per il fatto che hanno
formulato principi fondati su un concetto di perfezione
indistinguibile nel suo uso morale e logico. Proprio dieci anni
prima, infatti, all’inizio degli anni ’60, Kant appuntava i suoi
dubbi sul comando perfice te:
«Cerca la perfezione in forza del sentimento di
piacere che si prova per l’azione. / incertezza nello
stabilire, senza sentimento morale, dove stia la
perfezione massima»248.
E’ ancora forte qui la distinzione tra principi formali e materiali,
ma il fatto che l’autore si preoccupi di rendere la perfezione in
campo morale qualcosa che valga in primo luogo per la volontà
del soggetto denota già da qui la sua filosofia morale come una
filosofia pratica soggettiva, quella che nella Critica della ragion
pratica trova la sua maturità.
Il debito di Kant al principio di obbligazione di Baumgarten può
essere quindi riassunto in questi termini: per entrambi dovere è
ciò che rende una determinazione libera moralmente necessaria,
che l’uomo avverte come una costrizione249 dal punto di vista del
246 cfr. I. KANT, Scritti precritici, ed. Laterza, Bari 2000, p. 245. 247 cfr. ibid., p. 246: «i concetti fondamentali supremi della normatività devono ancora esser determinati con maggior sicurezza».248 cit. Reflexion 6588, XIX 25-26; 1762-64. Così come tradotto da S. Bacin in Il senso dell’etica, ibid., p. 21. 249 cfr. BAUMGARTEN, Metaphysica, § 701, p. 271 (XVII, 131 5): «Necessitatio (coactio) est mutatio alicuius ex contingenti in necessarium», così com’è citato da C. SCHWAIGER in La filosofia pratica tra metafisica e antropologia
106
soggetto empirico, e come un farsi necessario dal punto di vista
del soggetto in sé e per sé morale. Nel suo significato
autenticamente kantiano invece, per usare le parole di S. Bacin,
il dovere si pone come una volontà nella forma di una presenza
attiva di un presupposto normativo250. Per Kant l’obbligazione
morale non è tale per cui impone di agire necessariamente in un
certo modo, ma è la condizione non casuale (necessitata) ad
agire in un certo modo perché, dal punto di vista soggettivo, si è
costretti.
A Kant, pensatore di una filosofia pratica come etica non-
teoretica, le considerazioni di Baumgarten non potevano
sfuggire. L’etica del filosofo di Königsberg si rivolge ad un
soggetto finito nel mondo e infinito nel pensiero, soggetto alle
inclinazioni ma libero grazie ad un uso specifico della ragione, e
l’obbligazione come costrizione rappresenta il punto di
intersezione tra desiderio e volontà pura, nodo che rafforza in
concreto, anziché indebolire, una teoria morale costruita con gli
strumenti della metafisica.
Nell’etica del dovere di Kant l’obbligazione come costrizione e
volere necessitato è un concetto chiave, perché la volontà umana
non è pienamente conforme alla ragione ma soggetta
costantemente alle inclinazioni, e la necessità pratica di
un’azione morale non può essere avvertita che come un dovere
necessitato, un auto-schiacciamento delle inclinazioni. Se c’è
quindi nell’etica di Kant un’eredità dei pensatori del suo tempo,
questa non risiede certamente nella teoria del sentimento morale
di Hutcheson, né tantomeno nella perfezione morale di Wolff,
ma in maniera determinante nella teoria dell’obbligazione di
Baumgarten.
nell’età di Wolff e Vico, ibid., p. 336. 250 cfr. S. BACIN, Il senso dell’etica, ed. Il Mulino, Napoli 2006, p. 212: «Nel “fatto” emerge il momento portante dell’operare della volontà, come presenza attiva di un presupposto normativo».
107
2. L’insostenibilità di un’etica pre-critica . La filosofia morale
kantiana non è un figliol prodigo
Sulla base del percorso filologico che abbiamo tracciato nella
parte I del lavoro di tesi, la ricerca morale di Kant si presenta
come ciò che non è: un’indagine che fonda l’etica sul senso
morale. Un approccio che ritroviamo a partire dall’Indagine
sulla distinzione dei principi della teologia naturale e della
morale dove l’obbligazione è giudicata come un concetto primo
per l’etica, pur presupponendo ancora un principio materiale.
Gli studi di Henrich e Schmucker ci restituiscono un Kant
attento alle importanti riflessioni delle due scuole di pensiero
morale in voga nel suo tempo - Schulphilosophie e moralisti
scozzesi - ma insieme consapevole che né l’una né l’altra
possano essere sufficienti alla costruzione di una teoria morale
fondata sulla realtà concreta, autonoma e razionale della
volontà.
108
La filosofia pratica soggettiva di Kant è fin dai primi anni ‘60 il
volto dell’indagine morale. Anche se il formalismo della teoria
viene maturato successivamente, l’assunto, formulato
nell’Indagine, secondo il quale i principi etici materiali
corrispondono ad un “sentimento del bene non riducibile ad
altro”251, indimostrabile, rende noto fin da subito che il percorso
morale è già indirizzato verso quella direzione: l’assenza di ogni
carattere empirico nei principi etici, siano essi formali o
materiali. Sotto questo punto di vista, l’interpretazione
neokantiana dell’evoluzione della teoria morale del filosofo di
Königsberg si mostra quantomeno problematica252.
Con la rinuncia alla deduzione trascendentale della legge morale
Kant ritorna sui suoi passi, quelli iniziati a partire dall’Indagine
fino alla Dissertazione. In questo modo il filosofo riprende la
traccia di un lungo cammino nel quale i principi etici vengono a
poco a poco smussati e focalizzati, alla ricerca di una teoria
morale non fondata su semplici regole pratiche ma su regole tali
che si formino sulla base di principi razionali formali e
universali. Nella sua indagine morale a partire dalla metà degli
anni ’60, Kant non perde mai di vista il soggetto morale, suo
referente primario, e la dimensione a priori che determina il suo
agire. Come osserva A. Guerra nella prefazione alle Lezioni di
etica253:
«L’esame della formazione del suo pensiero rileva
un ricchezza di movimento, una tensione interna di
istanze formali e reali (e non un semplice susseguirsi
di filosofie adottate come abitacoli provvisori), una
capacità di procedere in ordine sparso, con posizioni
prese quasi d’assalto e altre invece lungamente
esplorate e tentate, da consentire di escludere (di ciò
251 Cit. Indagine sulla distinzione dei principi della teologia naturale e della morale, in Scritti precritici, ed. Laterza, Bari 2000, p. 245.252 Estendendo la divisione tra un periodo precritico e uno critico a tutta la filosofia di Kant, il neokantismo vede l’evoluzione della teoria morale kantiana influenzata inizialmente dalle posizioni sensiste dei moralisti scozzesi, specialmente Hutcheson, per poi avvicinarsi successivamente a quelle razionaliste di Wolff. 253 L’edizione di riferimento è sempre Laterza, Bari 1984.
109
beneficiando, innanzitutto, l’ermeneutica delle
Critiche) che esso si fosse disvolto secondo fasi
bene segnate e ravvisabili, lungo un itinerario
obbligato di criticismo triumphans, Anche se, nella
dotta discussione dello Schmucker, si potesse poi
venire spinti, in qualche modo, a sottovalutare lo
sforzo critico innovativo, oltre che conclusivo, del
Kant maggiore anche sul piano etico-giuridico,
politico e religioso»254.
Il criticismo fa dell’indagine morale un campo vuoto per la
conoscenza e questo è stabilito indirettamente già molto prima
della Dissertazione quando, dall’Indagine fino ai Sogni di un
visionario, Kant stabilisce che i principi morali sono formali,
universali e non derivabili dall’osservazione empirica. Il
principio di obbligazione esposto nell’Indagine per cui “si deve
fare questa o quella cosa ed ometterne un’altra”255; il sentimento
morale delle Osservazioni come quel sentire non empirico in
quanto “sentimento della bellezza e della dignità della natura
umana” 256; la “regola della volontà universale” dei Sogni di un
Visionario257; il confine della conoscenza stabilito nella
Dissertazione e infine – nella seconda Critica - la legge morale
come un fatto della ragione. Tutti questi spunti mettono in luce
le tappe di un unico percorso. L’eccezione a un’interpretazione
progressiva dell’evoluzione della teoria etica kantiana si trova
invece nella terza sezione della Fondazione, dov’è in atto una
speculazione dell’etica. Pare che qui il filosofo abbia violato i
254 cit. ibid., p. XVII.255 cit. I. KANT, Indagine sulla distinzione dei principi della teologia naturale e della morale in Scritti precritici, ed. Laterza, Bari 2000, p. 264. 256 cit. I. KANT, Ossservazioni sul sentimento del bello e del sublime in ibid., p. 303: «La vera virtù […] può essere inculcata solo in base a principi i quali, quanto più sono generali, tanto più la rendono sublime e nobile. Tali principi non sono regole speculative, ma consistono nella consapevolezza di un sentimento che abita in ogni cuore umano […]. Credo di riassumere tutto quanto, se dico che si tratta del sentimento della bellezza e dignità della natura umana».257 cit. I. KANT, Sogni di un visionario chiariti con sogni della metafisica in ibid., p. 366: «Non è adunque soltanto in noi il punto in cui concorrono le linee direttive dei nostri impulsi, ma vi sono anche, fuori di noi, nell’altrui volere, forze che muovono noi. Da ciò nascono gli stimoli morali che spesso ci trascinano contro quanto richiede l’interesse personale in modo che manifestano la loro realtà la forte legge del dovere».
110
confini tracciati dalla metafisica volendo fare della libertà un
concetto deducibile, ovvero conoscibile.
Se quindi dall’Indagine fino alla seconda Critica la teoria
morale prosegue lungo un percorso lineare, ciò vuol dire che
nell’etica kantiana, ora possiamo affermarlo, non vi è distinzione
tra un periodo pre-critico e uno critico. Se questa divisione è
necessaria riguardo la teoria della conoscenza - di cui la
Dissertazione rappresenta lo spartiacque tra una posizione
empirista e una trascendentale – una differenza analoga per la
teoria morale sarebbe fuorviante.
La tesi secondo la quale un’etica precritica è un nonsense si
riallaccia agli studi sull’evoluzione dell’etica kantiana iniziati
negli anni ‘50 del secolo scorso a partire da Dieter Henrich, con
il suo saggio su Hutcheson e Kant, e culminati nel lavoro di
Josef Schmucker. Lo studio di questi due autori ci offre una
visione d’insieme più autentica di quanto non abbia fatto il
neokantismo dell’ultimo decennio del XIX secolo. Secondo
quest’ultimo la rigida distinzione tra un periodo pre-critico e un
periodo critico investe tutta la filosofia kantiana, portando
logicamente a supporre che gli scritti degli anni ’80 fossero
essenzialmente altra cosa rispetto a quelli precedenti. In questa
linea interpretativa l’etica di Kant somiglia alla parabola del
figliol prodigo: nel suo momento iniziale si distacca più o meno
totalmente dalla morale razionale della Schulphilosophie,
avvicinandosi alle posizioni etiche scozzesi, per poi ritornarvi a
partire dalla Dissertazione, in coincidenza quindi con l’inizio
della filosofia critica.
Gli elementi a sostegno dell’esistenza di un’etica precritica non
mancano. In primo luogo a partire dall’Indagine, dove Kant
rimanda a “Hutcheson e altri” i quali avevano visto nel
sentimento morale la fonte dei principi materiali; in secondo
luogo nel suo stretto rapporto con Rousseau. Ma a ben vedere in
entrambi i casi si tratta di uno sguardo superficiale. Vediamo
perché.
111
Ridurre gli spunti morali dell’Indagine ai soli principi materiali
significa trascurare in maniera significativa quanto il filosofo
affermi subito prima nell’incipit dello stesso paragrafo per
spiegarne il titolo (“I principi della morale nella loro
costituzione attuale non sono ancora capaci di tutta l’evidenza
richiesta”):
«Per chiarire questa affermazione voglio mostrare
soltanto quanto sia ancor poco noto il primo
concetto stesso della normatività»258.
E’ l’obbligazione il concetto primo, non certo il sentimento
morale come principio materiale, anzi quest’ultimo è la materia
del principio formale dell’obbligazione. Infatti, a proposito del
sentimento come la facoltà di sentire il bene, Kant chiarisce più
avanti che:
«Quando perciò un’azione viene rappresentata
immediatamente come buona, senza però contenere
nascostamente un certo altro bene che vi si può
ritrovare per suddivisione, e che le conferisce la
perfezione, la necessità di quest’azione è un
indimostrabile principio materiale della
normatività»259.
Certo, più avanti sosterrà una tesi che in seguito, almeno in
parte, sarà lasciata cadere: quella per cui non si possa «fare a
meno di questi principi [materiali] che, come postulati,
contengono il fondamento di tutte le altre proposizioni
pratiche»260. Ma resta pur vero che di tali principi materiali non
si possa fare a meno, anche se in futuro non avranno più la
qualifica di “principi”. Inoltre non dimentichiamoci che i
258 cit. I. KANT, Scritti precritici, ed. Laterza, Bari 2000, p. 244. In questo caso, normatività e obbligazione sono sinonimi.259 cit. I. KANT, ibid., pp. 245-246.260 cit., ibid., p. 246
112
principi materiali dell’azione sono la materia del concetto primo
di obbligazione, assunto formale primo. Appena un anno dopo,
infatti, nelle Osservazioni, Kant non considererà più il
sentimento morale come un principio, allontanando
definitivamente la sua accezione da una connotazione empirica,
preambolo del secondo imperativo categorico: il “sentimento
della bellezza e della dignità della natura umana”261. In ultima
analisi, quindi, queste riflessioni appena abbozzate mettono
chiaramente in scena un razionalismo in atto.
Per quanto riguarda il suo rapporto con Rousseau, bisogna
sottolineare due aspetti importanti. In primo luogo che è lo
stesso Kant a rimarcare la differenza tra sé e il filosofo
francese262; in secondo luogo che è proprio la visione dell’uomo
in Rousseau a essere decisamente più vicina a un punto di vista
razionalistico di quanto generalmente si creda, o almeno è così
che Kant intende la posizione dell’autore francese:
«Prendendo sempre in considerazione dal punto di
vista storico-filosofico nella dottrina della virtù ciò
che accade prima di indicare ciò che deve accadere,
chiarirò il metodo con il quale si deve studiare
l’uomo, non solo quello che cambia attraverso la
diversa forma che gli imprime il suo stato
accidentale […], ma la natura dell’uomo che sempre
rimane e la sua propria posizione nella creazione»263.
Pur essendo “natura” un termine che verrà abbandonato in
seguito, non bisogna dimenticare che in questo contesto tale
termine non ha alcun significato antropologico. Per “natura” si
deve qui intendere ciò che è essenziale e permanente264. Per 261 cit. I. KANT, ibid., p. 303.262 «Rousseau. Procede sinteticamente e comincia dall’uomo allo stato di natura; io procedo analiticamente e comincio dall’uomo costumato», cit. I. KANT, Annotazioni alle osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, ed. Guida, Napoli 2002, a cura di M. T. Catena. 263 cit. I. KANT, Nachricht von der Einrichtung seiner Vorlesungen in dem Winterhalbenjahre von 1765-1766, II, p. 326 [KGS, 2, p. 311]. Testo citato così come riportato da E. CASSIRER in Rousseau, Kant, Goethe, ed. Donzelli, Roma 1999, p. 19.264 Così come afferma E. CASSIRER in Kant, Rousseau, Goethe, ed. Donzelli, Roma 1999, p. 19.
113
Kant, quindi, come afferma Cassirer, Rousseau colma proprio la
lacuna degli empiristi che videro nell’uomo solo il mutevole e
l’accidentale.
«Per questo “essenziale”, che secondo Kant consiste
nella natura etica, non fisica, dell’uomo, Rousseau
gli ha aguzzato lo sguardo»265.
Il termine “natura”, così equivoco e vicino all’antropologia tout-
court, sarà abbandonato da Kant all’interno dell’impianto
sistematico dell’etica, come abbiamo accennato poc’anzi e
affermato in precedenza266. Ma ciò non toglie che la scelta di
questo termine – che come sottolinea Cassirer ha un significato
etico e non fisico – rimarca l’attenzione di Kant per una teoria
morale che sia formale ma insieme accessibile in primo luogo ad
“ogni essere razionale”, quindi all’uomo.
E’ pur vero che Kant non formula pienamente i suoi concetti
etici fondamentali già all’inizio delle sue riflessioni - mi
domando quale filosofo morale lo abbia mai fatto - ma è
sicuramente falsa l’interpretazione che vuole l’etica kantiana
inizialmente influenzata dai moralisti scozzesi e poi
successivamente approdata ad una fondazione razionale. La sua
concezione dell’etica è razionalistica fin dai primi anni ’60. Ne
sono un esempio gli appunti delle Reflexionen dove, oltre a
contenere le già citate considerazioni sul sentimento morale
come l’”ipotesi per spiegare il fenomeno dell’approvazione”,
troviamo delle critiche dirette alla morale di Hutcheson:
«Il principio di Hutcheson non è filosofico perché
adduce un nuovo sentimento come spiegazione: in
265 cit., ibid., p. 19.266 Nel paragrafo 1 parte III della tesi.
114
secondo luogo perché cerca principî oggettivi nelle
leggi della sensibilità»267.
Non c’è critica più diretta all’etica del moral sense, e, badiamo,
siamo ancora negli anni ’60. Ancora, in un appunto dello stesso
periodo:
«Il sentimento morale non è un sentimento
originario. Esso si basa su una legge necessaria
interiore (che comanda) di considerare e di sentire se
stessi da un punto di vista esteriore (cioè
oggettivamente). (Ci comanda cioè) di metterci
quasi nella persona della ragione, dove ci si sente in
universale e si considera la propria individualità
come qualcosa di contingente, come un acciens
dell’universale»268.
Come può sussistere l’ipotesi che vuole un Kant inizialmente
vicino alle etiche del sentimento se già circa quindici anni prima
della Fondazione e vent’anni prima della seconda Critica
affermava che il bene morale non è primariamente sentito ma è
la conformità alla ragione?
«Abbiamo un’attività fondamentale della ragione,
per la quale non possiamo fare a meno di esercitare
le nostre attività conformemente alla ragione, e
perciò proviamo un senso di disapprovazione appena
essa viene da quelle contraddetta»269.
267 cit. Reflexion 6634, XIX, 1764-1770, così come riportare da Sofia Vanni Rovighi in Introduzione allo studio di Kant, Brescia 2001, p. 221.268 cit., Refl. 6598, XIX, 1764-1770, sempre così come riportare da S.V. Rovighi in ibid., p. 221.269 cit. Refl. 6591, XIX, 1764-1770, sempre così come riportare da S.V. Rovighi in ibid., p. 222.
115
Conclusione
Il difficile statuto dell’etica di Kant e l’ironia di una morale
non-teoretica: il punto cieco della motivazione e
l’emancipazione dall’antropologia
Abbiamo visto quindi come tra quaestio diiudicationis e
quaestio executionis si condensano efficacia, difficoltà e
incompletezza della teoria morale kantiana. Per la
Schulphilosophie valutazione e motivazione erano debitamente
distinti come due domini differenti. Il concetto di obbligazione
in Baumgarten, per esempio, include solo l’elemento valutativo
mentre quello motivante veniva ricondotto al timore di una
punizione o all’esortazione a meritare un premio, cosa che ha
portato Kant a considerare la morale di scuola inoperabile
perché estrinseca. Invece i filosofi morali ‘del sentimento’,
quelli appartenenti alla classe degli “scozzesi”, fanno l’esatto
contrario. Hutcheson, per esempio, ritiene il sentimento morale
principio di valutazione vero e proprio, per cui la distinzione tra
116
diiudicatio ed executio non ha alcuna importanza, essendo
entrambi derivabili dal sentimento di piacere o dispiacere che
fonda una buona azione.
La novità dell’indagine morale del filosofo di Königsberg
rispetto alle teorie del suo tempo risiede nella consapevolezza di
dover portare in un unico dominio tanto la valutazione che la
motivazione, affinché l’etica sia insieme razionale ed efficace:
una filosofia pratica soggettiva, ovvero una dottrina razionale
sull’agire reale. L’insistenza “socratica” del filosofo, con i suoi
richiami alla “natura umana” e ad un soggetto che deve
“rischiarare” concetti che la ragione già possiede, va proprio in
questa direzione, coadiuvata dall’esigenza di lasciare spazio al
sentimento morale affinché la teoria stessa non si riduca ad un
tautologico costrutto logico.
La scelta dell’obbligazione quale forma con la quale la volontà
morale si presenta nel soggetto; l’interesse per la legge nella
forma del rispetto con il quale l’uomo avverte la buona condotta
e, infine, il fatto della ragione, in base al quale la buona condotta
riflette la presenza attiva della volontà nella forma del comando,
sono tutti aspetti che insieme connotano una morale che sia etica
della vita morale, ovvero una filosofia pratica soggettiva: non
una semplice etica del dovere dove si impongono prescrizioni,
né un insieme di regole dell’agire, bensì la formazione della
morale nel soggetto da parte del soggetto stesso, in forza della
sua facoltà di volere.
L’esigenza di rendere l’etica vicina all’uomo era, del resto, la
prerogativa di tutti i pensatori morali di quel periodo. Così, in un
appunto di Kant si legge che i filosofi morali devono fornire,
oltre che «teorie della valutazione morale, per conoscere che
cosa sia buono o cattivo», anche «ragioni dell’esecuzione,
causae subiective moventes, affinché si ami effettivamente ciò
che si approva», e dunque «precetti su come l’inclinazione possa
essere armonizzata con i principi o sottomessa loro»270. Sulla
270 cit. Reflexion 6988, XIX 220; 1776-78?, così come tradotto da S. Bacin in Il senso dell’etica, ed. Il Mulino, Bari 2006, p. 243.
117
base di questo appunto possiamo stabilire due cose importanti.
In primo luogo che tanto la valutazione quanto la motivazione
devono rientrare in una teoria morale che voglia essere efficace,
in secondo luogo che entrambi vanno armonizzati nel soggetto
sulla base di un’esigenza internalistica della teoria morale.
----
Ricapitolando, la valutazione attiene a ciò che deve essere fatto,
la motivazione a ciò in forza del quale si compie un’azione,
l’una include la ragione per cui si dovrebbe agire, l’altra la
ragione per cui si agisce. Entrambe hanno il proprio dominio
nella legge morale, espressione della spontaneità della ragione.
Il motivo per cui si compie un’azione risiede nel modo in cui
l’ho valutata, e il modo in cui l’ho valutata nella regola con la
quale la volontà pura si organizza nella forma del
dovere/comando.
Ma una teoria morale siffatta per essere realmente efficace –
universale – deve rifiutare ogni fondamento empirico. Ora la
spinta (il motivo) ad agire non deve accompagnare il comando
della norma ma deve essere essa stessa contenuta nella legge
morale. Tale è l’ispirazione internalistica kantiana. Così facendo
però la motivazione diventa un punto cieco: per quanto il
principium executionis non risieda nel sentimento di piacere o
dispiacere, in un premio/punizione, nel timore di Dio, ma nel
rispetto della pura legge, l’inesplicabilità/incomprensibilità della
legge morale, il suo essere un fatto, rende “invisibile” dal punto
di vista formale la forza motivante. Infatti, per quanto l’agire sia
razionale, l’agente che sceglie ciò che lo comanda in forza di un
motivo deve necessariamente farlo sulla base di un oggetto,
altrimenti non agirebbe mai. G. B. Sala ha riassunto questo
problema in questi termini:
118
«La forma dell’universalità non rappresenta nessuna
condizione sufficiente per un comando o una
proibizione moralmente giusti […]. Di fatti tutte le
massime si possono, da un punto di vista puramente
formale, universalizzare […]. La vera questione è
quindi se le conseguenze di una massima
universalizzata vengano ritenute desiderabili o
invece disastrose. Per questo giudizio […] si
abbandona inevitabilmente il principio meramente
formale dell’universalità. Infatti il test
dell’universalità consiste nel mettere l’azione in
questione in rapporto con l’uomo in quanto uomo e
nel domandarsi se questa azione conduca al bene
dell’uomo. […] Il bene che deve essere fatto è
sempre concreto, per cui per sapere che cosa è
confacente all’uomo in quanto questo uomo
concreto, occorre tener presente la sua situazione
concreta»271.
L’inevitabile referente del concreto – che qui non significa
sensibile ma reale – mette in difficoltà l’universalità del
principio morale. Certo, nella morale kantiana universale e
formale appaiono quasi come sinonimi, ma non
dimentichiamoci che il primo significa “valido per tutti (gli
esseri razionali)” e il secondo “non determinato empiricamente
ma razionalmente”. L’universalità della legge è quindi
insufficiente per il comando, ma non nel senso che necessita di
un contenuto empirico, piuttosto che richiede condizioni
concrete - e non casi, altrimenti non sarebbe formale - per
confermare la legge morale nella sua formalità. Su questo è lo
stesso Kant ad indicare, involontariamente, questa situazione.
Basta riportare il passo delle Annotazioni dove afferma:
271 G. B. SALA, Immanuel Kant, Critica della Ragion Pratica, un commento, ed. Vita e Pensiero, Milano 2009, pp. 133-134.
119
«la mia generosità è utile ad altri bisognosi, si deve
quindi essere generosi. Per niente. Ma se qualcuno
vuole essere utile agli altri, allora, che sia
generoso!»272.
Se la legge morale si manifesta sempre alla coscienza di ogni
essere razionale come un’esperienza a priori, è sufficiente che
mi domandi se voglio che la mia azione sia universalmente
valida. Purtroppo il criterio con cui si applica questo giudizio,
pur essendo a priori, non può fare a meno di considerare le
condizioni concrete.
Nel momento in cui si compie un’azione l’agente smette di
giudicare – il giudizio pratico attiene al valore – e sulla base di
tale giudizio si pone un massima con cui agisce concretamente.
Il carattere ‘sentimentale’ della motivazione sarà allora di natura
particolare: a priori (causato dalla legge morale), attivo (nella
forma del rispetto della legge morale) e legato esclusivamente
all’interesse che la mia massima valga universalmente. Se
quindi è chiaro come obbligazione e motivazione siano
compresenti nel soggetto in forza del fatto che la legge morale
contiene anche il motivo per cui debba essere seguita (il rispetto
per essa), rimane, d’altra parte, tutta la difficoltà di descrivere
dal punto di vista della ragion pratica il momento in cui si agisce
effettivamente.
S. Bacin ha riassunto questa problematica come il difficile
statuto della teoria morale tra metafisica e antropologia273.
L’autore spiega come intorno alla fine degli anni ’60
l’insoddisfazione di Kant nei confronti delle riflessioni etiche
della filosofia popolare lo abbiano portato verso lo schematismo
della logica. Grazie a questo solido strumento il filosofo ha
potuto analizzare con sicurezza il modo in cui l’intelletto
organizza le categorie. Dell’altra facoltà fondamentale
272 cit. I. KANT, Annotazioni alle osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, ibid., p. 167-168.273 cfr. S. BACIN, Il senso dell’etica, Kant e la costruzione di una teoria morale, ed. Il Mulino, Napoli 2006, pp. 135-164.
120
dell’animo, la volontà, se ne sarebbe invece occupata la morale
vera e propria. Come abbiamo affermato in precedenza274, la
“collaborazione” tra logica e morale, senza l’appiattimento
dell’una sull’altra, permette di correggere i difetti di entrambe:
una morale senza logica rischia di diventare mera antropologia
tout-court o, peggio, una filosofia popolare; la logica senza la
morale in comandi vuoti e tautologici senza efficacia. Sono state
queste premesse concettuali e l’ispirazione internalistica della
teoria a dare a Kant la possibilità di costruire una metafisica dei
costumi, una teoria morale alternativa alla Schulphilosophie e
alle etiche del sentimento. Un percorso teorico che mostra i suoi
primi “segni” nelle osservazioni dell’Indagine fino alla
Dissertazione e alla Fondazione. Tale metafisica però stabilisce
soltanto un punto di partenza (una fondazione appunto) ad un
sistema dei doveri. Le norme concrete da ricavare in seguito non
appartengono più al campo della metafisica, ma
all’antropologia.
L’antropologia morale viene da Kant definita “pratica”: una
trattazione dei doveri e della loro configurazione per l’uomo.
Questa si distingue dalla mera descrizione dell’uomo sulla base
dell’osservazione empirica, a cui Kant dà il nome di
pragmatica275. Il problema di esaurire una trattazione formale
sull’etica che accontentasse “metafisicamente” tanto il momento
valutativo che motivazionale, risulta quindi impossibile. Il
momento fondazionale e metafisico della teoria si sarebbe
potuto occupare solo dell’aspetto normativo riconducibile a
concetti, mentre la realizzazione concreta di questi comandi non
rientra più in un’indagine a priori276. E’, si potrebbe dire,
274 pp. 32-35 della tesi.275 Tale distinzione sarà destinata a cadere nel momento in cui Kant sostituisce pratico a pragmatico per distinguere la sua antropologia da quella della morale di scuola. Cfr. Anthropologie Matuszewski (in Königsberg Kantiana. Imanuel Kant, Werke. Volksausgabe, vol. I, hrsg. V. A. KOWALEWSKI, neu hrsg. V. S. L. KOWALEWSKI u. W. STARK, Hamburg 2000), p. 185: «certo, diversi uomini, tra i quali Platner, Home e Tetens, ci hanno fornito delle antropologie. Tuttavia, in tutti questi scritti l’antropologia viene trattata soltanto come una disciplina teoretica, come una psicologia, senza che venga determinata la sua influenza sulla vita comune. Noi vogliamo, invece, esporre questa disciplina in termini pragmatici, ossia essa deve insegnarci a riflettere sugli esseri umani, ad acquisire un’influenza su di esse, per poterli guidare secondo i nostri intenti». Riporto tale citazione così come è stata tradotta da S. BACIN, ibid., p. 157. 276 cfr. ibid., p. 163.
121
l’”ironia” del carattere non-teoretico della dimensione pratica:
proprio perché l’uso pratico della ragione non produce una
conoscenza, risulta impossibile sapere a priori quale azione sia
buona visto che la morale non si fonda sull’azione ma sul
principio razionale che lo pone come un dovere.
In conclusione, quindi, Kant emancipa a tutti gli effetti l’etica
dall’antropologia, riuscendo nell’impresa di costruire
formalmente una teoria morale fondata su principi razionali, ma
questo non significa che l’etica kantiana possa fare a meno di
essa. Sicuramente la filosofia pratica soggettiva di Kant non ha
bisogno dell’antropologia per formulare quel “supremo
principio della moralità” che sta alla base delle buone azioni,
quindi non ha bisogno di essa lì dove la moralità ha un inizio:
nella legge morale con i suoi comandi razionali, formali,
autonomi e universali. Però l’applicabilità di tali principi, come
abbiamo affermato in precedenza con G. B. Sala, richiedono
condizioni concrete, reali, che una teoria morale di questo tipo
non può anticipare. Un criterio puramente formale per giudicare
la moralità di un’azione è difficile da trovare, se non
impossibile. Si tratta della domanda: quali massime possono
essere leggi universali?
122
Riferimenti bibliografici
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I. Kant, Scritti precritici, ed. Laterza, Bari 2000, pp. 347-
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