Proclamando il testo biblico nel contesto comunitario di unassemblea liturgica, la chiesa consegna...

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Proclamando il testo biblico nel contesto comunitario di un’assemblea liturgica, la chiesa

consegna ai credenti la Scrittura riordinata a partire dalla sua logica di costruzione interna: il mistero di Cristo, il mistero pasquale di Cristo, vero criterio ermeneutico dell’intera Scrittura.

La Parola di Dio emergerà allora dalla relazione tra le

letture bi bliche; dalla sinergia tra letture bibliche e

contesto liturgico cele brativo; dall’accostamento delle letture scelte per una

data festi vità; dall’assegnazione di una

certa pericope a una festa particolare o a un preciso contesto celebrativo: tutti

questi elementi con corrono a quella «manifestazione della

verità» (2Cor4,2) che con siste nella presenza di Cristo, vero cuore delle

Scritture e della liturgia.

Si comprende dunque l’apoftegma di Gerolamo secondo cui «l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo»8 e anche che la celebrazione del mistero di

Cristo è celebrazione della Scrittura.

8. citato in DV 25 e OLM 5, nota 14

L’omelia

Momento particolarmente importante nel passaggio del testo a parola vivente è l’omelia. La sua struttura fondamentale è sinte tizzata nelle parole di Gesù nella sinagoga di Cafarnao: «Oggi si è compiuta questa Scrittura nei vostri orecchi» (Lc 4,21, letteralmente). La Scrittura proclamata nell’oggi a un destinatario preciso: l’assemblea radunata (l’omelia è sempre parola «rivolta a»).

«Parte dell’azione liturgica»9, 9. CONCILIO VATICANO II, Sacrosanctum Concilium, o. c., n. 52.

l’omelia adempie i compiti aposto lico,

catechetico e mistagogico che

conducono i fedeli a passare dall’ascolto

della Parola alla contemplazione

della presenza di Cristo nella storia della salvezza e

nell’oggi dell’assemblea.

Un’omelia adeguata, salda, Scrittura e sacramento

nell’unico atto di culto10 che si pone a servizio del

passaggio del Signore in mezzo al suo popolo. La

presenza di una vera omelia «significa che si verifica un

po’ di pentecoste, poiché degli uomini si

comprendono a vicenda, trovano che la parola

dell’altro è diretta a lo ro stessi, sentono la Parola di

Dio nella parola dell’uomo» (Joseph Ratzinger).

10. Cfr. idem, n. 56.

La comunità dell’ascolto

La comunità radunata per l’ascolto della Parola di Dio forni sce alla parola scritturistica il contesto ideale nel quale essa può

venire attualizzata e vivificata: la comunità convocata dalla pa rola diviene grembo che, fecondato dallo Spirito, accoglie e rige nera

la parola della Scrittura e diviene luogo per eccellenza di comprensione della Scrittura:

«Molte cose nella S. Scrittura che da solo non sono riuscito a capire, le ho capite

mettendomi di fronte ai miei fratelli (coram fratibus meis positus)... Mi sono

reso conto che l’intelligenza mi era concessa per merito loro»11.

11. GREGORIO MAGNO, Moralia, II, n.1 (Gregorio si riferisce al contesto co munitario liturgico).

L’unità della comunità radunata attesta già

l’efficacia della Parola che chiama e ha il potere di

riunire oggi uomini e donne per l’incontro con il Signore. Collocata nell’al

veo comunitario e liturgico, la Scrittura proclamata, interpretata nell’omelia, che ispira l’eucologia12,

rende la comunità ec clesia nudiens: il primato

dell’ascolto rende il gruppo dei credenti ekklesía.

12. CONCILIO VATICANO II, Sacrosanctum Concilium, o. c., nn. 7.33.

«Nell’ascolto della Parola di Dio si edifica e cresce la chie sa ... Ogni

volta che la chiesa, riunita dallo Spirito santo, annunzia e

proclama la Parola di Dio, sa di essere il

nuovo popolo di Dio, nel quale l’alleanza, sancita

negli antichi tempi, diventa piena e

completa»13.

13. ORDO LECTIONUM MISSAE, 9

Il passaggio dal testo alla parola richiede come atteggiamento basilare l’ascolto:

ascolto del lettore, ascolto del predicatore,  

«per non essere vano predicatore della Parola di Dio all’esterno colui che non l’ascolta di dentro»14,  ascolto dell’assemblea.  

14. AGOSTINO, Sermone 179, 1 (citato in DV 25).

L’ascolto deve avvenire nella fede, cioè nella di sponibilità a realizzare, a vivere la parola: grazie ad esso la parola scritturistica potrà avvenire come evento sempre nuovo e attua le nei destinatari futuri della Parola di Dio. Ascoltare nella fede significa infatti aprirsi alla convinzione che attraverso il testo bibli co Dio parla a noi oggi. Il contesto liturgico attua la sacramentalità della Scrittura per cui

«nella liturgia Dio parla al suo popolo; Cri sto annunzia ancora il vangelo»15;

«Nei libri sacri il Padre che è nei cieli viene con sovrabbondanza di amore incontro ai suoi figli ed entra in

conversazione con loro»16.

15. CONCILIO VATICANO II, Sacrosanctum Concilium, o. c., n. 33.

16. CONCILIO VATICANO II, Dei Verbum, o. c., n. 21.

Ma soprat tutto vanno sottolineate, come

condizioni che favoriscono il discernimento e

l’accoglienza della Parola di Dio contenuta nella

Scrittura, la dimensione della contemporaneità

(oggi, hodie) e del coinvolgimento diretto

del destinatario («per me», «per noi»: cfr. l Cor 10,11:

gli eventi dell’esodo (Furono scritti per

ammonimento no stro, di noi per cui sono arrivati gli

ultimi tempi»).

Regola erme neutica basilare è l’hodie in

Christo et in ecclesia. Questa accoglien za del libro nell’oggi fa sì che esso non appaia nella liturgia come libro di studio ed i istruzione,

come documento letterario del pas sato, ma come memoriale

della storia di salvezza compiuta nell’evento

pasquale di Cristo che è appunto ciò che celebra

la co munità riunita.

Il coinvolgimento dei membri dell’assemblea at tiene al

carattere di alleanza della liturgia che chiede non solo di

sentire rivolte a sé le parole del Signore, ma di metterle in

pratica. Ovviamente è perfino inutile ricordare che la parola

scritturisti ca può diventare vivente e vivificante grazie alla sempre maggio re familiarità dei fedeli (e tanto più del presidente

dell’assemblea e di chi ha l’incarico della predicazione)

con la Scrittura e la loro sempre più assidua pratica della lectio

divina. Scriveva Giovanni Crisostomo:

«Ecco ciò che vi chiedo: che un giorno alla settimana o la domenica, ciascuno di voi prenda in mano il passo del van gelo che vi verrà letto nella liturgia, per leggerlo e rileggerlo in anticipo; che ne facciate in casa uno studio attento e ponderato, notando ciò che vi è di chiaro e di oscuro, ciò che sembra con traddittorio senza esserlo in realtà. Dovreste venire ad ascoltare la parola sacra soltanto dopo una tale preparazione, diligente e completa. Questo lavoro sarebbe di grande utilità per me: io non troverei grande difficoltà a farvi comprendere il senso di ogni te sto, essendo la vostra intelligenza già familiarizzata con i testi; voi sareste più chiaroveggenti e perspicaci, non solamente per ascoltare e apprendere meglio, ma anche per insegnare agli altri quanto avrete appreso»17.

17. GIOVANNI CRISOSTOMO, Il vangelo di Giovanni XI, 1.

L’ascolto poi della Pa rola da parte della comunità deve essere orante.

«La lettura della Scrittura dev’essere accompagnata dalla preghiera, affinché pos sa

svolgersi il colloquio tra Dio e l’uomo; poiché “gli parliamo quando preghiamo e lo ascoltiamo

quando leggiamo gli oracoli divini”»18.

18. CONCILIO VATICANO II, Dei Verbum, o. c., n. 25.

La liturgia è il contesto orante per eccellenza che consente questo atteggiamento per cui la parola ascoltata viene recepita «quale veramente è, quale Parola di Dio» (1Ts 2,13), non su Dio, e ad essa si risponde parlando a Dio, non di Dio. Si compie così l’itinerario dalla parola scritta alla presenza: Cristo

«è pre sente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella chiesa si legge la sacra

Scrittura»19.

19. CONCILIO VATICANO II, Sacrosanctum Concilium, o. c., n. 7.

Il silenzioUna condizione non molto sottolineata che consente il dispie garsi dell’efficacia della Parola di Dio e il suo ascolto è il silenzio. «Si osservi, a tempo debito, il sacro silenzio»20;  

«Il dialogo tra Dio e gli uomini sotto l’azione dello Spirito santo richiede bre vi momenti di

silenzio, adatti all’assemblea in atto, perché la Pa rola di Dio penetri nei cuori e provochi in

essi una risposta orante»21. 20. Idem, n. 30.21. ORDO, 21.

Ogni dialogo è fatto di parole e silenzi: il silenzio è es senziale al senso del discorso e alla possibilità dell’ascolto, quindi della comunicazione. «Il silenzio nella liturgia non è una cerimo nia; è piuttosto una sospensione di ogni gesto, parola, rito. Non è però una sosta dal celebrare, quanto invece un entrare nel cuore della celebrazione» (Achille Maria Triacca), del mistero celebrato.

«La Parola uscita dal silenzio»22,

il Figlio di Dio, abbisogna di silenzio per giungere a compimento nel cuore dell’uomo e portare frutto.

22. IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Ad Magnesios 8, 2.

Il silenzio liturgico fa ascoltare la «voce dello

Spirito» («Chi ha orecchio

ascolti ciò che lo Spirito dice

alle chiese»: Ap 2,7.11.17.29; 3,6.13.22).

«Riempirsi di silenzio è aprirsi allo Spirito santo: per sentirlo, ascoltarlo, essergli docili e docibili. Il silenzio di

adorazione e di contemplazione è la migliore apertura per accogliere la Parola di Dio. Il silenzio è pri mo gradino per

vivere la Parola del Signore. Il silenzio dopo l’an nuncio della Parola di Dio è via all’interiorizzazione e all’adegua zione della Parola di Dio a noi e di noi alla Parola di Dio»

(Achille Maria Triacca).

Il silenzio scava nel cuore del credente uno spazio per la ricezione

dello Spirito che è l’ermeneuta della Parola e del non-detto di Cristo

(cfr. Gv12ss.). Il Dio biblico si rivela anche

nel la («voce di un silenzio sottile» (1 Re

19,12) e il silenzio liturgico è spazio di

incontro con il linguaggio «ineffabile»

(cfr. Rm 8,26) del lo Spirito.

Il silenzio liturgico va perciò compreso

non come passività, ma come

azione, azione comune: la qualità del silenzio rivela la qualità dell’ascolto dell’assemblea, ma anche la sua stessa

qualità di assemblea.

Infatti, se la comunità nella liturgia è chiamata a «rendere gloria a Dio con un solo animo e una sola voce» (Rm 15,6), essa è anche chiamata a mostrare il suo essere corpo con un silenzio che sia

linguaggio dell’insieme dei membri dell’assemblea, di ciascu no e di tutti. Lettura della Parola e omelia sono pertanto finalizza te a costruire il silenzio comune della comunità riunita, cioè il solido fondamento di una comunità sotto messa all’autorità della Parola

di Dio.

Una Parola che mette a nudo

e che ferisce

Che cosa avviene quando la Parola di Dio, scaturita

dal testo bi blico, raggiunge l’ascoltatore?

Un’esperienza non infrequen te che al

credente è dato di fare è quella di sentirsi

«radiografato», «messo a nudo» o durante la

proclamazione liturgica della Parola o durante la lettura di un testo biblico

nella lectio divina, oppure all’ascolto di una omelia o di un commento

di un testo biblico.

La fede e l’ascolto che il credente predispone divengono sorpren dentemente

accoglienza di una Parola che già lo conosce e così lo mette in crisi. È

l’esperienza di David che reagisce con veemenza alle parole del profeta Natan, ma poi deve riconoscere che ciò che ha detto il

profeta non riguarda altri, ma concerne direttamente e personalmente lui: «Sei tu quell’uomo!» (cfr. 2Sam 12,1-14); è la sor presa della donna di Samaria di fronte a Gesù che le parla (Gv 4,26): «Mi ha detto

tutto quello che ho fatto» (Gv 4,29).

Nella Parola di Dio, in ogni pagina della Scrittura che contiene la Parola di Dio, è

sempre presente la domanda di Dio rivolta ad Adamo e ad ogni uomo: «Dove sei?» (Gen 3,9),

dove ti situi? Domanda che coglie Adamo e ogni uomo che accetti di ascoltarla,

nella nudità, nella fragilità: non che questa Parola crei

tale nudità, ma la fa emergere, ponendo l’uomo

davanti a una Presenza altra

(cfr. Gen 3,10).

Quan do si ascolta la Parola di Dio nella convinzione di fede che essa ci ri guarda (vorrei sottolineare: ci ri-

guarda, ci scruta e ci vede nel pro fondo), che parla a noi e di noi (res nostra agitur), allora noi la accogliamo

quale veramente è: non come parola «su» Dio, non co me parola solamente umana, ma «quale Parola di Dio che

esercita la sua efficacia in coloro che credono» (cfr. 1Ts 2,13).

Questa efficacia della Parola, che implica anche una sua valen za giudiziale, è parallela a quella

dell’Eucaristia attestata con forza da Paolo. È quanto emerge dal passo di 1Cor 11,17-34 in cui i ver setti

26-32 testimoniano la valenza giudiziale dell’Eucaristia:

«Ogni volta che mangiate questo pane e bevete al calice, voi an nunciate la morte del Signore, finché egli venga. Perciò chiunque mangia il pane o beve

al calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore. Ciascuno, dunque, esamini se stesso e poi mangi del pane e beva dal calice; perché chi mangia e

beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un

buon numero sono morti. Se però ci esa minassimo attentamente da noi stessi, non saremmo

giudicati; quando poi siamo giudicati dal Signore, siamo da lui ammoniti per non essere condannati

insieme con il mondo» (1 Cor 11,26-32).

Come l’Eucaristia è un «annunciare» la presenza del Signore crocifisso, risorto e

veniente (1 Cor 11,26; verbo katanghéllein), co sì annunciare l’Evangelo (1 Cor 9,14; verbo katanghéllein) è un ma nifestare la presenza

del Cristo vivente (cfr. 2 Cor 4,2):

«Cristo è pre sente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella chiesa si legge la

sacra Scrittura»23;

 23. CONCILIO VATICANO II, Sacrosanctum Concilium, o. c., n. 7.

tramite le Scritture  

«Dio parla al suo popolo, Cristo annuncia ancora l’Evangelo»24;

 nelle Scritture Dio viene con

sovrabbondanza di amore incontro al suo popolo, cerca l’incontro e la relazione con

ogni credente25.

24. Idem, n. 33.25. CONCILIO VATICANO II, Dei Verbum, o. c., n. 21.

Sì, se nell’annuncio della Parola di Dio avviene la phanérosis tés aletheías (2 Cor 4,2), la

«manifestazione della verità» che è Cristo, questa diviene anche svelamento della verità che è in ciascuno: ma svelamento è anche spogliazione, abbattimento delle difese, delle corazze, delle maschere, perché emerga la verità interiore.

E questo svelarsi a noi della nostra verità

intima si accompagna sem pre a un grande

dolore: il dolore della morte delle nostre idealiz zazioni, dello spezzamento delle

immagini di noi che tanto amia mo ma che null’altro sono se non idoli. Come le folle di Gerusa lemme, così anche il credente di

sempre sente la trafittura del cuo re

all’ascolto della Parola di Dio (cfr. At 2,37).

Questo dolore della Parola che mette a nudo, giudica e mette a morte è però tollerabile perché nasce da uno sguardo di amore,

esattamente come lo sguardo di Gesù sull’uomo ricco, uno sguar do che trasmette amore

(«Gesù, fissato lo sguardo su di lui, lo amò»: Mc 10,21), quell’amore al cui interno può avvenire la rive lazione della povertà, della

mancanza profonda, forse anche della contraddizione che abita quell’uomo («Una

cosa ti manca»: Mc 10,21), senza che questa lo schiacci, lo umilii, ma sia invece il pri mo gradino della sequela dietro a Gesù nella

libertà e nella verità («Vieni e seguimi»: Mc 10,21).

Sì, la valenza giudiziale della Parola, il fatto che

essa tenda a con vincere di peccato, a svelare all’uomo la debolezza e la povertà che lo abitano, è parte

costitutiva del cammino di salvezza che la Pa rola di

Dio indica e fa percorrere all’uomo. È Una Parola che fa emergere la situazione reale dell’uomo davanti a Dio, gli pone un’esigenza

che indirizza il suo cammino e concede anche, a chi la accoglie, la forza di

mutare la propria condizione.

In questo mi pa re di ravvisare le

tre grandi «forme» della Parola di Dio

nell’Antico Testamento:

la sapienza, la legge,

la profezia.

Se la parola sapienzia le «dice» il reale, se la parola del comando (la legge) «orienta» il reale e se la parola profetica «interviene» nel reale e lo

«cambia», sempre que sta parola cerca relazione con l’uomo e la trova in pienezza nella Parola fatta carne, Gesù Cristo, che è la via (livello della Legge -To rah),

la verità (livello profetico) e la vita (livello sapienziale).

Gesù Cristo è la Parola, e in quanto tale è anche il Giudizio, è colui che sa ciò che vi è in ogni uomo (Gv 2,25), che scruta il cuore e i reni, cioè la vita conscia e l’inconscio degli uomini. Egli è la Parola di Dio i cui

occhi sono fiammeggianti (Ap 19,12-13).

Insomma, la Parola di Dio ci giudica quando e perché da essa noi ci sentiamo posti di fronte alla Presenza del

Signore! E questo giudizio tende a suscitare la responsabilità dell’uomo: «Davanti al la Parola di Dio

(lógos toù theoú) non c’è creatura che possa nascondersi, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi (cioè, della

Parola) e noi ad essa dobbiamo rendere conto (ho lógos)» (Eb 4,13).

Alla Parola (di Dio) deve rispondere la nostra

parola, cioè l’intera nostra vita con tutte le dimensioni

psicologiche e affettive, soma tiche e spirituali che sono interpellate, toccate, messe in crisi, fe rite dalla

Parola. È l’opera di purificazione che la Parola, abitata dallo Spirito di Dio,

opera nell’uomo. È la morte attraverso cui la

Parola fa passare il credente per guidarlo alla

pienezza della vita.

Perché anche l’ascolto della Parola avviene all’interno della logica pasquale, cioè nel quadro di una morte e di

una resurrezione. Ac cogliere la Parola dell’Evangelo comporta sempre questa dinami ca pasquale. E questo ci dice come sia difficile l’ascolto della Parola di Dio:

noi poniamo resistenze a tale ascolto, temiamo il giudi zio della Parola su di noi, cerchiamo di evitare la

purificazione e lo spogliamento prodotti in noi dall’accoglienza del seme della Pa rola, così come i

terreni non profondi, sassosi, o infestati dai rovi (Mc 4,1-9.13-20) non accolgono la semente perché per farlo

do vrebbero lasciarsi dissodare dai sassi, ripulire dai rovi, arare e sarchiare come fa il padrone della vigna

nella parabola narrata in Is 5. Ma, per quanto temibile, questo giudizio è vitale. Come è vitale l’evento della

morte di croce che si apre alla resurrezione.

CHIESA E «TRASMISSIONE DELLA FEDE»

Affrontare il problema della trasmissione della fede oggi richiederebbe un’analisi di

quella che è stata definita «la pri ma società post-tradizionale»

(Danièle Nervieu-Léger), così come della «cultura

dell’amnesia» (Johann Baptist Metz) dominante og gi in

Europa. Fenomeni che pongono problemi gravi alla chiesa che

vive di paràdosis e di memoria, in quanto essa si

fonda sulla narrazione di generazione in generazione

della memoria passionis Jesu Christi.

Fenomeni che chiedono ai cristiani di fondare nell’oggi e di

rimotivare ogni parola e ogni gesto della fede, non più

supportati dall’autorità di una tradizione che li renda eloquenti, credibili e ne

favorisca il passaggio tra le generazioni. E più in radice

ancora, occorrerebbe affrontare il problema della trasmissibili tà della fede stessa: se la fede è dono teologale ed è suscitata

dallo Spirito, può essere oggetto di trasmissione? Se sì,

in che limiti e in che senso?

Una comunità generante

L’episodio dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35) è emblemati co della possibilità di un annuncio di Cristo fallimentare perché incapace di trasmettere vita. I due di

Emmaus annunciano un mor to (Lc 24,21-24), narrano la loro frustrazione e la loro perdita di

speranza.

Essi dicono la possibilità, per la chiesa di sempre, di un annuncio che non dà vita, ma tiene chiusi nella

morte il Cristo an nunciato, gli annunciatori e i destinatari dell’annuncio. La do manda circa il

trasmettere la fede, che non è impresa individuali stica e solitaria, ma evento comunitario, ecclesiale,

non deve indi rizzare le risposte nel senso della ricerca di strategie comunicative efficaci (il livello

del: come?) e neppure incentrarsi analiticamente e settorialmente sui destinatari, per esempio i giovani

(il livello del: a chi?), ma deve essere declinata come domanda che riguarda il soggetto incaricato di

questa operazione spirituale (il livello del: chi?).

Deve divenire una domanda della chiesa su di sé. Questo consente di impostare il problema in maniera non estrinseca, ma cor retta, perché pone in causa la chiesa

tutta nel suo essere e nel suo vivere.

E forse così si può anche cogliere il fatto che il

problema dell’infecondità dell’evangelizzazione oggi,

o, se vogliamo dirlo con le parole dell’allora Card.

Ratzinger, «l’esito catastrofico della catechesi nei tempi moderni», è un problema

ecclesiologico, che riguarda la capacità o meno della chiesa

di configurarsi come rea le comunità, come vera

fraternità, come corpo e non come mac china o azienda.

«Ecclesia mater»: la chiesa come luogo di esperienza di amore

Chiediamoci: che senso ha, se ne ha ancora,

l’espressione ama re la chiesa? Si può amare una

chiesa che consenta al credente di fare esperienza di

amore, di gratuita, di perdono, di misericordia,

di tutto ciò che sta nell’ampio spazio dell’amore (e dunque

anche della sofferenza inerente all’amare). L’amore, infatti, è ciò che è ve ramente

generante e vitale.

E che rende possibile la vocazione ma terna della chiesa: generare alla fede e nutrire la fede dei suoi figli mediante: la predicazione, la liturgia, il Battesimo, i sacramenti, l’educazione, la testimonianza.

Una chiesa che trasmette la fede è una chiesa capace di maternità. Che, a mio modo di vedere, signi fica anzitutto capace di umanità. Del resto, l’atto di credere, di «fare

affidamento su», è anzitutto un atto umano, umanissimo. Chia mato ad avvenire in un contesto umano e umanizzato. Di più.

La fe de credibile è quella che raggiunge

l’umano delle persone e che sa

toccare il tragico che le persone vivono.

Che compie cioè un atto di accoglienza e

assunzione della persona, prima di essere eventual mente accolta e

assunta essa stessa dalla persona.

Gesù Cristo: centro dell’annuncio

Al cuore dell’annuncio vi è Gesù Cristo creduto e

testimoniato. Ge sù con la sua pratica di umanità, con la

declinazione particolare che egli ha dato all’umano. Trasmettere la fede è

essenzialmente trasmettere le Scritture, e massimamente i vangeli26 che consentono al

credente di entrare nella conoscenza dinamica e coinvolgente di Gesù, il

Signore. 26. CONCILIO VATICANO II, Dei Verbum, o. c., n. 25.

Ora, secondo i vangeli, Gesù su scita fede, genera alla

fede, sa riconoscere la fede, e questo sempre all’interno di incontri in cui egli mette

in gioco la sua santità ospi tale. Gesù «evangelizza»

attraverso incontri umanissimi in cui egli crea

uno spazio di libertà attorno a sé consentendo a chi egli in contra di emergere come

soggetto e di scoprire la propria dignità e identità.

Cogliamo nell’arte di incontrare le persone che Gesù vi ve e che i vangeli narrano, un

magistero circa il clima relazionale richiesto per la trasmissione della fede.

Che è anch’essa operazio ne umanissima e relazionale.

Gesù personalizza gli incontri adattandosi all’altro nella sua situazione particolare, non giudica mai la persona che ha di fronte (si pensi all’adultera di Gv 8,1-1 1 o alla prostituta di Lc 7,36-50 che Gesù vede

come donna capace di amore là dove i suoi commensa li vedono solo una peccatrice), accoglie il linguaggio che l’altro sa mettere in atto (la prostituta di Lc 7,36-50 ha solo linguaggio cor poreo, non dice una parola), accetta di mettersi in discussione, di mutare parere riconoscendo la giustizia e la fede dell’altra perso na

(Mt 15,21-28), ha di mira la libertà dell’altro, non tende a lega re a sé coloro che guarisce o che giungono alla fede grazie a lui, ma li restituisce a se stessi (Mc 5,1-

20).

conoscere la valorizzazione del proprio nome e del proprio volto, della propria unicità;

entrare nel compito e nella responsabilità di umanizzarsi;

cogliere l’essenzialità del gratuito; entrare nell’avventura e nell’ascesi della

libertà.

Incontrare Gesù significa:

Questi elementi sono costituitivi dell’incontro che

anche oggi può condurre una persona alla fede in Gesù.

Condizione necessa ria è che questa persona incontri un’umanità fidabile. In

quest’ope ra di trasmissione la paternità spirituale, proprio per il carattere

relazionale umanissimo che la contraddistingue, può

rivestire un ruolo importante, particolarmente nei confronti

delle giovani ge nerazioni.