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Settembre 2012
Numero 9 - Anno I
Notiziario Enti Locali
della CGIL FP Piemonte N. E . L
Ci trovi su Facebook NEL FP CGIL Piemonte
Quanti sono oggi i precari in Italia nel pubblico impiego? Ci sono state delle “sorprese” nella ricerca condotta dalla CGIL e dal settimanale Internazionale?
Difficile quantificare: alle dipendenze dirette delle Pubbliche Amministrazioni e dei settori della conoscenza non meno di 400.000.
Secondo lei ci sono le condizioni per arrivare a una nuova legge che consenta la stabilizzazione dei molti precari nella pubblica amministrazione, com’era successo con le Finanziarie Prodi?
Quando parliamo di “ripartire dal lavoro” pensiamo a progetti, diritti, e occupazione stabile. Il tema di un provvedimento legislativo che, nel rispetto dell’art.97/costituzione, garantisca lavoro stabile è all’ordine del giorno. Così come è all’ordine del giorno una politica che restringa l’utilizzo del lavoro precario per garantire funzioni pubbliche stabili e durature. Proprio per ottenere tale soluzione è necessaria una legge sulla stabilizzazione.
Finché la Pubblica amministrazione permette reclutamento del personale tramite contratti di collaborazione non si fi nirà mai con la precarietà negli Enti pubblici. Come porvi rimedio?
Occorre affermare che funzioni stabili hanno bisogno di rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Possiamo ragionare sulle forme e i requisiti necessari per il reclutamento dei giovani, ma siamo contrari a misure raffazzonate che sono destinate a creare contraddizioni ( vedi questione
SCENDERE IN PIAZZAPER NON CEDERE ALLA RASSEGNAZIONE
docenti scuola).
Ci sono provvedimenti degni di nota ed emersi dal Tavolo di confronto destinato a valutare appositi interventi per il personale precario in servizio in Pubbliche Amministrazioni?
Nel corso del confronto che aveva portato alla sottoscrizione del protocollo sul Lavoro Pubblico del 3.5 u.s., avevamo delineato percorsi e strumenti per evitare la perdita del posto di lavoro causato dai tagli alla spesa pubblica; misure per introdurre vincoli che impedissero la proliferazione del precariato; aperto un primo spiraglio sul reclutamento. Quel Protocollo ad oggi è rimasto lettera morta e per questo le nostre Organizzazioni di Categoria scenderanno in sciopero nei prossimi giorni.
Cosa consiglierebbe a una lavoratrice di 40 anni, precaria da 12 anni nella stessa Pubblica Amministrazione, già vincitrice di un regolare concorso pubblico, cui il futuro potrebbe riservare un nuovo concorso per essere “stabilizzata”?
Uno sforzo di ottimismo e volontà di non cedere alla rassegnazione.
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IN QUESTO NUMEROinterventi di
Cristina Bargero
Matteo Barbero
Federico Bozzanca
Susanna Camusso
Stefano Cariani
Emanuela Celona
Luca Quagliotti
Precari e pubblico impiego. Quanti sono? Ci sono possibilità per una loro stabilizzazione? E’ una priorità per il sindacato e come sta lavoran-do questo Governo? Alle domande di NEL risponde Susanna Camusso.
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GIOVANI E LAVORO
Il numero degli occupati tra i 15 e i 34 anni è diminuito
di circa un milione e mezzo, cioè del 20% nell’arco di cinque anni. Un crollo che va ad alimentare l’esercito dei disoccupati, con gli under 35 in cerca di un posto di lavoro
che raggiungono quota 1.386.000. Tra gli over 34, ci sono 1 milione e 320mila persone alla ricerca di un impiego.
CONTRATTI SCADUTI
Un lavoratore su tre ha il contratto scaduto, mediamente da 31,6 mesi. A luglio 2012 risultavano in attesa di rinnovo
35 contratti nazionali di lavoro, di cui 16 appartenenti alla
Pubblica Amministrazione e relativi a circa 3 milioni di
impiegati pubblici.
LAVORO PRECARIO
I contratti a termine sono quasi 2,5 milioni, ovvero al livello massimo sia in valore assoluto che per l’incidenza sul totale degli occupati che toccano quota 10,7%. Sommando i collaboratori al numero dei contratti a termine si arriva alla cifra di 3 milioni di lavoratori precari nel nostro
Paese. Secondo i dati della CGIL, soltanto nella pubblica
amministrazione –– esclusa la scuola –– sono circa
100mila
SPENDING REVIEW
I tagli della revisione della spesa porteranno problemi sui lavoratori e sui servizi di cui godono i cittadini. «A una ristrutturazione del lavoro pubblico fatto per legge in
cui i sindacati vengono chiamati soltanto per discutere
come gestire gli esuberi: noi diciamo no grazie. È come se in una crisi industriale non fosse discussa la crisi ma venisse chiamato il sindacato solo per decidere insieme come licenziare i lavoratori» - Rossana Dettori, segretaria
generale della FP CGIL.
POST-IT
(Fonte Rassegna.it – Dati ISTAT)
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Il sistema delle Autonomie locali è in crisi ormai da tempo. Ne sono dimostrazione le numerose situazioni di dissesto nonché il moltiplicarsi di tagli ai servizi più importanti.Tale situazione di crisi ha una precisa ragione: si chiama “tagli lineari” ed è la politica che negli ultimi anni ha caratterizzato l’intervento di riduzione della spesa pubblica in Europa.Le manovre finanziarie del
Governo Berlusconi prima, e di
Monti dopo, hanno tagliato la spesa
pubblica colpendo in primo luogo
gli Enti locali, impedendone il turn
over degli addetti e riducendo in
modo drastico i trasferimenti verso di essi.Ai tanti provvedimenti si aggiunge la legge sulla spending review che, oltre a continuare a tagliare i trasferimenti, incide sull’assetto istituzionale del nostro Paese riducendo le Province, obbligando i Comuni all’associazione delle funzioni, ridisegnandole, e dando il “via”all’istituzione delle Aree metropolitane. Il tutto senza un disegno organico di riforma che parta dalle funzioni necessarie, dall’efficacia dei servizi e dalla necessaria operatività delle istituzioni.Noi siamo convinti ci fosse la
PUBBLICO IMPIEGO
SCIOPERARE PER ESSERE PROTAGONISTIdi Federico Bozzanca - segretario naz. FP CGIL responsabile Autonomie locali
necessità di intervenire per modificare un quadro istituzionale debole che ha perso da tempo l’autonomia che avrebbe dovuto contraddistinguerlo a favore di una duplicazione di funzioni rispondente alle peggiori logiche di potere. A queste politiche noi
rispondiamo con un’altra idea
di cambiamento delle pubbliche
amministrazioni.
Il nostro sciopero del 28
settembre si inserisce nel
percorso di contrasto alle
politiche economiche di
austerity che caratterizzano
quasi tutti i Paesi del Continente
e ha l’obiettivo di rivendicare soprattutto un protagonismo del
lavoro e la sua valorizzazione nei
processi di riforma dei servizi
pubblici. Pensare che la riforma delle amministrazioni passi dalla riduzione degli organici e dal loro impoverimento professionale prima che economico, senza guardare alla necessità di migliorare i servizi, risponde a una visione ragionieristica di cui un Paese in crisi non ha bisogno.
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Al grido “razionalizziamo la
spesa!” tutti i Governi che si sono avvicendati in questi anni alla guida del nostro Paese hanno provveduto - a colpi di finanziarie - a tagli lineari
sulla spesa pubblica. Misure che
hanno colpito, sotto il profilo
economico, in modo indiscriminato
le Regioni e le Autonomie locali
senza che vi sia stata, da parte dei nostri governanti, una valutazione rispetto ai servizi erogati. Così siamo
al paradosso: chi garantisce un
minor numero di servizi ai propri
cittadini è meno penalizzato dai
tagli del Governo. Una nostra
invenzione? Proviamo a fare un esempio. La spending review appena varata
prevede che, entro il mese di
ottobre, il Governo emani uno o
più decreti in cui verranno definiti: «i parametri di virtuosità per la determinazione delle dotazioni organiche degli Enti locali, tenendo prioritariamente conto del rapporto tra dipendenti e popolazione residente». È evidente che gli Enti
locali gestori diretti di servizi alla
persona - quali asili nido, case
di riposo, servizi domiciliari,
ecc. - sono molto più penalizzati
rispetto a quegli Enti che hanno
esternalizzato i servizi oppure
non li erogano. Il parametro individuato è, come sempre, la “media del pollo”. I Comuni della nostra Regione, se verrà confermato questo assurdo parametro, saranno tra i più penalizzati dalla manovra. Infatti, a differenza dei Comuni di altre Regioni meno virtuosi, i nostri gestiscono
la maggioranza dei servizi in modo diretto. Quindi, i Comuni
piemontesi, soprattutto quelli
sotto i 50.000 abitanti, dovranno
ben presto esternalizzare tutti
i servizi erogati direttamente
con la messa in mobilità
obbligatoria dei lavoratori
che erogano quei servizi. I
più “fortunati” finiranno sotto
cooperativa, quelli meno
fortunati saranno collocati in
esubero. Al provvedimento sul
personale si associano i tagli
per 7,5 miliardi alle Regioni
e alle Autonomie locali. Tagli che colpiranno in primo luogo il nostro sistema del welfare: sanità, servizi sociali, servizi all’infanzia. Un Governo serio,
che vuole davvero mantenere
invariati i servizi ai cittadini,
così come indicato dal titolo
della DL 95/2012, dovrebbe
in primo luogo verificare
quali e quanti servizi gli Enti
locali offrono direttamente e
non, analizzarne i costi e le
reali necessità e, subito dopo,
determinare la riduzione della
spesa. Così come facevano le nostre madri: prima si guarda alle necessità della casa e, se queste sono superiori al budget a disposizione, si valutano quali rinunce fare. Si facciano, insomma, “i conti della serva”: perché la “media del pollo” sta portando alla morte una parte importante del nostro Paese.
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BASTA CON LA “MEDIA DEL POLLO”:
VOGLIAMO IL CONTO DELLA SERVA !
di Luca Quagliotti, segr. regionale FP CGIL Piemonte
Pagina 6 CITTA’ METROPOLITANA
Come, cosa e quando a Torino
Intervista ad Antonio Marco D’Acri - assessore al Bilancio, Personale e Relazioni Internazionali della Provincia di Torino
Assessore D’Acri, come si
struttureranno le Città metropolitane
e i rapporti con Province e Città
capoluogo?
Va subito chiarito che l’articolo 18 della spending review prevede una perfetta coincidenza territoriale tra Province e future Città metropolitane. Sul nostro
territorio, quindi, i confini resteranno
quelli dell’attuale Provincia di
Torino. Tra l’altro siamo un caso unico in Italia. Firenze, Roma, Milano, Bologna, Firenze e le altre prossime Città metropolitane sono densamente urbanizzate, strettamente sovrapposte alla città capoluogo e circondate da grandi Comuni dell’hinterland senza soluzione di continuità urbanistica, con servizi pubblici e di trasporto automaticamente integrati. La Provincia
di Torino è un’eccezione. E’ Provincia
di confine nazionale, è composta da
molte aree montane e di valle, con
una densità abitativa molto variabile
al suo interno, con moltissimi
Comuni di piccola dimensione. Nella nostra Provincia l’esistenza di servizi pubblici integrati capaci di garantire anche le più piccole realtà locali si è realizzata con un costante impegno politico capace di tenere insieme realtà diverse tra loro, si pensi ad esempio ai trasporti. Per questo l’amministrazione Saitta ha ribattezzato Torino come futura “Provincia metropolitana”, capace di offrire servizi pubblici di qualità anche in aree periferiche rispetto al capoluogo. L’alternativa sarebbe la desertificazione umana di intere zone del nostro territorio che sono risorsa naturale e turistica.
Per quanto riguarda infine il rapporto con le altre Province piemontesi, questo dipenderà dalla capacità dell’UPP di proporre un quadro di accorpamento che riduca i costi e aumenti l’efficienza. Se rispetto ai localismi si affermerà
una vera ambizione di area vasta
sono convinto che, sia in termini di
sviluppo economico che di servizi
ai cittadini, tutto il Piemonte ne
avrà da guadagnare. Si tratta di confermare la proposta che la stessa UPP aveva lanciato di quattro grandi Province, forti, di area vasta, con funzioni e responsabilità chiare. Tra queste la nostra “Provincia metropolitana” di Torino con qualche funzione in più. Se questo avverrà sono certo che i rapporti
tra Regione, Province e Comuni saranno finalmente ben definiti con un conseguente beneficio per i cittadini.
Quali saranno le competenze
comprese eventuali criticità) e le
tempistiche?
Sulle competenze credo che i ricorsi presentati alla Suprema Corte siano il chiaro segno del costante scontro costituzionale tra Stato e Regioni. In fondo la riforma del Titolo V
della Costituzione ha previsto
una grande autonomia regionale
nell’organizzazione di moltissime
funzioni e nell’organizzazione dei
poteri intermedi e degli enti locali. Dobbiamo abituarci a un modello a Regioni variabili, per così dire. Per questo la spending review ha allargato il ruolo delle Regioni e limitato la decisione statale sulle funzioni alle sole fondamentali. Infatti Regioni come il Piemonte hanno riconfermato la volontà di mantenere molte funzioni a livello provinciale, altre come l’Emilia Romagna immaginano un livello provinciale svuotato di competenze.
Le competenze della nuova Provincia metropolitana saranno effettivamente rafforzate, come richiamato dal Presidente Saitta. Da un lato, infatti, la Provincia di Torino acquisirà maggiori competenze in materia di infrastrutture, gestione dei servizi pubblici locali, mobilità e sviluppo economico, dall’altro è stata espressa l’intenzione della Regione Piemonte di confermare la delega su molte delle funzioni attualmente svolte dalle Province.
I tempi. L’iter si avvierà in autunno
con la definizione delle funzioni
statali da trasferire dalle Province
ai Comuni. Su queste dovremo
osservare con attenzione quali
saranno considerate di esclusiva
competenza nazionale. Sempre tra settembre e ottobre la proposta che il Consiglio delle Autonomie locali avanzerà a Regione e Governo sarà
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fiscalizzazione dei trasferimenti. In altri termini decideremo insieme per ogni funzione delegata quante risorse saranno disponibili per l’esercizio della stessa. A quel punto stabiliremo insieme la compartecipazione ad alcuni tributi regionali (bollo auto, IRPEF). In questo modo, da quel momento, si garantirà vera delega e autonomia finanziaria evitando che ogni anno si trascorrano mesi di dibattito interistituzionale sul tema dei trasferimenti regionali.
La seconda grande difficoltà
riguarda la legge elettorale. Se le Città metropolitane avranno governi forti, eletti direttamente dai cittadini e rappresentativi della complessità del territorio, allora esse potranno gestire quell’autonomia e quella responsabilità delle funzioni di area vasta alle quali facevo riferimento. Se al contrario avranno elezioni di secondo grado o aule di confronto tra sindaci diventerà complesso per la Regione trasferire la gestione di funzioni che necessitano capacità di decisione difficilmente realizzabile con l’unione dei comuni (si pensi come esempio alla gestione dei rifiuti o ai temi delle infrastrutture). In quel caso potremmo assistere a una sorta di centralismo regionale. Anche sul
tema della legge elettorale si dovrà
esprimere la Corte Costituzionale
agli inizi di novembre.
Come verrà collocato il personale
delle Province in caso (come
il nostro) di corrispondenza
tra ex Provincia e futura città
metropolitana?
Domanda difficilissima. Innanzitutto molto dipenderà dal decreto con
il quale il Governo individuerà
le funzioni da trasferire dalle
Province ai Comuni. Se questo avverrà senza ricorsi delle Regioni (dubito) che potrebbero vedere intaccate prerogative costituzionali sull’organizzazione degli Enti locali, allora si avvierà immediatamente per quei settori il trasferimento di
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la base per un definitivo disegno di accorpamento delle Province attuali. In parallelo si insedierà una Assemblea costituente, la Provincia metropolitana con la partecipazione del Presidente della Provincia e tutti i sindaci della Provincia. Essa dovrà definire lo Statuto della Città metropolitana che comunque avrà le funzioni fondamentali che prima richiamavo. L’avvio della Provincia
metropolitana è previsto per il
gennaio 2014. Da non dimenticare infine la discussione in Corte Costituzionale dei ricorsi delle Regioni sul tema delle Province, per quanto riguarda funzioni e legge elettorale, prevista per gli inizi di novembre. Ma non possiamo
nascondere le due grandi difficoltà
che ci troveremo ad affrontare.
La prima. Le risorse economiche.
Per troppo tempo il riequilibrio del bilancio nazionale si è raggiunto attraverso prelievi forzosi di tributi locali. La spending review conferma l’impostazione…al di là del nome… Oggi gli Enti locali gestiscono servizi pubblici costanti a risorse decrescenti. Questo non può essere il rapporto tra Stato centrale e autonomie locali. L’autonomia e la responsabilità esistono se c’è corrispondenza tra funzioni e entrate tributarie. La “tracciabilità” dei tributi è principio della democrazia e della rappresentanza. Oggi questo non sta avvenendo e non faccio fatica a dire che se i tagli previsti con la
spending review sulle Province
dovessero essere confermati,
moltissime amministrazioni si
troverebbero nel 2013 a riflettere
seriamente sulla propria capacità
di erogare servizi e financo di
garantire la copertura delle
proprie spese. Si tratta di capire se il riordino delle autonomie locali sarà accompagnato dalla cinica “strategia dello strangolamento”. Sto lavorando con molti miei colleghi per far comprendere al Governo che i saldi complessivi previsti non trovano capienza nei bilanci degli Enti locali. Speriamo di poter ottenere qualche risultato. Qualora ciò non dovesse accadere dovremo valutare, con tutte le difficoltà del caso, gli interventi di bilancio necessari che non potrebbero che rivelarsi pesantissimi di conseguenze. Sul tema dei fondi, con la Regione, abbiamo avviato in parallelo una riflessione sulla
personale verso i Comuni. Per
il momento non è dato sapere
su quali funzioni il Governo
sia interessato a intervenire.
Potrebbero essere pochissime visto che la maggior parte delle nostre funzioni sono di competenza legislativa regionale. Nel frattempo
dovremo, come Province e come
Città metropolitana, definire in
maniera seria e responsabile
quali funzioni saranno ancora
gestite con delega regionale.
La Regione Piemonte, come detto, è intenzionata a ribadire un ruolo forte per le Province. Se verrà confermato, e non abbiamo motivo di dubitarlo, allora la
coincidenza tra Provincia di
Torino e futura “Provincia
metropolitana” sarà tale anche
per la stragrande maggioranza
dei dipendenti. Ovviamente dovremo con coerenza mantenere le funzioni in cui il Governo di area vasta ha senso e cedere quelle in cui il nostro valore aggiunto è inferiore. In quel caso, visto il
blocco totale delle assunzioni
e i pensionamenti, dovremo
pensare a un rafforzamento
dei settori in cui aumenteremo
le nostre competenze invece
che pensare al trasferimento
in altri enti di risorse umane
che delle competenze cedute si
occupavano. Va però detto che solo dopo la norma nazionale sulle funzioni, il pronunciamento della Corte Costituzionale di novembre e il chiarimento dell’indirizzo della Regione avremo chiaro quali saranno in Piemonte in definitiva le funzioni della Province e delle Città metropolitane sulle quali definire risorse umane ed economiche. Ovviamente per la “Provincia metropolitana” la coincidenza di personale tra Ente attuale e futuro è molto più probabile.
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L’art. 19 del dl 95/2012 ha profondamente modificato la disciplina sull’obbligo di gestione in
forma associata delle funzioni da parte dei Comuni di minori dimensioni (fino a 5.000 abitanti, che scendono a 3.000 per quelli appartenenti o appartenuti a Comunità montane). In base alle nuove norme, per quanto concerne le funzioni fondamentali (il cui elenco è stato ridefinito e ampliato dal comma 1) l’obbligo riguarda tutti i municipi senza più la rigida distinzione fra quelli sopra e quelli sotto i 1.000 abitanti. I primi (1.001-5.000 abitanti) dovranno scegliere
fra l’Unione “classica” ex art. 32
del Tuel (anch’esso parzialmente
novellato) e la Convenzione (art.
30 del Tuel) che però dovrà avere durata almeno triennale e conseguire “significativi livelli di efficacia ed efficienza nella gestione” certificati dal Viminale (in mancanza dovrà essere sciolta e i Comuni interessati dovranno confluire in una Unione). Per i secondi (fino a 1.000 abitanti), oltre alle precedenti, rimane aperta anche la strada dell’Unione ex art. 16 del dl 138/2011 - che di fatto rappresenta una sorta di “fusione a freddo” - obbligando chi ne fa parte a mettere insieme tutte le funzioni (non solo quelle fondamentali) e soprattutto il bilancio. Tuttavia, non si tratta più (come in precedenza) di un obbligo, ma di una mera facoltà.
Per chi opta per i primi due modelli
(Unione “classica” e Convenzione),
la soglia demografica minima
è fissata a 10.000 abitanti, salvo diverso limite individuato dalla Regione “entro i 3 mesi antecedenti il primo termine di esercizio associato obbligatorio delle funzioni fondamentali” (art. 19, comma 31). Poiché quest’ultimo è fissato dal successivo comma 31-ter al 1 gennaio 2013 (per almeno tre delle npve funzioni fondamentali da associare, mentre per le altre sei l’obbligo scatterà un anno dopo), la dead
line per le Regioni che vorranno (è una facoltà, non un obbligo) alzare o abbassare la soglia è fissata al 30 settembre. Per i mini-Comuni che, invece, opteranno per l’Unione “speciale”, il minimo scende a 5.000
abitanti che diventano 3.000 per quelli montani. Tale limite (che peraltro non pare così perentorio, dato che il nuovo art. 16, comma 4, del dl 138 prevede che esso valga solo “di norma”), può essere rivisto dalle Regioni entro 2 mesi dalla data di entrata in vigore del dl 95 (7 luglio), ovvero entro il 7 settembre (art. 19, comma 5). I governatori interessati ad
avvalersi di tale prerogativa
dovranno, quindi, affrettarsi a
decidere. Va detto, peraltro, che saranno ben pochi i Comuni che sceglieranno la seconda strada, giacchè essa comporterà oltre allo svuotamento della loro autonomia anche l’assoggettamento (dal 2014) al Patto di stabilità interno. Più
importante la scadenza di fine
mese che riguarda una platea
ben più vasta di municipi e che
potrebbe interessare anche
quelle Regioni (ad esempio,
la Lombardia e l’Abruzzo) che
hanno già ridefinito le soglie
sulla base della disciplina
previgente: il nuovo quadro
normativo, in effetti, potrebbe
anche suggerire di rivedere le
scelte fatte in precedenza.
Dopo che le Regioni avranno (eventualmente) ridefinito le soglie (oltre che determinato la dimensione territoriale ottimale e omogenea per area geografica e il termine per l’esercizio in forma associata delle funzioni relative alle materie di propria competenza), la “palla” passerà ai Comuni, i quali
(se già fanno parte di un’unione)
dovranno optare per una delle
soluzioni organizzative illustrate
in precedenza a seconda
della fascia demografica di
appartenenza (art. 19, comma 4). Quelli che sceglieranno l’Unione “speciale”, inoltre, dovranno entro il 7 gennaio 2013 formulare una proposta di aggregazione alle regione di appartenenza. Stavolta il legislatore sembra fare sul serio: per chi non rispetterà il timing imposto, scatteranno i poteri statali sostitutivi.
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Meglio Unione o Convenzione?
di Matteo Barbero, funzionario Regione Piemonte
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In materia di servizi pubblici locali, la recente sentenza del 20/07/2012 della Corte Costituzionale ha abrogato l’art.4 del d.l 138/2011 e le successive modifiche (articolo 53 del Dl 83/2012). La normativa cui fare riferimento per ora è quella europea (richiamata dagli stessi giudici costituzionali) che permette l’affidamento in house a tre condizioni: la società affidataria deve avere capitale interamente pubblico e svolgere la quota prevalente della propria attività con l’ente affidante che a sua volta deve esercitare su questa un controllo «analogo» a quello assicurato sui propri uffici.
Ma cosa si intende per servizio
pubblico? Non ne esiste una nozione generale, ma la tradizionale definizione sempre più si contrappone alla nozione di public utilities dei paesi anglosassoni, dove il servizio è inteso come servizio di interesse generale e non fa riferimento al soggetto che lo fornisce ma assicura che sia un servizio universale attraverso l’azione di regolamentazione di autorità indipendenti.
I servizi pubblici sono storicamente individuati da una serie di elementi specifici:
- la produzione da parte di un
soggetto pubblico (ente o azienda) o quanto meno l’esercizio di un potere di programmazione e controllo da parte pubblica;
- l’esercizio in regime di monopolio (spesso un monopolio naturale per la presenza di un unica infrastruttura fisica che consente l’erogazione del servizi);
- l’esistenza di un pubblico
interesse, cioè di un interesse diffuso nella collettività al soddisfacimento di un particolare bisogno cui il mercato non sia in grado di provvedere.
Nel rapporto con i destinatari del servizio (la collettività) si usa distinguere tra servizi o
beni pubblici collettivi non
escludibili e non divisibili e a
uso individuale la cui disponibilità viene ritenuta di interesse
generale per la comunità e pertanto e tutelata da regole
diverse da quelle di mercato: fra questi ultimi poi si distingue tra servizi reali, legati alla presenza di un’infrastruttura nel territorio (la rete), o personali (a punto) come quasi tutti i servizi sociali (istruzione, sanità ecc)
I servizi reali, definiti anche a rilevanza economica, acqua, gas, energia elettrica (che non è servizio locale), igiene ambientale e trasporti locali presentano un inquadramento normativo e delle specificità economiche e di assetto di mercato, spesso diverse tra loro, che richiedono da parte del decisore pubblico un set differente di politiche industriali e di regolazione.
Per tale motivo nei prossimi numeri del nostro “Notiziario degli Enti Locali” dedicheremo loro un approfondimento prima di carattere normativo e, quindi, di rilevanza economica, nell’ambito della nostra Regione.
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iSERVIZI PUBBLICI LOCALI
Collettivi e non escludibili
di Cristina Bargero, ricercatrice IRES Piemonte
Pagina 10Pagina 12Pagina 6Pagina 8Pagina 10Pagina 10 MONDO PRECARIO
Ma sappiamo ancora lottare?di Stefano Cariani - Precario Regione Piemonte
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In tempi di esuberi e tagli parlare di precarietà diventa perfino ripetitivo. E allora facciamolo in modo diverso: fondiamo il partito
dell’Autocritica Precaria, e per
una volta prendiamocela con il
Partito dell’Autocommiserazione.
Facciamoci una domanda. La
nostra precarietà è sempre stata
colpa del Capitalismo-Cattivo,
di Brunetta-e-Sacconi-satanassi,
delle Banche-che-vengono-
salvate-e-noi-no, dei Politici-
Ladri e di Tutto-è-iniziato-per-
colpa-di-Treu? O noi avremmo
dovuto lottare un po’ di più?
Di solito si leggono articoli che piangono lacrime amare sui precari, sul loro futuro rubato e su quando sia terribile il mondo per i precari della PA. Ok, è vero. Siamo vittime. Siamo capitati in un momento
spaventoso: la politica ci vuole
male; i sindacati si sono accorti
di noi in ritardo. Sono saltati perfino alcuni fondamentali della “buona burocrazia”, che come è noto da più di un secolo, per il suo buon funzionamento necessita della presenza di funzionari pubblici stipendiati decentemente, liberi, indipendenti, protetti dal licenziamento arbitrario e selezionati con un sistema non basato su favoritismi personali.
Eppure “tutto congiura contro
di noi”, dicono i vent’enni/
trent’enni/quarant’enni
alle prese con la precarietà
endemica. Ma facciamo un
esame di coscienza: noi non
abbiamo alcuna colpa della
nostra condizione? Ci siamo mai resi conto che abbiamo tutti interessi culturali ed economici “affini”? Siamo consapevoli che,
seppur con le nostre migliaia di
storie diverse, condividiamo tutti
lo stesso destino di precarietà? Siamo d’accordo sul fatto che se io scado a ottobre e tu a novembre non è che tu sei molto più fortunato di me? Insomma, siamo consapevoli
che siamo una cosa simile ad
una “classe sociale”? E cosa è
successo nella storia quando gli
“ultimi” si sono accorti di essere
“classe sociale”? Hanno lottato,
a volte hanno perso, ma molte
hanno vinto e hanno migliorato
la propria condizione. Noi siamo
in grado di farlo? Preferiamo lamentarci e dire che se un giorno ci butteranno fuori dal posto di lavoro che occupiamo con onore da anni è tutta colpa della politica/dei sindacati/delle banche/dello spread o vogliamo diventare artefici del nostro destino?
Per darci una bella carica di diritti e democrazia, vi consiglio una lettura ristoratrice: Luciano Gallino è un noto sociologo che ha studiato le trasformazioni del lavoro e dei processi produttivi nell’epoca della globalizzazione e recentemente ha scritto insieme a Paola Borgna un breve saggio-intervista intitolato “La lotta di classe dopo la lotta
di classe”. Nel saggio, di facile ed immediata lettura, vengono spiegati con efficacia alcuni meccanismi che noi precari dovremmo conoscere bene prima di abbatterci di morale e rinunciare alla lotta democratica. Il capitolo “L’austerità dei bilanci
pubblici come lotta di classe” è
illuminante per capire perché la
nostra situazione di precarietà
è funzionale a certi interessi.
Leggetelo. E poi ci vediamo allo
sciopero del 28 settembre.
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Storie di fine estate
di Emanuela Celona - redazione NELC
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oLo stesso dramma. Probabilmente i minatori sardi del Sulcis e
gli operai dell’Ilva di Taranto
quest’estate hanno vissuto lo stesso dramma: la paura di perdere il proprio posto di lavoro.
I minatori della Carbosulcis sono
risaliti in superficie dopo aver
occupato per una settimana la
miniera di Nuraxi Figus, a 373
metri sotto terra. La decisione di lasciare liberi i pozzi è stata presa la mattina del 3 settembre scorso, all’indomani di un incontro a Roma davanti al ministro Corrado Passera, in cui è stato discusso il progetto “carbone pulito” che la Regione
Sardegna dovrà aggiornare per
renderlo «compatibile con le
migliori tecnologie e sostenibile
economicamente» e che dovrebbe scongiurare l’interruzione dell’attività mineraria inizialmente prevista per il 31 dicembre 2012.
Qualche giorno prima, i tre
custodi giudiziali nominati per
il sequestro dell’Ilva di Taranto
– la più grande acciaieria
d’Europa – indicavano nella
diminuzione delle «attività
produttive a regime di minimo
tecnico» la soluzione per
ridurre le emissioni inquinanti
dell’impianto. L’Ilva dovrà risanare gli impianti dell’area a caldo sequestrati per disastro ambientale e resta da capire, in termini produttivi, cosa significhi. Se oggi
l’Ilva viaggia già intorno al 50%
delle sue potenzialità, è facile per
i lavoratori immaginare un futuro
fatto di cassa integrazione.
Ilva e Carbosulcis. Due realtà simili ma diverse. La prima, da sola produce un terzo della produzione di acciaio italiano e dà lavoro a circa 11mila dipendenti. L’azienda è il primo contribuente del Comune pugliese e lo stabilimento occupa oltre 15 chilometri quadrati: una superficie tre volte più grande dell’intera città. L’inquinamento causato dall’attività produttiva dell’Ilva ha portato Taranto a una media di 1.650 morti all’anno, soprattutto per cause
cardiovascolari e circolatorie. Secondo i periti della Procura la situazione sanitaria della città è «molto critica, anzi unica in Italia».
La Carbosulcis invece estrae carbone ad alto contenuto di zolfo – ma uguale a buona parte delle riserve di carbone del mondo - e alimenta una centrale elettrica di proprietà Enel, dando lavoro a quasi cinquecento minatori. Negli anni ’60 l’Enel aveva bloccato l’estrazione perché considerata anti-economica: fino alla fine degli anni ’80 la produzione di carbone rimase ferma e riprese grazie a interventi pubblici. A metà degli anni ’90 la Carbosulcis venne messa in vendita ma non ci furono compratori. Grazie a lotte sindacali, manifestazioni, occupazioni si scongiurò la chiusura definitiva, la Regione Sardegna la prese in carico per portarla a una gestione privata ma dopo una seconda asta internazionale andata deserta, la domanda che oggi resta è: quale destino segnerà il futuro della Carbosulcis e dei suoi minatori?
Per sottolineare l’emergenza
industriale e occupazionale in
Sardegna, i sindacati hanno
annunciato la mobilitazione del
Sulcis che potrebbe sfociare in
uno sciopero generale tra ottobre
e novembre.
Il 10 settembre scorso 450 operai dell’Alcoa - fabbrica di alluminio di Portovesme – hanno manifestato a Roma davanti alla sede del Ministero dello Sviluppo Economico per chiedere all’azienda di non fermare i macchinari. Al momento in cui scriviamo è in corso la mobilitazione dei lavoratori e dei rappresentanti sindacali dell’Alcoa.Si stima che gli impianti di Portovesme e San Gavino diano direttamente lavoro, complessivamente, a circa 3.600 persone.(Fonti: Rassegna.it e La Voce.info)
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