LA PERDONO, PADRE -...

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LA PERDONO, PADRE

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DANIEL PITTET

con la collaborazione di Micheline Repond

LA PERDONO, PADRE

Prefazione di

PAPA FRANCESCO

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Titolo originale: Mon Père, je vous pardonne © 2017, Éditions Philippe Rey © 2017, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano

Traduzione di Gaia Cangioli

Redazione: Edistudio, Milano

ISBN 978-88-566-6022-7

I Edizione 2017

© 2017 - EDIZIONI PIEMME Spa, Milano www.edizpiemme.it

Anno 2017-2018-2019 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

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Al mio amico Georges, scomparso troppo presto.

A mia moglie Valérie e ai nostri sei figliGrégoire, Mathilde, Ludovic, Simon, Anne Léa, Édouard.

Alle persone che mi hanno sostenuto per tutti questi anni.

E a tutte le vittime che non hanno mai potuto parlare.

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Prefazione di

papa Francesco

Per chi è stato vittima di un pedofilo è difficile raccontare quello che ha subito, descrivere i traumi che ancora persistono a distanza di anni.

Per questo motivo la testimonianza di Daniel Pittet è necessaria, preziosa e coraggiosa.

Ho conosciuto Daniel in Vaticano nel 2015, in occasione dell’Anno della vita consacrata. Voleva diffondere su larga scala un libro intitolato Amare è dare tutto, che raccoglieva le testimonianze di religiosi e religiose, di preti e di consacrati. Non potevo immaginare che quest’uomo entusiasta e appassionato di Cristo fosse stato vittima di abusi da parte di un prete. Eppure questo è ciò che mi ha raccontato, e la sua sofferenza mi ha molto colpito. Ho visto ancora una volta i danni spaventosi causati dagli abusi sessuali e il lungo e doloroso cammino che attende le vittime.

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Sono felice che altri possano leggere oggi la sua testimonianza e scoprire a che punto il male può entrare nel cuore di un servitore della Chiesa.

Come può un prete, al servizio di Cristo e della sua Chiesa, arrivare a causare tanto male? Come può aver consacrato la sua vita per con-durre i bambini a Dio, e finire invece per divorarli in quello che ho chiamato «un sacrificio diabo-lico», che distrugge sia la vittima sia la vita della Chiesa? Alcune vittime sono arrivate fino al sui-cidio. Questi morti pesano sul mio cuore, sulla mia coscienza e su quella di tutta la Chiesa. Alle loro famiglie porgo i miei sentimenti di amore e di dolore e, umilmente, chiedo perdono.

Si tratta di una mostruosità assoluta, di un or-rendo peccato, radicalmente contrario a tutto ciò che Cristo ci insegna. Gesù usa parole molto severe contro tutti quelli che fanno del male ai bambini: «Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe me-glio per lui che gli fosse appesa al collo una ma-cina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare» (Matteo 18, 6).

La nostra Chiesa, come ho ricordato nella let-tera apostolica Come una madre amorevole del

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4 giugno 2016, deve prendersi cura e proteggere con affetto particolare i più deboli e gli indifesi. Abbiamo dichiarato che è nostro dovere far prova di severità estrema con i sacerdoti che tradiscono la loro missione, e con la loro gerarchia, vescovi o cardinali, che li proteggesse, come già è suc-cesso in passato.

Nella disgrazia, Daniel Pittet ha potuto incon-trare anche un’altra faccia della Chiesa, e questo gli ha permesso di non perdere la speranza negli uomini e in Dio. Ci racconta anche della forza della preghiera che non ha mai abbandonato, e che lo ha confortato nelle ore più cupe.

Ha scelto di incontrare il suo aguzzino qua-rantaquattro anni dopo, e di guardare negli occhi l’uomo che l’ha ferito nel profondo dell’animo. E gli ha teso la mano. Il bambino ferito è oggi un uomo in piedi, fragile ma in piedi. Sono molto colpito dalle sue parole: «Molte persone non ri-escono a capire che io non lo odii. L’ho perdo-nato e ho costruito la mia vita su quel perdono».

Ringrazio Daniel perché le testimonianze come la sua abbattono il muro di silenzio che soffocava gli scandali e le sofferenze, fanno luce su una terribile zona d’ombra nella vita della Chiesa.

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Aprono la strada a una giusta riparazione e alla grazia della riconciliazione, e aiutano anche i pe-dofili a prendere coscienza delle terribili conse-guenze delle loro azioni.

Prego per Daniel e per tutti coloro che, come lui, sono stati feriti nella loro innocenza, perché Dio li risollevi e li guarisca, e dia a noi tutti il suo perdono e la sua misericordia.

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Il 10 giugno del 1959, mio padre tenta di uccidere mia ma-dre. Ha in mano un grosso coltello e glielo punta alla gola. Folle d’angoscia, lei lo supplica di smetterla, sotto gli oc-chi di mia sorella maggiore paralizzata dalla paura. Inutil-mente. Mio padre lascia andare il coltello, prende una lama di rasoio e le incide una croce di sant’Andrea sul ventre. Quel ventre in cui mi trovo in quel momento, nel quale mi muovo. Mia madre è incinta di otto mesi. Il suo ventre sono io. Quell’aggressione mi segnerà a vita.

Nasco il 10 luglio del 1959, e si può dire che la mia vita cominci male. Sono già un sopravvissuto.

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Il caos dell’infanzia

I miei genitori sono una coppia mal assortita. Mio padre è un uomo forte, un muratore, un gran lavoratore. Della sua famiglia ignoro tutto. Mia madre, invece, è una donna intellettuale, fine e ben educata. Sua madre Alice, di ori-gine francese, viene da una famiglia di proprietari terrieri di una certa cultura. La guerra li ha impoveriti e costretti a lasciare la Francia per trasferirsi a Ginevra. Qui Alice si sente declassata, perché il mio bisnonno trova impiego come semplice bracciante.

Tuttavia, la famiglia conserverà le buone maniere e l’edu-cazione dei suoi antenati. La nonna era una signora sempre in ordine, dall’aria distinta. Ci impartiva un’educazione rigo-rosa e raffinata, ci serviva da mangiare in stoviglie ricercate, usava dei servizi in argento la cui provenienza ci incurio-siva. A tavola sedevamo diritti, con le mani al posto giusto.

Con il matrimonio, nonna Alice lascia Ginevra e si tra-sferisce a Romont, nel Canton Friburgo. Nonno Elie, il ma-rito di Alice, è figlio di contadini. Come molti, all’epoca,

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viene da una famiglia numerosa di dieci figli. I genitori sono morti giovani quando i figli erano ancora minorenni. Non appena ne ha l’età, nonno Elie diventa autista nella ditta di suo zio. Accompagna gente di tutti i tipi, e ama raccontare gli aneddoti raccolti qua e là. Come i suoi geni-tori, purtroppo anche il nonno muore giovane lasciando la nonna da sola con i tre figli, senza alcun sostegno materiale. «Apri un negozio, ti presterò io i soldi che ti servono!» le suggerisce un parente. Alice accetta il consiglio e apre una cartoleria che le permette di mantenere i figli. Tra i mem-bri della mia famiglia materna si instaura fin da subito un rapporto di grande solidarietà reciproca.

Nonno Elie ha una sorella religiosa, entrata nella con-gregazione delle suore di san Paolo, conosciuta anche con il nome di Opera di san Paolo; questa mia prozia avrà un ruolo fondamentale nella mia vita. L’Opera di san Paolo pra-tica l’apostolato tramite i mezzi di informazione, in stretta collaborazione con i laici. Per questa ragione, la comunità ha una reputazione di grande apertura di spirito e di saper vivere nel mondo. Mia madre vuole farsi suora, come sua zia. Perciò entra in convento e rimane per un anno presso le suore di san Paolo. È in quel periodo che incontra mio padre e ne subisce il fascino. Ne parla a sua madre, che va a informarsi dal curato della parrocchia dove abita il gio-vane. Rivolgersi a un prete per ottenere informazioni era una prassi molto frequente. Il parroco non ha niente di par-ticolare da dire sul giovane in questione, solo che è stato un bravo chierichetto. Agli occhi di mia nonna, molto devota,

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è una buona qualità, così autorizza mia madre a lasciare il convento e a sposarsi. A quel punto, mia madre viene colta da un forte dubbio circa la sua scelta, e lo confida alla so-rella. All’epoca, tuttavia, nessuno sa che quell’uomo soffre di una malattia mentale.

La coppia si sposa. Nascono mia sorella e mio fratello. Qualche anno dopo, la famiglia si trasferisce a Ginevra.

Il 10 giugno del 1959 mio padre aggredisce mia madre, che è all’ottavo mese di gravidanza. Arrivano i soccorsi, la salvano e portano via mio padre, che viene internato per diversi mesi in un ospedale psichiatrico. Dicono che soffre di paranoia. Sotto shock e traumatizzata, mia madre decide di lasciare Ginevra e di tornare a vivere da sua madre a Ro-mont. Quando mio padre esce dall’ospedale, ci raggiunge, con grande dispiacere di mia nonna. Viene assunto in un’of-ficina di lavorazione del marmo della zona e ingravida mia madre altre due volte. Di lì a poco, trova lavoro a Losanna.

Ho ricordi piuttosto vaghi di quei tempi, perché ero ancora molto piccolo. Ricordo che mio padre aveva una camera a Losanna e che tornava da noi la domenica po-meriggio per ripartire già la sera stessa. Eravamo contenti di vederlo. Non facevamo grandi cose insieme, ma ci por-tava spesso a Romont a bere una bibita e poi tornavamo a casa. Ero felice di trascorrere quei momenti con lui, per-ché gli volevo bene.

Mia nonna non la pensava allo stesso modo e sperava che sparisse per sempre dalle nostre vite. Quando rientravamo dal nostro giro, passavamo un bel po’ di tempo a rispondere

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a tutte le sue domande. Voleva sapere che cosa avevamo fatto, che cosa lui aveva detto, poi commentava e criticava le nostre risposte. Trovavo particolarmente fastidiosi quei momenti, perché ero un bambino e non mi rendevo conto che mio padre era malato di mente. Gli volevo bene sem-plicemente perché era mio padre. Ancora oggi conservo il ricordo di storie evocate sempre sottovoce.

Nel 1965 ho cinque anni e mi ammalo gravemente, al punto che mia madre mi viene a trovare ogni giorno all’o-spedale a piedi, dopo il lavoro. Ho delle crisi uremiche e mi servono continue trasfusioni di sangue. Sono un bam-bino magrolino, deboluccio, e tutti dicono che “non ne avrò per molto”; un giorno colgo per caso una conversa-zione tra mia madre e il dottore. Parlano di me e capisco che sto per morire. Nel mio ricordo, quella notizia non mi sconvolge affatto; mi permette piuttosto di immaginarmi in paradiso con gli angeli. E poi mi piace stare all’ospe-dale, perché tutti sono gentili con me. Il medico mi ha preso in simpatia e gli infermieri sono molto premurosi. Rimango ricoverato circa sei mesi. A un certo punto gua-risco, e posso tornare a casa.

Rimango in contatto con il dottor Lang, che mi ha cu-rato durante quei lunghi mesi: tutto quel tempo trascorso all’ospedale ha rafforzato il nostro legame. Quell’uomo ge-neroso si è affezionato a me e ha continuato ad accogliermi nella sua famiglia. Ogni mercoledì vado a casa sua e ho il permesso di guardare un programma per ragazzi alla tele-visione. Sono momenti fantastici, perché all’epoca la mia

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famiglia non possiede un televisore, solo le famiglie agiate possono permettersene uno. Spesso il mio benefattore mi fa scivolare in tasca qualche franco. Senza saperlo, il dot-tor Lang ha contato molto per me, perché mi ha mostrato che io contavo per lui. In seguito, quando lasciamo Ro-mont in circostanze drammatiche, sono certo che non lo rivedrò mai più.

Ma una domenica, trent’anni dopo, vado a messa nell’ab-bazia cistercense di La Fille-Dieu, a Romont, e mi siedo accanto a un anziano signore. Uscendo dalla chiesa, lo sa-luto con un «Buona domenica» a cui lui risponde ridendo: «Buona domenica, oggi è il mio compleanno!». Stupito, lo guardo più attentamente: «Che coincidenza! È anche il mio compleanno! Come si chiama?».

«Sono il dottor Lang di Romont.»«Il dottor Lang? Io sono Daniel Pittet.»Sul suo viso si legge la sorpresa: «Daniel Pittet? Il pic-

colo Daniel? Dovresti essere morto, e invece sei qui… è incredibile!».

Ci abbracciamo. Per me è l’occasione di ringraziarlo per tutta l’attenzione che mi ha dato. Quel giorno mi sembra che abbia cent’anni, ma in realtà ne ha solo settantacinque! Quell’incontro su una panca della chiesa è stato meravi-glioso. Non lo rivedrò più, e due anni dopo verrò a sapere della sua morte.

Poco dopo la nascita della mia ultima sorella, mio padre comincia a comportarsi in maniera molto strana. Fa circo-

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lare una voce assurda. Quando se ne va al bar a bere, dice che i suoi figli non sono suoi. Ognuno di loro sarebbe il fi-glio di un diverso notabile della città. Mia sorella maggiore la assegna al parroco, mio fratello all’avvocato, io sono del medico, mio fratello più piccolo è il figlio del proprietario della casa della nonna e mia sorella è la figlia del prefetto. Indica le personalità in vista del paese come amanti di mia madre e padri dei suoi figli! Mio padre è un ribelle, ma un ribelle malato.

Questa dichiarazione folle provoca un cataclisma nella nostra famiglia. Ci viene chiesto di andarcene da Romont, perché le dicerie sono troppo pesanti da sopportare. «Non è colpa sua, signora, ma deve lasciare Romont. Non può più continuare a vivere qui» dice il prefetto.

Lasciare Romont? Che shock! Mia madre e mia nonna hanno sempre vissuto lì. E per andare dove? Con quali soldi? Ormai da parecchi anni mia nonna vive grazie alla sua cartoleria, e non può certo portarsi via la sua clientela! Di cosa vivrà? Tutte queste domande si affollano nella sua mente. È davvero disperata. Deve seguire sua figlia e i suoi nipoti? Ci cacciano! Ci mettono al bando per far tacere dei pettegolezzi insensati. È inconcepibile, veniamo esclusi dalla nostra città! Non credo che un’esperienza simile sia molto comune.

Sono momenti estremamente dolorosi da vivere e da digerire.

Per mia nonna è un trauma immenso. È una commer-ciante, conosce tutti, è una donna stimata. Perde tutto ma decide di venire con noi.

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Nello stesso periodo mio padre sparisce dalle nostre vite. Con un documento ufficiale firmato davanti al pre-fetto, i miei genitori si separano. Per un certo periodo io e i miei fratelli dovremo andare regolarmente a Losanna da uno psicoterapeuta, per valutare le conseguenze di quegli eventi rocamboleschi. Alla fine arriva il verdetto: «I figli non devono più avere contatti con il padre. È nocivo per la loro salute». Mia madre e mia nonna ci spiegano che non lo vedremo mai più. Ho otto anni. D’ora in avanti diremo che nostro padre è morto. È più semplice così, invece di dover spiegare la nostra storia assurda. All’inizio so che è ancora vivo. Poi, con il tempo, a forza di semplificare, fi-nisco per credere che sia morto davvero.

La cosa più stupefacente di questa situazione inaudita è che da un lato ci escludono e dall’altro ci proteggono. In un primo momento, si parla di mandarci a Berna. Berna è in capo al mondo! La mia famiglia non possiede alcun mezzo di locomozione. Perciò, partire per Berna significa lasciare definitivamente la Svizzera romanda e dover vivere in un ambiente completamente estraneo. Berna è la capitale della Svizzera ed è una città germanofona. La gente parla svizzero tedesco e nessuno, tra noi, padroneggia quella lingua! La fortuna si materializza nella persona della mia prozia religiosa, che viene in nostro aiuto. Ex madre su-periora dell’Opera di san Paolo, ha una certa influenza in quell’ambiente sociale in cui la politica e la religione sono ancora indissolubilmente intrecciate. È il 1967. Grazie alle

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sue conoscenze, riesce a farci trasferire a Friburgo, una città bilingue e capitale del cantone omonimo. L’idea piace a tutti perché la città è abbastanza grande e nessuno ci conosce. Così potremo passare inosservati. Ci trovano un apparta-mento a buon mercato.

Ancora oggi uso la terza persona plurale perché non so bene chi c’era realmente dietro a quel trasferimento né chi si è occupato degli aspetti amministrativi e finanziari.

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