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Introduzione

di Alessandra Brivio e Giovanna Parodi da Passano

DOSS

IER

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Nel precedente numero di Africa e Mediterraneo (n. 65-66) sono stati affrontati alcuni aspetti della vasta tematica dei rapporti fra turismo e patrimo-

nio – in primo luogo la questione dei rapporti fra turismo e assetto identitario dei siti, autorappresentazioni locali e manipolazione delle memorie implicate nella costruzione del patrimonio (artistico, paesaggistico, umano) – relativa-mente a più Paesi del continente africano. In questo nume-ro si è scelto di focalizzare l’attenzione esclusivamente sul Bénin, una sottile striscia di terra che si affaccia sul Golfo di Guinea e un Paese nel quale l’attuale politica di valo-rizzazione dei beni materiali e immateriali al fine di incen-tivare il turismo culturale ben si presta al nostro intento: problematizzare alcuni temi legati al patrimonio attraverso uno sguardo che si soffermi sui concetti di “tradizione”, di “autenticità”, di memoria e di eredità culturale. Nell’ex-Dahomey ed ex-Costa degli schiavi, ormai da qual-che anno, si assiste a una messa in scena della memoria della schiavitù e a un recupero delle pratiche religiose tra-dizionali . Messa in scena e recupero che, come scrive Ga-etano Ciarcia, «iscrivono la storia locale nella produzione di un territorio destinato a diventare uno spazio di cultura e uno spazio di turismo» (2008, p. 689).Il Bénin, uno Stato di soli sette milioni di abitanti, detiene diversi primati politici e culturali. È considerato un mo-dello di democrazia per l’Africa: dai primi anni Novanta (quando la Conferenza nazionale creò le basi per un pa-cifico processo di democratizzazione) il Paese infatti ha inaugurato un regime parlamentare che da allora non è mai stato messo in crisi e che continua a stimolare l’interesse e la partecipazione popolare alle vicende della vita politica. Il Bénin si autodefinisce oggi berceau du vodun (culla del vodun) mostrando l’aspirazione a costruire un legame forte con la propria storia culturale, una storia “ricostruita” che sembra spesso coincidere esclusivamente con quella del regno del Dahomey.1 Il dibattito sul turismo in Africa, come abbiamo ricordato nel già citato numero della rivista uscito prima di questo, si deve confrontare con almeno tre punti fondamentali. Innanzitutto, la storia di dominazione coloniale e post-coloniale e il suo carico d’immaginari, che non hanno mai smesso di «produrre fantasmi e fraintendimenti, barriere e gerarchie» (Africa e Mediterraneo, n. 65-66, p. 6). A ciò oggi si assommano le contraddizioni insite nel turismo “esotico” di massa, fenomeno che funge da «rilevatore dei paradossi e delle crudeltà del mondo in cui viviamo» (Africa e Me-diterraneo n. 65-66, p. 6). Vi è poi la prevalente adozione, da parte degli Stati africani, di strategie di valorizzazione del patrimonio materiale e immateriale spesso in sintonia con lo sguardo e il linguaggio occidentali, ma che non escludono la possibilità di declinare a proprio vantaggio questo vocabolario egemone. I luoghi “culturali” e i “pa-trimoni” producono costrutti densi di significato e sono, in effetti, centri verso cui convergono attenzioni politiche, economiche e culturali. Tali costrutti, frutto di declinazioni del concetto di patrimonio che non per forza partono dal medesimo obiettivo e dalla medesima posizione temporale, riflettono desideri sia imposti dall’alto sia nati dal basso. In-teressante è quindi il tentativo di mostrane la processualità e rivelarne i meccanismi di stratificazione semantica. Nel caso del Bénin è la patrimonializzazione del vodun2 intrecciata a quella dei luoghi della memoria della tratta a costituire il volano dello sviluppo del turismo culturale. Il

vodun in particolare, come anche gli articoli del presente dossier, pur con tagli diversi, evidenziano, sembra essere un “dispositivo” polisemico che consente di produrre auten-ticità e costruire identità (autenticità e identità facilmente esportabili all’interno della diaspora) e, più in generale, di veicolare cultura, valorizzare saperi locali, e condividere con eventuali turisti una certa idea di tradizione ed esotismo. Bénin, terre de mystère è la frase scelta dalla Direction de l’animation et la promotion touristique del Bénin come epigrafe al proprio sito internet. La parola “mistero” è il focus di un turismo che sembra oggi volersi concentrare so-prattutto sulle risorse culturali, tra le quali il vodun ha una posizione predominante. Questo primato non è solo un risultato di politiche turistiche recenti, ma parte dell’ere-dità storica che il Bénin post-coloniale ha ricevuto dal Da-homey e, più in generale, da una visione e da una pratica religiosa che permea molti aspetti della vita politica, sociale e individuale dell’intera regione che si affaccia sul golfo di Guinea. Si tratta di un sentimento diffuso se, come scri-vono Alain Sinou e Bachir Oloudé (1988, p. 159), «per la maggior parte dei beninesi, la nozione di patrimonio “cul-turale” riconduce in primo luogo alle pratiche religiose e familiari che sono rese manifeste dalle cerimonie svolte in memoria di antenati e vodun».3 Non diversamente dalle altre pratiche cultuali dell’Africa subsahariana, la religione dei vodun fu interpretata e spie-gata dai primi osservatori e viaggiatori europei come una credenza feticista, da collocare al livello più basso del cam-mino evolutivo delle religioni. Soltanto in seguito, e solo grazie a un approccio più empatico nei confronti dei nativi, fu integrata nella generalizzante categoria di “religione tra-dizionale africana”. Si passò quindi da descrizioni cariche di disprezzo, che enfatizzavano le pratiche più anomale, arbitrarie e “demoniache”, a una visione che cercava piut-tosto di tradurre i saperi locali secondo un’ispirazione uni-versalistica, rifacendosi alla tradizione giudaico-cristiana. E tuttavia il vodun, come oggi anche il sito internet sembra voler ricordare, resta carico di un immaginario che evoca mistero, riti esoterici e manovre magiche. Un immaginario, pertanto, che nelle sue articolazioni più razziste ci ricon-duce a un’Africa selvaggia e primitiva, abitata da popoli spietati e usi a macabre pratiche, e che il paese stesso in qualche misura asseconda per soddisfare i desideri di eso-tismo e religiosità alternativa del turismo occidentale.

Politiche e vodunPer comprendere, non tanto le valenze religiose e mistiche, quanto l’uso politico ed economico che di questa forma religiosa si cerca di fare in Bénin, e per cogliere la portata della connessione tra memorie della schiavitù e rinascita della tradizione vodun che è alla genesi degli attuali proces-si di patrimonializzazione, è necessario ripercorrere sinteti-camente alcune tappe della storia più recente del Paese. Il periodo da prendere in considerazione data dall’epoca post-coloniale, più precisamente dalla presa del potere, nel 1972, da parte di Mathieu Kérékou,4 un militare ori-ginario della regione somba, nel nord del Bénin. Kérékou fece proprie le ideologie nazionalistiche e antimperialiste, proponendosi di sradicare il sistema politico vigente da lui stigmatizzato come ancora intriso di pensiero coloniale. L’assunzione di una dottrina marxista-leninista voleva in-fatti rappresentare una rottura totale con il passato regime coloniale e post-coloniale.

Romuald Hazoumé, La Bouche du Roi, esposto alla Fondation de Ménil, Houston. Foto di Georges Hixson

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Alla fine del 1975, Kérékou diede avvio alla cosiddetta lotta antifeudale, vale a dire, come si leggeva su Ehuzu, l’organo di stampa del partito, alla «distruzione totale (…) eliminazione completa (…) della feudalità tradizionale e delle sue manifestazioni: feticismo, ciarlatanismo, conven-ti e tutte le pratiche retrograde e oscurantiste».5 Bersaglio principale era proprio il vodun, sempre più assimilato alla stregoneria. Dalle pagine di Ehuzu il regime sancì il di-vieto di indire cerimonie ufficiali, l’abolizione dei cortei reali e l’interdizione all’intronizzazione di nuovi re o capi religiosi.Secondo un immaginario comune e condiviso, la reazione del mondo vodun non tardò a farsi sentire e nel 1976 iniziò un periodo di grave siccità. Il disastroso fenomeno atmo-sferico fu da tutti interpretato, almeno nel sud del Paese, come una dimostrazione del potere dei vodun e dei sacer-doti del vodun, i vodunon, che reagivano contro i soprusi del potere bloccando la pioggia. Oggi l’avvenimento è ri-cordato come la vittoria del vodun su Kérékou. Effettiva-mente nel 1977 il regime si dichiarò neutrale nei confronti delle confessioni religiose, a patto che queste non osta-colassero il processo rivoluzionario. Nel medesimo anno il dittatore Kérékou si rivolse ai capi religiosi chiedendo loro di collaborare alla costituzione di una commissione tecnica verso la quale indirizzare i poteri ancestrali e au-toctoni, poteri che avrebbero potuto collaborare al suc-cesso della rivoluzione e al bene del paese. Questo momento cruciale segnò profondamente l’imma-gine pubblica del vodun beninese, poiché implicitamente si chiedeva di costruire un confine tra il bene e il male, tra i vodunon che guarivano e quelli che uccidevano. La figu-ra del guaritore tradizionale, riabilitata nell’ambito di una nuova politica di recupero dei saperi endogeni, legati alla medicina tradizionale, divenne l’espressione dell’emisfero positivo del vodun, mentre tutte le altre pratiche connesse al culto entrarono a far parte di una sfera pericolosamente prossima a quella della stregoneria. La dicotomia imposta nel 1972 da Kérékou tra forze del bene e del male, pur essendo ontologicamente estranea al vodun, ne condizionò i futuri discorsi costringendo i suoi esponenti ad assumere, almeno pubblicamente, una po-sizione conforme alle richieste politiche. Come mette in luce nel suo contributo Anna Seiderer, la separazione tra medicina tradizionale e religione sottendeva la condanna delle credenze religiose in nome di ciò che si riteneva esse-re il loro contrario: il sapere della scienza. Con l’inizio degli anni ’80 il contraddittorio regime di Kérékou prese ad incoraggiare la riattivazione delle auto-rità tradizionali, innescando anche un processo di “rein-venzione” della cultura locale – storia, danza, musica. Tuttavia, il processo parallelo di una rinascita del vodun, ossia di una rivitalizzazione della tradizione religiosa iden-tificata in generale col vodun, e di una patrimonializza-zione della memoria della tratta legata anche, in quanto motore storico della sua espansione, all’affermazione del vodun quale religione internazionale, assunse una dimen-sione spettacolare soltanto dopo la caduta di Kérékou nel 1990 con l’avviarsi del “rinnovamento democratico” e l’elezione alla Presidenza della Repubblica – non più popolare – di Nicéphore Soglo. Soglo fu il vero promo-tore di un processo di “reinvenzione della tradizione” che rimise in funzione i titoli e i ruoli della regalità e incenti-vò il ritorno delle religioni “tradizionali”, in particolare

del vodun, come soggetti della sfera pubblica. La retorica mirante alla costruzione dell’autorità culturale del vodun fu presto acquisita dai sacerdoti vodun più coinvolti nel-la vita politica del paese. Al punto che un sacerdote del vodun Heviossou, in occasione della sua intronizzazione affermava, sulle pagine de La Nation, la necessità di «in-coraggiare una nuova dinamica per i culti vodun, al fine di liberarli dalle pratiche vergognose a opera di qualche incosciente che ignora l’importanza, il posto e il ruolo, che gioca la religione vodu nella nostra tradizione».6 E ancora, durante il Symposium national à Ouidah sur le culte vodun svoltosi nel 1991 l’allora ministro ad interim della cultu-ra, M.Vieyra, incitava i capi vodun a «circoscrivere le basi dottrinali di questa tradizione religiosa, uniformare le opi-nioni su cosa sia il vodu (…)».7 La religione tradizionale, insomma, doveva diventare un patrimonio comprensibile, riproducibile, eticamente accettabile e uniforme, da poter utilizzare per lo sviluppo del paese attraverso l’accesso ai fondi degli enti internazionali; questo bene sarebbe sta-to condivisibile anche con le comunità della diaspora, in quando testimonianza di un passato comune.In effetti Soglo attrasse nel paese molti capitali stranieri e fece del turismo culturale un’importante risorsa per lo svi-luppo economico. Con il supporto di differenti organizza-zioni culturali internazionali, tra cui l’UNESCO, varò un piano di conservazione e valorizzazione dei luoghi e della memoria della tratta atlantica. Il processo di recupero del-la storia della schiavitù, in atto in Africa Occidentale dai primi anni Novanta, portò, in Bénin, all’organizzazione di Ouidah 92: 1er festival mondial des arts et de la culture vo-dun8 – nei fatti la sovrapposizione delle due celebrazioni si sarebbe rivelata penalizzante per la memoria della schia-vitù, lasciata in secondo piano rispetto all’effervescenza delle celebrazioni vodun – e al progetto per la costruzione della Route de l’esclave lanciato nel 1994. Il rinnovamento del vodun, voluto da Soglo, liberò questa pratica religiosa, anche se solo parzialmente, dalle con-notazioni “oscure” che il regime d’ispirazione marxista-leninista del primo Kérékou9 le aveva attribuito. Si cercò di riabilitarla non tanto assumendone l’ontologica ambi-guità, ma enfatizzandone il nuovo statuto di patrimonio culturale. Almeno a livello politico, il vodun divenne un simbolo della cultura nazionale, consacrando il Bénin come berceau du vodun. Fu istituito il CNCVB (Commu-nauté nationale du culte vodun du Bénin) nel tentativo di gestire i culti vodun secondo i principi della nuova demo-crazia. Come osserva Banégas (2003, p. 360), l’obiettivo era di radicare il nuovo corso politico nella tradizione e nella religione riconducendo il vodun a «valori universali di umanesimo e progresso». Già nel 1992 vi erano state però alcune voci dissonanti, come quella del filosofo beninese Paulin Hountondji, al-lora ministro della cultura, il quale, contestando la politi-ca di valorizzazione della cosiddetta religione tradizionale, mise in discussione la portata della religione vodun come portavoce dell’insieme della cultura beninese e quale ter-reno su cui far crescere la solidarietà con la diaspora.10 Hountondji ricordava, tra l’altro, come il vodun rischiasse di essere reificato, questa volta da parte degli africani stes-si e non più dagli studiosi occidentali, in un patrimonio da conservare e proteggere, collocato in una dimensione spazio-temporale esterna a ogni reale riferimento geogra-fico e storico.

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Una terra africana e il suo patrimonioIndubbiamente in Bénin il processo di patrimonializza-zione, pur nelle sue molte contraddizioni, si è dimostrato essere una strada vincente e ha raccolto gli interessi e la partecipazione di buona parte della popolazione: i festi-val ufficiali dedicati ai culti vodun sono molto partecipati, vivaci e ormai celebrati in quasi tutte le città meridiona-li, e il tema vodun è presente in diverse espressioni della cultura contemporanea, quali le arti plastiche, la lettera-tura e il teatro. Esiste una spinta alla patrimonializzazio-ne, alla valorizzazione del passato, alla costruzione di una memoria condivisa, spinta che, come scrive Anna Sambo nell’articolo qui presentato, parte anche dal basso e per tale motivo appare più viva e reale. Il fotografo Ogunlola, con il suo archivio di foto storiche, è uno dei molti casi presenti nel paese che mostrano come i singoli attori so-ciali si siano appropriati dell’idea di patrimonializzazione culturale. Indubbiamente, in ogni processo che implichi una costruzione d’identità, memoria e tradizione vi sono anche dinamiche conflittuali, zone d’ombra, dato che, in generale, «qualsiasi realizzazione culturale, qualunque forma d’identità implicano una rinuncia (almeno parziale e temporanea) alla molteplicità, un’accettazione (entusia-stica, forzata o dissimulata) della particolarità» (Remotti 1996, p. 19). E dato che, se parliamo del Bénin, le differen-ti e contrastanti percezioni della storia della schiavitù, oltre a combinarsi con le retoriche patrimoniali internazionali, si confrontano con la complessità delle poste in gioco. Se infatti con l’annuale festa nazionale dei culti vodun – ce-lebrazione istituita nel 1997 che si svolge, da allora, il 10 gennaio di ogni anno – il Bénin si candida al ruolo di terra d’elezione per l’incontro fra gli Africani e la diaspora, da un lato i suoi intellettuali sono piuttosto latitanti quanto al dibattito sui risarcimenti da attribuire alle vittime della tratta negriera, dall’altro le appropriazioni del passato ne-griero da parte dei dignitari del culto locali e da parte dei visitatori afro-americani non sono le stesse (Ciarcia 2008).Un rischio considerevole delle operazioni di messa in va-lore del patrimonio culturale nel caso specifico della “tra-dizione” vodun beninese è inoltre quello, esaminato nello scritto di Anna Seiderer, di passare dagli oggetti, e dalle pratiche religiose, alla loro rappresentazione, dalle rap-presentazioni alla costruzione d’icone stilizzate (le statue presenti a Ouidah lungo la Route de l’esclave ne sono un caso emblematico) e quindi di dimenticare il processo che ha portato al risultato ultimo. Dietro a questo percorso vi è una forte intenzione politica che, come spesso accade nei fenomeni di patrimonializzazione, occulta tutti i processi di costruzione e invenzione creando degli ibridi ma pre-sentandoli come se fossero espressione “naturale” della cultura o della tradizione. L’articolo di Dominique Juhé-Beaulaton mostra, seguen-do un simile approccio critico, come il processo di patri-monializzazione abbia alienato il vodun dal suo rapporto diretto e non mediato con la natura. Il caso della foresta sacra di Kpassé a Ouidah è sotto questo aspetto esemplare. L’antica foresta sacra, un tempo aperta esclusivamente agli iniziati, è diventata, dopo la sua risistemazione turistica e cultuale avviata nel 1993, un ibrido all’interno del quale gli elementi naturali, che erano i vodun stessi (ad esempio al-cuni alberi), sono stati rinchiusi in aiuole e affiancati da sta-tue (la maggior parte realizzate da Cyprien Tokoudagba) che sono la rappresentazione dei principali vodun e degli

elementi della natura (camaleonti, serpenti, alberi, etc.) con cui il vodun è in più stretto dialogo. Le statue non hanno un legame diretto con i preesistenti luoghi e spazi sacri ma sono diventate parte di un percorso turistico dove le guide possono condurre gli stranieri che desiderano “vedere” il vodun. In tal modo le statue, realizzate contestualmente a quelle installate lungo la Route de l’esclave, sono divenute delle reali icone del vodun, riprodotte e riproducibili. L’utilizzo delle opere di artisti contemporanei, come ricorda Juhé-Beaulaton, «risponde meglio ai criteri di patrimonio culturale occidentale basato essenzialmente sull’architettura monumentale». S’ispira in definitiva a una visione che privilegia i segni materiali del patrimonio a scapito di una visione dei luoghi di memoria quali territori altamente simbolizzati anche se al loro interno difettano le marche monumentali. Una foresta sacra, ove gli unici monumenti siano proprio gli alberi o gli enormi termitai, considerati localmente la naturale dimora di alcuni vodun, resta un patrimonio di più difficile condivisione; a maggior ragione un altare vodun, nella sua materialità eccessiva e “disordinata”. Da qui la necessità di museificare alcuni luoghi di culto o storici, di arricchirli con opere d’arte contemporanea e di organizzare cerimonie ufficiali da tenersi in spazi adeguati e a ciò espressamente destinati. Con questo non si vuole certo negare l’importanza storica e precoloniale degli spazi monumentali. Nell’antico regno del Dahomey la centralità del potere era sancita proprio dal palazzo reale che simbolizzava e incarnava il potere del re. Si trattava di uno spazio al contempo sacro e flessibile in quanto, riproducendo l’autorità politica, era soggetto alle sue fluttuazioni. Ancora oggi, in Bénin «lo spazio non è concettualizzato in funzione di modelli rigidi» (Sinou e Oloudé 1988, p. 159) che possano sottintendere una logica della conservazione, ma cambia nel tempo secondo il mutare di logiche, usi e pratiche. Interessante a questo riguardo è l’articolo di Laurick Zerbini in quanto illustra lo sforzo e l’intuizione della missione cattolica la quale, dai suoi esordi nel paese, cercò di fare un uso politico e identitario del monumento sacro al fine di favorire l’evangelizzazione.L’importanza data al patrimonio in Bénin è testimoniata anche dall’istituzione da parte dell’UNESCO nel 1998 a Porto-Novo dell’École du patrimoine Africain (EPA) – scuola nata in seguito a una convenzione tra l’ICCROM (Centre international d’études pour la conservation et la restauration des biens culturels) e l’Université Nationale du Bénin con lo scopo, tra l’altro, di aiutare la diffusione della memoria della schiavitù e di preservare il patrimo-nio materiale e immateriale. L’EPA ha dedicato un settore delle sue attività di ricerca proprio alla catalogazione del ricco patrimonio architettonico di Porto-Novo, e ciò an-che al fine dello sviluppo di un turismo culturale. A partire dagli inizi degli anni ’90 pure la città di Ouidah è stata in-teressata da più progetti nazionali e internazionali, miranti allo sviluppo di un turismo dell’heritage, come illustrano Gaultier-Kurhan e Dossou nel loro contributo. L’interven-to che più ha segnato la città è stata la già citata Route de l’esclave, un progetto di valorizzazione della strada che gli schiavi si presume fossero costretti a percorrere per rag-giungere la spiaggia, dove ormeggiavano le navi negriere. Va comunque ricordato che la Route è stata stigmatizzata da alcuni autori (tra cui Araujo 2005) come un’operazione di fiction, sia perché in passato altri e molteplici erano i percorsi seguiti per raggiungere il mare, sia perché i monu-

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menti installati lungo il suo tragitto non necessariamente coincidono con un luogo o un evento di una qualche rile-vanza ma mirano piuttosto a creare un senso di continuità e ad accompagnare i visitatori fino alla spiaggia. Le scultu-re realizzate da Cyprien Tokoudagba raffigurano divinità, re e guerrieri correlati alla storia della regione e del regno del Dahomey, piuttosto che evocare il commercio di schia-vi. La valorizzazione di Ouidah ha comunque assecondato, come ricorda Robin Law, «il forte senso della storia» (Law 2008, p. 12) della sua comunità, senso costruito soprattutto da chi partecipò al commercio di schiavi come mercante.11

Sulla spiaggia, nel 1995, è stata innalzata la Porte du non retour, a cui si è in seguito dapprima affiancato un impo-nente monumento commissionato dalla chiesa cattolica per commemorare il giubileo del 2000 e infine, nel 2003, la Porte du retour (con un suo museo della diaspora), eretta quest’ultima dall’ONG ProMeTra (Promotion de la méde-cine traditionnelle). Con base in una decina di paesi, fra cui gli Stati Uniti, ProMeTra è impegnata in un’impresa di valorizzazione commerciale della memoria della tratta ri-volta ai visitatori di origine afro-americana. Toni Pressley-Sanon dedica il suo contributo al dossier proprio a questo luogo carico di fascino, dove si sono concentrate retoriche e politiche spesso in contrasto tra di loro.Molteplici del resto sono gli spazi dedicati nel paese alla memoria della schiavitù, sempre sul filo di una difficile e ambigua consapevolezza storica. Tra questi, sicuramente degno di nota è il Musée da Silva des arts et de la culture créole, un museo privato che sorge a Porto-Novo. Come fa presente Ana Lucia Araujo nel suo contributo, la schiavi-tù in Bénin è un’eredità molto difficile da gestire per chi è discendente di schiavo, assai più facile per chi appartiene invece a una famiglia di antichi mercanti. È del resto ovvio che la discendenza da una famiglia di schiavi appaia più so-stenibile quando la situazione sociale ed economica sia tale da consentire uno sguardo distante e disincantato. Da Silva, ricco imprenditore beninese, ha realizzato un museo che vuole evocare la memoria della schiavitù ma che rivela la forza politica e culturale di una posizione economicamente egemone; il museo in realtà è diventato un museo celebra-tivo della sua persona e della sua famiglia afro-brasiliana (sulla cultura afro-brasiliana si veda anche il contributo di Cossi Zéphirin Daavo).12

In tal modo egli è riuscito a rielaborare la sua identità di di-scendente di schiavo, fino a trasfigurarne le caratteristiche, trasformando lo schiavo da vittima a ribelle ed eroe. A Ouidah si può visitare anche la casa - situata tra l’altro proprio all’inizio della Route de l’esclave e dive nuta museo privato – del leggendario mercante di schiavi Dom Franci-sco Felix de Souza, alias Chacha (il doppiamente sradicato viceré di Ouidah di Bruce Chatwin e l’allucinato protago-nista del Cobra Verde di Herzog, film tratto dal libro). Gli eredi hanno incorporato senza apparente difficoltà i discor-si dell’UNESCO al fine di promuovere la memoria della loro stessa famiglia e catturare i turisti provenienti da oltre Atlantico, non mostrandosi per nulla a disagio rispetto alla loro pesante eredità di mercanti di schiavi (Araujo 2005).

DreamL’arte contemporanea è il terzo ambito tematico affronta-to dagli articoli qui presentati. Il tema è pertinente poiché l’arte contemporanea, in sintonia con il cammino intrapre-so dal paese negli ultimi anni in materia di politiche iden-

titarie, condivide in più casi l’enfasi governativa sui valori della tradizione e del sapere endogeno. Alcuni degli au-tori da noi invitati a collaborare a questo dossier mettono proprio in luce come, da un lato, l’arte contemporanea in Benin venga spesso incorporata negli spazi della memoria e nei luoghi d’interesse storico (si vedano, ad esempio i Palazzi Reali di Abomey e Porto-Novo) e come, dall’altro, il confronto con la tradizione vodun continui a permeare la produzione di oggi.Negli ultimi vent’anni, anche grazie allo spazio offerto dal Centre culturel français, le possibilità degli artisti beninesi di uscire dai confini del paese sono decisamente aumen-tate. I temi di cui gli artisti si sono appropriati sono par-te di un repertorio che spazia dal patrimonio culturale e religioso, alla memoria della tratta atlantica e al dramma della schiavitù nelle sue molteplici forme, fino a contenu-ti di maggiore attualità internazionale o d’interesse locale. L’adozione di forme espressive che evochino la tradizione è uno strumento attraverso cui rivendicare la propria iden-tità e cultura e risponde al contempo a un sentire comune alla società civile, come pure alle richieste occidentali «di un’arte locale, incontaminata e perciò “tipicamente” afri-cana» (Cafuri 2005, p. 39). Spesso infatti gli artisti nei loro lavori attivano lo stesso gioco di contraddizioni insito nelle politiche della patrimonializzazione in atto. La loro è una posizione di confine, a partire dalla quale usare la tradizio-ne, e quindi il vodun, come linguaggio, come rappresenta-zione o icona, come strumento politico e come esperienza esistenziale. L’adozione di un discorso di rivendicazione identitaria pro-dotta attraverso il ricorso al sapere ancestrale ed endogeno non è evidentemente priva di contraddizioni. Un rischio è quello evidenziato dalla celebre esposizione Magiciens de la terre tenutasi al Centre Georges Pompidou di Parigi nel 1989. Mostra accusata da più parti di aver contribuito all’esotizzazione dell’artista africano contemporaneo pre-sentato come “mago” e pertanto come figura ancora intrisa di saperi mistici e religiosi. In altre parole considerato un ingenuo e originale interprete della sua cultura che, non necessariamente consapevole delle sue qualità d’artista, viene scoperto dal collezionista ed esperto occidentale. In tal modo l’artista diviene il nuovo sacerdote, il saggio, co-lui che può conoscere e trasmettere i saperi tradizionali, saperi a cui la cultura occidentale sembra ancora anelare. Nei discorsi prodotti attorno all’arte africana si percepisce l’adesione a una dicotomia tra realtà e finzione, tra l’idea che l’artista o sia pienamente parte della sua cultura “tra-dizionale”, oppure che la usi e la reinterpreti secondo le esigenze del mercato e appartenga quindi al regno conta-minato della “finzione”. Tale dicotomia viene spesso, alme-no in Bénin, riprodotta dagli artisti stessi, i quali devono rispondere, ad esempio, del fatto di essere o di non essere iniziati al vodun. La loro arte è magica, vale a dire è vera espressione di un sapere esoterico, oppure ne utilizza sem-plicemente il linguaggio? Si tratta di un’opera intrisa di re-ligione o semplicemente politica, artistica o commerciale?Questa alternativa dicotomizzante rivela la sua inconsi-stenza da differenti punti di vista. Come ricorda Didier Houénoudé nel suo contributo, l’artista è parte di un universo cognitivo che implica una concezione dell’indi-viduo, una riflessione metafisica, un’idea del rapporto tra il mondo visibile e invisibile condizionati dal suo ambiente culturale. Si tratta di un mondo dove, nel caso del Bénin

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meridionale, il vodun è un protagonista importante, un fat-tore che continua a permeare la società, al di là delle politi-che di normalizzazione in atto. Come scrive Houenoude a proposito dell’uso, da parte dell’artista beninese Romuald Hazoumé, del simbolismo dei segni divinatori di fa – la complessa scienza divinatoria di origine yoruba diffusa in tutta la regione costiera, dalla Nigeria al Ghana – la scel-ta di questa espressione religiosa non è casuale. Secondo Houenoude, fa consente all’artista di articolare questioni più vicine all’idea di “tradizione” con temi di interesse universale. Fa è infatti un percorso di apprendimento che aiuta l’uomo a rispondere a domande di tipo esistenziale; è un processo di crescita e di integrazione che, partendo dall’analisi del proprio percorso di vita, ha portato l’ar-tista a interrogarsi su questioni che interessano il futuro dell’Africa e l’avvenire del mondo. Roberta Cafuri (2005, pp. 88-89) mostra come Hazoumé, privilegiando Fa, abbia scelto di confrontarsi con una cultura “fatta di prestiti”. Tale cultura, prodotto degli incontri, delle assimilazioni tra elementi appartenenti a differenti epoche e aree culturali, è in definitiva uno specchio del percorso dell’artista africa-no, in viaggio tra presente e passato e tra le molte frontiere culturali del mondo contemporaneo. L’opposizione tra realtà e finzione rimanda ancora una vol-ta a quella tra l’idea di un patrimonio originale, di un’“au-tenticità” africana da una parte e un mondo costruito, in-ventato o contaminato dall’altra, e quindi in ultima analisi alla dicotomia tradizione e modernità. Si tratta di barriere che non ha senso erigere, sia che ci si approcci all’arte con-temporanea, al patrimonio culturale, alle religioni, sia alla società nel suo complesso. Dando alfine per scontato che

ogni società è il frutto «di entità già mescolate, che rinviano all’infinito l’idea di una purezza originaria» (Amselle 2001, p. 21), l’importante è evidenziare i processi d’incessante costruzione delle forme ibride e non cercare di occultarne la genesi, cancellarne la memoria o interpretarli solo come risultati della recente “globalizzazione”.Un punto critico dell’arte contemporanea africana (soprat-tutto delle arti figurative) è piuttosto costituito dal merca-to dell’arte, ancora prevalentemente in mano occidentale. Come ricorda Ivan Bargna, gli incessanti spostamenti degli artisti non sono liberi ma «vincolati dalla committenza e dai “nodi” del sistema dell’arte» (2008, p. 51). Il problema riguarda quindi gli artisti stessi e le loro continue nego-ziazioni tra un’identità africana e un’identità dislocata e cosmopolita, tra le richieste del mercato internazionale e la loro libertà espressiva (Amselle 2005). A Cotonou nel 2005 è stata inaugurata la Fondation Zin-sou, una fondazione privata che si prefigge di promuovere e diffondere, soprattutto tra i più giovani, l’arte africana. L’obiettivo è stato proprio quello di far conoscere l’arte “africana” agli africani e di diffondere una cultura dell’“ar-te” in Africa, creando le basi per una futura e auspicata emancipazione dal mercato occidentale. La Fondation dalla sua inaugurazione ha già ospitato più mostre, tra le quali una personale dedicata a Romuald Hazoumé e una a Malick Sidibé, una mostra dedicata al centenario della morte del re Béhanzin (in collaborazione con il Musée du quai Branly di Parigi) e una mostra di foto di altari e sacer-doti vodun. La Fondation, mettendo a disposizione uno spazio espositivo unico in Africa Occidentale e consen-tendo l’ingresso gratuito al pubblico, sta indubbiamente

Dream di Romuald Hazoumé a Documenta XII, 2007. Foto di Romuald Hazoumé

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collaborando alla diffusione dell’arte contemporanea e del suo linguaggio tra la popolazione beninese. La mostra Benin 2059 (conclusasi nel gennaio del 2009), recensita da Giulia Marchi in queste pagine, ha presenta-to una collettiva di soli artisti beninesi. L’idea ispiratrice della mostra era rispondere alla domanda: quale sarà il futuro della nostra città tra cinquant’anni? L’obiettivo era quello di stimolare lo sguardo sociale e politico degli artisti. Sono emerse alcune problematiche tipiche dell’im-pegno sociale: la corruzione politica, la necessità di un cambiamento sociale, l’inquinamento, la sovrappopola-zione delle città ecc. Come è stato già sottolineato nel precedente dossier (Afri-ca e Mediterraneo, n. 65-66. p. 7), gli artisti africani pro-pongono un’arte molto politica. La parola e il messaggio politico e sociale sono parte del linguaggio artistico di molti artisti africani, che fanno della loro arte uno stru-mento d’impegno e militanza politica. Gli artisti costretti a vivere in prima persona i contrasti di un mondo che si dice globalizzato, abituati a negoziare tra impulsi e stimoli che sembrano muoversi in direzioni opposte e a viaggiare tra queste contraddizioni, producono un’arte impegnata che, grazie alla forza del linguaggio artistico, può offrire inter-pretazioni dense e alternative sull’Africa. Scrive Clotilde

Wuthrich: «la principale caratteristica comune ai differen-ti discorsi degli artisti beninesi si trova nell’idea di arte come linguaggio o come repertorio di azioni politiche». Infatti il discorso sociale, spesso militante ed ideologico, che gli artisti esprimono nelle loro opere o che esplicitano nei discorsi che le affiancano, è un elemento costante nelle produzioni artistiche. La mostra Bénin 2059 ritraeva, da una parte, una città asfissiata dall’inquinamento e dalla sovrappopolazione e, dall’altra, una campagna abbandonata, sterile, non più in grado di sfamare gli africani. L’ambiente in Africa non è ancora diventato parte delle politiche di tutela e molto spesso i progetti che mirano allo sviluppo turistico sono totalmente insensibili alle sue problematiche. È esempio di ciò il progetto Route de pêches13 – nome dato alla strada costiera sterrata che collega Cotonou a Ouidah – che pre-vede la costruzione di un complesso alberghiero di lusso. Questo progetto – alcuni cartelloni raffiguranti il plastico sono già dallo scorso anno esposti a Ouidah – prevede la costruzione di molte infrastrutture e la pavimentazione della strada a ridosso della spiaggia. Si tratta di un luo-go di estremo valore sociale e ambientale, e anche di un territorio già da anni soggetto a un processo d’incessante erosione, situazione che l’operazione non potrebbe che drammaticamente peggiorare. Nei trenta chilometri di costa interessati dal progetto rien-trano diversi villaggi di pescatori e molti altari e conventi dedicati ai vodun che vivono nel mare. Come il caso della foresta sacra di Kpassé illustra, la reificazione del vodun, il suo scollamento dalla natura, attraverso una fittizia op-posizione tra natura e cultura, e quindi la sua patrimo-nializzazione, possono implicare anche la perdita di una precedente differente sensibilità verso l’ambiente. A tal riguardo è emblematica l’opera di Romuald Hazou-mé Dream esposta a Documenta XII nel 2007 e vincitrice del premio Arnold Bode. L’opera è costituita da una pi-roga di dimensioni reali rivestita di bidoni della benzina. Tagliati e adattati dall’artista, i bidoni diventano volti-maschere di uomini, di africani, di migranti, di schiavi di ieri e di oggi. Sullo sfondo della piroga vi è la foto di una spiaggia idilliaca, simbolo della natura incontaminata cui i turisti stranieri aspirano, foto scattata proprio sul me-desimo litorale beninese. Una terra che gli africani sono spesso forzati ad abbandonare, scappando verso un altro-ve, presumibilmente migliore, ma più realisticamente as-similabile nel loro caso a scenari di povertà e nuove forme di schiavitù. Ai piedi della piroga l’artista aveva collocato la scritta: «Damned if they leave and damned if they stay: better, at least, to have gone, and be damned in the boat of their dreams» a ricordare la claustrofobica condizione dei poveri della terra.

Giovanna Parodi da Passano è docente presso l’Universi-tà di Genova di “Etnologia e Antropologia del Turismo” nel corso di laurea triennale in “Scienze geografiche per il territorio, il turismo ed il paesaggio culturale”, e di “Cul-ture ed estetica dell’Africa” nel corso di laurea magistrale in “Antropologia culturale ed Etnologia”. Africanista di formazione, attualmente si occupa dei culti legati ad as-sociazioni di maschere e di estetica della rappresentazione nello spazio culturale yoruba sudoccidentale; della muse-alizzazione di oggetti e memorie inerenti ai culti afro-cu-bani a Cuba (ha in corso una collaborazione con il Museo

La foresta sacra di Kpasse,

Ouidah, 10 gennaio

2006. Foto di

Alessandra Brivio

AeM 67 luglio 099

Municipale di Guanabacoa, l’Avana); di street art, moda e design in Africa

Alessandra Brivio si è dottorata in antropologia presso l’Università di Milano Bicocca, sotto la direzione di Alice Bellagamba. Svolge ricerca in Togo, Bénin e Ghana su temi correlati alla religione “tradizionale”. Tra il 2002 e il 2004 ha collaborato all’ideazione e messa in opera dell’esposi-zione Euhé-Ouachi: un’estetica del disordine con G. Parodi da Passano e il CSAA di Milano

BiBliografia

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Note

1 - Il regno, con capitale Abomey, iniziò a esercitare il proprio potere nella regione a partire dal XVII sec. riuscendo a mantenersi egemo-ne nell’area fino al XIX sec. quando il re Behanzin fu sconfitto, cattu-rato e deportato dall’esercito coloniale francese. Il regno di Abomey, miscelando strategicamente potere religioso e temporale, condusse una politica di centralizzazione, conquista ed espansione continua

ai danni dei popoli confinanti, politica incarnata nella figura del so-vrano. Il successo del potentato del Dahomey fu dovuto soprattutto al suo coinvolgimento nei commerci della tratta atlantica, ma anche a una strategia di apertura culturale verso l’“altro”, strategia rispon-dente tuttavia a una logica di incorporazione fortemente gerarchica. 2 - Negli articoli sono state usate anche altre traslitterazioni, frutto di una letteratura che non si è mai uniformata in una comune trascri-zione del termine.3 - Vodun è termine che indica sia la religione, praticata nelle aree costiere di Bénin, Togo e Ghana orientale, sia le entità spirituali che la compongono. Si tratta, come noto, di una religione politeista e “aperta”, e come tale sfugge a facili classificazioni e restituzioni testuali. Di fatto è fluida, dinamica; una religione in continua tra-sformazione e incessante movimento, che ha saputo dialogare con le molte istanze politiche e religiose che si sono susseguite nell’area costiera del Golfo di Guinea.4 - Gli anni che vanno dal 1960, data dell’indipendenza, fino al 1972, data del colpo di stato di Kérékou, hanno visto alternarsi alla guida del Paese 10 presidenti.5 - Ehuzu, 26 dicembre 1975, p. 6.6 - Gnanvi, Adapter le culte Hebiosso aux lois de la societé, in «La Nation», 5 febbraio 1992.7 - Vieyra, Symposium national à Ouidah sur le culte vodoun. Retrou-ver le mode de redynamisation du culte vodoun, in «La Nation» , 29 maggio 1991.8 - Ouidah 92 ha avuto luogo dall’8 al 18 febbraio 1993.9 - Kérékou è stato nuovamente eletto, questa volta democratica-mente, nel 1996 e ha terminato il suo secondo mandato nel 2006.10 - Hountondji, Non, les cultures du Bénin ne sont pas des cultures du vaudou, in «La Nation», 27 novembre 1992.11 - Come evidenzia Robin Law: «In contrast to what has been sug-gested for Ghana, in Ouidah the role of African agency in the ope-ration of the trade is explicitly avowed. (…) The leading families of contemporary Ouidah are, for the most part, descended from ance-stors who were prominent slave-traders in the late eighteenth and early nineteenth centuries» (Law 2009, p. 13).12 - Il legame tra Brasile e Bénin è storicamente importante, basti-pensare che circa il 60% degli schiavi esportati dalla regione di Oui-dah (si stima circa un milione di persone) furono inviati in Brasile, soprattutto nella provincia di Bahia (Law 2009, p. 12).13 - Si veda: http://www.laroutedespeches.bj.

This issue of Africa e Mediterraneo leads on from the last issue, as it continues to examine topics

relating to tourism and heritage, but this time with an exclusive focus on the country of Bénin. Bénin is a useful country to study as it has recently been engaged in the process of reconstructing and increa-sing the value of its cultural heritage. As part of this process it aims to emphasise its own cultural history, defining itself as the “cradle” of the voodoo religion, as well as focusing on the memory of slavery.