Giochi da Grandi

Post on 25-Dec-2015

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Crescere è un gioco che non si dimentica neppure una volta diventati adulti.

Transcript of Giochi da Grandi

Quando avevo sei anni martellai mia madre affinché, al compleanno, mi

regalasse un coniglio di peluche molto amato da tutte le bambine: Conny.

– Se mi compri Conny non ti chiederò più niente per tutta la vita! – sferrai la

mia arringa. Ovviamente sapevamo entrambe che non sarebbe andata così; se a

mia madre fosse bastato un pupazzo per risparmiare su tutto quello che le avrei

chiesto in seguito, me ne avrebbe presi un migliaio. All'epoca, però, pensavo che

fosse d'effetto e che l'avrei convinta ad accontentarmi.

Non so perché quel coniglio fosse così importante per me, nemmeno si fosse

trattato di un animale vero. Non era altro che un peluche dotato di un fastidioso

campanellino interno, eppure ai miei occhi Conny era come il Sacro Graal, un

oggetto prezioso da avere a tutti i costi.

Il giorno del mio compleanno Conny arrivò, puntuale come le campane la

domenica mattina. Strappai l'incarto con la tipica ferocia infantile che ignora le

buone maniere, ne sventrai la scatola e, finalmente, lo strinsi tra le braccia: era

mio. Mio come ero certa lo fosse il mio corpo, o il mio nome. Mio.

All'inizio venni completamente assorbita da quel giocattolo, quasi fosse

l'unico essere sulla faccia della terra a rendermi felice. Me ne prendevo cura, lo

portavo a spasso, era sempre con me.

Amavo tantissimo Conny, un po' meno il suo campanello, così come sapevo non

l'amavano i miei genitori. Non che me l'abbiano mai detto, ma sono certa fosse

così.

Qualche giorno, e le cose cambiarono. Conny rimaneva a fare da

tappezzeria, io concedevo i miei favori agli altri giocattoli. Mi erano stati regalati

da poco e li trovavo più stimolanti, più avvincenti; non volevo far torto a nessuno,

per quanto ci provassi, però, succedeva l'esatto opposto.

Il candido manto di Conny, gradualmente, si colorò del grigio smorto della

polvere, il campanello smise di tintinnare. Non che questa fosse una gran perdita,

comunque.

Mi dimenticai della sua presenza fino ai primi anni dell'adolescenza, pur

avendolo davanti agli occhi ogni giorno. Le orecchie afflosciate, l'imbottitura

assottigliata, il pelo grigio e infeltrito inducevano il mio sguardo a non

considerarlo. Era un oggetto di contorno, scontato e triste.

Non ci misi molto a volermi sbarazzare di lui e di tutti quei compagni di

giochi che mi avevano vista crescere: i pupazzi non mi servivano più.

Armata di alcuni sacchi della spazzatura, dichiarai guerra a qualsiasi cosa gridasse

“bambina”. Ero una giovane donna, per la miseria.

L'ultimo a venir rinchiuso fu Conny, che mi guardava tradito dalla cima del

mucchio. Soffocai i miei sensi di colpa stringendo il nodo al sacco, lo portai in

cantina e me ne scordai.

Dopo tanti anni penso ancora a Conny.

La felicità di possederlo si intaccò nel preciso istante in cui lo abbracciai,

l'attimo in cui conquistai la certezza che sarebbe stato mio per sempre. Ciò che

accadde dopo fu il naturale decorso di una malattia chiamata noia, che avevo

contratto inconsapevolmente.

Da grande, ho realizzato che fra esseri umani è lo stesso: l'entusiasmo lascia

il posto alla stanchezza, la stanchezza all'indifferenza, l'indifferenza, alla fine,

chiude tutto in un sacco nero e lo sbatte in cantina.

L'ultima volta in cui ho visto Conny gli ho fatto un piccolo foro sotto al

collo e mi sono presa il suo dannato campanello. Non per vittoria, né per ripicca.

Per ricordare.