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Volevo essere l’Uomo Ragno

Non è giusto che i supereroi non esistono. Quando ci penso mi viene da piangere. Ed è

amaro quando lo scopri, che

normalmente è il periodo che va dagli 8 ai 10 anni.

Perché prima la fantasia è più forte

della realtà, è più forte di tutto!

Da piccolo facevo due tipi di sogni. O sognavo di cadere o di volare. Il sogno divolare era quello che mi piaceva di più. Voi mi direte:ovvio.

Invece lo dico per un altro motivo:quando sognavo di volare, adifferenza di quando sognavo dicadere, ero SVEGLIO. Mi spiego:sapevo, ero consapevole di essere in unsogno. Perciò mi divertivo duevolte! Era così bello potersilibrare nell’aria e dirigersi dovesi voleva, così, leggeri, senzameta…

Ma la logica, prima o poi,arriva e ti contagia. Non èpossibile volare, almeno noncosì. Almeno non ancora, inquesto secolo.

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C’è tuttavia un compromesso: l’Uomo Ragno.

Anche se non vola, si può arrampicare sui muri, e fare balzi enormi.

È più ragionevole potersi arrampicare. È più POSSIBILE.

A quell’età decisi allora di consacrare la mia vita a diventare un supereroe. Decisi cheda grande avrei fatto lo scienziato. O, per meglio dire, avrei intrapreso un percorso distudi scientifici, specializzandomi in ricerca applicata, per poter realizzare fibre e apparecchi in grado di potenziare l’uomo e fargli fare cose che sono possibili solo ai super eroi.

Ricordo ancora il giorno in cui presi quella decisione: era in estate e la casa era immersa nella luce.

Volli andare a comunicarlo subito a mia madre, che si trovava al piano di sopra.

Parlavo molto con mia madre, soprattuttodi queste cose. So che mi ascoltava, forse non mi prendeva molto

seriamente, perché, a differenza mia, era completamente contagiata dalla logica. Il suo sorriso accondiscendente, spesso ironico, non so perché, mi lasciava una nota di speranza.

Quel giorno, però, quel giorno luminoso, mi resi conto che avevo

paura di salire le scale. Non mi era mai successo prima. Ero di fronte alla rampa,

che avevo saltato centinaia di volte, soprattutto in discesa, cadendo come fa l’Uomo

Ragno, dopo aver evitato una raffica di elettricità di Electro, e alzandomi subito con una semi-capriola, per prepararmi allo scontro finale con Kingpin, personificato dal baule della nonna.

Le scale mi sembrarono un ostacolo insormontabile. Sparì in un momento il mondo dei fumetti e dell’immaginazione. Quel giorno fui contagiato anch’io dalla logica. Il mio corpo non voleva seguirmi. Il mio corpo mi diceva che non ce l’avrei fatta. Forse i

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primi due o tre scalini, forse, ma poi mi sarei dovuto fermare, forse sarei caduto… e ilpensiero di cadere mi faceva ancora più paura.

Quando mia madre scese, un po’ più tardi, mi trovò lì, seduto, in lacrime.

Ricordo che da quel giorno iniziai a conoscere tutti i medici possibili e immaginabili. Mia madre, instancabile, organizzava visite a tutto spiano. Mio padre, in disparte, accompagnava la cosa dando a mia madre i soldi per le visite.

Mio padre non parlava molto, ma diceva tanto con lo sguardo.

Dopo l’ennesimo dottore da cui mi portarono, il responso era chiaro: ero affetto da una malattia PSICOSOMATICA. Allora non capivo bene di cosa si trattasse, perché la mia età schermava il cervello da concetti troppo difficili. Come stavano le cose mi fu spiegato in questo modo: mi immaginavo tutto, e quindi il mio corpo, a causa della fervida immaginazione, si bloccava.

Io ovviamente non ero d’accordo, ma la mia opinione non contava molto. Tuttavia, a seguito di tutti quei referti, venne fuori che non dovevamo preoccuparci più di tanto:queste paure sarebbero scomparse, crescendo (io).

E in effetti così fu. Almeno in parte. Perché da allorasmisi di andare in bicicletta, per la paura di cadere,e non giocai più a calcio, per paura di farmimale. Ma questo, anche se fu notato,non creò problemi più di tanto. Avevoinfatti imparato a nascondere ciò chesentivo, per tranquillizzare gli altri,per primi, naturalmente, i mieigenitori. Ricordo ancora cheosservavo i miei amicigiocare a calcio, e mifaceva male ilpensiero di nonessere con loro. Mail timore di ciò chesarebbe potuto accadere faceva ancorapiù male, perciò ogni volta sceglievo di non giocare.

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Gli anni passarono e le cose sembravano essersi, in qualche modo, sistemate.

Durante la prima superiore uscii con un’amica. Andammo in un bar e ordinammo un caffè.

Fu la prima persona, lo ricordo ancora molto bene, che

mi fece notare come girassi il cucchiaino. Con il polso fermo, tenendolo con

tutte e cinque le dita.

“Che strano..” disse.

Tre sere dopo la mia vita cambiò. Definitivamente.

Non volli alzarmi dal letto. Ero stanco.Le lenzuola, era estate, miPESAVANO sulle articolazioni.

Mia madre sbiancò. Gli incubi dianni addietro vennero fuori, piùforti.

Quel giorno riuscivo a malapenaad andare in bagno da solo.

Mio padre, stranamente, parlò:

“Adesso basta. Dobbiamo andareda uno specialista.”

Riandammo, invece, dal medicocurante. Il primo che mi avevavisitato anni addietro.

Mio padre mi aiutò ad entrare in

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macchina e ad uscire. Non mi reggevo in piedi.

Il piede destro si era gonfiato e quasi non lo sentivo più.

Entrammo nell’ambulatorio che era pomeriggio inoltrato. Non c’era nessuno.

Il medico, mi ricorderò sempre, scosse più volte la testa. Più tardi realizzai che è l’espressione di chi ha capito di aver fatto un errore madornale.

“I sintomi di vostro figlio mi dicono che ha bisogno di uno specialista. Di un reumatologo.”

“Lo dicevo io.” disse mio padre.

“Come mai?” chiese mia madre.

“Quando mi portaste vostro figlio, anni addietro, non esisteva il protocollo che abbiamo ora. Questi sono i sintomi di una malattia reumatica. Noi medici di base dobbiamo, una volta riconosciuti gli stessi, dirigere il paziente verso uno specialista. Appunto il reumatologo.”

“Ma mio figlio è stato sempre bene, fino a pochi giorni fa…”

In quel momento fotogrammi della mia vita, modificata, si misero insieme e le diedero un quadro diverso da quello che mia madre aveva voluto vedere.

“..Mio Dio!” disse portandosi la mano davanti alla bocca.

Pianse. Mio padre l’abbraccio e la calmò.

Io non sapevo che fare, anche se ero la parte in causa.

Mi feci coraggio e ripresi la domanda di mia madre.

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“Dottore, di che si tratta?”

“È una malattia autoimmune. Significa che il sistema immunitario attacca se stesso. Cioè il proprio corpo. E la conseguenza è un’infiammazione molto acuta, che col tempo danneggia ossa e tessuti.”

“Come un esercito che combatte contro se stesso invece che contro il nemico?”

Il medico annuì.

“Sentite, chiamate questo numero e prendete al più presto l’appuntamento. Poi fatemi sapere.”

Così facemmo.

L’appuntamento ci fu dato la settimana dopo.

Quella fu, per me, probabilmente, la settimana più dolorosa della mia vita.

Andammo nello studio del reumatologo. Stavolta c’erano tanti pazienti. Ma io non li vedevo. Ero concentrato a combattere il dolore.

Appena entrammo, noi tre, scoppiai a piangere a dirotto.

Il medico mi fece accomodare sul lettino, senza compatirmi. Questo atteggiamento distaccato mi lasciò perplesso e contribuì a far aumentareil mio stato di agitazione.

Aveva le lenti spesse, ed era totalmente diverso dal medico

curante.

Cominciò a premere, facendomi male, sullo

stomaco, addome e fegato.

Ogni tanto diceva: “Va bene.” Parlando tra sé.

Alla fine della visita, continuando ad ignorarmi, si rivolse ai miei genitori.

“Suo figlio ha una forma di artrite reumatoide. Fategli fare i seguenti esami.

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Dobbiamo cominciare subito con i farmaci.”

“È una brutta malattia, vero dottore?” dissi io con un filino di voce. Quasi a richiedere la sua attenzione.

Per la prima volta mi guardò negli occhi.

“Chiamala Filomena, così le dai un nome. Il nostro compito è quello di metterla a dormire. Per sempre.”

Fu come disse.

E Filomena la mettemmo a dormire. In seguito seppi che, se non avessi continuato a prendere i farmaci, Filomena si sarebbe potuta svegliare. E sì: è in letargo, ma se nonle dai la camomilla lei si sveglia e fa male come prima.

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Ma… ebbe il tempo di ferirmi: il piede destro e il polso destro sono danneggiati. Ho difficoltà a camminare e giro il cucchiaino del caffè ancora come mi aveva fatto notare la mia amica. Con degli interventi chirurgici potrei forse rimetterli a posto, maal momento ho altre priorità.

“Welcome to the New York Airport!”

La voce meccanica della hostess mi sveglia. Siamo arrivati a New York.

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Ah, dimenticavo di dirvi che sono diventato medico, nel frattempo. Mi sono specializzato. Immaginate in cosa? Sono diventato uno dei migliori allievi del professore che, in mia presenza, continua a chiamarla Filomena.

La mia compagna, anch’ella reumatologa, mi aiuta a scendere le scale dell’aereo.

Siamo nella Grande Mela per una conferenza, e io sono uno dei relatori.

Stiamo facendo progressi ogni anno, e riusciamo ad aiutare sempre più persone. Soprattutto bambini.

Lavoro dalla mattina alla sera, e alcuni giorni sono davvero stanco. Ma quando appoggio il piede per terra mi ricordo di quel giorno e la stanchezza va via. Nessuno, o quantomeno sempre meno persone, dovranno piangere in un giorno luminoso per

questa malattia. È la mia missione.

Quando scendiamo dal taxi siamo vicino al Ground Zero. Stanno ricostruendo. I

grattacieli tutt’attorno coprono il cielo. Sembrano dei giganti paralizzati. Mi metto

ad osservarli con attenzione. Individuo quegli spazi, quelle guglie e quei

balconi, sui quali un uomo molto agile potrebbe arrampicarsi. Con un po` di

fantasia riesco anche ad immaginarlo, vestito di rosso e blu.

“Che c’è?” mi chiede la mia compagna.

“Niente, mi era sembrato di vedere qualcosa.” le rispondo.