Abbiamo voluto pubblicare direttamente come Amministrazione comunalequesto piccolo volume della gradevole collana dedicata alla nostra città,per legarlo all’apertura della nuova sezione della mostra permanente
“Le Tracce di ieri” dedicata alla Grande Guerra.Come più volte affermato — ma non guasterà tornare a sottolinearlo, —
questa nuova sezione non vuole essere una celebrazione della guerra,che è sempre e comunque una immane tragedia, che nessuna ragion di Statoriuscirà mai a giustificare, ma vuole riportare alla memoria oggetti, strumenti,
indumenti che milioni di nostri non lontani avi hanno usato, inquadrandosiquindi esattamente nella filosofia concettuale che ha portato alla nascita
del progetto “Archivio della Memoria”, che ha generato due libri di grande successo,Vigevano al Lavoro e Vigevano in Famiglia, seguiti dalla mostra permanente
“Le Tracce di Ieri”, che tanto consenso sta ricevendo da parte della popolazionevigevanese e dei turisti.
Ci è quindi parso giusto produrre questo piccolo volume dedicatoai nostri concittadini che, a qualsiasi titolo e per qualsiasi ragione, hanno indossato
una divisa e di cui è rimasta qualche traccia fotografica.Di molti conosciamo anche nome e cognome, ma abbiamo preferito ometterlo,
lasciandoli in un romantico anonimato da cui, magari, figli, nipoti, discendentipossano farli uscire sfogliando questo libretto. Ci basti sapere che sono tutte
fotografie di vigevanesi, nostri concittadini, parenti stretti di nostri vicini,tutti accomunati dall’aver indossato più o meno volontariamente una divisa
e, ancora di più, dall’appartenere a questa nostra città a cui dedichiamoun altro piccolo gesto d’amore.
Gianpietro Pacinotti
Grande Guerra: un sergente e un fante posano
per una foto ricordo
DOPO LA GLORIOSA — MA INFAUSTA, poiché preludio alla definitiva sconfitta sa-bauda — giornata della Sforzesca (21 marzo 1849), la guerra combattuta si al-lontanò dal territorio vigevanasco. Ne rimase distante per novant’anni, benchénel frattempo la giovane nazione italiana non mancasse di imbarcarsi in numero-se avventure belliche.Dopo la seconda guerra d’Indipendenza (1859), i soldati italiani furono im-
pegnati, sull’italico suolo, nel 1866 (terza guerra d’Indipendenza), nel 1870 (cam-pagna per la conquista di Roma) e nel 1915 - 1918 (Prima guerra mondiale).Più numerosi furono gli eventi che videro i militari in grigioverde combattere
lontano dalla Patria: tra il 1885 e il 1896 in Africa orientale (prima campagna etio-pica), nel 1900 in Cina (contro la rivolta dei Boxer), tra il 1911 e il 1912nell’Africa Settentrionale e nel Dodecanneso greco (guerra italo-turca), nel 1935- 1936 di nuovo in Africa orientale (seconda campagna etiopica), nel 1936 - 1937in Spagna (guerra civile) e nel 1939 in Albania per l’annessione alla corona sa-bauda del piccolo stato balcanico.Alcune di queste campagne furono di breve, o brevissima, durata: la conqui-
sta dell’Albania fu realizzata in circa quarantotto ore; la terza guerrad’Indipendenza, combattuta sui fronti nord-orientali della Penisola durò, in tutto,diciassette giorni (16 giugno - 3 luglio 1866). La presa di Roma fu in pratica rea-lizzata nel volgere di ventiquattr’ore (20 settembre 1870), mentre a Pechino icombattimenti coprirono un arco di circa due mesi. Qui il piccolo contingenteitaliano di stanza nella capitale cinese, in rinforzo del quale fu poi inviato un cor-po di tremila uomini, aggregato alle forze internazionali accorse in aiuto delle rap-presentanze diplomatiche asserragliate nel quartiere delle Legazioni, si compor-tò con coraggio resistendo per cinquantacinque giorni, insieme con le altre ugual-mente sparute forze francesi, austriache, germaniche, giapponesi, inglesi e statu-nitensi presenti nelle ambasciate, all’assedio dei rivoltosi boxer che intendevanoliberare la Cina dalla ingerenza straniera.Nella penisola iberica gli italiani furono spediti a combattere, dal governo fa-
scista, con nebulose motivazioni politiche, in aiuto dei nazionalisti del generaleFrancisco Franco che tentava di conquistare il potere, contro le forze regolari re-
VIGEVANO
IN DIVISAIN DIVISA
pubblicane. In Spagna le nostre truppe si trovarono spesso a dover combatterecontro altri italiani — soprattutto fuorusciti politici, — accorsi a integrare le for-ze internazionali che i governi francese, inglese e russo avevano inviato in aiutodell’esercito governativo. La guerra civile spagnola, in cui l’intervento del corpo dispedizione italiano non fu certo determinante per la vittoria franchista, si pro-lungò per circa tre anni.Le indicazioni cronologiche relative al conflitto italo-turco e alle due campa-
gne etiopiche, che si sviluppano su datazioni pluriennali — addirittura undici an-ni nel caso della prima, disastrosa campagna etiopica! — sono sufficienti, da sole,a rendere in modo efficace l’idea della durata e delle difficoltà dei conflitti stessi.A tutti questi contesti bellici Vigevano, come l’intera Nazione, partecipò con
i suoi giovani, chiamati a vestire la divisa per obblighi di leva ma anche, non di ra-do, con coraggiosi “fuori quota” che volontariamente accorrevano al richiamodella Patria in armi.Non è questa la sede per intavolare dotte disquisizioni sulle opportunità e
sulle motivazioni di tali volontarie partecipazioni, non sempre giustificabili e con-divisibili, ma comunque indizio di un valore e di un patriottismo che, al di là diogni retorica, non mancavano neppure nel microcosmo vigevanese e lomellino.Tra gli esempi più eclatanti ricordiamo quello di Giuseppe Lavezzari (1849 -1915), già garibaldino (aveva partecipato alla battaglia di Bezzecca, nel 1866, ri-portandovi serie ferite) che, allo scoppio della Grande Guerra, non esitò, benchésessantaseienne, ad arruolarsi volontario, cadendo in combattimento sul montePodgora il 17 luglio 1915 e meritando la Medaglia d’argento al Valor Militare el’intitolazione di una piazza della città.
NEL CORSO DEI NOVE DECENNI, durante i quali la guerra combattuta si mantennelontana dal territorio vigevanasco, la popolazione ducale ebbe dunque la buonaventura di poter osservare le divise militari (e di assistere alla loro evoluzione,fattore non secondario nella storia del costume nazionale) soltanto attraverso isuoi figli che le vestivano in ottemperanza alle leggi sulla leva militare obbligato-ria e in virtù della esistenza, in città, di una nutrita guarnigione militare che, perplurisecolare consuetudine, aveva sede nel Castello.Sia dell’una sia dell’altra circostanza esiste una cospicua serie di testimonian-
ze iconografiche. La fotografia, che aveva fatto timidamente la sua apparizione in-torno alla metà dell’Ottocento, dall’ultimo quarto dello stesso secolo in poi ave-va trovato sempre maggiore diffusione, a livello tanto professionale quanto ama-toriale, e divenne pertanto normale consuetudine, per tutti, o quasi, coloro chevenivano chiamati a vestire una divisa militare, farsi “fare il ritratto” in studio daun fotografo professionista. Ovviamente, agghindati di tutto punto con la divisanuova, fresca di stiratura.
Grande Guerra: ritratto di un bersagliere.Da notare le tasche riportate sulla giubba e lasciabola - baionetta portata sotto la giacca
La foto non ci permette di determinare il corpo
di appartenenza di questo militare, che indossa
speroni e gambali d’artiglieria
In uguale misura, sempre più numerosi divennero i possessori di fotocamereportatili. Le macchine iniziarono così a seguire i loro proprietari nella vita milita-re di pace così come sui campi di battaglia. La guerra di Libia e la Grande Guerrafurono i primi conflitti a godere di una documentazione fotografica ampia edesaustiva.Negli anni di relativa pace intercorsi tra la fine della Prima guerra mondiale
(1918) e la seconda campagna etiopica (1935) la “moda” di farsi ritrarre in divi-sa o di immortalare momenti della vita militare non diminuì, anzi si diffuse sem-pre più. Entrarono nell’uso comune anche le foto delle occasioni “ufficiali” del ser-vizio militare: il “giuramento”, le “cerimonie”, il “congedo” eccetera. Il regime fa-scista incoraggiava queste usanze, poiché contribuivano a diffondere l’immaginedi una potenza e di una efficienza che la “macchina militare” nazionale era lungidal possedere. Le agenzie fotografiche e giornalistiche avevano il dovere di esse-re sempre presenti nelle caserme, negli ambienti militari in genere, sempre e do-vunque si tenessero manifestazioni che coinvolgevano reparti militari. L’IstitutoLuce — agenzia foto-cinematografica di Stato — fu espressamente voluto daMussolini allo scopo di propagandare la rappresentazione di una Italia fascista vi-rile e bellicosa.Tutti in divisa, dunque, gli italiani del ventennio: da sei a sette annisi era figli della lupa; dagli otto ai dodici anni balilla (i maschi) e piccole italiane (lefemmine). Da tredici a diciassette anni si diventava avanguardisti e giovani italiane;la fase giovanile si concludeva tra i diciotto e i ventuno con i giovani fascisti e legiovani fasciste. Poi la leva obbligatoria attendeva i maschi, con le sue vere unifor-mi e le sue vere armi. Ma anche per i civili (e per le femmine) non mancavanole occasioni per continuare a esibire divise e lustrini: con l’introduzione del “sa-bato fascista” divenne obbligatoria la presenza dell’intera popolazione, rigorosa-mente in divisa, alle manifestazioni che nella stessa giornata, divenuta semifestiva,si tenevano nelle città e nei maggiori centri abitati della penisola.Tutto, sempre odovunque, fotograficamente documentato con dovizia di particolari dagli organidi stampa locali e nazionali.I militari — quelli veri, effettivi — continuavano a farsi fografare, in caserma e
in libera uscita, al campo e casa, con la famiglia (ma sempre in divisa), in occasio-ne delle rare licenze, gli aviatori accanto ai loro rudimentali velivoli, i marinai suiponti delle loro navi, i carristi davanti alle loro “scatole di sardine” (così eranospregiativamente definite le tankette cingolate, unico mezzo corazzato in dota-zione alle forze armate italiane fino a tutta la Seconda guerra mondiale), gli arti-glieri davanti alle loro postazioni di cannoni o di mitragliere. E continuavano a fo-tografare e a farsi fotografare quando scoppiavano le guerre, in trincea e nelleretrovie, nei forti e negli attendamenti, nelle pianure assolate e sulle montagneinnevate.E sempre i vigevanesi c’erano.
Non abbiamo notizia di documentazioni fotografiche relative a vigevanesi im-pegnati sui fronti della terza guerra d’Indipendenza, o alla presa di Porta Pia, né ab-biamo rintracciato immagini di nostri concittadini che parteciparono alla primacampagna d’Abissinia ma in tutti i successivi conflitti che coinvolsero, direttamen-te o indirettamente, ufficialmente o meno, l’Italia, la presenza degli abitanti della cit-tà ducale è in qualche modo ricordata da immagini, ormai ingiallite e sbiadite, chemostrano i nostri antenati in divisa sui deserti africani come sulle acque mediter-ranee, nelle città iberiche e sugli altopiani balcanici, sui litorali veneti e sui montitrentini o giuliani. Si può essere certi che ovunque fosse richiesta la presenza diguarnigioni italiane qualche vigevanese, per breve o per lungo tempo, vi sia tran-sitato o vi abbia operato. In Somalia, in Eritrea, nel Montenegro, nell’Egeo…In apertura si è accennato agli anni di “relativa pace” intercorsi tra il 1918 e
il 1935. Le ragioni di tale definizione risiedono nel fatto che anche le colonie no-minalmente occupate dall’Italia — Eritrea, Somalia, Libia — non furono mai com-pletamente pacificate. I territori interni di tali regioni furono sempre interessati,durante l’intera esistenza di ciascuna colonia, da continui scontri tra le nostretruppe d’occupazione e le tribù locali, gran parte delle quali mai si sottomise al-la colonizzazione italiana. Le popolazioni indigene dell’interno, tanto nell’Africasettentrionale quanto in quella orientale, munite più di orgoglio e di coraggio chedi armi ma forti del numero e della migliore conoscenza del terreno, riuscironoa tenere in scacco per decenni le meglio armate e organizzate forze italiane, an-che quando queste venivano integrate con reparti formati da soldati locali — ri-cordiamo i mitici ascari eritrei, — arruolati e addestrati sul posto.È pertanto possibile affermare che, benché i governi facessero di tutto, tal-
volta arrampicandosi sui vetri per mascherare le notizie provenienti dalle colo-nie, per nascondere la verità, la Nazione ebbe sempre, in realtà, finché sopravvis-se il Regno d’Italia, qualche fronte di guerra aperto.Certo, a ben vedere, non è che la situazione dell’Italia repubblicana sia stata
e sia molto diversa. Da sessant’anni viviamo in pace, è vero, ma, ancora una vol-ta, è forse una pace soltanto relativa. L’uomo dimentica facilmente. Così ci si èscordati, per esempio, che le uniformi italiane hanno vissuto intensi momenti diguerra nel 1954, sui confini con la Iugoslavia. E che fino al 1960, anno in cui ces-sò l’Amministrazione fiduciaria italiana in Somalia, i soldati italiani mai furono par-ticolarmente amati dalle popolazioni somale dell’interno. E troppo spesso di-mentichiamo che le “missioni di pace” che hanno visto e vedono nutriti contin-genti (come in Libano, nei Balcani, di nuovo in Somalia, in Afghanistan, in Iraq) opoche unità (come è avvenuto nella lontana Timor) di nostri uomini in armi im-pegnati nei tentativi internazionali di ristabilire la pace in territori a lungo marto-riati dalle guerre hanno implicato e implicano scontri sanguinosi in cui ancoratroppi soldati perdono la vita…
Grande Guerra: un militare di fanteria
in posa per la foto da inviare ai familiari
Grande Guerra:
militare d’artiglieria
PER FORTUNA, FINORA, NESSUN vigevanese ha lasciato la sua giovinezza nelle valla-te dell’Erzegovina o del Kosovo, sulle sabbie irachene o nelle acque del GolfoPersico, sui litorali somali o nei monti afgani.Ma ci è sembrato opportuno illustrare, anche se soltanto sommariamente,
quella che fu la situazione bellica nazionale nei nove decenni che, dopo il conse-guimento dell’Unità nazionale, consegnarono il “sacro suolo della Patria” al tragi-co quinquennio 1940 - 1945.Novant’anni nel corso dei quali, in pace o in guerra, il territorio vigevanese
non conobbe più il dramma di un conflitto vissuto direttamente, ma durante iquali il popolo vigevanasco continuò, come e quando era giusto, a vestire unauniforme.
AAVVVVEERRTTEENNZZAALa qualità delle fotografie — tutte rigorosamente in bianco e nero — purtroppo nonha permesso in molti casi una individuazione esatta o completa dei reparti, delle ar-mi e dei reggimenti di appartenenza. Sono stati però individuati con buona precisio-ne i periodi in cui le varie divise erano in uso, tenendo conto delle varie riforme del-l’abbigliamento militare italiano.
Grande Guerra: i baffetti danno un tocco
di “vissuto” a questo giovanissimo militare,
forse artigliere
Grande Guerra: ancora una volta un fante che posa in uno studio fotografico
per la foto ricordo
Grande Guerra: lo sfondo per la foto di questi
due artiglieri non è più quello di uno studio
ma un muro sbrecciato in zona bellica
Anni Trenta: il fregio sul berretto,
non ben identificabile, fa pensare
alla “nuova arma”: l’aviazione
Anni Trenta - Quaranta: tre non più imberbi
militari dei reparti ausiliari
Grande Guerra: due cavalleggeri (ai lati) e un
artigliere addetto ai lanciabombe da trincea
della neonata specialità “bombardieri”
Anni Trenta - Quaranta: il reparto presso cui
prestavano servizio questi tre commilitoni non
è purtroppo identificabile
Grande Guerra: militari di varie specialità
avvolti nelle mantelline. Alcuni portano
nel tondino del fregio sul berretto un’etichetta
perché impiegati in aviazione
Anni Trenta: in posa appena arruolato. Infatti la recluta non ha ancora il fregio
sulla bustina
Grande Guerra: l’uniforme di questo
militare lo identifica come appartenente
agli “arditi reggimentali”
Inizi del Novecento: militare con l’uniforme
blu turchino. Non è chiaro il significato
della fascia al braccio
Grande Guerra: giovane ufficiale di fanteria
con uniforme da combattimento
Inizi del Novecento: cavalleggero del 19° reggimento “Cavalleggeri Guide”
Grande Guerra: un ufficiale di fanteria
posa circondato dai suoi subalterni armati
di tutto punto
Anni Quaranta: l’ora del rancio è giunta…
Tra poco inizierà la distribuzione del pane
preparato con i forni da campo
Anni Trenta: un ufficiale osserva i suoi
subalterni al lavoro
Anni Quaranta: foto di gruppo
Anni Trenta: un reparto della Gioventù
Italiana del Littorio (GIL) in marcia
Anni Trenta: scolaresca in posa con maestri e fiero miliziano
Anni Trenta: onore alla bandiera
e saluti fascisti
Anni 1944 - 1945: i componenti di una “brigata nera” mostrano orgogliosi il ritratto
del loro Duce supremo
Anni Quaranta: tutta la retorica del regime
fascista in una foto di gruppo di fanti
Anni Quaranta: manifestazione politica
in piazza
Anni Trenta: in posa davanti alle “Tettoie”,
magazzino militare che sorgeva fino agli anni
Sessanta ove oggi si apre il Parco Parri
Fine Ottocento: il Castello è la caserma di un reggimento di artiglieria a cavallo
e di cavalleria
Fine Ottocento: ufficiali e truppa si fanno
ritrarre nel Castello di Vigevano.
Si distinguono berretti di cavalleria
Fine Ottocento: adunata nel cortile del Castello di Vigevano
Anni Quaranta: padre e figlio… anche luibersagliere ad honorem. La divisa non
è identificabile con sicurezza
Anni Trenta: foto di nozze in alta
uniforme fascista
Anni Quaranta: non solo guerra… nei mo-menti di pausa dei combattimenti ci si dedica
a passatempi meno bellicosi…
La Grande Guerra è finita: al ritorno dal
fronte è d’obbligo farsi fotografare con l’amata
e sfoggiare i nastrini delle medaglie
1950: sottufficiale dei reparti corazzati
Anni Cinquanta: presentat-arm! Chi durante
il servizio militare non si è fatto ritrarre
in pose come questa?
Anni Trenta: un militare di fanteria di esibiscein un presentat-arm pressoché perfetto!
Grande Guerra: bersagliere in posa in uno studio fotografico
Inizi del Novecento: fante del 53°
reggimento fanteria “Umbria”
con cappotto blu turchino
Anni Trenta: gli enormi pantaloni a sbuffo so-no tipici della moda militare del tempo.
Potrebbe trattarsi di un geniere
Anni Venti: fante in posa in uno studio
fotografico, con l’immancabile capitello
e lo sfondo fasullo
Seconda guerra mondiale: artigliere in serviziodi guardia armata a un deposito
Anni Venti: tre fanti al campo. Da notare
la fascia di lutto al braccio del primo militare
di destra
Seconda guerra mondiale: i nostri alleati tedeschi si fanno ritrarre in una via
di Vigevano
Anni Quaranta: il fante è un po’ “in disarmo”
ma regala all’obiettivo uno svogliato sorriso
Grande Guerra: il caporale porta al cinturinola fondina del revolver d’ordinanza assicurato
al collo da un laccio di cuoio
Seconda guerra mondiale: singolare tenuta
con capi “fuori ordinanza»
Anni Trenta: bella foto di studio per un sergente del Genio ferrovieri
in alta uniforme, fiero della sua sciabola
Grande Guerra: bersagliere ciclista.
Da notare la sciabola - baionetta e le giberne
infilate al cinturino
Grande Guerra: tenente di fanteria che
indossa un comodo e caldo cappotto foderato
di pelliccia, contro i rigori invernali
Grande Guerra: giovanissimo ufficiale di fanteria, inviato al fronte dopo un brevissimo
corso, a causa dell’immane ecatombe
Anni Trenta, guerra d’Africa: giovani artiglieri posano davanti
al loro cannone
Anni Quaranta: un artigliere mitragliere
si concede una meritata sosta
dopo una esercitazione
Grande Guerra: militare in giubba da fatica
mod. 1912 in tela bigia con stelloni al colletto
detto “alla coreana”
Anni Trenta: balilla moschettiere dell’OperaNazionale Balilla (ONB)
Anni Trenta:
ufficiale in tenuta coloniale
1941 - 1942: sottufficiale dell’ArmataItaliana in Russia (ARMIR)
Anni Trenta: giovane militante del PartitoNazionale Fascista (PNF)
Anni Trenta: comizio fascista
in Piazza Ducale
Anni Venti: questa “camicia nera” ostenta
un cospicuo medagliere di tutto rispetto.
guadagnato durante la Grande Guerra
Anni Trenta: componente
della milizia fascista
Anni Trenta - Quaranta:graduato di sanità
Anni Trenta: elaborata foto-ricordo inviata da un geniere alla famiglia
Anni Trenta: le vestigia di Roma imperiale
fanno da sfondo a questo gruppo di
commilitoni in servizio nella capitale
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Si ringraziano tutti i vigevanesi che hanno fornito il materiale fotograficoe per la collaborazione i signori Daniele Porta Fusero e Dino de Vincenzi
Anni Quaranta: foto ricordo dal fronte,
quando ancora l’imperativo era « Vincere! »