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    ROGER ZELAZNYLE ARMI DI AVALON

    (The Guns Of Avalon, 1972)

    Questo libro è dedicatoa Bob e Phyllis Rozman

    R.Z.

    1

    Mi fermai sulla spiaggia e dissi: «Addio,Farfalla,» e l'imbarcazione gi-rò lentamente, e poi si diresse verso le acque profonde. Sarebbe ritornata in porto al faro di Cabra, lo sapevo, perché quel luogo era vicino all'Ombra.

    Mi voltai, e guardai la fila vicina di alberi neri; sapevo che mi attendevauna lunga camminata. Mi avviai in quella direzione, operando i necessariadattamenti, mentre avanzavo. Sulla foresta silenziosa si stendeva il freddoche precede l'alba: e questo era un bene.

    Ero una cinquantina di libbre al di sotto del mio peso forma, e qualchevolta vedevo doppio, ma stavo migliorando. Ero fuggito dalle segrete diAmbra e mi ero un po' ripreso, grazie all'aiuto del pazzo Dworkin e dell'al-colizzato Jopin, rispettivamente. Ora dovevo trovarmi un luogo, un luogosimile a un altro... a un altro che non esisteva più. Trovai il sentiero. Miavviai.

    Dopo qualche tempo, mi fermai davanti a un albero cavo di cui conosce-vo l'esistenza, vi frugai, ne estrassi la mia spada argentea e me la legai allacintura. Non aveva importanza che fosse stata chissà dove, in Ambra. A-desso era lì, perché la foresta che stavo attraversando era nell'Ombra.

    Proseguii per parecchie ore; il sole invisibile era dietro la mia spalla si-nistra. Poi riposai per un poco, poi ripresi a camminare. Era bello vedere lefoglie e le rocce e i tronchi degli alberi morti, e gli alberi vivi, l'erba, la ter-ra scura. Era bello aspirare tutti i piccoli odori della vita, e udire i suoisuoni ronzanti e trillanti. Dio! Come amavo i miei occhi! Riaverli, dopoquasi quattro anni di tenebra, era indescrivibile. E camminare libero...

    Procedevo, con il mantello lacero che sventolava nella brezza del matti-no. Dovevo dimostrare più di cinquant'anni, con il volto segnato dalle ru-ghe, la figura scarna. Chi mi avrebbe riconosciuto?

    Mentre camminavo, entrai nell'Ombra, mi diressi verso un luogo, nonraggiunsi quel luogo. Doveva essere così perché forse mi ero rammollito.

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    Ecco ciò che accadde...

    Mi imbattei in sette uomini sul bordo della strada, e sei erano morti; gia-cevano in vari stadi di sanguinoso smembramento. Il settimo era semigia-cente, con il dorso appoggiato al tronco muscoso d'una antica quercia. Te-neva la spada attraverso il grembo, e c'era una grande ferita umida al fian-co destro, da cui scorreva ancora il sangue. Non portava armatura, sebbenealcuni dei morti l'avessero. Gli occhi grigi erano aperti, ma vitrei. Le noc-che delle dita erano spellate, il respiro rallentato. Sotto le sopracciglia fol-te, guardava i corvi divorare gli occhi dei cadaveri. Sembrava che non mivedesse.

    Mi rialzai il cappuccio e abbassai la testa per nascondere il viso. Mi av-vicinai.

    Una volta l'avevo conosciuto: o lui, o qualcuno come lui.La sua lama sussultò, la punta si sollevò, quando avanzai.«Sono un amico,» dissi. «Vuoi un sorso d'acqua?»L'uomo esitò un momento, poi annuì.«Sì.»Aprii la mia borraccia e gliela porsi.Bevve e tossì, e bevve ancora un poco.«Signore, ti ringrazio,» disse, rendendomela. «Mi dispiace solo che non

    fosse qualcosa di più forte. Maledetta questa ferita!»«Ho anche qualcosa di più forte. Se sei certo di riuscire a reggerlo.»L'uomo tese la mano, ed io stappai una piccola fiasca e gliela porsi. Tos-

    sì per una ventina di secondi, dopo un sorso della roba che beve abitual-mente Jopin.

    Poi sorrise con la metà sinistra della bocca e ammiccò, leggermente.«Molto meglio,» disse. «Ti dispiace se ne verso una goccia sul fianco?

    Detesto sprecare il buon whisky, ma...»«Usalo tutto, se è necessario. Tuttavia, pensandoci bene, mi sembra cheti tremi la mano. Forse è meglio che lo versi io.»

    Annuì; gli aprii il giaco di cuoio e con il pugnale gli tagliai la camicia,fino a scoprire la ferita. Era brutta, profonda, un paio di pollici sopra l'an-ca. Aveva altri tagli meno gravi sulle braccia, il petto e le spalle.

    Il sangue continuava a spicciare dalla ferita più grande; lo tamponai e loripulii con il fazzoletto.

    «Bene,» dissi. «Stringi i denti e guarda dall'altra parte.» E versai il liquo-re.

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    Il suo corpo sussultò in una convulsione violenta, poi si accasciò tra i brividi. Ma non gridò. Non avevo pensato che avrebbe gridato. Piegai ilfazzoletto e lo premetti sulla ferita. Lo legai con una lunga striscia di stoffastrappata dall'orlo del mio mantello.

    «Vuoi un altro sorso?» gli chiesi.«D'acqua,» disse lui. «Poi, temo, dovrò dormire.»Bevve, e poi inclinò la testa in avanti fino ad appoggiare il mento sul

    petto. Si addormentò, ed io gli feci un guanciale e lo coprii servendomi deimantelli dei morti.

    Poi sedetti al suo fianco e osservai i graziosi uccelli neri. Non mi aveva riconosciuto. Ma d'altra parte, chi avrebbe potuto? Se mi

    fossi rivelato, forse mi avrebbe riconosciuto. Non ci eravamo mai incontra-ti, credo, io ed il ferito. Ma, stranamente, ci conoscevamo.

    Camminavo nell'Ombra in cerca di un luogo, un luogo speciale. Era sta-to distrutto, una volta, ma io avevo il potere di ricrearlo, perché Ambragetta un'infinità di ombre. Un figlio d'Ambra può procedere tra esse: equella era la mia eredità. Potete chiamarli mondi paralleli, se volete, oppu-re universi alternati, o se preferite prodotti d'una mente squilibrata. Io lechiamo ombre, come fanno tutti coloro che possiedono il potere di aggirar-si in esse. Scegliamo una possibilità e avanziamo fino a quando la rag-giungiamo. Quindi, in un certo senso, la creiamo. Per il momento lasciamostare.

    Io avevo navigato ed avevo incominciato la marcia verso Avalon.Secoli prima, ero vissuto là. È una vicenda lunga, complicata e fiera e

    dolorosa, e forse la racconterò più tardi, se vivrò abbastanza per terminareciò che ho da dire.

    Mi stavo avvicinando alla mia Avalon quando mi ero imbattuto nel ca-valiere ferito e nei sei morti. Se avessi deciso di passare oltre, avrei potutogiungere in un luogo dove i suoi uomini giacevano morti ed il cavaliere erailleso... oppure un luogo dove lui era morto ed i sei ridevano. Qualcuno potrebbe dire che non aveva molta importanza, poiché tutte queste cosesono possibilità, e perciò esistono tutte, da qualche parte, nell'Ombra.

    I miei fratelli e le mie sorelle — eccettuati forse Gérard e Benedict —non avrebbero neppure degnato la scena di una seconda occhiata. Ma ioero diventato un po' rammolito. Non ero stato sempre così; ma forse laTerra dell'Ombra, dove avevo trascorso tanti anni, mi aveva raddolcito un po', e forse il soggiorno nelle segrete d'Ambra mi aveva ricordato la soffe-renza umana. Non so. So soltanto che non potevo passare oltre la sofferen-

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    za che vedevo nella forma di qualcuno tanto simile a qualcuno che un tem- po era stato un amico. Se avessi pronunciato il mio nome all'orecchio diquell'uomo, forse mi sarei sentito insultare, e certamente avrei ascoltatouna storia di dolori.

    Quindi, avrei pagato quel prezzo; lo avrei rimesso in piedi, e poi me nesarei andato per i fatti miei. Non c'era nulla di male, e forse avrei fatto un po' di bene.

    Rimasi seduto a osservarlo e, dopo parecchie ore, si svegliò.«Salve,» dissi, stappando la borraccia. «Vuoi bere un altro sorso?»«Grazie.» L'uomo tese una mano.Lo guardai bere, e quando rese la borraccia disse: «Scusa se non mi sono

    presentato. Avevo dimenticato le buone maniere...»«Ti conosco,» dissi io. «Chiamami Corey.»Per un momento, mi parve che stesse per chiedere: «Corey di che cosa?»

    ma cambiò idea e annuì.«Benissimo, Sir Corey,» disse, dandomi un titolo inferiore a quello che

    mi spettava. «Desidero ringraziarti.»«Il miglior ringraziamento sta nel fatto che hai un aspetto migliore,» gli

    dissi. «Vuoi mangiare qualcosa?»«Sì, grazie.»«Ho un po' di carne secca, e un po' di pane che potrebbe essere più fre-

    sco,» dissi. «E un grosso pezzo di formaggio. Mangia quello che vuoi.»Gli passai il cibo, e lui mangiò.«E tu, Sir Corey?» chiese.«Ho già mangiato mentre tu dormivi.»Mi guardò con aria significativa. Sorrise.«... E li hai uccisi tutti e sei da solo?» domandai.Lui annuì.«Magnifico. E adesso, cosa devo fare con te?»Cercò di vedere il mio viso e non riuscì.«Non capisco,» disse.«Dove sei diretto?»«Ho amici cinque leghe più a nord,» disse lui. «Stavo andando in quella

    direzione quando è accaduto. E non credo che un uomo, o neppure il Dia-volo stesso, ce la farebbe a portarmi sulla schiena per una lega. Se potessireggermi in piedi, Sir Corey, ti faresti un'idea della mia statura.»

    Mi alzai, sguainai la spada, e tagliai un ramo del diametro di due pollici,con un colpo solo. Poi lo scortecciai e lo ridussi della lunghezza voluta.

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    Ripetei l'operazione e poi, con le cinture ed i mantelli dei caduti, im- provvisai una barella.

    L'uomo restò a guardare fino a quando ebbi terminato, poi commentò:«Tu impugni una lama mortale, Sir Corey... una lama d'argento, si di-

    rebbe...»«Te la senti di viaggiare?» gli chiesi.Cinque leghe sono approssimativamente venticinque chilometri.«E i morti?» chiese lui.«Vorresti dar loro una sepoltura cristiana?» ribattei. «Al diavolo! Che

    provveda la natura. Andiamocene. Cominciano già a puzzare.»«Vorrei almeno vederli coperti di terra. Si erano battuti bene.»Sospirai.«E sta bene, se questo ti aiuterà a dormire tranquillo. Non ho un badile,

    quindi erigerò un tumulo. Comunque, sarà una tomba comune.»«Va bene,» disse lui.Adagiai i sei cadaveri fianco a fianco. Sentii che l'uomo mormorava

    qualcosa, e immaginai che fosse una preghiera per i defunti.Li circondai di pietre. C'erano molte pietre, nei dintorni, e perciò lavorai

    rapidamente, scegliendo le più grosse per sbrigarmi prima. E fu un errore.Uno di quei massi doveva pesare circa centosessanta chili, e io non lo fecirotolare. Lo sollevai e lo misi a posto.

    Lo udii soffocare un'esclamazione, e compresi che l'aveva notato.Allora imprecai:«Maledizione, per poco non mi sono spaccato la schiena!» dissi; e da

    quel momento scelsi pietre più piccole.Quando ebbi terminato, dissi: «Ecco fatto. Sei pronto a partire?»«Sì.»Lo sollevai tra le braccia e lo deposi sulla barella. Lui strinse i denti.«Dove dobbiamo andare?» domandai.L'uomo indicò con un gesto.«Ritorna sulla pista. Seguila, verso sinistra, fino alla biforcazione. Poi

    vai a destra. Come hai intenzione di...»Sollevai la barella tra le braccia, reggendolo come se fosse un bambino,

    con la culla e tutto. Poi tornai sul sentiero, trasportandolo.«Corey?» fece lui.«Sì?»«Sei uno degli uomini più forti che io abbia mai incontrato... e mi sem- bra che dovrei conoscerti.»

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    Non gli risposi immediatamente. Poi dissi: «Cerco di tenermi in forma.Vita sana e tutto il resto.»

    «... E la tua voce mi sembra familiare.»Teneva gli occhi rivolti verso l'alto, cercando di guardarmi in faccia.Decisi di cambiare argomento.«Chi sono i tuoi amici dai quali ti sto portando?»«Siamo diretti alla Fortezza di Ganelon.»«Quel fetente?» dissi, e per poco non lo lasciai cadere.«Sebbene non capisca la parola che hai usata, immagino sia un insulto,»

    disse lui, «a giudicare dal tono della tua voce. Se è così, devo difender-lo...»

    «Calmati,» dissi io. «Ho l'impressione che stiamo parlando di due uomi-ni diversi che portano lo stesso nome. Ti chiedo scusa.»

    Attraverso la barella, sentii che una certa tensione lo abbandonava.«Senza dubbio è così,» disse.Perciò lo portai fino a quando arrivai al sentiero, e poi svoltai a sinistra.Lui si riaddormentò, e io procedetti più svelto, svoltando alla biforcazio-

    ne che mi aveva indicato ed avanzando mentre dormiva. Cominciai a pen-sare ai sei che avevano cercato di ucciderlo e che per poco non c'erano riu-sciti. Mi augurai che non avessero compagni in giro per il bosco.

    Rallentai il passo quando il suo respiro cambiò.«Dormivo,» disse.«... E russavi,» aggiunsi io.«Per quanto mi hai portato?»«Per circa due leghe, direi.»«E non sei stanco?»«Un po',» dissi. «Ma non tanto da aver bisogno di riposo, per ora.»« Mon Dieu!» esclamò. «Sono lieto di non averti mai avuto come nemi-

    co. Sei certo di non essere il Diavolo?»«Sicuro, che lo sono,» dissi. «Non senti l'odore di zolfo? E il mio zocco-lo destro mi fa male da morire.»

    Lui fiutò veramente l'aria un paio di volte, prima di ridacchiare, e questomi offese un po'.

    In realtà, avevo percorso più di quattro leghe, secondo i miei calcoli.Speravo che si riaddormentasse e non pensasse troppo alle distanze. Co-minciavo a sentirmi le braccia indolenzite.

    «Chi erano i sei uomini che hai ucciso?» gli chiesi.«Guardiani del Cerchio,» rispose lui. «E non erano più uomini, bensì

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    uomini posseduti. Prega Dio, Sir Corey, che le loro anime abbiano pace.»«Guardiani del Cerchio?» chiesi. «Che Cerchio?»«Il Cerchio tenebroso... il luogo dell'iniquità e delle bestie orrende...»

    Trasse un respiro profondo. «La fonte del male che si estende su questaterra.»

    «Questa terra non mi sembra particolarmente malsana,» ribattei.«Siamo lontani da quel luogo, e il regno di Ganelon è ancora troppo for-

    te per gli invasori. Ma il Cerchio si espande. Sento che l'ultima battagliaverrà combattuta qui.»

    «Hai destato la mia curiosità.»«Sir Corey, se non sai nulla, sarebbe meglio che te ne dimenticassi, evi-

    tassi il Cerchio ed andassi per la tua strada. Anche se mi piacerebbe com- battere al tuo fianco, questa non è la tua battaglia... e chi può predire il ri-sultato?»

    Il sentiero cominciò a salire, tortuosamente. Poi, attraverso una brecciatra gli alberi, vidi qualcosa, in lontananza, che mi indusse a soffermarmi emi fece ricordare un altro luogo molto simile.

    «Cosa...?» domandò il mio paziente, voltandosi. Poi: «Oh, ma hai cam-minato più svelto di quanto avessi immaginato. Quella è la nostra destina-zione, la Fortezza di Ganelon.»

    Allora pensai adun Ganelon. Non volevo, ma lo feci. Era stato un tradi-tore e un assassino ed io l'avevo esiliato da Avalon secoli prima. L'avevoscagliato letteralmente attraverso l'Ombra, in un altro tempo e in un altroluogo, come più tardi aveva fatto con me mio fratello Eric. Speravo chenon fosse quello, il luogo dove l'avevo mandato. Era possibile, anche seimprobabile. Sebbene fosse un mortale, con una vita dalla durata limitata,e sebbene l'avessi esiliato in quel luogo circa seicento anni prima, era pos-sibile che si trattasse solo di pochi anni, in questo mondo. Anche il tempoè una funzione dell'Ombra, e persino Dworkin non ne conosceva tutti i se-greti. O forse li conosceva. Forse era questo che l'aveva fatto impazzire. Lacosa più difficile per quanto riguarda il Tempo, l'ho scoperto, è crearlo. Inogni caso, sentivo che quello non poteva essere il mio vecchio nemico, ilmio fido aiutante di un tempo, perchéluì certamente non avrebbe resistitoad un'ondata d'iniquità che investiva il territorio. Si sarebbe precipitato aschierarsi a fianco delle bestie immonde, ne ero certo.

    L'uomo che stavo trasportando mi causava qualche difficoltà. Il suo e-quivalente era vissuto in Avalon al tempo della condanna all'esilio; e que-sto significava che l'intervallo di tempo poteva anche corrispondere.

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    Non ci tenevo ad incontrare il Ganelon che avevo conosciuto, non vole-vo che mi riconoscesse. Lui non sapeva nulla dell'Ombra. Sapeva solo cheavevo operato su di lui una magia tenebrosa, invece di ucciderlo, e anchese era sopravvissuto all'alternativa, forse per lui era stata peggio della mor-te.

    Ma l'uomo che reggevo tra le braccia aveva bisogno di riposo e di un ri-fugio, perciò continuai a camminare.

    E tuttavia mi chiedevo...Sembra vi fosse in me qualcosa che si prestava al riconoscimento da par-

    te di quest'uomo. Se c'era qualche ricordo di un'ombra di me, in quel luogoche non era ancora simile ad Avalon, quale forma assumeva? In che modoavrebbe condizionato l'accoglienza riservata al mio io reale, se fossi statoriconosciuto?

    Il sole incominciava a tramontare. Si levò una brezza fresca, che prean-nunciava una notte fredda. Il mio paziente aveva ripreso a russare, perciòdecisi di correre per il resto della distanza. Non mi piaceva la sensazioneche quella foresta, al calar della notte, potesse brulicare degli abitatori im-mondi di un Cerchio dannato di cui non sapevo nulla, ma che sembrava sul punto di travolgere quella parte del territorio.

    Perciò corsi, tra le ombre che si allungavano, scacciando ogni pensierod'inseguimenti, d'imboscate, di sorveglianza, fino a che non potei più pro-seguire. Le sensazioni avevano acquisito la forza di premonizioni; e poiudii i rumori, dietro di me, un pat-pat-patsommesso, come di passi.

    Deposi al suolo la barella, e sguainai la spada mentre mi giravo.Erano due: due felini.Avevano l'esatta pezzatura dei gatti siamesi, ma erano grandi come tigri.

    I loro occhi erano di un giallo solare, privi di pupille. Sedettero sulle zam- pe posteriori quando mi voltai, e mi fissarono senza sbattere le palpebre.

    Erano lontani una trentina di passi. Io stavo tra loro e la barella, con laspada alzata.Poi quello di sinistra aprì la bocca. Non sapevo se aspettarmi che facesse

    le fusa o che ruggisse.E invece parlò. Disse: «Uomo, quasi tutto mortale.»La voce non era umana. Era troppo acuta.«Eppure vive ancora,» disse il secondo, con una voce molto simile a

    quella del primo.«Uccidili qui,» disse il primo.«E colui che lo difende con la spada che non mi piace affatto?»

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    «Uomo mortale?»«Venite ad accertarlo,» dissi io, sottovoce.«È magro, e forse vecchio.»«Eppure ha trasportato l'altro dal tumulo fin qui, rapidamente e senza ri-

    posare. Aggiriamolo.»Balzai in avanti quando si mossero, e quello alla mia destra balzò verso

    di me.La mia lama gli spaccò il cranio ed affondò nella spalla. Mentre mi gira-

    vo, liberando la spada, l'altro mi passò oltre, velocissimo, dirigendosi versola barella. Mulinai all'impazzata la spada.

    La lama gli piombò sul dorso e gli attraversò completamente il corpo.Lanciò un grido stridente come lo scricchiolio di un gesso sulla lavagnamentre cadeva, in due pezzi, e cominciava a bruciare. Anche l'altro stava bruciando.

    Ma quello che avevo tagliato in due non era ancora morto. Girò la testaverso di me, e gli occhi sfolgoranti fissarono i miei.

    «Muoio della morte finale,» disse, «e perciò ti riconosco, Creatore. Per-ché ci hai uccisi?»

    E poi le fiamme gli consumarono la testa.Mi voltai, pulii la spada e la rinfoderai, risollevai la barella, ignorai tutte

    le domande, e proseguii.Una piccola certezza aveva incominciato ad affermarsi dentro di me: co-

    s'era quella cosa, che cosa aveva inteso dire.Ancora adesso, qualche volta, vedo in sogno quella testa di gatto in

    fiamme, e allora mi sveglio, sudato e tremante, e la notte mi sembra più buia, piena di forme che non riesco a definire.

    La Fortezza di Ganelon era cinta da un fossato; il ponte levatoio era al-zato. C'erano quattro torri, agli angoli, dove s'incontravano le alte mura.All'interno di quelle mura, molte altre torri salivano ancora più in alto, sol-leticando il ventre delle nubi basse e scure che nascondevano le prime stel-le, e gettavano ombre d'ebano sull'alta collina. Molte torri erano già illu-minate, ed il vento mi portava un fioco suono di voci.

    Mi fermai davanti al ponte, deposi al suolo il mio paziente, mi feci por-tavoce con le mani alla bocca, e gridai:

    «Ehi! Ganelon! Ci sono due viandanti sperduti nella notte!»Udii il tintinnio del metallo sulla pietra. Sentivo di essere osservato dal-l'altro. Guardai, socchiudendo le palpebre, ma i miei occhi non erano anco-

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    ra ritornati normali.«Chi va là?» giunse una voce tonante.«Lance, che è ferito, ed io, Corey di Cabra, che l'ho portato qui.»Attesi, mentre l'uomo riferiva queste informazioni, e udii levarsi altre

    voci, via via che il messaggio veniva trasmesso.Dopo una pausa di parecchi minuti, arrivò la risposta, con lo stesso si-

    stema.Poi la guardia mi gridò:«Allontanati un po'! Stiamo per calare il ponte! Potete entrare!»Lo scricchiolio incominciò mentre stava ancora parlando, e poco dopo il

    ponte levatoio toccò terra, rimbombando. Sollevai di nuovo tra le braccia ilmio paziente e passai.

    Così portai Sir Lancelot du Lac nella Fortezza di Ganelon, di cui mi fi-davo come di un fratello. Vale a dire, di cui non mi fidavo affatto.

    Vi fu un accorrere precipitoso intorno a me, e mi trovai circondato dauomini armati. Tuttavia, non erano ostili, ma solo preoccupati. Ero entratoin un grande cortile selciato, illuminato da torce e pieno di letti im- provvisati. Sentivo l'odore del sudore, del fumo, dei cavalli, della cucina.Lì bivaccava un piccolo esercito.

    Molti si erano avvicinati, guardando e mormorando; poi sopraggiunserodue in pieno assetto da battaglia, ed uno di loro mi toccò la spalla.

    «Da questa parte,» disse.Lo seguii, e gli uomini mi fiancheggiarono. Il cerchio si aprì per lasciar-

    ci passare. Il ponte levatoio si stava già rialzando, tra gli scricchiolii. Ci di-rigemmo verso il complesso principale di pietra scura.

    Percorremmo un corridoio, passando davanti ad una sala dei ricevimenti.Poi trovammo una scalinata. L'uomo alla mia destra mi accennò di salire.Al piano di sopra, ci fermammo davanti ad una pesante porta di legno: laguardia bussò.

    «Avanti,» disse una voce che, purtroppo, mi sembrava di conoscere be-nissimo.

    Entrammo.L'uomo sedeva accanto ad un massiccio tavolo ligneo accanto ad un'am-

    pia finestra affacciata sul cortile. Portava un giaco di cuoio marrone su unacamicia nera; anche i calzoni erano neri, a sbuffo sopra gli stivali scuri. Al-la vita aveva un'alta cintura che reggeva un pugnale dall'elsa di corno. Unacorta spada stava sul tavolo davanti a lui. Aveva i capelli e la barba di co-

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    lor rosso, con qualche filo bianco. Gli occhi erano scuri come l'ebano.Mi guardò, poi si rivolse alle due guardie che erano entrate portando la

    barella.«Mettetelo sul mio letto,» disse. Poi: «Roderick, occupati di lui.»Il suo medico, Roderick, era un vecchio che non aveva l'aria di poter fa-

    re molti danni, e questo mi diede un certo sollievo. Non avevo trasportatoLance per tutta quella distanza solo perché un medico lo salassasse.

    Poi Ganelon sì rivolse di nuovo a me.«Dove l'hai trovato?» chiese.«Cinque leghe più a sud.»«Tu chi sei?»«Mi chiamano Corey,» dissi.Mi scrutò troppo attentamente, e le labbra simili a vermi sì contorsero in

    un sorriso, sotto i baffi.«Che parte hai, in questa storia?» chiese.«Non capisco cosa vuoi dire,» risposi.Avevo piegato un po' le spalle. Parlavo lentamente, sommessamente,

    con una lieve balbuzie. La mia barba era più lunga della sua, e la polvere lafaceva sembrare più chiara. Dovevo sembrare molto più vecchio. L'atteg-giamento di Ganelon indicava che era convinto che lo fossi davvero.

    «Ti ho chiesto perché lo hai aiutato,» disse.«In nome della fratellanza umana, e tutto il resto,» risposi.«Sei un forestiero?»Annuii.«Bene, sei il benevenuto qui, per tutto il tempo che vorrai restare.»«Grazie. Probabilmente, domani proseguirò.»«Ora bevi un bicchiere di vino con me e raccontami in quali circostanze

    lo hai trovato.»Obbedii.Ganelon mi lasciò parlare senza interrompermi, e senza distogliere da

    me quei suoi occhi penetranti. Sebbene abbia sempre pensato che la frase«trapassare con lo sguardo» sia trita e banale, quella notte cambiai idea.Lui mi trafiggeva con gli occhi. Mi chiesi che cosa sapeva e cosa indovi-nava sul mio conto.

    Poi la stanchezza mi afferrò per la collottola. La fatica, il vino, il teporedella stanza, tutto congiurò, e all'improvviso ebbi la sensazione di starme-ne in un angolo ad ascoltare me stesso, a guardare me stesso: mi sentivodissociato. Benché fossi capace di grandi sforzi, a brevi raffiche, mi rende-

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    vo conto di essere ancora scarso in fatto di energie. E mi accorsi che mitremava la mano.

    «Chiedo scusa,» sentii la mia voce dire queste parole. «Le fatiche dellagiornata cominciano a pesarmi...»

    «Ma certo,» disse Ganelon. «Parlerò ancora con te domani. Ora dormi.Dormi bene.»

    Poi chiamò una delle guardie e le ordinò di condurmi in una stanza. Pro- babilmente barcollai, lungo il percorso, perché ricordo che la guardia misorreggeva per il gomito.

    Quella notte dormii il sonno dei morti. Fu un sonno lungo, nero, di quat-tordici ore.

    Al mattino, ero tutto indolenzito.Mi lavai. C'era un catino sul cassettone, e un sapone e un asciugamani

    che qualcuno, previdente, aveva posato lì vicino. Mi sentivo la gola ostrui-ta da segatura e gli occhi pieni di sabbia.

    Sedetti e mi osservai.Un tempo avrei potuto trasportare Lance per la stessa distanza, senza

    andare a pezzi. Un tempo mi ero aperto la strada combattendo sulle pendicidel Kolvir e nel cuore della stessa Ambra.

    Ma quei giorni erano passati. All'improvviso, sentii di essere effettiva-mente il relitto che sembravo.

    Dovevo fare qualcosa.Avevo riacquistato peso e forza, lentamente. Sarebbe stato necessario

    accelerare il processo.Un paio di settimane di vita tranquilla e di esercizi violenti poteva essere

    di grande aiuto, decisi. Ganelon non aveva mostrato di avermi riconosciu-to. Benissimo. Avrei approfittato dell'ospitalità che mi aveva offerto.

    Dopo aver preso questa decisione, andai in cerca della cucina, e mangiaiun'abbondante colazione. Per la verità era quasi ora di pranzo, ma chia-miamo le cose con il loro nome. Avevo una gran voglia di fumare, e provaiuna certa gioia perversa al pensiero di essere rimasto senza tabacco. I Faticospiravano per costringermi ad essere fedele a me stesso.

    Uscii nel cortile; era una giornata luminosa. Restai a lungo ad osservaregli uomini che si addestravano.

    In fondo al cortile c'erano gli arcieri, che miravano a bersagli fissati a balle di fieno. Notai che portavano anelli al pollice e stringevano la cordaall'orientale, con la mano intera, anziché con tre dita, secondo la tecnicache mi faceva sentire più a mio agio. Questo m'indusse a riflettere un po'

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    su quell'Ombra. Gli uomini armati di spada usavano le armi di punta e ditaglio, e si vedevano vari tipi di lame e di tecniche di scherma. Cercai difare un calcolo approssimativo, e stimai che fossero all'incirca ottocento...e non sapevo quanti altri potessero essere nella fortezza.

    La loro carnagione, gli occhi, i capelli, andavano dalle tinte più chiare aquelle più scure. Sentivo molti accenti strani, tra il sibilo delle frecce e ilclangore delle spade, anche se quasi tutti parlavano la lingua di Avalon,che è poi quella di Ambra.

    Mentre guardavo, un uomo armato di spada alzò la mano, abbassò la la-ma, si terse la fronte ed arretrò. Il suo avversario sembrava sfiatato. Quellaera l'occasione per fare un po' di esercizio: ne avevo bisogno.

    Mi feci avanti, sorrisi e dissi: «Sono Corey di Cabra. Ti stavo osservan-do.»

    Rivolsi l'attenzione all'uomo bruno, grande e grosso che sorrideva alcompagno fermatosi per riposare.

    «Ti dispiace se mi esercito con te, mentre il tuo amico riprende fiato?»gli chiesi.

    L'uomo continuò a sorridere, e si indicò la bocca e l'orecchio. Provai convarie altre lingue, ma non servì a nulla. Perciò additai la lama, poi lui, poidi nuovo me stesso, fino a quando comprese. Il suo avversario parve pen-sare che fosse una buona idea, e mi offrì la sua spada.

    La presi tra le mani. Era più corta e molto più pesante di Grayswandir.(È il nome della mia spada: so di non averlo citato fino ad ora. Ha tutta unasua storia, e forse la racconterò, prima che voi sappiate ciò che mi ha por-tato a questo passo finale. Ma se doveste sentire che la nomino ancora, al-meno saprete di cosa sto parlando).

    L'agitai un paio di volte per provarla, mi tolsi il mantello, lo gettai via, emi misien garde.

    L'uomo grande e grosso attaccò. Io parai ed attaccai. Lui parò e rispose.Io parai la risposta, fintai, e attaccai. E così via. Dopo cinque minuti, miero reso conto che sapeva il fatto suo. E sapevo di essergli superiore.L'uomo mi fece fermare due volte, perché gli insegnassi una manovra cheavevo usato. Le imparò tutte e due, molto in fretta. Ma dopo una quindici-na di minuti, il suo sorriso si allargò. Immagino che fosse più o meno aquel punto che piegava quasi tutti gli awersari, grazie alla maggiore resi-stenza, se erano abbastanza in gamba per sostenere i suoi attacchi fino aquel momento. Aveva molta energia, devo ammetterlo. Dopo venti minuti,un'espressione perplessa gli apparve sul volto. Il mio aspetto non doveva

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    averlo indotto a credere che potessi resistere così a lungo. Ma cosa può sa- pere un uomo di quello che sta in un figlio di Ambra?

    Dopo venticinque minuti, lui era coperto di sudore; ma continuò a bat-tersi. Mio fratello Random, qualche volta, ha l'aspetto ed il comportamentodi un teppista asmatico adolescente... ma una volta tirammo insieme discherma per ventisei ore, per vedere chi avrebbe ceduto per primo. (Se sie-te curiosi, fui io a cedere. Avevo un appuntamento il giorno dopo, e volevoarrivarci in condizioni decenti.) Avremmo potuto continuare. Sebbene nonfossi in grado di fare altrettanto, quella volta, sapevo che avrei potuto resi-stere più a lungo del mio avversario. Dopotutto, lui era soltanto umano.

    Dopo circa mezz'ora, quando lui ansimava e rallentava nel rispondere aicolpi, compresi che entro pochi minuti avrebbe potuto rendersi conto diqualcosa di strano; alzai la mano e abbassai la lama come avevo visto faredal suo precedente avversario. Anche lui si fermò, poi si precipitò ad ab- bracciarmi. Non capii cosa diceva, ma dedussi che era soddisfatto. Lo eroanch'io.

    La cosa più orribile era che mi ero stancato. Mi sentivo un po' stordito.Ma avevo bisogno di continuare. Mi ripromisi di esercitarmi fino a cre-

    pare, quel giorno, e d'ingozzarmi di cibo, quella sera, per poi dormire pro-fondamente e ricominciare daccapo.

    Raggiunsi gli arcieri. Dopo un po', mi feci prestare un arco e, tendendola corda con tre dita, scagliai un centinaio di frecce. Non me la cavai trop- po male. Poi, per un po', guardai gli uomini a cavallo che si esercitavanocon le lance, gli scudi, le mazze. Quindi passai oltre. Andai ad assistere al-le esercitazioni corpo a corpo.

    Finalmente, lottai con tre uomini, uno dopo l'altro. Poi mi sentii sfinito.Assolutamente. Completamente.

    Sedetti su una panchina all'ombra, sudando, respirando pesantemente.Pensai a Lance, a Ganelon, alla cena. Dopo una decina di minuti, tornainella stanza che mi era stata assegnata e mi lavai di nuovo.

    Avevo una fame tremenda, perciò andai in cerca di cibo e d'informazio-ni.

    Non mi ero allontanato molto dalla porta, quando una delle guardie cheavevo visto la sera prima — era quella che mi aveva accompagnato in ca-mera mia — si avvicinò e disse: «Il Nobile Ganelon t'invita a mangiarecon lui nel suo appartamento, allo squillo della campana della cena.»Ringraziai e promisi di presentarmi all'ora stabilita, poi tornai nella mia

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    stanza e riposai sul letto, fino a quando suonò la campana. Poi uscii dinuovo.

    Cominciavo a sentirmi tutto indolenzito ed ammaccato. Pensai che erameglio così; avrebbe contribuito a farmi sembrare più vecchio. Bussai alla porta di Ganelon e un giovane mi fece entrare, poi corse ad aiutare un altroragazzo che stava apparecchiando la tavola accanto al camino.

    Ganelon indossava camicia e calzoni verdi, stivali e cintura pure verdi;stava seduto su uno scranno dall'alto schienale. Quando entrai si alzò e mivenne incontro.

    «Sir Corey, ho saputo ciò che hai fatto oggi,» disse, stringendomi la ma-no. «E questo rende più credibile il fatto che tu abbia trasportato Lance.Devo dire che sei più uomo di quanto sembri... senza offesa.»

    Ridacchiai.«Non sono offeso.»Mi offrì una sedia, mi porse un bicchiere di vino chiaro un po' troppo

    dolce per i miei gusti, poi disse: «A guardarti, direi che potrei rovesciarti aterra con una mano sola... eppure hai trasportato Lance per cinque leghe elungo la strada hai ucciso due di quei gatti bastardi. E Lance mi ha dettodel tumulo di grosse pietre che hai eretto...»

    «Come sta Lance, oggi?» l'interruppi.«Ho dovuto mettere una guardia in camera sua, per assicurarmi che ripo-

    sasse. Quello sciocco voleva alzarsi e andare in giro. Per Dio, dovrà restarea letto per tutta la settimana!»

    «Allora si sente meglio.»Ganelon annuì.«Alla sua salute.»«Bevo ben volentieri.»Bevemmo. Poi: «Se avessi un esercito di uomini come te e Lance,» disse

    lui, «forse la storia andrebbe diversamente.»«Quale storia?»«Il Cerchio ed i suoi guardiani,» disse lui. «Non ne hai sentito parlare?»«Lance mi ha accennato qualcosa. Ecco tutto.»Un ragazzo badava ad un enorme pezzo di carne di bue infilato allo

    spiedo, su un fuoco basso. Di tanto in tanto l'innaffiava con un po' di vino,mentre lo faceva girare. Ogni volta che il profumo arrivava fino a me, ilmio stomaco brontolava, e Ganelon rideva. L'altro ragazzo lasciò la stanza per andare a prendere il pane in cucina.Ganelon tacque a lungo. Finì il vino e se ne versò un altro calice. Io sta-

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    vo sorseggiando lentamente il mio.«Hai mai sentito parlare di Avalon?» chiese finalmente.«Sì,» risposi. «C'è una strofa, che ho udito molto tempo fa da un bardo

    itinerante: 'Oltre il Fiume dei Beati, là sedevano, sì, a piangere, ricordandoAvalon. Le nostre spade s'infransero nelle nostre mani e appendemmo gliscudi alla quercia. Le torri argentee erano cadute in un mare di sangue?Quante miglia per giungere ad Avalon? Non una, io dico, e tutte. Le torriargentee sono cadute'.»

    «Avalon caduta...?» chiese lui.«Credo che quell'uomo fosse pazzo. Non conosco nessuna Avalon. Ma

    la strofa mi è rimasta impressa nella mente.»Genelon distolse il volto e tacque per parecchi minuti. Quando riprese a

    parlare, la sua voce era mutata.«C'era,» disse. «C'era, quel luogo. Vi vivevo io, anni fa. Non sapevo che

    fosse caduto.»«E come sei giunto qui?» gli chiesi.«Fui esiliato dal mago suo signore, Corwin di Ambra. Mi mandò attra-

    verso la tenebra e la follia in questo luogo, perché vi soffrissi e morissi... esoffrii e molte volte giunsi vicino alla fine. Tentai di ritrovare la via del ri-torno, ma nessuno la conosceva. Parlai con incantatori, e persino con unacreatura del Cerchio che avevamo catturato, prima che la uccidessimo. Manessuno conosceva la strada per Avalon. È come ha detto il bardo: 'Neppu-re un miglio, e tutti,'» fece, citando in modo errato la mia lirica. «Ricordi ilnome di quel bardo?»

    «Mi dispiace, ma non lo ricordo.»«Dov'è Cabra, il luogo da cui provieni?»«Lontano, a oriente, oltre le acque,» dissi io. «Molto lontano. È un regno

    isolano.»«C'è qualche speranza che possa fornirci truppe? Posso permettermi di pagare bene.»Scossi il capo.«È un piccolo regno con una piccola milizia, e occorrerebbero molti me-

    si di viaggio per andare e tornare... per terra e per mare. Non hanno maicombattuto come mercenari, e del resto non sono molto bellicosi.»

    «Allora tu sembri molto diverso dai tuoi compatrioti,» disse Ganelon,scrutandomi di nuovo.

    Sorseggiai il vino.«Ero istruttore d'armi,» dissi, «della Guardia Reale.»

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    «Allora forse sarai disposto ad accettare un ingaggio, per collaborare al-l'addestramento delle mie truppe?»

    «Potrei restare qualche settimana, per far questo,» dissi.Lui annuì, contraendo le labbra in un sorriso che durò un microsecondo,

    poi disse: «Mi rattrista sentire che la bella Avalon è caduta. Ma se è così,vuol dire che anche colui che mi ha esiliato è probabilmente morto.» Vuo-tò il calice. «Dunque anche per il demonio è venuto il momento in cui nonha più potuto difendere i suoi,» aggiunse, pensieroso. «È un pensiero inco-raggiante. Ciò signifca che potremmo avere qualche possibilità, qui, controquesti demoni.»

    «Ti chiedo perdono,» dissi, arrischiandomi per quella che mi sembravauna buona ragione. «Se ti riferisci a Corwin di Ambra, non è morto, quan-do è accaduto ciò che è accaduto.»

    Il calice gli si spezzò nella mano.«Tu conosci Corwin?»«No, ma ne ho sentito parlare,» risposi. «Diversi anni or sono, incontrai

    uno dei suoi fratelli... si chiamava Brand. Mi parlò del luogo chiamatoAmbra, e della battaglia in cui Corwin ed un altro suo fratello, di nomeBleys, guidarono un'orda contro il loro fratello, Eric, che teneva la città.Bleys precipitò dal monte Kolvir, e Corwin fu fatto "prigioniero. Dopol'incoronazione di Eric, a Corwin vennero strappati gli occhi, e fu gettatoin una segreta, sotto Ambra, dove forse si trova ancora, se non è morto.»

    Mentre parlavo, Ganelon era impallidito.«Tutti i nomi che hai menzionato... Brand, Bleys, Eric,» disse, «li ho

    sentiti pronunciare da lui, molto tempo fa. Quando hai saputo tutto que-sto?»

    «È stato circa quattro anni fa.»«Meritava una sorte migliore.»«Dopo quel che ha fatto a te?»«Ecco,» disse Ganelon, «ho avuto molto tempo per riflettere, e devo

    ammettere di avergli dato motivo di fare quel che fece. Era forte — piùforte di te e persino di Lance — e intelligente. E sapeva essere gaio, quan-do se ne presentava l'occasione. Eric avrebbe dovuto ucciderlo subito, noncosì. Non provo affetto per lui, ma il mio odio si è placato. Il demone me-ritava di meglio, ecco tutto.»

    Il secondo ragazzo tornò con un canestro di pane. Quello che aveva pre- parato la carne la tolse dallo spiedo e la mise su un piatto, al centro dellatavola.

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    Ganelon l'indicò.«Mangiamo,» disse.Si alzò e andò a tavola.Lo seguii. Non parlammo molto, durante il pasto.Dopo essermi rimpinzato fino a quando il mio stomaco non volle più sa-

    perne, e dopo aver bevuto un altro calice di vino troppo dolce, cominciai asbadigliare. Ganelon imprecò, al terzo sbadiglio.

    «Dannazione, Corey! Smetti! È contagioso!»E soffocò a sua volta uno sbadiglio.«Andiamo a prendere un po' d'aria,» disse alzandosi.Passeggiammo lungo le mura, incontrando le sentinelle di ronda. Si met-

    tevano sull'attenti e salutavano Ganelon appena lo riconoscevano, e lui glirivolgeva qualche parola, poi passavamo oltre. Arrivammo a un bastione eci fermammo a riposare, sedendoci sulla pietra ed aspirando a pieni pol-moni l'aria della sera, fresca, umida e piena degli aromi della foresta, nelcielo che si oscurava. La pietra era fredda, sotto di me. In lontananza, misembrava di distinguere lo scintillio del mare. Udii il richiamo di un uccel-lo notturno, sotto di noi. Ganelon tirò fuori una pipa ed un po' di tabaccodalla borsa che portava alla cintura. La riempì e l'accese. Il suo volto sa-rebbe sembrato satanico nella luce delle scintille, se non fosse stato perqualcosa che gli piegava la bocca verso il basso e sollevava i muscoli delleguance nell'angolo formato dagli angoli interni degli occhi e dalla radicedel naso. Un diavolo deve avere un sogghigno malvagio, e Ganelon appa-riva troppo cupo.

    Fiutai il fumo. Dopo un po', lui cominciò a parlare, dapprima sottovoce,molto lentamente:

    «Ricordo Avalon,» disse. «Non ero di nascita ignobile, ma la virtù nonera mai stata il mio forte. Sperperai presto la mia eredità e presi a tendereagguati ai viaggiatori. Più tardi, mi unii ad una banda di altri uomini comeme. Quando scoprii che ero il più forte, il più idoneo a comandare, diventaiil loro capo. C'erano taglie sulle nostre teste. La mia era la più alta.»

    Aveva preso a parlare più rapidamente; la voce si affinò, e le parole chesceglieva suonavano come un'eco del passato.

    «Sì, ricordo Avalon,» disse. «Un luogo d'argento e di ombre dolci e diacque fresche, dove le stelle brillavano di notte come falò ed il verde delgiorno era sempre il verde della primavera. Gioventù, amore, bellezza... liho conosciuti ad Avalon. Destrieri orgogliosi, metallo splendente, labbramorbide, birra scura. L'onore...»

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    Scosse il capo.«Più tardi,» disse, «quando nel regno incominciò la guerra, il sovrano

    offrì il condono totale a tutti i fuorilegge che fossero disposti a seguirlo in battaglia contro gli insorti. Era Corwin. Mi schierai dalla sua parte e andaiin guerra. Diventai ufficiale e, più tardi, entrai a far parte del suo statomaggiore. Vincemmo le battaglie, domammo l'insurrezione. Poi Corwinriprese a regnare pacificamente, e io rimasi alla sua corte. Furono anni bel-lissimi. Poi, in seguito, vi furono certe scaramucce di confine, ma vince-vamo sempre. Corwin si fidava di me, lasciava che sbrogliassi queste cose per lui. Poi concesse un ducato, per onorare la casata di un nobiluccio dicui voleva sposare la figlia. Io volevo quel ducato per me, e molte volte miaveva lasciato capire che un giorno sarebbe stato mio. M'infuriai, e tradii,quando venni inviato a risolvere una disputa ai confini meridionali, dovec'erano sempre difficoltà. Molti dei miei uomini morirono, e gli invasori penetrarono nel regno. Prima che fosse possibile sconfiggerli, lo stessoCorwin dovette riprendere nuovamente le armi. Gli invasori erano affluitiin forze, e pensavo che avrebbero conquistato il regno. Lo speravo. MaCorwin, ancora una volta, con le sue tattiche astute, ebbe la meglio. Fug-gii, ma fui catturato e condotto in sua presenza. Lo maledissi e sputai con-tro di lui. Non volevo piegarmi. Odiavo la terra che calpestava, e un con-dannato non ha motivo di non comportarsi più fieramente che può, di fini-re da uomo. Corwin disse che avrebbe avuto pietà di me, in ricordo deimiei meriti di un tempo. Gli dissi cosa poteva farsene, della sua misericor-dia, e poi compresi che si stava burlando di me. Ordinò che mi lasciassero,e si avvicinò. Sapevo che poteva uccìdermi con le sue mani.

    «Cercai di lottare con lui, ma inutilmente. Mi colpì, una volta sola, e iocaddi. Quando ripresi i sensi, ero legato sul dorso del suo cavallo. Lui erain sella, e rideva di me. Non rispondevo alle sue parole, ma passammo at-traverso terre meravigliose ed a terre d'incubo, e così appresi i suoi poterimagici, perché non ho mai incontrato un viaggiatore che fosse passato at-traverso i luoghi da me visti quel giorno. Poi mi annunciò che mi aveva e-siliato, mi lasciò, girò il cavallo e se ne andò.»

    Ganelon s'interruppe per riaccendere la pipa che s'era spenta, sbuffò e proseguì: «In questo luogo ho subito percosse e morsi, ad opera di uominie bestie, salvandomi a stento. Corwin mi aveva abbandonato nella parte peggiore del regno. Ma un giorno la mia fortuna cambiò. Un cavaliere inarmatura mi ordinò di scostarmi dalla strada per lasciarlo passare. Ormai,non m'importava più di vivere o di morire; perciò gli dissi che era un figlio

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    di puttana vaioloso e gli intimai di andare al diavolo. Il cavaliere mi caricò;afferrai la lancia e spinsi la lancia nel terreno, disarcionandolo. Gli tagliaila gola con il suo pugnale, e così mi procurai armi e un cavallo. Poi comin-ciai a ripagare coloro che mi avevano trattato male. Tornai a fare il brigan-te, e mi trovai un'altra banda di seguaci. Diventammo sempre più numero-si. Quando fummo centinaia, le nostre esigenze divennero considerevoli.Entravamo in un villaggio e lo occupavamo. La milizia locale aveva pauradi noi. Anche quella era una bella vita, anche se meno splendida della Ava-lon che non rivedrò più. Tutte le locande lungo le strade impararono a te-mere il rombo degli zoccoli dei nostri cavalli, e i viaggiatori se la facevanosotto quando ci sentivano arrivare. Ah! Durò parecchi anni. Schiere di ar-mati vennero inviate sulle nostre tracce per annientarci, ma noi fuggivamosempre, o tendevamo loro imboscate. Poi, un giorno, apparve il Cerchiotenebroso, e nessuno sa esattamente perché.»

    Soffiò più energicamente nella pipa, guardando lontano.«Mi hanno detto che cominciò come un piccolo cerchio di funghi vele-

    nosi, lontano, a occidente. Al centro, trovarono una bambina morta; el'uomo che la trovò, suo padre, morì di convulsioni qualche giorno dopo.Subito corse voce che quel luogo era maledetto. Si ingrandì rapidamentenei mesi che seguirono, fino a raggiungere il diametro di mezza lega. L'er- ba diventava scura, all'interno, e luccicava come metallo, ma non moriva.Gli alberi si torcevano e le foglie annerivano. Ondeggiavano quando nonc'era vento, e tra i rami danzavano e sfrecciavano i pipistrelli. Al crepusco-lo, si scorgevano strane forme in movimento, sempreall'internodel Cer-chio, bada, e per tutta la notte si vedevano luci, come minuscoli fuochi. IlCerchio continuava a crescere, e tutti coloro che vivevano nelle vicinanzefuggirono... quasi tutti. Alcuni rimasero. Si disse che quanti erano rimastiavevano concluso un patto con gli esseri tenebrosi. E il Cerchio continuavaad allargarsi, diffondendosi come l'increspatura di un sasso gettato in unostagno. La gente che restava, viva, all'interno, diventava sempre più nume-rosa. Ho parlato con costoro, li ho combattuti, li ho uccisi. È come se den-tro tutti loro vi fosse qualcosa di morto. Le loro voci sono prive della viva-cità degli uomini che addentano le parole e le assaporano. Raramente e-sprimono qualcosa, con i loro volti: sembrano maschere funebri. Comin-ciarono a lasciare il Cerchio in bande, compiendo scorrerìe. Uccidevanoindiscriminatamente. Commettevano molte atrocità e profanavano i luoghidi culto. Quando se ne andavano, incendiavano tutto. Non rubavano maioggetti d'argento. Poi, dopo molti mesi, cominciarono ad uscire altre crea-

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    ture, diverse dagli uomini... essere strani, come i gatti infernali uccisi da te.Allora la crescita del Cerchio rallentò, e quasi si arrestò, come se si avvici-nasse ad una sorta di limite. Ma ormai ne uscivano scorridori di ogni gene-re — alcuni persino di giorno — e devastavano la campagna circostante.Quando ebbero messo a ferro e a fuoco tutto il territorio intorno all'interacirconferenza, il Cerchio si mosse per inglobare anche quelle aree. E inquesto modo ricominciò a crescere. Il vecchio re Uther, che per moltotempo mi aveva dato la caccia, si dimenticò di me e inviò tutte le sue forzea pattugliare il maledetto Cerchio. Anch'io cominciavo a preoccuparmi, perché non mi andava l'idea di venir afferrato nel sonno da un succhiatoredi sangue generato dall'inferno. Perciò radunai cinquantacinque dei mieiuomini — tutti coloro che si offrirono volontari, perché non volevo i vi-gliacchi — e un pomeriggio andammo li. Trovammo un branco di quegliuomini dalla faccia morta che bruciavano un capro vivo su un altare di pie-tra. Piombammo loro addosso; prendemmo un prigioniero, lo legammo alsuo altare e l'interrogammo. Ci disse che il Cerchio sarebbe cresciuto finoa coprire l'intero territorio, da un oceano all'altro. Un giorno si sarebbe sal-dato con se stesso, dall'altra parte del mondo. Noi avremmo fatto bene adunirci a loro, se volevamo salvare la pelle. Allora uno dei miei uomini lo pugnalò, e quello morì. Morì veramente, perché so riconoscere un morto,quando lo vedo: ne ho uccisi abbastanza, in vita mia. Ma mentre il suosangue cadeva sulla pietra, la sua bocca sì aprì e lasciò uscire la risata piùsonora che avessi mai udito. Era come un tuono, intorno a noi. Poi l'uomosi sollevò a sedere, senza respirare, e cominciò a bruciare. Mentre brucia-va, cambiava forma, fino a quando divenne simile al capro arso sull'alta-re... ma più grande. Poi una voce gli uscì dalla bocca, e disse: 'Fuggì, uomomortale! Ma non lascerai mai questo Cerchio!' E credimi... fuggimmo! Ilcielo si riempì di pipistrelli ed altre... cose, fino a diventare nero. Udimmouno scalpitio di zoccoli. Cavalcavamo con le spade in pugno, uccidendotutti gli esseri che si avvicinavano. C'erano gatti come quelli che tu hai uc-ciso, e serpenti, ed esseri che spiccavano balzi, e Dio sa che altro. Mentreci accostavamo all'orlo del Cerchio, una delle pattuglie di re Uther ci videe venne in nostro aiuto. Dei cinquantacinque che erano venuti con me, netornarono sedici. E la pattuglia perse una trentina d'uomini. Quando mi ri-conobbero, mi trascinarono a corte. Qui. Allora era il palazzo di Uther. Gliriferii ciò che avevo fatto, ciò che avevo visto ed udito. Si comportò conme come aveva fatto Corwin. Mi offrì il condono totale, per me e per imiei uomini, se l'avessimo aiutato contro i Guardiani del Cerchio. Dopo

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    quello che avevo passato, mi resi conto che era necessario farla finita. Ac-cettai. Poi mi ammalai; mi dissero che avevo delirato per tre giorni. Dopola guarigione ero debole come un bambino, e venni a sapere che erano staticolpiti dallo stesso male tutti coloro che erano entrati nel Cerchio. Tre era-no morti. Andai a far visita agli altri miei uomini, raccontai tutto, e quellisi arruolarono. Le pattuglie intorno al Cerchio furono rafforzate. Ma eraimpossibile frenarlo. Negli anni che seguirono, il Cerchio crebbe. Combat-temmo molte scaramucce. Io venni promosso, fino a quando diventai il braccio destro di Uther, come un tempo lo ero stato di Corwin. Poi le sca-ramucce diventarono qualcosa di più. Da quella tana d'inferno uscironoschiere sempre più numerose. Perdemmo alcune battaglie. Gli avversarii presero alcuni dei nostri avamposti. Poi, una notte, uscì un esercito, un e-sercito... un'orda di uomini e di altri esseri. Quella notte ci scontrammo conle schiere più numerose che avessimo mai visto. Lo stesso re Uther parte-cipò alla battaglia, nonostante il mio consiglio — perché era d'età avanzata — e cadde, e la terra restò senza sovrano. Avrei voluto che il mio capitano,Lancelot, diventasse reggente, poiché sapevo che era un uomo molto piùdegno di me... Ed è strano. Avevo conosciuto un Lancelot identico a lui, adAvalon... ma quest'uomo non mi aveva riconosciuto, la prima volta che cieravamo incontrati. È strano, davvero... Comunque rifiutò, e l'incarico fuassegnato a me. Non mi piace, ma eccomi qui. Li ho tenuti in scacco pertre anni, ormai. L'istinto mi suggerisce di fuggire. Cosa devo a questa gen-te? Che m'importa se il maledetto Cerchio si allarga? Potrei attraversare ilmare e trovare una terra che il Cerchio non potrà raggiungere durante lamia vita; e allora potrei dimenticarmi dell'intera faccenda. Maledizione! Non volevo questa responsabilità! Ma adesso è toccata a me!»

    «Perché?» gli chiesi; e la mia voce suonava strana alle mie stesse orec-chie.

    Vi fu un silenzio.Ganelon vuotò la pipa. Tornò a riempirla. La riaccese. Sbuffò una nubedi fumo.

    Ancora silenzio.Poi: «Non so,» disse lui. «Pugnalerei un uomo alla schiena per un paio

    di sarpe, se lui le avesse ed io ne avessi bisogno per non congelarmi. Unavolta lo feci, ecco perché lo so. Ma... questo è diverso. Questo fa del malea tutti, ed io sono l'unico che possa cercare di fermarlo. Dannazione! Soche un giorno mi seppelliranno qui, insieme a tutti gli altri. Ma non possotirarmene fuori. Devo tenere a bada il Cerchio finché potrò!»

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    La fredda aria della notte mi aveva schiarito le idee; ebbi la sensazionedi ritrovare una nuova energia, sebbene mi sentissi vagamente intorpidito.

    «Non potrebbe guidarli Lance?» chiesi.«Io direi di sì. È un valoroso. Ma c'è un'altra ragione. Credo che il Ca-

    pro, qualunque cosa fosse, abbia un po' paura di me. Ero entrato nel Cer-chio, e il Capro mi aveva detto che non ce l'avrei mai fatta ad uscire, e in-vece ce l'ho fatta. Sono sopravvissuto all'infermità che poi mi ha colpito. IlCapro sa di combattere sempre contro di me. Vincemmo quel tremendoscontro sanguinoso, la notte in cui morì Uther, ed io incontrai di nuovoquell'essere, in un'altra forma, e mi riconobbe. Forse è anche per questoche ora resta a distanza.»

    «Quale forma?»«Una cosa dall'aspetto umano, ma con corna di capro ed occhi rossi.

    Montava uno stallone pezzato. Combattemmo piuttosto a lungo, ma poi lamarea della battaglia ci separò. E fu un bene, perché lui stava vincendo.Parlò di nuovo, mentre facevamo mulinare le spade, e mi disse che non po-tevo sperare di vincere. Ma quando venne il mattino, avevamo vinto: li ri-cacciammo nel Cerchio, uccidendoli mentre fuggivano. Il cavaliere dallostallone pezzato si salvò. Da allora vi sono state altre sortite, ma nessunacome quella notte. Se dovessi lasciare questa terra, un altro esercito altret-tanto forte — che già si sta preparando — uscirebbe dal Cerchio. L'essereverrebbe a sapere della mia partenza... come sapeva che Lance mi stava portando un altro rapporto sulla disposizione delle truppe entro il Cerchio; per questo ha inviato i Guardiani ad ucciderlo, al suo ritorno. Ormai sa an-che di te, e sicuramente si stupisce di questo nuovo sviluppo. Deve chie-dersi chi sei, data la tua forza. Io resterò qui, a combatterlo fino a quandocadrò. Lo devo. Non domandarmi perché. Spero soltanto che, prima diquel giorno, io possa scoprire almeno come questo è avvenuto... perchée-siste il Cerchio.»Poi vi fu un batter d'ali vicino alla mia testa. Mi affrettai a chinarmi, perschivarlo. Ma non era necessario. Era solo un uccello. Un uccello bianco.Mi si posò sulla spalla sinistra e restò lì, tubando sommessamente. Alzai il polso, e l'uccello vi balzò sopra. C'era un biglietto, legato alla zampa. Lostaccai, lo lessi, lo appallottolai nella mano. Poi studiai qualcosa d'invisibi-le, in lontananza.

    «Che succede, Sir Corey?» esclamò Ganelon.Il biglietto, che avevo mandato a precedermi a destinazione, scritto dimia mano, trasmesso da un uccello del mio desiderio, poteva raggiungere

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    soltanto il luogo che doveva essere la mia prossima tappa. E quello non eraesattamente il posto che avevo in mente. Tuttavia, sapevo leggere i presa-gi.

    «Che cos'è?» chiese Ganelon. «Che cos'hai in mano? Un messaggio?»Annuii e glielo porsi. Non avrei potuto gettarlo via, poiché mi aveva vi-

    sto prenderlo.C'era scritto: «Sto arrivando,» e portava la mia firma.Ganelon soffiò nella pipa, e lesse, nel bagliore della brace.« Lui? È vivo? e verrebbequi?» disse.«Così pare.»«È molto strano,» disse lui. «Non capisco...»«Sembra una promessa d'aiuto,» dissi, congedando l'uccello che tubò

    due volte, e poi mi volteggiò intorno alla testa e si allontanò.Ganelon scosse il capo.«Non capisco.»«Perché contare i denti di un cavallo che puoi avere per nulla? Finora sei

    riuscito soltanto a fermare il Cerchio.»«È vero,» disse Ganelon. «Forse lui potrebbe annientarlo.»«E forse è soltanto uno scherzo,» gli dissi. «Uno scherzo crudele.»Scosse di nuovo il capo.«No. Non è nel suo stile. Chissà che cosa cerca.»«Dormici sopra,» gli suggerii.«Non posso fare altro, per ora,» disse Ganelon, soffocando uno sbadi-

    glio.Poi ci alzammo e ci avviammo lungo il muro. Ci scambiammo la buo-

    nanotte, e io mi diressi barcollando verso l'abisso del sonno, e vi piombai acapofitto.

    2

    Giorno. Altri dolori. Altre sofferenze.Qualcuno mi aveva lasciato un mantello nuovo, marrone, e pensai che

    era meglio così. Soprattutto se avessi riacquistato peso e se Ganelon si fos-se ricordato dei miei colori. Non mi tagliai la barba, perché lui mi avevaconosciuto con il volto glabro. Avevo cura di cambiare voce, quando c'eralui. Nascosi Grayswandir sotto il letto.

    Durante la settimana che segui mi esercitai, implacabilmente. Lavorai esudai e m'impegnai fino a quando i dolori si calmarono ed i miei muscoli

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    divennero di nuovo ben saldi. Quella settimana, credo, riacquistai quindicilibbre. Poco a poco cominciavo a sentirmi di nuovo me stesso.

    Quella terra si chiamava Lorraine, e così si chiamava anche lei. Se fossidell'umore adatto per comporre poesie, direi che c'incontrammo in un pratodietro il castello, mentre lei coglieva fiori ed io passeggiavo per prendereun po' d'aria. Fesserie.

    Penso che un termine eufemistico sarebbe «vivandiera». L'incontrai altermine d'una dura giornata di lavoro con la sciabola e la mazza. Lei stavaun po' in disparte, in attesa del suo accompagnatore, quando la vidi per la prima volta. Sorrise e io ricambiai il sorriso, le rivolsi un cenno con il ca- po, le strizzai l'occhio e passai oltre. Il giorno dopo la rividi, e le dissi«Salve», mentre le passavo accanto. Ecco tutto.

    Be', continuavo ad imbattermi in lei. Alla fine della seconda settimana,quando i miei dolori erano scomparsi e pesavo ormai più di centottantalibbre e mi sentivo di nuovo a posto, combinai per trovarmi con lei, una se-ra. Ormai sapevo cosa faceva, e per quel che mi riguardava, andava benis-simo. Ma quella notte non facemmo le solite cose. No.

    Parlammo, invece, e poi accadde qualcosa d'altro.Aveva i capelli color ruggine, con qualche filo grigio. Ma immaginavo

    che non avesse ancora trent'anni. Gli occhi, molto azzurri. Il mento leg-germente appuntito. Denti candidi, regolari, in una bocca che mi sorrideva.La voce era un po' nasale, i capelli troppo lunghi, il trucco troppo pesante per nascondere la stanchezza, la carnagione troppo lentigginosa, gli abititroppo chiassosi e aderenti. Ma mi era simpatica. Non credo che pensassiveramente così quando le chiesi di venire con me quella notte perché, co-me ho detto, non era a trovarla simpatica che stavo pensando.

    Non potevamo andare in nessun altro posto che in camera mia, e perciòci andammo. Ero diventato capitano, e approfittai del mio grado per farmiservire in camera la cena per due, e una bottiglia di vino in più.«Gli uomini hanno paura di te,» mi disse lei. «Sostengono che non tistanchi mai.»

    «Mi stanco,» dissi io. «Credimi.»«Certo,» disse, scuotendo i capelli troppo lunghi e sorridendo. «Non ci

    stanchiamo forse tutti?»«Direi,» risposi.«Quanti anni hai?»«Quanti anni haitu?»«Un gentiluomo non farebbe una domanda simile.»

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    «E una signora?»«Quando sei arrivato qui, credevamo che avessi più di cinquant'anni.»«E adesso?»«E adesso non ne hanno un'idea. Quarantacinque? Quaranta?»«No,» dissi io.«Non lo credevo. Ma la tua barba ha ingannato tutti.»«Succede spesso.»«Migliori d'aspetto ogni giorno.»«Grazie. Mi sento meglio di quando sono arrivato.»«Sir Corey di Cabra,» disse lei. «Dov'è Cabra? Cos'è Cabra? Mi ci por-

    terai, se te lo chiedo con garbo?»«Potrei promettertelo,» dissi. «Ma mentirei.»«Lo so. Ma sarebbe bello sentirmelo dire.»«E va bene. Ti condurrò là con me. È un posto schifoso.»«Sei davvero formidabile come dicono gli uomini?»«Temo di no. E tu?»«Non proprio. Vuoi andare a letto, adesso?»«No. Preferirei parlare. Prendi un bicchier di vino.»«Grazie... Alla tua salute.»«Alla tua.»«Perché sei uno schermitore così abile?»«Attitudine e buoni insegnanti.»«... E hai trasportato Lance per cinque leghe e hai ucciso quelle bestie...»«Certe storie si gonfiano passando di bocca in bocca.»«Ma ti ho osservato. Tusei meglio degli altri. È per questo che Ganelon

    ti ha fatto le offerte che ti ha fatto. So riconoscere i pregi. Ho avuto moltiamici schermitori, e li ho visti esercitarsi. Tu potresti farli a pezzi. Gli uo-mini dicono che sei un buon istruttore. Ti sono affezionati, anche se li spa-venti.»«Perché li spavento? Perché sono forte? Vi sono molti uomini forti, almondo. Perché posso tirare di spada a lungo?»

    «Loro pensano che ci sia in te qualcosa di sovrannaturale.»Io risi.«No. Sono soltanto il secondo schermitore. Scusami... forse il terzo. Ma

    m'impegno.»«Chi è meglio di te?»«Eric di Ambra, probabilmente.»«Chi è?»

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    «Un essere sovrannaturale.»«È il migliore?»«No.»«E chi lo è?»«Benedict di Ambra.»«Anche lui è sovrannaturale?»«Se è ancora vivo, sì.»«È strano,» disse lei. «E perché? Dimmi. Tusei un essere sovrannatura-

    le?»«Beviamo un altro bicchier di vino.»«Mi andrà alla testa.»«Bene.»Versai.«Tutti dobbiamo morire,» disse lei.«Alla fine, sì.»«Voglio dire qui, presto, combattendo questo Cerchio.»«Perché dici così?»«È troppo forte.»«E allora perché rimani?»«Non saprei dove andare. Per questo ti ho chiesto di Cabra.»«E per questo sei venuta qui stanotte?»«No. Sono venuta per scoprire come sei.»«Sono un atleta che ha interrotto l'allenamento. Sei nata da queste par-

    ti?»«Sì, nei boschi.»«Perché ti sei messa con costoro?»«Perché no? È meglio che sporcarmi tutti i giorni i piedi con lo sterco

    dei maiali.»«Non hai mai avuto un uomo... fisso, voglio dire?»«Sì. È morto. Era quello che trovò... il Cerchio Incantato.»«Mi dispiace.»«A me no. Si ubriacava sempre, tutte le volte che poteva rubare o farsi

    prestare qualcosa, e poi tornava a casa e mi picchiava. Sono stata contentad'incontrare Ganelon.»

    «Dunque pensi che il Cerchio è troppo forte, che finiremo per soccom- bere?»

    «Sì.»«Forse hai ragione. Ma credo che ti sbagli.»

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    Lei scrollò le spalle.«Combatterai con noi?»«Temo di sì.»«Nessuno lo sapeva con certezza, o voleva dirlo se lo sapeva. Potrebbe

    essere interessante. Mi piacerebbe vederti combattere con l'uomo-capro.»«Perché?»«Perché sembra che sia il loro capo. Se lo uccidessi, avremmo qualche

    possibilità. Tu potresti riuscirci.»«Devo riuscirci,» dissi.«C'è una ragione speciale?»«Sì.»«Personale?»«Sì.»«Buona fortuna.»«Grazie.»Lei finì il vino, e gliene versai ancora.«So chelui è un essere sovrannaturale,» disse.«Cambiamo argomento.»«Va bene. Ma mi farai un favore?»«Sentiamo.»«Domani metti l'armatura, prendi una lancia, sali su un cavallo, e disar-

    ciona quel grosso ufficiale di cavalleria, Harald.»«Perché?»«La settimana scorsa mi ha picchiata, proprio come faceva Jarl. Puoi far-

    lo?»«Sì.»«Lo farai?»«Perché no? Consideralo disarcionato.»Lei si avvicinò e si appoggiò a me.«Ti amo,» disse.«Fesserie.»«Sta bene. Ti va: 'Mi piaci'?»«Così va meglio. Io...»Poi un vento gelido mi soffiò lungo la spina dorsale. Mi irrigidii e resi-

    stetti a ciò che era venuto per annebbiare la mia mente.Qualcuno mi stava cercando. Era qualcuno della Casa d'Ambra, senza

    dubbio, e stava usando il mio Trionfo o qualcosa di molto simile. La sen-sazione era inconfondibile. Se era Eric, allora aveva più fegato di quanto

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    fossi disposto ad attribuirgli, perché gli avevo quasi disintegrato il cervel-lo, l'ultima volta che eravamo stati in contatto. Non poteva essere Random,a meno che fosse stato liberato dal carcere, e ne dubitavo. Se erano Juliano Caine, potevano andare all'inferno. Bleys, probabilmente, era morto. Eforse era morto anche Benedict. Quindi restavano Gérard, Brand, e le no-stre sorelle. Solo Gérard poteva avere buone intenzioni nei miei confronti.Perciò resistetti, per non farmi scoprire. Impiegai circa cinque minuti, equando fini, tremavo e sudavo; e Lorraine mi guardava in modo strano.

    «Cos'è successo?» mi chiese. «Non sei ancora ubriaco, e neppure io losono.»

    «È solo un attacco che mi prende qualche volta,» dissi. «È una malattiache ho preso sulle isole.»

    «Ho visto un volto,» disse lei. «Forse era sul pavimento, forse nella miamente. Era un vecchio. Il colletto del suo abito era verde, e ti somigliavamoltissimo, ma aveva la barba grigia.»

    Allora la schiaffeggiai.«Tu menti! Non puoi aver...»«Ti sto solo dicendo ciò che ho visto! Non picchiarmi! Non so cosa si-

    gnificasse! Chi era?»«Credo fosse mio padre. Dio, è strano...»«Cos'è successo?» ripeté lei.«Una crisi,» dissi io. «Mi capita, qualche volta, e la gente crede di vede-

    re mio padre sulle pareti o sul pavimento. Non preoccuparti. Non è conta-gioso.»

    «Fesserie,» disse lei. «Sei tu che menti a me.»«Lo so. Ma per favore, dimentica tutto quanto.»«Perché?»«Perché ti piaccio,» le dissi. «Ricordi? E perché domani disarcionerò

    Harald per te.»«Questo è vero,» disse lei, e io ricominciai a tremare; Lorraine prese unacoperta dal letto e me la mise sulle spalle.

    Mi porse il vino, e io bevvi. Sedette accanto a me e mi appoggiò la testasulla spalla, e io la cinsi con un braccio. Un vento diabolico cominciò adurlare, ed io udii il crepitio rapido della pioggia che portava con sé. Per unsecondo, parve che qualcosa bussasse alle imposte. Lorraine piagnucolòsottovoce.

    «Non mi piace quello che sta succedendo stanotte,» disse.«Neppure a me. Vai a sbarrare la porta. Adesso è solo chiusa con il cate-

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    naccio.»Mentre lei andava a chiudere, spostai il sedile, mettendolo davanti all'u-

    nica finestra. Presi Grayswandir che stava sotto il letto e la sguainai. Poispensi tutte le luci, lasciando solo una candela sul tavolo alla mia destra.

    Tornai a sedermi, con la spada sulle ginocchia.«Cosa stai facendo?» chiese Lorraine, sedendosi alla mia sinistra.«Aspetto,» le dissi.«Che cosa?»«Non ne sono sicuro; ma questa è certamente la notte adatta.»Lei rabbrividì e si fece più vicina.«Sai,» le dissi, «forse faresti meglio ad andartene.»«Lo so,» rispose lei. «Ma ho paura di uscire. Tu potrai proteggermi se

    resto qui, no?»Scossi il capo.«Non so neppure se riuscirò a difendere me stesso.»Lorraine toccò Grayswandir.«Che bella lama! Non ne ho mai vista una eguale.»«Non ce n'è un'altra così,» dissi; e ogni volta che mi spostavo un poco,

    la luce vi cadeva in modo diverso; per un attimo sembrava velata di sangueinumano, arancione, e poi dopo un istante era fredda e bianca come la neveo come il seno di una donna, e fremeva nella mia mano ogni volta che un brivido mi scuoteva.

    Mi chiesi come mai Lorraine aveva veduto qualcosa che io non avevovisto, durante il tentativo di contatto. Non poteva avere semplicementeimmaginato una cosa tanto precisa.

    «C'è qualcosa di strano, inte,» dissi.Lei tacque per quattro o cinque guizzi della candela, poi disse: «Ho un

    po' la seconda vista. Mia madre l'aveva più di me. Dicono che mia nonnafosse una incantatrice. Non ne so molto, comunque. Non lo faccio più daanni. Finisco sempre per perdere più di quel che guadagno.»

    Poi tacque di nuovo e io le chiesi: «Cosa intendi dire?»«Avevo usato un incantesimo, per catturare il mio primo uomo,» rispo-

    se. «E guarda il risultato. Se non l'avessi fatto, sarebbe stato meglio perme. Volevo una bella bambina, e ho fatto in modo di averla...»

    S'interruppe di colpo; mi accorsi che piangeva.«Cosa succede? Non capisco...»«Credevo lo sapessi,» disse lei.«No, temo di no.»

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    «Era la bambina nel Cerchio Incantato. Credevo che lo sapessi...»«Mi dispiace.»«Vorrei non aver mai avuto il tocco. Non lo uso più. Ma non mi abban-

    dona. Mi porta ancora sogni e presagi, ma non riguardano mai qualcosache io posso cambiare. Vorrei che andasse a tormentare qualcun altro!»

    «È proprio quel che non farà, Lorraine. Purtroppo, credo che ti resteràaddosso.»

    «Come lo sai?»«Ho conosciuto altra gente come te in passato, ecco tutto.»«Anche tu lo possiedi, vero?»«Sì.»«Allora senti che adesso c'è qualcosa là fuori, no?»«Sì.»«Anch'io. Sai cosa sta facendo?»«Sta cercando me.»«Sì. Questo lo sento anch'io. Perché?»«Forse per accertare la mia forza. Sa che sono qui. Se sono un nuovo al-

    leato di Ganelon, deve chiedersi cosa rappresento, chi sono...»«È l'essere con le corna?»«Non so. Ma non credo.»«Perché no?»«Se sono veramente colui che può annientarlo, sarebbe sciocco a cer-

    carmi qui, nella fortezza del suo nemico, quando sono circondato dalla for-za. Direi che è uno dei suoi servitori a cercarmi. Forse, chissà come, è lospettro di mio padre... Non so. Se il suo servitore mi trova e mi nomina,saprà quali preparativi dovrà compiere. Se mi trova e mi annienta, avrà ri-solto il problema. Se io anniento il servitore, ne saprà di più sulla mia for-za. Comunque vadano le cose, il Capro acquisirà un vantaggio. Quindi, perché dovrebbe rischiare la testaccia cornuta in questa fase del gioco?»Attendemmo, nella stanza avvolta d'ombra, mentre la candela consuma-va i minuti.

    Lorraine mi chiese: «Cosa intendevi quando hai detto che se ti trova e tinomina...? Come ti dovrebbe nominare?»

    «Quello che è quasi arrivato qui,» dissi.«Credi che potrebbe riconoscerti, in qualche modo, da qualche altro luo-

    go?» chiese lei.«Credo di sì.»Lei si staccò da me.

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    «Non aver paura,» le dissi. «Non ti farò del male.»«Ho paura, e tu mi farai del male!» disse lei. «Lo so! Ma ti voglio! Per-

    ché ti voglio?»«Non so,» dissi io.«C'è qualcosa là fuori, adesso!» disse Lorraine, in tono quasi isterico. «È

    vicino! Vicinissimo! Ascolta! Ascolta!»«Taci!» esclamai, mentre un formicolio gelido mi colpiva la nuca e si

    avvolgeva intorno alla mia gola. «Vai dall'altra parte della stanza, dietro illetto!»

    «Ho paura del buio,» disse Lorraine.«Obbedisci, o dovrò metterti fuori uso e portarti di peso. Qui mi dai fa-

    stidio.»Sentivo un pesante sbatter d'ali, più forte del temporale, e vi fu uno stri-

    dore sulla pietra del muro, mentre lei si muoveva per obbedirmi.Poi mi trovai davanti a due rossi occhi ardenti, fissi nei miei. Abbassai

    fulmineamente lo sguardo. L'essere stava sul cornicione, oltre la finestra, emi guardava.

    Era alto più di sei piedi, ed enormi corna ramose gli spuntavano dallafronte. Era nudo, e la sua pelle era di un grigio-cenere uniforme. Sembravaasessuato, ed aveva ali grige, coriacee, che si estendevano all'indietro, fon-dendosi con la notte. Nella destra stringeva una spada corta e pesante dimetallo scuro, e sulla lama erano incise rune. Con la mano sinistra si tene-va stretto alla grata.

    «Entra, a tuo rischio e pericolo,» dissi a voce alta, ed alzai la punta diGrayswandir per indicare il suo petto.

    Ridacchiò. Rimase lì e ridacchiò, guardandomi. Cercò di nuovo i mieiocchi, ma non glielo permisi. Se mi avesse guardato negli occhi troppo alungo, mi avrebbe riconosciuto, come mi aveva riconosciuto il gatto infer-nale.Quando parlò, sembrò un controfagotto che lanciasse parole.

    «Non sei lui,» disse, «perché sei più piccolo e più vecchio. Eppure...Quella lama... Potrebbe essere la sua. Chi sei?»

    «Chi sei tu?» chiesi.«Il mio nome è Strygalldwir. Evocami con questo nome ed io ti divorerò

    il cuore e il fegato.»«Evocarti con quel nome? Non sono neppure capace di pronunciarlo,»

    dissi. «E la mia cirrosi ti procurerebbe l'indigestione. Vattene.»«Chi sei?» ripeté.

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    « Misti, gammi gra'dil, Strygalldwir ,» dissi, e quello sobbalzò come sel'avessi scottato.

    «Cerchi di scacciarmi con un incantesimo così semplice?» chiese, cal-mandosi. «Io non sono uno dei minori.»

    «Mi è parso che ti abbia messo un po' a disagio.»«Chi sei?» chiese ancora.«Non è affar tuo, Charlie. Uccellino, uccellino, torna a casa...»«Per quattro volte devo chiederlo e per quattro volte devo ricevere un ri-

    fiuto, prima che io possa entrare e ucciderti. Chi sei?»«No,» dissi, alzandomi. «Entra e brucia!»Allora strappò via la grata, e il vento che accompagnò il suo ingresso

    nella stanza spense la candela.Mi avventai, e tra noi volarono scintille quando Grayswandir incontrò la

    scura spada runica. Ci scontrammo, poi io balzai indietro. I miei occhi sierano abituati alla semioscurità, e la scomparsa della luce non mi accecò.L'essere, a sua volta, ci vedeva abbastanza bene. Era più forte di un uomo;ma lo sono anch'io. Facemmo il giro della stanza. Un vento gelido spiravaintorno a noi, e quando passammo di nuovo davanti alla finestra, goccefredde mi sferzarono il volto. La prima volta che ferii l'essere — un lungosquarcio attraverso il petto — restò in silenzio, sebbene minuscole fiammedanzassero intorno ai labbri della ferita. La seconda volta — quando locolpii al braccio — gridò, maledicendomi. «Questa notte succhierò il mi-dollo delle tue ossa!» disse. «Le farò seccare e ne ricaverò strumenti musi-cali! E ogni volta che li suonerò, il tuo spirito disincarnato si contorcerà per la sofferenza!»

    «Bruci molto bene,» dissi io.Rallentò per una frazione di secondo: e quella era l'occasione che aspet-

    tavo.Deviai la lama scura, e il mio affondo fu perfetto. Il mio bersaglio era ilcentro del suo petto. Lo trapassai.Allora ululò, ma non cadde. Grayswandir mi fu strappata dalla mano, e

    intorno alla ferita fiorirono le fiamme. Rimase in piedi, avanzò di un passoverso di me, ed io afferrai una seggioletta, la tenni tra me e lui.

    «Io non ho il cuore dove l'hanno gli uomini,» disse.Poi balzò, ma io parai il colpo con la seggiola, e lo urtai all'occhio destro

    con una delle gambe. Poi gettai via la sedia, ed avanzando gli afferrai il polso destro e lo girai. Colpii il gomito con il taglio della mano, più forteche potei. Vi fu un crepitio secco, e la spada runica cadde sferragliando sul

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    pavimento. Poi la mano sinistra dell'essere mi colpì alla testa, e caddi.Si lanciò per prendere la spada, e gli afferrai la caviglia e tirai.Cadde lungo disteso, e mi buttai su di lui, gli strinsi la gola. Girai la testa

    nel cavo della spalla, con il mento contro il petto, mentre cercava di arti-gliarmi la faccia con la sinistra.

    Mentre la mia stretta mortale si faceva più forte, i suoi occhi cercarono imiei, e questa volta non li evitai. Avvertii una lieve scossa alla base delcervello: entrambi sapevamo quel che sapevamo.

    «Tu!» riuscì a singultare, prima che torcessi violentemente le mani e chela vita svanisse da quegli occhi rossi.

    Mi alzai, puntai il piede sulla carcassa, ed estrassi Grayswandir.L'essere prese fuoco quando la lama si liberò, e continuò ad ardere fino a

    quando non rimase altro che una chiazza carbonizzata sul pavimento.Poi Lorraine si accostò e io la cinsi con il braccio, e lei mi chiese di riac-

    compagnarla al suo alloggio, a letto. L'accontentai, ma non facemmo altroche giacere vicini, fino a quando lei si addormentò tra le lacrime. È cosìche incontrai Lorraine.

    Io e Lance e Ganelon eravamo in sella alle nostre cavalcature, su di u-n'alta collina, e il sole del mattino avanzato ci batteva sulle spalle. Guarda-vamo laggiù, nel Cerchio. Il suo aspetto mi confermò molte cose.

    Era simile al bosco deforme che riempiva la valle a sud di Ambra.Oh, padre mio! Che cos'ho fatto?dissi nel mio cuore; ma non c'era altra

    risposta che il Cerchio tenebroso, sotto di me, esteso a perdita d'occhio.Tra le barre della visiera, continuavo a guardarlo... carbonizzato, desola-

    to, fetido di putredine. In quei giorni vivevo con la visiera abbassata. Gliuomini la consideravano un'affettazione, ma il mio grado mi dava dirittoall'eccentricità. La portavo da due settimane, dopo la battaglia con Strygal-lswir. L'avevo messa la mattina dopo, prima di disarcionare Harald permantenere la promessa fatta a Lorraine, ed avevo deciso che, mentre riac-quistavo peso, avrei fatto meglio a nascondere il viso.

    Adesso pesavo poco meno di novanta chili, e mi sentivo di nuovo mestesso. Se avessi potuto contribuire a liberare la terra chiamata Lorraine,sapevo che avrei avuto almeno la possibilità di tentare ciò che più deside-ravo, e forse vi sarei riuscito.

    «È così,» dissi. «Non vedo truppe che si radunano.»«Credo che dovremo spingerci a nord,» disse Lance, «e senza dubbio levedremo, dopo l'imbrunire.»

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    «Molto a nord?»«Tre o quattro leghe. Si muovono spesso.»Avevamo cavalcato per due giorni, per raggiungere il Cerchio. Quella

    mattina avevamo incontrato una pattuglia ed avevamo saputo che le trup- pe, all'interno, continuavano a radunarsi ogni notte. Svolgevano esercita-zioni e poi se ne andavano — verso l'interno — verso il mattino. Sopra ilCerchio, venni a sapere, aleggiavano continuamente nubi temporalesche,sebbene la tempesta non scoppiasse mai.

    «Facciamo colazione qui e poi ci spingiamo verso nord?» domandai.«Perché no?» ribatté Ganelon. «Ho fame, e abbiamo tempo.»Smontammo e mangiammo carne secca e bevemmo attaccandoci alle

    borracce.«Non capisco ancora quel messaggio,» disse Ganelon, dopo aver ruttato,

    accarezzandosi lo stomaco e accendendo la pipa. «Sarà al nostro fianconella battaglia decisiva, o no? Dov'è, se intende aiutarci? Il giorno delloscontro si fa sempre più vicino.»

    «Dimenticalo,» dissi io. «Probabilmente era uno scherzo.»«Non posso, dannazione!» esclamò. «C'è qualcosa d'immensamente

    strano, in questa storia!»«Di che si tratta?» chiese Lance, e per la prima volta mi resi conto che

    Ganelon non glielo aveva detto.«Il mio vecchio sovrano, il principe Corwin, ha mandato uno strano

    messaggio per mezzo di un uccello dicendo che stava arrivando. L'avevocreduto morto, ma ha mandato il messaggio,» spiegò Ganelon. «Ancoranon so cosa pensarne.»

    «Corwin?» disse Lance, ed io trattenni il respiro. «Corwin di Ambra?»«Sì, Ambra ed Avalon.»«Dimentica il suo messaggio.»«Perché?»«È un uomo senza onore, e la sua promessa non vale nulla.»«Lo conosci?»«Ne ho sentito parlare. Molto tempo fa, regnava su questa terra. Non ri-

    cordi le leggende del principe demone? Era lui. Era Corwin, nei tempi prima che io nascessi. La cosa migliore che fece fu abdicare e fuggire,quando la resistenza contro di lui divenne troppo forte.»

    Questo non era vero!Oppure sì?Ambra getta una infinità di ombre, e la mia Avalon ne aveva gettate

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    molte a sua volta, a causa della mia presenza. Potevo essere conosciuto sumolte terre dove non avevo mai posto piede, perché ombre di me stesso sierano aggirate laggiù, imitando imperfettamente le mie azioni ed i miei pensieri.

    «No,» disse Ganelon, «io non ho prestato molta attenzione alle vecchieleggende. Mi chiedo se potevaessere lo stesso uomo, colui che regnavaqui. È interessante.»

    «Molto,» ammisi, per non farmi tagliar fuori dalla conversazione. «Mase regnava tanto tempo fa, ormai dovrebbe essere morto o decrepito.»

    «Era un mago,» disse Lance.«Quello che ho conosciuto io lo era sicuramente,» disse Ganelon, «per-

    ché mi bandì da una terra che ora nessuna arte o artificio può scoprire.»«Non me ne avevi mai parlato,» disse Lance. «Come avvenne?»«Non ti riguarda,» disse Ganelon, e Lance tacque.Estrassi la mia pipa — me ne ero procurata una due giorni prima — e

    Lance fece altrettanto. Era di coccio, si scaldava molto e tirava moltissimo.Accendemmo, e tutti e tre restammo seduti a fumare.

    «Be', aveva fatto la cosa più intelligente,» disse Ganelon. «Adesso non pensiamoci più.»

    Naturalmente, continuammo a pensarci. Ma evitammo l'argomento.Se non fosse stato per il Cerchio tenebroso, dietro di noi, sarebbe stato

    piacevole restare lì seduti a riposare. All'improvviso, mi sentii molto vici-no a quei due. Avrei voluto dire qualcosa, ma non sapevo che cosa.

    Ganelon risolse il problema affrontando di nuovo il nostro problema.«Dunque, vuoi attaccarli prima che loro attacchino noi?» chiese.«Infatti,» risposi. «Voglio portare il combattimento sul loro territorio.»«Il guaio è che si tratta del loro territorio,» disse Ganelon. «Lo conosco-

    no meglio di noi, e chi sa quali poteri potrebbero utilizzare?»«Uccidi il Capro, e si disperderanno,» dissi io.«Forse. O forse no. Magari tu ci riusciresti,» disse Ganelon. «A meno di

    un colpo di fortuna, comunque, non so se io lo potrei. È troppo malvagio per morire facilmente. Sebbene sia convinto di essere ancora valente comequalche anno fa, forse m'illudo. Forse mi sono rammollito. Non ho mai a-spirato a questo incarico!»

    «Lo so,» dissi io.«Lo so,» disse Lance.«Lance,» disse Ganelon, «dobbiamo fare come dice il nostro amico?Dobbiamo attaccare?»

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    Lance avrebbe potuto scrollare le spalle, equivocando. Ma non lo fece.«Sì,» disse. «L'ultima volta, è mancato poco che ci battessero. Molto po-

    co, la notte in cui morì re Uther. Se non li attacchiamo ora, credo che la prossima volta potrebbero sconfiggerci. Oh, non sarebbe facile, e noi in-fliggeremmo loro gravi perdite. Ma credo che la spunterebbero. Vediamocosa possiamo scoprire, adesso; e poi faremo i piani per l'attacco.»

    «D'accordo,» disse Ganelon. «Anch'io sono stanco di aspettare. Ripar-lamene quando saremo tornati, e decideremo.»

    E così facemmo.Quel pomeriggio ci spingemmo verso nord, e ci nascondemmo tra le col-

    line e guardammo il Cerchio dall'alto. Erano là, e compivano i loro riti, e siesercitavano. Calcolai che fossero circa quattromila. Noi avevamo all'in-circa duemilacinquecento uomini. E loro avevano anche strani esseri chevolavano, balzavano, strisciavano e facevano rumore nella notte. Noi ave-vamo cuori saldi. Già.

    A me bastava soltanto avere qualche minuto a quattr'occhi con il lorocapo, e la cosa si sarebbe risolta, in un modo o nell'altro. Tutto quanto. Non potevo dirlo ai miei compagni, ma era così.

    Vedete, ero io il responsabile di quella cosa laggiù. L'avevo creata io, espettava a me annullarla, se potevo.

    E temevo di non poterlo fare.In uno slancio di passione, di rabbia, d'orrore e di sofferenza, avevo sca-

    tenato quella cosa, che si rifletteva su tutte le terre esistenti. Tale è la po-tenza della maledizione del sangue di un Principe di Ambra.

    Li osservammo per tutta la notte, i Guardiani del Cerchio, e al mattinoripartimmo.

    Il verdetto fu: attaccare!Perciò cavalcammo per tutta la giornata, senza che niente ci seguisse.

    Quando arrivammo alla Fortezza di Ganelon, cominciammo a preparare i piani. Le nostre truppe erano pronte — forse anche troppo — e decidem-mo di attaccare entro due settimane.

    Mentre giacevo accanto a Lorraine, le riferii tutto questo. Sentivo che leidoveva saperlo. Avevo il potere di portarla via nell'Ombra... quella nottestessa, se lei avesse accettato. Ma non volle.

    «Rimarrò con te,»«D'accordo.» Non le avevo detto di avere la certezza che tutto era nelle mie mani; ma

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    ho la sensazione che lo sapesse e che, chissà per quale ragione, si fidassedi me. Non avrei dovuto: ma questo era affar suo.

    «Sai come potrebbero andare le cose,» dissi.«Lo so,» disse lei; e io sapevo che lo sapeva, e questo era tutto.Dedicammo la nostra attenzione ad altre cose, e più tardi dormimmo.

    Lei aveva fatto un sogno.Al mattino, mi disse: «Ho fatto un sogno.»«Che cosa hai visto?» chiesi.«La battaglia imminente,» rispose. «Ho visto te e il Capro impegnati in

    combattimento.»«Chi vince?»«Non so. Ma mentre dormivi, ho fatto una cosa che potrebbe aiutarti.»«Vorrei che non l'avessi fatto,» dissi io. «So badare a me stesso.»«Poi ho sognato la mia morte, nella stessa occasione.»«Lascia che ti porti in un luogo che conosco.»«No, il mio posto è qui,» mi disse.«Non pretendo di essere il tuo padrone,» obiettai. «Ma posso salvarti da

    ciò che hai sognato. Questo posso farlo, credimi.«Ti credo, ma non me ne andrò.»«Sei una sciocca.»«Lasciami restare.»«Se vuoi... Senti, ti manderò anche a Cabra...»«No.»«Sei una sciocca.»«Lo so. Ti amo.»«... e una stupida. Devi dire: 'Mi piaci'. Ricordi?»«Dillo tu,» fece lei.«Vai all'inferno!» dissi.Poi lei pianse, sommessamente, fino a quando la consolai.Lorraine era così.

    3

    Una mattina, ripensai a tutto ciò che era accaduto. Pensai ai miei fratellied alle mie sorelle come fossero carte da gioco, e sapevo che non era così.Ripensai alla clinica dove mi ero svegliato, ripensai alla battaglia per Am- bra, al percorso del Disegno in Arbma, e a quella notte con Moire, che a-

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    desso forse era di Eric. Pensai a Bleys ed a Random, Deirdre, Caine, Gé-rard ed Eric, quel mattino. Era il mattino della battaglia, naturalmente, enoi eravamo accampati sulle colline nei pressi del Cerchio. Eravamo statiattaccati molte volte, lungo la strada, ma erano stati brevi episodi di guer-riglia. Avevamo liquidato gli aggressori, ed eravamo andati avanti. Quan-do avevamo raggiunto la zona prestabilita, ci eravamo accampati, avevamo piazzato le guardie ed eravamo andati a dormire. Dormimmo indisturbati.Mi svegliai chiedendomi se i miei fratelli e le mie sorelle pensavano a mecome io pensavo a loro. Era un pensiero molto triste.

    Al riparo in un boschetto, con l'elmo pieno d'acqua insaponata, mi tagliaila barba. Poi indossai, lentamente, i miei colori sbrindellati. Ero di nuovoduro come la pietra, scuro come la terra, e feroce come l'inferno. Quelgiorno sarebbe stato decisivo. Misi l'elmo con la visiera abbassata, indossaiun usbergo di maglia, mi affibbiai la cintura e mi appesi al fianco Gra-yswandir. Mi fissai il mantello alla gola con una rosa d'argento, e vennirintracciato da un messaggero che mi cercava per dirmi che tutto era quasi pronto.

    Baciai Lorraine, che aveva insistito per venire con me. Poi montai sulmio cavallo, un roano che si chiamava Astro, e mi avviai verso le