Pino Boero – Carmine De Luca
La letteratura per l'infanzia
Roma-Bari, Laterza, 1995
Letteratura per l’infanzia
Prof.ssa Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata
Dipartimento di Scienze della formazione, dei beni culturali e del turismo
Classe: LM-85 bis
Anno Accademico 2014/2015
Capitolo II
Dopo l’Unità (1870-1878)
Dopo l’Unità d’Italia, la produzione di libri scolastico-educativi aumenta
notevolmente, arricchendosi di opere che conoscono un’immediata e ampia
diffusione.
Il panorama letterario si arricchisce di nuove testate, dal mensile «Piccole
letture» dell’editore torinese Giulio Speirani al quindicinale «Il Galantuomo» del
triestino Giuseppe Garzolini, dal bimensile fiorentino «Pietro Thouar», edito da
Galileiana, a «Le prime Letture», diretto dal poeta e narratore Luigi Sailer per la
Tipografia Editrice milanese di Giacomo Agnelli.
Anche sul fronte delle collane si assiste al consolidamento di importanti progetti
editoriali da parte di case editrici come la fiorentina Barbèra, la torinese Paravia,
la milanese Treves e la bolognese Zanichelli, che pubblica Le cento novelline morali;
e quattro nuovi racconti e I cento brevi racconti del canonico von Schmid.
La tendenza generale è quella di riproporre strutture, rimaneggiare
contenuti e temi già ampiamente accettati nel periodo precedente,
mentre sempre più incisiva si fa l’azione delle prime case editrici
specializzate, la cui geografia conferma l’assoluto primato di regioni come
Piemonte, Lombardia e Toscana, caratterizzate anche da tassi di
alfabetizzazione e scolarizzazione relativamente alti, se paragonati alla
situazione generale.
Dopo il completamento dell’unificazione politica si accende in Italia il dibattito
intorno alla questione della lingua da utilizzare nelle scuole.
L’insigne opinione di Alessandro Manzoni caldeggia l’adozione del
fiorentino parlato come lingua comune e, a tal proposito, promuove la
compilazione di un vocabolario che sia depositario del parlare comune e la
destinazione di insegnanti toscani nelle scuole di tutta Italia.
Altri intellettuali, tra i quali G.I. Ascoli, ritengono di dover considerare le
culture locali, fortemente connotate dall’espressione dialettale, ricche di
importante tradizione orale; secondo tale prospettiva il dialetto può svolgere
funzione mediatrice per l’acquisizione della lingua italiana, attraverso una
didattica contrastiva di confronto fra due lingue.
Entrambe le ipotesi non troveranno, però, seguito nella scuola reale italiana in
quanto troppo gravose e impegnative.
Nell’Italia Unita, l’industria editoriale vive un buon momento di
produttività: si ristampano testi già adottati in passato, con adattamenti alle
indicazioni dei Programmi vigenti, si pubblicano opere di nuovi autori. Libri
che, rigidi nella struttura e nel linguaggio, concorrono all’opera di
omogeneizzazione sociale e si inchinano ai valori dominanti presentando
modelli esemplari di virtù morali e civili.
Ad imporsi sulla scena narrativa sono soprattutto le opere contenute nel
catalogo dei fratelli Alessandro e Felice Paggi, fondatori, a Firenze,
dell’omonima casa editrice rilevata dal 1889 da Enrico Bemporad e creatori
della “Biblioteca scolastica”, uno dei primi progetti organici di collana
educativa pensati per l’Italia unita, che dal 1875 si avvalgono della
collaborazione del giornalista e scrittore Carlo Lorenzini, più noto come
Carlo Collodi, per la traduzione dei testi di Madame D’Aulnoy, di Madame
Leprince de Beaumont e dei Contes des Fées di Charles Perrault.
Pubblicati da Paggi sono anche i successivi Giannettino (1876), nato come
libro didattico ma rifiutato dall’ufficialità scolastica per il suo impianto
decisamente romanzesco e privo dei tipici toni edificanti della letteratura
coeva; Minuzzolo (1878), dove prevale una spiccata dimensione teatrale
percepibile nelle ambientazioni e nello stile, basato sul dialogo e sulla battuta;
La geografia di Giannettino, seguito da La grammatica di Giannettino (1879); il
composito Occhi e nasi (1880), diviso in due parti e costituito da una
raccolta di interventi scritti in un ampio arco cronologico; Il viaggio di
Giannettino in Italia in tre volumi (1880-86); il Libro di lezioni per la seconda
classe elementare (1889) e La lanterna magica di Giannettino (1890).
Il panorama educativo che si profila nel complesso della produzione collodiana
mostra sostanziali novità sia dal punto di vista della scrittura, che lascia spazio
anche ad elementi di lingua viva e parlata, che da quello dei contenuti, che
evidenziano un’inedita attenzione per le motivazioni spontanee dell’universo
infantile, attraverso l’idea di una pedagogia intesa come sforzo e impegno
intellettuale e di un sistema didattico basato sulla partecipazione attiva
all’apprendimento, integrando fonti di informazione di diversa provenienza.
Per la casa editrice Paggi lavora anche la fiorentina Ida Baccini che, dal 1878,
decide di lasciare il mestiere di insegnante per dedicarsi esclusivamente al
giornalismo e alla letteratura per ragazzi, collaborando a testate come il
«Giornale per i bambini» (1881) e la rivista per giovanette «Cordelia», che dirige
dal 1884. Nel 1895 apre il «Giornale dei bambini» destinato a fondersi, nel 1906
con il nuovo «Giornalino della Domenica».
Il testo che maggiormente la rappresenta, Memorie di un pulcino, vuole dar voce,
anche attraverso modi di dire popolari e proverbi, ai vissuti infantili inespressi che
l’autrice personifica nel piccolo animale.
In questo volume e in tutta la produzione successiva, da Il libro del mio bambino
(1888) a Come andò a finire il pulcino (1898), da L’abito nero è di rigore (1896) a
Con l’oro o con l’amore (1899), l’autrice propone un’ideologia fondata su un
complesso di idee e temi di riferimento collocabili nei più tipici schemi
educativi ottocenteschi: l’urgenza di esorcizzare la morte e le deformità infantili,
l’esaltazione dell’impegno della carità, l’importanza dell’ubbidienza.
Il testo Volere è potere di Michele Lessona è, invece, un esempio di letteratura
educativa rivolta non all’infanzia ma alla formazione degli adulti della classe
borghese, con contenuti valoriali da trasmettere ai ceti subalterni che
accedevano all’alfabetizzazione e alla partecipazione alla vita del nuovo Stato; si
configura così una tendenza letteraria finalizzata ad educare il popolo ad essere
tale. Volere è potere prende le mosse dall’inglese Self –help di Smiles, opera che
propone come possibile, auspicabile ed ammirevole l’ascesa sociale di chi,
lavorando con impegno e con intraprendenza personale, pur partendo da
modeste condizioni, sa giungere all’affermazione nel campo economico e
politico.
Lessona propone esempi di italiani che abbiano compiuto un simile
percorso e che possano fungere da modelli di operosità. La morale si
esprime attraverso proverbi, espressione della saggezza popolare, che
raccomandano la temperanza, la prudenza, la riservatezza, la laboriosità.
Tale progetto di educazione sostiene l’importanza dell’alfabetizzazione del
popolo per impedirne la ribellione e la violenza, di un’alfabetizzazione,
dunque, mirata e controllata nei contenuti.
Ida Baccini – La fanciulla massaia (1887)
Me ne stavo lavorucchiando nel mio salottino, quando venne a farmi visita la Rosa, mia pigionale. Dopo le
prime accoglienze, m’accorsi che la buona donna aveva gli occhi rossi; onde gliene chiesi subito la cagione.
-Che vuol ella, cara signora, - rispose la povera creatura singhiozzando, - quando si hanno delle figliuole
compagne alla mia, non si può far altro che piangere.
- Come mai? – dissi sorpresa; l’Ersilia, mi pareva una ragazza a modo.
- Eh! Prima era tale! Ma ora, dacché ha per le mani que’ benedetti libri, non la si riconosce più. È sempre a
predicare e a trattar di ciuchi tutti, inclusive il su’ babbo che, non fo questo per dire, gli ha una mano di
scritto che ce n’è pochine…
- Come va questa faccenda? – chiesi impensierita.
- La va così: prima, avanti di sdottoreggiar tanto, era una bambina tutta senno, una vera donnina di casa: la
faceva le su’ faccendine, e, a tempo avanzato, trovava anche il modo di sferruzzar qualche paio di solette al
merciaio. Sicuro, non sapeva la geografia né la ginnastica; per altro il suo nome, alla meglio, le riusciva; e, per
insegnar l’alfabeto al fratellino più piccolo, era più che capace. Ma si vede proprio che in questo mondo non
ci ha da esser bene, e il diavolo ci volle metter la coda. La gente che veniva in casa nostra cominciò a dire
del gran talento della bambina, e che bisognava metterla alle scuole. Il suo babbo non intese a sordo, e un
bel giorno condusse l’Ersilia ad iscriversi.
- Fin qui il male non ce lo vedo davvero, – dissi sorridendo; - anzi, la scuola, quand’è veramente degna del
suo nome, compie l’ufficio della famiglia, e ispira a’ figliuoli l’amore del bene. Dunque l’Ersilia?...
- A dirla a lei, le maestre n’andavan matte; ma io m’avvidi subito d’aver fatto un gran buco nell’acqua.
- Come mai?
Ida Baccini – La fanciulla massaia (1887)
- Che vuol ella! Io su quella figliuola non ci posso più fare assegnamento. L’è sempre a leggere o a
discorrere da sé sola come una giucca. Io ed il suo babbo non si può più discorrere per la paura di dir
qualche sproposito; la ci dà sempre sulla voce! E, quel che mi dispiace, ci fa scomparire anche in faccia alle
persone. Di lavorare non se ne ragiona! L’altro giorno volevo che mi riorlasse una sottana di verno; sie! Fu
come dire al muro; mi dette ad intendere, e forse sarà anche stato vero, che l’aveva da studiare una certa
scienza, dove s’insegna a misurare il caldo e il freddo come s’e’ si trattasse, ne più né meno, di cambri da tre
braccia un franco! Che posso stare?
- Sicuro, - risposi seria seria. – Quella scienza è la fisica, e lo strumento per mezzo del quale si può
misurare, come dite voi; il caldo e il freddo, si chiama termometro.
-Termò?...
-…metro.
-Guardi lei se questi son nomi da insegnarsi alle bambine! Epperò le non hanno più voglia di mettere un
punto! Ieri, poi, mi sentivo mezz’e mezza, e mi raccomandai con le braccia in croce perché mi facesse una
scottatura di camomilla. Me la fece infatti, ma come! Pareva tale quale la bevanda che dettero a Nostro
Signore.
- Povera donna!
- Ma su questo, transeat; quel che non posso buttar giù è la superbia che ha messo. La si vergogna persino di
me, signora mia!
- Vi parrà…
Ida Baccini – La fanciulla massaia (1887)
- Mi parrà? O senta: oggi a otto, ebbi bisogno d’andare alla su’ scuola, per via d’un certo lavoro che avevo
dato a fare alla custode. Mentre discorrevo con questa donna, passò dal corridoio l’Ersilia con una bella
signorina a braccetto. «Chi è quella donna che parla con l’inserviente?» chiese quest’ultima alla mi’ figliola.
«Non la conosco,» rispose lei, e scappò. Io l’avrei schiaffata volentieri, ma la passione fu più forte della bile;
e tornai a casa piangendo. Ero senza cappello e senza scialle, gli è vero; ma le figliuole per bene non si
devono mai vergognare delle loro mamme.
- Povera Rosa, - dissi intenerita, - la vostra è senza dubbio una grande sventura; peraltro sarebbe assurdo
incolpare la scuola, o i libri, o gli studi. L’istruzione, quand’è ben diretta, dev’esser luce che consola e non
tenebra che sconforta; l’istruzione che toglie il povero all’abbruttimento dell’ignoranza, che gl’insegna coi
doveri anche i diritti, che gli abbellisce la casa, che gli rende cara la vita della famiglia, quest’istruzione,
bisogna convincersene, Rosa, è un benefizio, di cui non potremmo mai mostrarci grate abbastanza.
- Ma l’Ersilia…
- L’Ersilia è una povera malatina che bisogna guarire e che guariremo. Mi guardate con codesti occhioni
spalancati, Rosa? Vi accerto che è così. La vanità, l’orgoglio, l’ingratitudine, che cosa sono, se non malattie
terribili dell’anima? E si guariscono, sapete? Ma con due sole medicine: la pazienza e l’amore. –
Così ebbe fine il colloquio.
Ebbi occasione di veder l’Ersilia dopo qualche giorno. Non le nascosi la conversazione avuta con sua madre,
e le mie parole ebbero virtù di farla piangere.
Carlo Collodi – Giannettino (1882)
-O alllora, secondo lei, che cosa dovrei fare in questo mondo? – domandò Giannettino.
- Tocca a te dirlo. Qual è la tua vocazione
- La mia vocazione – rispose il ragazzo dopo averci pensato un poco – sarebbe quella di fare il signore.
- Male! Male! – urlò il Capitano con una vocina che fece tremare tutta la stanza. – Caro mio, l’arte di fare il
signore, come costumava una volta, oggi non c’è più. Ai nostri tempi e in mezzo alla società presente, tutti
abbiamo bisogno di lavorare, tutti, tienlo bene a mente: ricchi e poveri, artigiani e possidenti. Un uomo, alla
giornata d’oggi, che, per l’unica e sola ragione di esser ricco, non sapesse far nulla o non volesse far nulla,
non sarebbe più nemmeno un uomo; ma diventerebbe un zero, un chinese di gesso, da mettersi per figura
sopra il camminetto.
- Debbo fare l’avvocato? – chiese Giannettino.
- Ce ne sono troppi – osservò scherzando il Capitano.
- Il medico?
- Ce ne sono abbastanza.
- Allora non so più che cosa scegliere… Ho capito; studierò il disegno e farò il pittore.
- Perché no? Ma bada bene che ci vuole una vocazione, una vera vocazione, una fortissima vocazione. Guai a
quei giovinetti che dicono: farò il pittore, lo scultore o l’architetto, e lo dicono colla stessa svogliatezza e
indifferenza, come se dicessero: farò l’usciere di tribunale, il merciaio, il giovine di banco, il fabbricante di
candele steariche o di sapone. L’arte è una cosa bella e divina, non lo nego: ma l’artista, se vuol davvero
procacciarsi un nome e una vita comoda e onorata, bisogna che sappia uscire dall’oscurità e malinconica
mediocrità: perché credilo a me, la vita degli artisti oscuri e mediocri, cioè di quegli artisti, che non hanno
né ingegno per far bene, né coraggio per barattar mestiere, è tutta la vita di patimenti, di disinganni e di
afflizioni di spirito.
Carlo Collodi – Giannettino (1882)
-O dunque? – disse Giannettino.
- Io forse ti parrò di difficile contentura, - soggiunge lo zio, - ma non è vero. Ho detto il mio parere chiaro
e tondo e nulla più. Del rimanente, convengo anch’io che tutte le arti e tutte le professioni possono essere
eccellenti, massime se esercitate con amore e con coscienza, e anche con un tantino di fortuna: perché
nelle cose di questo mondo un po’ di fortuna non guasta mai! Per conseguenza fa pure, se così ti piace, o
l’impiegato, o l’avvocato, o il medico, o il pittore; ma rammentati che qui in Italia c’è un campo quasi vergine
e che promette tesori: e questo campo è quello delle arti meccaniche, dell’industria e del commercio. Se i
nostri ragazzi rivolgessero al commercio e all’industria i loro studi e la loro operosità sono sicuro che
farebbero la propria fortuna e quella del paese.
- Dimmi, Capitano, - domandò la signora Sofia, - se tu avessi avuto un figlio, per quale arte o professione
l’avresti tirato su?
- Se io avessi avuto un figlio, se questo figlio avesse dovuto provvedere col lavoro alla propria vita, io l’avrei
consigliato fin da ragazzetto a studiare quattro cose, cioè: la lingua italiana, la francese, l’inglese e l’arte di
tenere i libri a scrittura doppia, come dicono i computusti e i maestri di casa. Io ho viaggiato molto, ho
visitato mezzo mondo, e ormai so quel che avviene in casa e fuori di casa. E a furia di osservare e di
studiare mi son persuaso che un giovanetto, il quale sappia bene queste quattro cose è lo stesso che abbia
in tasca un piccolo patrimonio e una rendita assicurata. In qualunque parte della terra andrà, starà sempre
bene come in casa sua, perché egli intenderà gli altri e gli altri intenderanno bene lui. In una parola, non sarà
mai forestiere in nessun paese: e male male che gli vada, non gli potrà mancare né un impiego né un
boccone di pane.
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