Mario Luzi
Valerio Magrelli
Giovanni Raboni
MODERA:
Paolo Di Stefano
Poetandoin Italiano
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Paolo Di Stefano Siamo al terzo appuntamento del ciclo Madrelingua
promosso dalla Fondazione Corriere della Sera. Questa sera abbiamo i poe-
ti in lingua, dopo aver avuto i narratori e aver messo a fuoco anche alcune
posizioni molto conflittuali tra loro: chi, da una parte, aderisce totalmen-
te e accoglie la lingua d’uso, la lingua corrente, i cascami di questa lingua
che si dice degradata, e chi, invece, si pone come resistente rispetto a tut-
to ciò e dunque ritiene che la lingua vada in qualche modo ricreata anche
nei suoi aspetti di ricerca storica ed etimologica. Questa sera chiederemo
ai nostri quali siano, per così dire, i confini della poeticità, e cioè se oggi,
dal momento che forse la parte più consistente della poesia italiana negli
ultimi decenni tende ad andare verso la prosa, i confini si siano allargati
a tal punto da poter accogliere davvero tutto.
Per tenere le fila di questo discorso abbiamo con noi Valerio Magrelli e
Giovanni Raboni. Purtroppo Mario Luzi è a casa costretto da una influenza
e non gli è stato possibile venire qui questa sera. Abbiamo cercato di ri-
mediare in due modi: il primo è un’intervista telefonica che ho fatto a Luzi
questa mattina e che trasmetteremo subito, e poi, abbiamo chiesto al gran-
de attore Giancarlo Dettori di leggere alcune poesie dello stesso Luzi.
Professor Luzi, nel passaggio dalla stagione ermetica ad oggi, che cosa è
cambiato nel rapporto della sua poesia con la lingua?
Mario Luzi È un discorso piuttosto complesso perché coinvolge una
quantità di dati o eventi. Io ho cominciato con La barca, che non so se
possa essere ascritta alla stagione ermetica, perché si tratta di una materia
molto discutibile… Si tratta, credo di una lingua aperta, confidente, alla
caccia delle cose e delle emozioni elementari. La lingua che poi è stata
identificata ideologicamente dai commentatori come ermetica, è quella
più che altro di Avvento notturno. Che cosa era accaduto? Era accaduto che
quella realtà molto circoscritta che avevo affrontato ne La barca, era stata
alterata, intossicata dagli eventi posteriori, dal nazismo e dalla mercifica-
zione del fascismo. In quel momento storico, la lingua tese molto a di-
ventare ermetica, a sbilanciarsi in senso simbolico. Ma una volta caduto,
seppur faticosamente, questo diaframma tra la realtà inaccettabile, tra il
rifiuto del mondo e le cose che si presentavano nella loro povertà, nella
loro elementarità, passata la guerra e ripreso un po’ il cammino della ri-
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costruzione, la lingua tornò a essere la lingua dell’incontro, delle cose, de-
gli uomini, del colloquio. C’è un passaggio molto notevole in questo pe-
riodo: alludo, per rimanere alla mia esperienza, al momento in cui la lin-
gua anche del parlato, la lingua degli uomini e dei loro commerci e biso-
gni, diviene la lingua che la poesia potrebbe usare, la protagonista di una
nuova fase creativa.
Di Stefano La relazione stretta che Lei ha intrattenuto da sempre con
la cultura francese, anche attraverso il lavoro di traduttore: quanto ha in-
ciso sull’elaborazione della sua lingua poetica?
Luzi Certo che ha inciso, soprattutto nella prima fase, in quella ermetica,
diciamo, nella fase dell’infatuazione simbolica del linguaggio e specialmen-
te nelle figure di Verlaine e di Mallarmé, ma anche di Rimbaud. La lingua
francese rispetto alla nostra è molto più formalizzata, e la mia esperienza di
traduttore, ma anche di poeta che ha un po’ ri-tradotto, si imbatte costan-
temente in questa differenza. La lingua francese fin dal Cinquecento è gram-
maticalizzata rigorosamente, la nostra, nonostante il Bembo e tutto il resto,
in fin dei conti rimane una lingua molto duttile e molto esposta alle avven-
ture mentali e di altro ordine e genere. Quindi c’è sempre questo scontro,
direi, fra una disciplina difficile da superare e, invece, una lingua che si pre-
sta anche alle invenzioni personali. Io ricordo che quando ero alla prese con
qualche amico che traduceva cose mie e che conosceva l’italiano anche ab-
bastanza bene, le infrazioni della grammatica o dell’ordine formale della lin-
gua erano oltremodo difficili. “Ma non si potrebbe?...” dicevo io, “No, noi
non possiamo…”, mi veniva risposto. Si trattava di uno scontro amichevo-
le fra due lingue molto vicine, ma in realtà in questo molto differenti. Ci sa-
rebbe molto da dire sulle proprietà della lingua italiana, che per me rima-
ne una lingua meravigliosa, finché rimane una lingua, vista la piega che han-
no preso le cose con l’informatica e via dicendo.
Di Stefano Ecco, parlando non solo al poeta in proprio ma anche al
critico, il passaggio del pieno Novecento dalla ‘poesia-poesia’ alla ‘poesia-
narrativa’, come ha trasformato la lingua della lirica italiana?
Luzi Io ho delle opinioni un po’ personali su questo. Voglio dire, la lin-
gua è un cantiere, un cantiere sempre in attività, entro cui ognuno di noi
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lavora e studia. Tutte le fasi di questo lavoro hanno il loro riscontro.
Definizioni quali quella di “poesia-poesia” sono senz’altro utili, ma non so
se la “poesia-narrativa” possa essere considerata una forma altra rispetto
alla “poesia-poesia”. Il grado di in-
tensità linguistica e stilistica in sé,
direi, porta a un livello poetico
le cose. Sì, certamente ci sono
delle situazioni, che spesso co-
incidono con delle mode, in cui
si predilige il prosastico al poeti-
co, ma anche questo è da ridere. Io,
per esempio - e scusate se ricorro ancora alla mia esperienza - ho scritto
un libro che si chiama Nel magma, e molti hanno scritto che in questo ca-
so avevo ceduto e fatto delle concessioni al prosastico. Questa è una per-
cezione che io non ho avuto. Io ho cercato, nel discorso che necessitava
di essere detto, di approfittare di tutte le possibilità espressive che quel te-
ma mi suggeriva. Quindi ho valorizzato anche quelle parti della nostra
lingua che sono state ritenute stilisticamente più inerti, i pronomi, gli av-
verbi. A un certo punto il grado di energia della poesia richiede il mate-
riale più opportuno, è come una fornace che va alimentata con l’appro-
priato combustibile. A questo punto della mia lunga storia di scrittore, eli-
mino queste distinzioni, perché ritengo che vi sia UN cantiere, dove noi
viviamo e operiamo, anche dal punto di vista linguistico. Mi ritengo for-
tunato, in un certo senso, ad aver operato nel cantiere dell’ italiano, che
è stato forse più faticoso e più laborioso di altri, però, per contro, molto
attivo. Quando leggo il discorso di Manzoni sulla lingua, mi rendo conto
quanto siamo ormai lontani da quelle pur acutissime osservazioni: è pas-
sato più di un secolo da allora, ma il problema ha camminato, ha cam-
minato la fattualità dell’espressione umana nell’ambito dell’italiano.
Di Stefano A questo punto possiamo sentire dalla voce di Giancarlo
Dettori tre poesie di Luzi. La prima si intitola Alla vita ed è tratta da La
barca, del ’35, poi Ménage, da Nel magma, del ’63, e la terza ha come pri-
mo verso Dentro la lingua avita, ed è tratta da un libro recente, del ’94,
Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini.
55IL GRADO DI INTENSITÀ LINGUISTICA
E STILISTICA IN SÉ PORTA A UN LIVELLO
POETICO LE COSEM. Luzi
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ALLA VITAAmici ci aspetta una barca e dondola
nella luce dove il cielo si inarca
e tocca il mare,
volano creature pazze ad amare
il viso d’Iddio caldo di speranza
in alto in basso cercando
affetto in ogni occulta distanza
e piangono: noi siamo in terra
ma ci potremo un giorno librare
esilmente piegare sul seno divino
con rose dai muri nelle strade odorose
sul bimbo che le chiede senza voce.
Amici dalla barca si vede il mondo
e in lui una verità che procede
intrepida, un sospiro profondo
dalla foce alle sorgenti;
la Madonna dagli occhi trasparenti
scende adagio incontro ai morenti
raccoglie il cumulo della vita, i dolori
le voglie segrete da anni sulla fascia inumidita.
Le ragazze alla finestra annerita
con lo sguardo verso i monti
non sanno finire d’aspettare l’avvenire
Nelle stanze la voce materna
senza origine, senza profondità s’alterna
col silenzio della terra, è bella
e tutto par nato da quella.
(da La barca, in Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1998)
MÉNAGELa rivedo ora non più sola, diversa
nella stanza più interna della casa,
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nella luce unita, senza colore né tempo, filtrata dalle tende
con le gambe tirate sul divano, accoccolata
accanto al giradischi tenuto basso
“Non in questa vita, in un’altra” folgora il suo sguardo gioioso
eppure più evasivo e come offeso
dalla presenza dell’uomo che la limita e la schiaccia.
“Non in questa vita, in un’altra” le leggo bene in fondo alle pupille.
È donna non solo da pensarlo, da esserne fieramente certa.
E non è questa l’ultima sua grazia
in un tempo come il nostro che pure non le è estraneo né avverso.
“Conosci mio marito, mi sembra” e lui sciorina un sorriso importunato
pronto quanto fuggevole, quasi voglia scrollarsela di dosso
e ricacciarla indietro, di là da una parete di nebbia e d’anni;
e mentre mi si accosta ha l’aria di chi viene
da solo a solo, tra uomini, al dunque.
“C’è qualcosa da cavare dai sogni?” mi chiede fissando su di me i suoi occhi
vuoti
e bianchi, non so se di seviziatore, in qualche villa triste, o di guru.
“Qualcosa di che genere?” e guardo lei che raggia tenerezza
verso di me dal biondo del suo sguardo fluido ed arguto
e un poco mi compiange, credo, d’essere sotto quelle grinfie.
“I sogni di un’anima matura ad accogliere il divino
sono sogni che fanno luce; ma ad un livello più basso
sono indegni, espressione dell’animale e basta” aggiunge
e punta i suoi occhi impenetrabili che non so se guardano e dove.
Ancora non intendo se m’interroga
o continua per conto suo un discorso senza origine né fine
e neppure se parla con orgoglio
o qualcosa buio ed inconsolabile gli piange dentro.
“Ma perché parlare di sogni” penso
e cerco per la mia mente un nido
in lei che è qui, presente in questo attimo del mondo.
“E lei non sta facendo un sogno?” riprende mentre sale dalla strada
un grido di bambini, vitreo, che agghiaccia il sangue.
“Forse, il confine tra il reale ed il sogno…” mormoro
e ascolto la punta di zaffiro
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negli ultimi solchi senza note e lo scatto.
“Non in questa vita, in un’altra” esulta più che mai
sgorgando una luce insostenibile
lo sguardo di lei fiera che ostenta altri pensieri
dall’uomo cui porta, e forse li desidera, le carezze ed il giogo.
(da Nel magma, in Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1998)
Dentro la lingua avita,
fin dove
fino a quale primo seme
della balbuzie umana?
Discende quei dirupi lui, si cala
in precipizi, lungo venature e fibre
vibranti alcune
altre ossificate
da disuso e tempo.
Lo attirano
nel loro religioso grembo
recessi, labirinti,
pelaghi di densa oscurità
verso le infime radici,
fino
all’ancora muto verbo
muto ma
conclamato
già, forte, dalla sua imminenza.
Ed eccolo-oh felicità- è visibile
l’altro cielo della spera
non toccato dalla creazione,
non abitato dal pensiero
ma dalla sua potenza.
Ed è paradiso.
(da Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, in Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1998)
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Di Stefano Davvero grazie a Giancarlo Dettori, penso che di meglio
non potessimo sperare.
Mi riallaccerei, ora, all’ultima parte del discorso di Luzi, sul confine mol-
to labile, o addirittura inesistente, come dice lui, fra prosasticità e quel
che è poetico. Sia Valerio Magrelli che Giovanni Raboni, negli ultimi libri,
hanno inserito spesso dei brani in prosa. Volevo chiedere, allora, magari
cominciando da Magrelli, c’è questo confine, come si configura? Quali so-
no i confini della poeticità?
Valerio Magrelli Stavo ascoltando l’intervento di Mario Luzi con gran-
de attenzione e stupore. Pensavo alle date. Ho appena finito di leggere un ro-
manzo di Nabokov, credo che sia il suo ultimo russo, Il dono, che è proprio
del ’35-37, quindi è perfettamente contemporaneo alla prima delle poesie
che abbiamo ascoltato. Questo apre nel Novecento una profondità davanti
alla quale parlare di quanto sia cambiata la poesia mi fa un po’ sorridere.
Comunque, devo dire che per me la prosa è stato un punto d’arrivo, dai te-
sti che avevo cominciato a scrivere intorno al ’75, e in qualche misura ha
avuto a che fare con un’apertura all’ascolto, sulla scia di quello che diceva
Luzi. Potrei dire che i miei primi testi erano molto monolingui, monoscopi-
ci, molto bloccati, fermi, e, progressivamente, grazie anche alla prosa, ho cer-
cato anche di raccontare quello che avveniva intorno a me. Questo, ovvia-
mente, è un racconto che invento adesso retrospettivamente, e che non cor-
risponde a nessun progetto vero e pro-
prio.
Vorrei cercare di spiegarlo attra-
verso due testi molto recenti, fra
gli ultimi che ho scritto, tre o
quattro anni fa, in una raccolta
che s’intitola Didascalie per la lettu-
ra di un giornale, che si pone proprio
agli antipodi di quello che avevo cominciato
a fare verso la metà degli anni Settanta. Il mio primo libro era tutto chiuso os-
sessivamente su alcuni nuclei tematici: il sonno, la pagina, la visione. L’ultimo
diviene invece il tentativo, in qualche forma anche aberrante, di dar conto di
quanto succede nel panorama metropolitano, nel panorama linguistico e pae-
saggistico della città. Penso in particolare alle nuove lingue. Ogni sezione del
libro si riferisce a un’ideale sezione di giornale: queste due poesie vanno sot-
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IL MIO PRIMO LIBRO ERA TUTTO CHIUSO
OSSESSIVAMENTE SU ALCUNI NUCLEI
TEMATICI: IL SONNO, LA PAGINA, LA VISIONEV. Magrelli
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to la voce La nostra città, che trovate in qualsiasi quotidiano; esse sono in qual-
che modo il tentativo, che cercavo di approfondire anche sul piano linguisti-
co, di parlare di una strana tribù, che è quella dei ragazzi, degli adolescenti,
che io intendo realmente come degli esseri mutanti, anche dal punto di vista
fisico. Secondo me la giovinezza ha davvero qualcosa delle Metamorfosi ovi-
diane, qualcosa di spaventoso, in questi nasi che improvvisamente diventano
da adulti mentre gli zigomi sono rimasti quelli di bambini. Io vedo gli adole-
scenti come dei campi di forze che li deformano, li straziano prima di portarli
alla maturità. Queste due poesie parlano del loro linguaggio.
La prima poesia parla dei graffiti e nasce da una coincidenza, cioè dall’aver
visto un graffito su un citofono. C’è stata una sovrapposizione: la parola ci-
tofono si è offerta come una chiave per spiegare queste immagini.
LA NOSTRA CITTA’: GRAFFITIDa dove sbuca questa lingua fetale,
con i suoi guizzanti caratteri
alfanumerici?
Chi parla l’interlingua-spray
dai muri, dai tram, dai citofoni?
Cosa cerca di dire
questa citofonata lingua
che dal basso chiama?
(da Didascalie per la lettura di un giornale, Einaudi, Torino 1999)
Cerco dunque di raccontare queste tribù, queste realtà lontane da me, per
me letteralmente intraducibili, e che vedo esprimersi in questo caso at-
traverso gesti, attraverso la trasformazione del paesaggio. Mi riferisco in
certe città, per esempio all’uso di scivolare su piani inclinati come per tra-
sformare spazi e volumi architettonici in strumenti musicali. Forse qui c’è
anche, ironicamente, Fortini sullo sfondo, un libro che mi piacque mol-
to, Paesaggio con serpente:
LA NOSTRA CITTA’: PAESAGGIO CON SKATEPur di far suonare i monumenti
trasformano in tastiera le scalinate
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traendo da ringhiere
o rampe arpeggi araldici
e glissano a lungo estenuati
esclusi, solidali,
nel mélos del loro teppismo
con purezza ferita
e manierismo,
con tribale dandismo
puberale.
(da Didascalie per la lettura di un giornale, Einaudi, Torino 1999)
Spero di aver indirettamente risposto.
Di Stefano Giovanni Raboni comincia con una poesia dai versi mol-
to dilatati, che, appunto, si avvicinano alla prosa, e conclude negli ultimi
libri con la forma chiusa, di cui poi magari parleremo, e soprattutto con
questi inserti di prosa vera e propria. Basta la scansione dei versi, o me-
glio, la visibilità della scansione in versi, per definire la poesia, oppure c’è
altro?
Giovanni Raboni Mah, hai toccato un punto molto importante che
infatti pensavo di riprendere brevemente. La lingua è una questione e la
differenza ritmica istituzionale fra prosa e poesia è un’altra. Finora abbia-
mo piuttosto parlato della lingua, così anche Luzi nel mirabile interven-
to che abbiamo appena ascoltato. Si è dunque accennato a che tipo di lin-
gua egli abbia usato, e a come essa si sia dunque venuta avvicinando al
parlato, dopo un periodo di stilizzazione in senso simbolico. Ha spiegato
anche molto bene le ragioni storiche di questo, e io non ho nulla da ag-
giungere a quello che è stato detto. Effettivamente, è successo questo nel-
la poesia italiana a partire dal dopoguerra, in un momento in cui la poe-
sia si era attestata su posizioni di resistenza alla realtà. È seguita un’aper-
tura verso il reale, e dunque verso il parlato e verso la colloquialità, ver-
so il nominare il maggior numero possibile di oggetti. Questo si può ve-
dere nella poesia di Luzi, nella poesia di Sereni, soprattutto a partire da-
gli anni Cinquanta, Sessanta, e si vede anche nei poeti più giovani. La que-
stione dei confini tra prosa e poesia è un po’ un’altra, si può scrivere una
poesia che sia molto caratteristicamente poesia anche usando la lingua di
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tutti i giorni, dando l’importanza che nella poesia ha sempre avuto il me-
tro, il ritmo. Io personalmente, fino a un certo momento ho teso a una
prosasticizzazione anche dal punto di vista ritmico, poi mi è parso di sen-
tire il bisogno, e pare che questo bisogno non sia solo personale, di un re-
cupero di una forma più precisa. Ma questo non influisce sulla lingua, an-
zi, oserei dire un po’ il contrario, quanto più m’interessa restituire una
struttura alla poesia, attraverso il recupero di forme della tradizione come
il sonetto e così via, tanto più sento il bisogno invece di usare una lingua
che sia molto vicina alla lingua della comunicazione. Sono due problemi
completamente diversi. Ha ragione Luzi quando dice che i confini della
lingua della prosa e della lingua della poesia si sono venuti attenuando,
quasi cancellando: rimane uno statuto ritmico, metrico, che è proprio del-
la poesia e che la prosa non ha.
Di Stefano Magrelli, tu hai cominciato, credo, con l’antologia uscita
da Feltrinelli La parola innamorata (raccolta di autori diversi a cura di Enzo
Di Mauro e Giancarlo Pontiggia, pubblicata nel 1978, n.d.r.). Ecco, que-
sto sintagma, la parola innamorata, dava l’idea, di una poesia in qualche
modo autoreferenziale, che non è assolutamente la tua, una definizione
che voleva indicare una tendenza nella tua generazione. Ma questa poe-
sia che si rispecchia in se stessa non ti appartiene. Come ti sei posto di
fronte alla tua generazione, diciamo, soprattutto con quel primo libro?
Magrelli Mi vengono in mente proprio quegli anni, siamo del ’77-78.
Ricordo una presentazione che di questa antologia venne fatta a Bergamo:
eravamo diciassette autori e un’unica persona tra il pubblico. Ricordo quel
momento perché spiega molte cose; in realtà eravamo, e in molti casi il
rapporto è continuato, un gruppo di amici, con un interesse ed una pas-
sione evidentemente molto forte, ma non con delle reali vicinanze di poe-
tica. Io, in particolare confesso di essermi sentito sempre un po’ estraneo,
al di là di una sintonia e di una simpatia vera per lo slancio che caratte-
rizzava quell’antologia. Io non mi sentivo molto “innamorato” nel senso
che questo termine ha potuto avere, nel senso di una prospettiva orfica.
In realtà io venivo da tutt’altro clima e registro.
Ho cominciato a scrivere in ospedale: l’incidente, da cui ho preso le
mosse, ha un po’ segnato, più di quanto forse non si veda, il mio rap-
porto con la scrittura. Prima citavo un romanzo, mi piacerebbe ricor-
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darne un altro: io sono stato estremamente colpito, sorpreso quando
ho potuto leggere Crash di Ballard. È un po’ quello il mondo nel qua-
le mi riconosco di più, calcando magari un po’ sulla perversione che
segna questo grande autore. Quindi c’è stato un equivoco, probabil-
mente di tipo critico, che rivendico, però, con molto affetto a distanza
di tempo.
Vorrei portare ancora un esempio rispetto a questa idea della “madre lin-
gua”, del tentativo di aderire, volta per volta in forme diverse, a un lin-
guaggio che varia. Vorrei farlo di nuovo con una poesia. Ne approfitto co-
sì per mostrare in che maniera si formino queste cristallizzazioni: la poe-
sia spesso nasce da una cristallizzazione di tipo lessicale. Si tratta di una
poesia che ha a che fare con un linguaggio nuovo, quello dell’ingegneria
genetica, ma che nasce in un momento in cui - mi piace approfittarne per
raccontare quello che avviene dalla parte dell’autore - quando, dicevo, un
elemento di questo genere, che attraversa i nostri teleschermi, voglio di-
re, in qualche modo si impiglia in ciò che appartiene al nostro patrimo-
nio, depositato, stratificato negli anni. Questa poesia è intitolata L’occhio
di Dolly, nella rubrica Medicina, e parla della pecora che conosciamo be-
ne. Ma per me questa poesia è nata innanzitutto dall’etimo “Dolly”, che
passa inosservato, normalmente, e invece diventa in questo caso il centro
del testo. Vorrei provare a dare gli ingredienti di questo testo - anche qui
è un lavoro a posteriori che mi diverte fare, forse smontando qualcosa che
si è creato, probabilmente generato per semplice corto circuito. C’è da una
parte questa immagine che ci ha turbato, dall’altro un elemento linguisti-
co forte, Dolly, sul quale qualcosa comincia a muoversi. Dolly è l’abbre-
viativo di “Dorotea”, cioè “dono di Dio”. Su questo primo elemento si de-
posita una suggestione di carattere culturale che inerisce alle letture che
avevo fatto durante il liceo, nella fattispecie Rimbaud, che io scoprii nel-
la traduzione di Ivos Margoni, e nella cura di Ivos Margoni: mi riferisco
all’enorme apparato di note che accompagna l’edizione che ancora oggi è
disponibile. C’è un poesia molto bella in cui Rimbaud usa un aggettivo,
che io non riuscivo a capire e anche per i francesi non è molto frequen-
te. Il verso in questione è : «Et pour des visions écrasant son oeil darne». In
una nota Margoni aveva scritto «nella Francia del Nord questo aggettivo, dar-
ne, per l’appunto, significa colpito da vertigine, da abbacinamento», cioè “al-
lucinato”, aggiungendo, e questo a distanza di anni mi era rimasto in men-
te per la sua assurdità, diciamolo francamente, «questo aggettivo si usa so-
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prattutto per gli ovini». Leggendo Rimbaud, senza alcun motivo, mi era ri-
masta in mente questa poesia che ruota su un aggettivo che si applica al-
le pecore. Anni dopo, ecco L’occhio di Dolly: si crea in qualche modo, ri-
peto, un’interferenza, una sovrapposizione da cui, quasi per rendere con-
to di quello che sta succedendo, nasce questo testo. Vorrei soltanto come
un’ultima indicazione, come ultima traccia, richiamare la presenza di
Caproni e le sue meditazioni, ricordando quella che egli, soprattutto nel-
la sua ultima fase, con un’immagine straordinaria, chiamava teopatia, la
“malattia di Dio”.
MEDICINA: L’OCCHIO DI DOLLYMentre noi festeggiamo il cinquantesimo anniversario
della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani,
proliferano pecore sintetiche.
Il nome della prima è stato “Dolly”,
dal greco “Dorotea”. Dono di Dio?
Strappatagli, piuttosto, prototipica,
teo-repellente creatura.
Guardate come il doppio la abita
e trapela dal suo sguardo. Sta lì
come un miraggio, sosia, corpo vicario,
ombra che sembra attendere il ritorno
di qualcuno.
E’ il viandante smarrito
alla biforcazione della razza.
(da Didascalie per la lettura di un giornale, Einaudi, Torino 1999)
Ecco, voglio dire, un testo così è molto diverso da quelli che, a torto o a
ragione, andarono a finire ne La parola innamorata.
Di Stefano Giovanni Raboni, la tua poesia, specialmente quella dei
primi anni, è stata inserita verso quell’etichetta, fortunata anche se non so
fino a che punto pertinente, che è la “linea lombarda”. Secondo te, a di-
stanza di anni, c’è una riconoscibilità linguistica, in quella che veniva ap-
punto definita da Ceschi la “linea lombarda”?
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Raboni Credo di sì. Credo che sia successo questo, cioè che l’unica ri-
conoscibilità rimasta sia proprio quella linguistica. Si è passati attraverso
vari equivoci: all’inizio si pensava fosse una sorta di distinzione di tipo pae-
saggistico, per cui i “lombardi” erano avvicinati ai “laghisti” inglesi. Poi si
è fatta avanti un’interpretazione di tipo, diciamo, più contenutistico, come
se ci fosse nei poeti lombardi un’istanza etica particolarmente forte, con ra-
dici nell’illuminismo, in Manzoni e così via. Questa è un po’ meno stram-
palata come idea, però non mi pare che sia oggi ancora sufficiente a tene-
re insieme questo gruppo, che, ricordo, comprende un poeta come Sereni,
che poi ha avuto uno sviluppo straordinario, insieme a Erba, Risi, Orelli.
Mi pare che forse quello linguistico sia effettivamente il criterio per indivi-
duare delle somiglianze. C’è, secondo me, un lavorare dentro la lingua del-
la grande tradizione poetica, italiana e novecentesca in particolare, con una
inflessione appunto di colloquialità. Io personalmente, in questo mi rico-
nosco, poi è chiaro che ciascuno ha fatto le sue cose.
Di Stefano Curiosamente, non ci sono dialettali in questo gruppo.
Raboni Non ci sono dialettali, ma sono in un certo modo tutti poeti
che dimostrano una particolare sensibilità verso l’inflessione dialettale. E
poi il grande problema e la grande vitalità della lingua italiana stanno pro-
prio in quello: avere una storia molto lunga, molto più lunga del france-
se, per esempio, cosicché noi possiamo leggere Dante e Petrarca, mentre
i francesi non possono leggere poeti a questi contemporanei; si tratta in-
fatti proprio di un’altra lingua rispetto al francese moderno, che si è co-
dificato e si è formalizzato nella sua veste cinquecentesca. L’italiano è l’op-
posto, ha una storia più lunga come lingua, una permanenza più lunga,
quindi una comprensibilità di testi ormai lontanissimi, e però poi dentro
l’italiano via via si sono sciolti i dialetti. L’italiano è stato per secoli e se-
coli una lingua quasi esclusivamente letteraria, nella comunicazione par-
lata si usavano i dialetti, che poi a poco a poco sono confluiti dentro la
lingua e si sono fusi con essa. Mi pare che i poeti della cosiddetta “linea
lombarda” abbiano fatto questo per i dialetti lombardi.
Di Stefano Vorrei fare una postilla: io ricordo un tuo articolo di qual-
che anno fa, polemico o quanto meno interrogativo sulla poesia in dia-
letto. Vorresti spiegare il perché di questo atteggiamento diffidente?
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Raboni Non per il dialetto tout court. Io dico sempre che i due più gran-
di poeti dell’Ottocento sono due dialettali, cioè il Porta e il Belli, nel
Novecento abbiamo qui a Milano un poeta come Delio Tessa, che credo
che sia uno dei più grandi del suo secolo, anche se alcuni non se ne so-
no ancora accorti. Quindi ho una grandissima ammirazione per la poesia
dialettale. Penso che la risco-
perta filologica della poesia
dialettale, a partire da
Contini e da altri illustri
studiosi, abbia un po’ in-
nescato un processo di
inflazione della poesia in
dialetto come una sorta di
nuova Arcadia. Ci sono tanti poeti la cui originalità sta soltanto nel fat-
to che scrivono in dialetto, e secondo me non basta, la poesia richiede
sempre altro, oltre a una specificità linguistica.
Di Stefano Valerio, io vorrei riprendere un discorso che si faceva pri-
ma anche con Luzi, vale a dire quello della traduzione. Tu hai tradotto
Valéry, ed è anche uscito da Einaudi un tuo saggio importante, e poi hai
tradotto Verlaine. Come incide il lavoro sulla traduzione sulla propria pro-
duzione, nel concepire la propria lingua poetica?
Magrelli Questo effettivamente è stato per me un vero e proprio cam-
po magnetico, probabilmente alla pari di esperienze che possono essere
messe sullo stesso piano, magari a livello biografico. Credo che un lavo-
ro così accanito sulla traduzione, anche se per vie traverse, come ritorno
di fiamma nei motori, abbia creato dei contraccolpi, delle modificazioni
nella scrittura. Non si traduce impunemente. D’altronde, una collana che
avevo curato, sempre da Einaudi, trilingue, era proprio orientata in que-
sta direzione, cioè presentava dei testi di grandi autori-traduttori, per mo-
strare come un’attività di questo genere abbia finito per incidere profon-
damente sulla loro stessa produzione. Si potrebbero citare Artaud, Pound,
per non parlare di Joyce che alla fine comincia a scrivere in italiano, o di
Beckett che si autotraduce: sono altrettanti esempi di questa non inno-
cuità del tradurre. Per quello che mi riguarda, due elementi facilmente in-
66CI SONO TANTI POETI LA CUI ORIGINALITÀ STA
SOLTANTO NEL FATTO CHE SCRIVONO IN DIALETTO, E SECONDO ME NON BASTA, LA POESIA RICHIEDE
SEMPRE ALTRO, OLTRE A UNA SPECIFICITÀ LINGUISTICAG. Raboni
Quaderno madre lingua imp 29-08-2003 14:36 Pagina 66
dividuabili sono il lavoro che feci per un certo tempo sulla metrica, per
esempio traducendo Valéry. Io avevo imboccato la via di soluzioni, se non
spinte fino alla rima, come, cito per tutti un traduttore-scrittore, Gesualdo
Bufalino, quanto meno metricamente formalizzate. Ed effettivamente la-
vorare per mesi, se non per anni, su dei versi così rigidamente battuti, non
soltanto il doppio settenario dell’alessandrino o l’endecasillabo, ma anche,
come mi è capitato di fare in certi casi, il novenario, può finire per dare
comunque un contraccolpo quasi vertebrale al verso e alla scrittura.
Questo è un elemento. L’altro che mi viene in mente, non meno rilevan-
te, è un ascolto eccessivo, oltranzistico del valore di certe parole e del lo-
ro etimo. Mi ricordo una volta in una libreria francese mi sono imbattu-
to in un libro di Gadda, intitolato Quel brutto affare della via dei merli. Ho
avuto un momento di perplessità: questo mi manca! Evidentemente, co-
me nel restauro non si deve esagerare con il tampone e il solvente, in que-
sto caso il traduttore aveva ‘tradotto troppo’, aveva per così dire, ‘sfonda-
to’ la parola Merulana, che io, vivendo a Roma, non avevo mai pensato si
riferisse a un muro merlato. Questo è un classico errore da traduttore. Mi
viene in mente: ho citato la poesia L’occhio di Dolly, ma potrei fare altri
esempi di poesie centrate sull’etimo, per esempio quelle dedicate al
Trabant, la macchinetta tedesca, che aveva innescato in me tutto un pro-
cesso metaforico e metamorfico a catena. Trabant in tedesco significa “sa-
tellite”. Questi possono essere tutti dei tic, dei difetti che finiscono per di-
ventare indelebili in chi traduce molto.
Di Stefano Non sto a ricordare le traduzioni di Giovanni Raboni, l’o-
pera colossale di traduzione da Baudelaire a Proust, però vorrei fare la stes-
sa domanda anche a lui.
Raboni Sono d’accordo con Valerio sul fatto che non si traduce im-
punemente. Io non saprei dire, per quanto mi riguarda, quanto la tra-
duzione mi abbia dato e abbia influito sul mio lavoro di scrittore, ma è
evidente che non può non aver influito. In generale, è uno straordina-
rio laboratorio, credo che non ci sia scuola migliore per chi vuole im-
parare a scrivere, perché ti trovi di fronte questo spartito che devi ese-
guire nella tua lingua, con i tuoi mezzi, in qualche modo al riparo dai
soprassalti e dalle insidie dell’ispirazione, se così si può dire. È lavoro
puro, insomma.
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Quaderno madre lingua imp 29-08-2003 14:36 Pagina 67
Di Stefano Resterei a Giovanni Raboni. Introducendo Quare tristis, in
una quarta di copertina, Luigi Baldacci scrive che è come se tu guardassi
la vita dal punto di vista della morte. Faccio questa domanda perché so
che nella tua tasca hai un testo che mi piacerebbe che tu leggessi, ma vor-
rei anche che tu mi dicessi prima, questo guardare la vita da questa posi-
zione così distante come la morte, che cosa comporta sul piano del lin-
guaggio?
Raboni Mah, io non so se sia tanto vero, io trovo bellissima quella
breve presentazione di Baldacci: mi piace per come è scritta, proprio per
le immagini e le suggestioni che dà, ma non so se è vero che io guardi la
vita dal punto di vista della morte. Certamente la morte è un tema per
me importantissimo, un tema in
quanto fa parte della vita, e so-
prattutto io parlo molto dei
morti perché credo nella comu-
nione dei vivi e dei morti. Forse
si potrebbe addirittura ribaltare
la questione, sostenendo che io
guardi la morte dal punto di vista
della vita. La morte è una presenza molto forte e sempre più mi abituo a
pensare ai morti come se ci fossero, anche perché andando avanti con gli
anni, se non si dovesse pensare questo, ci si sentirebbe veramente mol-
to soli, dato che molte persone che sono state importanti non ci sono
più. Questo è un tema per me fondamentale, di cui continuo a scrivere
in modo un po’ ossessivo, forse. Tu, credo parlassi della poesia che s’in-
titola La guerra…
LA GUERRAHo gli anni di mio padre – ho le sue mani
quasi: le dita specialmente, le unghie,
curve e un po’ spesse, lunate (ma le mie
senza il marrone della nicotina)
quando, gualcito e impeccabile, viaggiava
su mitragliati treni e corriere
68
CERTAMENTE LA MORTE È UN TEMA
PER ME IMPORTANTISSIMO, UN TEMA
IN QUANTO FA PARTE DELLA VITAG. Raboni
Quaderno madre lingua imp 29-08-2003 14:37 Pagina 68
portando a noi tranquilli villeggianti
fuori tiro e stagione
nella sua bella borsa leggera
le strane provviste di quegli anni, formaggio fuso, marmellata
senza zucchero, pane senza lievito,
immagini della città oscura, della città sbranata
così dolci, ricordo, al nostro cuore.
Guardavamo ai suoi anni con spavento.
Dal sotto in su, dal basso della mia
secondogenitura, per le sue coronarie
mormoravo ogni tanto una preghiera.
Adesso, dopo tanto
che lui è entrato nel niente e gli divento
giorno dopo giorno fratello, fra non molto
fratello più grande, più sapiente, vorrei tanto sapere
se anche i miei figli, qualche volta, pregano per me.
Ma subito, contraddicendomi, mi dico
che no, che ci mancherebbe altro, che nessuno
meno di me ha viaggiato tra me e loro,
che quello che gli ho dato, che mangiare
era? non c’era cibo nel mio andarmene
come un ladro e tornare a mani vuote…
Una povera guerra, piana e vile,
mi dico, la mia, così povera
d’ostinazione, d’obbedienza. E prego
che lascino perdere, che non per me
gli venga voglia di pregare.
(da Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1997)
Di Stefano Valerio, in Nature e venature, che, ricordo, è dell’ ’87, c’è
una poesia che sembra quasi programmatica. So che in realtà non lo è, ma
potrebbe essere letta in questa chiave. Si apre con «Non pretendo di dire la
parola» e si conclude con «Io traccio il mio bersaglio intorno all’oggetto col-
pito, io non colgo nel segno, ma segno ciò che colgo, baro, scelgo il mio centro
dopo il tiro». Che tipo di idea volevi trasmettere a proposito, appunto, del
‘centrare’ la parola?
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Quaderno madre lingua imp 29-08-2003 14:37 Pagina 69
Magrelli È un punto su cui sono tornato spesso perché non mi è sta-
to mai chiaro e forse non potrà mai esserlo, ma ha a che fare con una ri-
flessione sulla produzione della poesia. Ho sempre avuto l’impressione,
nei momenti di massima intensità e raccoglimento, che i testi abbiano una
capacità di autonomia. Vorrei dare due
immagini: da una parte quella di uno
storico, di Bloch, che parla di una
tradizione antichissima, nella
Germania del Cinquecento, di mi-
stici calzolai. Probabilmente, infat-
ti, lavoravano con colle che davano
allucinazioni. Questa idea, curiosa, che
ci fa pensare al peyote messicano e a cose di tal genere, mi è cara, non
perché il poeta abbia a che fare con colle speciali o allucinogeni, ma per-
ché, a mio avviso, riporta alla posizione di chi scrive. In Italia abbiamo
avuto un panorama che va da Adriano Spatola a Mario Luzi, quindi non
sarebbe possibile generalizzare, ma comunque, anche nelle forme estre-
me, credo che chi scrive poesia si trovi continuamente in un corpo a cor-
po, in un ravvicinato contatto con la carta. Questo per dire, per prima
cosa, quello che si tende un po’ a perdere. Il poeta è qualcuno che co-
munque deve far tornare i conti: a me viene sempre in mente l’enigmi-
sta, quello che fa le parole crociate, che si confronta con sillabe, virgole,
millimetri, spazi interstrofici. D’altra parte, mi torna in mente un saggio
che mi aveva molto colpito sul rapporto fra lo scienziato e la cavia. Si trat-
ta di uno studio di Isabelle Stengers che parla di come alcuni scienziati
si possano affezionare alle cavie dei loro esperimenti. Allora pensavo: in
qualche modo, sono le poesie le nostre cavie? Sono delle creature su cui
noi sperimentiamo e possiedono una vita propria? L’ho fatta un po’ lun-
ga, ma volevo arrivare a questo. Secondo me, uno dei motivi di maggio-
re attrazione per chi scrive dipende proprio dalla capacità del testo, al di
là di un certo limite, di sfuggire al controllo, di andarsene per conto suo.
In molti casi, io ho provato a fare di questo l’oggetto della poesia, cioè a
raccontare questo strano circuito che si viene a creare. Ecco, potrei ag-
giungere una terza immagine, quella del nastro di Moebius: prendiamo
una striscia e la rigiriamo, ottenendo un corpo a tre dimensioni parten-
do un corpo piano. Io credo che chi scrive - e torno all’immagine del cia-
70 HO SEMPRE AVUTO L’IMPRESSIONE, NEI MOMENTI DI MASSIMA INTENSITÀ E
RACCOGLIMENTO, CHE I TESTI ABBIANO
UNA CAPACITÀ DI AUTONOMIAV. Magrelli
Quaderno madre lingua imp 29-08-2003 14:37 Pagina 70
battino allucinato - finisce per inserirsi in un circuito in cui il linguaggio
è insieme corpo piano e tridimensionale.
Di Stefano Giovanni Raboni non ha mai nascosto la sua diffidenza ri-
spetto alla neo-avanguardia: non so se diffidenza sia la parola esatta, ma
comunque egli si sente distante da quell’esperienza. Sappiamo benissimo
che in quel torno di tempo, fra gli anni Sessanta e la prima metà degli an-
ni Settanta, le sperimentazioni non sono state solo quelle della neo-avan-
guardia, ma ci sono state anche altre forme forse più interessanti, sia pu-
re meno plateali. Per esempio, c’è stata la sperimentazione di Giovanni
Raboni, per l’appunto. Che cosa rimproveri oggi alla neo-avanguardia?
Che cosa non ti convince? Qualcosa che riguarda la sfera ideologica, op-
pure aspetti della grana linguistica?
Raboni Io ero naturalmente molto curioso di quello che facevano que-
sti miei coetanei o quasi coetanei. Il fatto è che le cose più sono avan-
guardistiche, più mi danno l’impressione di arrivare in ritardo, a volte. Per
esempio, io avevo scoperto nel dopoguerra, come molti miei coetanei, la
poesia di Pound, letto anche attraverso Eliot, l’avevo letta con grande pas-
sione, cercando di tirarne tutto quello che potevo. Quando sono arrivate
queste sperimentazioni, che erano sostanzialmente neo-poundiane, in
qualche modo, mi sono sembrate terribilmente in ritardo. Più che di dif-
fidenza, la mia sensazione era di stupore: ma ancora qui? Siamo ancora a
questo? Negli anni a cavallo fra Cinquanta e Sessanta, mi sembrava che il
lavoro fosse proprio quello di partire da queste fondamentali rotture ope-
rate nella poesia del primo Novecento e di ricostruire, ricostituire. Al con-
trario, mi sembrava che i neo-avanguardisti fossero molto intenti a per-
petuare questo lavoro di rottura. Così penso ancora adesso. Mi sembra
che tuttora continuino a fare questo, con esiti che col passar del tempo
diventano sempre più grotteschi. Non si può continuare a rompere i gio-
cattoli per cinquant’anni.
Di Stefano Valerio, hai citato prima Adriano Spatola. Volevo chie-
derti…
Magrelli Indipendentemente da considerazioni più specifiche, io de-
vo dire che in particolare ho dedicato molto tempo a un lavoro sul da-
71
Quaderno madre lingua imp 29-08-2003 14:37 Pagina 71
daismo. Quello che c’è da rimprove-
rare a molta avanguardia è l’aver
replicato all’infinito un gesto che
voleva essere augurale ma anche
conclusivo. Ritengo che moltis-
sima dell’arte concettuale non sia
che una nota a piè di pagina del da-
daismo. Se si pensa a certe mosse defi-
nitive, si dovrebbe avere il coraggio di lasciarle nella loro piena assolu-
tezza. Non credo con ciò che l’avanguardia abbia bruciato il terreno, ma
l’ha bruciato a se stessa, se non altro.
Di Stefano Giovanni Raboni, io volevo affrontare il problema della
cosiddetta ‘forma chiusa’. È una camicia di forza anche un po’ dolorosa,
o no?
Raboni Certamente è una camicia di forza, ma anche una grande for-
ma di libertà: qui bisogna intendersi su che cos’è la libertà in poesia. Io
credo che la libertà sia dare il maggior ascolto possibile a quello che non
sappiamo bene come accade: senza scomodare il concetto di inconscio,
non c’è dubbio che la poesia nasce molto da dentro noi, da qualcosa di
prefazionale, filtrato tuttavia dalla forma. Credo che la forma chiusa sia
un formidabile incentivo, nel senso che mette in moto dei meccanismi di
associazione, di fluidità di senso che altrimenti rischiano di restare non
del tutto utilizzati. Pensate a cosa avviene quando si cerca una rima, di-
pende dalla bravura di chi scrive, ma certo anche dal deposito che ha den-
tro di sé. Scattano delle profondità di significato che probabilmente in al-
tro modo non scatterebbero. In un certo senso si può dire che la forma
chiusa è la più grande forma di libertà che si concede alla propria creati-
vità interiore. Queste sono un po’ giustificazioni che si danno a posterio-
ri: non è che io mi sia riavvicinato alla forma chiusa pensando a ciò ho
capito in seguito che questa scelta poteva avere questo senso. Il bisogno
da cui ero spinto era un bisogno di riconoscibilità: a un certo punto mi
sono posto il problema di come la poesia, a furia di liberarsi da ogni vin-
colo, potesse essere riconosciuta come tale, e quindi da lì questo lavoro
sulla forma della tradizione, che d’altronde non ho cominciato io, l’han-
no cominciata non a caso poeti più giovani di me. Io sono venuto dopo,
72
QUELLO CHE C’È DA RIMPROVERARE
A MOLTA AVANGUARDIA È L’AVER REPLICATO
ALL’INFINITO UN GESTO CHE VOLEVA ESSERE
AUGURALE MA ANCHE CONCLUSIVOV. Magrelli
Quaderno madre lingua imp 29-08-2003 14:37 Pagina 72
e anche dopo parecchi anni di meditazione sulla cosa. Posso dire che, do-
po averci lavorato alcuni anni e aver impostato i miei due ultimi libri su
questo lavoro, adesso ho ricominciato a lavorare su altri schemi. Non fi-
nisco qui la mia ricerca.
Di Stefano Schemi sempre chiusi, oppure?
Raboni No, no. Schemi metrici, ma non tradizionali.
Di Stefano Se siete d’accordo chiederei ancora una lettura, comin-
ciando ancora da Magrelli.
Magrelli Vorrei leggere due poesie. Una, quella sul Trabant, di cui vi ave-
vo parlato, e un’altra, che essendo un omaggio dantesco, mi sembra si pos-
sa legare al tema di questa sera.
Il titolo della poesia è Sul nome di un’utilitaria della DDR, che in tedesco si-
gnifica satellite. Mi trovavo in Germania, al confine tra Est e Ovest, proprio
nei famosi fine settimana in cui caddero le frontiere. Il segno di questa li-
berazione fu la comparsa improvvisa, a Ovest, di migliaia di queste mac-
chinette colorate che non si erano mai viste fino ad allora, perché al di là
della cortina di ferro. La storia che racconto nasce da un nome, perché il
giorno in cui tutto questo accadeva mi trovavo in una piccola cittadina che
si chiamava Hameln, resa celebre dalla storia del pifferaio. Dunque di nuo-
vo questi nuclei etimologici che fanno da traccia quasi radioattiva.
SUL NOME DI UN’UTILITARIA DELLA D.D.R. CHE IN TEDESCO
SIGNIFICA SATELLITESatelliti di un sistema solare che si disfa,
di un nucleo che decade, libera particelle
e perde le sue perle dai fili di orbitali, chicchi
di un ticchettío che grandinando
brillano sugli asfalti occidentali,
TRABANT rosa, beige, verde
pastello, carrozzine due tempi, tintinnanti
trabiccoli azzurrini, trine tremule,
TRABIS, patrie portatili, gingilli
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di una classe fossile e stilizzata,
scatolette di latta in cui si accalca
una trepida, dolce borghesia comunista, reperti
minerali, auto di Topolino
che fuggite dal vostro pifferaio assassino,
ben arrivati ad Hameln, B.R.D. !
A TE DNA DELLA POESIAElla sen va rotando lenta lenta:
rota e discende ma non men’accorgo
se non ch’al viso e di sotto mi venta
(Inferno, XVII, 115-117)
A te Dna della poesia
elica e elastico
avviticchiati a forza
a malincuore treccia
attorcigliata torte e ritorte
rime
di un aereo giocattolo
che appena liberate
frullano via nei secoli
verso il futuro della lingua madre.
Quest’altro testo fa parte della stessa sezione, che ha questo titolo un po’
bertolucciano di Viaggio d’inverno, ma io pensavo in realtà soprattutto ai
lieder di Schubert, alla Winterreise.
L’ABBRACCIOTu dormi accanto a me così io mi inchino
e accostato al tuo viso prendo sonno
come fa lo stoppino
da uno stoppino che gli passa il fuoco.
E i due lumini stanno
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mentre la fiamma passa e il sonno fila.
Ma mentre fila vibra
la caldaia nelle cantine.
Laggiù si brucia una natura fossile,
là in fondo arde la Preistoria, morte
torbe sommerse, fermentate,
avvampano nel mio termosifone.
In una buia aureola di petrolio
la cameretta è un nido riscaldato
da depositi organici, da roghi, da liquami.
E noi, stoppini, siamo le due lingue
di quell’unica torcia paleozoica.
(da Esercizi di tiptologia, in Poesie ed altre poesie, Einaudi, Torino 1996)
Di Stefano Sonetti?
Raboni Sì, sono due sonetti, i temi sono i soliti quindi non sto a spie-
garveli, la caratteristica dell’uno rispetto all’altro è che il primo è un so-
netto di tipo petrarchesco, nella tradizione italiana, composto da due
quartine e due terzine, e l’altro è elisabettiano, dunque composto da tre
quartine rimate autonomamente l’una dall’altra e un distico finale. Ho
giocato su questi due tipi negli ultimi due libri, poi ho smesso con i so-
netti.
Sono quello che eravate, sarò
quello che siete, sussurro a chi spia
i miei passi da un letto di corsia
d’un padiglione di Niguarda o
del vecchio policlinico di via
Sforza, mi sopravalutate, ho
un rene solo, presto perderò
l’ultima battaglia con la miopia
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e il cuore, eh, il cuore… No, perdono, care
anime, perdono! non posso fare
l’unto della Morte qui, non si deve
insegnare a morire a chi già tanto
muore e così poco spera, soltanto
un’altra primavera, un’altra neve.
Con raccapriccio, come ogni anno, spio
i passi falsi della primavera,
il suo esporsi scriteriato all’altera
scomunica del gelo e so che anch’io
ne ho colpa, che è anche per la mia impazienza
di vecchio che lei si butta così
allo sbaraglio. Mai che smetta di
sperare, fiorire a vanvera, senza
nient’altro nella mente oltre la cieca,
luminosa dolcezza del futuro…
Quale? Già. Questo è l’insolente, oscuro
busillis, è lì che si infila e spreca
l’ardore. Ma di che giubilo crepita
intanto, quanta gloria in tanta perdita.
(da Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1997)
Di Stefano Bene, io direi che si può chiudere questa serata, io rin-
grazio i partecipanti e ringrazio il pubblico.
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