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Pino PelosiIO SO COME HANNO UCCISO PASOLINIStoria di un'amicizia e di un omicidio

Vertigo Edizioni s.r.l., Roma 2011 I edizione: settembre 2011 ISBN 978-88-6206-031-8

NOTE DI COPERTINA Finalmente dopo 35 lunghissimi anni, Pino Pelosi ha deciso di parlare. Di raccontare tutta la verit sullomicidio Pasolini, una delle pagine pi buie e controverse della nostra storia. Dopo aver scontato interamente la pena per un delitto mai commesso, e quindi senza poter trarre alcun vantaggio legale da questa coraggiosa testimonianza, Pino la Rana torna a far luce, senza omissioni o reticenze, sullaccaduto, svelando verit mai pronunciate, per chiudere un contenzioso con gli italiani e scaricarsi la coscienza da un fardello troppo grande per un uomo comune.Nome: Giuseppe Cognome: Pelosi Soprannome: Pino la Rana Nato il: 28/06/1958 Reato: Omicidio Pena: 9 anni e 7 mesi

IO SO COME HANNO UCCISO PASOLINI

Al mio Angelo

C sempre la Signora Speranza. (Pino Pelosi)

PREMESSA

Ho deciso di scrivere questo libro sollecitato da pi parti per mettere un punto fermo e finale alle varie notizie circolate sullomicidio Pasolini nel 1975 e su di me in questi ultimi 35 anni. Se mi sono deciso ora perch ormai, superati i cinquantanni, penso sia arrivato il momento di chiarire tante cose e finalmente spiegare i molteplici interrogativi rimasti in sospeso, le motivazioni delle informazioni diffuse dai media, dei silenzi, anchessi giustificati, allo scopo di ricostruire la verit di questa vicenda crudele e dai tratti misteriosi. In questi ultimi anni molte persone normali avrebbero potuto dire ci che sapevano ma hanno taciuto, persone delle istituzioni, del mondo intellettuale o perfino amici di Pasolini. Ma nessuno ha parlato, perch? Ve lo siete mai chiesti? Persone che avevano accesso a dossier, a informazioni riservate, a contatti particolari. Se credete ancora, cambiando totalmente argomento, che non si sia trovato il rimedio per lAIDS o che non si sappia come sconfiggere il cancro o peggio che lalimentazione attuale sia corretta e che non sia la causa di tante malattie e che gli interessi e i profitti che muovono il mondo siano coinvolti in questa gigantesca menzogna, allora penso che siate gi stati contaminati. Per tutti gli altri sar pi facile capirmi. Io so il perch hanno taciuto. E ve lo spiegher in questo libro. Io sono vivo oggi e questo lo devo unicamente al silenzio che ho mantenuto. Oggi non sarei qui a scrivere, forse, se in passato avessi parlato. Avessi detto le cose che sapevo.

Allora vi chiedo, valgo di pi oggi da vivo o avreste preferito la verit al prezzo di un altro morto? Prendono quasi sempre i pesci piccoli, gli emarginati, i marchiati dalla societ, gli incastrati da logiche e manipolazioni superiori, da giochi di potere che neanche potete immaginare. Oggi voi siete i miei interlocutori, coloro che mi auguro vogliano sapere la verit. Mentre leggete, cercate anche di intuire il non detto, quello che ancora oggi non si pu rivelare. Allargate la vostra mente e non accontentatevi di ci che appare: non sempre il bianco bianco e il nero nero; a volte le cose sono lesatto contrario di ci che sembrano, destando stupore e incredulit. Questo libro ripercorre la mia vita dalladolescenza fino allincontro con Pasolini. Sappiate che sono lunico che parla, non lunico che sa. Colui che prende il coraggio di rischiare. Per questo motivo alcune cose le potrete solo intuire. E qualora vi affezionaste a me, dopo aver compreso il mio punto di vista e la mia persona, vorrei un giorno incontrarvi, per firmare questo libro e non per vederci al camposanto. Ecco volevo farvi questa premessa per chiarire il nostro rapporto, perch negli anni passati la mia reputazione, da me stesso creata, stata di persona inaffidabile, depistatrice e cantastorie, ma per tutto questo cera un motivo: come vi ho detto, non faccio nulla per caso, tutto calcolato. Buona lettura. Pino Pelosi

CAPITOLO 1

Roma Luned 23 giugno 1975 Ore 12:30 Via Catania Il cielo limpido, il sole alto, preannunciando la calura dellestate che alle porte. uno di quei giorni in cui i barbieri hanno le serrande rigorosamente abbassate e tu per solidariet non hai voglia di far niente. Franco, Pino e io stiamo come al solito in giro per le strade della citt.

Stile trasandato, mani in tasca, jeans a zampa e capello lungo. Una lattina in terra e il marciapiede si trasforma in un attimo in un improvvisato campo di calcio. Ultimo tiro in porta: il mio. Un colpo secco e la lattina finisce dentro una cabina del telefono a gettoni. Pochi metri oltre e il pizzicagnolo di zona diventa la mia meta. Franco e Pino restano al di fuori. Uno si appoggia a una macchina parcheggiata e laltro a un palo della luce. Entro, saluto il droghiere e mi faccio un giro dentro il negozio alla ricerca di nulla. Mi guardo intorno e mentre lui intento a servire due etti di mortadella a una signora io, aggirandomi tra i banchi della merce esposta, punto il ripiano delle carni in scatola. Cerco uno di quei barattoli che si aprono grazie a una chiavetta di metallo. La trovo e me la infilo dentro il giacchetto lasciato aperto ad arte. Continuo a fare finta di guardare, poi saluto di nuovo il droghiere e riguadagno luscita. Dopo aver lanciato uno sguardo dassenso ai due compari, tiro dritto fino allangolo del palazzo. I due mi seguono e poi mi raggiungono. Tiro fuori la scatoletta, stacco la chiavetta e butto il resto nel cestino di metallo, uno di quelli ancorati al palo della luce. Arriviamo a piedi fino a piazza Bologna. Il nostro interesse si focalizza su una macchina parcheggiata in bella vista sul ciglio della strada: una Mini Minor verde bottiglia, nuova di zecca. Una delle pi semplici da aprire. Nessuno di noi ha alcuna esperienza di guida ma ciascuno di noi sa bene come aprirne una. Franco sta appizzato, Pino scucca se arriva qualcuno . Mi avvicino allo sportello, tiro fuori dalla tasca la chiavetta e la infilo nella toppa. Spadino la serratura e in pochi secondi sono dentro la macchina. Stessa procedura, stessa chiavetta. Un piccolo sforzo e la Mini gi in moto. I due compari salgono svelti a bordo e io sgommo verso la via Tiburtina. la prima volta che guido, e si vede, perch la macchina cammina come se avesse il singhiozzo. Ce la ridiamo di gusto per limpresa riuscita, ma allaltezza del cinema Ulisse, sulla corsia centrale della Tiburtina, faccio lerrore di fermarmi per far passare una macchina.1 Franco sta appostato, Pino controlla che nessuno sia nei paraggi. 2 Scassino.2 1

La mancanza di dimestichezza con la frizione mi fa alzare il pedale troppo in fretta e la macchina va a sbattere contro una FIAT 1100 color avana. Il conducente della macchina scende allarmato per andare a verificare il danno. Scendo anche io e a seguire i miei amici. Preoccupati a questo punto per non sapere come comportarci. un attimo. Dopo aver fatto finta di essere sinceramente accorati per il danno, ci diamo poderosamente alla fuga scomparendo nelle traverse della Tiburtina. lo so come hanno ucciso Pasolini Ah gi, dimenticavo! Io sono Giuseppe Pelosi. Pino per tutti, Pelosino per gli amici. Tra cinque giorni sar il mio compleanno, compir 17 anni. I miei due amici sono Franco (detto Labbrone) e Pino (detto er Braciola) Borsellino; sono due fratelli che vivono dalle mie parti. Abito a Casal Bruciato, un quartiere alla periferia di Roma, dalle parti della via Tiburtina, in un appartamento di propriet delllNA CASA. Non stiamo certo ai Parioli: il verde incolto dei terreni che vi fa da cornice contrasta fermamente con il degrado sociale che da sempre colpisce quelle zone. Ma poteva andarmi peggio. Anche Labbrone e Braciola abitano allINA CASA. Pur essendo pi piccoli di me, per sono i miei mentori. Eh s, perch non avendo avuto una gran voglia di studiare, la mia scuola diventata la strada e le materie in cui sto ottenendo voti altissimi sono i furti di motorini, di stereo e di rado qualche scippo. I fratelli Borsellino conoscono questa zona meglio di chiunque altro, tanto da aver imparato che i reati si fanno lontano da casa se non si vuole rischiare di finire ammazzati. A quellepoca si rubavano infatti pi motorini che auto. Con i fratelli Borsellino avevamo escogitato dei trucchi per i furti: dal ferramenta compravamo le tronchesi che Labbrone si nascondeva sotto limpermeabile. In alternativa, quando trovavamo unauto in doppia fila con le chiavi inserite, ci avvicinavamo al parcheggiatore di turno, gli pagavamo il parcheggio facendo finta che la macchina fosse nostra e scappavamo. Grazie ai molti colpi che facevamo, la casa dei Borsellino era diventata il ricettacolo di tutta la refurtiva, una piccola Porta Portese dove la gente del posto andava a fare la spesa.

Spesso dopo aver rubato un motorino mi divertivo a guidarlo senza mani, a impennare, e qualche volta mi mettevo in piedi sulle chiappe della Vespa e con le mani mi tenevo in equilibrio con le braccia tese. Un pomeriggio, mentre eravamo in attesa di entrare al cinema Ulisse per vedere il film Dalla Cina con furore di Bruce Lee, facendo queste acrobazie persi lequilibrio e andai a sbattere contro la Cinquecento con gli sportelli a vento della cassiera del cinema. Il tempo che la cassiera si accorgesse cosa fosse accaduto, riuscii a rimettere in moto la Vespa e scappai dolorante. Per qualche mese, onde evitare di essere riconosciuto, preferii non tornare in quel cinema. Una volta mi trovavo in via Catania, poco sopra piazzale delle Province, con Massimo detto il Chiodino, figlio del Chiodo. Mentre camminavamo alle spalle del mercato notammo un Kawasaki 750, detto in gergo il verdone. Lidea era quella di rubarlo, spaccando il lucchetto che il proprietario aveva incautamente messo sulla catena di trasmissione. Sarebbe bastato ingranare la marcia dando gas per spezzare il lucchetto. Era un sistema ripetutamente sperimentato. La sfortuna volle che il portiere di uno stabile l nei pressi si accorgesse della nostra manovra e impugnando una pistola ci intimasse di fermarci. Saltammo sulla Vespa con cui eravamo arrivati e nella fuga il portiere fece fuoco colpendomi alla caviglia destra. L per l sentii solo lo scoppio degli spari e un calore intenso al piede. Solo qualche chilometro dopo mi accorsi che era ricoperto di sangue. Fui costretto ad andare al pronto soccorso dove, poich avevo inventato che mi era entrato un chiodo, mi fecero lantitetanica. Un altro gioco divertente ma rischioso era il vento. A Roma fare il vento significa scappare via da un locale senza pagare il conto. Facevo il vento spesso con Sergio, detto er Teppa, il fratello di Luana, una delle ragazze che frequentavo in quel periodo. Il pi delle volte entravamo nei ristoranti, mangiavamo a sbafo e alla fine scappavamo via alla velocit della luce. Una meta interessante era un ristorante della zona di Villa Gordiani, Lo sceriffo, noto per le fettuccine alla cow boy, una sorta di boscaiola con i funghi e i piselli. Con noi veniva spesso Wek, un amico conosciuto in zona noto per la velocit con cui riusciva ad alzarsi dalla sedia e a darsi alla fuga. La procedura era questa: finito di cenare ordinavamo lamaro e non appena il cameriere si allontanava per andare a prendere la bottiglia, noi ci alzavo dal tavolo e via svelti come il VENTO!

Spesso prendevamo di mira i bar della zona. Una delle mie mete preferite era proprio un chiosco che stava davanti alla posta di piazza Bologna, la Casina Fiorita: ordinavamo cappuccino e cornetto, ci sedevamo ai tavoli e, quando era ora di pagare, al tavolo non cera pi nessuno. Un pomeriggio uno dei gestori usc fuori e ci corse dietro. Ci separammo e riuscimmo a dileguarci cogliendo il vantaggio guadagnato grazie allindecisione del nostro inseguitore.CAPITOLO 2

Lincontro con Pasolini 1975, prima settimana di luglio Alle 18:30, come di consueto, mio padre rincas dal lavoro. Stanco morto, si trascin in bagno per rinfrescarsi, prima di sedersi da solo al tavolo della cucina, dove mia madre era solita lasciargli la cena pronta: una scodella di minestra coperta con un piatto rovesciato. Un bicchiere di vino rosso e due fette di pane casareccio. Si affacci sulla porta di camera mia con lasciugamano ancora premuto sul viso. Accenn un sorriso e mi disse: Gi a casa stasera? Cos ti senti male? Di solito devo uscire coi cani da riporto per scovarti e farti rientrare. Io me ne stavo sdraiato sul letto, intento a leggere Tex, mentre ascoltavo e riascoltavo dal mio mitico mangiadischi rosso della Penny la canzone dei Formula 3 Eppur mi son scordato di te. In effetti quella sera avevo un fastidiosissimo mal di denti. Ero rientrato prima a casa nella speranza che mia madre mi desse qualcosa per attenuare il dolore. Ma mia madre non cera. Era andata a giocare a carte a casa di mia zia. Mi accorsi, pi tardi, dalle urla di mio padre, che era rientrata. Mi avevi detto che saresti stata a giocare a briscola con tua sorella! Non credevo che la partita includesse mio fratello! urlava. Mia madre, di risposta, and su tutte le furie e cominci a strillare al punto tale da richiamare alle finestre tutte le vicine di casa, le quali, spaventate, si chiedevano a vicenda se fosse successo qualcosa di grave. Sentivo le grida, il rumore di sedie che cadevano. Poi un colpo secco. Mi feci forza e uscii da sotto il letto. Presi alla rinfusa un paio di cose e uscii in strada cos come mi trovavo, dopo avere attraversato di corsa la cucina, senza neppure riuscire a guardare in faccia i miei genitori.

Per strada mi aggiustai il colletto della camicia, allacciai il bottone dei jeans, strinsi la cinta e attraversai di sghimbescio. Mi girai come se mi fossi dimenticato qualcosa dallaltro lato e camminando al contrario guardai verso la finestra di casa. Ricordo la figura di mio padre che si premeva un fazzoletto sulla mano. Si era tagliato scagliando un pugno sulla porta Il colpo secco che mi aveva spaventato poco prima. Dopo aver girato per qualche ora senza meta decisi di andare verso la stazione Tiburtina. L cera sempre gente, in arrivo e in partenza, e poi cerano delle magnifiche panche di legno dove potersi sdraiare per riposare un po, ma solo dopo una certa ora, perch non passava pi nessuno a controllare. In pi di una occasione mi sono evitato gli schiaffi di mia madre rimanendo a dormire alla stazione. Infatti, quando rincasavo la mattina, mia madre cominciava a prendersela con se stessa del fatto che io ero scappato di casa, le venivano le lacrime agli occhi e io me la cavavo con qualche schiaffo e una tirata di capelli. Quella sera faceva fresco. Per la fretta ero uscito di casa con la sola camicia rossa a maniche corte per cui dovetti rannicchiarmi sotto il porticato della stazione per non morire di freddo. Mi fermai in tranquillit a osservare il giallo dei taxi contrastare con il grigio dellasfalto, che con il calare della sera si era fatto sempre pi scuro. Lo sguardo fin per incantarsi sui tassisti in attesa di nessuno che la sera quasi per abitudine si improvvisavano giocatori incalliti acchitando le Piacentine su una cassetta della frutta rovesciata e un cartone preso in prestito da qualche vecchio scatolone abbandonato. Era quasi mezzanotte e il silenzio della notte veniva interrotto da un rumore sordo di una GT grigia che camminava lenta, costeggiando i tass. Lo sguardo curioso dei giocatori di tressette si distolse per pochi attimi dalle carte per tornare impegnato sul panno da gioco, mentre il signore con gli occhiali alla guida del bolide tirava gi il finestrino. Con un cenno di mano richiamava lattenzione di qualcuno. Per qualche secondo mi guardai intorno cercando di capire verso chi stesse gesticolando quel tizio; poi mi resi conto che a parte i giocatori assai, poco attenti a ci che accadesse al di fuori del loro torneo, cero solo io presente allappello, per cui feci a mia volta cenno con la mano come a dire dice a me?. Il signore con gli occhiali mi fece cenno di avvicinarmi alla macchina. Mi alzai da terra e dopo aver stirato con le mani la camicia rossa a quadri che indossavo, ormai stropicciata per la posizione assunta in terra, e aver

aggiustato i jeans, mi accostai lentamente a quella macchina. Che fai qui? chiese, come se mi avesse cercato dappertutto e finalmente mi avesse trovato. Ma chi sei mi padre? io di rimando; ma continuavo a guardare il muso di quella meravigliosa macchina, sfiorandone la carrozzeria con il dito della mano destra. Hai cenato? rincalz luomo al volante, con tono pi pacato. Ma de che! risposi a mezza bocca e con lo stomaco che gorgogliava da qualche ora. Allora sali va, ch anche io non ho ancora mangiato. Ci andiamo a mangiare un piatto di spaghetti qui dietro, cos se ti va mi dici. Mi guardai intorno con fare circospetto, quasi a verificare che nessuno si accorgesse di quello che stavo per fare. Poi aprii la portiera e salii su quella macchina. La GT si allontan dalla stazione e prosegu dritto verso la tangenziale. Pochi secondi di silenzio e poi il tizio con gli occhiali mi disse: Io mi chiamo Pier Paolo, e tu?. Col sorriso ebete sulla bocca evitai provocatoriamente la domanda e sfidai il signore: Ma tu fai sali su sta macchina tutti i matti che incontri per strada?. Il signore con gli occhiali scoppi in una risata di gusto e sfregando la mano sui miei capelli ribatt: Vorr dire, allora, che il matto sono io. Comunque me chiamo Giuseppe ma lamici me chiamano Pino. Di rimando Pier Paolo: Allora se mangiamo insieme dobbiamo considerarci amici. Per cui se me lo permetti e a te fa piacere io ti chiamo Pino. Sporsi il mento in avanti quasi ad annuire e poi aggiunsi: Anche perch Giuseppe ce se chiama mi nonno e a me quel nome sapeva davvero di vecchio. La macchina sembrava sapesse dove andare e in pochi attimi Pier Paolo si ferm in un vicolo proprio di fronte alla posta di piazza Bologna. Dai scendi, siamo arrivati!. Io conoscevo bene quella zona, ma sinceramente non avevo mai notato quella spaghetteria, situata in via Cremona, una via traversa di via Ravenna e aperta sino a quellora di notte: si chiamava Spaghetti House. Facemmo pochi passi uno di fianco allaltro, senza parlare ma scrutandoci divertiti. Pier Paolo entr per primo. Non ricordo bene il colore dellinsegna di quella trattoria ma ricordo certamente quella di unaltra bottega: un negozietto carino che vendeva confetti a pochi passi da l dove, con gli amici, qualche volta ci eravamo riempiti le tasche senza farci notare, per poi scappare a mangiarceli al centro di piazza Bologna. Entrammo. Pochi gli avventori.

Era quasi orario di chiusura, ma una suggestiva tardona con la parannanza, chiatta, con un improponibile rossetto da battona e i capelli raccolti con una matita smozzicata, sorridendo si rivolse a noi: Se ve sbrigate ve posso prepara quarcosa ar volo. Ordinammo due piatti di spaghetti alla carbonara al volo! La tizia assest sul bancone di legno massello un vassoio con le posate arrotolate in un tovagliolo di carta. Due bicchieri di vetro opaco, entrambi leggermente spizzati sul bordo, gi consunto dai tanti clienti che ne avevano fatto uso. Che ve bevete? chiese. Pier Paolo mi guard e io di rimando alla signora: Mezzo litro de rosso. La chiattona si gir di spalle al bancone, apr il rubinetto del caratello accroccato alla meno peggio su un tavolino di legno e riemp la caraffa di vetro. Annateve a mette a sede che mo ve porto tutto io. Ci andammo a sedere al tavolo e in attesa delle pietanze Pier Paolo cominci a parlare. Come mai alla stazione?. Cos i miei hanno litigato e a me con quellaria nun mannava de torna a casa. Problemi? aggiunse. Ma no, cazzate. Litigano ma poi fanno la pace, solo che io nun li posso senti, perch me ce accoro. Arrivarono i piatti di pasta e la caraffa col vino rosso della casa. Io avevo davvero una fame che non ci vedevo. Mangiavo a quattro ganasce e pareva fossero giorni che non mettevo niente dentro lo stomaco. Pier Paolo continuava a guardarmi ma invece di mangiare rigirava quello che aveva nel piatto, stuzzicando appena. Ma che fai, nun magni? gli chiesi. Hai mai fatto a botte? ribatt quel signore, quasi senza senso. Io, con la bocca piena e la forchetta gi arrotolata, feci di s con la testa ciondolandola in avanti come i cavalli, ma con la bocca ben serrata per non perdere il boccone. Facciamo a botte, dopo? prosegu Pier Paolo. Ma che te dice la testa? Tu me sa che sei matto davero. E riarrotolai la forchetta nel piatto. Il vino fin in un attimo, ma fui solo io a berlo, perch lamico non ne tocc neppure un goccio. Anzi chiam con un cenno la cicciona e le chiese una bottiglia dacqua. Riemp il suo bicchiere e lo bevve sorseggiandolo come si trattasse di un Averna.

Lasci praticamente quasi tutto. Aveva, addirittura, scansato tutta la pancetta ai lati del piatto. Me piagneva er core a vede buttata tutta quella pasta, cos infilai la mia forchetta nel suo piatto prima ancora che avessi finito di chiedergli: Posso?. Pier Paolo pag il conto e uscimmo dal locale per tornare alla macchina. Dove hai imparato a fare a botte? chiese. Aridaje; ma che stasera stai in fissa? E dove voi che ho imparato: pe strada. A forza de pijalle ho mparato a difenneme spiegai. Fammi vedere come ti difendi, dai pens di divertirmi. Quella sera, per, non ero davvero in vena di fare baldoria, tanto meno con uno sconosciuto che mi aveva appena rimorchiato alla stazione. Per, lo ammetto, quel tipo mi era simpatico, non fosse altro perch senza nulla pretendere mi aveva offerto un piatto di pasta e, soprattutto, mi aveva fatto salire su quella macchina da sballo. Salimmo in macchina e decidemmo di farci un giro per la capitale. Si diresse verso Colle Oppio, poi scese lungo il Colosseo per andare alla fine allAventino e su su fino al Giardino degli Aranci. La vuoi portare? mi tent Pier Paolo dopo minuti di silenzio lasciati trascorrere con il sottofondo del vento che fischiava veloce come quel bolide grigio. Ma che, la macchina? feci sorpreso. S ribatt lautista. Ma che me stai a cojona? non mi volli entusiasmare prima del previsto. Ma solo se la sai portare, altrimenti facciamo un bel guaio. Cos dicendo scese dalla macchina ancora in moto e lasci che scavallassi di sedile per prendere il suo posto alla guida. Lentusiasmo mi fece spegnere il motore ma lo rassicurai subito: era solo lemozione, non sarebbe pi accaduto. Cos misi di nuovo in moto e con tranquillit staccai il piede dalla frizione. Facemmo un bel giro per i vicoli del colle, e Pier Paolo mi indic alcune delle abitazioni di persone famose. Passammo anche davanti alla casa di Nino Manfredi e io rallentai stupidamente per vedere se per caso uscisse o rientrasse qualcuno per poter sbirciare allinterno. Poi senza pensare mi lasciai scappare: Chiss i soldi che channo!. Sorrise. Erano quasi le due e Pier Paolo mi convinse a rientrare a casa. Gli lasciai di nuovo il posto di guida e seguendo le mie indicazioni mi riport davanti al cancello di casa. Ora come farai a rientrare? Sveglierai tutti! sembr rimproverarmi.

No, ma de che. Scavalco e poi cho er sistema cos scesi dalla macchina e col dito la percorsi tutta dallinizio alla fine quasi a volerla imprimere nella mia mente una volta per tutte. Quando riscappi di casa cos ci mangiamo un altro piatto di pasta insieme?. Io nu scappo risposi piegando la faccia verso destra magari evito de pijalle. Comunque facile che me trovi al bar Mary a piazza Massa Carrara. Me ce faccio spesso na biretta collamici; oppure ar chioschetto a piazza dei Cinquecento. Se beccamo, allora. Alzai la mano in segno di saluto. Pier Paolo mi salut a sua volta con la mano e si allontan senza troppi convenevoli. Io scavalcai il cancello di casa, senza pubblico, ed entrai comodamente dalla porta della cucina che rimaneva sempre aperta. Trovai mia madre in preda alla disperazione per via della mia fuga. Si commiserava e si malediceva, attribuendosi la colpa della mia scomparsa. Quando mi vide rientrare le sgorgarono irrefrenabili le lacrime dagli occhi. Mi diede uno schiaffo, poi mi strinse forte a s. E pap? le chiesi. Ti ha picchiato?. Non lo farebbe mai mi rispose non con le mani. In seguito venni a sapere che mio padre aveva preso di petto mio zio, incolpandolo di atteggiamenti decisamente equivoci verso mia madre. Mi hanno raccontato che una volta ebbe la forza di tirargli una sedia addosso. Io ero piccolo e non capivo il perch di certe azioni. La mia mente ha provato a rimuovere quelle liti. Ma certe immagini non si cancellano, ti rimangono dentro e, inevitabilmente, ti segnano. Mi chiese dove fossi stato e io le raccontai di Pier Paolo. Sapeva che non le stavo mentendo, era troppo tardi per riuscire a inventare una storia cos assurda, troppo presto per restarsene ancora in piedi. Le diedi un bacio sulla fronte e me ne andai a dormire.CAPITOLO 3

Il primo appuntamento 1975, seconda settimana di luglio Erano le 18:30 di un giorno qualunque di met luglio, quando gli amici del Gambrinus il chiosco di piazza dei Cinquecento mi fecero notare che un

tizio con la grana si era appena fermato dallaltro lato della strada e sembrava cercasse qualcuno. Pier Paolo, quello che ve dicevo laltro giorno. Quello che mha portato a magna de notte. Attraversai la strada con le macchine che mi suonavano per limprudenza e sentii gli amici che a voce alta dicevano: Anvedi questo. Arrivai dallaltro lato della strada e mi appoggiai sul montante della GT. Pier Paolo mi fece un sorriso e non disse nulla. Che fai da ste parti? spezzai il silenzio. Ero venuto a controllare che non fossi di nuovo scappato di casa ribatt scherzosamente. Ma non voglio disturbarti visto che sei in compagnia. No, no, macch. Stavamo solo facendo due chiacchiere. Anzi, iniziavo ad annoiarmi dissi e infilai una mano nellabitacolo, attraverso il finestrino aperto, per suonare il clacson. Ammazza, che bella! proprio bella! dissi con aria compiaciuta. S mi rispose Pier Paolo anche se da un paio di giorni mi sta dando un po di problemi con la batteria. Dovrei portarla da un elettrauto ma ho da fare tante di quelle cose che non ho il coraggio di privarmene per un giorno intero. Ma che stai scherzando? aggiunsi io con aria da professore. Non se ne parla proprio. In mano a certa gente non ce la metti sta macchina! Se ti fidi gli posso dare unocchiata io. Sul viso di Pier Paolo si stamp un sorriso. E sia rispose. Vorr dire che se domani sei disponibile per ora di pranzo, ci mangiamo qualcosa insieme e ti guadagni la giornata. Non fin neppure la frase che mi mise ventimila lire in tasca e aggiunse: Questo un acconto. Mi si illuminarono gli occhi. In tasca fino a quel momento non avevo avuto un soldo neanche per piangere e di un lavoro onesto neanche lombra. Che ne dici? rincalz. Si pu fare o per domani sei gi oberato di impegni?. Obe che? abbozzai una risposta. Comunque me faccio trova a piazza Bologna per le 12, se per te va bene. Ci salutammo con limpegno di rivederci lindomani. Me ne tornai trionfante dai miei amici, sventolando quattro pezzi da cinquemila lire. Esordii: A rega, da domani faccio er meccanico!. Avendo osservato tutta la scena, un tizio che se ne stava appoggiato al bancone del bar a farsi una birra mi ammon: A more, sta attento che quello qui ce bazzica per fasse i pischelli dellet tua.

Sorrisi e mantenni laria da bullo: E a me che me frega. Io gli devo solo mette a posto la macchina. Annamosene va dissi ai miei amici che pe oggi avemo fatto er pieno!.CAPITOLO 4

Sergio Placidi Chi di voi da piccolo non stato preso in giro con le favole? Ogni genitore che si rispetti insegna, spesso, ricorrendo a miti e leggende. E, per quanto sgangherata, la mia famiglia ha sempre rispettato la tradizione. Cos la mia infanzia stata invasa da fatine dai capelli turchini, principi, pinocchi e cenerentole varie. Quanto non li sopportavo! E quanto si arrabbiava mia madre quando cambiavo il finale alle fiabe! Nella mia versione, per esempio, il principe di Cenerentola raccoglieva la scarpetta, ma poi la buttava nel cassonetto perch puzzava. E Pinocchio? Il mio si affittava la casa di famiglia, si trasferiva dalla fata, metteva su un circo con grillo, volpe, gatto e balena come attrazioni e viveva di rendita. Ma non sono andato molto lontano dalla realt. O meglio, non sono andato molto lontano dalla mia realt, quella nella quale sono nato e dalla quale sono stato cresciuto e plasmato. Adesso vi racconto la favola preferita della mia adolescenza. Cera una volta un ricco signore di nome Sergio Placidi. Sergio frequentava un locale in zona Fleming, presso il quale la sera organizzava feste sontuose fatte di luci e colori, musiche e risate, alcool e stupefacenti di ogni genere, gente della Roma bene, donne bellissime e uomini facoltosi, spesso volti noti di cinema e televisione. Sergio era un piccolo principe. Il suo regno erano il giro di prostituzione in zona Tiburtina e lo smercio di droga. Ma, nonostante non fosse che un piccolo boss, sembrava avere la vita ai suoi piedi. Lo si vedeva aggirarsi nel suo territorio in compagnia di donne meravigliose, con al collo pesanti catene doro, giubbetti di pelle, capelli stravaganti e mitici stivaletti. Era come si dice in gergo uno arrivato. E, per giunta, laveva fatto divertendosi e faticando poco. Quella era la favola che anche io sognavo, la vita che mi meritavo, pensavo. Volevo anchio tutto e con il minimo sforzo possibile.

Ero stanco del ruolo di cenerentola e nauseato da una vita che per me era stata solo matrigna. Sergio mi era stato presentato dai fratelli Borsellino, una sera di fine estate, in zona Tiburtina, a seguito di una lite fra una delle sue ragazze e un cliente restio a pagare. Sergio si era cavallerescamente schierato a favore della ragazza. Io ero con i Borsellino in gita di piacere, quella sera, e con loro intervenni a sostegno di Sergio. In realt, per loro tramite, io sapevo di lui quasi ogni cosa, o per lo meno credevo di sapere. E lavergli stretto la mano ne faceva ai miei occhi di ragazzo un mito materializzatosi. Per lui io non ero stato che una delle innumerevoli figure, che avevano per puro caso sfiorato appena la sua scia. Di me, infatti, non si ricord la sera in cui cercai di infiltrarmi tra le fila della gente che conta a una festa da lui organizzata in zona Fleming. Ai miei amici avevo detto: Vestitevi bene. Stasera vi porto in un posto incredibile, dove c solo gente che conta. Ceravamo ripuliti e agghindati di tutto punto. Ma, ahim, non ci lasciarono nemmeno avvicinare. Io cercai di chiamare Sergio, avendolo notato in mezzo agli uomini della sicurezza, ma non mi guard nemmeno. Anzi, esort i suoi uomini ad allontanarci in fretta. Non voleva casini. Cos, coda sonoramente in mezzo alle gambe, i miei amici e io tornammo alle nostre Vespe, che avevamo parcheggiato non troppo lontano. Serata finita? Niente affatto! I giovani trovano sempre unalternativa percorribile. Puttan tour! Ripiegammo su Tor Di Quinto, a infastidire le prostitute.CAPITOLO 5

Lincastro 1975, seconda met di luglio Gli avevo parlato pi volte di una marana dove noi ragazzi andavamo a fare il bagno. Era il posto dove chi, come me, non aveva i soldi per poter andare spesso al mare, finiva per trascorrere alcuni pomeriggi destate assieme agli amici; disseminate per la citt di Roma cerano diverse pozze dacqua. Io, di solito, preferivo andare con gli amici allIncastro. Era una sorta di canale di acqua corrente, che scorreva dalle parti di Tor Sapienza,3 Pozza d'acqua naturale, stagno.3

allargandosi fino a formare una piccola piscina resa pi profonda grazie alla presenza di una lastra di ferro incastrata di traverso nel fiume a mo di ghigliottina; una sorta di diga casereccia. Questo permetteva ai ragazzi di lanciarsi, fare i tuffi, le capriole e magari una mezza nuotata in quellacqua ghiacciata. La leggenda metropolitana che legava il nome Incastro a quella marana raccontava di un ragazzo che nel tuffarsi con troppa veemenza si fosse castrato urtando contro una lastra di ferro. Raccontai a Pier Paolo che in prossimit dellIncastro si trovava un deposito di patatine confezionate e che spesso i ragazzini scavalcavano la recinzione per andare a frugare nei furgoni parcheggiati sul piazzale e rubare i pacchetti di patatine. Pier Paolo era incuriosito ed eccitato dal mio racconto al punto che mi chiese di portarlo in quel posto. Parcheggiammo non troppo vicino. Il posto doveva essere raggiunto a piedi. Sorrideva come un bambino di quindici anni e fu lui a propormi di scavalcare assieme la recinzione del deposito di patatine per prenderne qualche pacchetto. Non mi pareva vero, gli sbottai a ridere in faccia. Lui rise assieme a me, fino a lacrimare, ma non esit a togliersi la giacca che indossava e poggiatala su un lato della recinzione scavalc agilmente. Aprimmo un furgone, quello pi vicino. Era stracarico, forse pronto per le consegne. Ne prendemmo quattro o cinque pacchetti, poi tornammo alla recinzione. Pier Paolo scavalc per primo, io gli lanciai le patatine. Ne volevo prendere ancora, ma Pier Paolo mi fece desistere; nessuno sarebbe riuscito a mangiarle tutte. Quindi scavalcai di nuovo. Ci sedemmo su una pietra. Mi guardava e rideva per aver fatto una cretinata come non ne aveva mai fatte prima. Mi abbracci e rimanemmo a guardare i ragazzi che facevano il bagno mentre io aprivo il primo pacchetto di patatineCAPITOLO 6

Al mare 1975, ultima settimana di luglio Verso le quattro del pomeriggio mi trovavo con i fratelli Borsellino al Bar della Signora in via Lanciani, scendemmo nella sala sotto il locale. Cera un vecchio juke box. Andava a cinquanta lire e sentivamo le canzoni del momento, mentre giocavamo a flipper o a biliardino. Cera anche un tavolo, delle sedie. Qualcuno beveva una gassosa. Uscimmo per fumare una sigaretta e casualit volle che proprio in quel momento passasse Pier Paolo.

Sapeva che spesso trascorrevo i pomeriggi l con i miei amici e mi pass a trovare. Mi suon col clacson e io andai verso di lui. Ciao mi disse domani mattina devo fare un paio di giri a Ostia, per cui se non hai impegni potresti accompagnarmi e poi potremmo andarcene a mangiare qualcosa insieme. Feci finta di pensare a tutti gli impegni che avevo il giorno dopo, mi girai un attimo a guardare verso i miei amici e poi risposi: S, si potrebbe fare, basta che per le cinque ristamo a Roma che cho da fa. Sorrise di nuovo e prima di andar via mi disse: Passo per le nove sotto casa tua. Porta il costume. Rimasi un attimo perplesso poi senza rispondere annuii con la testa e riattraversai la strada. Ancora una volta le macchine mi suonarono contro e qualcuno dal finestrino mi grid che ero un deficiente. Ah ma mo ta fai coi ricchi, di un po fece Gigi, uno della comitiva. Ma famme er piacere, va. Ero un po in imbarazzo con loro, ma in fondo mi sentivo una piccola star potendo vantarmi: Lhai vista quella macchina? esagerai. Lho tirata a duecento chilometri; una bomba!. Ma preferii non dir nulla dellincontro del giorno dopo per evitare che cominciassero a fare battute idiote. Il giorno dopo uscii di casa alle nove in punto. Avevo messo il costume sotto i jeans per evitare, in caso fossimo andati davvero al mare, di dovermi cambiare davanti a tutti. Presi di nascosto un asciugamano e andai via di fretta per non farmi fare domande. Lui era gi l che mi aspettava appoggiato alla sua GT succhiando un lecca lecca. Mentre attraversavo la strada mi tir a palombella le chiavi della macchina e disse: Guida tu ed entr dalla parte del trasportato. S!!! esclamai entusiasta. Ogni volta, allaccensione, mi faceva davvero effetto sentire il rombo di quel motore e ancora una volta al lato di guida ci stavo proprio io. Sul raccordo anulare il piede cominci a pigiare di gusto sullacceleratore lasciando che la lancetta dei chilometri salisse vertiginosamente. Stavolta non dovevo mentire, perch per la prima volta avevo superato i 160 e di sicuro non stavo scappando da nessuno. Imboccai la via del Mare e in men che non si dica arrivai a Ostia. Mi indic con il dito di andare a sinistra. Percorsi interamente il lungomare scorrendo con lo sguardo i numerosi stabilimenti balneari ormai aperti tutta

la settimana. Superammo la rotonda dove finisce la Cristoforo Colombo e ci dirigemmo verso Castelfusano. Quella resta per me la zona pi bella del litorale Ostiense sia per la pulizia del mare che per la bellezza della spiaggia. Fui proprio io a chiedere a Pier Paolo di poter andare al Gabbiano, uno stabilimento del Lungomare Amerigo Vespucci dove ero stato qualche volta con la mia ragazza quando in tasca avevo qualche spiccio. Parcheggi la macchina sotto lincannucciata per ripararla dal sole. Scendemmo e ci dirigemmo verso lingresso dello stabilimento. Sembrava tutto cos normale, anche se al contempo era tutto cos strano: mi trovavo al mare con un perfetto sconosciuto e ciononostante mi sentivo a mio agio. Avevo nascosto a tutti la mia destinazione per non dover dare spiegazioni e ora che mi trovavo l sulla sabbia scura del bagnasciuga mi sentivo mancare la terra sotto i piedi perch non sapevo come comportarmi. Fu lo stesso Pier Paolo a liberarmi dallimpasse. Si tolse la camicia, la lasci adagiare su un lettino sdraio rimanendo a torso nudo ma con quei buffi occhiali scuri che non toglieva mai. Che ne dici di farci subito un bagno? propose e al contempo tolse le scarpe e slacci la cinta dei pantaloni grigi. Anche lui aveva indossato il costume e in quel momento fui cos contento di averlo gi messo. Era una meravigliosa giornata di marted per cui il mare era davvero tutto per noi. Pier Paolo si tuff e dopo una decina di bracciate si gir a cercarmi. Che aspetti? cerc di non gridare. Guarda che lacqua un brodo. Era cos grande quel signore, eppure cos delicato nelle parole e aggraziato nei movimenti che mi pareva una di quelle bambole di ceramica che non vuoi toccare per paura di romperle. Mi tuffai e come al mio solito non mi esentai dal fare il bullo per dimostrare a chiunque mi stesse guardando che sapevo nuotare bene. Lo raggiunsi e mentre ci tenevamo a galla Pier Paolo per la prima volta mi parl di s. Tu lo sai chi sono io? disse. Sinceramente non avevo idea di chi fosse e se la devo dire tutta non lo capii neppure dopo che me lo disse; avevo solo capito che Pier Paolo aveva tanti soldi. Ma non solo per la macchina di grossa cilindrata che amava guidare con la musica di Ennio Morricone a volume moderato; avevo anche lasciato cadere gli occhi nel suo portafogli ogni qual volta ci aveva messo mano per pagare il conto.

Mi chiese se avessi visto alcuni film, ma non seppi rispondergli perch avevo da sempre preferito uscire con le ragazze o fare qualche furtarello con gli amici piuttosto che chiudermi dentro un cinema. Mi disse di avere 53 anni ma di sentirsene mille e al contempo diciassette. Mille per tutto ci che aveva visto, conosciuto e scoperto. Per le esperienze di vita, belle e brutte, che aveva incamerato in tutti quegli anni. Mille, ancora, per limpotenza che si sentiva addosso di non poter combattere da solo contro un intero sistema. Mi chiese se fossi di destra o di sinistra, ma sinceramente della politica non me ne era mai fregato un granch e questa cosa sembr quanto meno rassicurarlo un po. Mi disse: Sei ancora puro. Non permettere mai a nessuno di sporcare le tue idee. Se credi in quello che pensi, lotta sempre affinch le tue idee vengano rispettate da tutti, giuste o sbagliate che siano. Non diventare mai adulto, resta sempre fanciullo. Ricordati Pino: adulto mai!. Me ne sento diciassette prosegu perch mi sento uguale a te: con le tue stesse emozioni, le stesse passioni, la stessa complicit; quella complicit che non ho e non trovo con le persone della mia et. Cercavo di seguirlo nei suoi discorsi, perdendomi nella mimica del suo volto. A volte sembrava si infervorasse per quello che diceva, ma ero cos lontano dalla sua realt che capivo poco o niente di ci che voleva davvero trasmettermi. Probabilmente se ne accorse, perch interruppe bruscamente il suo monologo e mi invit a gareggiare con lui in una sfida a stile libero fino alla riva. Cavolo come filava. Arriv decisamente molto prima di me e la cosa pazzesca fu che mentre io non ce la facevo neppure a respirare lui si stava gi asciugando. Prendemmo poco, pochissimo sole; giusto il tempo di riposarci un attimo e di asciugarci un po. Poi tirandosi su di scatto dallo sdraio mi disse: Io ho fame per cui, se non hai altri programmi, andrei a mangiare. Mi infilai la maglietta e i pantaloni, ma avendo i piedi ancora bagnati presi le scarpe con le mani e risalimmo la spiaggia per raggiungere il ristorante dello stabilimento. And a lavarsi le mani, ma ritorn dopo qualche minuto tutto pettinato e sistemato come se fosse appena uscito di casa. Io in confronto sembravo uno straccione. Qualcuno seduto ai tavoli si alz per salutarlo, per stringergli la mano. Lui sorrise a un uomo, poi a un altro. Non sembrava la cosa lo infastidisse e senza badarci troppo torn al tavolo. Tutti ci guardavano.

Ero io piuttosto a sentirmi in imbarazzo e tentai alla meno peggio di darmi unaggiustata al bagno, dandogli il cambio. Mi sentivo addosso gli occhi di tutti, e per poco non feci cadere a terra un vassoio poggiato su di un tavolino. Quando tornai, trovai il nostro tavolo debitamente apparecchiato con il pane, dellacqua minerale e al centro del tavolo un vaso con dei fiori freschi. Mi sedetti e lui con un sorriso nascosto da quegli occhiali che teneva sempre sul viso mi chiese cosa volessi da mangiare. Non cera il men e il cameriere a voce ci elenc accuratamente tutti i piatti del giorno. Io non sono mai stato di molte pretese essendo abituato a stringere la cinghia, ma mi era gi capitato di mangiare gli spaghetti con le telline. Per cui, trovandoli nellelenco del cameriere, me ne feci preparare una doppia porzione. Mi rimase impresso il fatto che Pier Paolo scelse un primo piatto molto semplice, tipo pasta con il pomodoro o una cosa simile, sebbene il men offrisse pietanze da sogno. In fondo al locale cera un signore che con la chitarra si era messo a suonare degli stornelli romani e le persone che gli stavano intorno si erano unite in coro nei ritornelli. Involontariamente ne venni distratto mentre le parole di Pier Paolo finirono magicamente in secondo piano; cominciai a canticchiare le parole dello stornello; il tizio con la chitarra se ne accorse e ci fece cenno con la mano di avvicinarci. Daje vie a canta che se famo du risate mentre aspettamo la pasta. Mi alzai dal tavolo e mi avvicinai verso il chitarrista. Anche Pier Paolo, qualche secondo pi tardi, si avvicin lentamente. Sembrava stupito e divertito al contempo e rimase con me finch il cameriere non ci chiam al tavolo per servirci il pranzo. Mentre mangiavamo, Pier Paolo mi fissava. Sembrava studiare i miei movimenti. Ma vi magna che te se fredda? lo rimproverai. Sorridendo si poggi il tovagliolo sul petto e, tenendolo fermo con la mano sinistra, con la destra arrotolava serenamente gli spaghetti. Ma non pi facile se te lo metti dentro il colletto della camicia? lo redarguii puntandogli lindice della mano. Sorrise ma non rispose. Bello quellanello che porti mi disse dopo un attimo di pausa, ma proseguendo a mangiare in quella maniera assurda. A quel tempo ero solito portare un anello doro con una pietra blu sullanulare della mano sinistra, me lo aveva regalato Aldo Chiavoloni, un

amico dinfanzia che era riuscito a emergere dai bassifondi della Tiburtina per andare a fare lo Stewart allAlitalia. Aldo me lo aveva portato dallAmerica, in seguito a uno dei suoi viaggi. Gliene avevo visto indossare uno al suo rientro da New York; mi era piaciuto moltissimo. Lui se ne era accorto e senza aver detto nulla la volta dopo me ne aveva portato uno simile. Lo sfoggiavo con boria davanti a tutti. Gli amici della comitiva me lo guardavano con interesse, cos un giorno diedi dei soldi ad Aldo e gli chiesi di comprarmene degli altri. Dopo qualche tempo il mio amico rientr da uno dei suoi viaggi in America e mi venne a trovare. Dalla valigia tir fuori una serie di anelli spettacolari che aveva acquistato solo per me. Erano stupendi. Erano doro, ma oro a 14 carati. Oro a basso costo. Avevano delle pietre colorate rosse, blu, verdi e la scritta United States Army. Aldo me li fece pagare venticinquemila lire luno, al prezzo di costo disse. Ma io riuscii abilmente a vendermeli quasi tutti al doppio del prezzo pagato, spacciandoli per anelli rubati a una famiglia di ricconi americani. Un paio, per, me li ero tenuti per me, per poterli continuare a sfoggiare e a facce er figo. Me lo tolsi dal dito e lo poggiai sul tavolo. Pier Paolo lo prese e lo guard come avevo visto fare solo da un ricettatore. Lo mise controluce, scrut la scritta, poi tent di metterselo al dito medio ma lanello gli calzava solo a met. Sorrise e riprov di nuovo al mignolo. Eccolo stavolta soddisfatto a questo dito mi sta anche meglio. Te lo regalo ribattei senza pensarci e col boccone pronto per essere messo in bocca. Non posso accettare un simile regalo. tuo e avr sicuramente un valore affettivo disse togliendoselo dal mignolo. Maddech!. Gli spiegai, quindi, la storia dei viaggi di Aldo e del business che avevo creato con quegli anelli. Allora te lo voglio pagare prosegu Pier Paolo risoluto dimmi quanto ti devo. Non ce la facevo a essere ingordo. Non ce la facevo con chi mi aveva pagato la cena e ora mi stava offrendo il pranzo. Non potevo vendere il mio anello a chi mi stava regalando un giorno fuori da ogni schema gi visto. Allora siamo pari trovai la soluzione tu paghi il pranzo e io ti rendo la mia met con questo anello. Ci stai?. Si tolse quegli occhiali e sorridendo scosse la testa mimando un no, poi aggiunse:

Quando stai con me, sei mio ospite. Allora voglio essere libero de fatte un regalo. Posso? dissi risoluto. Sorrise di nuovo e si rimise lanello al dito mignolo. Ci gioc un po girandolo a destra e a sinistra. Poi se lo assest bene al dito e riprese a mangiare. Conosci i mostri di pietra? chiese. I che? rilanciai. Non sei mai stato a Bomarzo? rincalz. Non so manco ndo sta io di rimando. dalle parti di Viterbo; chiss magari un giorno ti ci porter. Sai spieg qualche anno fa da quelle parti ho comprato una vecchia torre abbandonata. E che ce fai io ingenuamente se abbandonata?. Me ne ero innamorato tanto tempo fa. Avevo sognato tante volte di entrarci e di ritrovarmi come per magia nel passato, come un portale del tempo. un luogo magico che ti d carica e ti rilassa allo stesso tempo. Ti aiuta a pensare solo alle cose belle e a dimenticarti di quelle brutte. Alla fine ho fatto come i bambini che vogliono a tutti i costi un giocattolo e mi sono regalato un quadro. Solo che al posto della cornice c una finestra sul mondo. Lho fatta restaurare tutta e non appena posso mi rifugio l a scrivere. Cos dicendo indic una cartellina giallo ocra che aveva con s e che io avevo gi notato la volta precedente. Al suo interno dei fogli stampati con dei caratteri di una macchina da scrivere. Quella con le lettere di piombo che battono sul nastro dellinchiostro rosso e nero e poi affondano sulla carta fino a bucarla. Che scrivi? gli chiesi. Scrivo mi rispose. Poi dopo una pausa di silenzio spieg: Scrivo quello che mi passa per la testa. Scrivo poesie. Scrivo storie di vita quotidiana. Ma scrivo anche la cruda verit che nessuno vuole davvero ascoltare. Quella che fa tremare i ricchi e i potenti; quelli che sfruttano la povera gente che si spacca la schiena per un tozzo di pane. Raccolgo informazioni dovunque io sia capace di farlo e ne faccio tesoro. Ma per il ruolo che rivesto e limmagine che i borghesi hanno di me, loro tremano e al contempo tramano per costringermi al silenzio. Vedi, caro Pino, questa storia e mi mostr sfogliando un angolo di quella risma di carta stampata, apparentemente senza valore ma una storia senza destinatari. Queste parole sono carta straccia per molti ma possono far riflettere chi davvero ha il coraggio di farlo. In che senso? azzardai.

A dire il vero tent di spiegare non facile da capire. O meglio, non facile da percepire. Perch oramai ci hanno addomesticato a non scegliere. A subire passivamente delle scelte facendole sembrare nostre. Finsi di capire annuendo con la testa, ma in quel momento il suo viso si era stranamente irrigidito e le mascelle completamente serrate. Sembrava avesse intrapreso una battaglia con un fantasma.CAPITOLO 7

Il furto delle bobine 1975, seconda settimana di agosto I Borsellino non avevano grandi capacit dialettiche e tentavano di conquistarsi la fiducia e il rispetto dei pi grandi cominciando a frequentare la sezione fascista di via Subiaco, una stradina senza uscita alle spalle di via Tiburtina. Il risultato che ne venne fuori: due lobotomizzati che ripetevano a pappagallo una miriade di cazzate assorbite in sezione. Parole come: rivolta, potere, i negri a casa loro, zingari bruciati e via discorrendo. Ma i momenti di esaltazione, per fortuna, si spegnevano qualche ora dopo che uscivano da l, cos da poter tranquillamente andarci a bere una birra assieme e a farci una partita a biliardo alla bisca tra via delle Cave di Pietralata e via degli Ortaggi. Un pomeriggio Franco, il pi piccolo dei due fratelli, mentre acchittavo la nera nella buca laterale mi fece: Pi, te vi sparti na bella fetta de torta facile facile?. Tipo? risposi quasi disinteressato allargomento e concentrato sulla palla da infilare in buca. tutto organizzato. Non c manco da preoccupasse. Dovemo entra dentro i capannoni della Technicolor e pijasse dei firm che channo lasciato e squajassela. La Technicolor era uno stabilimento cinematografico che distava circa un chilometro da casa dei Borsellino e da casa mia. Ma anche io conoscevo le regole della strada e di fare danni proprio sotto casa non ne volevo sapere. Ma che sei scemo Pi. Guarda qua e mettendosi una mano in tasca tir fuori un mucchietto di banconote. Sergio er pappa cha fatto gi odora la grana. So na piotta ma questo solo lacconto. Io non prestai molta attenzione a quelle parole e scagliata in buca lultima palla mi avvicinai al bancone del bar per ordinare un altro peroncino.

Dopo tre giorni per il quartiere gir la voce che alla Technicolor avevano rubato dei film di Fellini e sul giornale avevano scritto che si trattava di un tentativo di estorsione. Non ci volle molto perch i Borsellino, boriosi delle proprie prodezze, venissero tra gli amici a vantarsi della loro ultima operazione ma dei soldi pare non ne avessero ancora visto lombra. Passarono alcuni giorni e Pino, il pi grande, mi confid che i film li avevano consegnati a Sergio (Placidi), che stava ai mezzi con un altro Sergio che lavorava nel cinema.CAPITOLO 8

Trattoria Ausonia 1975, terza settimana di agosto Pier Paolo mi pass a prendere sotto casa verso le undici. Mamma era contenta del fatto che frequentassi una persona importante. Al quartiere praticamente lo sapevano un po tutti e, anche se la gente malignava su quello che Pier Paolo volesse da me, io avevo cercato di rassicurare mia madre dicendole che le persone erano solo invidiose. Voleva portarmi a vedere i mostri di pietra, ma rischiavamo di far tardi e quella sera avevo appuntamento con Luana. Ripiegammo quindi per un pranzetto a Roma e Pier Paolo mi port in una trattoria che allepoca si trovava in una traversa di viale delle Province, proprio di fronte al cinema parrocchiale. Cera molta gente nel locale ma non dovemmo aspettare per ottenere un tavolo: il cameriere riconobbe sicuramente Pier Paolo perch rientr trafelato nel locale e ne usc il proprietario dicendo: Prego, maestro, si accomodi. Dietro ai suoi occhiali Pier Paolo accenn un sorriso e come sempre ringrazi. Mi venne da ridere perch il titolare per farci sedere aveva fatto alzare una coppia di turisti che si era appena seduta. Ci portarono subito, come di consueto, i grissini e una bottiglia di acqua minerale, ma pass pi di mezzora per riuscire a ordinare qualcosa, tant che Pier Paolo si stava spazientendo. Ne approfittai per fargli qualche domanda; questa volta ero io a fare linterrogatorio e a voler sapere qualcosa da lui. Osai, quasi imbarazzato: Mi dici in cosa consiste il lavoro di un regista e come si fa un film?.

Sembrava felice che gli chiedessi qualcosa di lui, del suo lavoro. Fino a quel momento, mi disse, aveva avuto il sospetto che non mi interessasse nulla di ci che faceva. Parl con una semplicit unica e, anche se non ricordo bene le parole che utilizz, non dimenticher mai ci che mi volle comunicare: disse che fare un film come raccontare la realt di tutti i giorni. Non bisogna chiudere gli occhi per immaginare una scena, perch il film della vita proprio l davanti ai nostri occhi. Basta guardarsi intorno per carpirne le meraviglie, lasciarsi attirare da un soggetto che passa, che fa una smorfia, un tic. Seguirne gli atteggiamenti, le parole, i gesti. Aggiunse: La gente purtroppo vede ma non guarda. Limportante per lui era riprodurre le scene di vita senza manipolazioni di sorta, utilizzando attori non professionisti, gente della strada; lasciandosi sempre coinvolgere dalle storie di vita reale. Il cameriere venne a prendere le ordinazioni e come al solito Pier Paolo pareva essere a dieta: poco sale, poco olio, poca pasta, poco vino. Ma la storia chi la scrive? mi venne di chiedere. Io scrivo le storie e aggiunse scrivo anche poesie. Se ti fa piacere te ne recito una e mi dici cosa ne pensi. Ti va?. E daje. Famme senti. Pier Paolo si tolse gli occhiali, mi fiss negli occhi per catturare tutta la mia attenzione poi, dopo essersi guardato attorno, sicuro di non essere osservato, inizi a declamare: Se torna il sole, se discende la sera se la notte ha un sapore di notti future se un pomeriggio di pioggia sembra tornare da tempi troppo amati e mai avuti del tutto, io non sono pi felice, n di goderne n di soffrirne: non sento pi, davanti a me, tutta la vita. Per essere poeti, bisogna avere molto tempo: ore e ore di solitudine sono il solo modo perch si formi qualcosa, che forza, abbandono, vizio, libert, per dare stile al caos. Io tempo ormai ne ho poco: per colpa della morte che viene avanti, al tramonto della giovent. Ma per colpa anche di questo nostro mondo umano, che ai poveri toglie il pane, ai poeti la pace. Restai in silenzio, affascinato, pi che dalle parole, dal suono suadente della sua voce. Non riuscirei a trovare altro modo per poter descrivere quella voce: assomigliava alla sensazione di accarezzare il velluto. Pier Paolo mi chiese se avessi capito il senso delle parole e io come sempre risposi in modo banale. Dissi solo che mi sembrava triste.

Stavolta non sbagliai, per fortuna, perch Pier Paolo mi rispose che era proprio ci che avrebbe voluto trasmettere con la poesia. Ci trovammo per qualche secondo in assoluto silenzio, guardandoci e basta. Poi, per togliermi dallimbarazzo, Pier Paolo mi chiese se avessi dei fratelli o delle sorelle con cui ero cresciuto e con cui avessi potuto confrontarmi. Gli parlai di Anna, mia sorella di un anno pi grande di me. Gli dissi che poich casa era piccola io ero costretto a dormire in stanza con lei, ma a parte le litigate e gli screzi quotidiani, ci divertivamo a sentire assieme i 45 giri di Caterina Caselli. E tu domandai entusiasta di sapere tu hai una sorella?. Pier Paolo sorrise, ma fu un sorriso amaro perch i suoi occhi improvvisamente si intristirono e divennero lucidi. Ho detto qualcosa che non va? gli chiesi. Scosse la testa, ma era evidente che avesse un nodo in gola che gli impediva di parlare. Tacqui fissandolo in volto. Scusami Pino, ma in fondo era normale che anche tu mi chiedessi: sai, anche io avevo un fratellino, si chiamava Guido ed era solo un pochino pi piccolo di me aveva la voce roca mentre parlava e teneva gli occhi abbassati verso il tavolo mor quando aveva appena diciannove anni. Non sapevo cosa dire, non avrei mai voluto portare largomento su qualcosa di sconveniente, ma come avrei potuto sapere Che successo? provai a chiedere. Era un partigiano. E forse lo era per colpa mia. Fui io stesso a convincerlo a essere fortemente antifascista. Cos Guido cominci a essere un attivista. Prese la politica talmente a cuore che decise di partire per la guerra. Decise anche di cambiarsi il nome in Ermes, il nome di un mio amico morto nella guerra in Russia. Fui io stesso ad accompagnarlo al treno quando part per il fronte, con la sua valigetta di cuoio e la sua rivoltella ben nascosta in un finto libro di poesie. Quella fu lultima volta che lo vidi. Io sono sempre stato orgoglioso di mio fratello. Ma non riuscir mai ad accettare il modo in cui perse la vita. Avrebbe potuto cadere al fronte, essere ucciso per mano dei tedeschi o degli stessi fascisti. E invece no. Fu il fuoco amico a rendercelo in una bara. Furono i partigiani garibaldini a tendergli un agguato e a trucidare tutta la sua divisione. Una lacrima scese sul viso. Una smorfia, un sorriso amaro. Si asciug gli occhi con il tovagliolo di stoffa e si rimise gli occhiali. Il 27 agosto Pasolini venne avvisato dalla Technicolor del furto delle bobine.

I Borsellino raccontarono di aver rubato per conto di Placidi alcune bobine relative ai film di Federico Fellini, Damiano Damiani e di Pier Paolo Pasolini negli stabilimenti della Technicolor sulla via Tiburtina. Sergio Placidi, con la complicit di uno del cinema, avrebbe cercato di estorcere denaro per la loro restituzione. La mano glielavrebbe fornita tal Sergio Citti per onorare un debito che lo stesso pare avesse maturato nel tempo nei confronti di Placidi per via di forniture di sesso e droga. In prima battuta vennero richiesti a Grimaldi, il produttore di Pasolini, cinquecento milioni di lire ai quali egli ne contropropose cinquanta. In quel contesto cera un certo Mauro G., un tizio ben vestito, pettinato con la riga e laria misteriosa Franco me lo dipinse in quel modo che gravitava nellambiente fascista e particolarmente nella sede del Movimento Sociale di via Subiaco. Mauro disse a Franco di aspettare, di non confermare la proposta. Intendeva prendere tempo. Fece poi in modo che il capo della sezione politica parlasse con Sergio Placidi. Da quel momento tutto cambi. Non so cosa fosse successo, n il perch, fatto sta che da quel momento Placidi non chiese pi nulla e comunic a Pier Paolo tramite Citti la volont di restituirgli gratuitamente le bobine offrendo come motivazione il fatto che il regista avesse dedicato la sua vita alle borgate e alla gente meno fortunata e per questo meritasse di non essere ricattato. Quando Franco me lo raccont, la cosa mi parve assai inconsueta e fuori dagli schemi. Era assurdo che, dopo aver rischiato tanto, improvvisamente qualcuno dicesse: Scusate tanto. Grazie. Ci siamo sbagliati. Stonava. Lunica certezza in quella storia furono le imprecazioni dei Borsellino che sarebbero rimasti a bocca asciutta a fronte delle promesse ricevute da Placidi. Uninversione di marcia che a me, comunque, non toccava. Ero quasi soddisfatto di esserne rimasto fuori.CAPITOLO 9

Osteria del curato 1975, prima settimana di settembre Pier Paolo mi diede appuntamento sulla Tuscolana proprio allaltezza di via Palmiro Togliatti.

Ma se avessi preferito non fare la strada a piedi, mi sarebbe sicuramente venuto a prendere a casa. Preferii fare i miei giri prima e quando erano gi scoccate le dodici da qualche minuto e il sole era sopra la mia testa a scaldarmi la pelle, arrivai al luogo dellappuntamento. Pier Paolo doveva sbrigare qualche faccenda allinterno degli studi di Cinecitt, ma non mi fece aspettare moltissimo. Usc tutto trafelato con la sua inseparabile automobile. Indossava un gilet molto sobrio, una camicetta bianca e un jeans scuro. Mi fece salire a bordo dellauto. Gli chiesi: Ma che stai girando un film a Cinecitt?. No mi rispose successo un mezzo guaio. Qualcuno ha rubato le pellicole del film e sono venuto per verificare se casualmente fossero rimasti qui alcuni negativi in giacenza. Dovetti mordermi la lingua per non dire a Pier Paolo che forse potevo conoscere gli autori del fatto. Poi cambi discorso e mi chiese: Tu hai fame? Ti porto in un posticino tranquillo, qui vicino, dove si mangia una grida da leccarsi i baffi. La macchina fece una inversione a U proprio davanti al centro sperimentale di cinematografia. Superammo via delle Capannelle e dopo poche centinaia di metri varcammo un cancello a lato della Tuscolana, allaltezza dellOsteria del Curato. Parcheggi la macchina; scendemmo ed entrammo nella trattoria. Mi disse che in quella locanda si recava spesso la gente del cinema, sia perch si trovava vicino a Cinecitt sia perch si mangiava bene. Anche Fellini qualche volta aveva deciso di sostarvi a pranzo con gli amici, ma io Fellini lo conoscevo solo per sentito dire. Venne a servirci un ragazzotto sulla ventina. Basso, tracagnotto, riccio e con qualche brufoletto in viso. Port subito del pane casereccio, dei grissini, una brocca dacqua. Chiesi del vino e mi serv allistante una caraffa di rosso. Poi si avvicin di nuovo con il blocchetto di carta e una Bic, pronto per le ordinazioni. Accettai di buon grado il consiglio che mi aveva suggerito Pier Paolo; cos ordinai un piatto di bucatini alla gricia. La grida molto semplice ma altrettanto buona, ed un piatto tipico di Roma: la pasta deve essere rigorosamente al dente. Poi viene condita con un soffritto di guanciale rosolato nellolio doliva, mantecando il tutto con del pecorino romano e del pepe nero. Pier Paolo fece altrettanto, ma prese come al solito solo mezza porzione e con poco sale. Mi riemp il bicchiere con il vino rosso e se ne vers solo un po nel suo per andarlo a rabboccare con dellacqua.

Sai mi disse che la pasta alla gricia uno dei piatti pi antichi della cucina romana? Pare sia stato inventato nel 1400 da alcuni pastori quando ancora in Italia non si conosceva il pomodoro. Con la scoperta dellAmerica e limportazione del pomodoro in Europa, alcuni Amatriciani emigrati a Roma cominciarono ad aggiungere alla grida il pomodoro. Da l ha poi avuto origine la pasta allamatriciana. Ammazza quante cose sai feci io di rimando. Dai prosegu il regista allora raccontami qualcosa tu della tua vita. Ma vera questa storia che hai fatto un sacco di furti? Ma non hai paura?. Mi fermai un attimo a riflettere. Guardavo Pier Paolo dritto nel viso senza fiatare. Lo scrutai attentamene come se stessi cercando il difetto in un quadro. Poi allungai le mani delicatamente sul suo viso e gli tolsi gli occhiali scuri che non toglieva mai. A me sti cazzo de occhiali che porti me danno il nervoso. Pier Paolo sorrise di gran gusto, poi disse: La sai una cosa? Mi dispiace solo di non averti conosciuto prima. Saresti stato perfetto per fare una parte nel film che ho appena ultimato. Tu sei tutto matto! Sei istintivo, intuitivo, divertente e anche molto fotogenico. Se la smetti di giocare a fare il delinquente io alla prima occasione che mi capita a tiro ti faccio fare una parte in un film e ti faccio guadagnare un po di soldi cos la smetti. Tu stammi vicino e ascolta i miei consigli e non te ne pentirai. Servirono la pasta. La mia porzione era in quantit industriale piena zeppa di guanciale rosolato. Mi avventai sul piatto. Il secondo arriv mentre stavo facendo la scarpetta nellolio della gricia. Nel frattempo ero riuscito a ordinare, ma solo io, agguantando il cameriere per un lembo della parannanza mentre passava tra i tavoli, dato che avevo la bocca troppo piena per chiamarlo. Chiesi una bistecca ben cotta con le patatine fritte che arrivarono puntuali. Dici sul serio? continuai il discorso iniziato mentre rimuginavo sulle sue parole.Pensi davvero che potrei essere in grado di fare lattore?. Mi rispose con un s gentile, sorridendo e muovendo il capo in avanti ne sono convinto aggiunse hai tutte le qualit per diventarlo. Sai, quando ventanni fa sono scappato dalla mia citt per venire a vivere a Roma, non fu tutto rose e fiori: fui costretto a sopravvivere in condizioni pessime finendo per andare ad abitare in una casa di periferia rimasta completamente senza il tetto. Sai dove? Dalle parti della Tiburtina, dove adesso hanno fatto il carcere nuovo, quello di Rebibbia . Ecco, ero rimasto disoccupato ed ero disperato perch non sapevo, davvero, cosa fare. Ma non mi sono mai arreso. Sono andato avanti, ho reagito, ho lottato; proprio come vorrei che oggi facessi tu,4 La prima casa a Roma di Pasolini fu in via Tagliere, 3.4

che ti ostini a pensare di essere nato solo per essere infelice o, peggio, un delinquentello di borgata. Gli chiesi perch fosse scappato dalla sua citt, ma prefer glissare . Dato il silenzio antipatico che si era creato, cercai di portare avanti il discorso che aveva intrapreso: E allora feci io con apparente curiosit che te sei inventato pe magn?. Tir un sospiro di sollievo e prosegu: La fortuna ha voluto che, essendo laureato, mi presero a lavorare in una scuola privata qui vicino a Roma. Questo mi permise di sostentarmi e di pensare con un po di serenit al mio futuro. Verso la fine del pranzo, mentre sorseggiavo il caff sentii degli strilli fuori dal ristorante che ci distolsero dai discorsi che stavamo facendo. Entrarono tre ragazzi, facce conosciute ma che non riuscivo a identificare con certezza. Forse compagni di borgata con cui avevo condiviso qualche partita a biliardo. Mi guardarono, mi fissarono, poi si sedettero a un tavolo poco distante da dove eravamo noi. I tre si giravano a guardare insistentemente finch non si misero con le sedie rivolte verso di noi e con il braccio poggiato sullo schienale della sedia. Sebbene facessi finta di non accorgermi di nulla, era impossibile non sentire i loro commenti ad alta voce: Ah ma te non sei er pischello de Casal Bruciato? Ma famme capi, ma che niente niente mo te la fai coi froci?. Guarda che n amico alzai la voce. S de sto cazzo sbottarono a ridere tutti e tre. Pier Paolo tent di farli allontanare dalla sala, ma io non ce la facevo a resistere a tanta umiliazione; alzai la voce anche io, gli dissi che la loro era tutta invidia. Attirai lattenzione delle persone del locale, in un attimo piomb il silenzio pi assoluto regalandomi la scena di un lungo monologo senza interruzioni. Siete degli accattoni, dei miserabili. Non avete di meglio da fare e finite per sputare sugli altri solo perch non siete in grado di reggere il confronto e vi fate forti lun laltro solo quando siete in branco. Codardi, vigliacchi, uscite fuori uno alla volta se ve regge, e ve spiego a forza de calci sulle gengive come ce se comporta. Che poi quandho finito co voi, vado a trova vostra madre e vostra sorella e ve faccio racconta da loro com fatto n omo. A quel punto avevo gli occhi di tutti addosso.5 Pasolini lasci Casarsa nel 1951 in seguito alla denuncia di abusi su minori e alla cacciata dal PCI in quanto omosessuale; gli avevano tolto l'abilitazione all'insegnamento su tutto il territorio nazionale.5

Tutti ci stavano guardando. Strinsi i pugni, ma in realt era solo per non scoppiare a piangere. Diventai rosso paonazzo. Mi alzai di botto dalla sedia facendola cadere in terra. Pier Paolo cerc di trattenermi per paura che facessi un macello dentro il ristorante. Gli tolsi il braccio di torno, ma non oppose resistenza quando si accorse che la mia forza spingeva verso luscita. Uscii senza guardarmi indietro, con le lacrime agli occhi trattenute a stento; andai via di corsa dal ristorante senza dir nulla. Con le mani in tasca, attraversai di netto la Tuscolana, proprio l dove le macchine sfrecciano e non c aria di pedoni per centinaia di metri. Corsi a perdi fiato verso Cinecitt, non riuscendo pi a trattenere le lacrime. Dopo una decina di minuti di passi veloci messi in fila uno dopo laltro, mi accorsi con la coda dellocchio che Pier Paolo mi aveva gi raggiunto con la sua macchina. Era uscito immediatamente a cercarmi l, intorno alla trattoria, pensando che mi fossi nascosto dietro a qualche rovo di more. Poi aveva preso la macchina e si era fatto un giro nella speranza di incrociarmi. Mi raggiunse poco prima degli studi di Cinecitt, mi sentii chiamare; riconobbi la sua voce ma non mi voltai. Mi chiam dal finestrino: Pino, fermati. Sali, parliamone. Avevo il viso pallido e gli occhi gonfi, e non volli neppure alzare la testa per orgoglio. Le lacrime, bastarde, non si erano ancora fermate. Ero stravolto e mi vergognavo come un ladro. Continuavo a camminare senza rivolgergli la parola. Attraversai di nuovo la statale. Pier Paolo azzard una manovra e mi raggiunse. Ebbi la forza di reagire e tutto dun fiato gli dissi: Vattene, lsciame sta. Forse meglio che io e te non se vedemo pi. Mamma mia che figura de merda che ho fatto l dentro!. Per evitarlo imboccai via delle Capannelle, senza neppure sapere dove andare. Camminavo sulla sinistra, in mezzo allerba, affiancando i ruderi romani della Villa dei Sette Bassi. Si erano fatte le due; la strada era completamente deserta, tant che Pier Paolo si era spostato completamente contro mano per riuscire a parlare con me che mi ostinavo a camminare senza guardarlo. Improvvisamente mi super; parcheggi lautovettura su uno slargo poco pi avanti, senza neppure chiuderla. Scese dalla macchina e mi venne incontro: Smettila di fare cos, sono mortificato. Non era mia intenzione farti trovare in quella stupida situazione. Mi blocc con tutte e due le mani, poggiandole con forza sulle

mie spalle che, imperterrite, non avevano dato cenno alcuno di voler arrestare il cammino. Gli urlai: Ma co che faccia me ripresento al quartiere? Sai come me pijeranno tutti pel culo. Ascoltami fece lui finch tu sei stato con me, mi sembrato che non ti sia mai importato n chi io fossi n che cosa facessi, nel bene e nel male. Mi hai sempre guardato negli occhi valutandomi per quello che io sono veramente e non per quello che la gente potesse pensare di me. Perch adesso vai nel panico? Perch hai paura di quello che pensano gli altri? Gli altri non hanno mai condiviso le nostre risate, le nostre cazzate, le nostre mangiate. Gli altri possono solo immaginare perch non ci conoscono; per ci giudicano. Perch? Perch sono grande? Perch sono ricco? O perch sono frocio, come dicono con disprezzo? Io e te passiamo del tempo assieme e ho sempre creduto che tu stessi bene in mia compagnia; forse perch non ho mai preteso niente da te, n tho mai chiesto di non essere te stesso. Gli altri sono solo ottusi perch non possono o non vogliono arrivare a concepire unamicizia come la nostra solo per il fatto che non rientra nei loro schemi. La gente cattiva. La gente fa cose assai peggiori, credimi, ma si nasconde perch vile. Io, malgrado tutto, non ho niente da nascondere servendogli, su un piatto dargento, unarma cos potente come il giudizio. Io, caro amico, non sono una malattia contagiosa. Io sono Pier Paolo, quello che hai conosciuto, che conosci e con cui hai condiviso i tuoi sorrisi. Le vere puttane, mio caro Pino, non sono quelle che battono per la strada, ma quelle che si battono il petto in chiesa la domenica per poi fare peggio di quanto loro condannino. Finimmo la camminata davanti alla GT parcheggiata di sghimbescio sul verde che costeggia la strada. Mi preg di rientrare in macchina e mi disse che se avessi voluto mi avrebbe solo riaccompagnato a casa. Cos feci. Salii in macchina senza fiatare. Lui mi guard e rispett in silenzio il mio silenzio, dirigendosi diretto verso il cancello di casa mia.CAPITOLO 10

Villa Ada, una partita di pallone 1975, seconda settimana di settembre Mia madre da piccolo mi diceva: Figlio mio, il ballo di San Vito lhai inventato tu! Ma possibile che non riesca a stare fermo nemmeno quando dormi?. In un certo senso era vero. E cos quel pomeriggio a Villa Ada, mentre Pier Paolo se ne stava seduto su una panchina di fronte al laghetto a godersi il sole, io lanciavo sassi a pelo dacqua.

Cinque punti quando riuscivo a far compiere alle pietre pi di due rimbalzi. E se fatalmente qualche anatra si frapponeva sulla traiettoria dei miei lanci i punti diventavano dieci. Ma questo a Pier Paolo non lo dissi. Pino, lasciale stare mi ammon a un certo punto. Perch che ho fatto? tentai di giustificarmi. Sono loro che si mettono sempre nel posto sbagliato. Questi uccellacci! Mhanno fatto anche sbagliare. Piuttosto continu sai giocare a pallone?. Ho fatto per due volte i provini per la Tevere Roma, ma non mi hanno mai convocato risposi in compenso ho giocato con due squadre di calcio: la Roman a Monti Tiburtini e la Pro Roma a Villa Gordiani. Perch me lo chiedi? aggiunsi. Perch mi serve uno bravo in squadra rispose, alzandosi di scatto. A poca distanza da noi quattro ragazzi giocavano una partitella col n. 5, il mitico pallone di cuoio marrone, che quelli della mia generazione ricorderanno senzaltro. Ragazzi possiamo giocare con voi? chiese Pier Paolo. Io iniziai a tirarlo per un braccio, dicendogli sottovoce: Ma che tha fatto male il sole? Dai stai buono, non farmi fare figuracce. Chi era ad avere il ballo di San Vito? In quel momento non certo io! Ma, contrariamente a quanto mi aspettassi, quei ragazzi ci accolsero con entusiasmo. E io, incredulo, mi ritrovai in squadra con Pier Paolo e uno di loro. E dovetti ricredermi ancora una volta quando Pier Paolo prese la palla. Era bravissimo. Correva, marcava, dribblava con la disinvoltura di un quindicenne. La partita fin 6 a 4 per noi. Avevamo portato a casa un pomeriggio divertente, la vittoria e tante macchie derba e terra, che ripulimmo sommariamente alla prima fontanella. Per quale squadra tifi? mi chiese. Sempre forza Inter feci io mentre mi sciacquavo le braccia e tu?. Io tifo per il Bologna. Ma che na squadra er Bologna? sorrisi io e lo schizzai con lacqua della fontanella.CAPITOLO 11

Al Pigneto, a botte per gioco 1975, terza settimana di settembre Pass qualche giorno prima che rivedessi Pier Paolo.

Aveva cambiato pettinatura e il suo abbigliamento sembrava riciclato da qualche negozio americano: camicie dai colori assurdi e giacche inappropriate indossate da chi fino al giorno prima era stato licona della sobriet e del buon gusto. Pareva volesse a tutti i costi assomigliare a un pischello della mia generazione, finendo per assumere un aspetto al limite del ridicolo. Le scarpe da ginnastica firmavano quel quadro naif alla Alberto Sordi. Cos? chiese non ti piace il mio abbigliamento?. Improntai una faccia che la diceva pi delle parole, ma fui attento a non dire nulla per evitare di essere offensivo. Dai facciamo due passi a piedi mi redargu. Ci spostammo con la macchina fino a ponte Casilino, poi parcheggiammo e ci addentrammo a piedi allinterno del quartiere Pigneto. Sembrava ci abitasse da anni per la disinvoltura con cui si muoveva tra i vicoli, spesso bui e senza luce. Non aveva paura di nulla e camminava fiero e a testa alta con un sorriso idiota stampato sul volto. Amava camminare a lungo, senza stancarsi mai, guardandosi sempre intorno come se vedesse le cose che lo circondavano per la prima volta in vita sua. Arrivammo a piedi fino a via Alberto da Giussano, allaltezza del parco (dove oggi c il mercato). Alle spalle un vecchio casale dominava sul verde. Pier Paolo si ferm alla fontanella per bere. Si tolse gli occhiali e li poggi alla sua sommit. Si gir le maniche della camicia e respir a pieni polmoni. Sei vecchio feci io scherzando lo vedi che non gliela fai pi. Mi guard negli occhi in tono di sfida. Si allent il colletto della camicia e ci pass un dito dentro allargando lo spazio tra il collo e il colletto. Poi senza dir nulla si avvent contro si me e mi butt a terra con una tecnica di judo. Cercai di liberarmi dalla presa, ma pi tentavo di divincolarmi e pi lui stringeva facendo leva sul braccio. Cazzo ma sei scemo urlai mi fai male cos. Ripeti un po quello che hai detto? Cos, non riesci a far attraversare la strada a questo vecchietto?. Rideva e al contempo non mollava la presa: Ti arrendi? disse nel tentativo di mettere fine alla mia agonia di sconfitto. Mai ribattei. Quando mi lasci andare, avevo braccia e gambe indolenzite. Provai ad agguantarlo per la collottola ma Pier Paolo in un attimo era sopra di me. Ok mi arrendo dissi esausto.

Eh no, mio caro. Chi perde paga pegno! mi sollev la camicia dai pantaloni, mi infil una mano allaltezza dei fianchi e cominci a farmi il solletico; io mi contorcevo e gli gridavo di smetterla. Non ce la facevo neppure a parlare, mi mancava il fiato. Poi con due dita mi strinse le labbra spingendo sulle guance fino a farmi diventare la bocca come quella di un pesce. Poi aggiunse: Adesso prova a dire CIP e CIOP. Volevo dirgli di andare a quel paese ma qualsiasi cosa tentassi di dire, avendo la bocca bloccata dalla sua mano, si perdeva in una serie di suoni gutturali incomprensibili. Rise, rise a squarciagola e alla fine allent la presa. Ci ritrovammo a terra tutti e due, con la sua mano nella mia.CAPITOLO 12

Il Casale 1975, quarta settimana di settembre Quel giorno si respirava. Il cielo era coperto e si era alzato un leggero venticello. Esci da Roma di pochi metri e ti sembra gi di stare in aperta campagna, con quellaria frizzante che ti fa venir fame. O forse cos sembra a chi da sempre ha finito per alternare allodore della gramigna quello della nafta, dellasfalto e dellolio di motore. Pier Paolo era come sempre impeccabile nel suo completo marrone, gli occhiali scuri e le scarpe abbinate alla cinta. Nel mio vestiario di abbinato cerano solo gli strappi nei jeans, nel senso che a quelli naturali io ne avevo aggiunto di simili per confondere le idee. Credo che un po lo invidiassi, per questo lo prendevo in giro dicendogli che mi ricordava un manichino dei grandi magazzini, o uno di quei reduci di guerra che indossano perennemente gli occhiali scuri per nascondere la cecit. Quello degli occhiali era un particolare che mi infastidiva terribilmente. Credo di non aver mai visto Pier Paolo senza. Erano per me un muro insormontabile. Non mi davano modo di capire i suoi reali stati danimo. Sentivo I suoi occhi scrutarmi, e questo mi metteva in imbarazzo. Mi costringeva a dire la verit o ad abbassare lo sguardo se mentivo. E anche questo per me era nuovo. E non mi piaceva affatto. Sarei dovuto essere io la figura tenebrosa della situazione.

Ma con lui questo non era possibile. Cos detestavo quegli occhiali, che rendevano me debole e Pier Paolo forte. Era ormai ora di pranzo e i ragazzi, si sa, hanno sempre fame. Ero un pozzo senza fondo, per quanto mi riuscisse di restare secco come un chiodo. Pier Paolo, sentendo il brontolio del mio stomaco, che riuscivo a mal celare, mi chiese: Pino hai fame?. Un po risposi. Cos ci fermammo a pranzo al Casale, un ristorante sulla via Flaminia. Ci sedemmo al tavolo in fondo al salone. Pier Paolo era seduto con le spalle alla finestra che dava sulla strada. Lo fissai un po, in attesa che si togliesse gli occhiali da sole. Ma non lo fece. Cos, quasi stizzito gli chiesi: Ma perch chai sempre sti occhiali scuri che non riesco mai a guardarti negli occhi?. Alz per un istante i suoi Persol e mi disse: Sono la mia unica e sola difesa dal mondo. Mi lasci ancora una volta senza parole. Uno, nessuno e centomila. Questo era Pier Paolo. Mi sono sempre chiesto, e mai sono riuscito a rispondermi, come possa un uomo essere tutto e il contrario di tutto.CAPITOLO 13

Ponte Mammolo 1975, prima settimana di ottobre Uscimmo dal ristorante che sembrava quasi buio. Il cielo minacciava pioggia. Pier Paolo non aveva smesso un solo secondo di parlare del massacro del Circeo: il 29 settembre tre ragazzi di destra della Roma bene avevano sequestrato, seviziato e poi ucciso due ragazze che avevano rimorchiato. Una di loro, gettata nel bagagliaio di unauto nellerronea supposizione che fosse anchessa deceduta, riusc miracolosamente a richiamare lattenzione dei passanti e si salv. Il tutto succedeva mentre i tre aguzzini si erano andati a mangiare una pizza. Non riuscivo a riconoscerlo. Pier Paolo, che di solito era affabile e calmo, improvvisamente si mostrava ossessionato e sconvolto al contempo per il fatto avvenuto. Ritornammo alla macchina. Entrammo e il rumore del mio sportello fu soverchiato da quello del tuono.

Ci muovemmo nella speranza di venir raggiunti dal temporale gi a strada inoltrata. Ma, dal momento che le disgrazie non vengono mai sole, facemmo solo pochi metri e fummo costretti ad accostare: avevamo forato. Pier Paolo stava per scendere dalla macchina, ma vista la mia destrezza con le macchine gli dissi che, sicuramente, avrei fatto molto prima di lui e, forse, anche prima della pioggia. Pier Paolo sorrise e mi lasci fare. Avevo gi tirato fuori la ruota di scorta dal bagagliaio e piazzato il crick sotto la vettura quando, ai primi giri di manovella, vennero gi i primi scroscioni di pioggia. Pier Paolo mi ripet pi volte di rientrare in macchina; sotto quel diluvio sarei riuscito a fare ben poco rischiando solamente di prendermi un malanno. Volevo sbrigarmi e non badai affatto a ci che stava dicendo. Perse le speranze, Pier Paolo fu costretto a scendere dalla macchina e a prendere un ombrello nel bagagliaio, mettendosi di fianco a me per coprirmi. Avevo iniziato a percepire l intorno un movimento di ragazzi vocianti che mi piaceva ben poco, ma continuai imperterrito nel mio lavoro. Le disgrazie non vengono mai sole? riduttivo. A volte viaggiano in comitiva. Dal vociare e ridacchiare i ragazzi, che avevo notato poco prima, passarono rapidamente oltre. Dapprima si limitarono ad additarci, chiamandoci a voce alta amorevole coppietta di froci. Poi due di loro uscirono dal gruppo e vennero verso di noi intimandoci di andarcene immediatamente, perch quello era il loro quartiere e in quella zona gli uomini avevano sempre fatto gli uomini. Pier Paolo prov a replicare, facendo notare la ruota di scorta ancora non inserita. Ma gli altri non intesero ragioni. Era inammissibile, aggiunse quello pi facinoroso dei due, che un frocio di merda osasse rivolgergli la parola. Gli url: Chiedimi scusa e abbassa gli occhi nel farlo. Poi, rivolto a me, aggiunse: E la bambina che fa? Non si alza da terra? A giudicare dalla posizione si capisce subito chi delle due si inginocchia pi spesso. Che schifo!. Io non ci vidi pi. Sentivo il cuore martellarmi il cervello e la rabbia appesantirmi il respiro. Mi alzai di scatto, inconsultamente. Volevo, dovevo difendermi a parole o con i fatti. Ma uno dei due mi diede uno spintone e io finii ad annegare i miei propositi nella pozzanghera dacqua che si era raccolta ai miei piedi. Fu solo a quel punto che intervenne Pier Paolo. Forse lo fece pi per me che per se stesso. Assest un pugno a uno dei due bulli e un calcio da maestro allaltro, che nel frattempo gli si era fatto sotto a protezione dellamico.

Bast poco ai due per capire che le cose si mettevano male. Avevano sottovalutato quel maledetto frodo. Cos se la diedero a gambe, promettendo di farcela pagare.

CAPITOLO 14

Primo tentativo di restituzione delle bobine 1975, seconda settimana di ottobre Labbrone mi pass a trovare al baretto di via Casal Bruciato. Entr, ordin un caff, poi mi si avvicin e mi disse che doveva parlarmi, ma fuori dal bar. Bevve il suo caff mentre io gli feci cenno con la mano di aspettare un attimo che stavo finendo di raccontare un fatto accadutomi qualche giorno prima a un amico che non vedevo da tempo. Uscii dal bar e lo vidi seduto sul vespino beige su cui era venuto che fremeva. Che t successo? chiesi. Ce devi da na mano prosegu il discorso ma c da magna pe tutti. De che se tratta? curiosai. Riguarda le pellicole dei film che avemo rubato alla Technicolor. Dicono che un paio de queste siano roba del nuovo fidanzatino tuo sorrise maligno. A Fra mavaffanculo. Mo te ce metti pure tu co sta storia? namico, annamo a pranzo fori e si ce casca me faccio da na parte in un film e me metto a fa lattore dissi io stizzito. Comunque, senza che taccori, pare ci sia stato un accordo pe faje ripija ste bobine. Mo dato che a Placidi gli arrivata voce che te la stai a fa co lui, mha chiesto de ditte se te voi prende la briga de verifica che non ce siano impicci. Se ce stai chai diritto a mezzo testone. Pensace e famme sape. Mi sarei guadagnato cinquecentomila lire senza far nulla. Avrei soltanto dovuto accompagnare Pier Paolo allincontro, controllare che non ci fossero intoppi e tenere la bocca chiusa. Ci che mi dava fastidio era che la vittima stavolta sarebbe stata un amico. Per altro avevo fatto il vago con Labbrone perch avevo gi saputo dalla bocca di Pier Paolo che qualcuno lo aveva ricattato per riavere le pizze del film che aveva appena finito di girare. Ultimamente, per, si era tranquillizzato perch sembrava che le trattative economiche per lo scambio si fossero risolte con una restituzione del tutto gratuita.

Pier Paolo che era stato contattato da Placidi grazie allintermediazione di quel tale, Segio Citti avrebbe dovuto riconoscere solo una piccola somma, diciamo per il disturbo. La richiesta era stata indicativamente di tre milioni di lire. Nulla a confronto dei cinquanta milioni che il produttore di Pier Paolo, Alberto Grimaldi, era stato pronto a versare, fino a quando Pasolini fu raggiunto da una telefonata anonima a casa per comunicargli la restituzione gratuita delle pizze. Da un lato mi sentivo gasato, soprattutto per la somma che avrei ricevuto; al contempo per ero tremendamente spaventato. Io facevo il ladro di motorini, tuttal pi di autovetture. Erano cose che mi mettevano adrenalina. Stavolta la sensazione era diversa e se non fosse stato per la somma promessa, probabilmente, avrei lasciato perdere. Dovevo comunicarlo a Pier Paolo e questo mi imbarazzava non poco. Eravamo amici. Per cui quando ci incontrammo gli raccontai una versione rivista e corretta della storia, omettendo egregiamente di dirgli che sarei stato pagato per accompagnarlo allincontro. Lappuntamento lo stabilirono per telefono, Pier Paolo e Sergio Placidi per met ottobre. Me lo disse Pier Paolo stesso di averci parlato per telefono. Gli aveva detto di essere un mero portavoce di chi era in possesso delle pizze, ma io lo sapevo che le cose stavano diversamente. Pier Paolo scelse il luogo dello scambio, in zona stazione Termini. Me lo comunic e io riferii. Lappuntamento era fissato per le due di notte in via Goito. un piccolissimo lembo di strada a gomito che va da via De Nicola a via Volturno: di sera in quel tratto di strada non si incontra davvero nessuno: al massimo si pu incorrere in qualche barbone in cerca di cartoni, qualche ubriaco spesso entrambe le cose assieme e se non fa troppo freddo anche qualche puttana in et avanzata, appoggiata con i gomiti su una macchina qualunque mentre lontano da occhi indiscreti tenta di guadagnarsi le cinquemila di rito. Nei dintorni, per, c sempre qualcuno, per cui la nostra presenza per la strada non avrebbe, di certo, dato nellocchio. Ricordo che arrivammo con quasi unora di anticipo. Restammo un bel po di tempo in macchina a parlare mentre io con il finestrino abbassato mi fumavo le mie BIS. Non ti ho mai chiesto dei tuoi genitori disse Pier Paolo tu non ne parli mai. Ti d fastidio?. Ma de che. No. So tanto bravi. Anzi. Ma che te devo di non sapevo veramente cosa dire.

Cosa fanno nella vita? prosegu Pier Paolo. Mamma si chiama Maria. Lei lavora davvero tanto, da mattina a sera. Il giorno va a fare le pulizie in casa della signora Bruna; il pomeriggio, per non spezzare il ritmo, se ne va presso un negozio di abbigliamento, sempre di propriet della signora Bruna, che sta sulla Tiburtina, e l d una mano a servire e a sistemare. Poich in casa nostra non c lacqua calda, quando ci dobbiamo fare la doccia, mamma ci scalda lacqua sui fornelli della cucina nelle pentole di alluminio e poi le porta in bagno con le presine e la miscela con lacqua fredda. Noi ci rannicchiamo dentro la vasca mentre lei ci versa lacqua dallalto per farci sciacquare. La vasca una di quelle strette col gradino interno; cos stretta da riuscire a starsene incassata in una nicchia ricavata ad arte tra due muri vicini vicini. Quando Bruna non c, qualche volta mamma ci fa salire nel suo appartamento, che cos grande e lussuoso, e ci fa fare il bagno con lacqua calda. L c lo scaldabagno ed sempre acceso. E tuo padre?. Pap si chiama Antonio. Lui lavora da trentanni nella stessa ditta. Sta da Salvoni, un negozio di soprammobili e di lampadari. A volte a pap viene affidato il compito di fare le consegne a domicilio con lapetta della ditta. Dinverno una tragedia perch le ruote dellapetta slittano nelle pozzanghere che un piacere e il trabiccolo finisce per effettuare delle piroette da spettacolo. Pi che le consegne a domicilio pap sembra faccia lo Stuntman. Lestate, invece, diverso. Capita spesso che debba effettuare le consegne anche di sabato mattina e poich la ditta chiude a ora di pranzo, non facendo in tempo a riportare lapetta, se la deve tenere fino al luned. Cos quando pap non deve lavorare anche di domenica, come materassaio per arrotondare lo stipendio, ne approfitta per portarci tutti al mare: ci sediamo nel vano posteriore su della paglia da imballaggi che lui preventivamente sistema sul fondo. Non certo un mezzo omologato per poter trasportare le persone, ma il telone blu che lo copre tutto intorno e sopra ci permette di viaggiare l dentro comodamente e in segreto. Arrivare a Ostia unimpresa perch quel trabiccolo non riesce a superare i quaranta chilometri, in discesa e con il vento a favore, rischiando a ogni curva di cappottarci, ma per noi sempre un divertimento. Ogni tanto alziamo il telone per vedere a che punto ci troviamo e la gente sulle macchine che ci segue ci guarda e ci sorride. Mamma la sera prima ci prepara i panini: quelli con la frittata che io regolarmente non mangio, quelli con il prosciutto cotto e il formaggio e quelli buonissimi con il tonno e il pomodoro. Qualche rara volta, quando pap riesce con le mance a racimolare qualche spiccio in pi, ci porta allo stabilimento a mangiare un piatto di frittura di paranza o di pesce nostrano, i