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Augusta 2016 Sommario

IL SOSTEGNO AL VALLONE DI SAN GRATODATO DA “LA CAROVANA DELLE ALPI” 2

SANDRA BARBERIA volte ritornano. La ritrovata Madonna col Bambino della cappella del Praz 4

ELISABETTA BRUGIAPAGLIAIl Vallone di San Grato ed il suo ruolo per la ricostruzione paleo ambientale con particolare riferimento all’occupazione umana. Importanza biologica e scientifica delle torbiere 9

FRANCESCO SPINELLOl S.I.C. “Ambienti glaciali del gruppo del Monte Rosa” 20

SILVIA DAL NEGRO, MARCO ANGSTERFrancoprovenzale e walser nell’alta valle del Lys 22

ANDREA ZENONILessico di Gaby: tra derivazione romanza e alemannica 27

VITTORIA BUSSO LIXANDRISCH25 mérze 1945, d’varbrantun ketschi im Tschachtelljer - Le case bruciate del Tschachtelljer 36

IMELDA RONCO HANTSCHIm Léjunh – A Lion 39

ELIDE SQUINDOCappella della S.S. Vergine della Neve a Agren – Oagre 40

MICHELE MUSSOLa place publique d’Issime 42

ROBERTO FANTONIIl nome della Rosa. Le origini medievali dell’antico nome del Monte Rosa 51

LAURA e GIORGIO ALIPRANDISempre a proposito del nome del Monte Rosa 54

IN MEMORIAMGiovanna Nicco 55

IN MEMORIAMMaria Stévenin 56

COMITATO DI REDAZIONE

Direttore responsabileDomenico Albiero

Coordinatore di redazioneMichele Musso

MembriMichele MussoBarbara RoncoLuigi Busso

Foto di copertinaMadonna in trono con Bambino di Issime, secolo XIII (legno scolpito e dipinto, altezza 70 cm.)(Studio fotografico Gonella, Torino)

Foto della quarta di copertinaIssime, Vallone di San Grato – villaggio di Benecade, 1910 circa.In primo piano i coniugi Jean Goyet (1852-1917) medico e Hortanse Christillin Pintsche (1864-1919). Sullo sfondo il villaggio di Écku e oltre la conca innevata di Roseritz. Fondo dr. Goyet (Ass. Augusta, dono di Floriana Linty).

Altre foto: Roberto Cilenti, Rino Alessandrini, Michele Musso, Elisabetta Brugiapaglia,

Sara Ronco, Imelda Ronco, collezione Guido Pession, Foto Archivio Guido Cavalli,

Foto Archivio Guindani di Gressoney- Saint-Jean.

Tutti i diritti sono riservati per ciò che concerne gli articoli e le foto.

Rivista disponibile online: www.augustaissime.it

ISSN 1120-1320

Autorizzazione Tribunale di Aosta n° 18 del 22-05-2007

AUGUSTA: Rivista annuale di storia, lingua e cultura alpina

Proprietario ed editore: Associazione Augusta

Amministrazione e Redazione: loc. Capoluogo, 2 - 11020 - Issime (Ao)

Stampa: Tipografia Valdostana, C.so P. Lorenzo, 5 - 11100 Aosta

N. 48

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sia intensivi (campi e prati). Questo esempio di habitat diffuso, dove hanno coesistito delle popolazioni di origine differente su un territorio limitato, è unico in Valle d’Aosta.

Inoltre il vallone, dal punto di vista naturalistico, comprende due importanti zone umide, che di recente, sempre ad opera dell’associazione Augusta, sono state studiate dalla prof.ssa Elisabetta Brugiapaglia dell’Università del Molise.

Lo studio ha evidenziato che i sedimenti delle torbiere del Val-lone, a 2 m. e mezzo di profondità, sono datati al carbonio-14 al 9200 a.C. epoca in cui i ghiacci hanno iniziato ad abban-donare il Vallone ed è iniziata la colonizzazione arborea dello stesso. È assai difficile e raro trovare dei sedimenti così antichi ad altitudine elevata (1950m.s.l.m.) come nel caso del Vallone.

Gli ambienti umidi ospitano delle specie vegetali altamente specializzate e quindi localizzate solo in particolari situazioni ecologiche.L’individuazione e la conservazione dei residui ambienti umi-di, quindi, si impone non solo per ragioni naturalistiche, ma anche perché essi vanno considerati come veri e propri archivi storici in progressivo naturale aggiornamento.

Per questi motivi il sito è tutelato dal 1998 dal Piano Territo-riale Paesistico della Valle d’Aosta. Il progetto presentato nel 2009, che avrebbe irrimediabilmente deturpato il vallone, com-promettendone le testimonianze storico-architettoniche, era stato proposto dall’amministrazione comunale, come valoriz-zazione agricola e turistica. Una prospettiva condivisibile, ma che non richiedeva, per essere realizzata, la realizzazione del-le opere previste, che anzi avrebbero banalizzato il territorio, stravolgendone gli equilibri. Un collegamento stradale esiste, e consente di superare un forte dislivello e giungere all’imbocco del vallone. Su questo progetto, oltre ad organizzare iniziative pubbliche e marce di protesta nel vallone, cittadini ed associa-zioni presentarono osservazioni nell’ambito della procedura di Valutazione di Impatto Ambientale. Nei primi mesi del 2010 il Comitato Tecnico per l’Ambiente espresse una valutazio-ne negativa sul progetto, che venne recepita il 23 aprile dal-la Giunta Regionale con la Delibera n.1127. Sembrava finita. Negli anni successivi l’Associazione Augusta ha continuato a sottoporre il vallone a studi scientifici e ad avanzare propo-ste per una valorizzazione sostenibile che offrisse a visitatori sensibili le bellezze che possiede. Poi, il 24 febbraio 2016, è arrivata l’approvazione del nuovo PRGC di Issime, che pre-vede, nell’ambito di una valorizzazione agricola del vallone

La carovana delle Alpi ha quest’anno toccato il Vallone di San Grato e confermato l’impegno pluriennale di Legambiente a fianco dell’Asso-ciazione Augusta per la tutela di quel prezioso territorio. Pubblichiamo la motivazione dell’as-

segnazione della Bandiera Nera di Legambiente al Comune di Issime e alla Giunta Regionale della Valle d’Aosta, per avere riproposto il progetto di valorizzazione del Vallone, già respin-to nel 2010.

BANDIERA NERA

A CHI : Comune di Issime e Giunta Regionale della Valle d’Aosta MOTIVAZIONE : per la riproposizione del progetto di va-lorizzazione e urbanizzazione del Vallone di San Grato, nel Comune di Issime, già bocciato nel 2010.

A volte ritornano, purtroppo. Negli anni 2009-2010 Legam-biente si era schierata a fianco dell’Associazione Augusta (che studia e salvaguarda i luoghi e la cultura Walser, tipica di al-cuni comuni della vallata di Gressoney), per tutelare il vallone di San Grato, a monte dell’abitato di Issime, unico per le sue bellezze naturali e culturali, minacciato da un progetto di stra-da poderale, un acquedotto che avrebbe captato le sorgenti che alimentano le zone umide, una rete di distribuzione di energia elettrica e una centrale idroelettrica. La realizzazione di queste opere avrebbe irrimediabilmente intaccato il pregio paesaggi-stico, naturale e architettonico del vallone. Il sito è infatti ric-chissimo di testimonianze del modo di abitare e di svolgere l’attività agricola in montagna nel passato, edifici in legno ri-salenti al XV secolo, l’antico sistema viario di colonizzazione, gli antichi canali di irrigazione, gli opifici quali mulini e forge, la divisione medievale delle proprietà. Il Vallone di San Grato infatti nel suo stato attuale mostra i segni visibili della storia della sua colonizzazione. In effetti, si tratta di un vallone di cui una larga fetta del versante esposto a sud è stata nel medioe-vo divisa in lotti (particelle). I Walser, popolazione di origine e lingua germanica, si sono installati nel Vallone e vi hanno vissuto almeno a partire dal XIII secolo, utilizzando una parte di queste grandi particelle, dopo aver disboscato parte del ter-ritorio in differenti modi. Il paesaggio presenta, quindi, gli ele-menti di modifica del territorio che ricordano i molteplici modi di sfruttare la montagna a fini agricoli, sia estensivi (pascoli),

Il sostegno al Vallone di San Grato dato da “La carovana delle Alpi”

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turistica. Sappiamo bene che alcune delle ragioni addotte per difendere questa prospettiva (la necessità di portare acqua po-tabile ed energia elettrica nel vallone) si rivelano, a ben vedere, pretestuose. Da molti anni ormai gli alpeggi delle nostre mon-tagne si autoalimentano con mini impianti idroelettrici e che le fonti da utilizzare per il consumo umano non mancano, senza andare ad intaccare quelle che alimentano le zone umide! Sia-mo di fronte all’ennesimo tentativo di banalizzazione del ter-ritorio, e alla volontà degli amministratori locali e regionali di ignorare le valutazioni tecniche espresse nel 2010.

Si deve sempre partire dal presupposto di valorizzare gli attrat-tori ambientali e culturali e non di penalizzarli. Il Vallone di San Grato, antico insediamento walser rimasto intatto e quindi ormai unico nel suo genere, è un potente attrattore. Compro-metterlo con una strada ed altro ancora è un autogol. Perderem-mo per sempre l’unicità di questo antico insediamento che ha saputo armonizzare antropizzazione e ambiente naturale.

di San Grato, la realizzazione di una strada. Dalle successive dichiarazioni apparse sui media, abbiamo appreso che Comune e Regione concordano non soltanto sull’ipotesi di collegamen-to stradale, ma addirittura sull’idea di assumere come base di partenza il progetto complessivo di urbanizzazione bocciato nel 2010. Vale la pena ricordare le motivazioni addotte nella sopra citata Delibera per la bocciatura di quel progetto. - gli interventi proposti non sono coerenti con gli obiettivi previsti dal PTP; - alcuni degli stessi ricadono in ambiti inedificabili e non risultano accettabili ai fini della tutela dei siti naturalistici (zone umide) coinvolti; - la strada e le relative opere accessorie proposte risultano incompatibili con la salvaguardia di un sito di rilevante interesse storico-culturale.

Nel 2010 la Giunta Regionale condivideva appieno le valuta-zioni tecniche degli uffici VIA. Oggi le rinnega, prospettando la realizzazione di un insieme di opere che, devastando il vallo-ne di San Grato, ne danneggerebbe anche la possibile fruizione

Torbiera della Mongiovetta, Vallone di San Grato

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messo al sicuro gran parte degli arredi mobili delle cappelle ru-rali isolate. A parte casi eclatanti, come il San Valentino rubato nel 1971 da una cappella di Brusson e acquistato un paio di anni dopo dal Museo di Innsbruck, o il Saint Prejet scomparso da una cappella di Challand-St-Victor e acquistato, sempre nel 1973, dal Museo Civico d’Arte antica di Torino4, il più delle volte le opere trafugate si disperdono nella rete del collezioni-smo privato e scompaiono per sempre. Anche nel nostro caso è impossibile ricostruire le vicende che nel corso dei primi anni Sessanta hanno portato la Madonna del Praz, probabilmente attraverso il mercato antiquario locale, in una collezione pri-vata aostana. Ma almeno stavolta la storia si è conclusa con un lieto fine: la foto pubblicata da Brunod ha permesso, infatti, di identificare la scultura sottratta dalla cappella e di avviarne di conseguenza il processo di recupero, condotto dai Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale di Torino5. L’imponen-te lavoro di mons. Brunod non va quindi considerato solo un ausilio per pochi addetti allo studio, ma anche un formidabile strumento per la tutela del patrimonio artistico locale.

Il rilievo è ricavato da un unico massello di legno non svuotato; la mano destra della Madonna con il palmo riverso (ancora pre-sente nella fotografia del Brunod) e il braccio destro del Bam-bino, ora perduti, erano scolpiti a parte e assemblati con un perno. I fioroni di gusto flamboyant della corona della Madre sono un’aggiunta più tarda, in sostituzione di quelli trilobati più stilizzati che in simili rilievi ornano il serto delle figure; la corona che cingeva il capo del Bambino è stata scalpellata, verosimilmente per essere sostituita da una metallica. Il retro appiattito e il disassamento in avanti del collo della Vergine lasciano intendere che la figura fosse in origine inserita entro un tabernacolo o un’edicola.L’iconografia deriva da quella di tradizione romanica della Virgo Sedes Sapientiæ, dove la Vergine è assisa in posizione

Sabato 5 marzo 2016, sotto una fitta nevicata tardiva, la comunità di Issime ha festeggiato solennemente il ritorno di questa preziosa Ma-donna col Bambino della quale si erano perse le tracce da una sessantina d’anni, dopo che era

stata rubata nel 1957 dalla cappella del Praz. La scultura figura nel Catalogo degli enti e degli edifici di culto e delle opere di arte sacra nella diocesi di Aosta compilato negli anni Cinquanta da mons. Edoardo Brunod, presidente della Commissione diocesana di arte sacra dal 1957 al 19741: 125 album illustrati, scritti a mano in triplice copia (una per la parrocchia, un’altra per l’archivio della Curia diocesana e la terza per l’Autore), presentati per la prima volta al pubblico nel 1961, in occasione della IX Settimana di Arte Sacra a Roma, e pubblicati con il sostegno dell’Amministrazione regionale in nove tomi dal 1975 al 19952. Sono decine e decine le statue e le suppellettili ecclesiastiche sparite nel lasso di tempo che separa la redazione manoscritta e la pubblicazione dei reper-tori, a testimonianza di una realtà, quella dei furti a spese del patrimonio artistico di proprietà ecclesiastica, che nella secon-da metà del Novecento cresce in modo esponenziale, indiriz-zandosi indiscriminatamente verso opere di pregio e manufatti popolari di scarso o nullo valore artistico. Nel 1987 la Soprin-tendenza regionale pubblica il volume La devozione in vendi-ta, nato appunto – scrive Daniela Vicquéry nell’introduzione – «dalla necessità di arginare quel fenomeno di dispersione del patrimonio artistico locale che ha assunto nel corso di questi ultimi decenni proporzioni tali da richiedere un’attenzione spe-cifica»3. Il lavoro scheda le opere che a quella data mancavano all’appello dal confronto con il catalogo del Brunod: una quan-tità impressionante di sculture, ornamenti e suppellettili, aspor-tate da chiese e cappelle situate in tutti i comuni della Valle. Molte altre sono scomparse in seguito, nonostante l’istituzione dei musei parrocchiali a partire dalla metà gli anni ‘80 abbia

A volte ritornano La ritrovata Madonna col Bambino della cappella del Praz

Sandra BarBeri

1 E. Brunod, Bassa Valle e valli laterali I, Aosta 1985 (Arte sacra in Valle d’Aosta, IV), p. 168, fig. 42. Assieme alla Madonna era stato rubato anche un San Giacomo del primo Cinquecento, di cultura tedesca (ibidem, p. 168, fig. 43).

2 Il primo volume dato alle stampe nel 1975 è quello relativo alla Cattedrale di Aosta, di cui è uscita una seconda edizione riveduta e corretta nel 1996. Dopo la morte dell’Autore, nel 1988, il lavoro di pubblicazione è stato proseguito dal canonico Luigi Garino, che ha provveduto all’aggiornamento dei repertori.

3 D. Vicquéry, La devozione in vendita. Furti di opere d’arte sacra in Valle d’Aosta, Roma 1987 (Quaderni della Soprintendenza per i Beni Culturali della Valle d’Aosta, Nuova Serie, 4), citazione da p. 14. La Madonna del Praz si trova a p. 146, fig. 145 a p. 147 (le diverse misure indicate sono evidentemente un errore di copiatura dal Brunod, che riporta invece un’altezza di circa 73 cm, congruente con quella reale).

4 B. Orlandoni, Appunti per una indagine sulla consistenza originaria e sulla dispersione del patrimonio artistico gotico in Valle d’Aosta, in Vicquéry 1987, pp. 38-40.

5 La scultura era stata pubblicata come appartenente alla collezione Berthod da D. Daudry, Artigiani artisti ed arte popolare in Valle d’Aosta, Aosta 1972, fig. 83. Ovviamente la riproduzione è di per sé garanzia della buona fede del proprietario, dopo la morte del quale le eredi decisero di mettere in vendita la statua.

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della Vergine; sulla coscia destra della Madonna le lacune della pellicola pittorica scoprono l’impannatura, cioè il rivestimento di tela incollata sul legno destinato qui a rinforzare il supporto in corrispondenza della fenditura e a mascherare il difetto. La Madonna appartiene a una tipologia privilegiata per gli altari valdostani duecenteschi, che ritroviamo anche, al di là delle Alpi, in Savoia, Svizzera romanda, Vallese e Chiablese. È

frontale su uno scranno, mentre il piccolo Gesù siede sul suo ginocchio sinistro come fosse in trono, levando la destra in atto di benedizione. Con gesto simmetrico, la Madre e il Figlio reg-gono in mano un attributo sferico: Maria, Nuova Eva, la mela; il globo del mondo di cui è Re, il Bambino. La policromia pri-mitiva affiora in minime tracce sotto la ridipintura posteriore, visibile in un tassello di pulitura praticato sul ginocchio destro

A sinistra: la Madonna del Praz nella foto pubblicata da mons. Brunod, dove la figura della Vergine è ancora completa della mano destraA destra: la Madonna col Bambino dal 2010 nelle collezioni regionali di Aosta. (foto F. Lovera. Regione autonoma Valle d’Aosta, Archivi Assessorato Istruzione e Cultura - Fondo Catalogo beni culturali, su concessione della Regione autonoma Valle d’Aosta)

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A sinistra: la Madonna col Bambino del Castello Tour de Villa, Gressan. (foto S. Barberi)A destra: la Madonna col Bambino del Museo Stefano Bardini a Firenze.(da Il Museo Bardini a Firenze, a cura di E. Neri Lusanna, L. Faedo, II, Milano 1986, II, tav. 119)

opinione diffusa che il successo di tale modello si spieghi con la derivazione da un prototipo collocato in uno dei principali luoghi di pellegrinaggio mariano negli antichi Stati di Savoia, l’abbazia di Saint-Maurice, la cattedrale di Sion o – secondo l’ipotesi più largamente considerata – quella di Losanna, ma sfortunatamente nessuno di questi presunti archetipi si è con-

servato6. Tuttavia il modulo compositivo di queste Madonne in maestà non è esclusivo dell’area alpina nord-occidentale, ma conosce una distribuzione geografica europea, replicato nei di-versi materiali e con varianti sia nella scelta degli attributi delle figure, sia nell’indirizzo stilistico.Nell’ambito valdostano gli esemplari più precoci, databili poco

6 L’ipotesi, riassunta nelle sue varie formulazioni da H. Schöpfer (in La Maison de Savoie en Pays de Savoie, catalogo della mostra, Losanna 1990, scheda XI/22, p. 224, con bibliografia precedente), è stata discussa da E. Rossetti Brezzi, Le vie del gotico in Valle d’Aosta, in G. Ro-mano (a cura di), Gotico in Piemonte, Torino 1992 (Arte in Piemonte, 6), pp. 294-296; L. Golay, Les sculptures médiévales. La collection du Musée cantonal d’Histoire, Sion, Lausanne 2000 (Valère, Art et Histoire, 2), pp. 90-91, 104-105; e G. Gentile, Migrazione e ricezione di immagini, in Il Gotico nelle Alpi. 1350-1450, catalogo della mostra (Trento, castello del Buonconsiglio, 20 luglio - 20 ottobre 2002), a cura di E. Castelnuovo e F. De Gramatica, Trento 2002, pp. 157-158. Jean-René Gaborit (Le problème de la copie dans la sculpture médiévale, in “Tables de travail. Séminaire de recherche sur la conservation-restauration”, 23 marzo 2012, http://tablesdetravail.hypotheses.org/108) avverte tuttavia che «L’idée, que, pour des raisons de dévotion, les statues de la Vierge reproduisaient de préférence des prototypes célèbres demeure fort répandue ; si elle est relativement exacte pour les siècles les plus récents, elle n’est fondée, pour la période médiévale sur aucun élément probant. » Il gruppo di Losanna, databile intorno al 1230 e scomparso nel Cinquecento con l’avvento della Riforma, ci è noto soltanto attraverso sigilli e riproduzioni grafiche del XIII e del XIV secolo, dove il Bambino appare ora seduto, ora ritto sul ginocchio della Madre, che impugna lo scettro (S. Castronovo, in Il Gotico nelle Alpi 2002, schede 31-32, pp. 480-483). In ogni caso, come sottolinea Gentile, il concetto medievale di riproduzione si riferisce al significato spirituale di un’icona, che quindi può essere interpretato variamente senza implicare la fedeltà oggettiva al suo aspetto reale.

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prima della metà del secolo, sono la Madonna col Bambino proveniente dalla chiesa parrocchiale di Saint-Léger ad Ay-mavilles e ora nel Museo del Tesoro della cattedrale di Aosta, quella rubata dalla cappella di Challancin a La Salle e quella già a Cogne e poi passata in collezione Craveri-Giacosa e da lì nelle collezioni regionali, tutte e tre strettamente apparentate con gruppi analoghi conservati a Sion, Fribourg e Abondan-ce7. Il carattere di ieraticità e l’andamento fluido dei panneggi di questi rilievi rimandano ancora al nobile classicismo delle oreficerie e degli avori mosani del primo ‘200. L’impostazione si fa meno monumentale nella Madonna in origine a Valgri-senche e oggi al Museo Civico d’Arte antica di Torino e in quelle provenienti dalle cappelle di Variney (Gignod) e di Plau (Saint-Denis), di poco più tarde, dove la comparsa di pieghe più profonde e spezzate attesta la progressiva affermazione del linguaggio gotico in direzione francese. Nei gruppi della cap-pella di Nissod (Châtillon) e di una collezione privata torinese, omogenei per stile ai precedenti, la gambetta destra levata del piccolo Gesù attenua la rigidità della postura frontale, ulterior-mente animata dal gesto amorevole della Madre che stringe il piedino del Bimbo nella Madonna del castello di Quart, oggi nel Museo del Tesoro della cattedrale, e in quella dell’Accade-mia di Sant’Anselmo8. Quest’ultima iconografia, riconducibile all’ambito reno-mosano, è già ripresa anche dalla Madonna del santuario di Rado (Gattinara), assegnata al 1220-12309, a te-stimonianza dell’ampia circolazione europea di una pluralità di modelli trasmessi sulla base di manufatti o semplicemente attraverso disegni, trasposti su pietra, legno, avorio o metallo prezioso, e interpretati con sensibilità stilistiche differenti. Il nostro rilievo si inserisce in una serie dal tono meno aulico che riprende l’impianto formale dove il Bambino siede com-posto in posizione frontale, con le gambe parallele scostate e i piedi di piatto. Ne fanno parte la Madonna del castello La Tour de Villa di Gressan e quella trafugata dalla cappella di Vigneroisa a Champorcher, le più simili a quella del Praz, e poi

La statua rubata dalla cappella di Vigneroisa, Champorcher. (da E. Brunod, Bassa Valle e valli laterali I, Aosta 1985, p. 355, fig. 30)

7 Madonna da Aymavilles: V. M. Vallet, in Cattedrale di Aosta - Museo del Tesoro - Catalogo, a cura di E. Castelnuovo, F. Crivello, V. M. Vallet, Aosta 2013, scheda n. 17, pp. 164-165 (con bibliografia precedente). Madonna di Challancin: E. Brunod, L. Garino, Alta Valle e valli laterali II, Aosta 1995 (Arte sacra in Valle d’Aosta, IX), p. 188, fig. 78; Vicquéry 1987, p. 152 e fig. 154 a p. 154. Madonna da Cogne: E. Brunod, Diocesi e Comune di Aosta, Aosta 1981 (Arte sacra in Valle d’Aosta, III), p. 469, fig. 413. Per gli esemplari transalpini si vedano: B. Schmed-ding, Romanische Madonnen der Schweiz, Freiburg 1974, pp. 38-40 (Sion), 40-41 (Fribourg-Nierlet), 41-42, 110-123 (Fribourg-Attalens), 62 (Fribourg-Les Giettes), 112, 168 (Abondance); L. Golay, Les sculptures médiévales. La collection du Musée cantonal d’Histoire, Sion, Lausanne 2000, pp. 80-91, 100-105. Per la Madonna da Attalens cfr. anche S. Villiger, scheda del Musée d’Art et d’Histoire di Friburgo, 2002. Si possono aggiungere inoltre due gruppi passati sul mercato antiquario, una Madonna da Sotheby’s nel 2006 e l’altra a Parigi, segnalatemi da Bruno Orlandoni.

8 Madonna da Valgrisenche: E. Rossetti Brezzi, in La scultura dipinta. Arredi sacri negli antichi Stati di Savoia 1200-1500, catalogo della mo-stra (Aosta, 3 aprile - 31 ottobre 2004), a cura di E. Rossetti Brezzi, Aosta 2004, scheda n. 3, pp. 42-43 (con bibliografia precedente). Madonna di Variney: E. Brunod, L. Garino, Cintura sud orientale della città, valli di Cogne, del Gran San Bernardo e Valpelline, Aosta 1993 (Arte sacra in Valle d’Aosta, VII), p. 514, fig. 78. Madonna di Plau: Bassa Valle e valli laterali III, Aosta 1990 (Arte sacra in Valle d’Aosta, VI), p. 145, fig. 19. Madonna di Nissod: Brunod-Garino 1990, p. 64, fig. 58; Vicquéry 1987, p. 98, fig. 68 p. 99 (la statua, rubata nel 1971, è stata recuperata nel 2011). Madonna in collezione privata: L. Mor, Scultura lignea dal Medioevo al Rinascimento. Aggiunte al catalogo di antichi maestri e nuove proposte, catalogo della mostra Antiquari a Venaria - IV Biennale di Torino (Reggia di Venaria Reale - Scuderie Juvarriane, 23 ottobre - 1° novembre 2010), Biella 2010, fig. p. 15. Madonna da Quart: Vallet 2013, scheda n. 18, pp. 166-167 (con bibliografia precedente). Madonna dell’Accademia di Sant’Anselmo: V. M. Vallet, La collection de l’Académie sur la scène : pièces choisies, in Les 150 ans de l’Académie Saint-Anselme. Patrimoine et identité : l’engagement des sociétés savantes, Actes du Colloque international d’Aoste (28 et 29 mai 2005), réunis par M. Costa, “Bulletin de l’Académie Saint-Anselme”, Nouvelle Série, IX, pp. 133-134.

9 Madonna di Rado: E. Rossetti Brezzi, La scultura in legno, in V. Natale e A. Quazza (a cura di), Arti figurative a Biella e Vercelli. Il Duecento e il Trecento, Biella 2007, p. 112. Il gesto della Madonna che afferra il piede del Bambino si trova in un avorio mosano del Louvre assegnato al 1220-1230 (D. Gaborit-Chopin, Ivoires médiévaux Ve-XVe siècle, Paris 2003, pp. 274-276).

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terzo quarto del Duecento ma ancorate a modelli precedenti, che riforniscono l’intera Valle delle statue mariane la cui pre-senza è prevista sugli altari di tutte le chiese: una ripetitività che sembra per certi versi anticipare la diffusione ottocentesca delle immagini seriali di Notre-Dame-des-Victoire o dell’Im-macolata, ma anche una testimonianza dell’incredibile vitalità della scultura lignea gotica in Valle d’Aosta, idealmente inau-gurata all’inizio del secolo dal raffinato paliotto di Courma-yeur conservato al Museo Civico d’Arte antica di Torino13, in dialogo con esperienze diverse e in grado di soddisfare su vari registri le esigenze di committenza. Va da sé che la cappella di San Valentino, fondata probabil-mente nella prima metà del XVII secolo, non dovesse essere la collocazione primitiva della scultura14. È verosimile piuttosto che quest’ultima provenga dalla chiesa parrocchiale, dove la visita pastorale compiuta nel 1416 dal vescovo Ogier Mori-set attesta la presenza di due statue (ymagines): una si trovava sull’altare maggiore, assieme a quelle del patrono san Giaco-mo e di san Nicola, mentre l’altra, a cui l’estensore del verbale della visita ha aggiunto in un secondo tempo l’aggettivo «bel-lissima» (pulcherrima), figurava sull’altare dedicato alla Beata Vergine e a sant’Antonio15. A seguito della ricostruzione della chiesa nel 1683, che comportò anche il rinnovamento degli al-tari, dovettero essere rimossi gli arredi medievali più antichi, difficilmente integrabili nel nuovo contesto barocco. Come di regola accadeva per icone venerate da secoli e ancora ben con-servate, anche questa Madonna non fu eliminata, ma dovette essere destinata a una sede di culto secondaria, in questo caso la cappella del Praz16. Nella stessa occasione potrebbe essere ar-rivata qui anche la statua di san Giacomo scomparsa nel 1957, verosimilmente proveniente anch’essa dalla parrocchiale.

gli esemplari delle parrocchiali di Valsavarenche, Morgex (ma proveniente dalla cappella di Blavy a Roisan), delle cappelle di Grand Aury ad Arvier, di Ecours a La Salle e di Closellinaz a Roisan, quella acquistata dall’Amministrazione regionale sul mercato antiquario nel 2010 e infine una documentata tra le foto di Jules Brocherel; fuori Valle una Madonna conservata presso il Museo Bardini di Firenze, racchiusa in un tabernacolo trecentesco, un’altra al Castello del Buonconsiglio di Trento e una terza al Musée d’Art et d’Histoire di Ginevra10. Nel mede-simo insieme si possono includere anche le Madonne della par-rocchiale di Gignod e del castello Passerin d’Entrèves a Saint-Christophe e quella nella collezione Pozzallo a Sauze d’Oulx, contraddistinte da un diverso sistema di pieghe (più simile a quello della Madonna da Aymavilles e delle sue “sorelle”) e da una postura leggermente asimmetrica del Bambino11. L’ico-nografia è quasi identica in tutti gli esemplari, con l’attributo sferico per ambedue le figure e la mano della Madre che cinge con la presa orizzontale il petto del Bimbo, una sorta di citazio-ne di revival romanico12; caratteristiche comuni sono la sagoma stretta e allungata della Vergine, la resa dei capelli, forse intrec-ciati, a grosse ciocche stilizzate che le incorniciano il viso e si raccolgono sulla nuca, la foggia della veste con lo scollo a pun-ta, di gusto nordico, e il panneggio percorso da sottili pieghe parallele con andamento verticale, mentre il Bambino presenta sempre la medesima acconciatura con i capelli a onde morbide tagliati dritti sotto le orecchie. L’altezza varia dai 30 centimetri della statuetta di Closellinaz, che si presume destinata alla de-vozione privata, ai 75 circa della Madonna del Praz, fra le più grandi assieme a quelle di Gignod, Vigneroisa e del castello Passerin d’Entrèves. Questa produzione di stampo corrente e su larga scala esce da botteghe senz’altro locali, attive verso il

10 Sulla Madonna del castello di Gressan, inedita, si veda la tesi di G. Bessone, Progetto di restauro della scultura lignea “Madonna in trono col Bambino”. Castello La Tour de Villa di Gressan, Mantova, Scuola Laboratorio di Restauro e Conservazione Beni Culturali Istituti Santa Paola, Corso di dipinti su tela, tavola e sculture lignee, triennio formativo 2009-2012. Madonna di Vigneroisa: Brunod, 1985, p. 355, fig. 30; Vicquéry 1987, p. 95, fig. 59. Madonna di Valsavarenche: E. Brunod, L. Garino, Alta Valle e valli laterali I, Aosta 1995 (Arte sacra in Valle d’Aosta, VIII), p. 209, fig. 21. Madonna di Gignod: Brunod-Garino 1993, p. 472, fig. 26. Madonna di Grand Aury: Brunod-Garino 1995, Alta Valle I, p. 405, fig. 87. Madonna di Ecours: Brunod-Garino 1995, Alta Valle II, p. 172, fig. 61. Madonna di Closellinaz: Brunod-Garino 1993, p. 309, fig. 32. Madonna in collezione regionale: Mor 2010, scheda n. 1, pp. 10-17 (nel testo sono citate e riprodotte quasi tutte le sculture qui ricordate, compresa la stessa Madonna di Issime, a p. 15). Madonna fotografata da Brocherel: Assessorato Istruzione e cultura, Archivio BREL - Fondo Brocherel-Broggi, LZZ 005737000. Madonna Bardini: E. Neri Lusanna, in E. Neri Lusanna, L. Faedo (a cura di), Il Museo Bardini a Firenze, II, Milano 1986, scheda n. 113, pp. 220-221. Madonna di Trento: A. Bacchi, in Imago lignea. Sculture lignee nel Trentino dal XIII al XVI secolo, catalogo della mostra, a cura di E. Castelnuovo, Trento 1989, scheda n. 2, p. 88. Madonna di Ginevra: Schmedding 1974, pp. 46-48.

11 Madonna di Morgex: Brunod-Garino 1995, Alta Valle II, p. 251, fig. 44. Madonna Passerin d’Entrèves: Brunod-Garino 1990, p. 417, fig. 42. La Madonna della collezione Pozzallo è inedita.

12 Fa eccezione la Vergine di Ecours, che pare reggesse lo stelo di un fiore (il giglio virginale?) o lo scettro, anziché la mela. Inoltre in questa stessa statua, così come nell’esemplare di Grand Aury, la mano sinistra della Madonna non allaccia frontalmente il petto del Bambino.

13 F. Cervini, in Tra Gotico e Rinascimento. Scultura in Piemonte, catalogo della mostra (Torino, 2 giugno - 4 novembre 2001), a cura di E. Pa-gella, Torino 2001, scheda n. 1, pp. 24-25 (con bibliografia precedente).

14 [G. Vesan], Congresso eucaristico interparrocchiale, Issime (Aosta), 18-25 maggio 1941, Aosta 1943, pp. 117-120; J. Domaine, Le cappelle della Diocesi di Aosta, Aosta 1987, p. 172. La cappella, già esistente nel 1653, fu ricostruita più volte, la penultima nel 1772, dopo l’alluvione del 1755, e infine nella sede attuale nel 1898, in forme neogotiche. I primi documenti non sembrano tuttavia anteriori al XVII secolo, epoca della fondazione di gran parte delle cappelle del territorio, successive alla peste descritta nei Promessi sposi.

15 Aosta, Archivio della Curia vescovile, Visites pastorales, vol. 4, Mons. Ogerius, 1412-1421. 16 Vicquéry 1987, p. 146 e fig. 144 p. 147.

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ziata a partire dal Neolitico, ossia circa 6000-7000 a.C. (8000 Before Present). Gli eventi climatici, in particolare le glacia-zioni che si sono ciclicamente succedute ricoprendo la maggior parte della Valle d’Aosta, hanno decimato la flora. Nonostante ciò la densità floristica attuale è assai elevata in quanto la re-gione presenta una notevole diversità ambientale, altitudinale e geologica. Grazie a questa diversità il contingente di specie ammonta a circa 2000 taxa (Bovio, 2014). Questa elevata diversità in una piccola area come la Valle d’Ao sta, rende alcuni ambienti estremamente fragili e sensi-bili anche a piccole modificazioni che possono determinare la rarefazione se non la scomparsa di specie rare per la regione.

Il paesaggio, così come viene attualmente per-cepito, è un insieme di variabili in continuo movimento ed evoluzione anche se non sempre siamo consapevoli di queste modificazioni. Il paesaggio o fenopaesaggio, ossia quello che

vediamo, è la risultante di tanti ambienti visibili (boschi, pa-scoli, laghi, paludi, fiumi, strade, abitazioni, ecc..) e del cripto paesaggio (stratificazione degli organismi nel suolo e fattori chimico-fisici), ossia quello che non vediamo direttamente. Le trasformazioni del paesaggio sono quindi in stretta relazione con gli eventi naturali, in particolare quelli climatici e con le attività antropiche, in particolare con l’espansione umana ini-

Il Vallone di San Grato ed il suo ruolo per la ricostruzione paleo ambientale con particolare riferimento all’occupazione umana. Importanza biologica e scientifica delle torbiere

eliSaBetta Brugiapaglia*

* Dipartimento di Agricoltura, Ambiente e Alimenti, Università degli Studi del Molise - Campobasso.

Fig. 1. Due specie molto rare per la Valle d’Aosta: Drosera rotundifolia e la Pinguicula vulgaris

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chivi naturali che ci possono raccontare la storia naturale ed antropica del territorio. La storia naturale di un territorio, ossia le sue vicende floristi-che e vegetali, sono l’oggetto di studio della paleobotanica e di altre discipline specifiche come l’analisi pollinica e dei ma-croresti, la paleoxilologia (studio dei legni fossili), mentre gli studi sull’andamento demografico nel passato sono il campo di ricerca dell’archeologia. I due approcci, archeologico e paleo-botanico sono in stretta relazione in quanto le attività umane sono state in grado di influenzare la copertura vegetale essendo stata quest’ultima l’unica fonte di sopravvivenza per le popola-zioni antiche. Inoltre l’introduzione di specie vegetali utili alla vita delle popolazioni ha modificato in maniera più o meno im-portante la vegetazione naturale. Ad esempio l’introduzione da oriente del frumento ha comportato anche l’arrivo dei semi del-le specie infestanti come il papavero, il fiordaliso e il gittaione. Le attività umane, in particolare quelle delle popolazioni che occupavano aree particolarmente difficili almeno per una par-te dell’anno, sono state influenzate anche dai fattori climatici, quindi si può ipotizzare che durante i periodi più favorevoli le popolazioni abbiano utilizzato i siti in altitudine, abbandonan-doli o riducendo le attività durante i periodi più freddi e sfavore-voli all’occupazione umana. Le tracce di queste attività possono essere portate alla luce grazie ai macroresti e microresti vegetali e animali che si sono conservati nelle aree umide favorevoli alla conservazione del materiale organico.Tra la seconda metà dell’Ottocento ed i primi del Novecento le torbiere, utilizzate soprattutto per l’estrazione del combu-stibile, vennero studiate da numerosi ricercatori europei per il loro valore scientifico. Purtroppo però l’interesse economico dell’industria estrattiva, gli interventi di bonifica e successiva-mente anche l’inquinamento, portarono alla drastica riduzio-ne di questi fragili ambienti. Le residue zone umide vengono quindi considerate meritevoli di particolare attenzione e pro-tezione in quanto da esse dipende la conservazione di specie idro-igrofile divenute oramai rare o rarissime, quindi dalla loro conservazione dipende una buona parte della diversità sia bio-

Tra gli ambienti maggiormente a rischio per la sensibilità alle modificazioni esterne, in particolare quelle antropiche, sono le paludi e le torbiere. Tra le specie vegetali che vivono in questi ambienti possiamo ricordare: Ranunculus aquatilis, Polygo-num amphibium, Drosera rotundifolia, Pinguicula vulgaris (fig. 1), Lysimachia vulgaris, Saxifraga stellaris, Saxifraga ai-zoides, Parnassia palustris (fig. 3),, Filipendula ulmaria, Geum rivale, Potentilla palustris, Potentilla erecta, Lythrum salica-ria, Epilobium fleischeri, Epilobium alsinifolium, Menyanthes trifoliata, Mentha longifolia, Pedicularis palustris, Utricularia australis, Aster bellidiastrum, Cirsium palustre, Cirsium hele-nioides, Potamogeton natans, Juncus arcticus, Trichophorum alpinum, Eriophorum angustifolium, Eriophorum scheuchzeri, Carex rostrata, Carex flava, Carex atrofusca, Carex limosa, Carex bicolor, Carex nigra, Carex microglochin, Sparganium angustifolium, Typha minima, Typha latifolia, Tofieldia calycu-lata, Allium schoenoprasum, Iris sibirica, Epipactis palustris, Dactylorhiza incarnata, Dactylorhiza cruenta, Dactylorhiza majalis, Dactylorhiza maculata. Alcune di queste specie sono presenti sulle torbiere e nei pic-coli laghi del Vallone di San Grato in cui hanno trovato le con-dizioni ecologiche idonee alla loro sopravvivenza; sussistono anche le potenzialità per la diffusione di altre specie rare per la regione e che sopravvivono in limitatissime aree, alcune delle quali anche limitrofe al Vallone di San Grato. Le popolazio-ni sono composte di solito da pochi individui estremamente sensibili alle modificazioni ambientali in particolare a quelle idrologiche, ossia alle variazioni del livello delle acque, alla loro composizione chimica ed al loro drenaggio. Si tratta in-fatti di specie con una capacità di adattamento alle modifi-cazioni ecologiche praticamente nulla essendo estremamente specializzate solo per vivere in ambienti particolari: la loro vulnerabilità è legata proprio alla loro estrema specializzazio-ne. Se gli ambienti vengono alterati le piante inevitabilmente scompaiono. I laghi, le torbiere e le paludi, oltre che un serbatoio di biodi-versità per le specie vegetali e animali, sono anche degli ar-

Fig. 3. Parnassia palustrisFig. 2. Lo sfagno è il muschio tipico delle torbiere

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logica che ambientale. Per queste ragioni anche la Comunità Europea, attraverso la direttiva Habitat (92/43/CEE) riconosce il ruolo di queste formazioni (7 – Habitat di torbiera e palude). Le torbiere hanno quindi assunto un ruolo di primaria impor-tanza per le ricerche sia archeologiche che paleobotaniche gra-zie alle loro particolari condizioni ecologiche, ossia al valore del pH acido fondamentale per la conservazione del materiale organico. Grazie a tecniche di laboratorio, si possono riporta-re alle luce i materiali e successivamente ricostruire gli eventi naturali e antropici che hanno interessato i nostri antenati ed il loro territorio. Due torbiere del Vallone di San Grato, situato sulla destra idro-grafica del torrente Lys, nei pressi di Issime, sono state og-getto di ricerche paleobotaniche: la torbiera di Mongiovetta e quella di Réich (figura 5 e 6). Entrambe poste a circa 1900 m s.l.d.m. sono estremamente interessanti perché localizzate ad un’altitudine ottimale per evidenziare le oscillazioni del li-mite altitudinale degli alberi e per registrare le modificazioni della vegetazione determinate dalle attività umane. Purtroppo gli eventi geologici, quali ad esempio le frane, hanno coperto i sedimenti più antichi rendendole, solo apparentemente, più recenti di quanto non lo siano.

Fig. 4. Sopra, localizzazione dei carotaggi nelle torbiere indagate, e (a sinistra) operazioni di carotaggio

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Fig. 5. La torbiera della Mongiovetta

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Fig. 6. La torbiera di Réich

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molto rari non solo in pianura per via dello sfruttamento a cui sono state sottoposte nei secoli passati per l’estrazione della tor-ba usata come combustibile, ma anche in altitudine. In Valle d’Aosta in particolare, nella maggior parte dei casi sono state interessate da successivi fenomeni franosi che ne hanno rico-perto la superficie. La torbiera è un ambiente conservativo in cui la sostanza organica prodotta dalla vegetazione tende nel tempo ad accumularsi invece di essere degradata come avviene nei normali suoli. I fattori che rallentano la degradazione della materia organica sono essenzialmente due: le condizioni clima-tiche umide che garantiscono una migliore conservazione della sostanza organica morta rallentando l’azione dei microrganismi decompositori, e l’abbondanza di acqua che impregna il suolo e la materia organica depositata che blocca ulteriormente l’atti-vità aerobica dei decompositori. Quindi grazie a questi fattori,

MEtoDoLoGIAPer ricostruire gli eventi vegetali passati è stata utilizzata l’analisi pollinica, metodologia che studia i granuli pollinici e le spore conservati nei sedimenti. Tutte le piante appartenenti alle Tracheophyta (Angiospermae e Gimnospermae) produco-no un ingente quantitativo di polline che rappresenta il gamete maschile. La conservazione dei granuli pollinici prodotti dalla vegetazione passata, si realizza in particolari ambienti umidi quali i laghi e le torbiere. In particolare in queste zone d’altitu-dine, i laghi sono di origine glaciale, ossia formatisi in seguito al ritiro dei ghiacciai. La vegetazione che in seguito al ritiro del ghiacciaio comincia ad insediarsi sulle sponde del lago, forni-sce la necromassa necessaria per il riempimento naturale del lago che si trasformerà alla fine della sua evoluzione natura-le in torbiera. Le torbiere, come già detto, sono degli ambienti

Polline estratto dal sedimento: a. Abete rosso (Picea), b. Romice (Rumex), c. Carice (Carex)

Fig. 7. Sedimento estratto dalla torbiera di Réich

a. b. c.

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chimicamente (Erdtman, 1952) per eliminare tutta la materia inorganica e organica ed estrarre solo il polline e le spore.Il residuo ottenuto dai 62 livelli della torbiera di Mongiovetta e dai 50 per la torbiera di Réich, è stato montato sul vetrino e sono stati contati almeno 200 pollini per ogni livello. I dia-grammi realizzati con il programma GPalwin, sono stati suddi-visi in zone che presentano composizione pollinica omogenea. Inoltre sono stati prelevati i macroresti vegetali (figura 8) che sono stati spediti al laboratorio di datazione 14C dell’Universi-tà del Salento che ha effettuato le datazioni assolute secondo la metodica dell’AMS (Spettrometria di massa).

RISuLtAtII risultati sono rappresentati graficamente in due diagrammi pollinici in cui sono stati riportati solo i taxa principali dei 73 individuati (figure 6 e 7). I diagrammi sono stati suddivisi in zone in cui la composizione pollinica appare omogenea. Sul lato sinistro dei diagrammi sono riportate la profondità, la stra-tigrafia e le datazioni.

le torbiere sono degli archivi naturali in cui si conservano resti vegetali come pollini, legni, semi ed altri parti vegetali per mi-gliaia di anni in ottimo stato. Prelevando i sedimenti a partire dal fondo fino alla superficie della torbiera si può ricostruire la vegetazione che circondava il sito nei periodi passati. I sedimenti della torbiera di Mongiovetta e quelli della torbiera di Réich sono stati prelevati nell’estate del 2013 dopo averne sondato diversi settori per individuare le aree con maggiore spessore di sedimento. I sedimenti sono stati estratti utilizzan-do la trivella manuale di tipo russo che preleva carote di 60 cm di lunghezza e 6 cm di diametro. A Mongiovetta sono stati estratti 150 cm di sedimenti continui, mentre a Réich si è rag-giunta la profondità di 300 cm, ma non c’è sempre continuità nei sedimenti in quanto sono stati attraversati livelli che, per la loro composizione sedimentologica troppo ciottolosa, non è stato possibile prelevare. Solo alcune parti meno resistenti sono state prelevate con una trivella pedologica (figura 7). I sedimenti prelevati sono stati riposti in contenitori e guaine di plastica per evitarne la disidratazione; in laboratorio i campioni da analizzare sono stati prelevati ogni 2 cm, sono stati trattati

Fig. 8. Alcuni macroresti estratti ed inviati al laboratorio di datazione

t A B E L L A D E L L E D A t A z I o N I

MONGIOVETTA Materiale datato Età radiocarbonio (BP) Datazione calibrata Codice CEDADM106-110 Scaglie coni di Abies 5039±45 3960-3710 BC LTL 14391AM130-140 Picciolo di pianta acquatica 107.79±0.73 pMC LTL 14390AM144-148 Semi di Carex e frammenti di legno 5037±45 3960-3710 BC LTL 14389A

RéICH Materiale datato Età radiocarbonio (BP) Datazione calibrata Codice CEDAD

R40-50 40 semi di Carexsp. 460±45 1390-1520 AD LTL 15970AR70-80 100 semi di Carexsp. 1189±40 760-970 AD LTL 15971AR245-250 Frammenti di legno, scaglie di coni 9578±45 9220-8760 BC LTL 15973A

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canapa. Si tratta di percentuali molto basse, ma che stanno ad indicare un utilizzo di queste piante da parte di alcune popo-lazioni che vivevano probabilmente a più bassa altitudine. La presenza continua del polline di canapa differenzia la regione alpina da quella appenninica in cui la coltivazione della canapa inizia nel periodo romano (Mercuri et al., 2002). Percentuali leggermente più elevate si osservano per i pollini delle specie legate al pascolo quali Trollius e Asteroideae. La presenza di frammenti di legno e scaglie di coni di abete testimonia con certezza che l’area 3800 anni fa, che doveva essere un baci-no lacustre come dimostra l’osservazione del polline di Po-tamogeton e di ranunculi acquatici (i taxa acquatici non sono riportati nel diagramma sintetico), vedeva la presenza di alberi in particolare larice, pini e abeti. Successivamente a 3800 BC pare verificarsi un abbandono delle attività di pascolo perché si riduce la percentuale di specie legate a questa attività, mentre

DIAGRAMMA DI MoNGIoVEttA (Fig. 9) I risultati ottenuti dallo studio dei pollini e delle spore conte-nuti nei sedimenti della torbiera di Mongiovetta sono già stati in parte presentati (Brugiapaglia, 2014). A questi dati si ag-giungono ora quelli delle datazioni assolute. I livelli compresi tra 148 e 144 cm di profondità, ossia la parte più profonda che è stato possibile carotare, avrebbero un’età di circa 3960 BC. I livelli 106-110 cm, sulla base delle date ottenute, avrebbero la stessa età. Ciò appare assai difficile da giustificare se non ammettendo una elevatissima velocità di sedimentazione che tuttavia è da escludere visto che in circa 40 cm si verificano delle modificazioni della vegetazione. Quindi la datazione di 3960 BC è da collocare o sul fondo della torbiera o 40 cm so-pra il fondo stesso. La sedimentazione inizia nell’età del Bron-zo e già durante questo periodo sono evidenti alcuni deboli segnali di antropizzazione quali il polline dei cereali e della

Fig. 9. Diagramma semplificato di Mongiovetta

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dei taxa legati al pascolo degli animali (Asteroideae, Cichorio-ideae, Trollius, Rumex) e all’agricoltura (cereali e canapa). Le biozone 7 e 8 dovrebbero comprendere il periodo medioevale ma non è stato possibile datarle per la scarsità dei macroresti.

DIAGRAMMA DI RéIch (Fig. 10)Il diagramma ottenuto dall’analisi pollinica dei sedimenti è stato suddiviso in 4 biozone a composizione pollinica omoge-nea. Il fondo della torbiera, come precedentemente descritto, è rappresentato da sedimenti siltosi grossolani contenenti alcuni macroresti che sono stati utilizzati per la datazione. I sedimen-ti prelevati tra 300-280 e tra 250-230 sono risultati sterili in materiale pollinico essendo costituiti principalmente da argille siltose di origine glaciale che mal conservano il polline. Tra 250 e 245 erano presenti frammenti di legno e scaglie di coni (fig. 8) che sono stati datati e che testimoniano la presenza di

aumenta il polline delle Ericaceae (rododendro in particola-re) che di solito colonizzano le aree abbandonate dalle attivi-tà umane. Durante questa fase ad Ericaceae pare esserci stata una stabilità nella vegetazione che è durata circa 1800 anni. L’incremento delle attività umane si osserva invece in maniera decisa a partire dalla biozona 5 in cui aumenta il polline dei cereali (2%) e compare quello del castagno, che, per questo settore delle Alpi, rappresenta un marcatore biocronologico in quanto la sua introduzione è legata alla presenza dei Romani che occuparono la valle. Per quel che riguarda la vegetazione arborea naturale, è da notare la diffusione tardiva dell’abete rosso (Picea), intorno a 2000 BP, che rappresenta un tratto comune con altri siti del settore orientale della Valle d’Aosta in cui l’abete rosso si è diffuso tardivamente. Le biozone 6 e 7 sono quelle in cui è più evidente l’impatto antropico grazie all’aumento del polline

Fig. 10. Diagramma semplificato di Réich

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a datare il livello 120 almeno a 2000 BP. La biozona 3, datata circa 1390 -1520 BC, vede l’aumento di Alnus e la riduzione dei cereali e della canapa che potrebbe essere la conseguenza della peste che colpì tutta l’Europa e la Valle d’Aosta tra il 1349 ed il 1412 (Remacle, comunicazione persona-le). Si potrebbe anche trattare di una fase fredda che potrebbe aver ridotto l’utilizzo delle aree più elevate. Se quest’ultima ipo-tesi fosse vera, avremmo dovuto trovare delle modifiche nel sedimento che invece è costituito da torba apparentemente omoge-nea. Questo ci fa propendere per la prima ipotesi.Nella biozona 4 si verifica la riduzione di Alnus e l’aumento dei cereali, della canapa e di Rumex. Un più forte impatto antropi-co è anche testimoniato dalla scomparsa dei macroresti di pino e dalla riduzione del suo polline in quanto questa pianta veniva

sicuramente impiegata per ogni tipo di costruzione e di uten-sili ad uso quotidiano. In questa biozona pare realizzarsi un importante aumento demografico con conseguente riduzione del polline arboreo e l’aumento di quello dei taxa erbacei legati alle attività umane.

DIScuSSIoNE E coNcLuSIoNILe macrocorrelazioni tra i due diagrammi che hanno registrato la vegetazione in modo simile, necessitano di alcune precisa-zioni: • gli eventi vegetali registrati a Réich sono più dettagliati se

consideriamo che in 120 cm sono registrati almeno 2000 anni di storia, mentre a Mongiovetta gli ultimi 2000 anni sono registrati in 50 cm.

• l’insieme delle due sequenze registra la totalità degli eventi a partire almeno da 5000 BP.

• alcuni “eventi guida” correlano i due diagrammi con quelli già noti per la Valle d’Aosta.

La sedimentazione nel sito di Réich è iniziata almeno a circa 9200 BC (250-245 cm) ma il ritiro del ghiacciaio era iniziato già da prima, tanto che intorno alla torbiera si era formata una vegetazione di arbusti/alberi, non evidenziabile con l’analisi pollinica, ma grazie ai frammenti di legno e scaglie di cono delle conifere. La mancanza di sedimento utile per le analisi tra 195 e 120 cm (hiatus), ma solo la presenza di materiale in-coerente, potrebbe testimoniare di un’avvenuta frana/valanga che avrebbe eroso buona parte del sedimento torboso. A par-tire da 120 cm la sequenza ottenuta è abbastanza omogenea e sulla base dei dati pollinici e cronologici, si è evidenziato che le attività umane erano dedicate soprattutto alla coltivazione dei cereali ed all’allevamento degli animali. Purtroppo, come già evidenziato nel diagramma di Mongiovetta, non è possibile stabilire la prevalenza di un’attività sull’altra essendo praticate contemporaneamente. La torbiera di Réich rispetto a quella di Mongiovetta ha avuto una sedimentazione più veloce tanto che

alberi, di cui però non si può stimarne la densità, intorno al lago glaciale. Il risultato della datazione è stato di 9578±65 BP (9220-8760 BC) evidenziando quindi sedimenti molto antichi. A partire da questo periodo è iniziata la sedimentazione che ha portato alla formazione di un lago prima e di una torbiera poi. È assai difficile e raro trovare dei sedimenti così antichi ad al-titudine elevata come nel caso di Réich. La maggior parte delle torbiere analizzate (Brugiapaglia, 1996) a questa altitudine non hanno mai rilevato un’età così antica, quindi vista l’eccezio-nalità dell’area sarebbe necessario approfondire le ricerche mettendo in campo anche altre discipline come l’archeologia, l’antracologia, la paleoentomologia.La biozona 1 è caratterizzata da un sedimento di gjttya frammi-sto a materiale grossolano di tipo siltoso. Tra le specie arboree si nota la presenza delle betulle e delle querce caducifoglie. La specie dominante è il pino, di cui sono stati osservati anche gli stomi ed i campi d’incrocio del legno (Fig, 11). Il polline non arboreo è costituito principalmente da quello di specie di prate-ria come Apiaceae, Poaceae, Rumex e Cyperaceae. Tra 195 e 120 cm di profondità, il sedimento non è stato pre-levato perché costituito da materiale ciottoloso impossibile da prelevare con i mezzi a disposizione e comunque di solito ste-rile per l’analisi pollinica. A partire da 120 cm il sedimento è costituito da torba tranne tra 92 e 88 cm in cui è intercalato un sottile strato di argilla. Dal punto di vista della vegetazione in corrispondenza di questo strato di argilla non si riscontrano modificazioni. Nella biozona 2 la vegetazione locale, come testimoniano i macroresti (stomi, fibrotracheidi e campi d’incrocio), era costi-tuita da pini e probabilmente anche pino cembro. A più bassa altitudine dovevano essere presenti boschi di querce caducifo-glie, nonché boschi di faggio e abete rosso. L’abete bianco con percentuali basse, è stato abbastanza raro in Valle d’Aosta (Brugiapaglia, 1997). Tra le specie erbacee è da rilevare la presenza di taxa legati al pascolo, quali Rumex, Cichorioideae e Asteroideae. Non lontano dovevano essere presenti anche coltivazioni di cereali (15%) e canapa (7%). La presenza continua del polline di castagno e noce ci induce

Fig. 11. Campi d’incrocio del legno di pino

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RINGRAzIAMENtILa ricerca è stata resa possibile grazie al contributo dell’Asso-ciazione Augusta. Si ringrazia l’Area Botanica del Dipartimen-to di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali dell’Università Politecnica delle Marche per avermi permesso l’utilizzo dei laboratori per le analisi polliniche.

BIBLIoGRAFIA

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- BRUGIAPAGLIA E., MERCURI A.M., 2012 – Raccolte palinologiche. In “ Herbaria. Il grande libro degli erbari ita-liani”. Nardini editore: 201-207

- BRUGIAPAGLIA E., 1996 – Dynamique de la végétation-tardiglaciaire et holocenedansles Alpes italiennesnord-oc-cidentales. Thèseès Sciences Un iversité Aix-Marseille III: 148 pp.

- HOLZHAUSER H., MAGNy M., ZUMBüHL H.J., 2005 – Glacier and lake-level variations in west-central Europe over the last 3500 years. The Holocene, 15 (6): 789-801.

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pare poter riconoscere anche il periodo tra il 1400 ed il 1300 in cui l’Europa e l’Italia furono funestate da una terribile pe-ste, grazie alla riduzione dei taxa legati all’allevamento ed alla agricoltura a vantaggio dell’ontano verde che aumenta in per-centuale e probabilmente riconquista lo spazio non utilizzato da queste attività. Anche la ripresa delle Ericaceae di solito è un segnale di abbandono delle suddette attività. Successiva-mente a questa fase si verificò la ripresa di tutte le attività con l’aumento dei Cereali, del Rumex, dell’Artemisia, delle Urtica-ceae e della Cannabis. Si riducono invece le specie arbustive e arboree che nella fase precedente si erano espanse. Alcuni di questi eventi vegetali sono correlabili con quelli regi-strati in altri diagrammi provenienti da siti limitrofi. Ad esem-pio la biozona 3 di Réich si può correlare con una parte della biozona 16 del Lago di Villa (Brugiapaglia, 2001). Anche al Lago di Champlong (Brugiapaglia, 1997) nelle biozone 4 e 5 si potrebbe tentare una correlazione con quelle 3 e 4 di Réich. Queste correlazioni dimostrano che lo stesso evento, nel caso particolare la peste, avrebbe portato alla riduzione delle spe-cie coltivate a vantaggio delle specie arbustive ed arboree che avrebbero ricolonizzato le aree momentaneamente inutilizzate. In conclusione si può certamente affermare che i due siti di Mongiovetta e Réich nel vallone di San Grato, proprio per l’ec-cezionalità dell’habitat e delle caratteristiche intrinseche dello stesso, sono degli archivi naturali che ci hanno permesso di ritracciare gli eventi naturali ed antropici che si sono succeduti a partire da circa 9000 BC. Sono due siti che meriterebbero di essere inclusi nei SIC della Regione Valle d’Aosta mantenen-done l’attuale livello di antropizzazione perché una maggiore pressione ed in particolare le modificazioni del regime idrico delle torbiere, comporterebbero1 la scomparsa delle attuali specie vegetali altamente specia-

lizzate che garantiscono un elevato grado di biodiversità alle aree e

2 la banalizzazione della flora attraverso l’ingresso di specie cosmopolite ed aliene.

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La zona delle Cime Bianche è caratterizzata da una morfologia di tipo carsico dovuto ai substrati calcarei del Trias della Zona Piemontese.3Il versante meridionale del Monte Rosa (Alta Valle di Gresso-ney) è di particolare interesse per gli elevati limiti altitudinali raggiunti dalle piante fanerogame: sono state segnalate oltre 60 entità floristiche (tra specie e varietà) che raggiungono qui i massimi limiti altitudinali nelle Alpi. Di queste superano i 4000 metri le seguenti entità: Ranunculus glacialis (fino a 4245 m), Poa laxa (fino a 4245 m), Androsace alpina, Saxifraga opposi-tifolia, Saxifraga moschata. Tra gli arbusti raggiungono quote eccezionali: Juniperus nana (3570 m), Vaccinium uliginosum ( 3550-3630 m), Vaccinium myrtillus ( 3000-3200 m), Vaccinium vitis-idaea (3000-3200 m), Rhododendron ferrugineum (3000 m). Il sito Corine si presenta come una zona transfrontaliera per le linee migratorie dello Stambecco che mettono in contatto popolazioni di Ayas, Gressoney con Alagna e Macugnaga e da qui in Svizzera. La zona delle Cime Bianche è stata segnalata dalla Società Bo-tanica Italiana tra i biotopi italiani di rilevante interesse vegeta-zionale e meritevoli di conservazione.4A questi dati eccezionali per la flora alpina, consultabili sul portale internet della Regione Valle d’Aosta, si aggiungano ul-teriori attuali variazioni dei limiti della vegetazione dovute allo scioglimento del ghiacciaio del Lys e ai cambiamenti climatici connessi.5 Si tenga presente inoltre che negli ultimi anni sono stati effet-tuati studi geomorfologici (riportati sulla rivista Augusta nelle annate 2011-2014) al fine di reperire dati relativi ad eventuali siti di interesse geologico (geositi), nonché studi pedologici/palinologici sulle torbiere di Cortlys, che aggiungono interesse al sito stesso, benché relativi ad aree poste ai limiti esterni del SIC/ZPS. Da queste ricerche emerge la necessità di ampliare i confini dell’area di interesse in modo da poter inserire anche questi ulteriori siti e preservarli da possibili impatti negativi dati dalla forte pressione turistica o dalla costruzione di infra-strutture, come viene evidenziato nel documento della Regione Valle d’Aosta relativamente alle vulnerabilità del SIC.

I SIC (Siti di Interesse Comunitario), a differenza delle tradizionali aree protette, non rientrano nella legge quadro n. 394/91 sulle aree protette , ma na-scono con la direttiva comunitaria n. 92/43 ( detta “Direttiva Habitat”), recepita dal D.P.R n. 357/97

e successivo n. 120/03, finalizzata alla conservazione degli habitat naturali e delle specie animali e vegetali di interesse comunitario e sono designati per tutelare la biodiversità attra-verso specifici piani di gestione.1I SIC, insieme alle Zone di Protezione Speciale (ZPS) costitu-iscono la Rete Natura 2000 concepita ai fini della tutela della biodiversità europea attraverso la conservazione degli habitat naturali e delle specie animali e vegetali di interesse comu-nitario. Le Zps, in particolare, sono previste e regolamentate dalla direttiva comunitaria 79/409 (detta “Direttiva Uccelli”), recepita in Italia dalla legge sulla caccia n. 157/92, il cui obiet-tivo è la “conservazione di tutte le specie di uccelli viventi allo stato selvatico”, che viene raggiunta non soltanto attraverso la tutela delle popolazioni ma anche proteggendo i loro habitat naturali.La Valle d’Aosta è ricca di Siti Natura 2000; ve ne sono 30, tra SIC e ZPS, istituiti al fine di preservare la biodiversità degli ambienti montani, su un totale di 2314 siti presenti in Italia.2

IL SIc DEL MoNtE RoSAGli ambienti glaciali del Monte Rosa rientrano in una di que-ste forme di protezione della biodiversità, anzi due: si tratta di un’area individuata nel 2003 sia come SIC, sia come ZPS (codice IT1204220), con un’estensione di 8645 ettari e un’alti-tudine che varia dai 2000 ai 4531 m.Il sito comprende l’intero massiccio del versante valdostano del Monte Rosa con le testate delle valli di Ayas e Gressoney e l’area di crinale tra le conche di Valtournenche, del Breuil e del Vallone delle Cime bianche in Val d’Ayas. In questo sito si ha la presenza di vasti apparati glaciali carat-terizzati da un notevole sviluppo di depositi morenici e litolo-gie dominate dai micascisti albitici retromorfosati dell’insieme pregranitico del massiccio del Monte Rosa.

Il S.I.c. “Ambienti glaciali del gruppo del Monte Rosa”

FranceSco Spinello, naturaliSta

1 https://www.politicheagricole.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/10082 http://www.minambiente.it/pagina/sic-zsc-e-zps-italia3 http://www.regione.vda.it/risorsenaturali/conservazione/natura2000/siti_f.asp4 NATURA 2000 Data Form . Codice sito: IT1204010 5 De Amicis M., Spinello F., Le morene del ghiacciaio del Lys, evidenze delle variazioni climatiche, Augusta 2013

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vallesana, risulta particolarmente interessante per la sovrap-posizione (e inglobamento reciproco) di diverse comunità lin-guistiche, al punto che più che di linea di confine risulterebbe appropriato parlare di una sorta di “modello a matrioska” (vedi la figura 1). In Valle d’Aosta, infatti, le varietà walser costitu-iscono una minoranza all’interno della più ampia minoranza francofona e francoprovenzale, la quale è a sua volta dominata a livello nazionale dall’italiano e a livello macro-regionale dal-la koinè piemontese. Di fatto, però, la questione si complica ulteriormente se prendiamo in considerazione nello specifico la situazione della comunità di Gaby, la quale è a sua volta un’enclave all’interno dell’area dominata (o meglio: antica-mente dominata) dal tedesco walser, al punto che il villaggio di Niel (parte del Comune di Gaby) ha mantenuto a lungo un suo dialetto di tipo walser (ora estinto).

La microregione dell’alta valle del Lys, nella Valle d’Aosta orientale, costituisce uno dei punti lungo i quali corre il confine linguistico fra area roman-za e area germanica. In particolare per quanto ri-guarda l’area alpina, di pertinenza qui, i contatti

fra romanzo e germanico sono plurisecolari, reciproci e forte-mente stratificati; inoltre, entrambi i gruppi linguistici si carat-terizzano per un sostrato prelatino (celtico) e pre-indoeuropeo (cosiddetto mediterraneo). Tutto ciò ha contribuito allo svilup-po di uno strato lessicale relativo alla cultura alpina almeno in parte condiviso che deve aver favorito, nel corso dei secoli, la comunicazione interetnica e un senso di appartenenza comune. Tuttavia, rispetto all’area alpina di confine fra romanzo e ger-manico, il caso dell’alta valle del Lys, interessata, in epoca medievale, da migrazioni alto-alemanniche di provenienza

Francoprovenzale e walser nell’alta valle del Lys

Silvia dal negro* - Marco angSter*

* Università degli Studi di Bolzano e Università degli Studi di Torino.1 La microtoponomastica locale rispecchia molto bene l’esistenza di due gruppi etnico-linguistici sul territorio e il loro sfruttamento dello stesso.

Un esempio classico di denominazione degli “altri” è quello del Pratum teotonicorum ‘prato dei tedeschi’ (attestato almeno a partire dal XVII secolo, cfr. Musso / Bodo 1994), al quale corrispondono denominazioni di tipo diverso (maggiormente legate alla conformazione del terreno) nel tedesco locale.

Francoprovenzale e walser nell’alta valle del Lys

Silvia Dal Negro - Marco Angster

Università degli Studi di Bolzano

La microregione dell’alta valle del Lys, nella Valle d’Aosta orientale, costituisce uno dei punti

lungo i quali corre il confine linguistico fra area romanza e area germanica. In particolare per

quanto riguarda l’area alpina, di pertinenza qui, i contatti fra romanzo e germanico sono

plurisecolari, reciproci e fortemente stratificati; inoltre, entrambi i gruppi linguistici si

caratterizzano per un sostrato prelatino (celtico) e pre-indoeuropeo (cosiddetto mediterraneo). Tutto

ciò ha contribuito allo sviluppo di uno strato lessicale relativo alla cultura alpina almeno in parte

condiviso che deve aver favorito, nel corso dei secoli, la comunicazione interetnica e un senso di

appartenenza comune.

Tuttavia, rispetto all’area alpina di confine fra romanzo e germanico, il caso dell’alta valle del

Lys, interessata, in epoca medievale, da migrazioni alto-alemanniche di provenienza vallesana,

risulta particolarmente interessante per la sovrapposizione (e inglobamento reciproco) di diverse

comunità linguistiche, al punto che più che di linea di confine risulterebbe appropriato parlare di

una sorta di “modello a matrioska” (vedi la figura 1). In Valle d’Aosta, infatti, le varietà walser

costituiscono una minoranza all’interno della più ampia minoranza francofona e francoprovenzale,

la quale è a sua volta dominata a livello nazionale dall’italiano e a livello macro-regionale dalla

koinè piemontese. Di fatto, però, la questione si complica ulteriormente se prendiamo in

considerazione nello specifico la situazione della comunità di Gaby, la quale è a sua volta

un’enclave all’interno dell’area dominata (o meglio: anticamente dominata) dal tedesco walser, al

punto che il villaggio di Niel (parte del Comune di Gaby) ha mantenuto a lungo un suo dialetto di

tipo walser (ora estinto).

1: Lingue e dialetti nell’alta valle del Lys

ITALIANO E PIEMONTESE

FRANCESE E FRANCOPROVENZALE

DIALETTI WALSER DI ISSIME E GRESSONEy

PATOIS DI GABy

DIALETTO WALSER DI NIEL †

Figura 1: Lingue e dialetti nell’alta valle del Lys

Come è noto (Giacalone Ramat 1979, Zürrer 2009), il mag-giore insediamento walser nella valle del Lys è quello di Gres-soney (organizzata su due comuni e numerose frazioni), la cui storia (precedente allo sviluppo turistico) di scambi, commer-ci e migrazioni orientata soprattutto verso le regioni germa-nofone a nord delle Alpi, ha favorito il mantenimento di una continuità linguistico-culturale, integra fino almeno alla metà del secolo scorso. L’altra comunità walser della Valle d’Aosta

è quella di Issime, originariamente insediatasi a macchia di leopardo nell’area di metà valle in stretto contatto e parziale sovrapposizione con la comunità francoprovenzale di Gaby con la quale, fino al 1952, costituiva un unico comune ammi-nistrativo1. Con la creazione delle due entità comunali si avviò un processo di polarizzazione delle comunità walser e fran-coprovenzale, processo completato quando anche il villaggio walser di Niel passò al patois per essere poi definitivamente

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Presentiamo in queste pagine uno studio pilota dedicato al les-sico della varietà francoprovenzale di Gaby, svolto a partire dai materiali che ci sono stati messi a disposizione dal gruppo di lavoro “Tsèi de la móda dou Gòbi” (coordinato da Andrea Rolando), per il tramite di Michele Musso2.La nostra ricerca si è articolata in due fasi. In una prima fase abbiamo selezionato casualmente un campione di un centinaio di lessemi tratto da un corpus più ampio di 330 parole in uso nel patois di Gaby, prevalentemente nomi, appartenenti al cam-po semantico agro-pastorale3. Questo campione è stato quindi analizzato sulla base dello strato linguistico di appartenenza (germanico o romanzo). Facendo riferimento ai consueti stru-menti della linguistica storica, specifici per il dominio germa-nico e romanzo4, abbiamo tenuto nella dovuta considerazione le risorse lessicografiche più specifiche per l’area e le varietà di lingue di nostro interesse: i dizionari di titsch e töitschu pubbli-cati dal Walser Kulturzentrum tra il 1988 e il 1998, lo Schwei-zerdeutsches Idiotikon (ID) per i dialetti svizzeri e il dizionario online dei patois della Valle d’Aosta5. Il nostro obiettivo, in questa prima fase, era quello di individuare, all’interno di un campione casuale di lessico di Gaby, la percentuale di termini di origine germanica che potessero derivare direttamente dal contatto con le parlate walser, in contrasto con il lessico ro-manzo ereditato. L’operazione si è rivelata da subito molto più complessa del previsto dal momento che in diversi casi le corrispondenze fra patois di Gaby e dialetti walser sono dovute a fenomeni di so-strato comune o a contatti linguistici precedenti agli insedia-menti walser a sud delle Alpi, sebbene non romanzi in senso stretto. Per fare un esempio, una parola come brèn ‘crusca’, pur appartenendo al lessico ereditato del franco-provenzale, è un antico prestito gallico (REW 1284 *brennos) nelle varietà gallo-romanze, e dunque anche nel francoprovenzale, la cui origine, tuttavia, non può dirsi romanza in senso stretto. Per riassumere, dunque, dei 102 lessemi del patois di Gaby presi in considerazione, la maggior parte (79 = 77,5%) sono risultati di origine romanza o comunque diffusi in area roman-za (come nel caso di brèn), dieci (9,8%) sono di classificazio-ne incerta, mentre il resto (13 = 12,7%) sono da attribuire al contatto con parlate di tipo alto-tedesco (e dunque, presumibil-mente, al contatto con il walser). Più interessante, a questo punto, osservare come si distribui-scano, dal punto di vista dello strato linguistico, quei 27 tipi lessicali, all’interno di questa lista, che Gaby condivide con Issime, con Gressoney, o con entrambe le comunità walser, con lo scopo di individuare eventuali asimmetrie e rapporti di do-minanza sociolinguistica nel contatto linguistico.

abbandonato come insediamento permanente. Il risultato di queste trasformazioni è, sul piano linguistico, lo statuto del tutto particolare del patois di Gaby, enclave francoprovenzale all’interno del tedesco walser, a sua volta enclave della più ampia area francoprovenzale valdostana. Tali processi di po-larizzazione e separazione delle comunità non hanno comun-que impedito lo sviluppo di un bi- e plurilinguismo tuttora ben presente a livello locale, soprattutto per quanto riguarda la comunità di Issime (cfr. Dal Negro 2002, Zürrer 2009, Dal Negro / Valenti 2008).

2 Una presentazione del progetto di documentazione linguistica e alcuni primi risultati si possono leggere in Tsei de la móda dou Gòbi (2015). Per averci messo a disposizione questi materiali in anteprima permettendoci di svolgere la presente ricerca, ringraziamo il gruppo di lavoro e Michele Musso.

3 Il confronto con una ricerca recente di taglio tipologico e comparativo nell’ambito dei prestiti lessicali (Haspelmath / Tadmor 2009) mette in luce come l’ambito dell’agricoltura e delle specie vegetali sia tutt’altro che immune al prestito: su un totale di 22 categorie concettuali si classifica addirittura al sesto posto sulla scala di “prestabilità” ricavata dal progetto. Ciò potrebbe dipendere dal fatto che le tecnologie di agricoltura e allevamento vengono spesso importate da una cultura ad un’altra, e con esse anche il relativo lessico.

4 E cioè il Romanisches Etymologisches Wörterbuch (REW), il Französisches Etymologisches Wörterbuch (FEW) e il Deutsches Worterbuch (DWB).

5 Disponibile a questo indirizzo: http://www.patoisvda.org/it/index.cfm/dizionario-francoprovenzale-parole-patois.html.

Amalia Tousco (Gaby) ved. Ronc e Gotta Lina Busso (Issime) (foto Cavalli)

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in quanto formata esclusiva-mente da parole per le quali vi fosse una corrispondenza fra il francoprovenzale (di Gaby o nella varietà di Niel) e al-meno uno dei dialetti walser (per questo motivo la compo-nente germanica risulta molto più consistente di quanto non fosse per la prima lista). Inol-tre, tale elenco non è limitato ai nomi ma comprende anche verbi e aggettivi, e spazia su più campi semantici. A partire dall’analisi dei tipi lessicali, non semplicissima dati i numerosi fenomeni di integrazione fonologica, mor-fologica e semantica che toc-cano i prestiti, soprattutto se ben acclimatati come in questo caso, siamo riusciti ad iden-tificare una serie di schemi di similarità o di corrispondenza all’interno della microregione. Quando un tipo è condiviso da

tutte e quattro le varietà linguistiche considerate (e dunque in-clusa la varietà di Niel), questo può essere, come si è visto an-che sopra, di origine germanica, di origine romanza, di origine non chiara o comune ad entrambe le tradizioni linguistiche (e dunque dovuto a sostrato). Un esempio di lessotipo germani-co condiviso è gròbou (Gaby), groabo (Niel), groabe (Issime), groabe (Gressoney), tutti con il significato di ‘canale di raccolta del letame’ e collegato al tedesco Graben ‘fossato’. Per il caso opposto (termine di origine romanza condiviso da tutte e quat-tro le varietà) si può citare djèra (Gaby) ‘ghiaia’, djéara (Niel), dscheeru (Issime), dŝchärò (Gressoney). Si noti, in quest’ulti-mo caso, che i dialetti walser mantengono il genere femminile del nome romanzo preso dalla lingua a contatto ma ne adattano la forma per farla rientrare nella classe flessiva corrispondente dei femminili in –u/-ò: un tale processo (attestato anche in di-rezione opposta, con femminili walser riadattati alla classe in –a passando al francoprovenzale) denota la presenza di un alto grado di bilinguismo e di conoscenza dei rispettivi sistemi lin-guistici per rendere possibile stabilire corrispondenze fra generi e classi flessive nelle due lingue.Un altro tipo comprende quei casi in cui il dialetto di Gresso-ney si distingue da tutti gli altri. Un caso interessante è quello della serie zétsi (Gaby), zétsie (Niel), setzi (Issime), tutti da ricondurre al tedesco setzen ‘sedere/sedersi’ ma riferiti ad un seggiolino per bambini; curiosamente, per lo stesso oggetto nel dialetto walser di Gressoney si usa un prestito romanzo, kariélé, diminutivo di kariò ‘sedia’. L’altra tipologia riguarda i casi in cui un lessotipo romanzo non raggiunge Gressoney. Si considerino gli esempi di ‘cantina’ – Gaby crota, Niel crouata, Issime kruatu, ma Gressoney char, e di ‘patata’ – Gaby/Niel trìffoula, Issime trüffulu (oltre che heerdöpfil), ma Gressoney héerfél (a partire dal composto, ora opacizzato, dal significato letterale di ‘mela di terra’).

Somiglianze leSSicali con gaby Germanico Romanzo

Issime & Gressoney 10 4Issime 2 10Gressoney 0 1

Tab. 1: Corrispondenze lessicali fra Gaby e Issime/Gressoney

Una prima osservazione che si può fare osservando la tabella 1 è che, grosso modo, il lessico condiviso di origine germanica è quantitativamente equivalente a quello di origine romanza, il che fa pensare ad una lunga storia di bilinguismo diffuso a livello di microregione e di contatti e influenze reciproche, almeno per quanto riguarda il campo semantico delle attività agro-pastorali. Andando più nello specifico dei dati, si può os-servare che quando un termine è condiviso da tutti e tre i dia-letti la probabilità che questo termine sia di origine germanica (o meglio: tedesca) è molto alta e che, dunque, il prestito sia passato dal walser al franco-provenzale. Viceversa, quando la corrispondenza lessicale esclude Gressoney la componente ro-manza prevale (e la direzione dei prestiti va dunque dal patois al walser issimese). Questa prima indagine sembra dunque indicare due diverse tendenze nei rapporti di dominanza sociolinguistica (così come si riflettono nella direzionalità dei prestiti lessicali) nell’alta valle del Lys. Per verificare la bontà della nostra ipotesi, tut-tavia, abbiamo dovuto allargare il database lessicale sul qua-le svolgere l’analisi. In una seconda fase del lavoro abbiamo così preso in considerazione un’ulteriore lista di 130 lessemi (sempre estratti dalla preziosa banca dati raccolta dal gruppo di lavoro “Tsei de la móda dou Gòbi”), diversa dalla prima

Gaby (foto R. Alessandrini)

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di Niel), che funziona da punto di riferimento7. L’intero corpus di dati viene così trasformato in una matrice nella quale tutti i casi di corrispondenza vengono indicati con 1 mentre tutti i casi di mancata corrispondenza ricevono il valore 0; i casi di dato mancante, invece, vengono ignorati dall’algoritmo. Un esempio di matrice è rappresentato nella Tab. 2:

A partire dalla matrice esemplificata nella Tab. 2 è possibi-le calcolare i valori di Hamming distance tra le due varietà di francoprovenzale e i due dialetti walser. Tali distanze sono riportate nella Tab. 3. Qui si può osservare come il walser di Gressoney sia molto distante sia dal patois di Gaby (.434) sia dalla varietà di Niel (.374), che pure presenta un’alta propor-zione di germanismi, ma evidentemente non corrispondenti ai tipi riscontrati a Gressoney. Questi dati allontanano la parlata di Gressoney dall’area più compatta di Gaby, Niel e Issime, entro la quale i rapporti e gli scambi reciproci hanno contribu-ito alla formazione di una base lessicale condivisa e trasver-sale rispetto allo strato linguistico (germanico o romanzo) di appartenenza.

Issime Gressoney

Gaby .091 .434Niel .056 .374

Tab. 3: Calcolo della Hamming distance tra varietà walser e varietà francoprovenzali

Due sono gli schemi risultati più frequenti per quanto riguarda le corrispondenze lessicali: l’allineamento di tutte e quattro le varietà su uno stesso tipo, romanzo o germanico che sia (60 casi), e l’opposizione di Gressoney alle altre tre varietà (36 casi, ai quali dovremmo aggiungere i 10 casi per i quali non siamo riusciti a trovare un traducente adeguato per Gressoney). Per quanto riguarda la classificazione in base allo strato lingui-stico, 52 lessemi sono di origine germanica e 45 romanza. In ulteriori 10 casi il tipo attestato a Gaby può avere origine sia germanica che romanza (sostrato comune pre-latino, oppure tipo onomatopeico), mentre per 23 casi è stato impossibile at-tribuire con certezza un’appartenenza ad uno strato linguistico. Incrociando i due parametri (corrispondenze lessicali e strato linguistico) si può osservare che nei casi in cui un tipo lessicale è condiviso da tutte le parlate in più di metà dei casi questo risale allo strato germanico, mentre nei casi in cui Gressoney si distacca dal gruppo lo strato germanico rende conto di meno di un caso su quattro.Oltre a questi schemi più frequenti, però, i dati presentano una vasta gamma di altre possibilità, più o meno complete sul pia-no delle corrispondenze orizzontali fra varietà, ma che, singo-larmente, contribuiscono a rafforzare (o viceversa a indebolire) le tendenze più generali. Questo ci ha portati a integrare l’ana-lisi con l’impiego di una metodologia diversa che permetta di misurare la distanza relativa fra varietà linguistiche (Hamming distance6) tenendo conto di tutti i casi in cui la variante lessica-le di Issime o di Gressoney corrispondeva a quella di Gaby (e/o

Issime, Villaggio di San Grato. Casa delle colonne sec. XVII, al suo interno è inglobato uno stadel del XV sec. (foto R. Alessandrini)

6 La Hamming distance calcola in generale la distanza reciproca tra due tipi (varietà linguistiche, specie animali o vegetali, corredi genetici ecc.) facendo il rapporto tra il numero di comunanze di 0 o 1 tra i due tipi (vedi Tab. 2) e il numero di tratti considerati. Nel caso ad esempio della distanza tra Gaby e Issime i tratti considerati sono gli oggetti/concetti e le comunanze sono i casi in cui sia Gaby che Issime presentano un 1. I tratti che abbiamo considerato sono 121 (da 130 vanno sottratti un certo numero di casi in cui non abbiamo un lessotipo attestato per Issime o Gaby) e il numero di comunanze è 20. Il risultato corrisponde a 121/20 = .091 (si veda Tab.3). Per altre applicazioni della Hamming distance si veda von Waldenfels (2012); in ambito walser si veda Angster / Dal Negro (in stampa).

7 In questo senso il modello non può essere utilizzato per misurare le distanze reciproche fra i due dialetti walser di Issime e Gressoney ma solo di ciascuno di essi nei confronti del patois di Gaby o della varietà francoprovenzale di Niel.

Ga N I Gr

Ga=N=I=Gr 1 1 1 1Ga≠I=Gr 1 0 - 0Ga=I=Gr≠N 1 0 1 1Ga=I≠N≠Gr 1 0 1 0Ga=N=Gr 1 1 - 1Ga=N=Gr≠I 1 1 0 1Ga≠N=I=Gr 1 0 0 0Ga≠N=I≠Gr 1 0 0 0N=I≠Gr - 1 1 0Ga=N=I≠Gr 1 1 1 0…

Tab. 2: Matrice degli schemi di somiglianza

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considerando la semplice distribuzione geografica dei dialetti. La maggiore somiglianza del lessico issimese, rispetto a quello gressonaro, con i dati raccolti a Gaby avvalora l’ipotesi, già avanzata a partire dagli studi sulla toponomastica (cfr. Bodo / Musso 1994), di un lungo periodo di contatto di tipo sim-metrico delle comunità germanica e romanza nell’area di Ga-by-Issime e del rapporto di adstrato fra le due parlate, con la conseguenza di molte influenze reciproche. Viceversa, i prestiti romanzi nel walser di Gressoney sono più facilmente interpre-tabili sulla base degli effetti del superstrato gallo- e italoroman-zo più ampio, non trovando necessariamente corrispondenze immediate nel patois di Gaby.

L’analisi proposta, pur circoscritta al lessico, ha confermato la natura composita delle varietà francoprovenzali in uso a Gaby e, al tempo stesso, ha messo in evidenza la complessità delle relazioni sociolinguistiche reciproche nel territorio dell’alta valle del Lys. Innanzitutto, per il fatto di trovarsi circondato da parlate alemanniche, il lessico del patois di Gaby si caratteriz-za, come poteva essere facilmente previsto, per la percentuale consistente di germanismi. Meno prevedibile, sulla base del “modello a matrioska” schematizzato sopra, è invece il fatto che i due dialetti walser di Gressoney e Issime non siano ri-sultati equidistanti dal patois di Gaby sulla base degli schemi di similarità lessicale, come dovrebbe essere in teoria il caso

raccolti a Gaby avvalora l’ipotesi, già avanzata a partire dagli studi sulla toponomastica (cfr. Bodo /

Musso 1994), di un lungo periodo di contatto di tipo simmetrico delle comunità germanica e

romanza nell’area di Gaby-Issime e del rapporto di adstrato fra le due parlate, con la conseguenza di

molte influenze reciproche. Viceversa, i prestiti romanzi nel walser di Gressoney sono più

facilmente interpretabili sulla base degli effetti del superstrato gallo- e italoromanzo più ampio, non

trovando necessariamente corrispondenze immediate nel patois di Gaby.

Figura 2: Lingue e dialetti nell’alta valle del Lys (revisione)

Bibliografia

Angster, Marco & Dal Negro, Silvia. (in stampa). Il PALWaM tra documentazione dialettologica, lavoro sul territorio e ricerca linguistica. Bollettino dell’Atlante Linguistico Italiano. 39(2015).

Bodo, Mariangela & Musso, Michele. 1994. Comunità alemanne e franco-provenzali nel territorio di Issime e Gaby: note di toponomastica e demografia storica. In Campello Monti ed i Walser. Atti del Convegno di Studi, Campello Monti 7 agosto 1993, Gruppo Walser Campello Monti.

Dal Negro, Silvia. 2002. Repertori plurilingui in contesto minoritario. In Silvia Dal Negro & Piera Molinelli (eds.). 2002. Comunicare nella torre di Babele. Repertori plurilingui in Italia oggi,23–42. Roma: Carocci.

Dal Negro, Silvia & Valenti, Monica. 2008. Issime, una comunità plurilingue: l'analisi di un corpus (con la collaborazione di Michele Musso). Aosta: Tipografia Valdostana.

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Musumeci.

ITALIANO E PIEMONTESE

FRANCESE E FRANCOPROVENZALE

DIALETTI WALSER

FRANCOPROVENZALEDI GABy

WALSER DI ISSIME

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Figura 2: Lingue e dialetti nell’alta valle del Lys (revisione)

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- HASPELMATH, Martin & TADMOR, Uri (eds.). 2009. World Loanword Database. Leipzig: Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology. (Available online at http://wold.clld.org, Accessed on 2016–07–08.).

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- REW = Meyer Lübke, Wilhelm. 1935. Romanisches Etymo-logisches Wörterbuch. Heidelberg: Winters.

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vi elenchi di parole – raccolte da Michele Musso e dal gruppo dei patoisants volontari di Gaby che stanno lavorando dal 2015 alla redazione del Ditsiounèri dou Gòbi (Augusta 2015), è ini-ziata dunque anche la mia indagine linguistica realizzata tra l’agosto 2015 e il febbraio 2016 destinata alla stesura della tesi di laurea2 , alla ricerca di quelle parole gabesi che non risultano appartenere al dominio romanzo e che sono invece esito di una probabile (anche se non sempre certa) derivazione alemannica. Grazie allo studio etimologico e al confronto sistematico con il walser e con le altre varietà locali (francoprovenzale, piemon-tese, francese, italiano), oltre ad un cospicuo numero di parole registrate ed analizzate in un corpus, siamo riusciti a formulare alcune riflessioni sulla parlata locale di Gaby.

RIFLESSIoNI SuLLA pARLAtA DI GABy IN RELAzIoNE coN IL wALSERIn primo luogo, abbiamo confermato, come ci si poteva atten-dere, la presenza di prestiti lessicali alemannici (v. oltre). Si tratta di parole, riscontrabili generalmente anche nel titsch di Gressoney o nel töitschu di Issime, che riguardano principal-mente ambiti e pratiche tradizionali delle popolazioni monta-ne, o altrettanto spesso di espressioni gergali e idiomatiche. Al-cune di queste parole presentano un significato diverso rispetto ad altri dialetti walser o al tedesco standard, probabilmente attingendo ad altre derivazioni dell’alemanno o a dialetti sviz-zeri. Per esempio lou holt, che a Gaby significa “scomparto” di una cassapanca (da confrontarsi con l’issimese khoalt con lo stesso significato); oppure lou balcòn, un termine già lunga-mente attestato in ambito romanzo, ma che nel patois di Gaby, come nei comuni walser, significa “persiana” e non “balcone”.Generalmente questi prestiti lessicali (con lo stesso significato o con significato traslato) sono prestiti integrati, cioè adatta-ti foneticamente e fonologicamente al patois fprv. di Gaby. È interessante però notare come in alcuni casi il prestito walser abbia conservato un tratto prosodico tipicamente germanico come l’accento rizotonico: alcune parole del patois di Gaby riportano infatti l’accento sulla sillaba iniziale, come per esem-pio hòrbeta, hùrgeilla o zìdilla. In altri casi invece l’integra-zione prosodica è avvenuta, e dunque troviamo vouillètta, che rispetto all’issimese wélljutu integra il termine walser nel pa-tois con trasposizione di suffisso e conseguente spostamento dell’accento sulla penultima sillaba.

Il patois di Gaby (AO) e quel che resta della par-lata del borgo di Niel sono oggetto negli ultimi anni di un interesse linguistico sempre maggio-re, principalmente legato all’iniziativa cittadina della redazione di un dizionario dialettale. Anche

se il lavoro vero e proprio sul dialetto inizia ora, il patois di Gaby è già stato oggetto in passato di indagini linguistiche, soprattutto a latere di studi condotti sulle parlate walser della Valle del Lys. Tra questi 1, menzionano il patois di Gaby Zinsli (1968) e, soprattutto, Zürrer (2009), sottolineando – come già aveva fatto anche Christillin (1897) (citato da Zürrer) – come il patois di Gaby risulti essere una parlata romanza che pure presenta residui alemannici nella sua stratificazione lessicale, certamente dovuti alla convivenza sullo stesso territorio delle due popolazioni (alemannica e romanza) attestata fino ai primi anni del 1900.Gaby e Niel, ricordiamo, nascono come borghi del comune unito di Issime-Gaby, territorio interamente romanzo prima dell’arrivo dei walser. L’odierno centro issimese venne popo-lato nel corso del XV-XVI sec. dalle popolazioni walser prima attestate ad alta quota nei valloni laterali di San Grato e Stolen o di Bourrines (la popolazione romanza si trasferì nel borgo di Gaby), diventando a tutti gli effetti un centro multilingue (gli alemanni parlavano anche francoprovenzale); Gaby in-vece divenne un borgo abitato da entrambe le comunità, che però vivevano fianco a fianco nel paese in una situazione di bilinguismo, mentre nei borghi di Niel e Gruba nel vallone la-terale omonimo (così come nella frazione di Pont Trentaz) era-no stanziati solo gruppi alemannici. Questa doppia situazione di convivenza linguistica andò avanti fino ai primi del 1900, quando gli abitanti d’alta quota si trasferirono in paese abban-donando gradualmente la loro parlata alemannica. Nel 1952 il paese di Gaby ottenne poi l’autonomia comunale (e linguisti-ca): la popolazione di parlata germanica rimase circoscritta nel comune di Issime, e quella di parlata romanza nel neo comune di Gaby. Ma le testimonianze di queste periodo rimangono in entrambi i dialetti, attori di prestiti e contatti linguistici (Rizzi 1993).

INDAGINE LINGuIStIcA SuL LESSIco DI GAByDa alcuni elenchi lessicali presentati da Zürrer (2009), sulla base di testimonianze della storica Jolanda Stevenin, e da nuo-

Lessico di Gaby: tra derivazione romanza e alemannica

andrea Zenoni*

* Università degli Studi di Torino1 Per una panoramica bibliografica più ampia, cfr. Fazzini Giovannucci (1999 e 2002); cfr. inoltre Dal Negro (2011).2 Tesi di laurea triennale inedita in Dialettologia Romanza, dal titolo Indagine lessicografica a Gaby (AO), comunità romanza fra i walser, a.a.

2015/2016 (rel. Matteo Rivoira).

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in alcuni sostantivi, senza differenziazione specifica tra Niel o Gaby, ma semplicemente a seconda della tendenza dei parlan-ti, sempre come realizzazione di ò aperta oppure di á chiusa (entrambe esito di una più antica a), per es. grobou “canale di scolo” che in alcuni casi è sentito come groabou, magoari “magari” o lo stesso Gobi, detto talvolta Goabi. Frequente è anche il dittongo [ˈou], un es. còouser “cucire”, come esito della vocale chiusa [u]; si veda anche òoula “pentola per la polenta” e pòousa “polvere”. In questo caso è facile stabilire il parallelo con l’analogo dittongo Issimese (ma non con quello gressonaro) che costituisce l’esito di û del medio alto tedesco (Iss. pour “contadino”, bouch “pancia”, ecc.). Per quanto ri-guarda, infine, il dittongo [ˈau], si consideri come es. craouma “panna”; possiamo intendere che si tratti di un’evoluzione di a (< gall. crama), rimane invece più difficile stabilire il parallelo con le varietà walser (nell’issimese, abbiamo aug “occhio” e strau “paglia”).Sono riscontrabili, inoltre, elementi walser sul piano della mor-fologia. Nel corso della ricerca infatti sono state registrate una serie di forme verbali (v. oltre) di origine walser e integrate nel patois tramite una terminazione verbale specifica in -ou. Le coniugazioni di Gressoney (in -o, -u) e Issime (-un, -en), esiti delle antiche classi dei verbi forti e deboli dell’alemannico superiore, sono infatti passate attraverso un piccolo gruppo di verbi anche nella parlata di Gaby, dando luogo a una classe nominale in /-u/. Alcuni di questi verbi sono per es. scheissou “defecare”, tsalou “pagare”, schéingou “zoppicare”, hippou “rubare”. Si tratta generalmente di prestiti non del tutto inte-grati nel patois, poiché, anche se adattati alla fonetica di Gaby sono comunque esiti di formazioni verbali walser che ne porta-no il marchio morfologico.Nella maggior parte dei casi queste forme verbali sono usate prevalentemente come sostantivi e sono perlopiù in disuso o ricordate da pochi. Occasionalmente possono essere coniugati alla 1° o 3° persona sing. (usata in senso impers.): per es. el botsia “lampeggia”, relativamente al tempo atmosferico. Alcu-ni esempi: y è eun poc de brentou “c’è del bruciato”, l’è egrou “è difficile/ richiede sforzo”, recou “piangere” oppure “pianto di un animale” ecc. Dunque potremmo dire che, più che di un vero e proprio gruppo di verbi, si tratta forse di una nuova clas-se di sostantivi esiti di una nominalizzazione di verbi derivati dal walser, che in alcuni (pochi) casi vengono ancora coniu-gati. L’analisi degli stessi è ed è stata particolarmente difficile proprio perché la maggior parte delle volte i parlanti non rico-noscono più tali forme verbali, ormai utilizzate maggiormente come sostantivi o comunque con funzione nominale.Oltre alla terminazione verbale, un altro indicatore del prestito di questi verbi/sostantivi è di nuovo l’accento ritratto del walser al quale abbiamo già fatto cenno. Se nelle forme verbali tipiche del dialetto di Gaby, in -òr (coniugazione più diffusa), -er, -ir, l’accento è sull’ultima sillaba (come per es. lavòr, fòr, prejòr “parlare”, mindjòr “mangiare”, mourér “morire”, ér “andare”), nei verbi presi in prestito dall’alemanno l’accento è sempre ri-tratto sulla prima. Questo tratto prosodico specifico acquisito dal walser è ancora più evidente quando coesistono nel patois di Gaby sia i verbi derivati dal walser sia gli equivalenti ro-manzi che si sono formati successivamente sulla base dei pri-mi (lessotipi alemannici): per es. brettòr derivato da brèttou, o schmaltsòr da schmòltsou e via dicendo. Si tratta potremmo

Un altro aspetto relativo all’evoluzione o, viceversa, alla con-servazione di tratti fonetici dei prestiti alemannici, riguarda la presenza nel patois di Gaby, e maggiormente la varietà di Niel, di una serie di dittonghi atipici per una parlata francoproven-zale, condivisi invece dal walser. Il confronto più immediato è con il töitschu di Issime: esso presenta oltre ai dittonghi de-rivanti dal germanico (ai, au, oei) altri derivanti dalle vocali lunghe del medio alto tedesco oa, ua, ie, ei, ou, öi, üe. Molti di questi dittonghi sono presenti anche a Gaby [ˈoa], [ˈua], [ˈou] e [ˈau], e spesso sono semplicemente tendenze di maggiore aper-tura o chiusura di vocali o dittonghi stessi.Un esempio sono alcuni verbi nella variante del dialetto parla-to a Niel: brettòar “impunturare” per esempio invece che bret-tòr, o anche boutounòar “abbottonare”: in questo caso l’esito -òr che troviamo normalmente a Gaby, derivante da una vela-rizzazione della a latina del suff. -are dei verbi della prima co-niugazione, è sostituito da -òar che corrisponde al trattamento di a (derivante da ā del medio alto tedesco, ma non solo) nel-le varietà di Issime e Gressoney (schoaf “pecora”, oalt “vec-chio”, goa “andare” ecc.). Tale dittongazione si trova anche

Archivio G. Cavalli

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bio” e tretzen, trotzen “sfidare”. Il termine è conosciuto in tutta l’area svizzera e austriaca (IDIOTIKON XIV: 1657). Utilizza-to a Gaby nelle espressioni quali l’è tacoi l’ardzò, per intendere un bambino che si lamenta.

arnetta [aʁˈnɛtːa]n.f. polentina molle, di segaleIl termine è lo stesso tra Gaby e Niel, e anche a Issime e Gres-soney, dove troviamo rispettivamente hannetu, hannetò. Sem-bra essere riconducibile anticamente ad un germ. *ahaz da ie. *akos con il significato “paglia, grano”, con l’aggiunta poi nel walser del suff. diminutivo -etu/-etò, e a Niel e Gaby -etta.

artsèffa, artsaffi [arˈtsɛfːa], [arˈtsafːi]n.f. pigna del pino cimbro (cirmolo)Il lessotipo è lo stesso di Issime oarzapf/ oarfaz e Gressoney oarbòzaf, e anche di Niel artsaffe. Ci troviamo in tutti i casi probabilmente di fronte ad un composto del tipo “pigna del pino”. Il primo termine è da confrontarsi con *arua “pinus cembra” poi arbe, arve e il suo diminutivo *arulla, da cui deri-va probabilmente anche l’indicazione per la pigna stessa. Il les-sotipo è conosciuto oggi generalmente nello svizzero tedesco (arve), ma anche in Romanìa (arvele) (FEW I: 150) e in area romanza (in Francia arole, arve, anche se è più comune il ter-mine pin cembro). La testa del composto sembra invece deri-vare dal ted. Zapfen “pigna”, aat. zapfo, mat. Zapfe (KLUGE). Si veda lo svizz. Arvenzapfen o anche Ar-zapfen (IDIOTIKON I: 421), “pigna del cimbro”.

balcòn [balkˈɔŋ]n.m. persianaA Gressoney balke, Issime balkunh. Da afranc. *balke “trave” aat. palcho, balko (DWB I: 1089), mat. balke (MHW I: 79), ted. Balken; il termine è penetrato anche in ambito romanzo ma con il significato di “balcone, terrazzo”; col valore di “persia-na” è dunque da considerarsi prestito dall’alemannico .

berquia, -i [ˈbɛʁkja]n.f. tronco di legnoSi tratta più precisamente di un segmento cilindrico di una por-zione di tronco, tagliato in verticale, lungo 60 cm ca. È una parola di origine alemannica entrata in uso anche nella lingua francese, con diversi significati (tra cui “rompere”); si fa risali-re al mat. brechen da cui poi è passato tramite afr. breka in area romanza (FEW XV/I: 261-262). Anche a Niel il termine noto è berquia, -e, così come a Issime beertju.

bitsi [ˈbɪtsi]agg. poco (Niel)Usato nella locuzione eun bitsi “un poco” principalmente a Niel, (Issime an bitz, Gressoney es bétzié; dal ted. Bisschen, lett. dim. di “morso”). A Gaby, anche se ricordato, è ormai sop-piantato dal romanzo eun póc.

dire di una seconda fase di prestito e di adeguamento, in cui la morfologia derivata dal walser tende ad integrarsi sempre di più al fprv. di Gaby. Ad ogni modo, e per via di questa ten-denza, in questo momento nella parlata di Gaby coesistono sia verbi di matrice e terminazione alemannica (con le caratteristi-che dette sopra), che i corrispettivi di matrice alemannica ma terminazione romanza.Questo fenomeno di prestito “morfologico” dal walser però, sebbene circoscritto, non si è fermato qui, anzi è risultato an-cora più produttivo. È infatti emerso nelle ricerche un piccolo gruppo di verbi/sostantivi che definiremmo “ibridi”, tra quel-li di terminazione alemannica -ou, che presentano una base lessicale non walser bensì di origine romanza (cegou/ kegou “cacare”, lappou “bere, lappare del cane”, ticcou “litigare”). In questi verbi si possono appunto distinguere due parti, una lessicale romanza e una morfologica alemannica che rivelano il loro carattere “ibrido”: pare che il verbo indigeno fprv. abbia perso la propria desinenza acquisendo un morfema di forma-zione walser. Non dobbiamo escludere però che la modifica di alcuni di questi verbi (di origine romanza) sia avvenuta nella parlata di Issime, ricca di prestiti romanzi, per poi “rientrare” nel patois di Gaby già modificati, con terminazione “walser”.Anche se il fenomeno non risulta eccessivamente diffuso, e ad-dirittura tali formazioni verbali (o sostantivi) risultano ormai essere in disuso e sostituiti dalle equivalenti forme romanze, è evidente a qual punto si sia spinto il contatto tra il walser e il patois di Gaby (prestiti morfologici sono indicativi di uno stadio non indifferente di contatto linguistico).A livello di morfologia, benché la tendenza di questi verbi in -ou [u] sia ormai quella di adattarsi sempre di più alle forme romanze dei verbi o di acquisire la funzione di sostantivo (che non li rende più riconoscibili), sono da considerarsi comunque e a tutti gli effetti residui verbali alemannici in una parlata ro-manza.

pARoLE DI oRIGINE ALEMANNIcA NEL pAtoIS DI GABy 3

ahcrella/ ahcrèlou, -i [aχˈkʀɛlːa]/ [aχˈkʀɛlu]n.f./ m. straccio, pannoLa forma si ritrova uguale ad Issime: chrelle, come anche a Niel: ahcrella, -e. Potrebbe trattarsi forse di una derivazione dal ted. Kralle/ Gralle/ Krelle, verbo krallen, derivato proba-bilmente da kratzen con il significato (anche nel tedesco mo-derno) di “graffiare, raschiare” (KLUGE). Lo stesso lessotipo si ritrova anche nello svizz. chralle(n), da chräuwel “unghie” (IDIOTIKON III: 807).

ardzò [arˈdzɔ]n.m. capriccioStesso lessotipo di Gressoney, tratza, da una derivazione mat. tratz, trutz, trotz, si veda anche il ted. mod. trotzig agg. “capar-

3 Le forme issimesi e gressonare citate sono tratte dai dizionari D’Eischemtöitschu. Vocabolario italiano-issimese, Aosta: Musumeci; Greschò-neytitsch. Vocabolario italiano-titsch, Aosta: Musumeci. Le forme francoprovenzali dei comuni limitrofi da Lo GnaLèi = Sportello Linguistico della Regione Valle d’Aosta, Glossario [nella versione on line: http://www.patoisvda.org/pa/index.cfm/moteur-de-retsertse.html]

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zen, bleckezzen, poi blecken con il significato di “lampeggiare” (KLUGE).

brentou [ˈbʀɛntu]v. bruciareA Gaby il termine si usa in particolare per indicare una mine-stra (o una pietanza) che cuoce troppo e si attacca sul fondo della pentola: es. y è eun poc de brentou. cioè “c’è del brucia-to”, usato con valore di sostantivo. Da confrontarsi ad Issime con il verbo intr. brentun, brentut “bruciacchiare di cibi” e a Gressoney con (an)bräntò, (an)bräntòt, ted. mod. brennen.

brettou [ˈbʀɛtːu]v. impunturare le suole delle pantofoleVerbo specifico utilizzato per la fabbricazione dei zoc o sock (sokha, in töitschu). A Gaby rimane il prestito tedesco bret-tou con terminazione verbale specifica, ma viene riconosciuto anche l’adattamento fprv. brettòr (come a Niel, bréttoar). A Issime bretten, Gressoney brätte o brätten.

breusma [ˈbʀøsma]n.f. briciolaIl lessotipo si ritrova ugualmente a Gressoney e Issime, dove abbiamo rispettivamente bròsmò e brüasmu (ted. mod. Bro-

blis [ˈblisː]n.m. grosso massoLa derivazione non è chiara, forse legato ad un germ. *blada, mat. blat con il significato di “foglia, foglio” (ted. mod. Blatt) da una rad. *bʰel, da cui blühen e blähen con i significati di “soffiare” (KLUGE 128-129). La base germanica non ha un si-gnificato chiaro: dovrebbe rimandare a qualcosa di leggero, ma a tale significato si affianca anche un senso di spessore, gros-sezza (si veda blass, FEW XV/I: 151), per cui a Gaby l’agg. potrebbe aver finito per indicare un oggetto pesante sul punto di cadere e rotolare via. Si dice per es. l’en gros blis riferendosi ad un enorme pietra di quelle che si spostavano per le frane di alta montagna. Ad Issime troviamo forse riconducibili alla medesima base il termine bloatru “frana” (mat. blātere, sempre derivante da blähen), bloas “soffio”, bloasen “soffiare”; anche a Gressoney bloase “soffiare”.

botziou/ botsiou [ˈbotsju]v. lampeggiare, balenare di lampi, minacciare di piovere (tem-po incerto)Conosciuta solo la forma all’infinito (usata per lo più come sostantivo) botziou o l’impersonale el botsia. Dello stesso les-sotipo, a Gressoney blétzkò e blétz “fulmine”, Issime blljitzkun, da cui il sost. blljitzku. Deriva da un mat. bliczen, aat. bleckaz-

Gaby (foto R. Alessandrini) Gaby (foto R. Alessandrini)

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cus [ˈkys]n.f. bufera di neve, tormentaTermine diffuso nello svizzero tedesco, deverbale da chösle(n). Tra i significati originari ritroviamo l’uso impers. del tempo “piovere e nevicare al tempo stesso” (IDIOTIKON III: 525). A Gressoney kòcks, e Issime küsch. A Gaby si intende più che altro un vento molto forte che può trasportare la neve (detta in questo caso cuséira “neve trasportata” der. di cus).

egrou [ˈegʀu]v. sforzare, es. un meccanismo (intr.); trovare difficile (fig.).Usato all’infinito o sostantivizzato, per es. l’è egrou “è duro, difficile”. È probabile che il termine sia collegato con la sfera semantica della “forza”. Ad Issime troviamo dello stesso lesso-tipo eggurun, keggurut “tribolare, affaticarsi“.

foulquie [ˈfulkjɛ]n.m. cuscinetto per gli spilli (Niel)Nonostante a Gaby il tipo lessicale predominante sia il roman-zo cusseun (cussunet de lli euylli), a Niel è ancora attestato foulquie, tipo tedesco che ritroviamo a Gressoney fólch e Is-sime fulk.

gan [ˈgɑŋ]n.m. entrata della stallaPare che il termine si conosca ancora sia a Gaby che a Niel. Risale probabilmente ad un mat gān poi anche gēn, aat. gān – gām in ted. moderno Gang, connesso con il verbo gehen “an-dare” (IDIOTIKON II: 1-7).

golda [ˈgɔlda]n.f. giglio selvatico, giglio di San GiovanniIl tipo tedesco è gold, da un germ. *gulþa- “oro” (KLUGE). Il significato nel termine gabese è da collegarsi con il colore del fiore stesso, un giallo-arancio punteggiato di sfumature nere. Si ritrova lo stesso lessotipo a Issime goldu e Gressoney nei composti goldbliemò o goldmejò.

grobou [ˈgʀobu]n.m. canale di scolo per la raccolta del letame nelle stalleRitroviamo lo stesso lessotipo a Issime e Gressoney groabe, e a Niel groabo. La derivazione: da mat. gruobe aat. gruoba, da un germ. *grōbō “fossato, miniera, cava” e da *grab-a da cui deriva poi anche il verbo graben “scavare” e il ted. mod. Grab “tomba” (KLUGE).

gouteraife/ goutereifa [gutəˈʁajfə]/ [gutəˈʁɛjfa]n.f. croco, zafferano alpinoIl nome è tedesco, anche se la derivazione poco chiara. A Issime e Gressoney troviamo rispettivamente rutturoeif e ruetòreif. Sia nei comuni walser che a Gaby si tratta di un composto la cui testa raife/reifa potrebbe forse derivare dal ted. reif, mat. rīf(e), a sua volta da un germ. *reipja con il significato di “maturo”. A Gaby il termine che accompagna (goute) potrebbe essere forse collegato al ted. gut “buono”, definendo dunque il fiore come “ben maturo” (KLUGE), “sbocciato”; stesso ragionamento an-che a Niel dove si riscontra lo stesso tipo goutéraife. Non si spiega inoltre se Gaby e Niel presentino una differenziazione autonoma nel lemma rispetto ai due composti walser (alquanto

same). Il termine oggi a Gaby risulta essere ormai poco co-nosciuto poiché al suo posto è penetrato il romanzo friseilla.

brom/ bromi [ˈbʀom]/ [ˈbʀomi]n.m. strato o spessore di aghi di pino sul terrenoIl termine non è di chiara derivazione, potrebbe trattarsi di un prestito dal linguaggio botanico bromus secalinus (dal gr. bro-mos) come “avena” o “erbaccia”, tuttavia il significato non è del tutto accomunabile al cosiddetto “bromo dei prati”, poiché non si tratta di un erba/graminacea ma di un vero e proprio strato di aghi di pino secchi che ricopre il terreno come una coperta. Si ritrova uguale a Issime e Gressoney bromm.Da confrontarsi con lo svizz. bārm, parola dai molteplici si-gnificati tra cui “ciglio, bordo (di superfici piane, di oggetti) ruvido, cima” ma anche “pelliccia, copertura”, e più precisa-mente brāme(n) “gemme, boccioli di fiori e piante da frutto” o “rami” degli stessi, raccolti o caduti per cause naturali (vento, tempesta ecc) (IDIOTIKON V: 597-602; 607).

brorquiqui/ brorquii/ brorquiti [ˈbʀoʁkiki]/ [ˈbʀoʁkiː]/ [ˈbʀoʁkiti]n.m. zuppa di pane e latte; polenta e latticini (a pezzetti)Detta lou brorquii o brorquiqui (dim.) e a volte anche lou brourcor (nominalizzazione del verbo): si trattava di una po-lenta o zuppa a base di pane raffermo, latte e spesso anche bro-do e formaggi, un piatto povero composto da diversi avanzi di cibo (il termine a volte è usato per riferirsi anche alla scodella dove veniva mangiata tale pietanza). Stesso lessotipo anche ad Issime brochetu e il suo dim. brochitji. Prestito dal tedesco, con i significati di “sbollentare, fare in brodo, cuocere” (mat. brüejen), ma anche e soprattutto da mat. brocken/ bröckeln, “spezzettare pane od altro e gettarlo nella zuppa” (da cui anche ted. in Brocken zerfallen) (KLUGE 151).

brourcòr [bʀuʁˈkɔʁ]v. mangiare polenta e latticini

byir/ bîr [ˈbjiʁ]/ [ˈbiːʁ]n.m. contenitore per il bucato (la biò)Il termine byir deriva dallo svizz. con il significato di “secchio per l’acqua del bucato”, “contenitore/ cesto in legno”, “cuc-chiaio in legno per togliere il formaggio dalla caldaia” (FEW XV/I: 93; IDIOTIKON IV, 1454). A Gaby era usato come ce-sto dove mettere in ammollo vestiti e lenzuola sporchi, insieme alla cenere (come la guepsa).

cegou/ kegou [ˈkɛgu]v. cacare, defecareDal lat. cacare. Da una base romanza, presenta terminazione verbale walser in -ou.

choousi/ crouzi [ˈʃuːsi]/ [kruzi]n.m. boccale di vetro, con coperchioRitroviamo lo stesso lessotipo sia a Gressoney che a Issime. Si tratta forse di una derivazione dal ted. Krug “osteria” ma anche “recipiente, vaso, boccale”, mat. kruoc aat. kruog (KLUGE 542): chrusò a Gressoney, Issime chlousi. Sempre dalla stessa derivazione, a Gaby troviamo anche un’altra variante crouzi (più vicina forse al gressonaro), mentre a Niel hoousie.

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A Gressoney chòrb “gerla”, chorbetò “contenuto, unità di mi-sura”; a Issime chorbetu (stesso significato). A Gaby la velare iniziale è caduta ed è stata sostituita da una fricativa o un’aspi-razione, hòrbeta. Il tipo lessicale deriva dallo svizz. chorbe(n): chorbete(n), “gerla, cesto pieno” (IDIOTIKON III: 455), da confrontarsi con il ted. Korb a sua volta dal lat. corbis (KLU-GE).

hurgeilla/ hurgilla [ˈhuʁgɛʎa]/ [ˈhuʁgɪʎa]n.f. tosse, catarroSi tratta di un prestito dai vicini walser, dai verbi hirgele “re-spirare malamente, gorgogliando” (Gressoney) e hürgelljen “tossicchiare” (Issime). Da ricondurre allo svizz. churre(n) “brontolare” ma anche “respirare a fatica, rantolare, essere ma-lato”, da cui il sostantivo churri “tosse, catarro”, agg. churrig (IDIOTIKON III: 449).

lappou [ˈlapːu]v. lappareSi tratta di un termine dell’ag. lapian poi passato in area ro-manza successivamente con il significato di “mangiare rumo-rosamente” (FEW V: 175). Il lessotipo del verbo è perciò forse da considerarsi romanzo, sebbene qui con terminazione walser. È presente anche ad Issime, lappun, da cui deriva.

lèipita/ làipeta [ˈlɛjpita]/ [ˈlajpeta]n.f. resti di cibo lasciati nel piatto, avanzoSi tratta di un termine di derivazione incerta. Forse legato al gr. *lobós “straccio” come ted. Lappen, ma anche al lat. Lappare, inteso “leccare, mangiare rumorosamente”, verbo onomatopei-co; in ambito germanico possiamo risalire alle forme mat. lap-pe aat. lappo/lappa, forse successivamente legate all’idea del “ripulire con la lingua” quindi “leccare”. IDIOTIKON riporta lo svizz. lāpe(n), dim. lāpele(n) 1) lavorare con le dita, ripulire grossolanamente 2) lavorare lentamente, mangiare senza appe-tito, non riuscire a finire il cibo per nausea; da qui, i “resti che si tirano su con le dita”, cioè che non si mangiano, lāpete(n) (IDIOTIKON III: 1351). Il termine è lo stesso di Issime e Gres-soney (rispettivamente leipetu e leiptschetò).

leirou [ˈlejʀu]v. rubareSi tratta di una derivazione romanza, dal lat. Latro “ladro”, aprov. laironar, mbfr. larron (FEW V: 201). La forma verbale però è quella dei prestiti tedeschi (terminazione in -ou).

leuschta/ leuchta [ˈlœʃta]n.f. sacca a tracollaA Gressoney “lenzuolo” generico si dice léntuech (ted. Lein-tuch), e a Issime lljireche. A Gaby, il termine più diffuso è l’e-quivalente romanzo lou lentseul/lentsoulèt (lat. lĭnteŏlum). Nel caso della leuchta però si tratta di un tipo di lenzuolo spe-cifico: una sacca di tela usata esclusivamente dalle donne per raccogliere l’erba fresca sui dirupi (un pezzo di stoffa rettan-golare legata con una corda). Ad Issime si dice lljüeschetu. Il lessotipo è lo stesso e va confrontato etimologicamente con il Vallese lisch, liesch “piccoli ciuffi di erba selvatica che cresco-no su terreni acquitrinosi, erba raccolta e data da mangiare a cavalli e pecore”. Aat. lisca, mat. liesche, poi mutato nel ted.

difficile, soprattutto considerando che il composto rimane ale-mannico in ogni caso) o una mutazione consonantica da r < g (comunque improbabile) avvenuta nel passaggio dai walser ai comuni vicini fprv. o in tempi più remoti.

grigou [ˈgʀigu]v. bisticciare; darsi da fare per il proprio tornacontoA Issime chrigen e Gressoney chriege, con i significati di “combattere, battagliare, contendersi qualcosa”. Per la deriva-zione si veda il ted. kriegen e lo svizz. chriege(n) (FEW XVI: 387; IDIOTIKON III: 797).

guepsa [ˈgɛpsa]n.f. tinozzaIl lessotipo si ritrova uguale nei comuni walser ossolani ma con il significato di “conca per il latte”. Il termine deriva dall’aat. gebiza < gebita, lat. *gabăta (REW III: 625; IDIO-TIKON II: 393 Gēpse – Gepsli). A Gaby il termine guepsa indica una “tinozza” generica, utilizzata frequentemente per il bucato insieme a lou byir. La parola è presente anche a Issime gébsu e Gressoney gebsò, con i significati però di “tinozza, mastello”.

gugui [ˈgygi]n.m. insetto, lucciola; piccola luceParola di origine alemannica, mat. Gueg (goug) = Gachel, Ga-ckel, Baumwanze = Gauch con il significato di “cimice, in-setto” (IDIOTIKON II: 161). A Gressoney troviamo guege la “coccinella” e così pure ad Issime gügi “insetto, coccinella”.A Gaby il termine è generalmente riconosciuto come “luccio-la”, e per questo motivo il termine stesso veniva usato anche per riferirsi ad una “luce” piccola e fioca.

hippou [ˈhipːu]v. rubareA Gressoney e Issime prevalgono altri lessotipi tedeschi, rispet-tivamente hludrò, stäle, gstolet e stellen, gstolle, chrümpen. In questo caso si tratta di un verbo legato allo svizz. kippe(n) “rubare, portare via qualcosa di nascosto” prestito dal lat. cLa-pere. Alla velare iniziale dello svizz. corrisponde consonante fricativa nel dialetto di Gaby.

hotsou [ˈhotsu]v. vomitare, buttar fuori (conato)Lo troviamo nella forma svizz. chotze(n) con il significato di “vomitare, essere nauseati, sputare” (IDIOTIKON III: 599). La velare dello svizz. è passata nel dialetto walser mutandosi in fricativa. A Gressoney con lo stesso lessotipo troviamo chotzò, kotzòt, Issime chotzun.

holt [ˈɦolt]n.m. scomparto in cui è divisa una cassapanca; divisore in le-gnoRitroviamo lo stesso termine a Issime khoalt, con il significato di scomparto. A Gaby, e anche a Niel hoalt, il significato è in-vece leggermente diverso. Si intende infatti una tavola di legno usata come divisore in una cassapanca.

hòrbeta/ horbètta [ˈɦɔʁbeta]/ [ɦɔʁˈbɛtta]n.f. quantità, carico di una gerla/ cesto

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parlato risch. Si tratta dei cosiddetti “ciuffi di palude” (IDIO-TIKON III: 1459).

mèch [ˈmɛʃ]n.m. colica dei neonati

mèchou [ˈmɛʃu]v. frignare, piangere; il piangere dei neonati ad ore regolariDallo svizz. mäschel, m. meissel, f. măschi, che indica il nome di una malattia definita come “colica, asma” (IDIOTIKON IV: 502-503). Troviamo a Gaby sia il termine lou mèch, che il ver-bo mèchou. A Issime meschal, e Gressoney mäschle.

meurlou/ meuroul [ˈmœʁlu]/ [ˈməʁul]n.m. bastone della polentaA Gressoney pólentómeral, Issime puluntumörrul. Il lessotipo di Gaby è lo stesso della testa dei due composti walser. Deri-va probabilmente dal mat. mërn, mëren con il significato di umrühen e mischen, “mescolare” (MHD I: 2115).

nescht [ˈneʃʈ]n.m. covo, giaciglioTroviamo il termine anche ad Issime e Gressoney, rispetti-vamente nescht, näscht (ted. Nest). Dal mat. nest aat. nest, a sua volta da una rad. germ. *nista, ig. *nizdo da cui lat. nīdus (KLUGE).

recou [ˈʀɛku]v. piangere, gridare, lamento disperato (di animale)Gressoney reeku - réekò (ted. kreischen) “urlare, gridare (di ghiandaia)”, Issime reekun “belare”. Si tratta di un verbo che denota il lamento di un animale. Il lessotipo potrebbe essere confrontato con lo svizz. äken “lamentarsi, gridare” tramite

prefisso er- (IDIOTIKON I: 163), oppure con rüwe(n) “senti-re, provare dolore” (IDIOTIKON VI: 1887). Usato anche con valore di sostantivo, anche se a Gaby esiste anche réqueta, a Issime reeketu.

richca [ˈʀiʃka]n.f. raganella o battola, strumento in legnoSi usava durante i Tenèbri, in settimana santa, per simulare le grida della folla di fronte a Pilato nella passione di Gesù. Il termine potrebbe forse risalire a rasche(n) con i significati di “rumore” (ted. Geräusch), “scrosciare, frusciare”; più verosi-milmente dallo svizz. ted. ritsch “grido scrosciante, sonoro, as-sordante”, nelle forme ratsch, rätsch, der. ritsche(n): tra i signi-ficati che riporta IDIOTIKON (VI: 1853), proprio “raganella”.

rièp [ʀiˈɛp]n.m. bevanda a base di vino con zucchero e latteSi tratta di un “intruglio”, una bevanda che veniva data spesso ai bambini come ricostituente. Quando si mungeva, si teneva-no da parte le filate del latte più dense e ricche (dette la bou-rra), e le si mescolavano con un cucchiaio di zucchero e con del vino. Nel lessico tedesco troviamo, vicino al nostro signi-ficato, aat. rāt “rimedio, scorta, provvista” (FEW XVI: 700). Inoltre, l’IDIOTIKON riporta il termine Rappis – Rappis(s)er, (der. di rapp, da un tardo mat. rappe e trappe) con il signifi-cato “vino direttamente spillato dai grappoli d’uva”, “mosto” o ancora “bevanda ricavata dai grappoli freschi d’uva, molto dolce” (IDIOTIKON VI: 1183), con aggiunta magari di altri ingredienti: in questo caso, zucchero, filate del latte.

schass [ˈʃasː]n.f. diarreaStesso lessotipo a Issime schéissu, da confrontarsi con i signifi-

Gaby, Santuario di Vouri (foto R. Alessandrini)

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schtega/ štega [ˈʃtɛga]n.f. piccola scala in legnoDall’aat. stīga mat. stige (KLUGE 879). Lo stesso lessotipo a Gressoney stägò, e Issime steegu.

schtuba/ štuba [ˈʃtuba]n.f. camera in legnoIl termine è noto sia a Issime (stubbu, camera dello stadel o “soggiorno”) che a Gressoney (stòbò, “camera”), stesso tipo del ted. Stube, parola diffusa soprattutto in area austriaca con il significato di “luogo dove passare il tempo e stare al caldo in inverno” (IDIOTIKON X 1173). A Gaby il termine è noto ma non è così chiara la natura dell’oggetto. Il più delle volte dai parlanti è stata definita schtuba una stanza foderata in legno utilizzata generalmente per la conservazione del cibo, l’essic-cazione del fieno o eventualmente anche per riporre la legna. Un luogo asciutto, in ogni caso isolato. Altri dicono che può trattarsi anche di una stanza (stesso tipo e utilizzo) aperta e arieggiata, oppure al contrario di un balcone chiuso. Si può in-tendere con il termine anche il locale principale del tipico sta-del di montagna (quindi forse per estensione, lo stadel stesso).Nel dialetto walser di Issime con il termine stubbu si indica, oltre ad una stanza in legno nello stadel, e a quella stanzetta in legno sul balcone coperto nella parte anteriore degli stadel, anche una costruzione in legno utilizzata come granaio e/o per conservare il fieno. Ne rimane un esemplare nel villaggio di Hubal, uno appunto all’alpeggio di Tourrison sup., qualche an-ziano ne ricordava uno nei pressi del villaggio di Chröiz per sa-lire verso Ruassi. Questa accezione del significato del vocabolo era conosciuta da pochissimi anziani. È comunque rimasto nel-la toponomastica Stubbu; Stubbun acher: un campetto di patate vicino ad un piccolo rascard ora crollato, nel villaggio di Écku nel vallone di San Grato; Stubbi per la presenza di alcuni pic-coli rascard oggi scomparsi ma di cui rimangono i basamenti; Joakisch Stubbi piccolo rascard abbattuto nel 1944 per costru-irvi una baita d’alpeggio. A Gaby si usava il termine schtu-ba per indicare un granaio, oggi in disuso (fonte M. Musso).

ticcou [ˈtikːu]v. litigareDerivazione romanza (FEW XIII: 326), tra cui si veda npr. tico “disputa”, terminazione walser. Il lessotipo non è presente a Issime e Gressoney.

toquyi rouss [ˈtokjiˌʀusː]/ [ˈtokjiˌʀousː]n.m. diavoletto dispettoso, lett. “diavoletto rosso”La derivazione è la stessa di tohca “bambola”, da mat. toc-ke. Si tratta di una “sagoma, personaggio, figura”, uno piccolo spiritello dalle sembianze umane, un folletto. A Issime e Gres-soney si chiama rispettivamente tockhji e tockié. L’aggettivo rouss “rosso” era associato forse per il colore dei vestiti o per le guance paonazze, arrossate, o addirittura in relazione alla sua “cattiveria”.

tohca/ torca [ˈtoʁka]n.f. bambola di pezza o stracciIssime tochu e Grossoney tochò. Ci sono numerosi significati e derivazioni legati al lessotipo svizz. Tra questi l’IDIOTIKON (XII: 1153) riporta “figura, personaggio, bambola (giocattolo), marionetta”; da aat. tocha, tocch(h)a, mat. tocke.

cati di schasse(n) “mandare, cacciare via” e scheiss “agitazione di stomaco” (IDIOTIKON VIII: 1322-1323).

scheissou [ˈʃɛjsːu]v. cacare, defecareAnche a Issime e Gressoney, rispettivamente schéissen e schis-se (ted. scheißen).

schènga, -gui [ˈʃɛŋga]n.f. gamba, stinco

schéingou [ˈʃejŋgu]v. camminare (male)Il termine schènga potrebbe derivare da un incrocio di mat. schin(e), rad. germ. *skinō, con il significato di “stecca” da cui il ted. Schienbein “osso della tibia”, e una derivazione dal ted schiegen “camminare male, zoppicando, storto” (KLUGE). Ritroviamo lo stesso lessotipo a Issime e Gressoney, schingu e schéngò “tibia”. Il termine generico per gamba registrato a Gaby invece è il romanzo tchamba.

schmoltsi [ˈʃmɔltsi]n.m.p. grasso intorno alle budella

schmoltsou [ˈʃmɔltsu]v. pulire le budella del maialeIl lessotipo è lo stesso di Issime e Gressoney schmoalz, ted. schmalz “strutto, grasso della carne”; da mat. smazl, da cui poi il v. smelzen “fondere, sciogliere” (IDIOTIKON IX: 937). Il verbo è conosciuto sia nella forma alemannica schmòltsou (ac-cento ritratto) che nel relativo fprv. schmaltsòr.

schop/ chop [ˈʃɔp]n.m. boccale per la birraPrestito dal tedesco schoppen, diffuso soprattutto nella zona dell’Alsazia (schoppe), passato poi in uso anche in Francia con il significato di “grande bicchiere da birra” (FEW XVII: 54). A Gressoney schopp e Issime chopf.

schós/ schóos [ˈʃoːs]n.m. gremboIl termine è legato al tipo ted. Schoß, “grembo, seno, falda”, aat. scôsz, scôszo, scôsza, mat. schôsz (KLUGE). Nei comuni walser di Formazza, Macugnaga e Bosco Gurin viene utilizza-to nel significato “grembiule”, mentre come “grembo” a Gres-soney e Issime (schuass), a Niel (schouas, presente ancora il dittongo tedesco) e infine anche a Gaby.

schoùmitti [ˈʃumitːi]n.m.p. brossa, prodotto caseario derivato dal siero del latteViene ricavato insieme alla ricotta portando ad ebollizione il siero avanzato dalla produzione del formaggio; sono le ultime proteine del latte che affiorano in superficie durante il procedi-mento, sotto forma di schiuma. Il termine potrebbe derivare dal longob. *skūm incrociato con il lat. spuma, *spumŭla, *spluma (TRECCANI), ita. schiuma, da intendersi dunque come dimi-nutivo “schiumetta”. Da confrontarsi anche con il ted. Schaum “schiuma, spuma”, aat. skūm, mat. schūm, schoum (KLUGE). A Niel schoumméte (accento non più ritratto), Issime e Gres-soney schummiti.

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socka; si tratta di un lessotipo romanzo (lat. sŏccus) presente anche in ambito tedesco: mat. soc(ke) passato dal genere ma-schile al femminile odierno (KLUGE). In questo caso è ab-bastanza probabile che il termine usato a Gaby sia di origine walser, soprattutto perché la fricativa iniziale è sorda (come in walser e nelle lingue germaniche) e non sonora come in quelle romanze, ma anche perché si tratta di una pratica artigianale di tradizione walser.

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- iDiotikon = Schweizerisches Idiotikon. Wörterbuch der schweizerdeutschen Sprache, Frauenfeld: Huber (1881-2012) [nella versione on line: https://idiotikon.ch/].

- Kluge = Kluge, Friedrich (201125 [1881]), Etymologisches Wörterbuch der deutschen Sprache, 25. Auflage, Berlin: de Gruyter.

tsalou [ˈtsalu]v. pagarePrestito dal tedesco (ted. Zahlen, “pagare, contare”), mat. zal(e)n, aat. zalōn (KLUGE), troviamo a Gressoney zalò e a Issime zallen. A Gaby usato per es. nella forma l’è tsalou? “ha pagato?”, quasi più come un participio pass. che un infinito del verbo.

veimou/ vaimou [ˈvɛjmu]/ [ˈvajmu]n.m. schiuma del latte, pellicina su liquidi o semiliquidiA Gaby si trova il termine romanzo fiourà (cfr. ita. affiorare) per intendere appunto lo strato o pellicina che si forma in parti-colare sulla superficie del latte. A Niel però è riscontrato veim, che viene ricordato ancora da alcuni gabesi nella forma veimou (forse verbo sostantivato), del tipo ted. f-äim, presente anche a Gressoney feim e Issime veim. Da mat. veim aat. feim “schiuma sottile, talvolta con impurità, sui liquidi, su latte, burro, panna” (IDIOTIKON I: 825), a sua volta da una radice *faima (KLU-GE 283; PALWaM).

vouillètta [vuˈʎɛtːa]n.f. minestrina di semolinoEra una minestrina a base di farina (di solito segale). Il termine è lo stesso di Issime wélljutu “minestrina di farina”. Si tratta forse di una derivazione da mat. wallen aat. wallan, collegata a una rad. ig. *wer- “ribollire, ondeggiare”, ted. mod. wallen (KLUGE).

vouschou [ˈvuʃu]v. pomiciare, baciarsi, abbracciarsiUsato per esempio nella formula gabese van vouschou “si ab-bracciano, vanno ad abbracciarsi”. Il lessotipo è presente an-che ad Issime e Gressoney, rispettivamente vüchten, gvücht e afiechte. Il significato delle parole in uso nel walser è un po’ di-verso, “inumidire”, derivazione da mat. viuhte poi fücht “umi-do”, da cui il v. füechten (IDIOTIKON I: 669).

zads [ˈzads]n.m. fondo del caffèIn uso anche a Gressoney dove troviamo sats, il termine è un prestito dal tedesco con il significato di “fondo, deposito” di di-verse sostanze: spesso del caffè, ma anche dell’olio e del vino. Da mat. saz, probabilmente der. da setzen e sitzen. Il termine è arrivato in parte anche nelle lingue romanze, con il signifi-cato agg. “intenso” e v. “battere, pressare” (IDIOTIKON VII: 1517 e segg; FEW XVII: 17). Si veda il piem. satì “addensare, comprimere”, probabilmente germanismo dal ted. satt “solido, duro”.

zic/ zîc [ˈzik]/ [ˈziːk]n.m. burro fusoSi tratta del burro “chiarificato”, la parte grassa del burro se-parata dalla componente dell’acqua e dalle proteine del latte. Il lessotipo è lo stesso di Gressoney gség “residuo del burro fuso”, e Issime gsig “fondo del burro fuso” e anche “fondo del caffè” (termine riportato anche da Zürrer come gsig).

zoc/ sock [ˈzok]n.m. pantofole in stoffaIl lessotipo è lo stesso di Issime sokh, sokha e Gressoney sock,

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un Güstinhsch Joseph2, un ündŝcha, wa ündŝcha ischt gsinh as söiri wéitur, un déja va Jüliji auch ischt gsinh as söiri wéi-tur van diŝchene. Séin kannhe ouf vür d’Winnacht mit da chü-ne. Zu hentsch varbrént allu diŝch ketschi, un den tag méin mamma van za Rollju ischt kannhe ambri im Gran Proa. Un z’Endrusteg hetsch ampieeme dar énkra don Vesan, un hetsch mu gseit “Vous voiez Monsieur le Curé comme le Tschachtell-jer brȗle”, un don Vesan het ra antcheede “Et bien Angeline priez, priez, si vous avez la foi votre maison ne brȗlera pas” un d’ketschu ischt blljibben noch! Però sén gsinh zwei troali, das hen aschuan kheen griffe, das ischt gsinh dra d’broasu un hen dŝchi arlljöscht.Ich don Vesan hen nji gremmursiurut gnug, wa zar Heilugu troanumu génh a chérzu un as bett vom grab.

Ischt gsinh le 24 mars ’45 (le vingt-quatre mars quarante cinq), un sén arrivurut di töitschini z’Éi-scheme un a schupputu manna sén askappurut un sén dŝchi kannhen

khoalten ouf im Tschachtelljer. Déi manna sén gsinh z’Nottrisch Luéi, z’Nottrisch Benjamin, Stoffultsch Guido, Stoffultsch Aldo, Chrischtellje Giuseppe, un Sansì1, un ischt gsinh auch Gioanin dla Mongiovetta das ischt gsinh a chnecht van Giuseppe. Un du das sén arrivurut di töitschini in d’Piatzu hentsch dŝchi gleit doa un hentsch glugut mit dam velspigal allu d’beerga das sén gsinh héi ouf. Un ouf im Tschachtelljer, malheu-reusement, hentsch gsian eis doa z’vuadruscht dan krüp, woa ischt da wéissen pillunh, un dar-noa séntsch parturut un séntsch kannhen um goan im Tschachtelljer wa hentsch gvielt da weg, invece goan im Tschachtelljer séntsch kannhen im Hubal. Wa wénn sén gsinh ouf halbe weg van im Hubal hentsch gvoan a a schisse, un hentsch gschossen vider am Tschachtelljer. Un té sua déi doa sén ell-ji askappurut dür tur da woald vider Pischu. Dan tag drouf séntsch kannhen amouf un hentsch amum kiat da weg van im Hubal un hentsch gvunnen da weg das ischt kannhen in d’Walkhu. Van in d’Walkhu hentsch treversurut alli da woald un séntsch gcheen im Tschachtelljer. D’manna sén ellji askap-purut un darnoa dür tur d’nacht séntsch gcheen amum zam hous, un té zu da Mundŝchuvetter, doa as wier dür vider Pi-schu hemmu keen a chuarb um muan arrivurun das nöit hetti keen im aug dan andre, het mu keen a chuarb in d’aksli un is arrivurut im Duarf z’Éischeme. Un zu hentsch gvoan a an geen vöir un doa ischt gsinh a schupputu ketschi, van a schup-putu lljöit ellji van Éischeme, ischt gsinh Chrischtillje Jüliji ‘Pellisier Jüliji’, Gotta Clotildi z’Loeisch, z’Loeisch Éméléji,

25 mérze 1945, d’varbrantun ketschi im TschachtelljerLe case bruciate del tschachtelljer

vittoria BuSSo Lixandrisch

1 Giovanni Busso Héntsche.2 Joseph-Jacques-Louis Busso Güstinhsch detto z’Lennha “della Lunga” (1890-1963) sposa Stella yon di Eugène e di Louise Stévenin di Gaby

> figli: Mario Busso Güstinhsch ; Agostino Busso Güstinhsch > Beppe e Sandra Busso. Güstinhsch Joseph era figlio di Augustin Busso (1848-1919) e di Anna-Marie-Fidèle Linty (1857-1931) z’Loeisch Méji detta d’Lennha “la Lunga”. La proprietà del Tschachtelljer gli prove-niva da quest’ultima z’Loeisch Méji. Erano tre sorelle figlie di Louis Linty z’Avukatsch (1822-1904) e di Christine-Marie Linty (1832-1895), discendenti di Jean-Pantaleon Linty ultimo giudice della Valle del Lys, Anna-Marie-Fidèle Linty z’Loeisch (1857-1931), Clotilde-Arcadie Linty z’Loeisch (1862-1951) che sposò Joseph-Jean Stévenin (Fiskaltsch in origine Dummene) dai quali nacquero dieci figli, sette maschi e tre femmine, e Emilie-Louise Linty z’Loeisch (1864-1935) z’Loeisch Emeleji, che ebbe due figli naturali, Clotilde-Reine Linty z’Loeisch (1888-1936) inferma mentale e Louis Linty detto ‘dar Loeis’ (*1900†?).

L’unica casa del Tschachtelljer rimasta miracolosamenta intatta (foto Sara Ronco)

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Era il 24 marzo ’45, arrivarono i tedeschi ad Issime e molti uo-mini scapparono e andarono a nascondersi su a Tschachtelljer. Quegli uomini erano Luigi Linty, Beniamino Linty, Guido Consol, Aldo Consol, Giuseppe Christille e Giovanni Busso, c’era anche Giovanni di Montjovet, che era un aiutante di Giu-seppe. Quando arrivarono i tedeschi in Piazza si misero a guar-dare con il binocolo la montagna e i mayen che sono qui sopra. E su a Tschachtelljer, purtroppo, hanno visto un uomo sul ci-glio del burrone, dove c’è il pilone bianco, e dopo partirono per andare a Tschachtelljer ma sbagliarono percorso, invece di an-dare a Tschachtelljer andarono a Hubal. Quando furono a metà strada su per Hubal cominciarono a sparare, e spararono verso Tschachtelljer. Così quegli uomini scapparono tutti nel bosco verso Fontainemore. Il giorno dopo i tedeschi tornarono su e di nuovo presero il sentiero per Hubal e trovarono il sentiero che porta a Walkhu. Da Walkhu attraversarono tutto il bosco e arri-varono a Tschachtelljer. Gli uomini che erano scappati durante la notte tornarono a casa e a quello di Montjovet qualcuno di

3 Angeline-Marie Christille Pöizersch (1895-1964) sposa Henry Busso Lixandrisch. Era figlia di Marie-Christine-Bernardine Busso - Schützersch Téini (1862-1920) e di Joseph-Jacques-Pantaleon Christille Pöizersch (1867-1910).

4 La famiglia si spostava durante il corso dell’anno fra l’abitazione di Rollie (edificata nel 1863 come indicato sulla trave di colmo) che pro-veniva dai Busso Schützersch, fra quella di Grand Pra che proveniva dai Consol Dŝchantinhsch, ed i mayen del Tschachtelljer e di Valbona, quest’ultimo era in affitto.

Le case del Tschachtelljer in una cartolina dell’inizio degli anni ’30 del ‘900. In primo piano Emilie-Louise Linty (1864-1935) z’Loeisch Éméléji, dietro la figlia Clotilde-Reine Linty z’Loeisch (1888-1936)

Fontainemore diede una gerla per poter rientrare senza dare nell’occhio, gli diede una gerla in spalle e arrivò in Piazza a Issime. Poi i tedeschi cominciarono a dare fuoco e lì c’erano parecchie case, di tanta gente di Issime, c’erano Giulia Chri-stille, la signora Clotilde Linty, Emilia Linty e Giuseppe Bus-so e la nostra, ma la nostra era un po’ distanziata e quella di Giulia anche era un po’ lontana da queste. Andavano su prima di Natale con le mucche. Quindi i tedeschi bruciarono tutte queste case e quel giorno mia mamma3 da Rollie andò giù a Grand Pra4, E oltre il ponte incontrò il parroco don Vesan e gli disse “Vedete signor parroco come brucia Tschachtelljer” e don Vesan le rispose “Allora Angelina pregate, pregate, se avrete fede la vostra casa non brucerà” e la casa rimase in-tegra! Però due travi avevano già preso fuoco, c’era tutta la brace intorno ma si spensero.Don Vesan non lo ringrazierò mai abbastanza, ma per i Santi mi reco sempre sulla sua tomba per portare una candela e dire una preghiera.

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ereditò il figlio Jean-Jacques Busso (1814-1891). Quest’ul-timo vendette nel 1877 la metà dell’alpeggio proveniente dal patrimonio materno al cugino Jean-Bapstiste Consol Stoffultsch detto ‘dar Dŝchan-Batistu’ (1821-1902) figlio di Christophle e di Marie-Christine Consol Dŝchantinhsch che ne possedeva l’altra metà. La tradizione riferisce che do-vette vendere l’alpeggio per sposare quella che diventerà la sua terza moglie4 Marie-Louise-Emilie Christille Pöizersch (1842-1925) lui 62 anni, lei 34 anni, e che i vicini d’alpeg-gio, gli Stévenin originari di Gaby, usavano dire “Lou vill Busso l’a vendeui la mountoagna per tchetòr na Pucchia” il vecchio Busso ha venduto la montagna per prendere una Pucchia (in töitschu Puttchju indica una donna della fami-glia dei Pöizer in senso quasi dispregiativo). Jean-Jacques Busso si riservò una porzione di un incolto sopra l’alpeggio di Tourrison chiamato Schützersch schelbit, e la possibilità di ritirare il fieno selvatico nel piccolo stadel (rascard) che si trova all’alpeggio, ancora oggi i discendenti5 conservano questo diritto. Da questo appezzamento potevano ritirare una decina di trusse (balle di fieno).La tradizione riferisce anche che le due sorelle avessero sposato due uomini ipovedenti, e si ripete la frase come una filastrocca “Dŝchantinhsch érpi, Dŝchantinhsch érpi hen kiat an blljinne ma van eim” le sorelle Consol han preso un uomo cieco ciascuna. A conferma due gli indizi, Christophle Consol fece costruire nel 1837, come ex-voto all’alpeggio di Tschavanellji, un piccolo oratorio, per essere scampato ad un pericolo, l’incontro con un lupo, ad avvisarlo del pericolo imminente fu il suo piccolo cane che si nascose fra le sue gambe, è probabile infatti che la sua vista fosse debole. L’altro indizio è che le discendenti di Jean-Jacques Busso, le sorelle Busso Lixandrisch, Vittoria, Laura e Giulia conservano a Grand Pra, nella casa di Jean-Jacques Busso che fu dei Consol Dŝchantinhsch, un’antica statuetta in legno dorato di Santa Lucia protettrice della vista6.

michele musso

La casa del Tschachtelljer rimasta miracolosamente intatta apparteneva alla famiglia Busso Schützersch originaria del villaggio di Rollie inferiore, una trave

del tetto reca incisa la data del 1794 con il simbolo religioso IHS, un’altra le iniziali JJB Jean-Jacques Busso, un’altra PB Pierre Busso, e un’altra ancora JPB Jean-Pierre Busso. Tre fratelli figli di Jean-Pierre Busso Schützersch (1727-1797) e Maria Jacobea Goyet di Jean-Antoine: Jean-Jacques Busso (1764-1842) sposa il 28 gennaio del 1800 Marie Antoinette Consol Dŝchantinhsch (1780-1849), Pierre Busso (1771-1854) sposa il 28 gennaio 1800 Marie Ronco, e Jean-Pierre Busso1 (1773-1841) divenne prete il 2 giugno 1798, fu vica-rio ad Issime, poi parroco a Sarre dove morì.Jean-Jacques Busso Schützersch e Marie-Antoinette Consol Dŝchantinhsch, figlia di Jean-Jacques e di Marie-Antoinette Freppa di Issime-Saint-Michel (Gaby), ebbero cinque fi-gli, tre femmine2 e due maschi, Jean-Pierre (1812-1882) Schützersch Piru, e Jean-Jacques (1814-1891) Schützersch Dŝchan Dŝchoaku. Il primo erediterà la casa avita dei Busso Schützersch (oggi Consol) a Rollie inferiore dagli zii Pierre e Jean-Pierre prete, un’antica dimora ricostruita nel 1825, una abitazione a Rickurt superiore (oggi Consol), e costruì una nuova abitazione a Pioani, portata via dall’alluvione del 1948. Il secondo erediterà la casa della madre a Grand Pra3, il mayen del Tschachtelljer, un alpeggio nel Vallone di Tourrison (Tourrison superiore, Lei Kier e Krecht), e nel 1863 costruirà una nuova abitazione di fronte a quella della famiglia a Rollie inferiore.Marie-Antoinette Consol Dŝchantinhsch aveva una sorella Marie-Christine (1785-1831) che sposò il 12 giugno 1804 Christophle Consol (1781-1859) il capostipite degli attua-li Consol Stoffultsch e Stoffeltisch. Le due sorelle, sopran-nominate Dŝchantinhsch érpi (ereditiere) uniche eredi del patrimonio di famiglia, portarono in dote ciascuna metà dell’alpeggio di Tourrison costituito dalle alpi di Tourrison superiore, Lei Kier e Krecht. Marie-Antoinette Consol portò in dote anche la casa del Grand Pra che come abbiamo visto

1 Bussoz Jean Pierre de Jean Pierre de Jean Jacques, né à Issime S. Jacques 10 Novembre 1773, pretre 2 Juin 1798, Vicaire à Rhemes Saint George 1798-1800, Issime Saint Jacques 1800-1801, Saint Barthelemi 1801, Fontainemore 1805-1808, La Thuile 1808-1809, économe à La Thuile 28.07 1809, curé à La Thuile 14.12 1809-19.08 1820, Sarre 31.01 1821-41 mort à Sarre 25.07 1841. Tratto da: Pierre-Etienne Duc, Le Clergé d’Aoste au XVIII siècle, Turin Imprimerie salésienne 1881.

2 Maria Antonia Delfina (1801-1866), Maria Jacobea Josephina (1803), e Maria Joanna Albina (1809)3 Nel volume “Année de grȃce 1915” (pubblicato dall’associazione Augusta nel 2015) a pag.163 si dice che Jean-Jacques Busso

(1814-1891) ‘con il secondo matrimonio erediterà la casa a Grand Pra’, nuove indagini invece ci dicono che la casa apparteneva alla madre Marie-Antoinette Consol Dŝchantinhsch.

4 In prime nozze Jean-Jacques Busso (1814-1891) sposò il 24 novembre 1846 Marie-Antoinette-Victoire Christille Pöizersch, dalla quale ebbe una figlia Marie-Antoinette-Victoire che morirà nel 1880 a 31 anni, si dice impazzita; in seconde nozze sposerà il 13 aprile 1852 Marie-Antoinette Ronco Pétéretsch (1819-1862), figlia di Jean-Pantaleon Ronco (1786-1861) e di Marie-Jeanne Consol del villaggio di Grand Pra, la quale morì di parto il 2 luglio 1862, figli: Jacques Busso (1855-?) e Marie Christine Bernardine Bus-so - Schützersch Téini (nata il 30 giugno 1862 † 1920, morta per malattia di cuore). Quest’ultima sposa Joseph-Jacques-Pantaleon Christille Pöizersch (1867-1910, ucciso ad Annecy, lavorava in un cantiere) dai quali nascerà Angeline-Marie Christille (1895-1964) la protagonista del racconto, madre di Vittoria Busso. Jean-Jacques Busso sposerà la terza moglie civilmemente il 22 aprile 1877.

5 Le sorelle Busso Lixandrisch, Vittoria, Laura e Giulia6 I racconti della tradizione orale riportati nel testo, raccolti da Michele Musso, sono tratti da interviste con Albertina Fresc (1905-

1991), Filippo Consol Stoffultsch (1908-1993), Laura e Vittoria Busso Lixandrisch.

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z’russmandji het toan z’glljöisch z’streckhun um goan ouf tur z’chömmi, d’gotta het pruavut z’is stuasse un “Puvì pas sü?” hetsch mu gvriegit, un is “Gotta Maréji, piénni di mi nöit?” D’got-ta Maréji het kiet an gruass lou-nu un het mu gseit alltsch, heen allz antrénkurut un z’chömmi sinh blljibbe wi z’ischt gsinh, wa auch um dŝchi heen gloan sua ar-goeikhjen!

La signora Cristina era la mag-giore di una numerosa famiglia e i fratelli giovani le facevano vo-lentieri degli scherzi. Mia mam-ma, che era a servizio dei Consol, mi ha raccontato che un giorno a Lion la signora Cristina aveva pure la signora Maria Squindo a giornata, dopo pranzo le due an-

darono un momento a riposare mentre i ragazzi erano intenti a ripulire i due ruscelli vicino alla casa e presero una rana. Allora uno disse “Andiamo a metterla nella caffettiera, quando le don-ne si svegliano fanno il caffè, così vediamo come va a finire”. Quando Cristina si svegliò mise l’acqua nella caffettiera e vide spuntare una testa, fece cadere tutto in terra urlando e strillando e sollevando ora una gamba ora l’altra, in preda allo spavento e i due ragazzi fuori se la ridevano; dopo chiesero alla signora Maria cosa avesse pensato vedendo Cristina così scossa e lei “Io pensavo fosse diventata matta!”Altre volte, quando la aiutavano a ripulire la stalla, con la car-riola da portare in due; per sollevare il carico di letame Cristina si metteva davanti e l’aiutante si voltava nella direzione oppo-sta, così uno tirava in avanti e l’altro indietro e allora … urla e sgridate da parte di Cristina.

I GIoVANI SchERzANo VoLENtIERIA Plane nella casa dei Consol il primo di aprile un giovanot-to si recò dalla signora Maria, tutto mascherato si spacciò per spazzacamino e le chiese se volesse pulire il camino e lei, d’ac-cordo, andò a cercare una scala, tolse dal focolare la catena, il treppiede e tutto quello che c’era. Ma lo spazzacamino fece fin-ta di avere difficoltà a salire su per la canna fumaria, lei provò a spingerlo dicendogli “Puvì pas sü?” (Non riuscite a salire?) e lui “Signora Maria, non mi riconoscete?” La signora si arrabbiò moltissimo e gliene disse di tutti i colori, la scocciava il fatto di aver preparato tutto e concluso niente e soprattutto di essersi lasciata ingannare!

D’gotta Téini ischt gsinh d’éltra ar gruass fam-mullju un dé d’junhun brudara hen geeren dŝcha toan z’aschturne. Méin mamma, das ischt gsinh junhfarwa z’Stoffultsch, het mer zéllt das an tag im Léjunh gotta Téini het kheen Skine Maréji

z’toawan, noa dam ümmis di zwienu sén kannhen a mumanh röschten, darwil di zwian boffi sén gsinh z’machun süni béi z’gmach un hentsch areit a hoptschul. Dé eis jit “Goan ne lécken in d’kaffutiuru, wénn d’fümmili arwache machuntsch z’kaffi, sua lugewer wi z’gannhi”. Wénn Téini ischt arwachit hets gleit z’wasser in d’kaffutiuru un hets gsian zannen as hopt, dé het allz gloa valle nidder un rawiti u wickiti, bürt tor a vuss un tor dan andre allz aspalmuruts … Di zwei sén gsinh ousna z’lache wi tockhjini, darnoa hentsch gvriegit Maréji was is heji gmüssurut gsian Téini tun sua leid, un dŝchöi “Ich hen dénght Téini wieri gchee sturrenz!”Süscht wénn dŝchi sén ra kannhe helfe mischtun, mit dar beeru z’vir stolli, um bürren d’beerutu mischt Téini ischt kannhen va vuarna un dar hilf het dŝchi gchiert hinnersich, sua eis het zuahe von a séitu un z’andra von d’andra un dé … rawiti un schümpfiti.

D’juNhu tüN GEERE SpottuZ’Amisch im iesten oaberllje as junhs mandji ischt kannhen zar gotta Maréji allz disgissuruts, dŝchi toan z’passru vür as russmandji, ra vriege ol dŝchi hetti wéllje russun z’chömmi un diŝcha alli d’ackuart ischt kannhe süjen a leitru, kwénkt d’hüe-li, z’brannéise un allz was ischt gsinh von d’heerblattu. Wa

Im Léjunh – A LioniMelda ronco hantsch

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optima et timens Deum, quae lacrimis perfusa mihi dixit se accessisse ad fontem Agrensem glacie tectum et in glacie qua-si depictam pulcherrime imaginem B. Virginis Marie tenentis infantem in brachiis, vivis et pulcherrimis coloribus in parva figura coloratam. Hanc gratiosam B. Virginis imaginem circi-ter per horam in glacie perseverasse dixit.”Non è da escludersi che il Rev. J.J. Curtaz credendo alla verità del racconto di sua madre abbia voluto fondare questa cappella in memoria della grazia che aveva ricevuto1.La Cappella di Oagre è diventata per Gressoney un centro di devozione mariana, meta di pellegrinaggi; vi sono testimonian-ze di grazie insigni qui ricevute.

DE tSchAppòLò VoN oAGRE – GNADEN BRuNNENDe tschappòlò von Oagre tuetsché fénne én Staval, es dòrfié von Oberteil. Escht kanget am hejò 1776 vòn Johannés Joseph Curtaz buté. Eer éscht pfoahér vòn Ischeme gsid òn fer désch gréndòng, hätter en schréft méttem notär J. Curtaz gmacht. D’stòre tuet verzelle das der 11 feber 1701 d’ejò vòm from-me pfoahér, Katriné Knòbal, wib vòn Jakob Curtaz, siggé zem bronne kanget fer wasser z’gé. Z’wasser éscht gfròrenz gsid, aber òf òm isch, éscht es wònderbars béld erschinet, mé schéne läbenè foarba: d’Muettergottés méttem heilégen chénn ém oare.D’erchinòng hät òngefer e stònn durt, Nachdém détz an-dechtégs wib, fascht én der nòt òn en de tréne, hät dem pfoahér vòn Oberteil, J.J. Schwarz bichtòt was éscht éra gschiet. De pfoahér hät alz ufgschrébet fer z’chònno détz wonder bezigò. Channt ganz täll si das de pfoahér J.J. Curtaz, sécchere vòn de wòrté vòn der ejò , heigé welle de tschappòlò bue alz erén-nerong òn dankbarkeit der Muetergottés. Frienòr sinnd’litté fascht andechtégé gsid òn sintsch oft én d’Oagre kanget fer d’Muettergottés z’bättò.Attilio Squinobal sélég, vòn Oberteil, hät verzellt das es wib me véll gloube, méttem brochne rèkgroad, hättsché bés bi dem bronne zochet. Mòrendesch hätsch wéder chònnò goa. Wege-dem én der tschappòlò sinn chrécke gschtuerté.Joaré zròck , em sòmmert, de sònntag, hät don Saino fer de dòrflitté òn ou fer d’fremdò d’mäsch gläst. Hitzòtag, don Ugo, éndsche pfoahér, am 5. ougschte, tuet e mäsch läse òn, em endé vòm manòt meje, d’litté vòm Méttelteil òn vòm Oberteil tien doa allé zéeme de ròsòchranz bättò.

La cappella di Oagre fu fondata dal sacerdote Jo-hann Joseph Curtaz nel 1776. Johann Joseph Curtaz apparteneva al ramo dei Curtaz detti del Capoluogo-Prédelais, nacque a Gressoney-Saint-Jean nel 1725, figlio di Johann Jacob e Kattrine

Knobal. Fu parroco di Issime dal 1771 fino alla fine del 1784, anno della sua morte.I due rami della famiglia Curtaz, uno di Castell-Chemonal, e l’altro del Capoluogo-Prédelais (Predeloasch), hanno come capostipite Jean-Angelin Curta, notaio di Castell, vissuto a ca-vallo del XVI-XVII secolo. La casa avita della famiglia Curtaz si trova nel villaggio di obrò Chastall (Castell sup.). L’edificio fu costruito lungo la mulattiera che risaliva la Valle, e si tro-va di fronte alla cappella privata fondata nel 1670 da Angelin Curta notaio, dedicata a Nostra Signora delle Grazie e a San Giovanni Battista. La casa aveva, sul lato della mulattiera, uno sporto del tetto molto ampio che fungeva da riparo per i vian-danti, è infatti conosciuta col nome di ‘De vorschäre’. Sot-to il portico e su una trave di sostegno dello stadel era incisa la scritta, ora nascosta dalle modifiche apportate all’edificio, “Halt dich wohl und leb mit Eren, vertrau allein Gott deinen Herr” Vivi bene e con onore, confida solo in Dio tuo Signore, e la data 1580.

La cappella di Agren è situata nel cantone di Staffal a Gres-soney-La-Trinité, alla distanza di più di otto Km dalla chie-sa. Questa cappella ordinariamente e volgarmente è chiamata “Gnaden Brunnen”, fontana delle grazie dal nome di una fon-tana che scorre a fianco. La sua fondazione e dotazione è dovu-ta al Rev. Johann Joseph CURTAZ parroco d’Issime dall’atto dell’11 luglio 1776 Giov. Gius. CURTAZ notaio. Il manteni-mento della cappella è a carico dei consorzisti. Una leggenda racconta che l’11 febbraio 1701 la madre del pio fondatore, Kattrine Knobal, essendosi avvicinata alla fontana di Agren che era coperta di ghiaccio, vide come dipinta nel ghiaccio una bellissima immagine della B. V. Maria che teneva nelle sue braccia il suo Divin Bambino sotto svariati, vivi e bellissimi colori. Questa visione durò circa un’ora, dopo la quale questa donna virtuosa credente in Dio raccontò tutta bagnata di la-grime al suo parroco dettagliatamente il fatto come lo si trovò scritto nelle note del Rev. Johan Peter Schwarz parroco della Trinité e che è del testo seguente: “1701, die 11 februarii, venit ad me Catharina Knobal uxor I. Jakobi Curtaz filii Petri, mulier

cappella della S.S. Vergine della Neve a Agren – Oagre

elide Squindo

1 Fonte: Abbé P.-E. DUC, Histoire des églises paroissiales de Gressoney-Saint-Jean-Baptiste et de Gressoney-Très-Sainte-Trinité, Aoste 1866. - Tradotto in italiano da Alphonse Curtaz 1936.

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La famiglia Biolley era originaria del villaggio del Biolley, po-sto all’inizio del Vallone di Tourrison, vallone laterale di Issi-me. I Biolley si occuparono con fortuna di commerci e si arric-chirono, tant’è che, sia per comodità sia per prestigio, un certo Jaques di Pierre Biolley acquistò “une maison sise dans le vil-lage d’Issime, confinant le chemin public”. L’atto fu stipulato il 27 novembre 1618 nella “maison forte d’Arnad”, poiché chi vendeva era la Dame Octavie de Saint-Martin, vedova del Ba-rone Jean Frédéric de Vallaise del ramo dell’Hôtel. Quasi tutta la famiglia si trasferirà nel capoluogo e questa sarà la loro di-mora fino alla fine della casata5. La casa fu poi acquistata negli anni precedenti il 1835 da Jean-Lin Christillin Loeisch-Mat-tisch (1785-1853), lontano cugino dell’altro ramo dei Loeisch-Mattisch discendenti del notaio Mathieu Christillin, che fu sin-daco di Issime e di cui si conserva un bel ritratto. La erediterà il figlio di quest’ultimo, Jean-Leopold (1821- Moȗtiers 1891), che sposò la pronipote di Jean-Pataleon Linty, Marie-Joséphi-ne Linty z’Avokatsch (1820-Moȗtiers 1890). Ebbero nove figli e intorno al 1865 la famiglia si trasferì in Francia nella Vallée de la Maurienne, quindi a Moȗtiers e successivamente a La Roche-sur-Foron. La casa sulla piazza fu venduta alla famiglia Bastrenta, attuale proprietaria.I Biolley possedevano sulla piazza altre due abitazioni, una acquistata da un ramo dei Christillin denominato “Suinanz”, come risulta da un documento di locazione stipulato il 21 feb-braio 17266 fra il nobile Charles Biolley, figlio di Jacques mor-to nel 1715, e Louis del fu Jacques Lintin, e l’altra a fianco del-la loro, sul lato opposto della mulattiera che risale la Valle. Da un atto del 17 settembre 17357 sappiamo che il nobile Charles Biolley vendette quest’ultima abitazione all’avvocato e giudi-ce Jean-Pantaleon Linty: “un maison que j’ay en la ville d’Issi-me consistant en estable, crotte, poile, maison focale, cabinets, chambres, paillers, gallatas, et autres appartenances avec les courts planes et petit jardin confinant du levant le grand che-min qui tend de l’église vers le tiers dessus, du midy la pla-

Un’espressione di Gressoney dice: “Détz hus éscht mis òn doch nid mis. Dée woa vor mier éscht gsid, äs éscht ou nid dschis gsid. Dée woa noa mier chént mòs ou usgoa. Drom tuené mé frege: vòn wellem éscht détz hus?” Questa casa è mia e

non è mia. Colui che mi ha preceduto non ne era proprietario. Colui che mi seguirà dovrà anche abbandonarla. Per questo mi chiedo: di chi è questa casa?Alcune case però a volte prendono il nome da antichi loro pro-prietari. Nella foto qui pubblicata della piazza di Issime, del 1888 circa, riconosciamo da sinistra verso destra: la casa del notaio Mathieu Christillin, la casa del tailleur Jacques Frep-pa, la casa del giudice Jean-Pantaleon Linty, la casa del notaio Blaise-Aimé Linty, la casa con giardino dei nobili Biolley e i tetti delle case poste dietro la piazza dei notabili Alby-Lintin.L’assetto attuale della piazza di Issime risale alla prima metà del XVIII secolo, quando sotto l’influsso dei nobili Biolley2, da pochi anni nobilitati dal Duca di Savoia Vittorio Amedeo II, la piazza pubblica divenne il luogo privilegiato di dimora e di rappresentanza. Fu l’avvocato Jacques Biolley ad essere nobilitato nel 1704, secondo figlio di Mathieu Biolley, il quale da Issime si trasferì ad Aosta, ove si fece accettare come “Ci-toyen” ed iniziò un’ambiziosa carriera. Nell’ambito cittadino, ricoprì uffici sempre più importanti. Per diversi anni fu uno dei Luogotenenti del Balivato ed infine Procuratore Generale del Ducato, carica che conserverà fino alla morte, avvenuta ad Aosta il 29 luglio 1715. Il fratello di quest’ultimo, l’avvocato Mathieu Biolley3, collaborò fattivamente con l’allora parroco di Issime Jean-Pierre Biolley suo zio, così come col successo-re di quest’ultimo il parroco Jean Praz, con Jacques d’Alby-Lintin, e col Sire Jean Lintin4 padre di Jean-Pantaleon Linty, al progetto per la totale ricostruzione della chiesa di Issime a partire dal 1683. Infatti l’antica chiesa romanica fu completa-mente sostituita con una nuova e più moderna chiesa in stile barocco, chiesa che tutt’oggi ammiriamo.

La place publique d’Issime1

Michele MuSSo

1 Le fonti della ricerca per la stesura del presente lavoro sono orali e archivistiche. Fondamentale è stato l’apporto di Giovanna Nicco (1938-2015), discendente diretta del tailleur Jacques Freppa, per la sua conoscenza sulla storia della famiglia e per i documenti in suo possesso, e dell’impareggiabile Guido Pession discendente diretto di Mathieu Biolley, di Jean-Pantaleon Linty, di Mathieu Christillin, e del tailleur Jac-ques Freppa. Ringrazio inotre per il prezioso aiuto nell’analisi delle fonti d’archivio il dott. Roberto Bertolin e il notaio Gian Maria Soudaz.

2 cfr. G. pession, Una nobile famiglia di Issime: i Biolley, in “Augusta”, Issime 2008, pp. 31-34.3 Mathieu Biolley offrì i due quadri a lato dell’altare maggiore rappresentanti la Madonna Incoronata e San Giuseppe nel 1715, in occasione

della dedica della Chiesa alla Vergine SS.ma Incoronata, la cui ricorrenza è l’ultima domenica di agosto. Morì il 1 agosto 1741. 4 Jean Lintin morì ad Issime il 21 aprile 1741, viveva nel villaggio di Rickurt di mezzo e sposò una certa Anthonia morta nel 1722. 5 G. pession, op. cit., p. 31. Si evidenzia che per un mero refuso è stata indicata, nell’articolo di Pession, la data 1616 in realtà è 1618. Vedi anche

R. BERTOLIN, Aspetti della dominazione dei Vallaise nel Trecento, a Issime, in “Augusta”, Issime 2014, pp. 9-11. 6 Collezione Guido Pession. 7 Collezione Guido Pession.

In ricordo di Giovanna Nicco

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il vecchio giardino, da Blaise-Aimé Linty8 notaio (1809-1882) pronipote di Jean-Pantaleon. Si realizzò così nel XIX secolo una nuova facciata sulla piazza. L’architrave in pietra della porta d’entrata, all’interno del cortile, reca incise le iniziali LBAN Linty Blaise Aimé Notaire e la data 1848.Da un manoscritto9 del 1850 di Louis Christillin Loeisch-Mat-tisch sappiamo che: “La vecchia casa dei Linty, ultimamente ricostruita dal notaio e segretario Blaise Linty, si chiamava sempre prima d’ora “Veiss haus” casa dei Linty-Blancs”.Sono infatti due le case chiamate Wéisse Hous, l’una dei no-tabili Alby già Alby-Lintin al Letz Duarf, oggi casa Bastrenta, e l’altra la casa dei Linty sulla piazza comunale. Così come la tradizione attribuisce agli Alby e ai Linty lo stesso soprannome Wéisse10. Questo particolare cela la comune origine dei cogno-mi Alby e Linty, cognome che fino all’inizio del XVIII seco-

ce commune d’Issime, du couchant les hoirs de Jean Baptiste Cervier et du septentrion le grand chemin publique pour la somme de sept cents livres au Sieur advocat Jean Pantaleon Linty”.Il nobile Charles Biolley era il cugino primo di Anna Maria Squinobal, moglie di Jean-Pantaleon; il padre Jacques Biolley infatti era il fratello di Christine, primogenita di Mathieu Biol-ley, suocera di Jean-Pantaleon.Questa abitazione, posta all’incrocio fra la mulattiera che risale la Valle ‘le grand chemin’ e il vecchio ‘chemin publique’ che corre dietro gli edifici che si affacciano sulla piazza, si intra-vede nella lunetta dipinta (anni ’70 del XVII sec.) del Castello di Vallaise di Arnad, e nell’ex-voto del 1755, disposta perpen-dicolare alla piazza comunale e a fianco dell’abitazione della famiglia dei nobili Biolley. Fu ingrandita nel 1848, occupando

Castello Vallaise di Arnad, nell’anticamera dell’appartemento dei Baroni de Vallaise sono raffigurati i territori a loro infeuda-ti, nello specifico il paese di Issime. La decorazione è stata realizzata negli anni settanta del XVII secolo.

8 Jean-Blaise-Aimé Linty z’Avukatsch (1809-1882) figlio di Jean-Blaise (1778-1809) e di Marie-Françoise Ronco fu notaio e segretario comu-nale, sposò Marie Françoise Alby Griffisch figlia di Jean-Joseph Alby Wéisse notaio e greffier (segretario del Tribunale) e di Marie-Elisabeth Christille. Il giudice Jean-Pantaleon Linty era il suo bisnonno.

9 Il manoscritto contiene istruzioni genealogiche della famiglia Alby eseguite da Louis Christillin Loeisch-Mattisch (1776-1859) figlio di Louis avvocato (1745-1778) e di Françoise Alby, il quale nacque ad Issime nella casa di famiglia sulla piazza del paese costruita nel 1739 dal nonno, il notaio Mathieu Christillin (1712-1772). Louis Christillin si laureò in legge il 9 agosto 1802 in diritto naturale delle genti. L’originale del manoscritto non è più rintracciabile, ne esistono due copie, una a Parigi (non completa), l’altra a Torino nell’archivio di famiglia di Emmanuel e Giulio Alby. Il brano riportato è stato tradotto dal francese e fedelmente ricopiato da Renato Alby di Torino nel volume inedito ‘La famiglia Alby: notizie storiche genealogiche e biografiche della casata raccolte e narrate da Renato Alby’ dattiloscritto del 1982.

10 Wéisse significa ‘dei bianchi’ ed Alby è la forma latina dal termine ‘albus’ plurale ‘albi’, da cui Alby.

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di Stuale, Goaventschi e Piannhi passarono in eredità ad un altro ramo dei Linty, l’ultimo proprietario fu il notaio Blaise-Aimé Linty z’Avukatsch (1809-1882) che li vendette, verso la metà del XIX secolo, alla famiglia Christillin Pintsche per po-ter edificare la casa sulla piazza che realizzò nel 184812. Furono poi acquistati dalla famiglia Liscoz di Gressoney, e quindi nel 1918 da Ferdinando Fresc di Gaby.Ma torniamo a Jean Pantaleon. Nacque ad Issime nel villaggio di Rickurt e fu battezzato il 18 ottobre del 1708; l’atto di batte-simo così recita: “Lintin Joannes Pantaleo filius discreti Joan-nis et Antoniae jugalium Lintin baptisatus fuit die 18 octobris 1708. Patrinus eius fuit nobili et spectabilis Avocatus Jacobus Biolley madrina Maria filia quondam Jacobi Laba Issima. J Praz curatus”. Nel battesimo era già scritto il suo destino, spo-serà infatti Anna Maria, figlia del notaio Jean-Jacques Squino-bal di Gressoney e di Christine Biolley di Mathieu, diventerà così nipote acquisito dell’avvocato Jacques, del giudice Jean e dell’altro avvocato Mathieu Biolley, fratelli di Christine. Dal matrimonio nacque Jean-Jacques Linty (1743-1791), figlio

lo era appunto Alby-Lintin e che subì un fenomeno comune nell’evoluzione dei nomi di famiglia: la segmentazione.Sappiamo che in seguito Jean-Pantaleon Linty acquistò da Charles Biolley anche la casa Christillin “Suinanz” che rimo-dernò nel 1751, casa che si affaccia direttamente sulla piazza, la terza casa da sinistra nel ex-voto del 1755 e nella foto del 1888, quella con il balconcino al primo piano.Ma veniamo ora a Jean-Pantaleon, chi era? La famiglia Linty proveniva dal villaggio di Rickurt di mezzo, dove possedeva l’abitazione avita e dove nel 1666 fece edificare la cappella dedicata a San Luigi Re di Francia, tutt’oggi esistente, per testamento datato 15 luglio 1661 di Louis Lintin, antenato di Jean Pantaleon Linty. Possedeva inoltre l’antica casa di Eimat-tu sotto Rickurt, una montagna nel Vallone di Bourinnes costi-tuita dagli alpeggi di Stuale, Tschachtulljustein, Goaventschi, Piannhi11, e Chléckh.Parte di questa montagna Tschachtulljustein e Chléckh appar-tiene ancora oggi ad Agostino Busso, Eligio e Carmen Girod, diretti discendenti di Jean Pantaleon Linty; mentre gli alpeggi

Ex-voto offerto alla Madonna di Oropa dagli abitanti di Issime, scampati miracolosamente nel 1755 all’inondazione del Lys.

11 Sulla trave maestra della baita di Piannhi è incisa la data 1789 e la scritta JJLinty, Jean Jeacques Linty (1743-1791) era figlio di Jean Pantaleon.12 Informazione di Guido Pession.

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docteur en droits des Seigneur impairs siegeants an Conseil des Connoissances d’Aoste et premier juge d’Issime”.Fu infatti nominato giudice del Tribunale della Vallaise il 5 novembre 1734 dal barone Philibert Antoine de Vallaise, poi-ché alla fine dell’anno precedente era mancato il giudice Jean Biolley14. Inoltre siedeva nella Cour des Connaissances15, una istituzione valdostana peculiare con funzioni giurisdizionali, un tribunale locale formato dai ceti che si trovano al vertice della gerarchia sociale, composta dai signori “pairs” i signori di antica nobiltà, i “nompairs” la nobiltà di recente nomina, e i “coutumiers” i signori consuetudinari. La sede ordinaria del-la Cour des Connaissances ad Aosta nel corso del Settecen-to era l’Hôtel des États. Essa era competente nelle cause più importanti nelle materie civili, quali l’azione di ricognizione feudale, la rivendicazione e il possesso di cose eccedenti il va-lore di cinquanta fiorini e, sempre, in materia di reati punibili con sanzioni gravi, e in quella penale. I processi penali, infatti, non potevano essere esaminati dai giudici ordinari in via defi-

unico, che sposerà il 7 aprile 1761 la figlia maggiore Marie del notaio Mathieu Christillin Loeisch-Mattisch (1712-1772) e di Marie Consol. Ebbero sette figli, cinque maschi e due femmi-ne: Pantaleon Linty z’Avukatsch (1762-1813), letterato ; Je-an-Louis Linty z’Avukatsch (1764-1845), notaio e cancelliere del Cantone di Fontainemore, che abitò nella casa del nonno sulla piazza del paese, l’edificio centrale nel cortile interno ; Jean Linty z’Avukatsch (1767-1793), medico morto prematu-ro a Torino ; Jean-Jacques Linty z’Avukatsch, prete (*Issime 1770 † Châtillon 1847), canonico nel 1821 ; Anne-Marie Lin-ty z’Avukatsch (*1772) ; Jean Blaise Linty z’Avukatsch, me-dico (1778-1809) da cui discendono gli attuali Linty di Issime e Guido Pession che abita la casa di Jean-Pantaleon, ed infine Marie-Antoinette-Christine Linty z’Avukatsch (*1787).In un atto di procura del 30 agosto 174813 il suocero di Jean-Pantaleon, il notaio e citoyen d’Aoste Jean-Jacques Squinobal, affida i suoi beni al genero, e nello stesso documento Jean-Pantaleon è definito “Spectable Sieur Jean Pantaleon Linty

Issime, Duarf (Capoluogo) 1888 circa.

13 Collezione Guido Pession. 14 L’atto di nomina è conservato da Guido Pession. 15 Vedi: A. ZANOTTO, Storia della Valle d’Aosta, Musumeci, Aosta 1993, p. 105 ; M. CAVALLINI, La Cour des Connaissances, in Les institu-

tions du Millénaire, Musumeci, Aosta 2001, pp.107-111.

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di Arnad. Di questa casa così scrive Ugo Torra nel volume “La Valle di Gressoney: le sue antichità, II edizione, Ivrea 1966, p. 104”: «All’angolo della piazza, a sinistra, vi era fino a poco tempo fa, una grande casa che anticamente fu già sede del Co-mune; davanti ad essa era collocato il seggio [quello su cui sedeva il Giudice della Vallesa fino al XVIII, conservato fino alla metà dell’Ottocento proprio presso l’abitazione del notaio Mathieu Christillin]. Questa casa è stata demolita per costruire il nuovo Municipio. Aveva la data 1739, con iniziali e nodo sabaudo nella trave principale nonché sugli architravi in pie-tra degli ingressi anteriore e posteriore». La casa fu demolita nell’inverno del 1962-63.Il nipote di Mathieu, l’avvocato Louis Christillin (1776-1859) così lo ricorda: «notaio dei Signori Esperti Collegiati della Cour des Connaissances e del Consiglio di Giustizia, cioè dei giudici dei diritti consuetudinari, e commissario esterno di tale Corte per le informazioni e le inchieste»; soprannominato “l’avvocato del diritto consuetudinario” per essere particolar-mente ferrato nel diritto romano (come risulta dalle sue me-morie e dai suoi appunti), partecipò in qualità di membro e giudice di detta Corte all’Assemblea dei Tre Stati del 1755 e del 176616.

nitiva senza aver sentito il parere vincolante (avis) della Cour des Connaissances. Anche relativamente all’uso della tortura i giudici non potevano procedere senza il suo parere. La Cour des Connaissances fu abrogata con le riforme degli anni 1770-1773. Jean-Pantaleon Linty morì ad Issime nella sua abitazione sulla piazza il 29 marzo e fu sepolto il 2 aprile del 1771 ‘in ec-clesia’ nella tomba dei suoi antenati, fu l’ultimo giudice della Valle del Lys.La casa sulla sinistra della piazza era del notaio Mathieu Christillin (1712-1772) figlio di Jean, anch’egli notaio. Come Jean-Pantaleon Linty, anche Mathieu Christillin siedeva nel-la Cour des Connaissances. Mathieu apparteneva a quel ramo dei Christillin chiamato Loeisch Mattisch (Mathieu de Louis), discendeva da un certo Jacques Christillin a sua volta notaio, suo bisavolo. Quest’ultimo compare nel ‘Livre Terrier du Tiers Dessoubz soit du Plan’ di Issime del 1645 come ‘Egrege Ja-ques notaire filz de discret Mathieu de Louys Cristellin’ i quali vivevano nel villaggio di Grand Champ nella casa avita della famiglia, casa in cui nacque Mathieu nel 1712. Quest’ultimo si fece costruire la nuova abitazione sulla piazza del paese nel 1739. Fu costruita ex-novo, infatti è assente nella veduta di Issime dipinta negli anni ’70 del Seicento nel Castello Vallaise

Issime, Duarf (Capoluogo) 1888. La casa in primo piano è quella di Mathieu Christillin, a lato sulla destra si intra-vede la casa di Jacques Freppa. (foto Archivio Guindani di Gressoney-Saint-Jean)

Lastra fondale in ghisa per camino del 1750 recante le ini-ziali IPL e A&I Jean-Pantaleon Linty Avocat & Juge, e della moglie Anne-Marie Squinobal A M S. Al centro, a sinistra lo stemma dei Linty, a destra degli Squinobal. La lastra è conservata nella casa Linty in piazza ad Issime. (proprietà Guido Pession)

16 Queste informazioni sono ricavate da un manoscritto di Louis Christillin già citato nella nota 8.

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“scavoir tout un estable moitie sans solevan qu’est au des-sous le rescard sur jambes de Labaz, sis en la presente ville d’Issime appellé l’estable de feu discret Jacques Ronc auquel confinents du levant et midÿ l’alloir et degrés du dit acquereur, du couchant le dit vendeur pour son cellier et place au devant le dit sceillier joinct au dit estable vendu et separez par une muraille de long en long dans laquelle il y ay presentement une porte que l’acquereur pourra boucher et du septentrion le chemin public”.

Da questi due documenti ricaviamo che l’abitazione dei Frep-pa si trova a fianco di un rascard situato a nord di essa, di cui loro sono già proprietari della parte in legno sorretta da funghi “rescard de Laba”, e che quest’ultimo confina a nord con il vecchio “chemin publique”, camminamento che corre dietro gli edifici che si affacciano sulla piazza così come oggi, ed è separato dalla loro casa da un passaggio comune da cui partono le scale che conducono alla loro abitazione ed al letamaio che si trova a levante del rascard, dietro la casa che apparteneva ai nobili Biolley18.Un documento di ratifica del 2 aprile dello stesso anno stilato dal notaio Joseph Albert approva l’acquisto da parte di Jacques di “un estable siz et jesant sur la place pubblique d’Issime, et au dessoubz un rescard sur jambes, appellé le Rescard de Laba, contract receu par egrege Mathieu Christillin le qua-torze mars proche passé, appellé l’estable de Jacque Ronc”. Nello stesso documento il fratello di Jean Alby, il venditore, “honneste Jean Joseph de feu le dit sire Jean Jacques Alby” rinuncia al suo diritto di prelazione sulla stalla, in cambio rice-ve del danaro da Jacques Freppa e l’annullamento di un debito che ha nei suoi confronti per l’acquisto “de marchandise de boutique”. Un indizio chiaro su chi fossero i clienti del nostro tailleur.Da un documento di molti anni successivo, la divisione dell’e-redità fra i figli di Jacques Freppa: “Parteges faits entre discret Jean Jacques, Jacques Antoine, et Jacques Joseph freres fils à feu le taillieur Jacques Freppa d’Issime – 25 fevrier 1777” del notaio Louis Christillin, sappiamo che la casa sulla piazza spettò a Jean-Jacques, ed è così descritta: “un tenement de do-micile, situé sur la place publique du present lieu contennant boutique, estable, cave, basse cour, creux de fumier, et chesal au premier êtage, ensuitte cuisine et poile, chambre, cuisi-ne superieur, foiniere, gallatas, galleries et autres annexes et dependances quelconques, à quoy confinent du levant je notai-re soussigné et le dit sieur Jean Jacques Lintÿ, midi la place publique, couchant je notaire soussigné, et au nord le chemin publique”.Le differenze fra la descrizione dell’abitazione in quest’ultimo documento e in quello del 14 marzo del 1735 sono immediate: la casa si è alzata di almeno due piani con l’aggiunta di diversi altri locali, ma soprattutto non si ha più traccia del rascard, i confini della nuova abitazione lo comprendono. I confinanti sono cam-

Il figlio di Mathieu, Jean Christillin Loeisch-Mattisch (1738-1808) fu protagonista d’eccellenza della storia valdostana di fine Settecento. Nacque ad Issime nella casa di famiglia a Grand Champ, si laureò in legge a Torino nel 1763. Partecipò come oratore ad Aosta all’ultima Assemblea degli Stati Gene-rali nel 1766. Nel 1767 fu nominato sostituto avvocato fiscale, nel 1768 membro della Royale Délégation. Quest’ultima era una commissione composta da quattro membri e presieduta dal vice-balivo, per la verifica dei beni privilegiati a titolo di feu-dalità o perché appartenenti all’antico patrimonio della Chiesa. Dal lavoro della commissione prende le mosse il primo catasto generale delle terre valdostane, base per una ripartizione delle imposte proporzionale alla vastità dei beni fondiari e alle stime dei rendimenti dei terreni. Nel 1780 divenne avvocato fiscale. Nel 1780 sposa Maria Teresa Mazé, figlia del senatore Paolo. Nel 1799 divenne prefetto e capo del consiglio di Giustizia dal 1802; presidente del tribunale di prima istanza ad Aosta nel 1804, fu quindi nominato magistrato. Nel 1799 nutrito delle idee illuministe scrisse ‘Origine, progrès, révolution et finale paralysie du Conseil des Commis’.Ma il personaggio che più va ricordato per intraprendenza e grandi capacità imprenditoriali fu il tailleur Jacques Frep-pa (1707-1775), protagonista della piazza di Issime per tutta la parte centrale del Settecento, che vestì le famiglie notabi-li del paese per almeno cinquant’anni. Il padre di quest’ulti-mo, discret Jacques Freppa di Jacques, già defunto nel 1728, originario del “Tiers dessus” attuale Gaby, acquistò una casa nell’angolo della piazza, a sinistra. L’edificio è ben evidenziato nella lunetta della fine del XVII secolo del Castello Vallaise di Arnad. In un documento stilato dal notaio Mathieu Chri-stillin del 14 marzo 1735 in cui il fratello di Jacques Freppa, Jean-Jacques, si presenta come debitore nei confonti di Jean-ne Marguerite veuve de feu discret Jean de Pierre Christille creditrice di 48 lire, di cui 7 lire di prestito nuovo, il restante Jean-Jacques si fa carico del debito del fratello Jacques, debito che quest’ultimo aveva contratto per la somma di 11 lire il 15 marzo 1717, e per la somma di 30 lire il 10 maggio 1722 per un totale di 41 lire. Jean-Jacques come garanzia nei confronti della creditrice, ipoteca la terza parte dell’eredità paterna. Nel documento si fa riferimento alla divisione avvenuta fra i fratelli Freppa, Jean-Jacques, Jacques (tailleur) e Jean-Baptiste, senza però precisarne la data. Fra le proprietà è descritta la casa del padre sulla piazza di Issime: “un tenement de domiciles siz en la presente ville d’Issime, appellé le domiciles de feu Jacques Freppa consistant en estable, boutique, poile, maison focale, palliers, loges, ensemble le crot de fumier et joint à quoy con-finent les hoirs de noble Jacques Biolley, la place publique, l’alloir et passage commun et le chemin publique ensemble sa part de pretention au rescard de Laba”.Lo stesso giorno Jacques Freppa acquista17 una stalla a fianco della loro casa sulla piazza, chi vende è “discret Jean de feu sire Jean Jacques d’Antoine Alby”, e l’oggetto dell’acquisto

17 Contratto d’acquisto del 14 marzo 1735 stilato dal notaio Mathieu Christillin. 18 Il rascard occupava la parte più a nord del sedime dell’attuale abitazione, oggi in parte occupato dalla base di un loggiato e dalle attuali can-

tine. La finestra a chiglia rovesciata presente nel vicolo è certamente un riutilizzo. Mentre il letamaio si trovava dove oggi sorge un fabbricato costituito da piano terra (ripostiglio) e primo piano, con corpo separato rispetto alle altre abitazioni, di proprietà di Guido Pession. La madre di quest’ultimo acquistò il sedime del letamaio da Beniamino Busso (1866-1951) ultimo discendente di Jacques Freppa che abitò la casa Freppa.

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tendo l’antico rascard e la vecchia casa. Ma è quasi certo che si sia accordato con Mathieu Christillin e che i due edifici si siano edificati nel contempo. Infatti la scala in legno di accesso al fienile dell’abitazione di Mathieu giungeva ad un ballatoio comune dal quale si accedeva da un lato al fienile e al ballatoio del terzo piano di Jacques Freppa, e dall’altro al fienile di Chri-stillin, come è ben evidente nella foto del 1888 qui pubblicata. Curiosità toponomastica, il vicolo fra le due abitazioni, un tem-po molto stretto, è ancora oggi chiamato Muntutun Kwettu, un bugigattolo, un luogo angusto.L’ex-voto del 1755 ci da già l’immagine della casa così come è descritta nel 1777 e come è giunta ai nostri giorni.Jacques Freppa fu battezzato il 10 gennaio 1707 nella chiesa parrocchiale di Issime, l’atto di battesimo così cita: “Freppa Jacobus filius Jacobi et Anthonia jugalium Freppa, baptisatus fuit die 10 januarii 1707 cuius padrinus fuit discretus Joannes Petrus Cervier madrina Jacoba filia quondam Anthonii Cherrera Issima, Praz Curatus”. Sposò il 7 gennaio del 1734 Marie Creux19 (1712-1773) del villaggio di Chenchere (Crest): “Discretus Jacobus quondam Jacobi Freppa et Maria filia quondam Petri Creux et Annae Mariae”, testimoni egregio Mathieu Christillin (1712-1772) notaio, e egregio Joseph Alby (1708-1785) notaio. Abitarono nella casa sulla piazza ed ebbero 10 figli: Jacques Freppa (1735-1783) dichiarato imbecille nella divisione del 1777 fra i fratelli Jean-Jacques, Jacques-Antoine e Jacques-Joseph ; discret Jean-Jacques Freppa (1739-1800) sposa il 6 febbraio 1776 Marie Alby (1742-1818), vivevano nel capoluogo di Issime in casa Freppa sulla piazza, non avranno figli. Fa testamento il 25 febbraio 1800, nomina la moglie usufruttuaria dei beni, e nomina eredi i due fratelli Jacques-Antoine e Jacques-Joseph. La casa la erediterà il nipote Joseph-Philibert Freppa (1796-1852) figlio di Jacques-Joseph ; Marie Freppa (*1740) ; Marie-Anne Freppa (1742-1789) dichiarata imbecille nella divisione del 1777 fra i fratelli Jean-Jacques, Jacques-Antoine e Jacques-Joseph ; Marie-Magdalena Freppa (*1745) ; discret Jacques-Antoine Freppa (1747-1805) sposa nel 1777 Marie Ribola (1755-1831) del fu Pierre, vivevano nella casa dalla colonna di Ceresole, già del tailleur, l’ultima discendente fu Vittoria Freppa (1904-1995) che sposò nel 1926 Jean Goyet (1899-1972) vivevano nel villaggio di Preit in casa Goyet ; Marie-Jacobeé Freppa (*1750) ; Jeanne-Marie Freppa (*1752) ; Marie-Françoise Freppa (1753-1807) ; discret Jacques-Joseph Freppa (1754-1809), sposa nel 1777 Marie-Jacobeé Gal (1754-1824) del fu Jean-Joseph, vivevano nella casa al Buade, già del tailleur. Il ramo dei Freppa che discende da Jacques-Joseph sarà chiamato Tuaŝchisch20.L’ultimo discendente di Jacques Freppa che abitò la casa sulla piazza fu Beniamino Busso (1866-1951), chiamato Stockhsch Benjamin, figlio di Marie-Jacobée Freppa (1824-1880) e di Jean-Pierre-Sebastien Busso (maçon), il quale sposò nel 1894 Romaine-Marie Ronco Péterétsch (1865-1942). Beniamino Busso fu protagonista di un evento che accadde nell’inverno

biati, non troviamo più gli eredi del nobile Jacques Biolley, sap-piamo infatti che Charles Biolley ha venduto l’abitazione con-finante con i Freppa a Jean-Pantaleon Linty con un atto del 17 settembre del 1735, a ponente non compare più Jean Alby con “la place” davanti alla cantina e alla stalla ma Louis Christillin (1745-1778), il figlio del notaio Mathieu (1712-1772). Cosa era successo nel frattempo? Sappiamo che nel 1739 il notaio Mathieu Christillin fece costruire, a fianco ed a ponen-te dell’abitazione dei Freppa e del loro Rascard, la sua nuova dimora che affaccia sulla piazza del paese, probabilmente sul terreno acquistato da Jean Alby, che aveva venduto la stalla a Jacques Freppa. Quest’ultimo si trovò così ad avere le sue proprietà incuneate fra l’abitazione del giudice e avvocato Jean-Pantaleon Linty e quella del notaio Mathieu Christillin, con la vista oscurata a ponente dall’abitazione di quest’ultimo. Certamente non poteva rinunciare ad avere la boutique da sar-to sulla piazza del paese, luogo privilegiato dal punto di vista sociale, economico, ed anche sede delle pubbliche istituzioni, civili e religiose. È allora che probabilmente decise di sfruttare l’appezzamento a sua disposizione stretto e profondo e di rea-lizzare una nuova abitazione così come la vediamo oggi, abbat-

19 La famiglia Creux viveva oltre il villaggio di Chenchere ad Issime, ed apparteneva linguisticamente, assieme ai Gris e Rolland che vivevano in quel villaggio (fino al XVIII secolo), al gruppo francofono di Fontainemore.

20 L’ultima discendente di questo ramo vissuta ad Issime fu Antonietta Freppa - Tuaŝchisch Tunni (1908-1989) madre di Giovanna Nicco. Men-tre Cristina e Augusto Freppa, sono gli ultimi viventi, residenti ad Aosta, che portano il cognome Freppa (Tuaŝchisch) come discendenti del tailleur.

Il notaio Jean-Blaise-Aimé Linty z’Avukatsch (1809-1882) (proprietà Guido Pession)

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Le piazze storiche rappresentano i luoghi privilegiati per lo stu-dio dello sviluppo di un determinato centro, non solamente dal punto di vista dell’abitato ma anche da quello sociale, econo-mico, funzionale e rituale. Storicamente la piazza è definibile come uno spazio d’uso pubblico e di significativa qualità archi-tettonica, centro di convergenza o baricentro di un determinato territorio. A proposito di spazio pubblico cito quanto ha scritto Roberto Bertolin sulla piazza di Issime “Vi erano, per contro, diversi “luoghi pubblici” ove si era soliti celebrare liturgie lai-che. Uno di questi era rappresentato dalla chiesa, dove vennero ad esempio concesse alcune delle carte di franchigia. Vi era poi la piazza della chiesa, nella quale si distingueva lo spazio “ante portam ecclesie” da quello posto dinanzi al cancello del cimi-tero, dove il mestral pubblicava le grida dei signori temporali. Molto utilizzati erano poi il “prato della chiesa” e il “rascard della casa parrocchiale”. Anche la giustizia era amministrata nei pressi della chiesa, in un luogo non identificabile con pre-cisione; nel XVI secolo il tribunale risulterà collocato in uno spiazzo nei pressi della casa degli eredi di Ludovico de Closo, e si riunirà talvolta all’interno della casa stessa in caso di mal-tempo” (Augusta 2014). Il rascard a fianco della chiesa è citato in diversi documenti fino al XVII secolo, fra i quali uno del 25 marzo 1473 in cui la comunità si riunisce ‘ante rascardum curie dicti loci Yssime’ per nominare i propri procuratori. È probabile che il rascard sorgesse dove fu realizzato all’inizio del Settecento l’edificio che ospitò gli uffici comunali al primo piano e locali della parrocchia all’ultimo23.La piazza di Issime ha radici storiche profonde, da un primo villaggio alpino, con la piccola chiesa in stile romanico, le case circondate da orti, giardini e granai, diventa a partire dalla fine

del 1888 “Désastres causés par les avalanches - L’année 1888 .... Issime St-Jacques - 2 mars: Au pied du vallon de Borines [è il villaggio del Praz superiore], une maison [la casa è quella dei Christillin Pietersch, oggi Girod] habitée par cinq personnes a été enveloppée par une avalanche. On s’en aperçut des habi-tations voisines. On sonna aussitôt le tocsin. On accourut. On délivra les cinq prisonniers; mais on dut laisser le bétail et les denrées au milieu des neiges. Une correspondance postérieure ajoute: Les grandes neiges ont fait sortir de leurs tanières les loups qu’on croyait disparus pour toujours de ces montagnes. En effet, le 6 mars courant, on entendit les hurlements d’un loup (lynx) non loin du village d’Issime-St-Jacques, du côté de la montagne. Vers les 7 h du même jour, quelques jeunes gens le virent à peu de distance des domiciles et ils auraient peut-être été attaqués, si Busso Benjamin, jeune homme qui n’a compté que sur son courage, ne l’avait mis en fuite”21.È giunto a noi anche il testamento di Jacques Freppa e della moglie Marie Creux, riporto in nota la parte relativa alle di-sposizioni per il funerale e riti religiosi22, fra questi una messa da celebrare nell’anno successivo alla sua morte, nella chiesa di Sant’Ulderico ad Ivrea, chiesa che si trova in via Palestro ormai quasi oltrepassata piazza di Città. L’epoca della fonda-zione della chiesa si può fissare a prima del 1000. I lavori di restauro del 1952 riportarono alla luce all’altare dell’Imma-colata, sotto il quadro di quest’ultima, opera del pittore otto-centesco Giovanni Stornone, un gran paio di forbici sovrastate da un’iscrizione dipinti sull’intonaco, era un altare dedicato al patrono dei sarti Sant’Omobono. Altare che fu eretto dalla Società dei sarti di Ivrea a cui probabilmente il nostro tailleur Jacques Freppa apparteneva.

21 Tratto da: P. L. VESCOZ, Phénomènes atmosphériques : souvenir des principales anomalies du temps observées en Vallée d’Aoste dans le cours du XIXe siècle : notes extraites de diverses publications, Aoste : Stevenin, 1918, pp. 37-38.

22 “Testament de discret Jacques et Marie jugaut Freppa, le 8 fevrier 1752. L’an 1752 et le jour huittieme de fevrier … discret Jacques de feu Jacques Freppa et honnête Marie sa femme fille de Pierre de Jacques Creux”, danno disposizione: “Ils ont en premier lieu ordonné la sépulture de leurs corps au vas et tombeau des ancêtres [La tomba dei Freppa all’interno della chiesa si trova sulla sinistra guardando l’altare maggiore, vicino all’altare del Rosario voluto dal parroco Jean-Angel Ronco, in prossimità del primo banco, banco in cui sedeva la famiglia Freppa Tuaŝchisch] du dit Freppa qu’est en la venerable église du présent lieu, et que le jour de leur respective sepulture soient pour chacun d’eux cellebré trois messes de Requiem l’une en chant et les autres à basse voix avec luminaire, offrandes, son de cloches, libera me et autres offices accoustumés de faire lorsqu’on enterre un bon chef de famille de cette paroisse. Item que le jour de leur ditte sépulture soit distribuée aux pauvres une aumone suffisante et raisonnable en pain, fromage et soupe de chatagnes et un diner à ceux qui les porteront à sepulture ou prendront autrement peÿne au tour de leurs cadavres. Item léguent l’offrande dominicale en pain et chandelles pendant l’an et jour suivant la coutume du présent lieu. Item ordonnent que dans l’an de leur déces soient cellebrées dans le couvent des Reverends péres capucins de Chattillon les devotes Messes de Monseigneur Sainct Gregoire et celles des cinq principalles plaÿes de Notre Seigneur Jesus Christ pour la retribution des quelles leguent la somme de 17 livres et demÿ pour chaque testateur, de quoÿ les heritiers bas nommés rapporteront quittance. Item ordonnent leur étre cellebré riere le present lieu le troisiéme, septiéme, trentiéme et anniversaire pour chaque testateur, ce dernier en chant et les autres à basse voix. Item le dit testateur ordonne que dans neuf ans apres son decés soit faite une neuvaine chaque trois ans au Sacré mont d’Oroppe, par une personne de la maison, s’il est possible, ou du moins par quelqu’autre et en faisant dire une messe au même lieu à chaque neuvaine. Item le dit testateur ordonne luÿ ètre cellebré dans cinq ans apres son decés cinq messes à l’autel privillegié pour les ames du pourgatoire qu’est dans la venerables église des reverends pères conventuels de Sainct Francois en la cité d’Aoste. Item le dit testateur légue aux venerables Confreries du très Sainct Sacrement, Sainct Rosaire et Sainct Carme ésquelle il a le bonheur d’être aggregé, et erigées en la venerable église du present lieu la somme de 20 livres, de 20 sols pièce bonne monnoÿe courante paÿables dans trois ans apres son decés. Item at la ditte contestatrice legué à la ditte venerable coufrerie du très sainct Sacrement de l’autel, la somme de 3 livres, moÿennant quoÿ prie les confrères et soeurs de la ditte compagnie d’assister en habit blanc à sa sepulture. Ce que tout ont legué pour le salut de leurs ames, et de celles de leurs ancêtres. Plus at le dit testateur ordonné luÿ être cellebré en la venerable église du present lieu une messe le jour de Sainct Jacques le Majeur, autre le jour de Sainct Antoine de Padouve, autre le jour des Saincts Anges Gardiens, qui écherront dans l’année de son decés, et ancore autre messe à l’honneur de Sainct Hommebon dans l’église de Sainct Adorÿ en la cite d’ÿvré, et ancor une messe pour chaque testateur en la venerable chapelle de notre Dames de Graces sur les Foures Dessus, tiers du plan du present lieu”.

23 Vedi I. REBOULAZ, Issime: la vieille cure – d’oaltun köiru, in “Augusta”, Issime 2008, pp.35-37.

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ereditata dalla storia, e pertanto nella prefi-gurazione del futuro sarebbe insensato sot-tovalutare l’importanza della simbologia custodita nella ‘attrazione del luogo’.A questo proposito riporto il testo dello studioso di origine tedesche Albert Schott24 pubblicato nel volume Die deutschen Co-lonien in Piemont (1842), che visitò Issime alla fine di luglio del 1839, e che albergò proprio nella casa di Mathieu Christillin Loeisch-Mattisch, ospite del notaio e av-vocato25 Louis Christillin (1776-1859), nipote di Mathieu. Il brano dà un’immagi-ne della ‘piazza’ di quel periodo, in parte ancora vicina all’oggi: “Finita la messa, il notaio e oste Cristalin rientrò a casa e io trovai nella Stube al piano alto, fresca e con vista sulla piazza della chiesa, un pia-cevolissimo ristoro dalle ore più calde del giorno. Mi misi ad osservare prima il pae-saggio alpino che mi circondava e che era ben visibile dal balcone, e poi i numerosi gruppi di paesani che si formavano prima di rientrare nelle loro case nelle diverse frazioni. Mi mischiai fra loro per osservar-ne il costume, l’aspetto e per ascoltarne la lingua. Di queste cose parlerò poi meglio dopo, della lingua comincio però ad anti-cipare che del dialetto “silvano” [dialetto tedesco] non capii una singola sillaba in quanto molto distante dall’alemannico al quale ero abituato, perché la scuola è fran-cese e perché i traffici degli issimesi non sono rivolti verso Germania e Svizzera. E così ho dovuto parlare francese con la gen-te. Tanto più divenni curioso di conoscere il silvano attraverso l’unico mezzo che mi era possibile, e cioè la traduzione, che il mio gentile oste si offrì di tradurre la pa-

rabola del figlio prodigo nella lingua del suo paese. L’impres-sione che mi hanno fatto le sue prime parole è stata vivissima, poiché, dopo le prime esperienze fatte non potevo aspettarmi di sentire una parlata influenzata dal tedesco “libresco”, né dal-lo svizzero tedesco. Nel paragrafo sulla lingua riporto il lavoro fatto da Cristalin con l’aiuto di due avventori, due muratori seri e amichevoli del paese. Mi ritorna sempre in mente la fe-lice sorpresa che provai dopo aver sentito le prime parole di Cristalin: “ę mâ hęgg’hèbbę zuèi chinn”, che dimostravano quanto i Silvani parlassero un dialetto non solo molto partico-lare, ma anche schiettamente tedesco.”26

del Seicento centro pulsante della vita pubblica, civile e reli-giosa con le case dei notabili che si costituiscono in un unico quadro d’insieme a costituire il perimetro della piazza con la nuova chiesa barocca come elemento architettonico dominan-te. Mentre l’antica dimora dei nobili Biolley, che fu dei Baron de Vallaise, una sorta di quinta di scena della piazza con il giardino che affaccia sulla stessa, è rimasta immutata nella sua organizzazione originale, vestigia medievale. Nella piazza di Issime si è sedimentata non solo una struttura fisica dello spa-zio sociale costruito, ma anche una costellazione immateriale di valori culturali e di simboli collettivi. Una eredità culturale

24 Albert Lucian Constans Schott (nato nel 1809 a Stoccarda , † a Stoccarda nel 1847) filologo e antropologo, insegnò presso la Scuola cantonale (Gymnasium) di Zurigo dal 1830 al 1840. È stato un pioniere della ricerca sui Walser meridionali.

25 Un tempo poteva succedere che le attività commerciali, come quella di una osteria o di una tabaccheria, fossero esercitate da persone che nella vita professionale svolgevano incarichi pubblici, o comunque che avessero disponibilità economica, il denaro scarseggiava ed era di pochi. Questo avveniva soprattutto quando ci si ritirava dalla vita professionale, non esisteva infatti il sistema pensionistico.

26 Il testo è stato tradotto in italiano dall’originale da Silvia Dal Negro: A. SCHOTT, Die deutschen Colonien in Piemont, ihr Land, ihre Mundart und Herkunft. Ein Beitrag zur Geschichte der Alpen, Cotta’scher Verlag, Stuttgart/Tübingen 1842, pp. 12-13.

Il notaio Jean-Blaise-Aimé Linty z’Avukatsch e la moglie Marie-Françoise Alby Griffisch (proprietà Guido Pession)

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Gressoney 1377: la rosaUn altro nome generico indicante un ghiacciaio è utilizzato an-che in altri luoghi sul versante meridionale del Monte Rosa.In un documento del 13771 tra i confini dell’alpe Orsia (Gres-soney), oltre alla sommità e alla creste delle montagne (sum-mitatium montium, crista montium) è citato il riale de Zaval2 che esce de la rosa (ASCGr, Consorteria di Orsia, f. O/1). Nel documento compare per la prima volta la voce rosa. Il nome, scritto in minuscolo nel documento3, non è ancora un nome proprio, è soltanto un nome comune indicante un ghiacciaio da cui esce un ruscello.Il documento è importante anche per chiarire definitivamente l’etimologia della voce rosa. beccaria (1774) sosteneva che il nome derivava dalla disposizione dei picchi che ricordava la corolla di una rosa. Fino dalla fine del Settecento il de saussu-re (1779-1796) aveva però notato, parlando del ghiacciaio Rui-ze de Miage, che “dans la Vallée d’Aoste on donne aux glaciers le nom de Ruize”. Nonostante questa osservazione la disputa seguì anche altre strade. EGLi (1880) negava in modo assoluto la derivazione dal colore rosa, proposta da alcuni Autori, e so-steneva che derivasse dal celtico ros, parola che sopravviveva nel bretone e nel gallico con il significato di picco, corno. L’i-potesi fu ripresa, senza citare la fonte, dal richter (1883) e criticata da FreshfieLD, che continuava a sostenere che il nome derivasse dal colore assunto dalle vette al crepuscolo.Tra fine Ottocento e inizio Novecento, baretti (1880), mar-teLLi (1886), Tonetti (1891) e cooLiDGe (1912) proposero un’origine etimologica che accoglieva la segnalazione del de Saussure. Martelli ricordava che l’appellativo, variamente pro-nunciato nei diversi gerghi locali, roesa, roise, ruiza nel dia-letto valdostano significavano ghiacciaio, o meglio i pianori del ghiacciaio. L’autore segnalava anche i diminutivi Roisetta o Ruistetta e gli accrescitivi Roesazza o Roisazza. L’ipotesi fu poi condivisa da Guarnerio (1916), a cui alcune fonti attribui-scono il merito di aver dimostrato “che il nome del Monte Rosa non ha nulla a che fare col nome del colore rosa, ma rispecchia una forma preromanza che vive nei dialetti franco-provenzali sotto le forme ruise, ruiza, reuse, rosa col senso di ghiacciaio” (taGLiavini, 1934). Successivamente henry (1938) estese l’elenco delle voci dia-lettali utilizzate per designare i ghiacciai: roése, roesy, reuse, ruise, ruiz, roise, royse, roysy, ruse, ruje, rosa, rose.

Le creste e le cime delle montagne prima dell’arrivo di topografi e alpinisti non avevano nome. Face-vano eccezione a questa regola le montagne che costituivano un punto di riferimento locale o re-gionale. Il Monte Rosa, visibile da tutto il settore

centro-occidentale della Pianura Padana, era una di queste ec-cezioni. In un lavoro dedicato proprio al nome del Monte Rosa, il geografo e alpinista americano William Coolidge ad inizio Novecento scriveva: “Più studio le vecchie carte delle Alpi o gli scritti degli antichi topografi, più mi accorgo con un certo stu-pore quanto mostrino di ignorare persino le più importanti vette della catena alpina; o tutt’al più le indichino tanto vagamente da poterle individuare con precisione. Sono invece convinto che gli archivi locali sono suscettibili di offrirci, se un giorno li andremo a scandagliare, un’infinità di notizie sulla storia delle cime che li sovrastano. Fino ad oggi tuttavia questi archivi, così preziosi per la topografia storica delle Alpi, non sono stati anco-ra opportunamente esplorati”. A distanza di cento anni dalla sua formulazione, questo lavoro cerca di assolvere al suggerimen-to di Coolidge. Per raggiungere questo obiettivo la ricerca si è concentrata sull’analisi dei confini dell’ultimo luogo utilizzato dall’uomo, l’alpeggio, attraverso lo studio della documentazio-ne medievale.

MacuGnaGa 999: in glaciaNel più antico documento riguardante la regione del Monte Rosa, la permuta di beni tra la chiesa di S. Pietro di Brebbia e l’abbazia di S. Salvatore di Arona del 22 giugno 999, la regione confinante con le alpi della valle Anzasca viene semplicemente indicata come in glacia (bianchetti, 1878).In un documento del 1423 tra i confini delle alpi Pedriola e Rosareccia (Macugnaga) compare il culminis Giaziarii (rizzi, 2006). Tra i confini di queste alpi in un documento del 1451 compaiono nuovamente i ghiacciai (bertamini, 2005). In un altro documento del 1457, tra i confini delle alpi di Macugnaga, compare ancora una cima glazarii (bertamini, 2005).In una lettera del 1556 il cardinale Madruzzo scriveva anco-ra che l’Anza nasce da una montagna di giazzo (bianchetti, 1878). Nella relazione del Cesati, delegato del Magistrato del-le regie entrate del governo di Milano del 26 dicembre 1651, veniva citata ancora la montagna del Giacciaro (bertamini, 2005).

Il nome della RosaLe origini medievali dell’antico nome del Monte Rosa

roBerto Fantoni

1 Il documento è riportato, senza commenti, in una traduzione italiana di favre (1977).2 Chaval nella traduzione francese allegata al documento conservato nell’archivio di Gressoney e nella traduzione italiana di favre (1977) (“il fiumicello di Chaval che esce dalla Rosa”). Chaval è una delle frazioni più alte di Gressoney; il ‘riale’ (ruscello) prendeva probabilmente il nome dalla frazione.3 Nella traduzione settecentesca francese e in quella italiana di favre (1977) il nome compare in maiuscolo.

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zione di simili disastri, Simon Tubinger citava la rosa; l’ingegner Giacomo Soldati, il funzionario incaricato dal Duca di Savoia di redigere una relazione sul lago di Rutor, scriveva in una relazio-ne del 1596, che “tanta gran massa di neve congelata, nomi-nata da li paesani rosa”, aveva sbarrato il canale che mantene-va il livello del lago; e più avanti precisava che “la ditta Rosa ha lasciato una bocca larga tre trabucchi” (baretti, 1880).La voce è infine presente in una serie di istruzioni ufficiali re-datte nel 1688 dal governatore della val d’Aosta sui provvedi-menti da adottare per evitare invasioni dei Vallesani attraverso il colle del Teodulo: “ai piedi della Royse verrà costruito uno sbarramento così da poter respingere tutti coloro che si avven-turassero a voler valicare la Royse” (vaccarone, 1884).

alaGna 1420: nevallumPochi decenni dopo ad Alagna compariva una voce simile a quella usata a Macugnaga e Gressoney per definire il confine superiore degli alpeggi. Nel processo informativo del 1420 per riconoscere i beni della Mensa vescovile di Novara in Valsesia, erano nominate otto alpi con le relative coerenze; tra i confini dell’alpe Auria compariva un generico nevallum (fantoni e fantoni, 1995).Anche ad Alagna, come a Macugnaga e a Gressoney, il confine superiore degli alpeggi era individuato soltanto con un termine che specificava le condizioni permanentemente innevate del-le montagne. Un termine equivalente (gletscher) era citato nel 1574 da Simler anche per il lato vallesano del monte.

alaGna 1413: lo biossonNello stesso periodo però, in altri atti riguardanti le alpi ap-partenenti al vescovo di Novara poste sul versante valsesia-no della montagna, comparve per la prima volta un toponimo specifico. In un documento del 1411 relativo alla cessione dell’alpe Bors veniva citato un toponimo apparentemente in-comprensibile, il crossuz sue flura de croso Biossuz. Ma altri documenti degli anni immediatamente successivi restituisco-no piena comprensione alla voce Biossuz. Un documento del 1413 relativo all’alpe Auria specificava in dettaglio i confini dell’alpe, costituiti dall’alpe Bors, attraverso l’acqua del Sesia, dalla colma Machugnaghe, e da lo Biosson. In un altro docu-mento dell’anno successivo lo stesso toponimo (lo Biosson) era usato anche per identificare il confine settentrionale dell’al-pe Bors, ubicata sull’altro lato del Sesia rispetto all’alpe Auria (rizzi, 1983). Negli stessi anni dai notai della Curia novarese era utilizzato il toponimo generico nevallum, descrittivo delle condizioni permanentemente innevate delle montagne a nord dell’alpe. Altri notai locali utilizzavano un toponimo con un nome singolare: Biosson. I notai valsesiani continuarono ad usare toponimi simili anche nei secoli successivi. Il Bioso compare confine di un fondo in un documento del 1553 e in un atto relativo al pagamento di un affitto del 1564 compare ancora tra i confini delle alpi di Alagna il mons appellatus il Boso (fantoni, 2008).

I noMI del Monte rosaIl nome valsesiano era utilizzato anche dagli eruditi rinasci-mentali. Pietro Azario nel 1365 cita una Montanea Boxeni, Flavio Biondo nel 1451 un monte chiamato Boso e Leandro Alberti nel 1550 il Monte Boso. Anche Leonardo, nella sezione

La derivazione di rosa dalle voci del patois valdostano roisa, ruiza, roeza con il significato di ghiacciaio è confermata nel Dizionario di toponomastica da Queirazza et alii (1990), che ne ipotizza un’origine prelatina, ed è attualmente accettata in modo concorde in bibliografia (ad esempio da aLipranDi e aLipranDi, 2007) Le forme citate in letteratura sono però assenti nel dizionario on line del patois valdostano alla voce ghiacciaio, dove com-paiono invece le forme djachéi, djassoi, glasé, guiahì, guiahìn, guiaséi; guiasi, guiatsé, guiatsì, iatsé, llaché, llachéi, llachì, llachì, llachì, llachì, llahié e llassé. Solo a Champorcher e ad Ayas compaiono rispettivamente le voci roizi e rouja (www.patoisvda.org).Raffaella Lucianaz e Daniel Fusinaz (Guichet Linguistique della Regione Valle d’Aosta) confermano l’assenza di queste voci, che ritengono forme arcaiche sostituite recentemente dalle quelle attestate nel dizionario (comunicazioni personali, maggio 2015). Negli attuali gerghi franco-provenzali la voce è quindi scomparsa, ma la rosa è un fossile che risulta am-piamente conservato nella toponomastica dell’intera regione di cui rimangono anche numerosi attestazioni documentarie. henry (1938, p. 41) segnala i toponimi Roise de Banque (Rosa dei Banchi, 3163 m) a Champorcher; Comba de la Roesa a Challand; Mont Roisetta o Roesetta (3321 m) a Valtournan-che; la Roisetta, piccolo ghiacciaio (3320 m) a NE di Point de Champ; il Plateau Rosaz e il Plan Rosaz al colle del Teodulo; l’alpe de Resy (2066 m) e il Palon de Resy (2676 m) ad Ayas; la tete des Roéses a Bionaz (3233 m); le punte Grand Roise (3354 m) e Petit Roise (3253 m) a Saint Marcel. La voce sembra essere estesa anche alla microtoponomastica delle zone glacio-nevate. Ad Issime è ad esempio presente il toponimo Roseritz, assegnato ad un piccolo alpeggio in cui fino a qualche anno fa era presente un piccolo nevaio persistente anche nella stagione estiva.La voce rosa compare in numerosi documenti valdostani in-dicanti un ghiacciaio. Una forma analoga a quella utilizzata a Gressoney si trova alcuni anni dopo in un documento di Bionaz (1468) in cui è citata aqua descendent et labens de la Roesy de Cresta Sechy (il ghiacciaio di Crete Sèche). In un documento del 1474 è citata la Roysie de Miage (henry, 1938). Ricorre poi nella corrispondenza seguita alla inondazione dovuta alla rottu-ra dello sbarramento di ghiaccio del lago di Rutor avvenuta nel 1595. In un proposta di lavori, allegata alla supplica del 1596 al Duca d’Aosta per prendere provvedimenti per evitare la ripeti-

Documento del 1377 con la citazione de la rosa a Gressoney

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prima metà del Settecento i due nomi comparivano ancora af-fiancati. Ma dalla metà del Settecento il Monboso scomparve definitivamente anche dalle carte geografiche e per tutti rimase un solo nome: Monte Rosa

RigraziamentiSi ringraziano Raffaella Lucianaz e Daniel Fusinaz del Bure-au pour l’ethnologie et la linguistique (BREL) di Aosta per le informazioni sulla voce ghiacciaio nel patois aostano; Valeria del Centro Culturale Walser di Gressoney per la collaborazione nella ricerca bibliografica e documentaria e il comune di Gres-soney per la riproduzione del documento del 1377; Michele Musso per la segnalazione dl toponimo Roseritz a Issime.

Il testo è tratto da un articolo (I nomi del Monte Rosa) pubblica-to negli atti del convegno I nomi delle montagne prima di car-tografi e alpinisti (Valsesia e Milano; 16, 24-25 ottobre 2015), a cui si rimanda per i riferimenti bibliografici e archivistici. Gli atti sono scaricabili dal sito www.nomidellemontagne.it.

intitolata “Del colore dell’aria” del Codice Leicester, nel 1508, utilizza lo stesso toponimo, scrivendo: E questo vedrà come vid’io, chi andrà sopra Momboso, giogo dell’Alpi che dividono la Francia dalla Italia. Nel Seicento il termine venne utilizzato anche in tutte le opere lessicografiche pubblicate in Europa (da Filippo Ferrari a Milano nel 1627, da Johan Jakob Hoffman a Basilea nel 1677, dal Baudrand a Parigi nel 1681, da Thomas Corneille a Parigi nel 1708). I notai valsesiani, il milanese Le-onardo, gli eruditi rinascimentali italiani e i redattori dei dizio-nari enciclopedici europei utilizzavano tra Trecento e Seicento un solo toponimo: Monboso.Nel Cinquecento fece la sua comparsa nella cartografia geogra-fica anche un toponimo che trasformò il nome generico rosa nel nome proprio Monte Rosa. La voce comparve per la pri-ma volta nella carta del Ducato di Milano (realizzata nel 1560 dal milanese Giovanni Giorgio Settala ed inserita dal 1570 nell’Atlante di Abramo Ortelio) come M. Rosio.Per un paio di secoli nella cartografia europea il Monboso continuò a competere con il Monte Rosa. In alcune carte della

Monte Rosa, Ghiacciaio del Lys - Gressoney-La-Trinité, Sant’Anna, 19 settembre 2016, gregge in discesa verso Sitten. (foto Roberto Cilenti)

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SEMpRE A pRopoSIto DEL NoME DEL MoNtE RoSA

In margine allo studio di Roberto Fantoni sul nome del Monte Rosa, vogliamo segnalare che, se pur non in epoca me-dievale, un altro curioso toponimo è stato attribuito alla montagna e cioè Gran Giazzaro.In uno scritto rimasto inedito sulla storia della Valle Anzasca, del notaio Jacopo Gorrino di Vanzone, della seconda

metà del ‘700, un capitolo di detta storia era intitolato Del Gran Giazzaro volgarmente detto la Rosa d’Italia, facendo chiaro riferimento al Monte Rosa. Questa notizia si trova in una pubblicazione di Pier Enea Quarnerio dal titolo Intorno al nome del Monte Rosa (divagazione alpina di un linguista), Athenaeum, Pavia, ottobre 1916, pp 1-16. L’estratto è stato da noi consultato presso la Biblioteca Nazionale del Club Alpino Italiano a Torino.La denominazione Gran Giazzaro non sarà più ripetuta in letteratura, per quanto ci risulta, tuttavia Enrico Bianchetti nel suo testo L’Ossola inferiore del 1878, nel vol. II a pag. 497, riferisce che il cardinale Madruzzo in una lettera del 1556 scrive che il torrente Anza discende da una montagna di giazzo e in realtà il nome del Monte Rosa è sempre stato legato all’idea del ghiaccio (gletscher, ruise, roesa ecc.).

laura e giorgio aliPrandi

All’Archivio di Stato di Parma è conservata una “enorme, bellissima carta manoscritta in sei fogli” secondo il giu-dizio di Roberto Almagià come riportato nel suo testo “Monumenta Italiae Cartographica”, Firenze 1929 (p. 59). La carta è della prima metà del Seicento, e comprende tutta l’Italia settentrionale, ed è stata da noi consultata più di venti anni fa. Nel particolare del foglio VI, che illustra l’alto Piemonte e la regione alpina, dalle sorgenti del Sesia sino al lago dei Quattro Cantoni, accanto al S. Bernardo è indicato il M. Rosio Il più alto d’Italia.

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lei che spiegava a me, ‘torinese’, quella città, ed io la contrac-cambiavo per quanto riguarda Issime! Mi parlava in piemon-tese, ed a volte intercalava in töitschu. Sì lei aveva un piede ad Issime, ma il resto era in giro per il mondo. Sarà capitato a molti di sentirsi dire, quando la si chiamava al telefono: “oggi sono a Parigi, o a Nuova Delhi o in qualsiasi altra parte”. Se guardava un evento in televisione, soprattutto sportivo, tra-smesso da qualche parte del mondo, subito tirava fuori dalla sua libreria, libro e cartina di quel luogo e iniziava la lettura. Entusiasta quando andò nel 1979 in Perù, come la vediamo al mercato di Pisac nella foto qui pubblicata. Consapevole che nulla ci portiamo nella tomba, Giò era desiderosa di trasmet-tere ciò che conosceva della storia e della cultura di Issime e Gaby (il padre era di Gaby). A questo proposito recentemente era riuscita ad acquistare da un cugino un bel ritratto di un suo trisavolo Jean-Lin Christillin z’Loeisch-Mattisch (1785-1853) che fu sindaco di Issime, colui che acquistò la casa dei nobili Biolley nel Capoluogo intorno al 1835. Era il padre di Marie-Christine-Victoire Christillin (1825-1895), la bisnonna di Giò. Era contenta, probabilmente sarebbe andato perduto, disse: “fatto, continuerà a rimanere ad Issime”.Chi non ricorda il suo ‘salotto issimese’, l’oratoire come qual-cuno lo definiva scherzosamente, dan hof il cortile davanti alla sua casa di Issime, sempre aperto a tutti, ritrovo abituale dei pomeriggi estivi. L’associazione Augusta è a lei grata, molte delle informazioni su Issime utilizzate nelle pubblicazioni han-no un marchio inconfondibile, quello di Giò. Ci hai lasciato il 14 dicembre del 2015, eh sì ci manchi!

Ricordare Giò, una personalità poliedrica, sfac-cettata, di carattere aperto, ma allo stesso tempo chiuso e riservato, è impresa non facile. Ho avu-to la gioia di conoscerla … sì un diamante sfac-cettato. È stata certamente una donna moderna,

con l’accezione di oggi, ha studiato a Torino all’Istituto Tec-nico Commerciale Sommeiller diplomandosi come ragioniera, ha lavorato all’Olivetti di Ivrea, città dove ha vissuto. Con gli amici e i colleghi ha condiviso le ansie di giustizia e di pace, ha partecipato alle lotte sindacali, è stata comunista, poi radicale, ma mai estremista, sempre critica a qualsiasi estremismo. Chi la sentiva periodicamente sapeva che al mattino e alle 17.00 era collegata a Radio Radicale con il suo amico Marco Pannella, scomparso anche lui pochi mesi dopo la morte di Giò, a quell’o-ra Giò non era disponibile! Le sue idee politiche, sempre vissu-te con passione, le possiamo racchiudere in una frase: ‘portare la speranza nel sociale’. Il suo motto, preso da Dante “nati non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”, lo ripeteva in farsetto, in una maniera tutta sua, la gioia di co-noscere ed informarsi. Sempre critica, e aperta al confronto, a volte anche acceso, per fortuna, consapevole della ricchezza dello scambio delle idee. I suoi consigli sempre utili e preziosi.Lucida, sobria e obiettiva nel dare un suo pensiero ed opinione su un fatto accaduto, mai inquinato da idee preconcette o pre-giudizi, o da altre finalità, dote rara! Sì lucida, sobria e obiet-tiva anche nell’affrontare la sofferenza, così come negli ultimi mesi della sua vita.Amava Torino, ne conosceva la storia, ogni angolo e via, era

IN MEMoRIAM

Giovanna Nicco (1938 - 2015)

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L’associazione Augusta vuole ricordare Maria Stévenin ved. Linty, conosciuta ad Issime come Vitorsch Maréji, scomparsa lo scorso 30 novembre 2015 all’età di 98 anni. Con lei si è chiuso un prezioso libro di storia, scrigno

di conoscenze della cultura del suo paese Issime/Gaby. Nata il 4 agosto del 1917 ad Issime al villaggio del Praz, figlia di Stéve-nin Vittorio (1859-1938) figlio a sua volta di Stévenin Vittorio, della famiglia chiamata Pitou Djoan originari di Gaby e stabi-litisi ad Issime, e di una Chamonal di Issime; la madre Louise Stévenin (1897-1978), anch’essa della famiglia dei Pitou Djo-an proveniva da Gaby, chiamati ad Issime Dŝchannetsch, Dja-net a Gaby. Maria imparò il töitschu dal padre che era bilingue, e come dice Maria: “In casa si parlava il patois di Gaby, mentre in campagna con il papà si parlava töitschu”. La sua testimo-nianza non è passata inosservata all’associazione Augusta, con lei abbiamo raccolto moltissimi vocaboli delle due parlate, del töitschu e del patois, abbiamo raccolto i toponimi del Vallone di Bourinnes, dove lavorò per anni nell’alpeggio di famiglia, e quelli dei villaggi del Praz e di Champrion e abbiamo raccolto molte storie e leggende, tutte pubblicate. Nonché innumerevoli registrazioni multilingue su svariati argomenti. Molti contribu-ti comparsi sulla rivista Augusta sono stati scritti anche grazie a lei. Ma con lei abbiamo anche condiviso il dolore per la perdita prematura dell’unico figlio che non scordava mai di ricordare tutte le volte che l’abbiamo incontrata. Anche in questo caso la sua testimonianza di vita, affrontata con dignità e compo-stezza se pur nel dolore incolmabile, ci ha dato la possibilità di riflettere su come la vita vada vissuta non centrata su di sè ma donata per quanto possibile.Siamo debitori di un prezioso retaggio che, grazie alla sua disponibilità a volerlo trasmettere, non è andato perduto. La vogliamo ricordare anche per la sua simpatia e straordinaria ac-coglienza che ci ha sempre riservato. Grazie Maria – Mercéi!!!

Maria Stévenin (1917-2015)

IN MEMoRIAM

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