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Matilde di Canossa

Matilde di Canossa. - (n. 1046 - m. 1115) Figlia di Bonifacio, marchese di Toscana, e della contessa Beatrice di Lotaringia. Sposa di Goffredo il Gobbo (1069), duca di Lorena, poi risposatasi, per motivi politici, con Guelfo V di Baviera (1089); visse nel periodo più acuto della lotta delle investiture, e fu la più valida sostenitrice della politica papale.

Il suo dominio si estendeva soprattutto nell'Italia settentrionale., con i comitati di Brescia, Bergamo,Mantova, e nell'Italia centrale. con Arezzo, Siena, Corneto; inoltre aveva beni in Lorena. L'episodio culminate del duello tra la Chiesa e l'Impero, l'umiliazione di Enrico IV di fronte al pontefice Gregorio VII ( 157° papa eletto nel 1073 ), avvenne nel 1077 nel castello di Canossa, di proprietà della contessa. Più tardi, nel 1081, Enrico depose Matilde. da ogni suo diritto e l'anno seguente le tolse quasi tutti i beni. Ma ella continuò a inviare aiuti a papa Gregorio assediato in Roma, e anche dopo la morte del papa, malgrado sconfitte e persecuzioni, resistette a Canossa, riuscendo, prima della sua morte, a veder molto migliorate le condizioni del suo partito.

Fu sepolta nella badia di S. Benedetto di Polirone; in S. Pietro a Roma le fu innalzato, nel sec. 17º, un monumento grandioso (opera di G. L. Bernini) e fu intitolata a lei la cappella privata del pontefice (con affreschi di Romanelli).

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Lasciando parte dei suoi beni in eredità alla Chiesa, diede motivo a una lunga disputa tra i papi e gli imperatori, dato che questi ultimi ne rivendicavano il possesso come superiori feudali e i primi si rifacevano al testamento della contessa. Una biografia celebrativa di Matilde. è quella trasmessaci da Donizone (tra altri codici, notevolissimo per miniature quello conservato nella Biblioteca Vaticana)

Molto controversa appare la figura della contessa Matilde a seconda che si legga la cronaca di Donizone o quella dei seguaci dell'Imperatore Enrico IV.

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È rimasto famoso nella storia il detto "andare a Canossa" che allude ad una sconfitta e ad una umiliazione in ricordo dell'attesa di Enrico IV fuori dalle mura del castello. Secondo la cronaca favorevole a Matilde, essa rappresenta una donna guerriera, l'eccezione alla regola secondo cui toccherebbe soltanto all'uomo il dovere o il privilegio di combattere. Secondo la cronaca a lei contraria, risulta la nemica implacabile che per tutta la vita si batté al fianco del papa italiano contro l'imperatore tedesco.

È spietata sul campo e astuta nell'intrigo, arrivando addirittura a sposarsi con un gobbo da giovane e, avanti negli anni, con un adolescente, soltanto per questa ragion di Stato. Il monaco Donizone, ossequioso biografo di corte, la descrive come lo specchio di ogni virtù: educata ai buoni costumi fin dall'infanzia, istruita tanto da parlare e scrivere correntemente il latino, il linguaggio dei Teutoni e la garrula lingua dei Franchi, ardita in guerra, saggia nel governare, generosa e devota alla causa di Dio.

Donizone si riferisce a Matilde di Canossa come “Filia Petri” e la descrive come ilare in volto, di mente lucida, capelli biondi tendenti al rosso e denti grandi e uguali. Nelle miniature della “Vita Mathildis” di Donizone la Contessa appare avvolta in splendide vesti azzurre e viola, ai piedi porta calzature appuntite di cuoio dorato. Per la parte imperiale, all'opposto, è scostumata e crudele.

È l'amante di papa Gregorio VII, che trascorre mesi nei castelli di lei, e giace anche con Anselmo, Vescovo di Lucca, suo direttore spirituale: senza contare nobili, cavalieri, e persino giullari. Sarebbe stata lei a far uccidere il primo marito, Goffredo il Gobbo suo fratellastro in modo infamante ed atroce.

La cronaca avversa sostiene che Corrado, figlio di Enrico IV, sia morto per ordine di Matilde avvelenato da Aviano, medico di corte e negromante.

Dalla madre Beatrice di Lorena e dal padre Bonifacio, salito di prepotenza in prepotenza fino ai più alti gradini della scala feudale, Matilde eredita terre e castelli dalla Toscana alla Lotaringia. Può controllare preziosi capisaldi strategici nel cuore stesso dell'Europa, ha un peso decisivo nella contesa tra il papato e l'impero e schierandosi per il primo attira la vendetta del secondo. Lino Lionello Ghirardini, lo storico che qualche anno fa propose alla Chiesa di aprire un processo canonico per proclamare la santità di Matilde, respinge l'accusa di concubinaggio col papa e col vescovo pur domandandosi come una donna bellissima e ardente come lei non cadesse in tentazione essendosi malmaritata a 23 anni con Goffredo III il Gobbo duca di Lorena e a 43 anni con Guelfo duca di Baviera che ne aveva appena 15.

Entrambi i matrimoni sono dettati dalla ragione di stato, l'unione con Guelfo in particolare: i due vivono infatti separati nei rispettivi domini.

Sembra che Matilde non sia mai andata in Baviera e sia stato Guelfo a venire talora in Italia. L'imperiosa contessa avrebbe imposto tanto al primo quanto al secondo marito la condizione del matrimonio casto.

Desiderio di Matilde è che le donne possano essere ammesse al sacerdozio. Gregorio VII le avrebbe allora promesso che, se avesse costruito cento chiese, sarebbe diventata sacerdote.

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Alla sua morte lascia tutti i suoi beni al papa anche se, fra tante battaglie che l'hanno vista vittoriosa, in quella per le sacerdotesse è stata sconfitta poiché muore a un passo dal traguardo, quando ha costruito novantanove chiese e non le manca che l'ultima.

Personaggio di primaria importanza nella storia del Medioevo europeo, Matilde di Canossa è forse la figura storica più interessante del Medioevo nelle terre intorno al Po. Nasce probabilmente a Mantova, dove il padre ha una reggia, poi è costretta a fuggire con la madre, Beatrice di Lorena, perché il padre, Bonifacio di Canossa, viene assassinato e muoiono misteriosamente un fratello ed una sorella.

La troviamo a Felonica, poi a Firenze, poi con la madre che si risposa con un vedovo, Goffredo il Barbuto, che ha un figlio, Goffredo il Gobbo, che viene promesso in sposo a Matilde stessa. Alla morte del patrigno, ella sposa il fratellastro in Lorena ed ha una bambina, Beatrice, che muore in fasce. Fugge dal marito e si rifugia dalla madre a Mantova e poi a Pisa, dove Beatrice muore nel 1076. Matilde eredita così un dominio che andava dal Lazio al Lago di Garda ed al delta del Po, ed era strategico sia per i pontefici, quando dovevano essere insediati a Roma, sia per gli imperatori, quando dovevano essere incoronati. Ella entra così nella lotta in corso tra impero e papato, giocandovi un ruolo prima di pacificatrice (anche perché era cugina di Enrico IV per parte di madre), come dimostra il famoso incontro di Canossa (28 gennaio 1077), poi di aperta sostenitrice del papato e della riforma della Chiesa. In questa scelta, ella mette in gioco i suoi poteri, in gran parte avuti per concessione dagli imperatori, ed il suo stesso dominio: dichiarata traditrice da Enrico IV, le si ribellano le città, ed anche i suoi possedimenti vengono invasi dalle truppe imperiali, restandole fedeli i castelli di Nogara nel Veronese, Piàdena nel Cremonese, Monteveglio nel Bolognese e Canossa nel Reggiano, come racconta il suo biografo, Donizone (Vita Mathildis, II,554).

Donna di potere, controcorrente, al centro di uno scontro epocale, Matilde di Canossa diviene oggetto d’esaltazione da una parte (chiamata figlia di Pietro, ancella del Signore) e di denigrazione dall’altra (accusata di essere una meretrice, amante di Gregorio VII). In questo gioca un ruolo fondamentale l’essere donna: a lei il diritto longobardo assicura l’ereditarietà dei domini, ma ella ha sempre bisogno di un uomo che la sostenga e garantisca (il mundoaldo); da ciò la necessità di risposarsi, con un nuovo matrimonio, anch’esso fallito, con un ragazzino (Guelfo di Baviera), da ciò la nomina di un figlio adottivo nel conte Guido Guerra; da ciò, infine, la resa al nuovo imperatore, Enrico V, con l’accordo di Bianello del 1111, nel quale le viene riconosciuto di nuovo il potere sulla parte dell’Italia settentrionale del dominio canossano, in cambio della nomina dell’imperatore a suo erede, per la nota parentela.

Così, solo alla fine della sua esistenza terrena, Matilde può dedicarsi alla preghiera ed alla meditazione religiosa, verso la quale era portata fin da giovane, ma dalla quale fu sconsigliata addirittura da Gregorio VII di dedicarsi, perché era più prezioso il suo ruolo politico e militare in difesa del papato. Morì a Bondanazzo di Reggiolo il 24 maggio 1115 e venne sepolta nell’amato monastero di San Benedetto Polirone, cluniacense, dove i monaci le eressero un adeguato sepolcro nella cappella di Santa Maria, con i noti mosaici, e la onorarono ogni anno con le loro preghiere.

Il suo ricordo, immortalato da un monaco di Canossa, Donizone, fu rafforzato con una pretesa donazione dei suoi beni alla Chiesa, e con una serie di leggende, anche popolari, che si diffusero fin dal basso Medioevo, e che, continuate sia a livello colto, che popolare sino ai giorni nostri, ne hanno fatto un personaggio mitico, non solo per le terre padane.

Ripercorrere la sua vita diviene così occasione per aprire una finestra su di un periodo cruciale della storia del Medioevo, e sugli uomini e sulle donne che vissero in quel tempo.

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“L’uomo pensa e propone, ma è Dio che al meglio dispone. Ho da poco composto un poema in due libri, che volevo inviare io stesso a Matilde, perché tratta il primo degli avi di lei, e il secondo è scritto in sua lode.

Evitai frivolezze, riportai solo ciò che provai esser vero. Ora mentre in letizia di cuore li rilegavo, giunse un messo con la notizia per me sconvolgente: la contessa Matilde è morta. Mi vennero meno improvvisamente le forze, il dolce torpore del sonno salì alle palpebre, un brivido corse lungo tutto il mio corpo, dalle mani mi cadde il codice a cui lavoravo”.

Così Donizone, nella sua Vita di Matilde di Canossa – che, in verità, egli aveva più opportunamente intitolato: "I Principi di Canossa", in quanto il suo poema tratta di tutta la storia di quella famiglia – racconta di come apprese la notizia della morte della contessa Matilde.

Egli era un monaco del monastero di Sant’Apollonio di Canossa, ma aveva dedicato molto tempo degli ultimi anni a scrivere le gesta di Matilde e dei suoi avi. Avrebbe voluto avere l’arte di Virgilio e l’eloquenza di Cicerone – come scrive ricorrendo ad un tipico espediente retorico: l’affettata modestia -, ma non era digiuno di lettere; aveva studiato alla scuola della cattedrale di Parma, conosceva i classici, la Bibbia e amava moltissimo l’oggetto del suo cantare. Per lui se Canossa era grande, lo era perché un giorno accogliendo insieme nel suo castello il papa e l’imperatore aveva fatto di una rupe sperduta una nuova Roma.

La morte di Matilde era un evento non inatteso, ma paventato e allontanato dal pensiero, nella ostinata speranza che Matilde potesse ancora vincere la malattia, come era accaduto l’anno prima a Montebaranzone, sull’Appennino Modenese.

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Il monaco aveva scritto il suo poema per lei, e per convincerla a farsi seppellire a Canossa, dove riposavano i suoi avi, e da poco n’erano state rinnovate le tombe.

La morte improvvisa – poiché è sempre improvvisa la morte di quelli che amiamo – veniva a troncare ogni piano, e Matilde, del resto, aveva già scelto dove essere sepolta: nell’abbazia di San Benedetto, tra il Po e il Lirone, che un suo avo aveva fondato.

Matilde soffriva – come ha diagnosticato uno storico che è anche medico – di gotta: era già stata costretta al letto per tutta l’estate del 1114, a Montebaranzone, e qualcuno aveva diffuso la voce della sua morte. Subito a Mantova la città insorse, rivendicando quella libertà che aveva goduto per oltre vent’anni, quando era passata dalla parte dell’imperatore Enrico IV. Per questo, quando si fu ripresa, la contessa scese in pianura e domò ancora una volta la città, nella quale probabilmente era nata e aveva trascorso la sua infanzia, e, perché la situazione non le sfuggisse di mano, decise di fermarsi in una corte rurale, a Bondeno.

Fu lì che si ammalò di nuovo, al giungere dell’inverno; ricevette l’omaggio di Ponzio, l’abate di Cluny, e fu lì che morì, a luglio avanzato, nella notte che precedeva la festa di San Giacomo, assistita dal vescovo di Reggio Emilia, Bonseniore, immaginiamo tra il pianto delle ancelle vicine e quello, lontano, dei contadini e dei servi

Matilde moriva, infatti, non in un castello munito di torri e circondato da mura e canali, né in un convento, tra il salmodiare delle monache oranti, e nemmeno in un sontuoso palazzo di una delle infide città che lei dominava, ma in una corte rurale, tra i campi d’orzo e di grano, ai bordi di un bosco di cui una parte era stata abbattuta e messa a coltura: un “ronco”. Così si designavano allora i campi strappati alla selva, che si stendeva a macchia su tutta la parte più bassa e più ricca d’acque del bacino del Po.

Le acque che scendevano libere dall’Appennino, o quelle di risorgiva, che zampillavano in pianura, si stemperavano nei punti in cui il declivio del terreno diveniva quasi impercettibile, in una miriade di corsi, che segnavano il terreno, formando confini naturali, dando il nome ai piccoli insediamenti che lambivano. Vicino alla corte nella quale Matilde morì scorreva uno di questi fiumiciattoli, il Bondeno, ed il suo nome era stato dato anche alla corte: Bondeno di Ròncore, perché si trovava in una zona da poco disboscata, e per distinguerla da altre località di nome Bondeno, anche allora presenti: il Bondeno degli Arduini, che ora gli storici hanno identificato con una località denominata Bondanello, nel Comune di Moglia; il Bondeno, frazione di Gonzaga; e Bondeno, ora Comune del Ferrarese. Il Bondeno di Ròncore, ove Matilde spirò, ora ha preso il nome di Bondanazzo, nel Comune di Reggiolo, assumendo il suffisso “-azzo” (-acium in latino), tipico degli insediamenti antichi lasciati decadere. C’è ancora una corte, rifatta nei secoli e ampliata, ed è lì che dicono Matilde sia morta, tra l’odore delle messi e lo scalpiccio notturno degli animali. Non dunque una corte sontuosa di ricchi signori, ma una corte rurale, un podere più grande, con al centro la casa del signore in pietra, ed accanto quella, più modesta per il massaro e la sua famiglia; più in là le baracche di legno e di fango essiccato coperte di paglia dei servi, i ripari per gli animali e gli attrezzi. Tutt’intorno il broletto, con le piante da frutta e l’orto, richiuso da una siepe di pali incrociati per difendere il raccolto dal cinghiale, sovrano in quell’ambiente selvoso, e dalla volpe che insidiava i pollai, ma anche da cervi e cerbiatti presenti in quei luoghi e dal lupo, stanziale nel Medioevo anche in pianura. La palizzata attorniava tutta quanta la corte, e si apriva soltanto sui campi e sulla strada in terra battuta, che su un dosso portava a Gonzaga. . Un sentiero, voluto dalla contessa Matilde, conduceva al monastero di San Benedetto, il prediletto dei molti cenobi che erano nei suoi territori, e che lei stessa aveva reso importante con le sue donazioni. A San Benedetto aveva pregato l’ultima volta, prima di farsi erigere una cappella in una stanza vicina a quella in cui giaceva malata. Era una cappella dedicata a San Giacomo, il santo dei pellegrini, e per quelle

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coincidenze che nel Medioevo non sono mai sentite come tali, ma caricate di significati simbolici, proprio nella notte che precedeva la festa del santo, Matilde spirò.

A San Benedetto aveva destinato di essere sepolta, per godere per sempre della preghiera dei monaci, che tenevano il suo nome, assieme a quello di tutti i suoi famigliari e dei loro benefattori nel libro dei vangeli sull’altare, e aspettare il suono della tromba di Josaphat. Ma la storia volle diversamente: Urbano VIII, che ammirava la figura della grande contessa, ne comperò nel 1632 le spoglie all’abate Andreasi, in un momento molto difficile per il monastero e per tutto il Mantovano, duramente provato dalla guerra del Monferrato e dalla peste.

Matilde bambina

Matilde era nata a Mantova nel 1046, dove il padre, Bonifacio, aveva fissato la sede della sua stirpe, con un sontuoso palazzo, e lì aveva trascorso la sua infanzia, anche se di lei sappiamo poco.

Innanzi tutto era un’infanzia popolata: accanto a lei c’erano il fratello Federico e la sorella Beatrice, nati probabilmente prima di lei.

Ci piacerebbe trovare segni di un rapporto intimo, di affetto, almeno tra la madre e le figlie, ma le fonti ce lo negano, come ci negano qualsiasi appiglio per immaginare l’infanzia di Matilde, in quella Mantova circondata dai laghi e dai boschi, ove gli inverni erano freddi e nevosi, come quando Simeone andando da San benedetto alla città, incontrò nel bosco un povero infreddolito per la grande nevicata e lo coprì con il suo mantello, giungendo al palazzo di Bonifacio scalzo e semi svestito, ma riscaldato del bene che aveva compiuto, imitando ciò che aveva fatto San Martino sulla porta della città di Amiens. Certo dovette essere una bimba molto particolare e diversa dalle sia pur nobili coetanee. Donizone sottolinea la sua conoscenza delle lingue: “ … ben conosce il linguaggio dei Teutoni e sa anche parlare la garrula lingua dei Franchi “, e non v’è dubbio che, a differenza della generalità delle nobildonne del suo tempo, ella sapeva leggere e scrivere e doveva conoscere e parlare perfettamente il latino, oltre che la lingua dei Longobardi. La sua educazione fu quindi molto curata.

Nella tormenta

Nel 1052 il padre, Bonifacio, veniva assassinato durante una battuta di caccia; la madre, Beatrice di Lorena, si trovava così sola a fronteggiare una situazione molto pericolosa. Chiunque fosse stato ad armare la mano assassina si riprometteva degli scopi che andavano al di là della persona di Bonifacio, e coinvolgevano necessariamente il suo dominio e la sua posizione politica; questi ora cadevano nelle mani di una donna con tre figli in giovane età. Fu così che ella cominciò ad appoggiarsi alla Chiesa, avviando un rapporto di collaborazione e sostegno reciproco tra i Canossa e i pontefici, che sarà decisivo per le sorti della dinastia negli anni seguenti. Questo rapporto, che era

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facilitato dal fatto che il papa Leone IX era zio di Beatrice, aveva come contropartita la restituzione da parte dei signori di Canossa dei beni sottratti alle chiese da parte di Bonifacio ed altri interventi a favore di canoniche e monasteri.

Ma le disgrazie non erano finite: il 17 dicembre 1053, trovandosi nei pressi del cimitero di S. Maria di Felonica, Beatrice dona al monastero, nel quale è abate Pietro, la chiesa di S. Maria di Badigusala (Raigusa, nel Bolognese), “per rimedio dell’anima di Bonifacio e dell’anima del figlio e della figlia mia”. Il documento non dice i nomi, ma doveva trattarsi di Federico e di Beatrice, fratello e sorella di Matilde, morti entrambi durante quell’anno, se non proprio a Felonica, poco prima che fosse redatto quell’atto – perché viene redatto nei pressi del cimitero? -; non è mancato chi, come lo storico della lotta per le investiture, Bonizone di Sutri, ha parlato di una morte voluta da qualcuno di cui non si sa, per mezzo di un “maleficio”: un avvelenamento, forse.

Con quale spirito Matilde, che aveva sette anni, assistette a questi avvenimenti, quale riflesso ne subì non è possibile saperlo; certo non dovettero sfuggirle gli sconvolgimenti di quegli anni, il passaggio da un’infanzia tranquilla, quale ella aveva vissuto fino alla morte del padre, ad una fanciullezza travagliata, con gli spostamenti della famiglia, le angosce di una situazione non sicura, il dolore per la morte del fratello e della sorella, con i quali è lecito pensare avesse comunità di vita, comunanza di giochi, complicità di pensieri.

Ma altri importanti cambiamenti l’attendevano nell’anno 1054: la madre aveva ormai compreso che non le sarebbe stato possibile continuare a governare da sola il suo dominio, e se fino a quando suo figlio era in vita era suo preciso dovere mantenerlo integro per assicurargliene la successione, ora che anche Federico era morto occorreva trovare una soluzione che desse sicurezza a lei ed all’unica figlia che le era rimasta, ed alla quale è da presumere – e qualche fonte ce ne fornisce il destro, come vedremo più avanti – si attaccasse sempre di più, in un rapporto di crescente affetto reciproco.

Il patrigno

Tra i parenti lorenesi di Beatrice spiccava per temperamento ed ambizione Goffredo, detto il Barbuto, anch’egli rimasto vedovo dal primo matrimonio. I due si unirono, non senza una certa diffidenza sia da parte dell’imperatore, Enrico III, che si vedeva minacciato dal grande potere che finiva nelle mani di Goffredo il Barbuto, che da parte del papa, per la consanguineità dei coniugi.

Quanto alla successione, il matrimonio politico tra i due comportò anche una definizione di quello che doveva stare maggiormente a cuore a Beatrice: la sorte del suo marchesato e della figlia Matilde. I due, infatti, si accordarono nella promessa matrimoniale tra la piccola figlia di Bonifacio, di appena otto anni, ed il figlio di Goffredo, Goffredo il Gobbo. In questo modo l’unione che si avviava con il matrimonio tra i due sarebbe continuata anche con i rispettivi figli, consolidando la dinastia ed il suo dominio, che in questo momento diveniva doppio, nel cuore del Regno Italico e nel cuore stesso dell’impero, con l’alta Lorena.

Il primo marito

Il matrimonio di Matilde con il fratellastro Goffredo il Gobbo era così già stato deciso da tempo. I due ragazzi si saranno probabilmente incontrati in più di un’occasione, ed è da presumere che abbiano anche giocato insieme, anche se nel pensare all’infanzia della nobiltà del Medioevo, dobbiamo riflettere ai limiti che il ruolo sociale e le convenzioni imponevano alla spontaneità infantile, ed all’influenza che gli ecclesiastici avevano nell’educazione dei fanciulli: un’influenza che, se nei nobili maschi era temperata dalla presenza di altre figure, come i maestri di arti marziali, di equitazione e così via, per le ragazze era quasi esclusiva. Ma la formalità dei rapporti aumentava

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col passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza, perciò sarà da cancellare nella nostra mente qualsiasi idea di fidanzamento tra i due: con la promessa fatta dai genitori, essi erano, in effetti, già uniti in matrimonio, per realizzare il quale non mancava che la maturità (ma per le ragazze non era nemmeno richiesta) e l’occasione propizia.

L’occasione non tardò a presentarsi, con la malattia del duca Goffredo il Barbuto, poi seguita dalla sua morte alla fine del 1069. Goffredo il Barbuto, malato, si rifugia nei suoi territori lorenesi, prima a Bouillon poi a Verdun; con l’aggravarsi della malattia dispone di farsi raggiungere da tutta la sua famiglia, nei due rami italiano e lorenese, e mentre sono presso di lui il figlio Goffredo e la figliastra Matilde fa celebrare le nozze, per poter vedere sistemata la sua successione nei due territori lorenese e tosco-padano, prima di morire, forse temendo che dopo la sua morte la promessa di matrimonio non venisse mantenuta. E non senza ragione. Dispone anche di far fondare due monasteri per realizzare un ordine di papa Alessandro II, che non aveva gradito il matrimonio dei due vedovi: in Lorena fu fondata l’abbazia d’Orval ed in Italia quella di Frassinoro. La vigilia di Natale del 1069 il marchese muore; il figlio Goffredo il Gobbo ne eredita le ricchezze ed il potere. E per consolidare la sua posizione si ferma in Lorena a controllare quei possessi e quelle giurisdizioni; così, mentre Beatrice ritorna in Italia ad occuparsi degli affari della sua casata, Matilde resta presso il marito. Nel corso del 1070 Matilde restò con ogni probabilità incinta, e l’evento ebbe risonanza anche negli ambienti imperiali; in un diploma di Enrico IV del 9 maggio 1071 si legge: “Se non ci sarà il duca (Goffredo), allora il figlio ereditario”. A quella data, dunque, si presupponeva che egli avrebbe avuto un erede, a meno che non si trattasse semplicemente di una formula notarile.

Il 29 agosto di quello stesso anno, la madre di Matilde, Beatrice, fonda il monastero di Frassinoro, nell’Appennino modenese, dotandolo di un notevole patrimonio, “per il bene della mia anima, di quella del defunto marchese e duca Bonifacio, un tempo mio marito, e per l’incolumità e l’anima di Matilde, diletta figlia mia, e per la grazia dell’anima del defunto duca Goffredo, mio marito, e per la grazia dell’anima della defunta Beatrice mia nipote”. Questa nipote, già defunta alla fine d’agosto del 1071 era figlia della figlia, Matilde, morta appena nata. Quanto Matilde abbia sofferto in quella circostanza lo si può capire dalla preoccupazione per la stessa incolumità della figlia che sentiva Beatrice mentre fondava Frassinoro. E’ un termine insolito in un documento medievale, che invece qui ritorna con insistenza, a testimoniare un’apprensione reale per la sorte di una figlia lontana in un ambiente che Beatrice stessa avrà sentito nella sua permanenza in Lorena ostile. Matilde in quel momento era in pericolo: in pericolo per la sua salute, per le probabili conseguenze di un parto difficile e sfortunato; in pericolo per non essere riuscita a dare al marito quell’erede che avrebbe garantito la continuazione della stirpe, e che era il compito principale di una moglie nel Medioevo, soprattutto nelle famiglie signorili. Un figlio ereditario che, come abbiamo visto nel documento imperiale, Goffredo il Gobbo dava per sicuro ancor prima che nascesse e sul quale contava. Matilde soffrì questo momento come uno dei più tremendi della sua vita e, appena le circostanze gliene offrirono la possibilità, fuggì via dal marito rifugiandosi presso la madre, con la quale la troviamo il 19 gennaio 1072, a Mantova. Dopo il ritorno di Matilde presso la madre, in Toscana, Goffredo aveva fatto di tutto per riconciliarsi con lei, ma senza successo. Era venuto in Italia nel 1072 con doni; aveva fatto persino intervenire il papa Gregorio VII in suo favore presso la contessa, ma l’atteggiamento di Matilde, nemmeno trentenne, fu molto fermo, addirittura rigido. Nel 1076 Goffredo veniva orribilmente assassinato, il 26 febbraio; il 18 aprile moriva anche la madre di Matilde, Beatrice.

Matilde aveva ora su di sé sola il peso del governo di un territorio vastissimo, su più nazioni, e di un ruolo politico assai delicato, nel momento più vivo del conflitto tra un imperatore al quale era legata da una stretta parentela, oltre che dagli obblighi di fedeltà propri del sistema vassallatico-beneficiario, ed un pontefice al quale era vicina non solo per figliolanza spirituale e per averne

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sposato gli ideali riformatori, ma per profondi sentimenti di sincero affetto, oltre che dalla necessità del reciproco sostegno.

L'incontro di Canossa (1077)

Rex rogat abbatem / Mathildim supplicat atque.

La lotta si era inasprita tra il 1075 e il 1076 prima con un sinodo quaresimale, nella quale il papa aveva accentuato l’illiceità delle ordinazioni simoniache e scomunicato tutti i vescovi investiti dall’imperatore. Era quindi seguita un sinodo a Worms dei vescovi tedeschi nella quale Enrico IV aveva fatto dichiarare Gregorio VII illegittimo, perché non eletto secondo le norme canoniche, che dal 1059 vietavano ogni ingerenza dei laici nell’elezione pontificia, ma per acclamazione popolare, quindi dai laici. Gregorio aveva risposto facendo, emanando il Dictatus Papae (del 1076 e non del 1075, come scrivono i manuali), e sulla base di esso scomunicando l’imperatore, che avrebbe dovuto presentarsi penitente ad Augusta per la festa della purificazione di Maria, il 2 febbraio 1077.

L’inverno tra il 1076 ed il 1077 fu uno dei più freddi del secolo.

All’inizio di dicembre Gregorio VII partiva da Roma, scortato dalle truppe di Matilde, alla volta di Augusta: era deciso a porre fine alla questione, ottenendo una penitenza da Enrico IV o, in caso contrario, l’elezione di un nuovo imperatore a lui fedele. Si trattava per lui di concludere una vicenda che non poteva protrarsi troppo a lungo, e non oltre un anno dall’anatema. Per la riconciliazione stavano probabilmente già lavorando l’abate Ugo di Cluny, legato sia al papato, per la stretta dipendenza del famoso monastero borgognone da Roma e per il suo indirizzo riformatore, sia all’impero per legami personali con Enrico IV (imperatore dal 1056 ), che tenne a battesimo, e Matilde di Canossa.

Nel suo viaggio verso la Germania Gregorio raccolse i suoi sostenitori, attraversando il cuore dei domini canossani: Siena, Marturi, Firenze, alla fine di dicembre è a Lucca, presso il suo fedele Anselmo; l’otto di gennaio a Mantova, nell’attesa che gli giunga dalla Germania la scorta dei principi tedeschi per attraversare le Alpi e arrivare ad Augusta per l’appuntamento del 2 febbraio. Ma invece delle truppe fedeli gli giunge la notizia che Enrico IV si sta dirigendo verso l’Italia.

E’ una mossa inattesa e pericolosa, perché l’imperatore può ritrovare proprio in Italia, ed in particolare da parte dei vescovi lombardi, avversi a Gregorio VII ed alla nuova politica romana, quel sostegno che gli era venuto a mancare in Germania.

“Il re celebrò il natale a Besançon in Borgogna, fermandovisi nemmeno un giorno. Poi, presa la moglie e il figlio, e con tutto il suo seguito e l’apparato, come già aveva deciso, passato il Rodano a

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Ginevra, affrontò con una durissima marcia le Alpi, ed entrò rapidamente in Italia attraverso il vescovado di Torino. Quindi, riuniti tutti quelli che poté, a Pavia legò a sé da ogni parte la turba dei vescovi scomunicati, e, quasi che fosse munito di una qualche dignità di difendere la loro causa, egli promise loro di andare a trattare col papa non tanto della sentenza che lo riguardava, ma piuttosto della loro così ingiuriosa scomunica”, scrive l’annalista Bertoldo di Reichenau.

Non era quindi per mostrarsi penitente di fronte al pontefice che Enrico scendeva in Italia, ma per rilanciare la lotta appoggiandosi proprio ai vescovi lombardi scomunicati da Gregorio VII, ma ancora ben saldi nelle loro sedi. Con questa mossa Enrico IV prendeva l’iniziativa sconvolgendo i piani del papa e dei suoi sostenitori. C’è un momento di smarrimento: Gregorio VII lascia Mantova e si rifugia nella rocca di Canossa, molto meglio protetta e difendibile. Fervono insieme dall’una e dall’altra parte i preparativi militari e le trattative di pace.

Sono giorni febbrili, sentiti anche dai contemporanei come eccezionali: per la prima volta un imperatore ed un papa in lotta di fronte l’uno all’altro, sui quali ogni cronista o storico o poeta contemporaneo ha voluto dare una sua versione, e molto spesso una versione influenzata dal senno di poi, o dagli interessi e dalle prese di posizione di ciascuno. L’epica e la storiografia hanno prevalso, l’andare a Canossa è divenuto simbolo dell’umiliazione di chi è costretto a pentirsi e a ravvedersi.

In effetti, se ci atteniamo solamente ai fatti e li colleghiamo a quanto precedette ed a quel che seguì il famoso incontro del 28 gennaio 1077, quel preteso pentimento non fu che il mezzo meno indolore per Enrico IV di ottenere ciò che stava cercando, cioè la reintegrazione nel suo potere.

Sia chiaro, che se penitenza avesse dovuto esserci essa sarebbe dovuta avvenire ad Augusta, come stabilito, e come Enrico era sembrato accettare; venendo in Italia e ricompattando gli avversari di Gregorio VII, fino alla formazione di un forte esercito, egli mostrava non solo di non accettare personalmente quella logica, ma di essere in grado di imporne un’altra, la sua.

Con la rapidità e la decisione della sua scelta di scendere in Italia, e col favore delle avversità stagionali, egli spezzava nei fatti l’alleanza che si era costituita ad Ulm ed a Tribur tra l’alta feudalità germanica e il “partito” gregoriano, e ne ricostruiva un’altra, quella che aveva dato luogo a Worms alla deposizione di Gregorio VII. Se non che egli era troppo intelligente per non comprendere che non poteva tornare indietro: in quel momento aveva bisogno di agire con tempestività, perché il 2 febbraio si sarebbe in ogni caso riunito il “tribunale” di Augusta.

Condurre una guerra sarebbe stato difficile, lungo e rischioso, tanto valeva allora accettare la mediazione di potentati sui quali avrebbe potuto in seguito contare: Ugo di Cluny, Matilde, Adelaide di Torino, e sottoporsi alla penitenza necessaria per ottenere il perdono dal papa.

Ma fino all’ultimo egli usa l’esercito come mezzo di pressione per far cedere Gregorio VII: il 20 gennaio egli porta, infatti, il suo esercito nelle vicinanze di Canossa, poi s’incontra con Matilde ed Ugo di Cluny a Montezane, una delle quattro cime che costituiscono l’incantevole insieme delle Quattro Castella, a poche miglia da Canossa, e solo dopo quell’incontro è da presumere che abbia vestito l’abito del penitente, e, lasciato l’accampamento di Bianello, si sia recato con un piccolo seguito a Canossa per quella che con tanta retorica è stata chiamata la sua “umiliazione”. Il 25 gennaio è alle porte del borgo fortificato nel qual è alloggiato Gregorio VII a compiere, certo con la sofferenza e il disagio del momento – il freddo intenso, l’essere scalzo, vestito di sola lana e non di pelli – e la rabbia di essersi dovuto prestare a tale ruolo, la parte del penitente, sicuro però dell’esito. Gregorio VII, infatti, come ha giustamente rilevato Ovidio Capitani, non poteva negare l’assoluzione ad un peccatore, una volta accertatosi della sincerità del suo pentimento: in quel

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momento egli era un sacerdote e doveva agire come tale, anche se è evidente che assolvendo l’imperatore dal suo peccato di ribellione alla Chiesa, non lo reintegrava automaticamente nelle sue funzioni di sovrano. Ma ad Enrico bastava essere riammesso nella Comunione dei santi, dal quale la scomunica lo aveva allontanato, rendendo nulli – e peccaminosi – tutti i giuramenti di fedeltà a lui prestati; al resto avrebbe pensato da sé.

Per Gregorio VII e i suoi sostenitori l’unico modo per non dover ammettere lo scacco subito era quello di ampliare al massimo la risonanza di quella penitenza e di quel pentimento, poi risultato finto. Ma che si trattasse di una riconciliazione fittizia fu subito chiaro. Ecco come racconta la scena del pranzo di riconciliazione il vescovo di Lucca Rangerio:

“Sta silenzioso il re, gli occhi fissi, pensando: ha in odio il cibo, e chino a mensa trattien l’artiglio. Gregorio il vede e già si pente, e lo ammonisce di comportarsi sapientemente. Ma tane han volpi e nidi uccelli e l’uom di Cristo non ha riposo in alcun luogo.”

Dopo quindici giorni l’imperatore riprese la guerra contro i filogregoriani. E di questa guerra, dopo Gregorio VII, costretto ad abbandonare Roma e a rifugiarsi presso i Normanni di Roberto il Guiscardo, morendo a Salerno nel 1085, Matilde fu la vittima più illustre.

“Tanto perdette Matilde, sedendo nel chiostro che per raccontarlo non mi basta l’inchiostro”.

Così il cronista antipapale Benzone d’Alba sintetizza la situazione di Matilde in questa fase della guerra contro Enrico IV, quando questi volse contro di lei la sua forza.

Matilde nella lotta per le investiture

A Lucca nel luglio del 1081 Enrico proclamava Matilde rea di lesa maestà, con la conseguenza immediata della decadenza da tutte le funzioni pubbliche da lei detenute e della confisca di tutti i suoi beni. Era un provvedimento gravissimo che solo in pochi casi era stato preso degli imperatori, nei confronti di loro vassalli ribelli ed irriducibili. Matilde aveva, per altro, già abbandonato la Toscana e si era rifugiata nei suoi munitissimi castelli appenninici, seguita dai suoi fedeli, mentre già alcuni suoi conti passavano al seguito dell’imperatore.

Alle sue fedeli Pisa e Lucca frattanto Enrico concedeva ampi privilegi di autonomia, giungendo a promettere ai Pisani che non avrebbe nominato un nuovo marchese di Toscana, senza il loro consenso; e nei documenti successivi, il primo dei quali dato da Siena il 10 luglio nominava Matilde senza alcun titolo, perché ormai per lui destituita di ogni giurisdizione.

Nessuno si è curato di narrarci come Matilde vivesse quei difficili momenti; una tradizione storiografica improntata soprattutto da Donizone, insiste sul coraggio della contessa, sulla sua forza d’animo, su di lei come “virago”, donna dai sentimenti mascolini, inflessibile e decisa nella difesa della Chiesa. Entrando, per ciò che lo consentono le fonti, nel succedersi degli avvenimenti, più volte Matilde appare incerta, costringesse a svolgere un ruolo che lei forse non desiderava. Era questo lo stato d’animo con cui scriveva a Gregorio VII durante il periodo difficile dell’abbandono del marito, dopo quel travagliato matrimonio e lo sfortunato parto; sono questi i sentimenti che dovette provare dopo la sconfitta di Volta Mantovana, quando si era trovata contro tutta la feudalità lombarda e la maggior parte dei vescovi dell’Italia settentrionale, e quando era risultato evidente che ella sarebbe stata incapace di assumere su di sé, da sola, tutto il peso della guerra contro

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l’imperatore e l’antipapa. L’aveva del resto compreso anche Gregorio VII, quando invitava i suoi fedeli di Germania a farle avere un aiuto militare. Dopo il bando di Lucca Matilde si trovava ancora più sola, separata fisicamente dal pontefice che ella sosteneva, costretta a difendersi nei suoi castelli appenninici, col solo conforto della presenza e del consiglio di Anselmo da Lucca, mentre Enrico IV scorrazzava liberamente nelle sue terre ed il suo dominio era stato privato della parte più prestigiosa, la marca di Toscana. Occorreva mettere in atto una strategia che da un lato le consentisse di rompere il pericoloso isolamento nel quale si trovava, dall’altro di portare un aiuto consistente a Gregorio VII, quale fu la prima donazione dei suoi beni alla Chiesa.

Il secondo matrimonio

Dopo la morte di Gregorio VII e il breve pontificato di Vittore III, il nuovo pontefice Urbano II eletto mentre a Roma vi era un antipapa filoimperiale, cercò di puntare su di una decantazione della lotta che stava travagliando la cristianità. Matilde nel 1088 si trovò ad affrontare una nuova discesa di Enrico IV in Italia, e, si pensa su suggerimento proprio di Urbano II, si preparò al peggio con una scelta politica e personale piuttosto delicata: quella di un nuovo matrimonio.

La scelta cadde su un rampollo della stirpe più avversa ad Enrico IV in Germania: quella dei duchi di Baviera. Si univano così i nemici dell’imperatore, a tutto vantaggio della causa pontificia.

Fu un matrimonio indubbiamente anomalo: nel 1089 il giovane Guelfo aveva appena raggiunto la maggiore età e si trovava a quindici o sedici anni marito di una donna matura, di quarantadue o quarantatré anni, dal carattere forte e deciso, provata da una vita intensa, piena di avvenimenti fuori dell’ordinario. Matilde si espose così alla derisione dei suoi avversari che diffusero la leggenda della sua prima notte di matrimonio con un ragazzino, pingue, impotente.

Il nuovo matrimonio suscitò la reazione di Enrico IV che fece una nuova spedizione contro Matilde: solo quattro castelli le rimasero fedeli: Canossa, Monteveglio, Piadena e Nogara, mentre le città (Mantova per prima) passavano dalla parte dell’imperatore. Successivamente problemi si posero anche all’interno della famiglia imperiale, con le ribellioni dei figli Corrado (che morì a Firenze) ed Enrico V, che giunse ad imprigionare il padre, che morì di crepacuore.

Enrico V poi giunse nel 1111 ad un accordo con Matilde a Bianello, reintegrandola del dominio sul nord Italia, ma non sulla Toscana.

L’accordo con Enrico V

Su quest’accordo si sono fatte molte illazioni: dopo aver approfonditamente studiato le fonti, ritengo che Enrico abbia preteso da Matilde l’abbandono dell’adozione e la destinazione a sé degli allodi della contessa dopo la sua morte, assicurando in cambio la pace ed il suo personale sostegno ad essa, già cugina del suo terribile padre, e di cui egli riconosce la parentela, quasi una madre ideale, vorrebbe far crederci Donizone. Così per desiderio di pace deve aver avuto da lei l’assicurazione di non intervenire sulle cose romane, compensandola con l’annullamento del bando imperiale di Lucca e la reinfeudazione di cui s’è detto.

Dopo questo atto Enrico V poteva riprendere la via della Germania e da Verona, il 21 maggio 1111, concedeva un ampio diploma di conferma e protezione dei beni dell’abbazia di Polirone, la prediletta dai Canossa. Tra le clausole dell’accordo tra lui e Matilde doveva esserci anche l’abbandono da parte dell’imperatore del sostegno fino ad allora dato a Mantova ed ai Mantovani,

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per cui la contessa poté riconquistarla nel 1114, dopo di che, ormai gravemente ammalata, si ritirò per passare l’estate nei suoi castelli appenninici, e si trattenne a Montebaranzone, nei dintorni di Pavullo nel Frignano.

A Mantova si diffuse la falsa notizia della sua morte e di nuovo la città si scrollò di dosso il giogo dei Canossa. Ma, rimessasi, Matilde costrinse subito alla resa la città in cui era nata: era la fine di ottobre del 1114, un anno strano, che si era annunciato con presagi di morte: una pioggia di sangue, ricordano i cronisti, che interessò tutta la Lombardia fino a Cittanova, poco ad ovest di Modena.

Nuovamente ammalatasi, moriva a Bondeno di Roncore nella notte del 24 luglio 1115; l’anno dopo Enrico V scendeva nuovamente in Italia per prendere possesso dei beni privati della contessa e della sua famiglia. Quel potere e quella ricchezza che erano cresciuti con l’appoggio degli imperatori, ora tornavano in parte alla stessa istituzione che li aveva generati e favoriti, anche se Enrico V li rivendicava non come imperatore, ma come il più stretto parente di una dinastia tanto gloriosa, che così tristemente scompariva. Lo “stato” canossano, quell’organismo politico così ampio e complesso, che gli storici hanno variamente definito come “potenza incoativa”( Tabacco) o “stato incoativo” (Capitani) o “principato in fieri” (Nobili), costruito pezzo per pezzo tanto abilmente da più generazioni di abili tessitori, con un dosaggio sapiente di alleanze, aggressività, pietà religiosa, e difeso nel turbine della lotta per le investiture, finiva con lo sgretolarsi per la mancanza di una discendenza e la parte maggiore la rivendicavano quelle stesse potenze, papato ed impero, destreggiandosi tra le quali esso era stato costruito. Sembrava una nemesi della storia, anche se poi altre realtà storiche sorsero dalla sua disgregazione: i liberi Comuni cittadini ed alcune delle maggiori Signorie padane.

Conclusione

C’è una circolarità nella storia della dinastia dei Canossa che si impone prepotentemente allo storico: quel ritorno a Polirone, ai luoghi sui quali per primi i suoi avi avevano messo gli occhi quando si affacciarono sulla Pianura Padana, sembra quasi un ripiegarsi della storia su se stessa. La parabola veramente è finita, anche se il suo tracciato non è stato inutile.

All’apice di essa, certamente, sta Canossa, con quell’incontro così particolare del 28 gennaio 1077: fino a quel momento la storia della dinastia – pur con momenti di crisi e ripiegamenti – è una crescita continua; dopo quel momento è invece un continuo arretrare e rinunciare, un dibattersi di Matilde alla ricerca di un appoggio, di una soluzione ad una crisi che era fatalmente dinastica, per l’assenza di un erede.

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Se Matilde vinse come politica, restando a galla negli sconvolgimenti di un quarantennio, se ella riuscì a mostrarsi anche abile guerriera, fallì però come donna, in quello che è la specificità femminile – e tanto più lo era nel Medioevo -: il divenire madre, il dare continuità alla vita, alla sua famiglia, al suo nome.

Donizone le attribuisce il triplice frutto della vita cristiana, secondo Matteo, XIII, 8: sposa, vedova e vergine; ma non fu sposa amorosa e feconda, non fu vedova fedele, e non fu vergine; soprattutto nello spirito mascolino che gli scrittori ecclesiastici tanto esaltarono in lei ebbe quasi come necessaria contropartita la sua sterilità: e le mitiche amazzoni, com’è noto, non generavano.

Così nell’impossibilità di avere una successione non le restava che affidare le ricchezze di cui poteva disporre ai monasteri ed a quegli enti ecclesiastici che avrebbero potuto assicurarle la preghiera e il ricordo, “fino alla fine del mondo”. Ed è bello osservare come allora si potesse avere un senso così vivo della continuità e dell’eternità, oggi che ci sembra tutto così precario, effimero, di breve durata. Avere la percezione di quest’eternità, sull’onda della quale una Matilde stanca e sconfitta si poneva negli ultimi anni della sua esistenza terrena, è andare oltre il nostro modo di vedere, per attingere a quell’alterità del passato che sola ci può permettere, non razionalmente, ma con quelle mille capacità di comprensione che va al di là della mente, di cogliere per un attimo il livello profondo della storia e giungere, forse, al cuore del Medioevo.

“Dumque ad fritadam passuto ventre reducti,/ gallonis lentant stringas, duplicantque parolas,/ Bertus amorevola sic tandem voce comenzat:/ «Quotquot habet vester Bertus Pannada, recatur/ ecce voluntati sociorum nempe bonorum./ Regibus incago, papis, rubeisque capellis,/ dummodo fortificas mangiem cum pacem scalognas,/ deque meis possim compagnos pascere capris…»”.

Teofilo Folengo, Baldus, libro II°, 274-281.

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Con Matilde, la Grande Contessa, le sue terre assurgono ad importanza continentale, giocando un ruolo importante nella disputa tra Papato e Impero.

Il feudo di Matilde si estendeva da Mantova a Lucca, a Firenze, fino alle foci del Po. Matilde è

donna europea, di stirpe e di cultura internazionale. I suoi possedimenti si estendono dall’Italia alla

Lorena. Il suo intervento è fondamentale per la nascita dell’Università di Bologna. Il suo appoggio

al Papa riformatore Gregorio VII favorisce la riforma della Chiesa. Le terre matildiche, connotate

dal profilo dei castelli e dalla presenza di antiche pievi e di borghi storici, rappresentano un vasto

comprensorio, prevalentemente collinare, in cui la civiltà del medioevo è ancora leggibile nei segni

lasciati nel territorio e in cui anche la civiltà materiale e le tradizioni enogastronomiche hanno conservato un legame forte con la storia. La storia europea aveva collocato su questi colli il suo più splendido scenario,a cavallo fra i secoli XI e XII.

Gli stati matildici, estesi da Mantova alla Toscana, dopo il 1106 inclusero anche Parma e il suo

contado, fondando la loro forza su una struttura in Feudi, organizzata su una viabilità principale in

direzione nord-sud, quindi proprio verso l’Appennino.Per ragioni insieme politiche e religiose, la

famiglia dei Canossa intensificò ricostruzioni e nuove edificazioni, tra cui le PIEVI, da cui i cantori

prendono il nome, dando vita ad una riforma architettonica e religiosa , ispirata ai principi di Papa Gregorio VII

La ricerca del gusto genuino e autentico si può ottenere solo percorrendo lo stesso ambiente storico

geografico che ha generato questi prodotti; si troveranno il profumo del tartufo nero, la tenerezza e i

colori della lenticchia, il giallo del mais, la fragranza del farro, la pastosità dei salumi, la delicatezza

della trota, il sapore dei gamberi rossi , la morbidezza piccante del pecorino, la finezza dorata del

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miele e il profumo intenso dello zafferano. Tutte quelle aree dove, dopo qualche secolo, si trova il sapore inimitabile del parmigiano – reggiano e del grana padano.

Una delle grandi eccellenze di questo territorio sono i prodotti di provenienza dal maiale notevoli

per stagionatura e sapore. Nelle terre della Contessa rimane famosa la lavorazione del maiale. Essa

avviene in inverno e rappresenta tuttora una festa. Il giorno in cui si uccide il maiale si scalda

l’acqua in un “callaio” per “pelare” il maiale. Nella seconda fase lo si apre e lo si divide.

Il giorno in cui viene ucciso si usa cucinare la “padellaccia” (pezzetti di carne, animelle, pezzetti di

fegato, e polmone); il sangue raccolto è usato per i sanguinacci. Il giorno dopo il “norcino” prepara

gli insaccati; taglia le bistecche e le puntarelle, cuoce la coppa e procede alla “salata”, ossia pone la

carne sotto sale. I salumi sono appesi davanti al camino e sono “sfumati”, asciugati e poi portati in cantina. Chi sapeva gestire il maiale era presente in ogni cucina di nobili, papi e imperatori.

Ogni area, ogni borgo ha in questo territorio una eccellenza qualitativa, ha una espressione del gusto

e della capacità agricola. Dalla area dell’alto Lazio e sino al lago d’Iseo possiamo ritrovare una

grande percentuale dei prodotti e dell’enogastronomia, tutti legati anche con una incredibile doppio cordone con dieta mediterranea e salute.

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I comuni nella area di Matilde

MANTOVA

Bagnolo S. Vito

Carbonara Po

Felonica

Gonzaga

Moglia

Ostiglia

Pegognaga

Pieve di Coriano

Poggio Rusco

Quingentole

Quistello

Revere

Roncoferraro

San Benedetto Po

S. Giacomo Segnate

S. Giovanni Dosso

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Schivenoglia

Sermide

Villa Poma

Villimpenta

Governolo Piadena

REGGIO EMILIA MODENA PARMA FERRARA

La pieve Il Castello Il Torrione

Albinea Baiso Bibbiano

La rocca Stellata Ruderi del Castello Castello

Bondeno (FE) Canossa Carpineti

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Castello Il borgo fortificato Piazza Zanti

Casina Castellarano Cavriago

Santuario B.V. Assunta La Badia Cavana La Rocca

Frassinoro Lesignano Bagni Montecchio Emilia

Veduta aerea La Rocca Il corteo matildico

Montechiarugolo Montefiorino Neviano degli Arduini

L’ Abbazia Pieve di Zibana Interno Castello Bianello

Nonantola Palanzano Quattro Castella

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Veduta aerea del Borgo La Pieve matildica Mulino di Scaluccia

San Polo d’Enza Toano Vetto d’Enza

Panorama Affresco nella chiesa della Pieve La Rocca

Vezzano sul Crostolo Guastalla Reggiolo (Bondanazzo)

Castello Abbazia

Montebaranzone (Pavullo) Monteveglio (Valsamoggia)

Il Borgo Santa Giulia Ponte Vecchio

Casciano Lucca Firenze

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San Francesco Piazza Grande Le Mura

Siena Arezzo Grosseto

Castello Ponte di Mezzo La Rocca

Sambuca (PT) Pisa Castelnovo Garfagnana

Duomo Acquedotto Cinque Terre

Torre del Lago Perugia La Spezia

Il Torrazzo Poggio Diana Carta Medioevale

Cremona Salsomaggiore Nogara

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La Via Teutonica

Gli ungari e i tedeschi, come erano genericamente chiamati i pellegrini provenienti dai paesi

europei centro-settentrionali, seguivano due vie: una lungo la valle dell'Adige fino a Verona; l'altra

lungo la val Pusteria fino a Treviso. Entrambi i percorsi raggiungono poi la via Emilia, seguendola

sino a Forlì, dove ha inizio la strada che, risalendo la valle del Bidente, valica l'Appennino al passo

dell'Alpe di Serra, in prossimità dell'attuale passo dei Mandrioli. Il percorso, digradando per

il Casentino verso Arezzo e proseguendo per la val di Chiana, arriva a Orvieto, per poi

raggiungere Montefiascone, località in comune con la via Francigena. Orvieto è la città dove è

istituita la solennità universale del Corpus et Sanguis Domini, l'11 agosto 1264 con Bolla

Transiturus da papa Urbano IV che aveva stabilito la residenza della corte pontificia sull'antica città

rupestre etrusca.

Le fonti tedesche considerano la Via Romea melior via per Roma, anche nota come Germanica, di

Alemagna, o Teutonica (quest'ultimo appellativo, poco gradito in quanto evocativo delle gesta

guerrafondaie dei Cavalieri Teutonici; i quali, peraltro, nell'antica terra della Tuscia Longobarda

divenuta tra i secoli XI e XIV Tuscia Urbevetana, facendo riferimento al vasto

territorio sotto controllo orvietano, da Sutri in Tuscia Suburbicaria alla Rocca di Tintinnano in Val

d'Orcia, dalle Maremme alla Val di Lago bolsenense-aquesiana, al Tevere, dall'Amiata alla

Valdichiana)[3].

Gli appellativi geografici della Via Romea dipendono in ragione della provenienza dei pellegrini[4].

Questa via è oggi chiamata anche Via Romea di Stade perché ne troviamo una chiara descrizione

negli Annali dell'Abbazia di Stade, scritti dall'abate Alberto di Stade[5]. Gli intensi rapporti esistiti

sin dal X secolo tra Arezzo, Forlì e Ravenna stanno all'inizio della fortuna di questo itinerario. Con

l'aumento dei pellegrinaggi dall'area centroeuropea, la via tra Forlì ed Arezzo viene sempre più

battuta, divenendo il percorso preferenziale per tutti coloro che giungono dalle Alpi centrali o

orientali.

Questa strada tocca in molti punti i possedimenti di Matilde

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CEREALI

Un fornaio sorpreso ad imbrogliare i clienti viene punito venendo trascinato per il

paese su una slitta, con delle fette di pane legate attorno al collo.

Nei primi secoli del Medioevo il tradizionale modello cerealicolo dell'età classica perse, in alcune

aree dell'Europa, quella centralità produttiva che aveva costituito il fondamento alimentare durante

l'Impero romano. In particolare nell'Italia del nord si verificò "un crollo clamoroso della produzione

del frumento" a vantaggio di cereali minori come segale, spelta, orzo, grano

saraceno, miglio, avena e sorgo. Almeno fino al XIII secolo il grano tenero resterà appannaggio dei

ricchi mentre nell'Italia del sud il frumento continuò ad essere, senza soluzione di continuità con la

romanità, il cereale di riferimento sia per le classi ricche sia per i ceti meno abbienti.

Dal farro dell'antichità si inizia lentamente a produrre grano tenero, più facile da raccogliere e di

maggior resa, mentre sul modello barbarico continentale ebbe un forte impulso l'attività silvo-

pastorale. Bisogna attendere l'età comunale per assistere all'aumento generalizzato della produzione

di frumento a cui verrà dedicata una crescente quantità di terreno, divenendo unitamente alle

verdure, predominante sull'alimentazione di origine animale come carne e latticini.

Prima del XIV secolo il pane non era un alimento molto diffuso tra le classi inferiori, specialmente

nel nord dove il grano cresceva con maggior difficoltà. La dieta basata sul pane diventò

gradualmente più comune nel corso del XV secolo e quest'alimento sostituì i pasti intermedi che

fino ad allora erano basati su farinate e polente. Il pane lievitato era più comune nelle regioni del

sud in cui il grano cresceva più facilmente, mentre al nord o nelle zone di montagna si usava pane

non lievitato di orzo, cereale che era comunemente usato anche per nutrire gli animali e pane

di segale o avena; questo tipo di pane era usato comunemente anche come rancio per le truppe.

Il riso per tutto il Medioevo rimase un costoso prodotto d'importazione e si iniziò a coltivarlo

nell'Italia settentrionale soltanto verso la fine dell'epoca. Il grano era comune in tutta Europa ed era

considerato il più nutriente di tutti i cereali e di conseguenza il cereale più prestigioso e più caro.

La farina bianca e finemente raffinata comune al giorno d'oggi era riservata alla produzione del

pane delle classi superiori. Scendendo dalla scala sociale il pane diventava più grezzo e scuro, e il

suo contenuto di crusca aumentava.

Quando il grano scarseggiava o c'era una vera e propria carestia, i cereali potevano essere sostituiti

con alimenti più economici e meno pregiati come castagne, legumi secchi, ghiande, semi di felce e

un'ampia varietà di vegetali più o meno commestibili.

Una delle portate più comuni di un pasto medievale, sia che si trattasse di un banchetto che di un

semplice spuntino, erano gallette o crostini, pezzi di pane secco che potevano essere fatti rinvenire

inzuppandoli in un liquido come il vino, il brodo, una zuppa o una salsa e quindi mangiati. Sulle

tavole medievali si poteva vedere altrettanto frequentemente la pappa di frumento, una farinata

molto densa spesso preparata con brodo di carne e insaporita con spezie. Le farinate

venivano preparate con ogni tipo di cereale e potevano essere servite anche come dessert o come

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pietanza per i malati se preparate con latte o latte di mandorla e addolcite con lo zucchero. In tutta

Europa erano comuni torte salate farcite con carne, uova, verdure o frutta, così come

pastine, frittelle, ciambelle e altri dolcetti simili. Nel tardo Medioevo si cominciarono a mangiare

per dessert biscotti, specialmente di tipo simile al wafer, che diventarono un alimento

particolarmente prestigioso. I cereali, sia sotto forma di briciole di pane che di farina, erano usati

anche come addensanti per zuppe e stufati, sia da soli che insieme al latte di mandorle.

FRUTTA e VERDURA

Anche se i cereali rappresentavano la base di ogni pasto, verdure

come cavoli, barbabietole, cipolle, agli e carote erano anch'esse cibi molto comuni. Molti di questi

ortaggi venivano consumati quotidianamente da contadini e lavoratori manuali, pertanto erano

considerati alimenti meno prestigiosi della carne. I libri di cucina, scritti soprattutto per chi poteva

permettersi un simile lusso e che cominciarono a fare la propria comparsa verso la fine del

Medioevo, riportano un modesto numero di ricette che prevedono una verdura come ingrediente

principale. La carenza di ricette per molti diffusi piatti a base di verdura, come le zuppe, è stata

interpretata non tanto nel senso che tali piatti fossero assenti sulle tavole della nobiltà, quanto che

erano considerate così elementari da non richiedere di essere messe per iscritto. Durante il

Medioevo erano disponibili diverse varietà di carote: tra queste una rosso-violacea molto saporita e

una di minor valore tendente al giallo-verde. Anche legumi come ceci, fave e piselli erano di

consumo comune e rappresentavano un'importante fonte di proteine, soprattutto per le classi

inferiori.

Fatta eccezione per i piselli, i legumi spesso erano visti con sospetto dai dietisti dell'epoca, che li

sconsigliavano agli appartenenti alle classi superiori, in parte per la loro tendenza a

provocare flatulenze, ma anche perché venivano associati alla rozza alimentazione dei contadini.

L'importanza delle verdure per la gente comune è attestata da racconti tedeschi del XVI secolo che

sostengono che molti contadini mangiavano crauti anche tre o quattro volte al giorno.

Anche il consumo di frutta era molto diffuso ed essa veniva servita in vari modi: fresca, essiccata, o

conservata. Era anche un ingrediente piuttosto comune, presente in molti piatti. Dato che sia lo

zucchero che il miele erano alimenti costosi, si usava aggiungere la frutta a molte pietanze per

addolcirle in qualche modo.

Nel sud dell'Europa si consumavano prevalentemente limoni, cedri, arance amare (la varietà dolce

venne scoperta solo secoli dopo), melograni, mele cotogne e, naturalmente, uva.

Più a nord invece erano più diffuse mele, pere, prugne e fragole. Fichi e datteri venivano mangiati

in tutta Europa, ma nel nord restavano comunque costosi prodotti d'importazione.

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Alcuni ingredienti comunissimi, e talvolta fondamentali, delle cucine europee contemporanee

come patate, fagioli, cacao, vaniglia, pomodori, peperoncini e mais non furono conosciuti dagli

europei fino alla fine del XV secolo, quando venne scoperta l'America, e anche in seguito ci volle

spesso molto tempo perché questi nuovi cibi fossero diffusamente accettati dalla società.

LATTE e LATTICINI

Il latte e i suoi derivati erano un'importante fonte di proteine animali per coloro che

non potevano permettersi la carne. Generalmente si consumava quello di pecora o di capra, ma era

diffuso anche il latte di vacca. Il semplice latte fresco veniva raramente consumato

dalle persone adulte, tranne i poveri e i malati (medicamento suggerito sin dall'antichità da

Ippocrate e Galeno), e generalmente era considerato un alimento per bambini e anziani. I poveri

talvolta bevevano latticello o siero di latte oppure latte inacidito o annacquato. Contrariamente

all'Europa del nord, con il suo clima freddo, nell'area mediterranea il latte fresco era un alimento

meno diffuso rispetto ai prodotti caseari a causa della mancanza di tecnologie adatte alla sua

conservazione. Nel consumo abituale di latte gli scrittori medievali riconoscono usi e costumi

attribuiti alle società barbariche, individuando il discrimine tra le "società pastorali primitive" che

ne facevano abbondante uso, e le "società agricole evolute" che privilegiavano l'utilizzo di cibi

elaborati "inventati dall'uomo come il pane e il vino". Fra i vari tipi di latte, si riconoscevano con

molta prudenza le principali virtù terapeutiche al latte di capra e questo farà dire

all'umanista Platina: "ottimo quello di capra perché aiuta lo stomaco, elimina le occlusioni del

fegato, lubrifica l'intestino; per secondo viene quello di pecora, per terzo quello di mucca". Talvolta

in cucina le classi superiori si servivano del latte aggiungendolo agli stufati, ma sempre a causa

delle difficoltà di conservazione veniva più spesso usato al suo posto il latte di mandorla.

Il formaggio era un alimento di gran lunga più importante, specialmente per la gente comune, e

alcuni hanno suggerito che sia stato per lunghi periodi la principale fonte di proteine animali per gli

appartenenti alle classi inferiori. Sia il Platina sia Pantaleone di Confidenza lo raccomandano a

conclusione del pasto «finché la bocca non sa di formaggio», consuetudine rimasta inalterata fino ai

tempi odierni e presente sin d'allora nei più celebri ricettari di cucina come in quello di Maestro

Martino che prescrive il "caso in patellecte" caldo a fine pasto. I formaggi erano prevalentemente di

pecora o di capra, meno frequenti di mucca, e almeno fino al XII secolo, costituivano il principale

sostentamento per le classi inferiori e l'abbellimento delle tavole dei ricchi.

Ma fu proprio nel Basso Medioevo che si assisté ad un lento rovesciamento di valori, grazie

all'influenza culturale del "modello alimentare monastico", di fatto inclusivo sempre più spesso dei

formaggi nella dieta dei monaci, che intravide nei derivati del latte un ottimo alimento sostitutivo

della carne, unitamente al pesce e alle uova. Infatti nei monasteri, grazie all'apporto dei

"rustici" residenti nelle pertinenze, si iniziò quel processo di sperimentazione e affinamento dei

prodotti caseari così che, afferma Massimo Montanari "la cultura della rinuncia diventava essa

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stessa generatrice di una nuova cultura gastronomica, di uno spirito curioso e creativo da cui presero

avvio molte future acquisizioni del gusto." Sempre più spesso gli affittuari riconosceranno, in

pagamento ai monaci, quote di formaggio sia a peso sia nel numero di forme, come nel caso

dell'Abbazia di San Colombano di Bobbio, sull'Appennino emiliano e del Monastero di Santa

Giulia di Brescia.

Tra Trecento e Quattrocento i formaggi verranno più volte menzionati nei ricettari con descrizioni

accurate, entrando a pieno diritto nelle tavole imbandite delle classi agiate: "formaggio duro, grasso,

tomini, pecorino, sardesco; marzolini, provature e ravogliuoli" dirà Cristoforo di Messisbugo, cuoco

alla corte degli Estensi. Per il confezionamento delle torte e dei pasticci dolci o salati ormai il

"cascio fresco" diviene un ingrediente abituale: si unisce alle uova, alla carne e alle verdure, in

ricette che preludono a quelle dell'era moderna e in voga ancor oggi: «crispelli di carne, o vero

tortelli e ravioli», la spalla di pecora ripiena di «cascio fresco, bene pesto con ova, in bona

quantità»; nel «pastello romano», nella «torta parmesana» con il formaggio fresco e stagionato,

nelle «ova piene» e nelle «lasagne» assieme all'uso di arrostirlo sul fuoco infilzato in un legno.[49]

Molte varietà di formaggio attualmente in produzione e commercio erano disponibili e ben

conosciute già durante il Medioevo, come l'edam olandese, il brie del nord della Francia oltre ai già

citati pecorino e parmigiano molto apprezzato anche nelle varianti lodigiane e piacentine. È al

parmigiano, che allude Salinbene da Parma per le lasagne di cui era ghiotto frate Giovanni da

Ravenna e famoso è il Paese di Bengodi di Giovanni Boccaccio con la «montagna tutta di

formaggio Parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan, che fare

maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi» tanto che sulla fine del Medioevo comincerà

ad entrare in crisi la tradizionale superiorità del pecorino sul parmigiano, un lento declino che per

contro farà assurgere il parmigiano alle vette dei tempi odierni.

Oltre ai formaggi c'erano anche latticini fatti con il siero, come la ricotta, ottenuti con i sottoprodotti

della lavorazione di formaggi più duri e stagionati che entrano sempre più spesso nelle ricette tardo

medievali. Un altro importante prodotto era il burro, molto popolare nell'Europa settentrionale dove,

nella seconda metà del Medioevo, ci si era specializzati nell'allevamento del bestiame, specialmente

nei Paesi Bassi e nella Scandinavia meridionale. In queste zone il burro fu il principale grasso di

cottura, mentre in altre regioni si usavano altri grassi come l'olio o il lardo. Inoltre, dal XII secolo in

poi da tali regioni nacque un lucrativo commercio di esportazione di tale prodotto.

CARNI

Anche se tutte le varietà di selvaggina erano molto popolari, perlomeno tra quelli che

se le potevano permettere, la maggior parte della carne che veniva consumata proveniva da animali

domestici. La carne bovina non era diffusa come al giorno d'oggi, perché allevare le mandrie era

molto impegnativo, richiedeva abbondanti pascoli e grandi quantità di foraggio e buoi e vacche

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erano considerati molto più utili come animali da lavoro e come produttrici di latte. I capi che

venivano macellati perché vecchi e non più adatti al lavoro non erano particolarmente appetibili e di

conseguenza la loro valutazione era piuttosto bassa. Molto più usata era la carne di maiale, dal

momento che si tratta di un animale che richiede meno cure e si nutre di alimenti più economici. I

maiali domestici spesso venivano lasciati razzolare liberamente anche nelle città e si nutrivano di

ogni tipo di rifiuti organici provenienti dalle cucine, mentre il maialino da latte era considerato una

vera leccornia. Molto diffuse erano anche le carni di montone o di agnello, soprattutto nelle zone in

cui era più sviluppata l'industria della lana, così come quelle di vitello. A differenza di quanto oggi

accade nella maggior parte del mondo occidentale, tutte le parti dell'animale venivano

mangiate, incluse orecchie, muso, coda, lingua e interiora. L'intestino, la vescica e lo stomaco

venivano impiegati per rivestire salsicce e salumi oppure venivano utilizzati dai cuochi per dare al

cibo forme fantastiche e artificiali come quella di uova giganti. Tra i tipi di carne allora usate ma

rare al giorno d'oggi o considerate inadatte all'alimentazione umana c'erano quelle di riccio e

di istrice, occasionalmente menzionate in ricettari del tardo Medioevo. Si mangiava poi un'ampia

varietà di volatili tra cui cigni, pavoni, quaglie, pernici, cicogne, gru, allodole e praticamente

qualsiasi uccello che potesse essere cacciato. Cigni e pavoni spesso erano addomesticati, ma

venivano consumati solo dalla classe più elevata e in effetti apprezzati più per il loro magnifico

aspetto (li si usava per creare piatti molto appariscenti da servire in tavola) che per la bontà delle

carni. Come succede anche oggi oche ed anatre erano animali domestici piuttosto diffusi, ma non

raggiungevano la popolarità di cui godeva il pollo, che in pratica era l'equivalente pennuto del

maiale. Curiosamente, si credeva che l'oca faccia bianca, una specie nordica e selvatica, non si

riproducesse deponendo le uova come gli altri uccelli, ma che nascesse dai cirripedi marini che si

trovavano sulle scogliere e di conseguenza era considerata un alimento accettabile per i periodi di

penitenza e digiuno.

La carne era un cibo più caro rispetto a quelli di origine vegetale e poteva raggiungere un costo

anche quattro volte superiore a quello del pane. Il pesce poteva invece costare anche sedici volte di

più, ed era quindi troppo caro anche per le stesse popolazioni costiere. Questo significava che nei

giorni di digiuno la dieta, per coloro che non potevano permettersi alternative alla carne e ai

prodotti di origine animale come uova e latte, poteva essere piuttosto povera.

Fu solo dopo l'epidemia di peste nera (1347-1352) che uccise quasi un terzo della popolazione

europea che la carne diventò un alimento comune anche per le persone più povere. La drastica

riduzione di abitanti di molte aree provocò una carenza di manodopera che significò di conseguenza

un aumento dei salari. Inoltre vasti appezzamenti di terreno rimasero incolti, rendendoli disponibili

per il pascolo, fatto che immise una maggiore quantità di carne sui mercati.

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PESCE e FRUTTI di MARE

Anche se considerati meno prestigiosi della carne di altri animali, e spesso

considerati semplicemente l'alternativa alla carne per i giorni di magro, pesci e frutti di mare

rappresentavano comunque la base dell'alimentazione di molte popolazioni costiere. "Pesce" per

l'uomo medievale era una categoria che ricomprendeva qualsiasi animale non venisse considerato

propriamente un animale di terra, tra cui i mammiferi marini come le balene e idelfini. Rientravano

nella definizione anche i castori, per la loro coda squamosa e per il fatto che passano molto tempo

in acqua, e le oche faccia bianca perché non si sapeva nulla delle loro migrazioni. Tutti questi

animali erano considerati un cibo accettabile per i giorni di penitenza. Sulle coste dell'oceano

Atlantico e nel mar Baltico erano molto importanti la pesca e il commercio di aringhe e merluzzi.

L'aringa ebbe un impatto senza precedenti nell'economia del Nord Europa, e fu uno dei beni di

consumo più comuni tra quelli trattati dalla Lega Anseatica, una potente alleanza di compagnie

commerciali dell'area germanica. Le aringhe affumicate preparate con il pescato del Mare del

Nord si potevano trovare anche in mercati lontanissimi come quello di Costantinopoli.

La maggior parte del pesce veniva consumato fresco, ma una discreta quantità veniva invece salato,

essiccato o, in misura minore, affumicato. Lo stoccafisso, il merluzzo aperto a metà, appeso ad un

palo e lasciato a seccare, era molto comune anche se la sua preparazione richiedeva molto tempo e

che il pesce venisse lungamente battuto con una mazza prima di essere fatto ammollare in acqua. Le

popolazioni che vivevano lungo le coste del mare o dei fiumi consumavano anche una certa varietà

di molluschi, come ostriche, cozze e cappesante, oppure crostacei come i gamberi di fiume. Si

consumavano comunemente anche pesci d'acqua dolce come lucci, carpe, lamprede, trote e pesci

persici. Rispetto alla carne il pesce per le popolazioni dell'entroterra era molto più costoso,

specialmente nell'Europa Centrale per molti era fuori dalla loro portata.

ODORI e SPEZIE

Le spezie erano tra i prodotti più lussuosi tra quelli disponibili durante il

Medioevo; le più comuni erano il pepe nero, la cannella (e la sua alternativa economica, la cassia),

il cumino, la noce moscata, lo zenzero e i chiodi di garofano. Tutte dovevano essere importate dalle

piantagioni dell'Asia e dell'Africa, fatto che le rendeva estremamente costose. Si stima che nel corso

del tardo Medioevo ogni anno venissero importate in Europa occidentale circa 1.000 tonnellate di

pepe e 1.000 di altre spezie. Il valore di tali prodotti equivaleva a quello del fabbisogno annuale di

grano di un milione e mezzo di persone. Mentre il pepe era la spezia più comune lo zafferano, usato

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sia per il suo sapore che per il vivido colore giallo che conferisce ai piatti, era invece quella più

esclusiva. Alcune tra le spezie allora in uso attualmente sono cadute quasi nel dimenticatoio come i

grani del paradiso, semi di una pianta affine al cardamomo che nella cucina tardo medievale del

nord della Francia avevano quasi completamente soppiantato il pepe, il pepe lungo, il macis, il

nardo, la galanga e il cubebe.

Lo zucchero era considerato un tipo di spezia, sia per il suo alto costo che per le sue qualità umorali.

In pochi piatti si usavano solo uno o due tipi di spezie, ma piuttosto una combinazione di molte di

esse. Anche quando in una pietanza uno degli aromi era nettamente prevalente si usava combinarlo

con un altro per generare un sapore composto, ad esempio unendo prezzemolo e chiodi di garofano,

oppure pepe e zenzero.

Comuni erbe aromatiche come salvia, senape nera, prezzemolo, carvi, menta, aneto e finocchio

venivano coltivate in tutta Europa e venivano regolarmente usate in cucina. Molte di queste piante

venivano fatte crescere in orti o giardini e rappresentavano un'alternativa economica alle spezie

esotiche. In particolare la senape era particolarmente amata per il suo ottimo connubio con le carni

e Ildegarda di Bingen la descrive come un alimento tipico dei poveri. Le erbe aromatiche erano

considerate meno prestigiose delle spezie ma venivano comunque impiegate anche alla tavola dei

ricchi, pur investite di un ruolo marginale o usate solo per colorare i cibi. L'anice era usato per

insaporire i piatti a base di pesce o di pollo e i suoi semi usati per produrre confetti glassandoli con

lo zucchero.

I ricettari medievali giunti fino a noi frequentemente suggeriscono di insaporire i cibi con liquidi

acidi o aspri. Vino, agresto, aceto o succhi di diversi tipi di frutta, specialmente quelle il cui sapore

è più aspro erano universalmente diffusi e rappresentavano un autentico tratto caratteristico della

cucina tardo medievale. Uniti ad altre spezie e a sostanze zuccherine questi succhi conferivano ai

piatti un caratteristico sapore tra l'agrodolce e il fruttato. Ugualmente comuni, e usate come

contrasto al sapore piuttosto deciso di questi ingredienti, erano le mandorle dolci. Venivano

impiegate in molti modi: intere, sgusciate o meno, a fettine, macinate e, impiego più importante,

lavorate fino ad ottenerne il latte di mandorla. Questo era probabilmente l'ingrediente più usato di

tutta la cucina tardo medievale e contrastava l'aroma delle spezie e dei liquidi di cottura aciduli con

il suo sapore dolce e la sua consistenza cremosa.

Il sale era un altro elemento fondamentale e impiegato ovunque della cucina medievale. La salatura,

insieme all'essiccazione, era uno dei metodi più comuni per conservare i cibi e ciò significava che

spesso pesci e carni erano eccessivamente salati. Molti ricettari medievali specificano di fare

attenzione all'eccessiva salatura e raccomandano di ammollare in acqua alcuni alimenti per liberarli

dall'eccesso di sale. Il sale era presente anche direttamente sulle tavole nel corso dei pranzi più

importanti: più era ricco l'anfitrione o più prestigioso era l'ospite, più era ricco ed elaborato il

contenitore del sale nonché il prezzo del sale stesso. I signori più facoltosi possedevano saliere

di peltro, di metalli preziosi o altri materiali pregiati, spesso finemente decorate. Dal livello della

cena dipendeva anche quanto finemente macinato sarebbe stato il sale, nonché la sua colorazione. Il

sale usato per cucinare, per conservare e quello usato dalla gente comune era più grezzo; il sale

marino, in particolare, aveva una maggior quantità di impurità, e veniva venduto in una gamma di

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colori che andavano dal nero al verde. Il sale più costoso e raffinato, invece, aveva un aspetto molto

simile al sale fino attualmente in commercio.

DOLCI e DESSERT

Il termine "dessert" proviene dall'antico francese desservir, che significava

"sparecchiare la tavola" o letteralmente il contrario di servire, ed è entrato in uso proprio durante il

Medioevo. Originariamente consisteva in caramelle o piccoli confetti serviti con vino caldo speziato

e pezzi di formaggio stagionato, mentre nel tardo Medioevo aveva iniziato ad includere frutta fresca

ricoperta di zucchero, miele o sciroppi con dolcetti a base di frutta cotta.

Esisteva nel Medioevo un'ampia varietà di frittelle, crêpes zuccherate, budini, tortine e paste di

sfoglia che talvolta potevano contenere della frutta, ma anche midollo o pesce. Nei paesi

germanofoni erano particolarmente amati i krapfen, che venivano anch'essi farciti in vari modi. In

Italia e nel sud della Francia era molto diffuso il marzapane che si ritiene sia stato introdotto dagli

arabi. I libri di cucina anglo-normanni sono pieni di ricette per preparare budini dolci e salati,

minestre, salse e torte con fragole, ciliegie, mele e prugne. I cuochi inglesi avevano un debole per

l'impiego di petali di fiori come rose, violette e sambuco. Una prima versione della quiche si può

trovare nel Forme of Cury, un ricettario del XIV secolo dove viene chiamata Torte de Bry ed ha una

farcitura di formaggio e tuorlo d'uovo.

Nel nord della Francia si consumava un vasto assortimento di cialde e wafer, mangiati con

formaggio e hypocras oppure un malvasia dolce come issue de table (piatto preso prima di lasciare

la tavola). L'onnipresente zenzero candito, il coriandolo, l'anice e altre spezie venivano

definite épices de chambre (spezie da salotto) e venivano consumate come digestivi alla fine del

pasto per "chiudere lo stomaco". I conquistatori arabi della Sicilia introdussero sull'isola una certa

varietà di nuovi dolci e dessert che finirono per diffondersi in tutta Europa. Così come Montpellier,

la Sicilia un tempo fu celebre per i suoi confetti e per il suo torrone. Dal sud del Mediterraneo gli

arabi portarono anche l'arte di preparare il gelato che si tradusse nella nascita del sorbetto e altri

dolci come la cassata siciliana (che deve il nome all'arabo qas'ah, termine che designava la ciotola

di terracotta in cui veniva modellata) fatta di marzapane, pan di Spagna e ricotta dolce, e i "cannoli

alla siciliana" (in origine "cappelli di turchi") fritti, tubi di pasta dolce e fritta riempiti di ricotta

zuccherata.

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BEVANDE

In epoca moderna l'acqua rappresenta una scelta comune per la bevanda con cui

accompagnare un pasto. Nel Medioevo invece, le preoccupazioni riguardo alla sua purezza, le

raccomandazioni mediche e il suo scarso prestigio la rendevano una scelta di secondo piano e

le bevande alcoliche venivano sempre preferite. Erano infatti considerate più nutrienti e migliori per

favorire la digestione rispetto all'acqua, inoltre avevano l'ineguagliabile pregio, grazie al loro

contenuto alcolico, di essere meno inclini a guastarsi ed andare a male. Il vino veniva consumato

quotidianamente nella maggior parte della Francia e in tutti i paesi del bacino del Mediterraneo

dove si coltivava la vite. Nei paesi del nord era la bevanda preferita dalla borghesia e dalle classi

elevate che potevano permetterselo, ma molto meno comune tra i contadini e la classe lavoratrice.

La bevanda della gente comune nei paesi nordici era la birra. Data la difficoltà di conservare a

lungo questa bevanda (specialmente prima dell'introduzione del luppolo) veniva per lo più

consumata fresca; era quindi meno limpida rispetto alle birre moderne ed aveva un contenuto

alcolico minore.

Il latte non veniva bevuto dagli adulti, tranne i poveri e i malati ed era riservato a bambini ed

anziani. Era comunque molto meno diffuso degli altri prodotti caseari per la mancanza di tecnologie

che gli impedissero di andare a male in fretta.

Alla pari del vino sin dall'antichità si preparavano succhi con diversi frutti e bacche, che venivano

consumati anche durante il Medioevo: il vino di melograno e di more e il sidro di pere e

di mele erano popolari soprattutto nei paesi nordici dove questi frutti crescevano abbondanti. Tra le

bevande medievali sopravvissute fino ai giorni nostri si ricorda il prunellé , fatto con le prugne

selvatiche (attualmente chiamato slivovitz). Nei ricettari medievali si trovano molte varianti per

preparare l'idromele, con o senza contenuto alcolico. Tuttavia, questa bevanda

a base di miele diventò meno popolare verso la fine del periodo e finì per essere relegata ad uso

medicinale. L'idromele è stato spesso rappresentato come la bevanda d'elezione delle

popolazioni slave: questo era vero solo in parte perché l'idromele rivestiva un grande valore

simbolico, specialmente nelle occasioni più importanti. Quando concludevano trattati o importanti

affari di stato spesso offrivano idromele come dono cerimoniale. Si usava comunemente anche in

occasione di matrimoni o battesimi anche se in piccole quantità a causa del suo costo elevato. Nella

cultura polacca aveva lo stesso status di lussuosi beni di importazione come vino e spezie. Il kumis,

bevanda ottenuta dalla fermentazione del latte di cavallo o di cammello di origine asiatica, era

conosciuto anche in Europa ma, come l'idromele, era consumato soprattutto se prescritto dai medici.

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VINO

Il vino veniva bevuto abitualmente ed era considerato la bevanda più prestigiosa e

salutare. In accordo con le prescrizioni dietetiche di Galeno era valutato come caldo e secco

ma queste qualità venivano attenuate quando era annacquato. A differenza di quanto succedeva per

l'acqua e per la birra, che erano considerate fredde e umide, si riteneva che un moderato consumo di

vino (specialmente quello rosso) tra le altre cose aiutasse la digestione, producesse buon sangue e

migliorasse l'umore. La qualità del vino differiva notevolmente a seconda dell'invecchiamento, del

tipo di uva impiegata e, cosa più importante, dal numero di pigiature con cui era stato ottenuto. Con

la prima pigiatura si ottenevano i vini più raffinati e costosi, riservati alle classi superiori. Con la

seconda e la terza pigiatura si producevano invece vini di qualità inferiore e con un contenuto

alcolico più basso. La gente comune in genere doveva accontentarsi di vini bianchi o rosati di

seconda o terza pigiatura, che potevano essere consumati in abbondanti quantità senza produrre

gravi intossicazioni alcoliche. Per i più poveri spesso l'unica scelta a disposizione era

bere aceto annacquato.

La procedura di invecchiamento del vino rosso di buona qualità richiedeva conoscenze

specialistiche, nonché costose cantine e attrezzature, tutti fattori che contribuivano ad innalzare il

costo del prodotto. A giudicare dalla quantità di consigli presenti su manoscritti medievali su come

salvare il vino che desse segno di stare per andare a male, il problema della corretta conservazione

doveva essere piuttosto diffuso. Anche se l'aceto era un alimento diffuso, in effetti se ne poteva

riutilizzare in questo modo solo una parte. Nel ricettario del XIV secolo Le Viandier si trovano

numerosi metodi per tentare di salvare il vino che sta andando a male; assicurarsi che le botti siano

sempre ben chiuse, aggiungere una mistura di semi di uva bianca essiccati e bolliti oppure la cenere

di fondi di vino essiccati e bruciati. Questi ultimi erano entrambi efficaci sistemi battericidi, anche

se all'epoca in realtà non si comprendevano i processi chimici che li rendevano tali.

Il vino speziato e il vin brulé non solo erano molto apprezzati dai ricchi, ma erano anche considerati

molto salutari dai medici. Si credeva che il vino agisse come una sorta di diffusore e conduttore

delle altre sostanze nutritive in tutte le parti del corpo, e che l'aggiunta di spezie esotiche e

profumate non poteva che incrementare questa sua caratteristica. I vini speziati solitamente si

facevano miscelando comune vino rosso con spezie varie come zenzero, cardamomo, pepe, grani

del paradiso, noce moscata, chiodi di garofano e zucchero. L'infuso veniva poi messo in piccoli otri

che erano a loro volta intrisi di vino oppure venivano bagnati con del liquido per produrre

l'ippocrate e il claret. Già a partire dal XIV secolo i mercanti vendevano sacchetti di spezie miste già

pronti per essere impiegati in questo modo.

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BIRRA

Mentre il vino era la più comune bevanda da pasto nella maggior parte d'Europa,

questo non succedeva nelle regioni del nord dove la vite non veniva coltivata. Chi poteva

permetterselo beveva vino d'importazione, ma in queste zone anche i nobili d'abitudine

bevevano birra, chiara o scura, in particolare verso al fine del Medioevo. In Inghilterra, nei Paesi

Bassi nel nord della Germania, in Polonia e in Scandinavia la birra veniva consumata

quotidianamente dalle persone di tutte le classi sociali e di tutte le età. Tuttavia la forte influenza

delle culture arabe e mediterranea sulla scienza medica (dovuta in particolare al periodo

della Riconquista e all'influsso dei manoscritti arabi) fece sì che la birra godesse però di cattiva

reputazione. Per la maggior parte degli europei medievali, si trattava quindi di un liquido piuttosto

umile al confronto con quelli tipici del sud come vino, succo di limone ed olio d'oliva. Anche

prodotti di origine esotica come il latte di cammello o la carne di gazella generalmente venivano

giudicati di maggior valore nei testi medici dell'epoca. La birra era considerata solo come una

passabile alternativa e le venivano attribuite varie qualità negative. Nel 1256 il

medico senese Aldobrandino da Siena descrisse la birra in questo modo:

« Di qualsiasi cosa sia fatta, d'avena, d'orzo o di grano, nuoce alla testa e allo stomaco, provoca un alito puzzolente e rovina i denti, colma lo stomaco di umori cattivi e chiunque la beva insieme al vino finisce per ubriacarsi in fretta: tuttavia ha la proprietà di facilitare la minzione e rende le carni bianche e lisce »

Si credeva che gli effetti di un'ubriacatura da birra durassero di più di quelli di una dovuta al vino,

ma si ammetteva che non creava la sensazione di "sete falsa" associata al vino. Anche se in minore

misura rispetto ai paesi del nord, la birra veniva consumata anche nel nord della Francia e nell'Italia

continentale. Forse in conseguenza della conquista normanna dell'Inghilterra e dei frequenti viaggi

dei nobili tra la Francia e l'Inghilterra una birra francese descritta nel ricettario del XIV secolo Le

Menagier de Paris veniva chiamata godale (evidentemente una diretta derivazione dell'inglese

"good ale" - it. "Birra chiara buona") ed era fatta con orzo e farro ma senza luppolo. In Inghilterra

esistevano anche le varianti poset ale, un miscuglio di latte caldo e birra fredda,

e brakot o braggot una birra speziata preparata in maniera simile all'ippocrate.

L'uso del luppolo per dare sapore alla birra era conosciuto almeno dall'epoca carolingia, ma si

diffuse lentamente per le difficoltà di riuscire a fissare le giuste proporzioni. Prima della scoperta

del luppolo si usava il gruit, una mistura di varie erbe diverse Il gruit non possedeva le stesse

proprietà conservanti del luppolo e di conseguenza la birra prodotta in quel modo doveva essere

consumata velocemente per evitare che andasse a male. Un altro modo di insaporire il preparato era

di aumentarne il contenuto alcolico, ma era più costoso e dava alla birra l'indesiderata capacità di

dare ubriacature più veloci e pesanti. Durante l'Alto Medioevo la birra veniva prodotta

principalmente nei monasteri oppure su scala più ridotta nelle abitazioni private. Nel Basso

Medioevo invece iniziarono a diffondersi nel nord della Germania delle birrerie cittadine a cui

veniva delegata la produzione.

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Anche se la maggior parte delle birrerie erano piccole imprese familiari che davano lavoro al

massimo a otto o dieci persone, la regolarità della produzione permise di investire in attrezzature

migliori e di sperimentare nuove ricette e tecniche di preparazione della birra. Questi tipi di

lavorazione in seguito si diffusero anche in Olanda, nelle Fiandre e nel Brabante, raggiungendo

anche l'Inghilterra nel XV secolo. La birra aromatizzata con il luppolo diventò molto popolare negli

ultimi decenni del tardo Medioevo. In Inghilterra e nei Paesi Bassi il consumo annuale pro capite

raggiunse i 275-300 litri e veniva consumata praticamente ad ogni pasto: a colazione si beveva una

birra a bassa gradazione alcolica, mentre più in là nel corso della giornata si passava a birre più

forti. Una volta che il suo impiego venne perfezionato il luppolo permise alla birra di conservarsi

anche per sei mesi o più e ne facilitò l'esportazione su larga scala.

DISTILLATI

Gli antichi greci e romani conoscevano la tecnica della distillazione, ma questa non

venne praticata su larga scala in Europa fino al XII secolo circa, quando si diffusero le scoperte

degli Arabi sull'argomento insieme con gli alambicchi in vetro. I dotti medievali credevano che la

distillazione producesse la pura essenza del liquido di partenza e si servivano del

termine aqua vitae (it. Acqua della vita) per definire qualsiasi tipo di distillato. Originariamente i

modi per utilizzare i distillati, alcolici o meno, erano vari ma principalmente il loro impiego fu in

ambito culinario o medico: i medici prescrivevano sciroppo d'uva mischiato con zucchero e spezie

come cura per una gran varietà di malanni, mentre l'acqua di rose veniva usata, come profumo,

come ingrediente in varie ricette e per lavarsi bene le mani. Talvolta i distillati alcolici venivano

usati per creare spettacolari piatti fiammeggianti, imbevendo pezzi di cotone nel liquido, ponendoli

in posizioni strategiche come le bocche degli animali che venivano serviti e accendendoli al

momento di portarli in tavola.

I medici medievali lodavano molto le virtù dell'Aqua vitae alcolica. Nel 1309 Arnaldo da

Villanova scrisse che "prolunga lo stato di buona salute, disperde gli umori superflui, rianima il

cuore e mantiene giovani". Nel tardo Medioevo iniziò a prendere piede la produzione di distillati

casalinghi, specialmente nei paesi di lingua tedesca. Entro il XIII secolo l'Hausbrand (letteralmente

"fuoco di casa") era diventato di uso comune e tale prodotto rappresentò in pratica un antenato

del brandy. Verso la fine del Medioevo il consumo di superalcolici diventò così diffuso tra la

popolazione che alla fine del XV secolo iniziarono a comparire leggi che ne limitavano la

produzione e la vendita. Nel 1496 la città di Norimberga promulgò restrizioni alla vendita di acqua

vite nel giorno di domenica e in occasione delle festività ufficiali.

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GRANDE FIUME AL TEMPO DI MATILDE

Il Po che noi oggi vediamo serpeggiare in vasti meandri nella pianura che porta il suo nome, ben chiuso tra solidi argini, è molto diverso dal fiume che solcava queste terre nel Medioevo. Con un letto ancor più ampio e poche discontinue arginature, il suo corso si articolava in rivoli diversi ai quali si intrecciavano gli affluenti che vi giungevano, più numerosi di adesso, soprattutto dall’Appennino. Con questi affluenti formava lingue di terra, isolotti ed isole che offrivano al viandante la vista di un paesaggio quasi lagunare, nel qual i pochi centri abitati si ergevano tra valli e paludi, vaste macchie di boscaglia fluviale ed una piccolissima parte di terreni arati e coltivati.

In questo ambiente scarsamente antropizzato vivevano animali oggi non più stanziale, come cervi, cinghiali e lupi; crescevano alberi di alto fusto e si potevano trovare, qua e là, resti affioranti di edifici e monumenti romani inghiottiti dal terreno, reso molle dalle frequenti alluvioni. Anche il corso del Po non corrispondeva a quello attuale: nell’alto Medioevo e fino a tutto l’XI secolo esso seguiva, infatti, un percorso più meridionale toccando i centri maggiori dell’età romana (Brescello, Ostiglia, Bondeno di Ferrara) e lambendo anche gli abitati di Suzzara, Gonzaga, Pegognaga, San Benedetto e Quistello per poi riprendere il corso attuale ad Ostiglia. Tracce di questo percorso sono rimaste in quello che viene indicato come Po Vecchio ed in paleo alvei, ben visibili per mezzo di fotografie aeree, in parte utilizzati per inalvearvi altri corsi d’acqua, come è il caso del fiume Secchia.

Più a nord, scorreva un ramo dl Po, il Lirone, che raccoglieva le acque del Mincio e formava con il Po Vecchio altri corsi d’acqua della zona (lo Zara, il Crostolo, il Bondeno) un caratteristico paesaggio ad isole. Nel settore tra Guastalla e Sermide sono note tre isole: Suzzara, San Benedetto e Revere. L’isola di San Benedetto era, a sua volta, formata da tre isole più piccole: Mauritola, San Benedetto e Gorgo ed era compresa tra il fiume Lirone a nord ed il fiume Po (Vecchio) a sud ed a est. Si estendeva per circa una decina di chilometri ed era larga da 1 a 5 km, con una superficie complessiva di circa 30 kmq.

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Il grande fiume veniva percorso da navi e battelli e persino da una flotta militare. Attorno ad esso gravitavano piccoli villaggi di contadini e pescatori e qualche centro fortificato. Il territorio, dominato dai Canossa, era soggetto alla diocesi di Mantova che lo governava attraverso la Pieve di Floriano (San Benedetto Po), poi posta alle dipendenza del monastero di Polirone. Intorno alla metà del XII secolo, si verificarono un progressivo aumento delle precipitazioni sul versante appenninico, con una conseguente crescita della portata d’acqua degli affluenti di destra del Po e, contemporaneamente, un fenomeno di bradisismo che portò ad un innalzamento della Romagna rispetto al resto della Pianura Padana. Il Po si spostò allora a nord, a partire proprio dalla zona di San Benedetto Po, ove si inalveò lungo il ramo di settentrione, il Lirone, per poi proseguire verso est, lungo un tracciato simile all’attuale, almeno fino a Ficarolo. Gli affluenti di destra, in particolare il Secchia ed il Panaro, lasciarono gli antichi alvei, che li portavano ad immettersi nel Po molto più ad est, per incanalarsi negli attuali corsi più occidentali. Veniva così abbandonato l’antico corso del Po, quello che divenne, appunto, il Po Vecchio. Al tempo della fondazione dell'abbazia, la parte coltivata era circa un quinto dell'intera isola Polirone (l'isola di San Benedetto). Lungo e laborioso è stato il processo di acquisizione delle terre alla coltura agricola attraverso bonifiche, dissodamenti e disboscamenti. I monaci benedettini plasmarono il territorio organizzando per secoli il lavoro dei coloni attraverso contratti agrari che prevedevano incentivi per la bonifica di nuove terre e la manutenzione di quelle bonificate.