UNIVERSITA’ DI PISA
Dipartimento di Patologia chirurgica, Medica, Molecolare e dell’Area Critica
Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale
Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia
Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia
Lo studio della risposta neurobiologica ai trattamenti con rTMS e tDCS, revisione della letteratura, presentazione
di un progetto sperimentale e dati preliminari.
Relatore:
Chiar.mo Prof. Pietro Pietrini
Correlatore:
Chiar.mo Prof. Emiliano Ricciardi
Candidato:
Martina Novi
Anno Accademico 2014-2015
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Introduzione
Fu nel 1621 che lo scrittore inglese Richard Burton, accademico di
Oxford, in un celebre e voluminoso saggio dal titolo Anatomia della Malinconia,
descrisse, tra i primi a farlo, ciò che oggi definiamo come depressione,
descrivendola al pari di un morbo che “colpisce sia il corpo che l’anima” e
considerando il malinconico come un ammalato. Il testo, ulteriormente
arricchito negli anni successivi, trattava un fenomeno umano, al tempo
considerato alla stregua di un sentimento di profonda tristezza, con lo
sguardo del clinico, con il dichiarato intento di poterlo combattere e la
profonda convinzione che lo scriverne potesse essere un possibile rimedio.
Lui stesso, infatti, dichiarava di esserne stato vittima, di essere stato
“sospinto sullo scoglio della malinconia”. Una condizione di cui già a quei
tempi egli riconosceva un’ampia diffusione e di cui riferiva il dolore come
suo “compagno inseparabile”. Con uno stile lucido, ma tormentato,
certamente influenzato dalla stessa patologia di cui scriveva, Burton aveva
appena piantato il seme di un cambiamento di paradigma nella concezione
dei fenomeni psichici (Burton, 1994).
Oggi la depressione è accettata in ambiente medico come una
patologia a tutti gli effetti. È definita un disturbo dell’umore che porta ad
una riduzione della qualità della vita dell’individuo, associata ad un
aumento della morbilità e mortalità.
Le statistiche più recenti della WHO posizionano la depressione
maggiore al terzo posto tra le principali cause di disabilità e pronosticano
una sua temibile crescita come prima causa del peso delle malattie a livello
globale (Zhang et al., 2015). Si tratta di un disturbo che influisce sulle
capacità funzionali dell’individuo riducendone la performance lavorativa, la
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qualità della vita matrimoniale, la capacità di adattamento e
contemporaneamente si associa ad un elevato numero di malattie croniche e
ad un aumento del tasso di mortalità precoce, da non far risalire solamente
ad un alto rischio suicidario, ma anche al dato ormai accertato che la
depressione maggiore aumenti la persistenza e severità di un ampio numero
di disturbi fisici (Kessler & Bromet, 2013).
Ad oggi la diagnosi di depressione si muove sul principio di
identificazione di un prestabilito numero di sintomi, così come previsto dal
DSM nelle sue diverse versioni. Considera poco, però, l’impatto
totalizzante, e disabilitante, che tale disturbo provoca sulla vita del soggetto,
fatto che avvalora la necessità di un’interpretazione diagnostica più
complessiva rispetto a una semplice collezione di sintomi (Goodwin, 2015).
La diagnosi, infatti, spesso non indaga la diversa espressione della malattia
nel singolo paziente, ma guarda ad esso come a una fedele riproduzione di
uno stesso fenomeno; in quest’ottica dovrebbe invece essere strutturato un
piano terapeutico ponderato, non frutto esclusivamente di un’etichetta
diagnostica.
I criteri diagnostici previsti dal DSM non hanno più subito modifiche
dal 1980 (DSM-III) e sono così approssimativi che, nella pratica clinica,
un’ordinaria tristezza può essere erroneamente diagnosticata come
depressione. La medicalizzazione del lutto e di altri stress e la loro inclusione
tra i possibili disordini mentali rappresenta un’intrusione medica nello
spettro delle emozioni umane e conduce il soggetto a sentirsi stigmatizzato e
a comportarsi come un paziente psichiatrico compromettendone il libero
arbitrio. Inoltre, l’evidenza che forme lievi di depressione o di lutto non
complicato non necessitino di alcuna terapia farmacologica, mette in luce
l’uso ingiustificato di antidepressivi con inevitabili interazioni con farmaci
prescritti per altre patologie coesistenti (Dowrick & Frances, 2013).
Il DSM-5 ha fallito nell’obiettivo di descrivere la complessità della
malattia e ridurne il sovra-trattamento. Da ciò si evince l’importanza
dell’apertura della pratica psichiatrica a nuovi strumenti diagnostici che
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permettano di stabilire delle soglie critiche, evitando di convertire la
normalità in una specie in via di estinzione.
Un nuovo dibattito ha quindi preso vita riguardo la sproporzionata
medicalizzazione della società e la promozione di cure spesso non
necessarie. Una voce autorevole è quella di Allen Frances, uno dei principali
redattori del DSM-4, che nel suo ultimo libro dal titolo “Primo, non curare
chi è normale” muove un’aspra critica nei confronti della quinta versione
del manuale, ricordando come nel suo precedente lavoro si fosse tentato di
stabilire dei confini netti tra normalità e malattia evitando criteri troppo
inclusivi. Secondo la sua acuta analisi il nuovo manuale amplierebbe a tal
punto lo spettro delle patologie psichiche da non lasciare più alcuna
dimensione di normalità. Se da una parte parla di “inflazione diagnostica” e
di continue nuove possibili diagnosi, dall’altra Frances afferma che quasi
due terzi di pazienti affetti da depressione maggiore non ricevono alcun tipo
di terapia. L’evidente antitesi tra un cerchio sempre più ampio, che include
anche coloro che non farebbero parte di alcuna categoria diagnostica e
l’abbandono di coloro che realmente avrebbero bisogno di supporto spinge
l’autore a parlare della necessità della “deflazione diagnostica“, di un
controllo sull’espansione incontrollata di diagnosi e terapie unitamente ad
una maggiore attenzione sui pazienti reali. Il principale autore del DSM-IV
suggerisce l’importanza di un cambiamento che si fondi su nuovi percorsi
diagnostici guidati da evidenze scientifiche e non più dall’arbitrarietà, e
riconosce il valore delle nuove metodologie di neuroimaging, sottolineando
quanto poco queste nuove scoperte siano state sfruttate per nuove procedure
diagnostiche o terapeutiche (Frances).
Uno degli psichiatri più influenti del ventesimo secolo, Robert
Spitzer, principale ideatore della nuova classificazione dei disturbi mentali in
categorie discrete sulla base di obiettivi criteri diagnostici e capo gruppo
della task force che ha dato vita al DSM-III, ha criticato le versioni
successive, ritenendo comunque il DSM l’unico mezzo idoneo per la pratica
clinica, non altrimenti sostituibile. Spitzer, in risposta ad un articolo di
5
critica - “Dump the dsm” (Paul Genova, 2003, Psychiatric Times) -
riconosce i limiti del manuale nell’adeguarsi alle nuove scoperte scientifiche,
così come non si esime dal criticarne la frequente scarsa attinenza alla realtà
clinica, motivo per cui sottolinea la necessità di confini marcati non solo tra
disordine psichiatrico e normalità, ma anche tra i vari disordini.
Il NIMH statunitense ha bocciato il DSM-5, abbracciando un nuovo
paradigma per lo studio delle malattie mentali che parte dal presupposto che
la patologia neuropsichiatrica preceda lo sviluppo dei sintomi, e possa essere
trattata ancor prima di una diagnosi conforme ai criteri del DSM.
Nonostante l’approccio farmacologico e psicodinamico rimangano due
pilastri terapeutici, le nuove conoscenze ottenute grazie alle tecniche di
neuroimaging hanno determinato, sulla base del riconoscimento di
potenziali aree target di stimolazione cerebrale, una netta divergenza
rispetto alla comune pratica psichiatrica. Allo stesso tempo anche questo
nuovo orientamento potrebbe non essere esente dal rischio di inflazione
diagnostica considerata la non specificità e la moderata difficoltà a
distinguere profili normali dalla patologia. Studi recenti hanno però
enfatizzato l’utilizzo del neuroimaging per la ricerca di marcatori predittivi
di risposta alla terapia farmacologica, dimostrando la potenzialità
dell’applicazione delle neuroscienze nella riduzione dell’accanimento
terapeutico, grazie, soprattutto, all’identificazione di pazienti che
difficilmente potrebbero trarre beneficio dall’intervento medico (Nucifora,
2015).
Infine, Eric Kandel, neuroscienziato, professore alla Columbia
University e già vincitore di un premio Nobel per la Medicina, nel suo
“Psichiatria, psicoanalisi e nuova biologia della mente” afferma che “ogni
processo mentale è anche un processo neurale” e sostiene quindi
l’importanza del neuroimaging funzionale come potente strumento di
valutazione della modifica delle attività cerebrali indotta da percorsi
psicoterapeutici o farmacologici (Kandel, 2005). Con il suo testo lancia un
appello a considerare le neuroscienze come un autorevole alleato della
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psichiatria, ovvero come fondamento scientifico sul quale costruire una
nuova pratica clinica, non rilegandola ad esclusivo strumento di ricerca.
Kandel racconta poi lo scenario della psichiatria del dopoguerra: una
disciplina medica sradicata dalla biologia e dalla medicina sperimentale sulla
quale si era eretta e che aveva rimosso il “cervello come organo dell’attività
mentale” dalle sue speculazioni.
L’introduzione della psicofarmacologia come pratica terapeutica
avrebbe, negli anni successivi, obbligato al confronto con le neuroscienze,
allo scopo di comprendere il meccanismo di azione dei nuovi specifici
strumenti di cura. Oggi, il celebre neuroscienziato vede, infatti, una nuova
irripetibile opportunità di riavvicinamento tra la psichiatria e le
neuroscienze nel momento in cui la pratica clinica si pone delle domande a
cui soltanto la profonda conoscenza della biologia della mente, generata
dalle nuove metodiche di esplorazione funzionale del cervello, può dare
risposta. È infatti unanime, oggi, il consenso alla tesi, dalle solide basi
empiriche, per cui “specifiche lesioni del cervello producono specifiche
alterazioni dl comportamento, e specifiche alterazioni del comportamento si
riflettono in tipici cambiamenti nel funzionamento del cervello”. Perciò da
una parte i progressi delle neuroscienze trarrebbero nuova linfa dai continui
interrogativi che lo studio del paziente pone al clinico, dall’altra la
psichiatria potrebbe costituire e promuovere un nuovo percorso di
conoscenza scientifica. Sebbene la relazione tra cervello e processi mentali
sia ormai un principio da tutti accettato, Kandel riconosce ancora
l’incertezza nella definizione biologica delle sindromi cliniche e auspica una
sempre maggiore presa di coscienza in ambito neurobiologico.
La mia tesi muove dalle premesse teoriche abbracciate dall’opera
citata di Kandel, concentrandosi sulla duplice possibilità di convalidare due
trattamenti fisici non invasivi per la cura della depressione farmacoresistente
e definire, sperimentalmente, i correlati funzionali dei loro esiti. I
trattamenti adottati sono la stimolazione magnetica transcranica (TMS) e la
stimolazione transcranica a corrente continua (tDCS). La TMS sfrutta
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l’induzione di un campo magnetico attraverso l’applicazione di una bobina
a livello dello scalpo in corrispondenza della corteccia prefrontale
dorsolaterale (DLPFC) che si è dimostrata area target nella terapia della
depressione resistente; la tDCS modula invece l’attività neuronale mediante
l’applicazione di una corrente continua attraverso due elettrodi posti sullo
scalpo a livello delle due cortecce prefrontali dorsolaterali. Si tratta di due
metodiche sicure, che hanno dimostrato efficacia nella cura di pazienti
depressi farmacoresistenti e che possono quindi disegnare una valida
prospettiva terapeutica per un disturbo così invalidante.
Nel capitolo 1 tratterò il fenomeno depressivo nel suo complesso:
dall’eziologia all’indagine sui suoi correlati neurobiologici, tema che
rappresenta oggi un crescente campo di ricerca.
Nel capitolo 2 presenterò i risultati di uno studio di connettività
funzionale condotto su pazienti depressi che evidenzia un’interessante
correlazione tra patologia e connettività funzionale a seguito dell’esecuzione
di uno specifico task. Questo esperimento ha poi posto le basi per lo sviluppo
del paradigma sperimentale di un protocollo di ricerca, da poco avviato,
oggetto del capitolo 5.
Nel capitolo 3 descriverò, invece, i tratti essenziali della depressione
farmacoresistente: la sua definizione, l’epidemiologia che la caratterizza, i
suoi correlati neurali funzionali e i trattamenti alternativi alla
psicofarmacologia attualmente impiegati nell’ambito del suo trattamento
clinico.
Nel capitolo 4 approfondirò quindi le metodologie impiegate nel
protocollo di ricerca, la cui ambizione è determinare quali modifiche
intervengono a livello funzionale in pazienti affetti da depressione
farmacoresistente trattati con TMS e tDCS. Tratterò qui il funzionamento,
la strumentazione necessaria, le basi fisiche, i rischi, i vantaggi e limiti di
applicazione di questi due metodiche.
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Nel capitolo 5 esporrò, infine, il paradigma sperimentale: le premesse
del lavoro, il campionamento, i metodi di raccolta dati e tratteggerò quindi i
possibili sviluppi di ricerca futuri.
In Appendice A, invece, analizzerò brevemente il funzionamento della
risonanza magnetica funzionale (fMRI), scelta come strumento di studio in
vivo delle modifiche di attività cerebrale indotte dalle due tecniche di
stimolazione. La scelta di un’esplorazione funzionale del cervello muove
dall’evidenza di una scarsità di studi riguardanti i correlati neurobiologici
delle due procedure e si pone l’obiettivo di valutare i risultati a carico delle
singole dimensioni del disturbo depressivo.
Infine, nell’Appendice B riporterò i questionari somministrati nello
studio di connettività e nel protocollo di ricerca.
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Indice
Introduzione ....................................................................................... 2
1. La depressione e i suoi correlati neurobiologici ........................... 11
1.1. Epidemiologia ........................................................................ 11
1.2. Eziopatogenesi ....................................................................... 12
1.3. Comorbidità .......................................................................... 17
1.4. Criteri diagnostici .................................................................. 19
1.5. Rischio suicidario .................................................................. 21
1.6. Diagnosi e terapia .................................................................. 23
1.8. Correlati strutturali ................................................................ 25
1.9. Indagine funzionale dei correlati neurobiologici ................... 27
2. Connettività nei pazienti depressi: dati da uno studio fMRI ....... 37
2.1. Background e scopo dello studio ........................................... 37
2.2. Materiali e metodi ................................................................. 37
2.3. Risultati ................................................................................. 40
2.4. Discussione ............................................................................ 43
2.5. Conclusioni ............................................................................ 51
3. La depressione farmacoresistente ................................................. 53
3.1. Epidemiologia e definizione .................................................. 53
3.2. Fattori di rischio .................................................................... 56
3.3. Opzioni terapeutiche ............................................................. 57
4. Nuove prospettive terapeutiche: rTMS e tDCS ........................... 62
4.1. La TMS: sviluppo e utilizzo .................................................. 62
4.2. Principi della TMS ................................................................ 66
10
4.3. Predittori di risposta, sicurezza della metodica e durata degli
effetti terapeutici ....................................................................................... 69
4.4. Confronto tra TMS e TEC ................................................... 72
4.5. Correlati neurobiologici della TMS ...................................... 73
4.6. tDCS: principi e studio dell’efficacia ..................................... 74
4.7. Eventi avversi della tDCS ...................................................... 77
5. Sviluppo di un protocollo sperimentale ........................................ 79
5.1. Endpoint ................................................................................ 79
5.2. Attività sperimentali .............................................................. 80
5.3. Disegno dello studio .............................................................. 83
5.4. Trattamenti oggetto dello studio ........................................... 84
5.5. Follow-up ............................................................................... 86
5.6. Sicurezza ................................................................................ 86
5.7. Conclusioni ............................................................................ 87
Appendice A: fMRI .......................................................................... 88
Principi del segnale BOLD ........................................................... 88
Analisi dati e disegno sperimentale .............................................. 90
Appendice B: Scale utilizzate ........................................................... 93
BDI- II: Beck Depression Inventory II ......................................... 93
Scala di Hamilton ......................................................................... 98
Scl-90 .......................................................................................... 104
Scale for suicide ideation ............................................................ 108
Bibliografia ..................................................................................... 110
Ringraziamenti ............................................................................... 132
11
1. La depressione e i suoi correlati
neurobiologici
1.1. Epidemiologia
La depressione maggiore o unipolare è un disturbo dell’umore che
affligge ogni ambito della sfera individuale: colpisce il pensiero, la
percezione, il comportamento. Rappresenta una minaccia non solo per la
vita dell’individuo, provocando un aumento dei tassi di suicidio, ma anche
per il suo impatto sulla società. La World Health Organization ha stimato in
almeno 298 milioni (4,3% della popolazione globale) il numero di persone
affette da depressione, la quale si annovera tra le principali cause di
morbilità mondiali e una delle cause principali di anni di vita vissuti con
disabilità1 (Vos et al., 2012). Si tratta di un disturbo dell’umore che non
influisce solamente sulle capacità funzionali del paziente, ma ha importanti
ripercussioni in ambito familiare e sociale. Da qui si evince l’importanza di
una ricerca attiva nello scoprire nuove strategie terapeutiche a supporto di
un così invalidante disturbo.
È una patologia ad alta prevalenza, in cui l’episodio depressivo si
configura come un’evidente e netta modifica dell’umore, delle capacità
1 Traduzione di years lived with disability (YLD): parametro che
quantifica l’impatto della disabilità provocata dalla malattia.
12
cognitive e delle funzioni neurovegetative del paziente. La prevalenza è
compresa tra l’8% e il 12% nella maggior parte dei Paesi e cambia nelle
varie fasce di età, con tassi tre volte superiori nel gruppo tra 18 e 29 anni
rispetto a quello di età più avanzata (dai 60 anni). L’età mediana di
insorgenza è tra i 20 e i 25 anni nella maggior parte dei Paesi (Andrade et
al., 2003). La prevalenza nelle donne risulta fino a due volte superiore in
alcune casistiche (Kessler, 2003). La probabilità d’insorgenza del disturbo
trova nell’adolescenza un periodo dal notevole incremento del rischio
(DSM-5, 2013), mentre mostra un declino con l’età (Andrade et al., 2003;
Byers, Yaffe, Covinsky, Friedman, & Bruce, 2010)
1.2. Eziopatogenesi
La comprensione dei meccanismi eziopatogenetici della depressione
si è intensificata nel corso degli anni ma ancora oggi molti aspetti non sono
precisati, stimolando nuove prospettive di ricerca. Sono stati annoverati tra
le potenziali cause: fattori genetici, biologici, ormonali, psicologici e sociali.
La depressione maggiore occorre con maggiore frequenza se siano
presenti specifici fattori di rischio le cui interrelazioni all’interno di una
potenziale via di sviluppo risultano ancora poco chiarite. Alcuni autori
hanno proposto un modello di sviluppo secondo il quale la patologia
deriverebbe dall’interazione di tre vie: “sintomi interiorizzati” (ad esempio
genetica e bassa autostima), “sintomi espressi” (ad esempio abuso di
sostanze) e “ avversità “ (traumi recenti, scarso supporto sociale).
La perdita di un genitore nell’infanzia e la bassa autostima sono
risultate le variabili maggiormente incidenti nel modello maschile, così come
i rischi genetici hanno mostrato nel sesso maschile un maggiore spettro di
azione (Kendler, Gardner, & Prescott, 2006).
Si tratta di un disturbo complesso, dall’eziopatogenesi multifattoriale,
in cui la predisposizione genetica determina una vulnerabilità sulla quale
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devono agire fattori ambientali aggiuntivi, affinché se ne verifichi lo
sviluppo. Le evidenze empiriche indicano che lo sviluppo di un disturbo
affettivo è una caratteristica ereditaria. Non solo, ma per definire l’influenza
dei geni in un fenotipo di una certa malattia si può misurare l’aumento del
rischio derivante dalla parentela con il paziente, espresso come ‘rapporto di
ricorrenza del rischio’. Nel caso della depressione maggiore, questo rapporto
dimostra un ruolo genetico nella patogenesi, anche se meno importante
rispetto a quello svolto nei disturbi bipolari.
I rapporti di concordanza fra gemelli monozigoti dal valore inferiore
al 100% testimoniano, però, il ruolo di fattori di sviluppo o ambientali
(Kandel, 2013). Numerosi studi evidenziano, infatti, il suo carattere
familiare, basato su influenze genetiche, ma un ruolo fondamentale è
comunque ascritto a stimoli ambientali individuali. Sempre indagini
condotte su gemelli monozigoti e dizigoti ne suggeriscono un’ereditarietà
poligenica (Sullivan, Neale, & Kendler, 2000).
Vari indirizzi di ricerca hanno cercato di identificare i geni di rischio
mediante studi di associazione genome-wide, ma molti riscontri non sono
risultati statisticamente significativi o riproducibili, probabilmente a causa
della sua eterogeneità (Sullivan, 2015). Ricerche di linkage suggeriscono, poi,
vie di rischio genetico molteplici e, soprattutto, non rilevano alcun singolo
gene reputabile sufficiente o necessario (Kandel, 2013). L’evidenza
dell’interazione geni-ambiente nell’insorgere della depressione maggiore si
evince anche da un importante studio pubblicato sulla rivista Science in cui il
polimorfismo del promotore del gene del trasportatore della serotonina (5-
HTT), si è visto, modifica la risposta individuale a eventi di vita stressanti;
questa scoperta rende esplicito, quindi, che eventi stressanti possono essere
causa di episodi depressivi solo in alcune tipologie di individuo. Tale studio
ha quindi individuato in questi due fattori la base biologica dell’interazione
eziopatogenetica tra geni e ambiente (Caspi et al., 2003). Al contrario, due
studi successivi, non hanno confermato tale scoperta, non rilevando alcun
collegamento tra eventi sociali avversi, polimorfismo genico e sviluppo di
14
depressione maggiore (Gillespie, Whitfield, Williams, Heath, & Martin,
2005; Surtees et al., 2006).
Perciò, recentemente, il consorzio Converge ha condotto uno studio
di associazione genome-wide genotipizzando più di 5000 donne cinesi
affette da disturbo depressivo maggiore ricorrente, insieme ad altrettanti
controlli. Sono stati identificati due loci sul cromosoma 10 implicati nel
rischio depressivo: una variante è stata riscontrata in prossimità del gene
SIRT1 e l’altra nella regione intronica di LHPP. In un secondo campione
indipendente di 4000 pazienti con depressione severa melanconica è stato
nuovamente individuato un aumento di segnale nella regione del SERT1.
Questo consorzio ha quindi scoperto, per la prima volta, due regioni
genetiche di rischio partendo dal presupposto che uno stesso fenotipo possa
in realtà subire una diversa influenza del substrato genetico. Ha cercato
quindi di ottenere un segnale genetico più marcato, selezionando una
popolazione di studio più omogenea possibile -e con una forma depressiva
severa- che faceva presupporre un maggior coinvolgimento genetico. La
scoperta di questa associazione apre la strada ad un potenziale target
farmacologico e ad un protocollo terapeutico finalmente basato su solide
fondamenta biologiche. Infine, data la prossimità di una variante al gene
SIRT1, e il suo coinvolgimento nel metabolismo mitocondriale, è stato
suggerito un possibile ruolo dell’alterato funzionamento mitocondriale nella
patogenesi della malattia. Questa ipotesi aprirebbe la strada ad un nuovo
fronte di ricerca su altre possibili vie genetiche implicate nel metabolismo
mitocondriale che si avvicinino ad un livello di significatività in tale disturbo
dell’umore (Sullivan, 2015).
Oltre alle convincenti prove di un concorso di fattori genetici nella
eziopatogenesi dei disturbi dell’umore, sempre nuove scoperte testimoniano
un ruolo preminente di fattori psicosociali e biochimici di stress. In alcuni
casi la patologia si manifesta dopo un’esperienza stressante, è stato
d’altronde dimostrato che la depressione e lo stress cronico condividono
modificazioni biochimiche a livello dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene,
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risultanti in una sua maggiore attivazione. Inoltre, se l’aumento di cortisolo
ha un ruolo protettivo nello stress acuto, un suo incremento cronico può
determinare la comparsa di sintomi depressivi, reperto convalidato dal
riscontro dell’alterazione dell’asse HPA in circa la metà dei pazienti
depressi.
Data la scarsa sensibilità e specificità nel riscontro di alterazioni
misurabili dell’asse, tale scoperta non ha permesso la sua convalida come
test diagnostico della depressione (Kandel, 2013). La stessa riduzione
volumetrica ippocampale, reperto frequente in questi pazienti, è stata
collegata all’alterazione dell’asse in conformità a due teorie: la prima
sostiene che alti livelli di glucocorticoidi rendano i neuroni maturi più
suscettibili all’eccitotossicità da glutammato; l’altra trova nello stress cronico
un agente inibitorio della neurogenesi. Sulla base di questa seconda teoria
troverebbe spiegazione l’efficacia degli antidepressivi: dato il loro effetto
stimolante sul ritmo neurogenico, sarebbero, infatti, capaci di inficiare il
circuito di danno ippocampale da ridotta neurogenesi (Kandel, 2013). Da
notare, infine, come l’asse HPA venga inibito da vie ippocampali e l’atrofia
di tale struttura cerebrale contribuisca alla creazione di un circuito di danno
(Kandel, 2013).
Nell’ottica di ricercare fattori ambientali incidenti su un substrato di
predisposizione genetica al disturbo depressivo maggiore, risulta interessante
uno studio che dimostra una correlazione tra la perdita precoce di un
genitore (early parental loss; EPL) e lo sviluppo del disturbo. Elemento che,
oltretutto, si trova in accordo con il dato ormai acquisito di un’associazione
tra episodio di vita stressante e susseguente sviluppo di un episodio
depressivo.
Si tratta di uno studio caso-controllo in cui sono stati inseriti soggetti
con separazione o perdita precoce entro i diciassette anni, nei quali la
probabilità di sviluppare la depressione in età adulta è risultata
significativamente maggiore; il dato relativo alla separazione precoce dal
genitore, e in particolare un’età inferiore ai 9 anni al momento dell’evento,
16
sono risultati molto più rilevanti rispetto al dato riguardante la morte
precoce del genitore. Inoltre, l’interazione tra il bambino piccolo e la madre
si ritiene rappresenti un importante fattore di rischio per la futura risposta
allo stress. Tanto che, in studi condotti su modelli animali, i cuccioli
allontanati dalle madri per periodi prolungati mostravano da adulti livelli
superiori di ACTH e cortisolo in risposta allo stress (Viau, Sharma, Plotsky,
& Meaney, 1993).
La predisposizione genetica influenza il grado di suscettibilità
individuale a fattori ambientali stressanti e, dunque, la condizione
psicopatologica che ne deriva come conseguenza di una vulnerabilità allo
stress (Agid et al., 1999). Eventi di vita stressanti in età precoce modificano
la soglia biologica di risposta allo stress e facilitano l’evoluzione verso un
disturbo depressivo. Una maggiore sensibilità è testimoniata da un
incremento dell’espressione genica del corticotropin releasing-factor (CRF)
ipotalamico; il marcato e durevole aumento dell’espressione dell’m-rna
legato al CRF è stato documentato anche nelle aree limbiche (Nemeroff,
1996).
La scoperta d’iperattività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, e la
costante ipercortisolemia dopo test di soppressione al desametasone, sono in
accordo con l’ipotesi di un aumentato rilascio di CRF nella depressione
maggiore (Heim, Owens, Plotsky, & Nemeroff, 1997).
Molteplici teorie sono state sviluppate riguardo la base biologica del
disturbo depressivo. Tra queste si ha l’ipotesi monoaminergica, secondo la
quale la depressione seguirebbe a un basso livello di attività delle sinapsi
monoaminergiche. Le monoamine comprendono la dopamina, l’adrenalina,
la noradrenalina e la serotonina; la riduzione della serotonina sembra,
inoltre, inficiare il funzionamento degli altri sistemi neuromodulatori. La
rilevazione dell’efficacia degli antidepressivi, in grado di aumentare i livelli
sinaptici dei neurotrasmettitori, ha determinato la postulazione di questa
ipotesi. Quindi, seguendo tale supposizione, la scelta dell’antidepressivo
viene fatta sulla base dei sintomi preminenti, e quindi con farmaci attivi nei
17
confronti del trasmettitore che sembra maggiormente coinvolto, come, ad
esempio l’utilizzo degli SSRI o degli inibitori del reuptake della
norepinefrina nella forme con maggiore componente ansiosa.
Uno studio PET sul cervello di pazienti depressi confermerebbe tale
ipotesi evidenziando un’elevata attività dell’enzima mono-amino-ossidasi di
tipo A (MAO-A) responsabile del metabolismo dei neurotrasmettitori.
Infatti, la sua densità enzimatica era aumentata in molteplici aree cerebrali
(Meyer et al., 2006).
L’ipotesi monoaminergica originale è stata però a lungo dibattuta ed
è tutt’ora considerata non esemplificativa della reale fisiopatologia
depressiva e del meccanismo di azione dei farmaci. A testimonianza di ciò, i
farmaci attivi sul sistema monoaminergico non sono sempre efficaci sui
sintomi depressivi, ma, dall’altra parte, risultano adatti anche al trattamento
di diversi altri disturbi psichiatrici. Altra prova a carico di una questione
ancora aperta è che volontari sani con deplezione delle monoamine indotta
da farmaci non sviluppino il disturbo. Oltre al fatto che gli effetti sull’umore
si manifestino a distanza di settimane, nonostante le monoamine disponibili
incrementino in poche ore.
Nonostante gli evidenti limiti questa prima ipotesi ha comunque
permesso lo sviluppo di farmaci sicuri per la terapia del disturbo e ha
contribuito a una migliore comprensione della depressione maggiore
(Delgado, 2000; Hirschfeld, 2000).
1.3. Comorbidità
Il rischio di essere colpiti da disturbo depressivo è maggiore in
pazienti affetti da malattie neurologiche, come il morbo di Parkinson e la
sclerosi multipla, e nel primo anno dopo il parto. La malattia si associa
frequentemente ad altri disturbi psichiatrici e in particolar modo a disturbo
di ansia generalizzato, disturbo di panico, diversi disturbi della personalità e
18
dipendenza da sostanze (Hasin, Goodwin, Stinson, & Grant, 2005). La
maggior parte degli adulti affetti da una forma clinicamente significativa si
rivolge al medico di medicina generale, e una metanalisi del 2009 stima nel
50% la percentuale di diagnosi misconosciute. Fatto che può trovare la sua
radice in un maggior accesso da parte di pazienti con forme più lievi e nella
difficoltà di identificare il disturbo se inserito in un contesto di patologie
croniche internistiche (Mitchell, Vaze, & Rao, 2009). La comorbidità
rappresenta un segno distintivo della depressione geriatrica e in uno studio
condotto su 546 pazienti anziani sotto cura primaria è stato descritto come il
carico totale delle malattie coesistenti, più della singola patologia, sia
associato alla depressione; tale riscontro ha suggerito l’ipotesi di una via
patogenetica comune, comprensiva di elementi patologici condivisi (ad
esempio un ruolo potenziale delle citochine infiammatorie) o l’ipotesi di
elementi psicosociali comuni, come un alterato funzionamento del ruolo
sociale. La disabilità funzionale indotta dalla malattia potrebbe svolgere un
ruolo principale nelle vie patogenetiche comuni fatto che deve essere però
supportato da successive indagini (Lyness, Niculescu, Tu, Reynolds, &
Caine, 2006). Nello studio PROSPECT2 si è ugualmente evidenziato come
la coesistenza di malattie croniche influenzi l’outcome del disturbo depressivo
in pazienti anziani, ma anche come la comorbidità possa essere
efficacemente affrontata e superata tramite specifici protocolli terapeutici
volti a migliorare la qualità delle cure nella depressione in tarda età.
L’identificazione dei pazienti affetti da patologie croniche, che quindi più
beneficerebbero di interventi integrati, rappresenta il primo passo verso un
2 PROSPECT: ‘Prevention of Suicide in Primary care Elderly Collaborative
Trial’. L’’intervento dello studio prevedeva una figura professionale atta alla
gestione di pazienti anziani depressi con terapie basate su algoritmi.
19
miglioramento dell’outcome in anziani gestiti sul territorio da medici di
medicina generale (Bogner et al., 2005).
1.4. Criteri diagnostici
I criteri più utilizzati per la diagnosi di depressione sono contenuti
nel “Diagnostical and Statistical Manual of Mental Disorders” (DSM)
dell’American Psychiataric Association o nel “International Statistical
Classification of Diseases and Related Health Problems” della WHO,
maggiormente utilizzato in ambito europeo. Secondo il DSM-5 si
diagnostica una depressione unipolare qualora il paziente abbia presentato
almeno un episodio depressivo maggiore e non presenti una storia di mania
o ipomania. È definito episodio depressivo maggiore un periodo di almeno
due settimane, anche se solitamente di durata sensibilmente superiore, in cui
siano presenti cinque o più dei seguenti criteri: umore depresso, anedonia,
insonnia o ipersonnia, variazioni di peso o dell’appetito, agitazione o
rallentamento psicomotorio, faticabilità, sentimenti di colpa o di
autosvalutazione eccessivi o inappropriati, ridotta capacità di concentrarsi o
pensare, pensieri ricorrenti di morte o suicidio; un criterio deve essere
necessariamente rappresentato da perdita di piacere o umore depresso
(criterio A). I sintomi devono causare un distress clinico significativo nelle
aree di funzionamento sociale e occupazionale dell’individuo (criterio B) e
l’episodio non deve essere attribuibile agli effetti di sostanze assunte (droghe
d’abuso o farmaci) o ad altre condizioni mediche. Nel caso di forme più lievi
le capacità funzionali di alcuni soggetti possono risultare inalterate, ma a
costo di un significativo incremento di sforzo ( DSM-5, 2013).
Secondo l’ICD-10 si distingue un episodio depressivo (di lieve,
moderata, grave entità) da una sindrome depressiva ricorrente. Non si
utilizza il termine di sindrome depressiva maggiore, ma è stilata una lista di
criteri, comunque molto simili a quelli del DSM, nella quale i sintomi tipici
20
sono rappresentati da: tono dell’umore depresso, perdita della capacità di
provare piacere e di interessi, affaticabilità. La diagnosi di certezza è posta in
presenza di almeno due dei tre sintomi tipici insieme perlomeno ad altri due
sintomi comuni e per la durata di minimo due settimane. Si parla di
sindrome depressiva ricorrente se caratterizzata da ripetuti episodi, senza
alcuna storia di episodi indipendenti di esaltazione del tono dell’umore o di
iperattività che soddisfino i criteri per la diagnosi di mania.
Se nell’ICD-10 sono considerati tipici sintomi depressivi l’anedonia,
la ridotta energia e l’umore depresso, di cui almeno due devono essere
rilevati per poter porre diagnosi, nel caso del DSM l’affaticabilità non viene
compresa tra i tipici, ed è necessario solo un sintomo tipico per parlare di
episodio depressivo maggiore.
La depressione maggiore è un disturbo ricorrente, e l’indebolimento
della funzionalità psicosociale dopo la guarigione da un primo evento
aumenta il rischio di ricorrenza del disturbo; da qui l’evidenza che
l’afflizione del funzionamento sociale del paziente possa contribuire a
identificare coloro a maggior rischio di ricorrenza sei o dodici mesi più tardi
dal primo episodio (Solomon et al., 2004). Il rischio di ricorrenza aumenta
progressivamente all’aumentare del numero di episodi depressivi mentre
sembra essere inversamente correlato all’incremento del periodo di
guarigione (Solomon et al., 2004).
Il disturbo depressivo maggiore influisce nel peso delle malattie
cardiovascolari ischemiche e del suicidio a livello di salute della popolazione
mondiale. Questo testimonia ancora di più la necessità di includere i disturbi
depressivi tra le priorità degli interventi di salute pubblica, in modo da
ridurne il peso a livello globale (Ferrari et al., 2013). Infatti, fino al 15% dei
pazienti depressi unipolari commette suicidio (Cipriani, Barbui, & Geddes,
2005).
21
1.5. Rischio suicidario
Le motivazioni che spingono l’individuo al suicidio possono
comprendere: la necessità di arrendersi di fronte ad ostacoli ritenuti
insormontabili, un desiderio di porre fine a una condizione ritenuta
insopportabile, l’incapacità di immaginarsi un futuro migliore oltre al
tentativo di liberare i familiari dal proprio peso.
Una review del 2013 ha evidenziato come una terapia adeguata a
lungo termine a base di litio possa ridurre il rischio di suicidio se comparata
al placebo; mentre il farmaco non sembra offrire alcun beneficio ulteriore
nella prevenzione del suicidio rispetto ad altri agenti psicotropi, e non si
mostra efficace nella prevenzione dell’autolesionismo (Young, 2013).
Uno studio del 2014, in netto contrasto con studi antecedenti,
evidenzia invece come l’uso degli antidepressivi non sembri né incrementare
né ridurre il comportamento suicidario in pazienti unipolari durante il
periodo di esposizione, mentre un effetto di riduzione del rischio è stato
rilevato in pazienti bipolari sia di tipo I che di tipo I (Leon et al., 2014).
Meta-analisi condotte dalla FDA americana sugli antidepressivi
hanno evidenziato, a tal proposito, che mentre nel caso di soggetti anziani si
può rilevare un chiaro effetto protettivo nei confronti dell’ideazione
suicidaria, nei soggetti di età intermedia non è rilevabile alcun tipo di
risultato. Discorso a parte sembra invece essere rappresentato dagli
adolescenti in cui la prescrizione di tale agenti psicotropi pare aumentare
significativamente il rischio di ideazione e tentativo suicidario (Leon et al.,
2014). Si stima, infine, che la depressione colpisca il 4-6% dei bambini e
degli adolescenti e gli inibitori selettivi del reuptake della serotonina ne
rappresentano la terapia di prima linea.
A seguito della rilevazione di una maggiore predisposizione
all’ideazione suicidaria in adolescenti sotto trattamento, sono state condotte
numerose ricerche. Tra queste una su modelli animali è stata sviluppata
partendo dal modello murino di attivazione del locus coeruleus (LC) come
22
mediatore biologico di sintomi depressivi e quindi di rischio suicidario. I dati
ottenuti mostravano come non sempre ratti giovani avessero una
disattivazione del LC, e quindi il ripristino di una normale via
noradrenergica, a seguito della somministrazione di paroxetina, mentre in
ratti adulti si rilevava sempre una risposta attesa, dato importante dal punto
di vista terapeutico (Liberzon & George, 2010).
Una review di studi osservazionali del 2010, volta a verificare la
relazione tra adolescenti morti suicidi e assunzione di SSRI afferma, però,
che, data la scarsa prevalenza di assunzione del farmaco prima dell’atto, non
sia supportata l’affermazione che i farmaci siano associati a un incremento
del tasso di suicidio giovanile; considerata però la prevalenza di depressione
associata a suicidio nei giovani, sono infine giunti alla conclusione che molti
non fossero sotto l’effetto protettivo del serotoninergico al momento della
loro morte. Questa review sembra quindi esortare i clinici ad introdurre tali
farmaci all’interno di una gestione controllata e consapevole di forme
moderate e severe di depressione giovanile (Dudley, Goldney, & Hadzi-
Pavlovic, 2010).
Il suicidio è un comportamento umano complesso e dalle molteplici
componenti biologiche e psicosociali, che trova nella depressione
misconosciuta, non riferita o sotto trattata, la sua causa maggiore; da qui
l’evidenza che un’adeguata terapia farmacologica possa non solo ridurre
l’impatto sintomatologico del disturbo, ma se sufficientemente prolungata e
adeguata, sia uno dei principali componenti a contributo di una discesa dei
tassi di suicidio. Elemento confermato anche dalla bassa incidenza di
comportamento suicidario in pazienti eutimici sotto terapia (Isacsson,
Bergman, & Rich, 1996; Rihmer, 2001).
È stato dimostrato, poi, che in pazienti depressi si abbia una
maggiore frequenza di incubi durante il sonno e che questo fattore si associ
ad un più alto score relativo nella Hamilton Rating Scale for Depression
(HRSD); secondo quanto riportato in questo studio recente, i pazienti
depressi con disturbo ricorrente si sono dimostrati maggiormente inclini ad
23
un sonno disturbato dagli incubi rispetto a soggetti bipolari e questo
parametro, associandosi alla depressione, potrebbe incrementarne il ruolo di
fattore di rischio suicidario (Marinova et al., 2014).
Nella ricerca di fattori predittivi in grado di quantificare il rischio
suicidario si è dimostrato valido il risultato di iperattività dell’asse ipotalamo-
ipofisi-surrene al test di soppressione al desametasone (DST): i pazienti non
soppressori avevano un rischio superiore e che non era stato quantificato dai
comuni predittori clinici evidenziando come l’iperattività dell’asse sia un
parametro caratteristico dei pazienti con depressione maggiore che
commettono suicidio (Coryell & Schlesser, 2001).
1.6. Diagnosi e terapia
La diagnosi di depressione maggiore non si avvale dell’utilizzo di
nessun test di screening specifico, ma si basa sull’intervista del paziente per
valutare la presenza di sintomi depressivi, di un’eventuale ricorrenza del
disturbo, di comorbidità, oltre che per ricercare possibili episodi maniacali
nella storia clinica in modo da escludere un disturbo bipolare. La
valutazione diagnostica ricorre inoltre all’esame dello stato mentale che
analizza, soprattutto, il tono dell’umore e il contenuto del pensiero, con
particolare attenzione all’ideazione suicidaria. Tale valutazione può
avvalersi anche di scale psicologiche come la Hamilton (HDRS) o la Beck
Depression Inventory (BDI).3 Queste possono essere utili anche nel follow-
up per rilevare una remissione o una risposta attraverso una modifica dello
score di riferimento.
3 Sulla BDI si veda il capitolo 2; per la HDRS il capitolo 5.
24
Purtroppo non esistono, ad oggi, test di laboratorio per la diagnosi di
depressione. Tuttavia possono essere richiesti esami allo scopo di escludere
una depressione secondaria a sostanze di abuso o per compiere una diagnosi
differenziale; alcune patologie possono infatti essere scambiate per
depressione, condividendone dei sintomi.
La terapia può avvalersi di differenti modalità, tra cui: i farmaci
antidepressivi, la psicoterapia, la terapia elettroconvulsiva o l’utilizzo della
TMS, ovvero la stimolazione magnetica trans-cranica, che è stata approvata
dalla FDA nel 2008 per il trattamento della depressione farmacoresistente e
che sarà oggetto di questa tesi.
Numerose meta-analisi hanno mostrato come la psicoterapia
associata alla terapia farmacologica possa fornire risultati migliori rispetto
all’utilizzo isolato del farmaco (Cuijpers, Dekker, Hollon, & Andersson,
2009). Tuttavia, una review di recente pubblicazione, ha evidenziato che la
terapia combinata garantirebbe solo un debole vantaggio e che, sia la
psicoterapia che gli antidepressivi isolati, non sarebbero più efficaci di
terapie alternative. Questi dati suggeriscono come la gestione attiva del
paziente fornisca maggiori evidenze rispetto alla scelta della modalità
terapeutica (Khan, Faucett, Lichtenberg, Kirsch, & Brown, 2012). Una
terapia inadeguata rappresenta un problema che esorta non solo a una
maggiore diffusione di una corretta pratica terapeutica, ma anche al
miglioramento della sua qualità (Kessler et al., 2003). Lo scopo degli
indirizzi di ricerca attuali è quello di identificare profili che possano predire
la risposta a uno specifico trattamento nell’intento di sviluppare terapie
personalizzate. Il nostro stesso protocollo di ricerca, sviluppato nel capitolo 5,
pone la ricerca di fattori neurobiologici predittivi di risposta tra i suoi
principali endpoint.
La severità dell’episodio depressivo è uno dei parametri più
importanti nella definizione dell’evoluzione clinica. Quadri clinici più severi
si associano più frequentemente a minori probabilità di remissione, maggior
numero di visite e di mesi sotto terapia antidepressiva, ma soprattutto a una
25
peggiore prognosi nonostante la maggiore intensità di cure (Katon, Unutzer,
& Russo, 2010).
Uno studio afferma che dal 30 al 50% della popolazione rispecchi,
almeno una volta nella vita, i criteri di un episodio depressivo; di questi
episodi circa la metà risultano di breve durata e non ricorrenti. Circa un
terzo mostra miglioramenti a lungo-termine sotto placebo rispetto a molti
altri che non rispondono a diversi trattamenti. Queste rilevazioni
testimoniano come una stessa diagnosi di depressione possa essere applicata
a soggetti che facciano esperienza di una tristezza reattiva e di breve durata
che risponde al placebo così come ad episodi severi, ricorrenti e non sensibili
alla terapia. Mentre la ricerca si è focalizzata sul comprendere le forme
croniche e ricorrenti, oggi si esorta anche una migliore comprensione delle
forme lievi che appaiono sensibili al placebo, in modo da analizzare i fattori
che garantiscono un decorso più benigno del disturbo.
Data l’estrema eterogeneità clinica e prognostica, i criteri diagnostici
ora utilizzati sono stati oggetto di aspra critica e sempre più si dibatte sulla
necessità di classificazioni basate su riscontri empirici. Il crescente dibattito
ha aperto la strada ad un nuovo fronte di ricerca sulla caratterizzazione
delle basi neurali del disturbo depressivo, soprattutto di quelle coinvolte
nella differenziazione di una semplice tristezza transitoria da una
depressione maggiore (Lorenzo-Luaces, 2015). In ogni caso, non esiste a
oggi nessun test di laboratorio che permetta di segnalare se una tristezza
reattiva diventi una depressione maggiore (Sullivan, 2015).
1.8. Correlati strutturali
Uno studio con risonanza magnetica (MRI) avviato nel 1993
nell’intento di definire i correlati anatomici della depressione maggiore ha
rilevato una differenza statisticamente significativa solamente nel volume
cerebrale medio del lobo frontale con una riduzione del 7% nei pazienti
26
depressi gravi rispetto ai controlli sani. I soggetti, indipendentemente dalla
loro età, hanno inoltre mostrato un’iperintensità in T2 della sostanza bianca
sottocorticale nella regione peri-ventricolare (OR 5.32), dato
precedentemente evidenziato solo in pazienti depressi anziani.
L’iperintensità potrebbe trovare la sua base in foci di alterazioni istologiche
per ipoperfusione da farmaci antidepressivi, anche se non vi sono sufficienti
evidenze; mentre altre cause sono state ipotizzate nell’ipercortisolismo
persistente o in altre sequele derivanti dal disturbo. Questi dati sono stati
però ottenuti su pazienti indirizzati alla terapia elettroconvulsiva, spesso con
comorbidità e forme depressive refrattarie ad altri approcci terapeutici, fatto
che ha suggerito la necessità di ulteriori evidenze in altri gruppi di pazienti
(Coffey et al., 1993).
Sempre con MRI è stata rilevata un’atrofia ippocampale destra in
donne anziane con depressione a precoce insorgenza, ma non in tutti i casi
era correlata con lesioni della sostanza bianca sottocorticale, dato che ha
suggerito un ruolo ippocampale, ma un’indipendenza della sostanza bianca
nella genesi neuropatologica della depressione precoce (Janssen et al., 2004).
Nel caso di un primo episodio depressivo, numerose ricerche hanno
mostrato una disfunzione dei circuiti limbico-talamo-corticali, che si
ipotizzano essere implicati nella modulazione dell’umore e nei quali
l’ippocampo svolge un ruolo centrale; la risonanza magnetica ad alta
risoluzione di trenta pazienti, confrontata con i controlli, ha evidenziato
asimmetria destra-sinistra, riduzione delle fibre bianche ippocampali e
volumi ridotti di sostanza grigia ippocampale soprattutto in soggetti
maschili.
La rilevazione di anomalie strutturali nell’ippocampo ha confermato
un suo ruolo preminente, e delle sue connessioni, nella patogenesi
neurobiologica depressiva. Nonostante la maggiore prevalenza del disturbo
nella popolazione femminile, i dati di atrofia ippocampale sono risultati
significativamente più marcati tra gli uomini e questo è stato ipotizzato
derivare da un effetto neuroprotettivo estrogenico riscontrato in studi su
27
pazienti con stroke e da un’incrementata vulnerabilità ad agenti neurotossici
dovuta al testosterone (Alkayed et al., 1998; Frodl et al., 2002). Uno studio
più recente con MRI ha identificato una riduzione del volume di sostanza
grigia in regioni implicate nel circuito corto-limbico e in particolare a livello
dell’amigdala; questo ultimo dato risulta concorde con le evidenze
nell’analisi post-mortem del cervello di pazienti affetti da depressione
unipolare (Sacher et al., 2012).
1.9. Indagine funzionale dei correlati neurobiologici
La nascita dell’esplorazione funzionale in vivo del cervello mediante
PET e fMRI, utilizzata sia in caso di soggetti normali che affetti da diverse
patologie, ha permesso di indagare le basi biochimiche dell’attività
cerebrale. Si tratta di uno strumento non invasivo di studio delle attivazioni
cerebrali e della connettività tra reti neuronali che sfrutta le differenze tra
pazienti psichiatrici e controlli sani in modo da evidenziare le modifiche
strutturali e funzionali indotte dall’episodio depressivo. La scelta delle
regioni di interesse potenzialmente implicate nello sviluppo del disturbo è
stata fatta sulla base di un loro ruolo nella regolazione dello stato emotivo o
nella ricerca di gratificazione (Kupfer, Frank, & Phillips, 2012;
Sundermann, Olde Lutke Beverborg, & Pfleiderer, 2014).
La complessità nello studio delle funzioni cerebrali, accompagnata
dall’estrema variabilità di presentazione del disturbo depressivo, ha reso
spinosa la ricerca delle basi neuropatologiche della malattia, la cui
conoscenza è uno strumento cruciale per arrivare ad un progresso nella sua
diagnosi e terapia. Le conoscenze attuali della fisiopatologia del disturbo ne
indicano una base diffusa su diverse regioni e circuiti cerebrali (Pandya,
Altinay, Malone, & Anand, 2012).
La stimolazione di diverse aree cerebrali si è dimostrata efficace e il
riscontro di un ridotto metabolismo della corteccia prefrontale dorso-laterale
28
sinistra, che sembra connessa ad un giudizio emozionale negativo (Grimm et
al., 2008), è un reperto ricorrente in pazienti depressi tanto che questa area
è stata scelta come target della stimolazione magnetica transcranica, nuova
strategia terapeutica nel trattamento della depressione farmacoresistente di
cui tratterà più approfonditamente il capitolo 4.
Le aree cerebrali che si ipotizza siano implicate nella neurobiologia
della depressione maggiore sono: la corteccia prefrontale dorsolaterale e
mediale, il sistema limbico, la corteccia cingolata anteriore dorsale e
ventrale, la corteccia orbito-frontale, l’insula, il tronco encefalico, il
cervelletto e il giro temporale superiore. La rilevazione di così numerose
aree potrebbe trovare spiegazione in un’alterazione molecolare neuronale
condivisa, in una disfunzione di un centro di controllo delle regioni
implicate nella regolazione umorale, come ad esempio le proiezioni
monoaminergiche tronco-encefaliche, oppure nel fatto che differenti sintomi
implichino il coinvolgimento di diverse aree con varia intensità.
Quest’ultima teoria spiegherebbe finalmente la polimorfa presentazione
neurobiologica del disturbo, anche se, ad oggi, il collegamento tra un
sintomo e la disfunzione di una specifica area cerebrale è ancora lontano
dall’essere dimostrato.
Diverse aree corticali, sotto-corticali e tronco-encefaliche hanno
presentato un’alterata attivazione funzionale del cervello depresso. Una
meta-analisi ha rilevato una scarsa sovrapposizione di paradigmi
sperimentali tra le diverse metodiche di indagine, e come spesso vi siano
differenze significative nel modo in cui varie regioni risultano disfunzionanti.
Ad esempio in letteratura, la lateralità sinistra di ipo-attivazione in studi
resting-state non è stata sempre confermata, come anche la ridotta attivazione
bilaterale delle cortecce prefrontali (Fitzgerald, Laird, Maller, & Daskalakis,
2008).
L’eterogeneità dei dati acquisiti dalle rilevazioni funzionali e la
difficoltà nell’identificare singole modifiche neurochimiche o strutturali in
un primo momento è stata fatta risalire a fattori differenti: la variabile
29
gravità del quadro, l’effetto delle terapie, le diverse metodologie di
acquisizione e di analisi. Ma, questa eterogeneità ha infine portato i
ricercatori a supporre che la neuro-patogenesi sia collegata a squilibri nelle
connessioni funzionali, più che all’anomala attività di singole regioni
(Pandya et al., 2012). Secondo questa tesi, anomalie regionali potrebbero
essere addirittura assenti così come assente sarebbe una specifica area
disfunzionante, ma la causa risalirebbe nel modo in cui una regione
influenza il funzionamento dell’altra aprendo la strada a nuove ricerche su
aree primarie e secondarie d’interesse.
A tal proposito, dato che anche lo studio presentato al capitolo
successivo tratta questo fenomeno, è opportuno definire puntualmente la
connettività funzionale tra regioni cerebrali, intesa come “correlazione
temporale tra eventi neurofisiologici spazialmente distanti” (Friston, Frith, Liddle, &
Frackowiak, 1993). È infatti interessante notare che i disturbi dell’umore si
sono dimostrati maggiormente associati ad anomalie della connettività
piuttosto che a irregolarità all’interno di singole aree cerebrali.
La misurazione della connettività funzionale è eseguita attraverso la
valutazione della correlazione tra le attività di diverse aree cerebrali in studi
di risonanza magnetica funzionale, durante l’esecuzione di un compito
sperimentale o in stato di riposo (resting-state). L’analisi del resting-state è la
più utilizzata per indagini funzionali a scopo clinico: in questo caso si
esaminano le fluttuazioni a bassa frequenza pesate sul segnale BOLD, dette
low-frequency BOLD weighted temporal fluctuations (LFBF), espressione di
un diverso livello di flusso ematico e di ossigenazione: le aree connesse
funzionalmente mostrano un analogo andamento temporale delle
fluttuazioni a bassa frequenza. Lo studio delle correlazioni tra segnali LFBF
ha permesso di indagare la connettività funzionale di aree cerebrali
conosciute per essere coinvolte nella neurobiologia dei disturbi affettivi.
Molti studi fMRI utilizzano dei compiti specifici (task) da far
compiere al paziente durante l’acquisizione per evidenziare le aree attivate
nell’esecuzione e nella preparazione delle risposte; gli studi resting-state
30
permettono di individuare le anomalie di ‘comunicazione’ all’interno di
network cerebrali, evidenziando le modifiche indotte dalle patologie. Inoltre,
i parametri del segnale fMRI resting-state e della connettività possono
permettere la comparazione tra differenti gruppi di soggetti o lo studio
specifico delle modifiche indotte dalle patologie, mediante la correlazione
con scale o indicatori diagnostici dei disturbi psichiatrici (Wang, Hermens,
Hickie, & Lagopoulos, 2012).
L’utilizzo negli studi di imaging funzionale di campioni
numericamente piccoli di pazienti depressi, dal relativo potere statistico, ha
sottolineato la necessità di meta-analisi, al fine di identificare aree cerebrali
che si attivano in maniera consistente tra i diversi studi, in risposta ad un
determinato intervento. Diversi modelli sono stati proposti, ma ciascun
candidato presenta dei limiti, potendo spiegare solo parzialmente i sintomi
tipici del paziente depresso (Graham et al., 2013).
Meta-analisi recenti hanno confermato diverse regioni di interesse
nella neurobiologia depressiva, mentre sono citati come alterati network di
connettività funzionale nel cervello depresso il Default-mode network
(DMN)4 e il circuito di regolazione dell’umore (MRC)5, con un’importante
coinvolgimento dell’amigdala tra le regioni limbiche (Anand et al., 2005a).
4 Default mode network: rete di aree cerebrali che comprendono la
corteccia cingolata posteriore, il precuneo, la ACC ventrale, la mPFC, la
dlPFC, la corteccia parietale inferiore, il giro temporale superiore, la
corteccia orbitofrontale e il giro para-ippocampale (Raichle et al., 2001). I
segnali BOLD di queste aree spazialmente distanti sono risultati
temporalmente correlati configurando un network di connettività
maggiormente attivato durante il resting-state e che riduce la sua attivazione
31
Uno studio PET del 1999 fu il primo a dimostrare, in soggetti con
tono dell’umore depresso, un’associazione tra un’incrementata attività
limbica e una ridotta attività prefrontale. Il decremento della connettività
cortico-limbica fu confermato al momento della remissione, quando
entrambe le aree mostravano attività opposte rispetto a prima e, quindi, una
loro interazione funzionale permanente, indipendente dalle modifiche
umorali in entrambe le direzioni (Mayberg et al., 1999).
Tra le aree interessate dalla patologia c’è anche la corteccia cingolata
anteriore (ACC). Questa è suddivisa in due regioni, ventrale (o subgenuale) e
dorsale; la regione dorsale è coinvolta in aspetti cognitivi dell’emozione
mentre la ventrale ospita i collegamenti con le aree limbiche, con le aree
corticali implicate nella regolazione del tono umorale e anche con
l’ipotalamo. Elemento che, dato il ruolo dell’ipotalamo di controllo sugli assi
durante compiti finalizzati ad uno scopo. Rappresenta un’attività neurale di
base che si ‘accende’ quando il soggetto riflette su se stesso ed è ‘sganciato’
dagli stimoli ambientali, tanto che una sua attivazione persistente durante
un task è stata associata alla ruminazione tipica del paziente depresso. Uno
studio ne indica un coinvolgimento nella fobia sociale, avendo identificato
una minore disattivazione in aree dedicate all’elaborazione interiore anche
in questo disturbo (Gentili et al., 2009; Sliz & Hayley, 2012).
5 MRC o Mood Regulating circuit: circuito che risulta costituito da
amigdala, globo pallido e talamo mediale tra le regioni limbiche a maggiore
attivazione e corteccia prefrontale dorsolaterale e anteromediale, insieme
alla corteccia cingolata anteriore, tra le aree corticali.
32
di risposta allo stress, è di particolare interesse nello studio di questa
patologia.
Uno studio condotto su soggetti depressi ha rilevato una ridotta
coerenza di fase tra i segnali LFBF delle aree limbiche e della corteccia
cingolata anteriore. L’ipotesi dell’alterata connettività tra queste regioni
nella neurobiologia depressiva è stata confermata dall’osservazione di
riduzione nella correlazione tra segnali LFBF, non solo in acquisizioni
resting-state, ma anche durante task di visione di immagini con diverso
significato (neutrali, positive e negative) in confronto ai controlli sani (Anand
et al., 2005a). Nei soggetti sani, l’aumentata attività delle aree corticali di
controllo è stata rilevata solo a seguito dell’esposizione a immagini negative
e potrebbe essere espressione di una necessità di regolare l’attività limbica in
risposta a stimoli negativi. Da qui l’ipotesi che il mancato incremento di
attività della corteccia cingolata anteriore, in risposta ad una maggiore
attivazione limbica – e quindi una minore connettività cortico-limbica -
rappresenti un marker caratteristico della depressione (Anand et al., 2005a).
Determinati task hanno, dunque, fatto supporre un minore controllo della
corteccia cingolata anteriore sulle aree limbiche determinanti il tono
umorale (Anand et al., 2005a). Da notare, inoltre, che è stata identificata
un’aumentata correlazione dei segnali LFBF di queste regioni a seguito di
terapia antidepressiva (Anand et al., 2005b). Si ritiene, infatti, che gli
antidepressivi esercitino un’azione combinata sia sulla connettività
funzionale cortico-limbica, che sull’attivazione limbica in risposta a stimoli
negativi. Studi fMRI condotti prima e dopo sei settimane di terapia con
sertralina hanno identificato un incremento di connettività resting-state tra
la ACC e regioni limbiche, le quali sono risultate meno attivate in risposta a
stimoli negativi rispetto ad immagini neutre. L’aumento di coerenza di fase
nel LFBF tra ACC e regioni limbiche (amigdala, pallido striato e talamo
mediale) potrebbe, quindi, associarsi a una migliore regolazione delle regioni
limbiche responsabili del processo emozionale da parte delle regioni corticali
di controllo (Anand, Li, Wang, Gardner, & Lowe, 2007).
33
Inoltre, è stato ipotizzato anche un ruolo dell’area subgenuale della
corteccia cingolata anteriore a seguito di studi fMRI su soggetti adolescenti,
nei quali si è vista una ridotta connettività all’interno di una rete neurale
estesa, appunto, dalla subgenuale dell’ACC a numerose aree cerebrali, tra
cui l’insula. Proprio la ridotta connettività con la corteccia insulare, dato il
suo coinvolgimento nel processo emotivo, sarebbe coinvolta nella
disfunzione affettiva del paziente (Cullen et al., 2009).
Uno studio del 2007 ha descritto un’anomala connettività resting-
state a livello del default-mode network (DMN), ovvero una rete composta
da un insieme di regioni corticali e sottocorticali, tra cui la corteccia
cingolata anteriore, che si attiva quando i soggetti non compiono nessun
task specifico: restano svegli e in condizione di riposo. Questo studio fu il
primo a evidenziare un ruolo esclusivo della corteccia cingolata subgenuale
nel network dei soggetti depressi rispetto ai controlli sani. Inoltre,
l’osservazione di un’associazione tra l’aumento di durata dell’episodio
depressivo e la connettività funzionale subgenuale nel network, ha fatto
supporre un potenziale utilizzo di studi resting-state come elemento
predittivo di refrattarietà (Greicius et al., 2007). Va rilevato, però, come
spesso reperti discordanti sullo stato di connettività della DMN siano stati
evidenziati persino all’interno dello stesso gruppo d’interesse. In ogni caso,
l’aumentata attivazione a riposo di aree comprese nel DMN, con relatività
inabilità alla down-regulation, potrebbe rappresentare la base neurale della
ruminazione negativa (Dutta, McKie, & Deakin, 2014) .6
6 Le ruminazioni mentali o idee coatte sono pensieri ciclici dal
contenuto fisso su una visione negativa di sé stessi e di eventi passati
(Cassano & Tundo, 2006). Nel paziente depresso potrebbe essere
espressione di un’incapacità nel rendersi emotivamente distaccati al
34
Tra le aree limbiche, invece, l’amigdala pare essere rilevante, dato il
suo ruolo nelle risposte neurali a stimoli negativi (Anand et al., 2005a). Si è
infatti riscontrata, in diversi studi, un’iperattività limbica che causerebbe
un’intensificata elaborazione di stimoli, con preferenza verso quelli negativi
(Sliz & Hayley, 2012). E di recente, il rilievo di anormalità cerebellari ha
portato a supporre un suo potenziale ruolo nell’elaborazione cognitiva di
stimoli negativi (Wang et al., 2012).
Una meta-analisi di studi fMRI caratterizzati dall’uso di stimoli
negativi ha infatti evidenziato nei soggetti depressi, rispetto ai controlli, una
maggiore risposta nella corteccia cingolata anteriore dorsale, nell’insula, nel
giro temporale superiore e nell’amigdala (Hamilton et al., 2012). Dunque, i
tre modelli ritenuti importanti nella neurobiologia depressiva possiamo
elencare: il modello cortico-limbico, il cortico-striatale e il default-mode
network (DMN). Le regioni sensibili alla terapia sono state trovate a livello
delle aree prefrontali laterali, facendo supporre l’intervento di un marker
biologico di risposta nella disregolazione. Una disfunzione a livello di aree
sotto-corticali non ha invece mostrato alcuna sensibilità alla terapia, ma ha
anzi fatto ipotizzare che questo parametro sia un possibile fattore di
vulnerabilità (Graham et al., 2013).
Molte discipline mediche prevedono l’utilizzo routinario di test
diagnostici basati su immagini e quindi su misurazioni oggettive dell’organo
di interesse. Allo stato attuale, nessun procedimento basato su una
dettagliata conoscenza biologica del fenomeno è oggi utilizzabile per una
scelta terapeutica decisa a far fronte a un episodio depressivo. Lo scopo di
creare nuove procedure per la gestione di un episodio depressivo rende
necessaria la misurazione diretta del funzionamento cerebrale, con l’intento
momento del richiamo di memorie autobiografiche negative (Lener &
Iosifescu, 2015).
35
di identificare dei pattern pre-trattamento che siano utilizzabili come
predittori di remissione. Uno stesso approccio a lungo-termine potrebbe
identificare chi è più esposto verso una ricaduta durante la terapia, e quindi
endofenotipi predittori di vulnerabilità. In questo contesto si inserisce,
quindi, il nostro protocollo che prevede proprio la caratterizzazione di
endofenotipi tra i suoi endpoint primari (v. capitolo 5).
Lo sviluppo di futuri indirizzi di ricerca potrebbe rendere uno
psichiatra in grado di decidere un strategia somatica, farmacologica o
psicoterapeutica sulla base di misure oggettive del funzionamento cerebrale
del paziente (Mayberg, 2007). Il miglioramento della definizione fenotipica
grazie al neuroimaging, attraverso misure di attivazione o connettività,
potrebbe non solo migliorare la valutazione di nuove strategie terapeutiche
individualizzate, ma permettere persino una nuova classificazione dei
disturbi dell’umore (Hasler & Northoff, 2011).
In conclusione, la possibilità di un utilizzo dei correlati
neurobiologici rsfMRI7 come strumenti clinici di diagnosi ha accresciuto
l’interesse nei confronti dell’imaging funzionale. Studi con fMRI, che si
avvale del segnale BOLD come misura indiretta dell’attività neurale (v.
Appendice A), possono essere inseriti in paradigmi di ricerca innovativi, allo
scopo di testare le attivazioni anomale durante compiti salienti dal punto di
7 Sigla che identifica gli studi fMRI in resting-state. Per resting-state si
indica un’attività neurale regionale in cui il soggetto è sveglio, ma senza
essere attivamente coinvolto in nessun compito che preveda attenzione o
un’azione finalizzata. Studi resting-state permettono di identificare aree con
attività neurali spontanee e a bassa frequenza correlate tra di loro (Dutta et
al., 2014).
36
vista emotivo o cognitivo, oppure in studi resting-state atti a valutare
modifiche nella connettività funzionale associate all’episodio depressivo.
Dato il ruolo centrale della disregolazione emotiva nel paziente depresso, la
maggior parte degli studi fMRI studiano l’attivazione di network deputati
all’elaborazione emotiva durante risposte comportamentali a stimoli
affettivamente connotati. Il disturbo dell’umore, potrebbe quindi essere
spiegato dal deficit di controllo cognitivo sull’elaborazione emotiva -
esemplificato da un’ipoattivazione corticale e da una contemporanea
iperattivazione limbica - così come da un’alterazione nella decodifica e
percezione degli stimoli esterni- associata al deficit di un circuito tra aree
prefrontali e sottocorticali. Nonostante la depressione non sembri trovare la
sua base neuroanatomica in nessuna specifica regione cerebrale e le sempre
maggiori conferme sul coinvolgimento di un’alterata connettività funzionale
nella sua neuropatogenesi, la stimolazione di specifiche aree si è dimostrata
efficace e ha aperto nuove strade nel trattamento della depressione farmaco-
resistente. Lo studio dei meccanismi di azione delle nuove terapie stimolanti
potrebbe, quindi, offrire nuovi indizi sulla localizzazione cerebrale del
disturbo depressivo.
37
2. Connettività nei pazienti depressi: dati da
uno studio fMRI
2.1. Background e scopo dello studio
Come evidenziato nel capitolo precedente, la depressione sembra
correlare maggiormente con anomalie della connettività piuttosto che con
differenze a livello di singole aree cerebrali. Per questo motivo in questo
capitolo mostrerò i dati di un esperimento, con controllo, di connettività
funzionale su pazienti depressi, coordinato dal prof. Claudio Gentili. Questo
è stato realizzato come studio pilota allo scopo di identificare le aree in cui
sono presenti correlazioni tra fenomeni funzionali e depressione. Queste
regioni possono essere in seguito utilizzate per la valutazione neurobiologica
dei pazienti depressi – in particolare farmacoresistenti (v. capitolo 3) – e per lo
studio delle eventuali modificazioni indotte dai trattamenti che esporrò nei
capitoli successivi.
2.2. Materiali e metodi
I pazienti depressi e i soggetti sani utilizzati per questo studio pilota
sono stati reclutati presso l’Università di Babes-Bolyai di Cluj-Napoca,
Romania. I soggetti sono stati acquisiti con uno scanner MR a 3 Tesla
(Siemens Skyra) ed una bobina da 20 canali. Tutti i partecipanti sono stati
valutati e hanno firmato un consenso informato approvato dal comitato
etico locale. Abbiamo reclutato 43 soggetti (13M, 30F) con età media di 28
38
anni (SD = 5). I software utilizzati sono stati AFNI
(http://afni.nimh.nih.gov/afni) SUMA
(http://afni.nimh.nih.gov/afni/suma) entrambi sviluppati dal National
Institute of Health (NIH) e R-Studio (https://www.rstudio.com/).
I soggetti hanno svolto un task che prevedeva la somministrazione
passiva di stimoli visivi appartenenti a due categorie: facce e immagini
scrambled. Le facce erano di sei tipologie suddivisibili in tre categorie:
neutrali, positive (ad esempio felici) e negative (ad esempio tristi, arrabbiate,
disgustate e spaventose). Questo task aveva come obiettivo raccogliere una
misura implicita del processo di elaborazione emotiva. Gli stimoli scrambled
di controllo sono stati ottenuti utilizzando le stesse facce impiegate nel task e
dopo randomizzazione della posizione di ogni pixel.
Lo studio è stato suddiviso in 4 run, ciascuno dei quali prevedeva la
presentazione di 40 stimoli (36 facce e 4 immagini scrambled) per 1.5
secondi, seguita da un intervallo di 5.5 secondi. Le sequenze funzionali
(Gradient Echo Echo Planar Images) da 130 time-point sono state acquisite
con un TR di 3 secondi (TE = 40ms) e una matrice di 94 per 94. Il volume è
costituito da 18 fette assiali, con uno spessore di 2.5 millimetri. La durata di
ogni run è stata di 6 minuti e 30 secondi. In aggiunta, sono state acquisite
immagini anatomiche (T1 3D) con un voxel isotropico da 1 millimetro, per
una visualizzazione dettagliata delle strutture anatomiche cerebrali dei
soggetti.
I soggetti sono stati tutti valutati con la scala Beck Depression
Inventory (BDI-II) utilizzata anche per il protocollo sperimentale oggetto del
capitolo 5. La scala di Beck costituisce uno dei test psicometrici più utilizzati
per la valutazione dei sintomi depressivi: è un questionario di
autovalutazione in cui sono compresi 21 gruppi di frasi; il paziente deve
quindi segnare quale frase all’interno di ogni gruppo meglio definisce la sua
39
condizione delle ultime due settimane.8 Le voci del questionario indagano i
sintomi depressivi più comuni come la tristezza o la perdita di interesse e
piacere. La somma dei punteggi ottenuti permette di calcolare uno scoring
che suddivide in depressione lieve, moderata, grave o assenza di contenuti
depressivi.
I dati fMRI sono stati sottoposti alle comuni procedure di
preprocessing per ridurre gli artefatti di acquisizione e derivanti dal
movimento del soggetto; in seguito, i pattern di risposta ad ogni classe di
stimoli (facce e immagini scrambled) sono state stimate mediante analisi di
regressione multipla. Per queste fasi dell’analisi sono stati utilizzati i
programmi del pacchetto software AFNI (Cox, 1996). I dati dei singoli
soggetti sono stati trasformati nello spazio standard secondo l’atlante di
Talairach (Talairach & Tournoux, 1988).
Abbiamo quindi selezionato i 10 soggetti con il punteggio BDI più
basso (Media = 0.8., SD = 0.67) e i 10 con punteggio BDI più alto (Media =
24, SD = 8.40) e abbiamo valutato le differenze tra le attivazioni durante la
visione dei volti rispetto alle immagini scrambled in questi due gruppi di
soggetti.
In seguito abbiamo deciso di utilizzare le aree significative a questo
contrasto come regione di interesse (ROI) per uno studio di connettività
funzionale. Scopo di questa analisi è valutare se il livello di sintomi
depressivi misurato con la BDI modifica la connettività tra la regione di
interesse e il resto del cervello.
Le ROI sono state selezionate utilizzando una soglia statistica (p <
0.01) per la comparazione del gruppo depressi vs. sani nel contrasto facce vs.
scrambled. Per l’analisi di connettività il segnale BOLD è stato filtrato per
8 Le domande somministrate sono riportate integralmente
nell’Appendice B.
40
eliminare il rumore dovuto all’effetto del compito di percezione dei volti, del
movimento e del cosiddetto rumore fisiologico (battito cardiaco e respiro).
La serie temporale così ottenuta in ogni soggetto è stata quindi utilizzata in
una analisi di correlazione per ottenere mappe di connettività funzionale tra
la ROI e tutto il cervello (analisi brainwise) di ciascun individuo. Le mappe di
ciascun individuo sono state poi inserite in un’analisi di regressione lineare
per valutare se il punteggio individuale della BDI avesse un effetto sull’indice
di connettività funzionale brainwise.
La connettività funzionale è l’associazione indiretta tra due o più
serie temporali. Lo scopo dell’analisi di connettività è quello di valutare la
struttura delle relazioni tra regioni cerebrali deducendo quali regioni si co-
attivino. L’interazione tra aree cerebrali dipende da condizioni sperimentali
e misure di comportamento. Il metodo di analisi della connettività utilizzato
nella nostra ricerca è l’analisi seed-based ovvero la cross-correlazione è
calcolata tra la serie temporale di una regione predeterminata (regione seed)
e tutti gli altri voxel.
2.3. Risultati
L’unica ROI significativa (p < 0.01, 34 voxel sopravvissuti al
clustering) per il contrasto indicato è stata riscontrata a livello dell’insula
destra (Fig.1). Nel nostro studio la regione seed è quindi rappresentata
dall’insula destra, mentre l’analisi della connettività (269 voxel sopravvissuti
al clustering) ha permesso di trovare un’altra area la cui attività si correla
con quella nella seed che è risultata essere il giro fusiforme sinistro (Fig.2).
L’analisi di connettività dimostra come la connettività tra insula e
giro fusiforme dipenda dal livello di depressione misurato con la BDI. In
particolare, all’aumentare del punteggio BDI la connettività tra insula e giro
fusiforme si riduce (Fig.3), presentando una correlazione negativa con un
effect size consistente (r = - 0.30).
41
Tabella 1: risultati dello studio.
Fig.1: rappresentazione inflated dell’encefalo; in rosso la ROI significativa (p < 0.01) nel
confronto depressi vs. sani, identificata a livello dell’insula destra.
Oggetto delle analisi
Dimensione del cluster
Area anatomica
Coordinate x
Talairach y
z
Significatività statistica
ROI
34 voxel
Insula dx.
-36.2
-18.8
-11.2
p < 0.01
Connettività
269 voxel
Fusiforme sx.
-48.8
52.2
18.8
p < 0.01
42
Fig.2: imaging di connettività che evidenzia il cluster correlato al seed, indentificato a
livello del giro fusiforme; a) rappresentazione sagittale b) rappresentazione assiale c)
rappresentazione coronale.
43
Fig.3: grafico che rappresenta la correlazione tra score BDI e z-score della connettività
funzionale tra insula destra e giro fusiforme sinistro.
2.4. Discussione
Al fine di discutere i nostri risultati, descriverò di seguito lo stato
dell’arte sul ruolo di insula e giro fusiforme, traccerò quindi un’ipotesi sulle
possibili spiegazioni alla base delle evidenze appena riportate.
L’insula, o lobo dell’insula, è un’area della corteccia cerebrale situata
profondamente alla scissura laterale di Silvio tra il lobo frontale e il lobo
44
temporale. Presenta una suddivisone in tre diverse regioni: anteriore
ventrale, anteriore dorsale e posteriore; ciascuna suddivisone sembra
cooperare con aree funzionalmente differenti e studi recenti identificano
nella regione anteriore dorsale uno snodo centrale nel funzionamento
cerebrale umano. Un recente studio condotto su modelli animali ha
dimostrato un’estrema variabilità morfologica dell’insula tra i mammiferi;
tale riscontro suggerisce una possibile pressione selettiva su questa struttura
corticale durante l’evoluzione (Butti & Hof, 2010).
Si tratta di una zona funzionalmente composita, in passato
caratterizzata per il suo ruolo nella regolazione autonomica e nella
consapevolezza enterocettiva9, oggi considerata alla stregua di una ‘regione
limbica’ e indagata per il coinvolgimento nell’esperienza emozionale
soggettiva, soprattutto per quanto riguarda la regione anteriore (Uddin,
Kinnison, Pessoa, & Anderson, 2014). Recenti linee di ricerca si sono
concentrate sul ruolo di questa area nell’esperienza emozionale generata
dall’elaborato di informazioni interiori. A questo proposito, studi di
neuroimaging funzionale hanno testimoniato un’attivazione della regione
anteriore destra durante compiti riguardanti l’interocezione e l’elaborazione
consapevole di sentimenti negativi e positivi (Craig, 2002). L’aumento di
segnale fMRI a livello dell’ insula anteriore destra, durante compiti di
interocezione, correla non solo con la consapevolezza dei processi corporei,
ma anche con l’intensità delle misure di esperienza emozionale soggettiva.
Queste correlazioni hanno portato a proporre, quindi, che l’emozione sia il
9 Il termine interocezione si riferisce alla percezione di sensazioni del
corpo che ci danno il senso della nostra condizione fisica e costituiscono la
base degli stati d’animo e delle emozioni.
45
modo in cui la rappresentazione insulare delle funzioni corporee giunge alla
consapevolezza dell’individuo. La relazione tra attività dell’insula anteriore
destra, consapevolezza enterocettiva ed esperienza emozionale potrebbe,
quindi, essere la base neuroanatomica della rappresentazione consapevole
del sé. L’ipotesi di un ruolo insulare destro nel mediare l’attenzione viscerale
e somatica è rafforzata dall’evidenza di correlazione tra volume di sostanza
grigia locale e i punteggi ai questionari analitici della consapevolezza
somatica (Critchley, Wiens, Rotshtein, Ohman, & Dolan, 2004).
L’insula rappresenta la prima stazione cerebrale recettiva delle
informazioni che riflettono modifiche di attività del sistema autonomo e una
sua lesione determina deficit multipli di varia natura che ne hanno, dunque,
fatto supporre un’attività di coordinamento tra informazioni interne ed
esterne, mediata dalla consapevolezza emotiva (Ibanez, Gleichgerrcht, &
Manes, 2010).
Studi fMRI resting-state hanno confermato la suddivisione
dell’insula in due aree funzionali implicate in due differenti network neurali.
La prima rete collega l’insula anteriore con la corteccia frontale media e
inferiore, la cingolata anteriore rostrale e la temporo-parietale ed è implicata
in funzioni limbiche; la seconda connessione comprende l’insula posteriore
assieme ad aree tempo-occipitali, motorie e corteccia cingolata posteriore:
risulta coinvolta nell’integrazione sensitivo-motoria. L’analisi dell’alterata
connettività di questi network può quindi rappresentare un elemento
predittivo o un segno specifico di disturbi psichiatrici (Cauda et al., 2011).
Una maggiore ruminazione disadattativa è stata associata a una
ridotta attivazione del network fronto-insulare destro durante il dominio
DMN in pazienti depressi in resting-state. Questa rilevazione potrebbe
essere alla base del significativo self-focus in questi pazienti resi incapaci di
sganciarsi dal loro ambiente interno e portati a processarne negativamente
le informazioni tratte (Hamilton et al., 2011). Anche uno studio recente su
pazienti depressi non trattati sembra confermare un ruolo della ridotta
connettività tra insula e circuito fronto-limbico nell’alterata elaborazione
46
emozionale: la ridotta comunicazione tra queste aree sarebbe alla base
dell’incapacità di analizzare emozioni negative conducendo ad una
persistente attenzione verso pensieri dai connotati negativi (Guo et al.,
2015).
Uno studio condotto su pazienti depressi non medicalizzati ha poi
evidenziato poi una ridotta connettività tra insula sinistra e amigdala in un
circuito di controllo dello stato affettivo; anche questa disfunzione cortico-
limbica sarebbe collegata alla persistenza del pensiero su aspetti dalla
valenza negativa oltre che ad un’alterata regolazione del tono umorale (Veer
et al., 2010).
Riguardo agli esiti neurobiologici indotti da terapia, nella
valutazione di pazienti sottoposti a LF-TMS, si è evidenziata una riduzione
del rCBF10 insulare a seguito di stimolazione della corteccia prefrontale
dorso-laterale destra. Il dato di riduzione del flusso regionale nell’insula
anteriore correlava con l’efficacia terapeutica della metodica (Kito,
Hasegawa, & Koga, 2011). Nei pazienti non sensibili alla TMS si sono
notati livelli più bassi di reuptake del glucosio anche a livello dell’insula
bilateralmente, oltre al ridotto metabolismo delle aree prefrontali e cingolate
sinistre riscontrato anche nei pazienti sensibili al trattamento. Questo dato
di ipometabolismo, in associazione ad una riduzione del volume di sostanza
grigia rilevato a livello delle zone corticali prefrontali e del cingolo anteriore,
sembra suggerire come differenti anomalie del circuito fronto-limbico-
temporale discriminino i pazienti nella loro risposta alla terapia (Paillere
Martinot et al., 2011).
La tendenza dei pazienti depressi a un bias verso stimoli di valenza
negativa porta ad un disturbo nel processo di elaborazione emotiva,
considerata la loro inabilità nel distogliere l’attenzione da questi stessi
10 rCBF: regional cerebral blood flow.
47
stimoli. A conferma di ciò, pazienti depressi hanno mostrato lo stesso
pattern di attivazione neurale sia in attesa di immagini dalla valenza
emotiva non nota, sia nel caso sia stata anticipata loro la prossima visione di
immagini dai connotati negativi. Differenze significative tra pazienti depressi
e controlli, sono state riscontrate a livello dello schema di attivazione delle
regioni prefrontali e insulari con una correlazione tra livello di attivazione e
score diagnostico del paziente. Questo tipo di risultato ha portato a
desumere una caratteristica “tendenza pessimistica” nei pazienti depressi, in
altre parole, una loro attitudine negativa nei confronti di stimoli dalla
valenza emotiva non conosciuta (Herwig et al., 2010).
L’attivazione insulare è stata dimostrata sia quando un soggetto
prova disgusto sia quando osservi espressioni facciali che lo esprimono
(Wicker et al., 2003). L’individuazione, in pazienti depressi, di una
compromissione nel riconoscimento di facce esprimenti disgusto ha, quindi,
portato a supporre un suo ruolo come correlato neurobiologico chiave del
disturbo depressivo. A conferma di ciò, la ridotta accuratezza discriminativa
nel riconoscimento è stata dimostrata correlare con il diminuito volume di
sostanza grigia insulare anteriore, reperto riscontrato in numerosi altri studi
sulla depressione. Dato interessante è stato l’evidenza di una significativa
correlazione negativa tra lo scoring della BDI-II11 e il ridotto volume della
sostanza grigia insulare bilaterale e della corteccia cingolata anteriore. La
correlazione tra la gravità dei sintomi depressivi e il volume corticale
insulare rappresenta un fattore dall’importante significato clinico e permette
di includere l’insula tra i futuri target terapeutici. (Sprengelmeyer et al.,
2011). In ogni caso, un successivo studio, sempre su pazienti con depressione
11 Beck Depressory Inventory II: versione del questionario di
autovalutazione a 21 item (v. capitolo 2 e Appendice B).
48
maggiore, ha confermato l’incrementata attivazione insulare durante la
visione di espressioni di disgusto (Surguladze et al., 2010).
La percezione delle espressioni facciali è cruciale nella
comunicazione visiva dell’uomo: ne condiziona, infatti, il comportamento e
lo stato affettivo. Modelli cognitivi della depressione suggeriscono che questo
disturbo sia caratterizzato da una elaborazione condizionata dell’
espressione facciale dell’emozione primaria, tanto che espressioni neutre,
positive o ambigue vengono spesso percepite come tristi se confrontate alle
risposte dei controlli sani (Bourke, Douglas, & Porter, 2010). Questi bias
cognitivi risultano particolarmente evidenti nella valutazione delle emozioni
facciali, al punto che l’utilizzo di task con osservazione di facce risulta oggi
prezioso nella ricerca sulla neurobiologia depressiva.
Una review di studi di neuroimaging, volta a sintetizzare le evidenze
empiriche sui correlati neurali nella visione di espressioni facciali, ha
tracciato un modello di alterata attivazione in pazienti depressi. L’analisi di
attivazione ha indicato una disfunzione, all’interno di una rete implicata
nello studio delle facce, congruente al tono umorale; si è evidenziata
un’iperattivazione in risposta a stimoli negativi ed una ipoattivazione di
fronte a stimoli positivi, soprattutto a livello di insula, area delle facce del
fusiforme, amigdala, giro para-ippocampale e putamen.
La visione di espressioni facciali porta a un’attivazione di uno stesso
network, sia nei soggetti sani sia nei depressi, che include aree visive e aree
maggiormente implicate nell’elaborazione emotiva dello stimolo. Nel
confronto tra pazienti depressi e soggetti sani, l’insula, in particolare, ha
mostrato un’iperattivazione in caso di visione di facce tristi e, al contrario,
una ridotta attivazione alla vista di facce dall’espressione felice.
Risultati analoghi sono stati riscontrati in relazione al giro fusiforme
che in ricerche recenti ha mostrato una capacità elaborativa congruente
all’umore (Stuhrmann, Suslow, & Dannlowski, 2011).
La circonvoluzione fusiforme o giro fusiforme è una parte mediale
del lobo temporale in cui è stata riscontrata un’area, definita ‘area fusiforme
49
delle facce’ (Face Fusiform Area, FFA), implicata nella percezione e
categorizzazione dei visi. Successive ricerche hanno però visto come
quest’area sia in realtà implicata anche nella percezione delle emozioni negli
stimoli facciali. Quindi, l’area fusiforme per le facce (FFA) non si limiterebbe alla
codifica dei tratti e dell’identità faciale, ma sarebbe anche sensibile alle
espressioni facciali dell’emozione primaria (Stuhrmann et al., 2011).
Questo modulo della corteccia extrastriata, localizzato grazie a un
esperimento di fMRI condotto nel 1997, ha mostrato una significativa
attivazione durante la visione passiva delle facce rispetto a quella di oggetti
comuni. Questo risultato è stato confermato, una volta identificata l’area
come ROI, mediante una serie di test successivi basati sulla specificità
facciale che hanno testimoniato la selettività di quest’area del fusiforme nella
percezione delle facce.
Il pattern di attivazione in risposta ad un’ampia gamma di stimoli
facciali ha confermato come l’area sia sensibile alla conformazione generale
della faccia piuttosto che ad una caratteristica particolare del viso
(Kanwisher, McDermott, & Chun, 1997).
Ulteriori ricerche hanno poi dimostrato come la percezione delle
facce sia mediata da un sistema neurale dotato di un nucleo centrale e di un
sistema esteso; il nucleo è rappresentato dalle regioni temporo-occipitali
della corteccia visiva extra-striata e tra queste l’area delle facce del fusiforme
risulta coinvolta nella rappresentazione dei caratteri fissi, mentre il giro
temporale superiore in quella dei caratteri variabili. Le regioni appartenenti
al sistema esteso, individuate soprattutto in regioni prefrontali e limbiche,
possono essere reclutate per estrarre il significato dell’espressione facciale
(Haxby, Hoffman, & Gobbini, 2000). Studi ulteriori condotti con l’utilizzo di
risonanza magnetica funzionale hanno dimostrato che la sola percezione di
una faccia, indipendentemente dal tipo di stimolo e di task, attiva sempre un
network esteso di regioni corticali; ma anche che, nel caso di facce dalla
valenza emotiva, si ha un segnale di attivazione non solo più ampio, ma
anche di maggiore intensità (Ishai, Schmidt, & Boesiger, 2005). Lo studio
50
della connettività effettiva - in altre parole: l’influenza direzionale che
un’area esercita sull’altra - ha poi predetto una connessione ventrale tra il
nucleo centrale e il sistema esteso durante la visione delle facce e mostrato
che il giro fusiforme esercita un’influenza dominante sul sistema esteso.
Uno studio ha rilevato un’aumentata connettività tra fusiforme e
amigdala in risposta a facce che manifestavano emozioni; l’utilizzo di questo
task ha quindi sottolineato come si possano verificare alterazioni dinamiche
nella connettività visivo-limbica in risposta a stimoli specifici (Fairhall &
Ishai, 2007).
Come detto più volte, i modelli più recenti di neuropatogenesi
assumono che i sintomi depressivi possano derivare da un’anomala
comunicazione tra diverse aree cerebrali più che da anomalie in singole
regioni. Una riduzione della ‘comunicazione’ tra l’amigdala e diverse aree
limbiche (tra cui l’insula), aree temporali, corteccia dorsolaterale prefrontale
e corteccia cingolata anteriore sopragenuale è stata evidenziata nei pochi
studi di connettività condotti fino ad oggi in pazienti depressi, durante la
visione di espressioni facciali. Una ridotta connettività con la corteccia
cingolata sopragenuale sembrerebbe correlare con la gravità della
sintomatologia. Altri studi hanno invece evidenziato un aumento di
connettività tra l’amigdala e la corteccia cingolata anteriore subgenuale
(Stuhrmann et al., 2011).
Uno studio recente si è proposto di analizzare l’attivazione e la
connettività dell’insula, durante la visione di facce tristi contro facce felici, in
pazienti depressi adolescenti confrontati con soggetti sani; contrariamente a
quanto da noi trovato, il gruppo dei pazienti mostrava un’attivazione
significativamente minore nella visione delle facce tristi contro facce felici.
Inoltre, la corteccia insulare sinistra scelta come regione seed, presentava una
maggiore connettività funzionale con il giro fusiforme destro, il giro frontale
medio sinistro, amigdala destra e giro para-ippocampale destro nei ragazzi
depressi rispetto ai soggetti sani. I ragazzi che presentavano una minore
attivazione nel cluster a livello dell’insula anteriore e media nel confronto
51
facce tristi/felici avevano livelli più elevati di BDI-II score. Considerato il
ruolo dell’insula nell’integrazione tra stimoli corporei ed elaborazioni
emotive, i risultati di questo studio ne comprovano un’alterazione nella
depressione maggiore e suggeriscono l’uso di questa regione come
potenziale futuro target delle nuove modalità terapeutiche (Henje Blom et
al., 2015). Questa divergenza di risultati con il nostro studio, che potrebbe
forse trovare spiegazione nella differente età del campione, apre comunque
interessanti interrogativi.
2.5. Conclusioni
Ricapitolando, nello studio di connettività funzionale tra depressi e
sani, abbiamo trovato una correlazione tra insula destra e giro fusiforme
sinistro che indica un loro coinvolgimento nel task utilizzato. La rassegna
della letteratura riportata sopra, evidenzia una maggiore attivazione
dell’insula durante la visione di immagini negative, o dalla valenza emotiva
non nota, in soggetti depressi rispetto ai controlli sani. Il giro fusiforme si
attiva invece in risposta alla codifica dei tratti facciali, anche se ricerche
recenti hanno evidenziato un suo possibile ruolo anche nell’elaborazione
delle espressioni. La visione di facce comporta, quindi, l’attivazione di un
network che comprende sia l’insula sia il giro fusiforme (“area delle facce”).
E nei soggetti depressi è stata dimostrata un’alterata attivazione di questo
network.
I risultati del nostro studio di connettività funzionale tra queste due
aree sembrano confermare queste ipotesi e potrebbero trovare spiegazione
nella ridotta comunicazione tra aree appartenenti a uno stesso network.
Tanto più il paziente risulta compromesso sul piano cognitivo, elemento
riportato da un aumento dello score BDI, quanto più la ‘comunicazione’ tra
queste aree cerebrali si riduce.
52
In ogni caso, i nostri dati evidenziano una forte relazione tra
connettività funzionale e livelli di depressione. Utilizzeremo quanto
osservato, insieme ad altri protocolli per valutare se le variazioni indotte
dalle terapie fisiche del nostro studio inducono modificazioni della
connettività funzionale. La nostra ipotesi è che il processo di riduzione della
sintomatologia depressiva conseguente alle terapie con TMS e tDCS si
accompagni ad un ripristino della normale ‘comunicazione’ tra queste
regioni cerebrali, negativamente correlata con la patologia.
53
3. La depressione farmacoresistente
3.1. Epidemiologia e definizione
La depressione farmacoresistente è un fenomeno clinico comune nei
pazienti trattati per un disturbo depressivo maggiore, e rappresenta una vera
e propria sfida per la pratica psichiatrica. Nonostante le numerose scelte per
la terapia della depressione maggiore, si stima che fino a due terzi dei
pazienti non vada incontro a remissione dopo una terapia di prima linea e
fino a un terzo possa fallire nel raggiungere una completa remissione della
sintomatologia clinica dopo numerosi tentativi. I dati ottenuti con il
programma STAR*D12 hanno dimostrato come i tassi di remissione si
riducano significativamente dopo il fallimento di due terapie (Dunner et al.,
2006; Shelton, Osuntokun, Heinloth, & Corya, 2010). La prevalenza
stimata della farmacoresistenza, tra tutti i pazienti con depressione
maggiore, può variare dal 10% al 30% e fino ad un terzo di questi sembra
non rispondere ad alcun trattamento (Al-Harbi, 2012). Alcuni studi
riportano percentuali nettamente superiori, con valori possibili di
12 Sequenced Treatment Alternatives to Relieve Depression: programma
condotto dal NIMH per esaminare i trattamenti disponibili nella
depressione e stimare se qualche terapia fosse migliore di altre, in caso di
una o più terapie precedenti fallimentari (Sinyor, Schaffer, & Levitt, 2010).
54
farmacoresistenza fino al 60%; questa variabilità nella prevalenza sembra
essere dovuta al tipo di definizione scelta. Un episodio di depressione
resistente presenta dei costi elevati non solo in termini economici, data la
maggiore possibilità di ospedalizzazione o di prescrizioni, ma anche sociali,
provocando una ridotta produttività lavorativa e un maggiore assenteismo
(Berlim, Tovar-Perdomo, & Fleck, 2015).
In particolare, la depressione è definita resistente o refrattaria
qualora almeno due cicli con antidepressivi di differenti classi
farmacologiche (adeguati in termini di durata, dosaggio e compliance del
paziente) falliscano nel determinare un significativo miglioramento clinico
(Berlim & Turecki, 2007a). Questa risulta essere, ad oggi, la definizione
maggiormente condivisa. Altri studi prospettici mostrano che la depressione
dovrebbe essere considerata farmacoresistente dopo almeno sei settimane di
terapia ("Treatment-resistant depression: No panacea, many uncertainties.
Adverse effects are a major factor in treatment choice," 2011).
Ad oggi non c’è tuttavia consenso nello stabilire i parametri per
classificare una depressione come refrattaria al trattamento, e si nota una
mancanza non solo di criteri operativi consensuali, ma anche di studi
prospettici che valutino l’affidabilità e la validità predittiva delle molteplici
definizioni presenti (Berlim & Turecki, 2007b). L’adeguatezza della terapia
in termini di dosaggio, durata e aderenza del paziente alla stessa dovrebbe,
perciò, essere definita in maniera condivisa, allo scopo di tracciare delle
linee guida; è stato infatti dimostrato che molti dei casi di resistenza sono in
realtà da far risalire ad un trattamento precedente inadeguato che comporta
episodi protratti e una parvenza di ‘pseudoresistenza’ (Sackeim, 2001).
In una review volta a definirne l’andamento clinico è stato visto
come fino all’80% dei pazienti sottoposti a multiple terapie presenti una
ricaduta entro un anno dalla remissione e solo il 40% vada incontro a
guarigione entro dieci anni se affetto da una forma più protratta (Fekadu et
al., 2009). Questi dati suggeriscono quindi la necessità di strategie migliori
sia per trattare, che per prevenire, gli episodi depressivi.
55
Il primo passo di fronte ad un paziente che presenti
farmacoresistenza consiste nel confermare la diagnosi primitiva, valutare la
presenza di eventuali comorbidità psichiatriche o mediche e verificare
l’adeguatezza dei trattamenti somministrati sia attraverso un attento esame
della cartella clinica che attraverso l’intervista del paziente e la sua
valutazione. Più del 10% dei pazienti diagnosticati come depressi
soddisfano, in realtà, i criteri per un disturbo bipolare e necessitano di un
differente piano terapeutico. Va considerata, inoltre, la possibilità di una
pseudo-resistenza e, quindi, di una gestione che preveda un aumento del
dosaggio o della durata della terapia attuale o precedente (Holtzheimer,
2010).
La valutazione della qualità della vita, in uno studio condotto su
un’ampia popolazione di pazienti farmacoresistenti, ha dimostrato come la
maggior parte con gradi di resistenza severi continui ad avere un ridotto
funzionamento sociale e una sintomatologia residua significativa durante la
terapia (Dunner et al., 2006).
Una volta valutati i sintomi residui e il loro impatto sulla qualità di vita del
paziente sarebbe necessario un attento esame clinico per definire eventuali
fattori responsabili della persistenza del disturbo.
Diversi sistemi di stadiazione sulla base del grado di resistenza sono
stati proposti e tra questi, il modello europeo (“European staging method”,
1999), definisce come farmacoresistente una depressione che fallisca nel
rispondere a due trattamenti antidepressivi, a dosaggio adeguato,
somministrati per un periodo dalle sei alle otto settimane. La definizione di
un range minimo di terapia, per quanto possa rendere più rigorosa la
definizione clinica, è stata scelta in maniera arbitraria. Questo modello
differenzia però i ‘non reattivi’, ovvero coloro che presentano mancata
risposta ad un singolo trial con farmaco di qualunque classe o a terapia
elettroconvulsivante, dai soggetti ‘resistenti ad almeno due trattamenti’,
classificati sulla base del numero di prove tentate (TRD 1-5). La definizione
di ‘terapia resistente cronica’ è riservata a un episodio prolungatosi per di
56
più di un anno nonostante interventi terapeutici adeguati. L’applicazione
clinica di un sistema di stadiazione, inserito all’interno di un’accurata
anamnesi, potrebbe aiutare a identificare i soggetti pseudo-resistenti, ovvero
coloro che ad una più attenta analisi dimostrano aver ricevuto una terapia
inadeguata in termini di dosaggio, durata e/o compliance. Si parla di
terapia inadeguata anche nel momento in cui, a causa di anomalie
farmacocinetiche o interazioni farmaceutiche, il farmaco non raggiunga
livelli sierici adeguati durante il trattamento (Berlim et al., 2015).
3.2. Fattori di rischio
L’individuazione dei principali fattori di rischio per lo sviluppo di
resistenza rappresenta un obiettivo chiave non solo per un miglioramento
nella selezione terapeutica, ma anche per la possibilità di una diagnosi più
precoce. A questo proposito, una review del 2015 li ha suddivisi in clinici e
biologici (Bennabi et al., 2015). Tra i fattori di rischio clinici sono stati
identificati: la comorbidità con disturbi d’ansia, un attuale rischio suicidario,
un’insorgenza precoce del primo episodio, una mancata risposta al primo
antidepressivo ricevuto, la bipolarità, la presenza di caratteri melanconici,
l’alto tasso di ricorrenza e una mancata remissione completa a seguito
dell’episodio precedente. La comorbidità con disturbo di panico, disturbo
ossessivo-compulsivo e fobia sociale rappresenta uno dei fattori
maggiormente implicati nell’aumento di resistenza (Berlim et al., 2015). La
stessa mancata caratterizzazione del disturbo depressivo, ovvero la
definizione del sottotipo specifico - ad esempio una forma psicotica o atipica
- rappresenta una potenziale causa di resistenza laddove si fallisca nella
selezione di farmaci più specifici o nella scelta di farmacoterapia concorrente
(Al-Harbi, 2012).
Tra i fattori biologici si annoverano i ridotti livelli di
neurotrasmissione gabaergica a livello della corteccia cingolata anteriore e
57
della corteccia occipitale oltre a polimorfismi a carico del gene del BDNF.
La predisposizione genetica a un rapido metabolismo farmacologico
potrebbe spiegare il mancato raggiungimento di livelli terapeutici efficaci
dell’antidepressivo e supporre un futuro ruolo di test genetici nello screening
della farmacoresistenza. Allo stato attuale, questi fattori di rischio
potrebbero essere ricercati nella comune pratica clinica con lo scopo di
ridurre il peso che la depressione esercita a livello di salute pubblica (Al-
Harbi, 2012; Bennabi et al., 2015; Berlim et al., 2015).
Pazienti con depressione refrattaria hanno mostrato una connettività
‘interrotta’ in aree differenti da quelle dei pazienti responsivi. In una ricerca
volta ad analizzare le differenze tra i due gruppi, sono state scelte, come
regioni seed, aree riscontrate in letteratura come coinvolte nella patogenesi
dei disturbi dell’umore. In particolare, nei pazienti sensibili al trattamento, si
è vista una ridotta connettività in diffuse aree cerebrali mentre, nei pazienti
refrattari, risultava un’alterata ‘comunicazione’ soprattutto a livello di
circuiti talamo-corticali (Lui et al., 2011).
3.3. Opzioni terapeutiche
La depressione farmacoresistente rappresenta un disturbo
disabilitante e una vera sfida sia per i pazienti sia per i clinici. Diverse
opzioni terapeutiche, farmacologiche e non, possono essere considerate
quando una terapia adeguata in termini di durata e dosaggi non ha prodotto
i risultati attesi e il paziente sia stato classificato come resistente. I progressi
nelle conoscenze neurobiologiche della depressione hanno permesso lo
sviluppo di nuovi approcci nella gestione del ‘fenomeno di resistenza’, tra
cui tecniche di stimolazione cerebrale focale e farmaci con nuovi
meccanismi di azione.
Ad oggi non è stata sviluppata una strategia standard nella gestione
dei pazienti farmacoresistenti e alcuni principi necessitano di essere valutati
58
per un approccio corretto: fornire una diagnosi accurata, considerare il
sottotipo depressivo, verificare possibili comorbidità mediche o
psichiatriche, monitorare eventuali eventi avversi (Al-Harbi, 2012).
Le possibili strategie, a seguito di una prima risposta terapeutica
parziale o assente, possono essere: incrementare il dosaggio o la durata del
primo farmaco, passare a un secondo antidepressivo (terapia di switch),
associare in combinazione un antidepressivo di un’altra classe o un secondo
agente come un antipsicotico atipico o il litio o una terapia cognitivo-
comportamentale (terapia di aggiunta) o, infine, passare ad un’altra
modalità terapeutica. Svariati trial comparativi mostrano che il litio
potrebbe avere effetto a livello di questi quadri, ma non c’è ancora evidenza
che introdurre questo farmaco nello schema terapeutico migliori i tassi di
remissione (Preston & Shelton, 2013; "Treatment-resistant depression: No
panacea, many uncertainties. Adverse effects are a major factor in treatment
choice," 2011).
La terapia farmacologica della depressione farmacoresistente può
essere suddivisa in due categorie principali: una terapia combinata o una
terapia di switch.
Il cambio con un farmaco di un’altra classe, o con un diverso
farmaco della stessa, garantisce minori effetti collaterali e minori costi, ma
allo stesso tempo la discontinuità potrebbe comportare la perdita delle
parziali risposte ottenute con il primo trial. Inoltre, è stato visto come le
monoterapie di switch abbiano scarsa efficacia nel garantire la remissione.
La terapia combinata rappresenta una scelta comune e tra i farmaci
accettati, oltre all’associazione di due farmaci antidepressivi, si hanno: il
litio, gli ormoni tiroidei, il buspirone e gli antipsicotici atipici come
l’aripripazolo o l’olanzapina. La combinazione tra due antidepressivi più
59
frequentemente utilizzata consiste nell’aggiunta del bupropione13 ad un
SSRI o SNRI. La scelta di una terapia combinata permette di innestare un
secondo farmaco su dei miglioramenti eventualmente già ottenuti, ma
aumenta il rischio di eventi avversi da poli-farmacoterapia. La ricerca di
nuovi antidepressivi si è spostata dal campo dei farmaci attivi a livello del
sistema monoaminergico verso farmaci con target sui sistemi
glutamatergico, oppioide e colinergico (Papakostas & Ionescu, 2015)
Tra le strategie terapeutiche non farmacologiche nel trattamento
della depressione farmacoresistente si hanno, tra le altre: la psicoterapia, la
terapia elettroconvulsivante, la stimolazione magnetica transcranica (rTMS)
e la stimolazione a corrente continua (tDCS). Le ultime due saranno oggetto
del capitolo seguente e rappresentano due tecniche il cui obiettivo è
modulare l’attività cerebrale sia localmente che attraverso un network esteso
di connessioni.
La psicoterapia risulta essere efficace, e uno studio ha dimostrato
come l’utilizzo di una terapia cognitivo-comportamentale in associazione al
farmaco antidepressivo, o da sola, presenti tassi di remissione sovrapponibili
a quelli osservati con l’aggiunta di un secondo antidepressivo o con lo switch
ad un’altra classe. L’aggiunta di un secondo farmaco è risultata più rapida
dell’associazione con la terapia cognitiva, ma quest’ultima si è dimostrata
maggiormente tollerata (Thase et al., 2007). Tuttavia, i suoi limiti sono legati
alle capacità e all’esperienza del terapeuta (Holtzheimer, 2010).
La terapia elettroconvulsivante è stata introdotta nel 1934 ed è
tutt’ora utilizzata nella pratica psichiatrica come la terapia più efficace nelle
forme farmacoresistenti, con tasso di risposta del 50-70% (Al-Harbi, 2012).
Le sue indicazioni nei disturbi dell’umore includono: pazienti non responsivi
13 Antidepressivo di seconda generazione, modulatore adrenergico,
inibitore del reuptake della noradrenalina e della dopamina.
60
o intolleranti a farmaci, necessità di una risposta rapida e alto rischio
suicidario. Il suo meccanismo di azione, però, è solo in parte compreso.
Studi osservazionali hanno identificato modifiche nell’espressione dei
recettori serotoninergici che potrebbero indicare un’aumentata
sensibilizzazione, mentre studi PET dimostrano una ridistribuzione nel
flusso cerebrale a seguito della terapia. La stimolazione sembra, inoltre,
ridurre l’inibizione a livello dei neuroni dopaminergici e noradrenergici
aumentando di conseguenza la secrezione di questi trasmettitori da parte
della substantia nigra e del locus coeruleus.
Questa metodica prevede l’induzione elettrica di una crisi epilettica
generalizzata mediante elettrodi posti sullo scalpo e la somministrazione di
anestetici generali (De Raedt, Vanderhasselt, & Baeken, 2014). Gli effetti
collaterali più comuni comprendono l’amnesia, soprattutto retrograda, e
altre disfunzioni cognitive che possono essere persistenti. Soprattutto una
scarica bitemporale si è associata a perdite di memoria e deficit di
apprendimento. La gravità degli effetti collaterali cognitivi sembra essere
connessa ad aspetti tecnici di frequenza e numero degli stimoli, al tipo di
anestesia utilizzata oltre alle caratteristiche specifiche del paziente. Inoltre,
nonostante la sua dimostrata efficacia in acuto, i tassi di recidiva sono molto
elevati, soprattutto nel primo mese, anche se la terapia è continuata a
intervalli di tempo più ampi o è inserita in un corretto management (Cretaz,
Duarte Gigante, & Lafer, 2015; Holtzheimer, 2010; Shelton et al., 2010).
Nonostante i progressi nella caratterizzazione neurobiologica della
depressione, la forma farmacoresistente rimane un problema clinico
rilevante che manca ancora oggi di una definizione condivisa. Le linee di
ricerca futura saranno chiamate a validare empiricamente i criteri utilizzati
nella sua stadiazione, oltre a valutare il ruolo della comorbidità come
potenziale fattore predittivo di risposta al trattamento. L’evidenza che
quanto più a lungo il paziente è trattato senza risultati, quanto peggiore
tenda a esserne la prognosi a lungo termine, pone l’accento sulla necessità
degli psichiatri di elementi scientificamente basati, che indirizzino una
61
corretta scelta terapeutica (Berlim et al., 2015; Shelton et al., 2010). La
conoscenza delle basi neurobiologiche della farmacoresistenza nella
depressione è, ad oggi, un interessante campo di ricerca ed è in questo
ambito che si inserisce il protocollo presentato nel capitolo 5.
62
4. Nuove prospettive terapeutiche: rTMS e
tDCS
4.1. La TMS: sviluppo e utilizzo
La stimolazione magnetica transcranica rappresenta una metodica di
stimolazione cerebrale focale. Ha sollevato l’interesse sull’utilizzo di nuove
tecniche di neuromodulazione non invasive nel trattamento della
depressione maggiore, specialmente in caso di farmacoresistenza.
Rappresenta la più popolare tra le nuove tecniche di stimolazione dato il suo
effetto antidepressivo, prodotto senza necessità di craniotomia e senza
induzione di scariche epilettiche, oltre ad un profilo favorevole in termini di
effetti avversi e di mancata interazione con farmaci (Berlim, Van den Eynde,
& Daskalakis, 2013c; George, Taylor, & Short, 2013). La ricerca in questo
campo risulta oggi molto attiva, nell’ottica di trovare risposte alle sfide
attuali che la gestione della depressione presenta: un alto tasso di farmaco-
resistenza e una scarsa aderenza alle terapie (Russowsky Brunoni, Shiozawa,
& Fregni, 2015). Il management di un paziente depresso risulta complesso,
non solo per gli approcci terapeutici spesso inadeguati nel mantenere i
benefici iniziali, ma anche per la possibile scarsa tollerabilità e successivo
abbondono dello schema terapeutico. La TMS appare quindi come una
risposta atta a colmare le carenze terapeutiche in questo campo della
psichiatria (Janicak & Dokucu, 2015).
Uno dei primi studi sull’utilizzo della rTMS come modalità
terapeutica ha previsto una stimolazione a livello della corteccia prefrontale
dorsolaterale sinistra, essendo noto il coinvolgimento di quest’area nella
63
fisiopatologia depressiva, e ha dimostrato un significativo miglioramento
degli score HDRS e BQ14 nei soggetti stimolati rispetto ai controlli sham o
alle stimolazioni di altre aree. I risultati ottenuti, uniti all’assenza di evidenti
effetti indesiderati, hanno portato a pensare a questa tecnica indolore come
a una futura e sicura alternativa da inserire nella pratica clinica di pazienti
refrattari, rispetto alla scelta di tecniche maggiormente invasive come la
terapia elettroconvulsivante (Padberg & Moller, 2003; Pascual-Leone,
Rubio, Pallardo, & Catala, 1996). Elemento che evidenzia la necessità che
gli psichiatri ne comprendano le ragioni utilizzo, il meccanismo di
funzionamento e il modo in cui è possibile inserirla nella comune pratica
clinica.
Negli anni, infatti, sempre più trial controllati hanno dimostrato
l’efficacia di questa terapia fisica, se comparata alla condizione sham,
nell’indurre effetti antidepressivi. A questo proposito, uno studio del 2010,
che prevedeva una stimolazione della corteccia prefrontale dorso-laterale
sinistra (stimolo al 120% della soglia motoria, 10HZ di frequenza, 3000
stimoli/sessione) in pazienti senza concomitante terapia antidepressiva, ha
dimostrato una significativa risposta clinica con tasso di remissione del
14,1% tra i pazienti sottoposti a rTMS attiva rispetto al 5% dei pazienti
sham (George et al., 2010). Allo stesso modo, una meta-analisi condotta
sull’utilizzo della TMS come monoterapia in pazienti farmaco-resistenti ha
confermato una superiorità della stimolazione rispetto alla procedura sham
sui tre parametri di outcome considerati: scoring HDRS, tasso di risposta,
tasso di remissione. I pazienti sottoposti alla rTMS attiva mostravano una
riduzione di quattro punti superiore dello score HDRS, una risposta tre
volte più probabile insieme ad una probabilità di remissione cinque volte
14 HDRS: Hamilton Depression Rating Scale (v. capitolo 2 e Appendice
B); BQ: Beck Questionnaire.
64
superiore in confronto ai soggetti sham. La rTMS ha quindi dimostrato
efficacia sia nella depressione che nella forma farmacoresistente, ma la
rilevanza clinica di questo fenomeno deve ancora essere definita con
certezza (Lepping et al., 2014).
Inoltre, questa tecnica, potrebbe rappresentare un’opzione nella
terapia di associazione, in caso di mancata remissione dopo uno schema di
prima linea con antidepressivi. La ricerca di terapie alternative deriva
dall’evidenza di una guarigione molto meno probabile in caso di soggetti
farmacoresistenti con sola terapia farmacologica in atto, e dall’idea che la
stimolazione possa potenziare l’efficacia del farmaco (Gaynes et al., 2014).
Su questo, una meta-analisi ha selezionato tutti i trial condotti con terapia
combinata farmacologica e HF-rTMS verificando un tasso di risposta
significativamente più alto rispetto ai pazienti sham al termine della fase di
associazione, ritrovando così nella stimolazione una promettente strategia
per accelerare la risposta clinica agli antidepressivi. Nessuna differenza
significativa, in questo caso, è stata ritrovata in termini di remissione
(Berlim, Van den Eynde, & Daskalakis, 2013b).
Ad ulteriore conferma di ciò, anche una meta-analisi più recente ha
verificato che i tassi di risposta e remissione in caso di terapia di associazione
sono significativamente più elevati della sola terapia farmacologica (46,6 %
contro il 22,1% dei soggetti sham), in caso di pazienti già farmaco-resistenti
(Liu, Zhang, Zhang, & Li, 2014). Studi recenti sostengono che circa 35-40%
di soggetti sotto terapia di associazione con antidepressivi mostra remissione
a seguito di stimolazione (George et al., 2013).
Se nelle prime meta-analisi vi era, però, ancora incertezza riguardo
l’utilizzo nella depressione maggiore, le meta-analisi più recenti hanno
confermato che una stimolazione ripetitiva a bassa frequenza è
significativamente efficace sui sintomi depressivi. Particolare attenzione deve
però essere posta alla durata del trattamento che risulta uno dei principali
fattori predittivi di risposta (Dell'osso et al., 2011).
65
L’importanza del numero di sessioni è stata confermata laddove si è
visto che l’aggiunta di due settimane ulteriori di terapie ad un protocollo di
quattro settimane comportava un tasso di risposta due volte superiore, con
ulteriore significativa riduzione degli score in tre scale differenti, in pazienti
sottoposti a terapia attiva rispetto ai controlli (O'Reardon et al., 2007).
Nuovi studi si sono poi occupati di valutare la persistenza dell’effetto
antidepressivo a seguito di stimolazione, verificando che il 58% dei pazienti
in remissione rimanes tale a tre mesi di follow-up; tali risultati suggeriscono
che l’efficacia della TMS è comparabile a quella di altre terapie
farmacologiche e non (George et al., 2013).
Nel 2008, verificata l’efficacia della TMS su episodi depressivi acuti
in più di 35 trial clinici randomizzati controllati con sham, una stimolazione
giornaliera a livello della corteccia prefrontale sinistra, prolungata per
diverse settimane, è stata approvata dalla FDA come terapia
somministrabile in caso di depressione farmacoresistente più lieve. Ad oggi,
non vi è tuttavia certezza su quali siano i parametri più indicati di
stimolazione (Janicak & Dokucu, 2015) .
Anche il crescente numero di meta-analisi testimonia il crescente
utilizzo della metodica, e così anche la necessità di linee guida che ne
standardizzino la stimolazione (Zhang et al., 2015).
Le meta-analisi maturate nel corso degli anni hanno evidenziato,
inoltre, che sia nella depressione sia nella forma farmaco-resistente, la rTMS
presenta un effetto dalle dimensioni comparabili, sebbene meno solide, a
quello osservabile con la terapia elettroconvulsivante, e del tutto simile a
quello indotto dagli antidepressivi (Lee, Blumberger, Fitzgerald, Daskalakis,
& Levinson, 2012).
66
4.2. Principi della TMS
La TMS come strumento clinico moderno si è sviluppata nel 1985.
In quell’anno Barker e colleghi, dopo lo sviluppo di un device focale
elettromagnetico in grado di indurre una corrente a livello midollare, ne
compresero la potenzialità come stimolazione cerebrale non invasiva in
grado di modulare le funzioni corticali e subcorticali. La TMS si avvale
dell’utilizzo di una bobina elettromagnetica che viene posizionata sullo
scalpo e genera un potente, ma breve, campo elettromagnetico che
attraversa la superficie cerebrale senza trovare ostacoli nella pelle, nei
muscoli o nelle ossa. Una volta a livello cerebrale il campo incontra i
neuroni, a livello dei quali genera una corrente elettrica. Perciò, lo stesso
campo magnetico generato da una corrente a livello della bobina è
nuovamente convertito in energia elettrica una volta attraversato lo scalpo.
Questo meccanismo spiega il perché la TMS possa essere definita
‘stimolazione elettrica senza elettrodi’. Infatti, secondo il principio
dell’induzione elettromagnetica, questa tecnica modifica l’ambiente elettrico
focale tramite lo sviluppo di campi magnetici generati nel passaggio rapido
di correnti alternate attraverso la bobina (Berlim, Van den Eynde, et al.,
2013c; George et al., 2013).
La stimolazione genera, dunque, delle correnti che depolarizzano i
neuroni. La forza del campo magnetico varia tra 1,5 e 3 Tesla limitandosi a
un’area focale e la stimolazione può avvenire attraverso singoli impulsi o in
brevi sequenze che in clinica raggiungono in genere qualche centinaia,
somministrati in un periodo che va da minuti a ore; in quest’ultimo caso si
parla di repetitive transcranial magnetic stimulation o rTMS. La corrente elettrica
applicata ripetutamente è in grado di modificare l’eccitabilità cerebrale e
può potenziarla o inibirla a seconda che la somministrazione degli stimoli
avvenga in maniera rapida (HF-rTMS) o lenta (LF-rTMS). La scelta di
stimolare a livello della corteccia prefrontale dorso-laterale (DLPFC) deriva
dall’evidenza, fornita da alcuni studi di imaging, riguardo un’ipoattivazione
67
sinistra e un’iperattivazione destra nei soggetti depressi. Sulla base di questi
reperti neurobiologici di sbilanciamento destro-sinistro prefrontale, una
stimolazione eccitatoria sinistra ad alte frequenze (5-20 Hz, HF-rTMS), così
come una modulazione inibitoria destra a basse frequenze (minore o uguale
ad 1Hz, LF-rTMS), hanno mostrato una significativa efficacia
antidepressiva in diverse meta-analisi (Berlim, Van den Eynde, et al., 2013c;
Russowsky Brunoni et al., 2015; Zhang et al., 2015). Una stimolazione
giornaliera della corteccia prefrontale sinistra ha indotto tassi di remissione
fino a quattro volte superiori, se confrontata alla metodica sham (George et
al., 2010). Risultati comparabili sono stati ottenuti attraverso una
stimolazione destra a bassa frequenza che non si è dimostrata inferiore né
agli antidepressivi né alla stimolazione sinistra ad alta frequenza e sembra,
inoltre, essere maggiormente tollerata e avere proprietà anti-epilettiche
(Berlim, Van den Eynde, & Jeff Daskalakis, 2013). Le stimolazioni a diversa
frequenza hanno, dunque, dimostrato effetti modulari opposti in grado di
intervenire sul disequilibrio presente a livello prefrontale.
L’evidenza neurobiologica di disfunzioni prefrontali destro-sinistre
così come di un’eccitabilità corticale asimmetrica in soggetti depressi, ha
portato a suppore che un nuovo protocollo di stimolazione bilaterale possa
rappresentare un migliore strumento di neuromodulazione rispetto a un
approccio unilaterale. La stimolazione bilaterale, simultanea o sequenziale,
con target posti a livello delle prefrontali di sinistra e destra, utilizzando sia
alte sia basse frequenze rispettivamente, potrebbe generare un effetto
terapeutico sinergico mediante meccanismi complementari. Inoltre, alcuni
soggetti potrebbero avere una depressione responsiva a destra o a sinistra e
l’applicazione bilaterale potrebbe aumentarne le probabilità di remissione.
Due meta-analisi condotte recentemente non hanno, però, osservato alcuna
differenza significativa in termini di efficacia e accettabilità tra stimolazione
unilaterale e bilaterale, ma le due si sono dimostrate comparabili. La
stimolazione bilaterale non si è, ad oggi, dimostrata superiore.
68
Da notare come la stimolazione TMS sia risultata un potenziale
aiuto nelle terapie di seconda o terza linea di depressi farmacoresistenti
mostrando gli stessi tassi di remissione delle terapie ‘add-on’ farmacologiche
(Berlim, Van den Eynde, et al., 2013c; Zhang et al., 2015).
Ricapitolando, i parametri che devono essere stabiliti al momento
della stimolazione riguardano il posizionamento della bobina, la valutazione
della soglia motoria15 per garantire un’intensità di stimolo che sia tra il 90%
e il 120% della soglia stessa, la durata del train di stimoli, la frequenza degli
stessi all’interno di questo periodo di tempo e quindi il numero di impulsi
per sessione. Dato che la sicurezza dei diversi parametri è stata compresa nel
tempo, i ricercatori hanno aumentato l’intensità e il numero degli stimoli
per sessione oltre alla durata della terapia (Janicak & Dokucu, 2015).
Un maggior impegno nella ricerca risulta necessario per stabilire
quali siano i parametri ottimali di stimolazione; una terapia condotta in un
breve lasso di tempo, un maggior numero di pulsazioni per seduta o una
stimolazione bilaterale sequenziale rappresentano potenziali metodi per
incrementare l’efficacia di un protocollo di stimolazione unilaterale (Lee et
al., 2012). I parametri dovrebbero comunque essere stabiliti sulla base del
paziente trattato. In particolare, il numero delle sessioni e l’intensità
15 La soglia motoria rappresenta l’intensità di campo magnetico più
bassa necessaria per produrre la contrazione del muscolo abduttore breve
del pollice o del primo interosseo dorsale a seguito di stimolazione a livello
della corteccia motoria primaria. La contrazione può essere valutata
visivamente o con elettromiografia. La determinazione della soglia permette
una personalizzazione dell’intensità dello stimolo con l’intento di
aumentarne l’efficacia (Janicak & Dokucu, 2015)
69
dovrebbero essere calibrati sul grado di atrofia cerebrale; pazienti più
anziani con atrofia necessitano di un’intensità di stimolazione maggiore
(Dumas, Padovani, Richieri, & Lancon, 2012). Ad oggi, i parametri di
stimolazione associati con l’efficacia della terapia sembrano essere:
un’intensità superiore al 100% della soglia motoria, un numero di stimoli
per sessione superiore a 1000 e una durata superiore a 10 giorni (Dumas et
al., 2012).
4.3. Predittori di risposta, sicurezza della metodica e durata
degli effetti terapeutici
Data la continua crescita della prevalenza di farmacoresistenza
risulta di fondamentale importanza stabilire quali fattori neurobiologici,
relativi al paziente o alla terapia possano potenzialmente predire la risposta
al trattamento. Tra i fattori clinici predittori negativi di risposta sono stati
compresi: un’età più avanzata, un maggior grado di farmaco-resistenza, la
presenza di disturbi d’ansia e sintomi psicotici in comorbidità, una maggiore
durata dell’episodio depressivo corrente. L’utilizzo della rTMS potrebbe
essere di valido aiuto in soggetti anziani, in caso di possibile intolleranza alle
più alte dosi farmacologiche necessarie nella farmacoresistenza, o in
previsione di un rischio di interazione farmacologica, considerata la
frequente comorbidità con malattie croniche. L’età sembra, però, correlare
inversamente con la risposta terapeutica: soggetti di età superiore ai 60 anni
hanno mostrato riduzioni dello score di Hamilton inversamente
proporzionali all’età dopo un trial di breve durata con LF-rTMS (Pallanti et
al., 2012). Uno studio si è proposto di investigare l’influenza dei livelli
ormonali sulla risposta alla rTMS e ha constatato che i livelli di steroidi
ovarici e lo stato menopausale sono i principali determinati della risposta,
piuttosto che l’età. Se, infatti, la risposta tra maschi e femmine in
premenopausa era la stessa, nel caso di una condizione di menopausa questa
70
si riduceva al minimo (Huang, Wei, Chou, & Su, 2008). Tra i fattori relativi
alla terapia, una mancata risposta alla terapia elettroconvulsivante o
l’utilizzo della TMS come terapia di associazione con essa o le
benzodiazepine hanno mostrato una minore risposta (Lee et al., 2012). Nella
ricerca di possibili fattori predittivi negativi neurobiologici, una review ha
identificato che sia un ridotto metabolismo a livello dell’insula anteriore
bilateralmente e della corteccia orbitofrontale sinistra, sia un ridotto volume
ippocampale e dell’amigdala correlano negativamente con la risposta alla
terapia (Silverstein et al., 2015) .
Tra i fattori predittivi positivi di risposta si elencano: una risposta
precedente alla stimolazione TMS; una terapia di associazione con
antidepressivi; un ridotto metabolismo basale a livello di regioni occipitali,
cerebellari, temporali e della corteccia cingolata anteriore; il flusso basale a
livello frontale oltre ad una breve durata dell’episodio. Uno studio ha
identificato nei disturbi del sonno, laddove spiccati, un significativo fattore
clinico predittivo di risposta alla TMS (Brakemeier, Luborzewski, Danker-
Hopfe, Kathmann, & Bajbouj, 2007). Un altro studio ha segnalato invece il
volume ippocampale sinistro come potenziale predittore neurologico
genere-specifico. Il volume pre-trattamento minore e il genere maschile si
sono, infatti, dimostrati correlati positivamente con il miglioramento dello
score BDI-II (Furtado et al., 2012). Anche la severità della sintomatologia
depressiva sembra influenzare l’outcome del paziente sotto trattamento,
tanto che forme lievi e moderate di depressione hanno mostrato dei tassi di
remissione significativamente più alti rispetto a pazienti con forme
clinicamente severe (Grammer et al., 2015).
Se gli studi futuri avranno successo nel determinare e validare
predittori individuali affidabili, questi potrebbero avere un importante
applicazione clinica nell’identificazione dei pazienti che beneficerebbero
dell’uso della rTMS. Alcuni marcatori potrebbero inoltre permettere una
personalizzazione del sito di stimolazione sulla base della disfunzione
sottostante (Silverstein et al., 2015).
71
La TMS risulta essere una modalità terapeutica relativamente sicura
e solitamente ben tollerata. I principali effetti collaterali occorrono a livello
della sede di posizionamento del coil, possibile dolore o fastidio, ma tendono
comunque a risolversi rapidamente. Data la ricca innervazione dell’area,
l’interessamento di alcune branche può portare a lacrimazione o
contrazione dei muscoli orbicolari durante lo stimolo, ma anche in questo
caso gli effetti raramente persistono al termine del trattamento.
Fino al un 50% dei pazienti, può soffrire di cefalee tensive causate
dalla contrazione dei muscoli. Queste tendono, comunque, a calare di
numero e intensità con l’aumentare delle sessioni. L’unico serio potenziale
effetto collaterale risulta quindi essere il rischio epilettico, la cui incidenza si
stima intorno allo 0,1% durante un intero corso terapeutico. I pochi casi
riportati si sono verificati durante la stimolazione, sono andati incontro a
remissione con i comuni antiepilettici e non hanno lasciato alcun tipo di
complicanza neurologica a lungo termine. Per quanto detto, una storia di
epilessia risulta una controindicazione relativa, così come l’assunzione
contemporanea di farmaci che possono abbassare la soglia epilettogena
(Janicak & Dokucu, 2015).
La HF-rTMS, condotta per un breve periodo (5-15 sessioni), mostra
un effetto antidepressivo a breve termine, se non seguita da una terapia di
mantenimento. Tra i predittori di una maggiore durata dell’effetto
antidepressivo ci sono: una minore gravità del quadro, l’assenza di psicosi,
una condizione di farmacoresistenza e una terapia contemporanea con
antidepressivi (Kedzior, Reitz, Azorina, & Loo, 2015) - iniziata assieme o
portata avanti durante la stimolazione a pieno dosaggio. Dimostrata
l’efficacia come terapia in acuto, è stato visto che la persistenza dei benefici e
dei tassi di remissione avviene laddove nel follow-up il paziente assuma
antidepressivi in monoterapia. La TMS si è dimostrata efficace anche come
strategia intermittente di salvataggio per impedire un’imminente ricaduta
(Janicak et al., 2010).
72
La TMS ha dimostrato un’efficace persistenza dei benefici acuti nel
follow-up a 6 e 12 mesi se inserita in un regime di terapia antidepressiva
continua e se utilizzata nuovamente in caso di ricorrenza dei sintomi
(Concerto et al., 2015; Dunner et al., 2014). Questo dato conferma il ruolo
della TMS come potenziale strumento all’interno di una terapia combinata.
4.4. Confronto tra TMS e TEC
L’utilizzo della terapia elettroconvulsiva (TEC), considerata la
terapia più efficace negli episodi più severi e nella depressione
farmacoresistente, è limitato da una serie di svantaggi tra cui: la scarsa
diffusione della tecnica in molte aree, gli effetti avversi sul piano cognitivo, i
tassi di ricaduta sostanziali dopo il successo in acuto, i rischi anestesiologici,
lo stigma sociale e gli alti costi. In questo contesto, la TMS può
rappresentare una soluzione per quei pazienti che non hanno risposto alle
prime due linee terapeutiche e non sono candidabili o si rifiutano di
sottoporsi a terapia elettroconvulsiva. La neuromodulazione potrebbe,
dunque, avere un ruolo sia in sostituzione che come terapia complementare
(Janicak & Dokucu, 2015). Una meta-analisi ha dimostrato che la terapia
elettroconvulsiva è superiore alla HF-rTMS solo in caso siano inclusi
depressi con caratteri psicotici (Ren et al., 2014). Uno studio pilota, invece,
ha riscontrato come la sostituzione con TMS della TEC, durante il corso del
trattamento, determini un minor impatto degli eventi avversi cognitivi, un
minor numero di sessioni necessarie e nessuna riduzione nell’efficacia
antidepressiva (Pridmore, 2000) In conclusione, dati preliminari ipotizzano
un ruolo della TMS come terapia sostitutiva di mantenimento dopo un trial
acuto di successo e un iniziale mantenimento con TEC. Pazienti che hanno
interrotto la TEC durante il follow-up e sono passati alla TMS hanno
mantenuto o migliorato il quadro clinico di risposta o remissione raggiunto
73
con la terapia elettroconvulsiva (Cristancho, Helmer, Connolly, Cristancho,
& O'Reardon, 2013).
4.5. Correlati neurobiologici della TMS
Effetti biologici simili sono stati verificati in risposta alla
psicofarmacologia, alla ECT o alla TMS, come a voler sottolineare un
possibile comune meccanismo di azione nella depressione. L’ipotesi di un
disequilibrio tra aree prefrontali e limbiche ha portato alla scelta della
DLPFC come target di stimolazione mediante HF-rTMS. La
depolarizzazione dei neuroni corticali, indotta dalla HF-rtMS, provoca un
temporaneo aumento del flusso e del metabolismo nelle aree corticali poste
sotto al coil, e le connessioni inter-sinaptiche permettono, poi, un’estensione
ad altre aree corticali e subcorticali. Un esempio di questo fenomeno è una
modulazione del circuito mesolimbico a seguito di stimolazione della
DLPFC sinistra. Al contrario, la stimolazione degli interneuroni inibitori e la
conseguente iperpolarizzazione che ne deriva, per l’applicazione di una LF-
rTMS destra, può portare ad una ridotta attività neuronale, ma avere
comunque un’efficacia antidepressiva. L’efficacia nell’inibizione di alcuni
network sembra trovare spiegazione nella riduzione di flusso a livello
dell’amigdala. L’associazione tra ridotta attività prefrontale e iperattività
della ACC sembra rappresentare un’importante fattore predittivo di risposta
alla TMS, suggerendo una possibile e futura terapia personalizzata
“imaging-based” (Janicak & Dokucu, 2015). Uno studio sugli aspetti neurali
dell’efficacia della LFr-TMS ha dimostrato che questa correla con la
riduzione del flusso a livello della corteccia cingolata anteriore subgenuale e
della corteccia orbitofrontale. Questo risultato può trovar ragione
nell’induzione di un controllo su aree iperattivate in soggetti depressi (Kito
et al., 2011). Una serie di risultati concordi suggeriscono che l’effetto
terapeutico della metodica si eserciti attraverso la modifica dell’attivazione e
74
del flusso a livello cerebrale in maniera dipendente alla frequenza della
stimolazione. Ancora molta ricerca è però necessaria per la definizione dei
meccanismi neurobiologici dell’efficacia antidepressiva (Noda et al., 2015).
4.6. tDCS: principi e studio dell’efficacia
La tDCS è una tecnica neuromodulatoria non convulsiva e non
invasiva che prevede il passaggio di una debole corrente elettrica attraverso
il cervello mediante il posizionamento di elettrodi sullo scalpo. Diversi studi
clinici suggeriscono un’efficacia clinica significativa di questa nuova strategia
terapeutica nella depressione maggiore farmacoresistente definendola come
una promettente, e non invasiva, terapia somatica (Russowsky Brunoni et
al., 2015). Il suo ruolo rispetto ad altre modalità deve ancora essere
determinato, prima che possa essere inserita nella routinaria pratica clinica,
ma potrebbe rappresentare un’alternativa ugualmente efficace e più
tollerata della TEC (Allan, Kalu, Sexton, & Ebmeier, 2012; Mondino et al.,
2014). La dimostrata efficacia della rTMS, unitamente al miglioramento
della metodologia, ha risollevato l’interesse verso la tDCS e una
stimolazione prefrontale dorsolaterale con questa tecnica è risultata
addirittura più promettente della rTMS stessa (Allan et al., 2012; Kalu,
Sexton, Loo, & Ebmeier, 2012; Nitsche, 2002).
Tramite questa tecnica i neuroni corticali non vengono sollecitati in
maniera eccessiva per cui non viene provocata una scarica parossistica (Zyss,
2010). La polarità dell’elettrodo determina il tipo di modulazione
dell’attività neuronale spontanea. La debole corrente utilizzata modifica il
potenziale di membrana a riposo e, mentre una stimolazione a livello
dell’anodo depolarizza e comporta un aumento della scarica neuronale, a
livello del catodo è indotta un’iperpolarizzazione di membrana e quindi una
riduzione dell’eccitabilità con inibizione dei neuroni sottostanti. Nei trial
75
condotti su pazienti depressi, basandosi sull’ipotesi di una ridotta attività
prefrontale sinistra, l’anodo viene in genere posizionato a questo livello
mentre il catodo sulla prefrontale o sull’area sopraorbitaria controlaterale;
con questo schema ci si pone l’obiettivo di ristabilire l’equilibrio
nell’attivazione destro-sinistra a livello prefrontale. Il ruolo primario di una
modulazione sotto-soglia del potenziale di membrana neuronale è
confermato da un’inibizione dell’effetto depolarizzante a livello dell’anodo
nel caso si somministrino farmaci inibitori dei canali ionici voltaggio-
dipendenti, mentre nessun impatto è stato dimostrato sull’iperpolarizzazione
a livello del catodo (Nitsche, Boggio, Fregni, & Pascual-Leone, 2009).
Altri studi hanno dimostrato che anche l’applicazione transcranica
della corrente, mediante elettrodi sullo scalpo, è adatta nell’indurre
un’intensità sufficiente di corrente, così come testimoniato dal suo beneficio
clinico nella depressione. I progressi nella ricerca di parametri ottimali di
stimolazione hanno appurato che la sua efficacia deriva da un corretto
posizionamento degli elettrodi e che prolungando lo stimolo si può ottenere
una dilazione nelle modifiche di eccitabilità per almeno un’ora dal temine
della somministrazione. Gli effetti prolungati oltre lo stimolo sono stati
dimostrati dipendere da una modifica dell’efficacia a livello dei recettori
NMDA del glutammato.
I risultati funzionali focali sembrano invece limitarsi all’area
sottostante l’elettrodo, tanto che dislocarlo anche solo di qualche centimetro
ne altera significativamente l’efficacia; infatti, la forza del campo elettrico,
omogenea subito al di sotto dell’elettrodo, si riduce con la distanza da esso.
Nuovi trial saranno necessari per stabilire quali caratteristiche cliniche del
paziente possano influenzare la risposta a questa modulazione (Nitsche et
al., 2009).
Le conferme dal neuroimaging di una ridotta attività prefrontale
nella patogenesi depressiva hanno suscitato nuovamente interesse nel
possibile utilizzo di questa stimolazione focale come promettente terapia di
modifica neuroplastica e prolungata dell’eccitabilità. Gli stessi risultati
76
ottenuti con la rTMS confermano, infatti, un’alterata funzionalità
prefrontale. Se i primi studi sulla tecnica sono stati condotti con target sulla
corteccia motoria, data la possibilità di verificarne l’eccitabilità indotta
tramite i potenziali evocati motori alla TMS, il suo impatto a livello
prefrontale è testimoniato da un’influenza sull’impulsività e sulle emozioni
scatenate dalla visione di immagini nei soggetti sani.
Il primo trial a doppio-cieco condotto nel 2006 ha verificato una
significativa riduzione degli score HDRS e BDI in pazienti depressi senza
terapia se confrontati ai controlli sham in cui la corrente era stata inattivata
dopo pochi secondi. Tale risultato si è ottenuto a seguito di una stimolazione
giornaliera prolungata per 5 sessioni di 20 minuti giornalieri ad 1mA. Il
catodo era stato posizionato in F3 e l’anodo a livello dell’area sopraorbitaria
controlaterale. Si è quindi ipotizzato come la depolarizzazione neuronale e
la conseguente potenziata eccitabilità della corteccia prefrontale dorso-
laterale sinistra avessero effetti antidepressivi. Il posizionamento del catodo a
livello della corteccia prefrontale destra può far ipotizzare come anche
l’induzione di una ridotta eccitabilità di quest’area contribuisca nel risultato
terapeutico finale (Fregni et al., 2006).
Una meta-analisi del 2012 ha identificato in un 20% la percentuale
media dei pazienti responsivi alla tDCS attiva, in un 8,5% la media dei
pazienti in remissione e in un 29% la percentuale di riduzione della severità.
La variabilità nei tassi riscontrati tra i vari studi potrebbe risalire a un
diverso grado di farmaco-resistenza, all’utilizzo o meno di terapia
antidepressiva contemporanea o alla diversità nei parametri di stimolazione.
Anche un’altra meta-analisi ha concluso che la tDCS attiva è superiore alla
stimolazione sham nel trattamento della depressione maggiore, ma ha
suggerito anche che lo scarso potere statistico dei trial e i variabili risultati
delle meta-analisi non hanno fornito un’evidenza sufficiente a proporne
l’inserimento nella pratica clinica giornaliera (Shiozawa et al., 2014). In
disaccordo con altre meta-analisi precedenti, una rassegna più recente ha
affermato che l’utilità clinica della tDCS è oggi incerta e non ci sono le basi
77
sufficienti per affermare una sua superiorità rispetto al placebo. Questo
studio ne ha però identificato tassi di risposta superiore in caso di utilizzo in
monoterapia (Berlim, Van den Eynde, & Daskalakis, 2013a).
Nel caso della farmaco-resistenza, uno studio condotto con tDCS su
pazienti ospedalizzati e indirizzati alla ECT ha mostrato un miglioramento
sia della HDRS che della BDI con una persistenza dei benefici sull’umore a
quattro settimane dal termine della terapia. Il protocollo prevedeva l’anodo
posizionato a livello della prefrontale sinistra e una sessione di 20 minuti a
2mA, due volte al giorno per cinque giorni. I pazienti si sono detti soddisfatti
riportando un miglioramento del sonno e una maggiore attivazione, e non
hanno riferito di alcun effetto collaterale, mentre solo un paziente è stato
sottoposto successivamente a terapia elettroconvulsiva. Questo risultato ha
allargato le prospettive di utilizzo e di efficacia da forme lievi-moderate ad
episodi severi farmaco-resistenti, ipotizzando che due sessioni giornaliere
possono garantire un ulteriore vantaggio rispetto ad una singola (Ferrucci et
al., 2009).
Contrariamente a quanto appena esposto, però, in un successivo
studio la tDCS non ha dimostrato alcuna efficacia clinica significativa,
rispetto al placebo, se somministrata per sole due settimane. Si è quindi
notata una riduzione di emozioni negative e promozione di positive che
fanno supporre una possibile regolazione umorale della metodica. In ogni
caso, la discrepanza rispetto ad altri studi potrebbe essere collegata ad una
maggiore farmacoresistenza dei pazienti selezionati o ad altri fattori di
variabilità del campione (Palm et al., 2012).
4.7. Eventi avversi della tDCS
Gli effetti avversi sono lievi e comprendono cefalee, irritazione e
prurito della cute sotto gli elettrodi (riscontrata soprattutto in studi con
intensità di corrente 2mA). Lesioni della cute non si sono verificate nel caso
78
in cui di utilizzo di una soluzione fisiologica per la preparazione
dell’elettrodo. Non sono stati riportati né episodi di epilessia né eventi
avversi cognitivi, ma si sono anzi verificati casi di miglioramento della
memoria procedurale a seguito della stimolazione attiva. La metodica non
determina alcun tipo di dolore rispetto alla TMS e, come per quest’ultima,
sono stati segnalati casi di ipomania transitoria indotta. Le controindicazioni
alla tDCS sono l’epilessia, impianti metallici o un eczema severo in
prossimità della sede dell’elettrodo. I protocolli attuali (1-2 mA, 20 minuti a
sessione e 25-35mm2 di superficie dell’elettrodo) devono essere considerati
sicuri dal momento che nessun effetto collaterale maggiore è stato segnalato
tra migliaia di pazienti in più laboratori nel mondo (Allan et al., 2012; Kalu
et al., 2012; Nitsche et al., 2009).
In conclusione, la tDCS rappresenta una modalità terapeutica ben
tollerata, non dolorosa, non invasiva, facile da somministrare e che
determina un aumento dell’eccitabilità neuronale prolungato.
79
5. Sviluppo di un protocollo sperimentale
5.1. Endpoint
Come esposto già nel capitolo 3, la depressione resistente rappresenta un
problema clinico molto diffuso. Nuove terapie sono state studiate e proposte
tra cui la rTMS e la tDCS. Se l’efficacia e la sicurezza di queste terapie
fisiche sono ormai state accertate da numerosi trial clinici, ancora poco è
noto riguardo agli effetti neurobiologici conseguenti alla stimolazione e a
base del miglioramento clinico da queste indotto. Solo pochi studi fMRI –
ad esempio (Fitzgerald et al., 2007; Kito et al., 2011) - hanno indagato i
correlati neurobiologici della remissione clinica indotta da rTMS, mentre
nessuno studio in questo campo d’indagine è oggi disponibile per la tDCS.
Il nostro protocollo sperimentale si pone, quindi, l’obiettivo di studiare i
meccanismi di azione neurobiologici delle due nuove terapie di
neuromodulazione. Gli endpoint del nostro studio sono:
• Valutare ulteriormente, sia dal punto di vista clinico che
neurobiologico, l’efficacia in add-on delle due stimolazioni in pazienti
depressi farmacoresistenti, già dimostrata in letteratura da parte di
numerosi trial clinici – si vedano ad esempio (Ferrucci et al., 2009;
Lepping et al., 2014);
• Identificare mediante fMRI i marcatori di attività cerebrale
espressione di farmacoresistenza nel singolo soggetto e la modifica
indotta dal successo terapeutico;
80
• Ricercare possibili predittori biologici di risposta nel singolo paziente
nell’ottica di una futura personalizzazione della terapia;
• Valutare i correlati neurobiologici della remissione;
• Studiare l’effetto sulle singole dimensioni psicopatologiche e sul
funzionamento del paziente, con stima delle alterazioni
neurobiologiche collegate alle specifiche dimensioni;
• Incrementare la letteratura sulla sicurezza delle TMS e tDCS e
definirne i possibile eventi avversi (vedi paragrafi 4.3. e 4.7.) in modo
da caratterizzarne meglio l’impiego clinico.
5.2. Attività sperimentali
I criteri di inclusione di un paziente nello studio saranno:
• Un’età compresa tra i 18 e 65 anni;
• Una diagnosi di depressione maggiore secondo i criteri del DSM-IV
TR e di farmacoresistenza, definita come la mancata risposta ad
almeno due terapie condotte in maniera adeguata in termini di
durata, dosaggio e compliance (vedi paragrafo 3.1);
• Utilizzo di contraccettivi in donne in età fertile - anche se studi sulla
TMS non hanno mostrano controindicazioni all’uso in gravidanza o
effetti negativi sul prodotto del concepimento, vedi (Eryilmaz et al.,
2015; Hizli Sayar et al., 2014).
I criteri di esclusione saranno invece:
• Sintomi psicotici valutabili attraverso l’intervista diagnostica;
• Rischio suicidario quantificabile attraverso la ‘Scale for Suicide
Ideation’ (v. sotto);
• Gravidanza in atto o allattamento
81
• Comorbidità con patologie neurodegenerative o neurologiche,
come ad esempio l’epilessia che rappresenta una
controindicazione sia alla TMS che tDCS;
• Controindicazioni assolute o relative alla MRI (protesi ossee, clip
aneurismatiche, elettrodi, claustrofobia, gravidanza, ecc.)
valutabili nell’intervista preliminare;
• Rilevanti anomalie alla MRI;
• Controindicazioni assolute o relative alla tDCS o alla TMS,
come pacemaker, defibrillatori impiantabili o storia di epilessia.
Il paziente potrà uscire dallo studio se non soddisfa più i criteri di inclusione,
se ritira il proprio consenso informato o si riscontri un peggioramento
clinico o effetti collaterali riconducibili alle metodiche utilizzate.
Il paziente sarà sottoposto a delle procedure routinarie che
comprendono: anamnesi, esame obiettivo, screening medico con eventuali
esami ematochimici o strumentali, valutazione psicologica, valutazione
elettroencefalografica e MRI.
La valutazione psicologica prevede:
• Diagnosi di episodio depressivo in atto e valutazione di
eventuali comorbidità psichiatriche attraverso un’intervista
condotta secondo la Mini-Psichiatry Interview;
• Stima delle dimensioni del disturbo depressivo attraverso la
Hamilton Depression Rating Scale e la Beck Depression Inventory – si
vedano anche il capitolo 1 e l’Appendice B.
• Il rischio suicidario verrà stimato attraverso la ‘Scale for suicide
ideation’ ovvero una scala di autovalutazione che fornisce
informazioni riguardo il desiderio di morte, la frequenza
dell’ideazione e la capacità progettuale nell’autolesione. Lo
score è compreso tra 0 e 38 e nel nostro studio verranno
esclusi pazienti con uno score superiore a 24 (per un’analisi
82
della letteratura sul rischio suicidario nella depressione
maggiore si veda al paragrafo 1.5).
• Valutazione della gravità complessiva dello stato
psicopatologico mediante l’autovalutazione SCL 90R che
verrò utilizzata anche nella stima delle modifiche indotte dai
trattamenti;
• Studio delle dimensioni del comportamento adattivo
mediante le Vineland Adaptive Behavior scales II, il cui punteggio
predice la qualità di vita del paziente.
Durante le fasi preliminari e successivamente al termine della terapia
verrà effettuata un’analisi EEG mediante cuffia con 128 elettrodi. Il paziente
verrà inoltre sottoposto a registrazione poligrafica con ECG e una fascia
piezoresistiva addominale per il respirogramma. Dopo il reclutamento ogni
paziente verrà sottoposto ad un’indagine con MRI sia morfologica che
funzionale. Le sequenze strutturali utilizzate saranno T1, T2 e flair ed è
prevista esclusione nel caso si rilevino alterazioni cerebrali significative.
Durante l’acquisizione verranno eseguite le scansioni necessarie per la
neuro-navigazione al fine di identificare il target della nostra stimolazione.
Lo studio fMRI in condizione di resting-state valuterà le ROI correlate alla
malattia localizzate nello studio descritto nel capitolo 2. Sarà quindi valutata
la connettività funzionale, ovvero l’interdipendenza statistica
dell’andamento temporale dell’attività di diverse aree cerebrali (v. paragrafo
2.2).
Lo studio fMRI verrà ripetuto al termine della terapia per
analizzare i correlati biologici associati alla eventuale remissione o alla sua
efficacia nella riduzione dei principali score. Inoltre, valuteremo se i dati
riguardo la connettività tra insula destra e fusiforme sinistro abbiano subito
una modifica indotta dall’applicazione delle due stimolazioni, in altre parole
se i pazienti con BDI più alto e z-score più basso presentino un
miglioramento nella ‘comunicazione’ tra queste due aree (v. capitolo 2).
83
La principale difficoltà per i soggetti potrebbe essere lo stare fermi
all’interno dello scanner, elemento che potrebbe compromettere la qualità
delle scansioni.
5.3. Disegno dello studio
Il nostro studio prevede la suddivisione del campione in 4 gruppi di
trattamento:
• 1. Trattamento farmacologico e TMS;
• 2. Trattamento farmacologico e tDCS;
• 3. Trattamento farmacologico e sham TMS;
• 4. Trattamento farmacologico e sham tDCS.
La randomizzazione avverrà mediante la generazione casuale di una
serie numerica ad inizio studio, in cui ad ogni numero verrà casualmente
associato uno dei 4 gruppi sopra citati.
Lo studio è in doppio cieco, e solo gli sperimentatori responsabili del
trattamento sapranno se dover somministrare trattamento attivo o sham
(ovvero senza reale applicazione dello stimolo) senza comunicare tale
informazione né al paziente né allo sperimentatore occupato nell’analisi dei
dati fMRI o nella valutazione clinica e psicometrica.
Dato che lo scopo di questo studio consiste nel valutare i correlati
neurobiologici specifici dell’efficacia di TMS e tDCS , l’utilizzo di controlli
sham è necessario sia per individuare eventuali modifiche neurobiologiche
aspecifiche sia per indagare la possibilità di endofenotipi di attività cerebrale
predittivi di risposta. I pazienti dovranno comunque continuare la terapia
antidepressiva precedente all’ingresso nello studio. Il disegno (Fig.4). prevede
una durata massima di un mese dopo il quale i pazienti nel gruppo placebo
potranno essere inseriti nel gruppo di trattamento attivo tenendo però conto
84
di questo cambiamento di disegno sperimentale al momento dell’analisi dei
dati. Nell’informativa fornita al paziente verrà specificata l’esistenza dei
gruppi placebo e la possibilità di ricevere comunque un trattamento attivo.
In ogni gruppo verranno inseriti 15-20 soggetti ritenendo tale numerosità
del campione sufficiente nel garantire la potenza statistica dei risultati.
5.4. Trattamenti oggetto dello studio
Per quanto riguarda la TMS, i pazienti verranno sottoposti a 15
sedute nel corso di quattro settimane. Tenuto conto dei dati in letteratura i
parametri di stimolazione saranno i seguenti: 300 impulsi a seduta, 1Hz di
frequenza e intensità 110% della soglia motoria. La sede di stimolazione,
identificata come target grazie alla neuro-navigazione, è rappresentata dalla
corteccia dorso-laterale prefrontale sinistra in accordo con l’ipotesi di una
sua ipoattivazione come base neurobiologica del disturbo depressivo - si
veda ad esempio (Grimm et al., 2008). Nel gruppo sham il bordo della
bobina sarà ruotato di 90° in modo da non applicare alcun impulso.
Nel protocollo tDCS applicheremo una corrente di 2mA per 20
minuti mediante un anodo posizionato sulla DLPFC sinistra e un catodo
sulla sinistra. Le applicazioni verranno ripetute due volte al giorno per 5
giorni. Per la scelta della sede di posizionamento del catodo e anodo vedi
analisi della letteratura nel capito 4 paragrafo 2.1. Nel gruppo sham tDCS
l’applicazione sarà la medesima, ma gli elettrodi non saranno attivi.
85
Fig.4: flow-chart dello studio.
86
5.5. Follow-up
Dopo la terapia, i pazienti verranno nuovamente valutati sia
mediante il medesimo protocollo psicologico sia con registrazione EEG,
poligrafica basale e fMRI. Il tutto dovrà avvenire entro una settimana dalla
conclusione della terapia. Verranno definiti responders coloro con
dimezzamento degli score BDI rispetto al punteggio iniziale e remitters se alla
rivalutazione non rispecchieranno più i criteri per diagnosi di episodio
depressivo maggiore secondo il DSM-IV. Ai pazienti sham sarà proposto di
entrare in un gruppo attivo senza necessità di ulteriori valutazioni.
5.6. Sicurezza
La TMS si ritiene una metodica sicura anche in caso di esposizioni
continuative o giornaliere tanto che la FDA ne ha approvato l’uso clinico
nella depressione farmacoresistente. I minimi effetti collaterali segnalati in
20 pazienti ogni 100 studiati sono: cefalea di origine muscolare e dolore
cervicale, entrambi risolvibili con comuni analgesici. La somministrazione
degli impulsi elettromagnetici con la bobina può generare dei suoni ad alta
intensità, non tali da creare il rischio di danni uditivi, ma l’utilizzo di tappi
auricolari o cuffie fonoassorbenti può comunque limitare il disagio. Non
sono stati riportati in letteratura casi di epilessia indotta. Quindi la TMS
risulta estremamente sicura quando utilizzata nei limiti previsti dalle schede
tecniche ed escludendo popolazioni a maggior rischio (v. tra i criteri di
esclusione).
Il picco di campo magnetico degli strumenti TMS di questo studio
risulta inferiore a 2 Tesla e nessun effetto avverso è stato riportato per tale
intensità. L’induzione elettromagnetica potrebbe comunque interferire con
strumenti elettromedicali magnetici, per questa ragione i portatori di
dispositivi di questo tipo saranno preventivamente esclusi. La massima
87
corrente elettrica indotta da un impulso magnetico TMS è ampiamente al di
sotto della soglia per l’induzione di danni neuropatici tanto che diversi studi
istopatologici su modelli animali non hanno rilevato alcuna lesione indotta a
livello cerebrale anche dopo stimolazioni ripetute (Sgro, Ghatak, Stanton,
Emerson, & Blair, 1991). Non è stato rilevato alcun effetto cumulativo, né
aumento di effetti avversi dopo stimolazioni ad alta intensità (Anderson et
al., 2006).
Anche la tDCS è stata considerata sicura e gli effetti collaterali lievi
più frequenti riguardano prurito e formicolio sotto gli elettrodi, entrambi
riducibili attraverso l’applicazione di soluzione salina sotto l’elettrodo stesso.
Ancora meno frequenti sono: lampi luminosi nel campo visivo o
annebbiamento al momento di accensione o spegnimento. Il rischio di
eccitotossicità in neuroni ipereccitati non si applica alla tDCS dato il
probabile effetto sulla eccitabilità mediante modifiche dei canali ionici.
Studi con esposizione maggiore rispetto ai normali parametri
utilizzati nei protocolli sperimentali non hanno documentato effetti
collaterali più gravi come alterazioni di barriera emato-encefalica o edemi
(Nitsche et al., 2004). Per analisi della letteratura sui possibili effetti
collaterali della tDCS si veda paragrafo 4.2.2.
5.7. Conclusioni
Lo studio ha ricevuto l’approvazione del Comitato Etico ed è quindi
iniziata la fase di reclutamento dei primi pazienti. Allo stato attuale abbiamo
avviato le procedure su un singolo paziente, cui abbiamo somministrato le
scale psicologiche e su cui abbiamo eseguito l’analisi fMRI preliminare. Il
soggetto è stato però escluso dallo studio per la mancata soddisfazione dei
criteri neuropsicologici richiesti per l’inclusione nello studio.
88
Appendice A: fMRI
Principi del segnale BOLD
La risonanza magnetica funzionale è uno strumento di analisi
dell’attività cerebrale in vivo, largamente utilizzata nell’ambito della ricerca
neuroscientifica. L’attivazione dei neuroni, in una particolare area
cerebrale, scatena un immediato aumento del tasso di estrazione
dell’ossigeno, aumentando così la concentrazione relativa di emoglobina
deossigenata. La reazione rapida d’incremento dell’attività neuronale,
descritta come initial dip, viene seguita a distanza di circa 3-5 secondi da un
aumento del flusso sanguigno, detto risposta emodinamica, che è in
relazione con la richiesta energetica locale.
Non è ancora noto come i neuroni riescano a comunicare al sistema
vascolare le loro necessità metaboliche, anche se è stato recentemente
ipotizzato un ruolo mediatore degli astrociti . La risposta emodinamica
descritta corrisponde a un aumento del flusso locale di sangue (CBF: Cerebral
Blood Flow), con un aumento concomitante dell’emoglobina ossigenata. In
seguito il flusso locale diminuisce rapidamente.
Le proprietà magnetiche dell’emoglobina deossigenata permettono
la misurazione del flusso cerebrale come parametro di attività cerebrale. Fu
Pauling a scoprire nel 1936 come, modificando l’ossigenazione del sangue,
cambi la suscettibilità magnetica (Pauling & Coryell, 1936). L’emoglobina
deossigenata, avendo elettroni liberi, rende il sangue paramagnetico, ovvero
determina delle ‘piccole distorsioni’ del campo magnetico. La risposta
emodinamica conseguente all’attività neuronale, provoca un maggior tasso
89
di emoglobina deossigenata ed ossigenata, generando un campo magnetico
più disomogeneo da cui deriva un segnale MRI più intenso. Thulborn, poi,
nel 1981, dimostrò come il segnale T2, ovvero la costante di ‘rilassamento
trasversale’ dei protoni, cambi principalmente in funzione del livello di
ossigenazione del sangue (Thulborn, Waterton, Matthews, & Radda, 1982).
Ogawa osservò, quindi, che il campo magnetico locale indotto dalla
suscettibilità magnetica del sangue subisce una distorsione per la presenza
della deossiemoglobina paramagnetica, che causa un rilassamento più
rapido dei protoni nel sangue. Ogawa parlò quindi di un contrasto ossigeno-
dipendente suggerendo un suo possibile utilizzo come indicatore del
consumo di ossigeno nelle diverse aree cerebrali (Ogawa, Lee, Nayak, &
Glynn, 1990).
Il segnale BOLD (Blood Oxigenation Level Dependent) rappresenta la base
delle variazioni del segnale RM. L’aumento della deossiemoglobina, dalle
proprietà paramagnetiche, provoca una caduta del segnale RM e ne
permette quindi l’utilizzo come mezzo di contrasto endogeno nello studio
delle aree coinvolte nella funzione studiata. Il segnale BOLD deriva appunto
dalla modifica del rapporto HbO2/Hb, indotta dall’attività neuronale, che
rende il campo magnetico più disomogeneo e quindi identificabile il
cambiamento locale dalla MR. I cambiamenti nel tasso di HbO2/Hb, si
configurano quindi come un indice indiretto dell’attività neuronale. Tale
prospettiva, che vede una relazione tra attività cerebrale e variazioni del
flusso sanguigno è definita teoria del coupling neuro-vascolare. Subito dopo,
l’attivazione neuronale si ha una maggiore estrazione di ossigeno a livello
dei capillari arteriosi delle aree coinvolte e ciò provoca una temporanea
caduta del segnale per l’aumento della deossiemoglobina (‘initial dip’). Con
l’aumento del flusso regionale si ha poi una commistione e una caduta della
concentrazione della forma deossigenata con aumento del segnale che
tenderà, dopo una fase di plateau, a ritornare a livelli precedenti la fase di
attivazione. Il segnale BOLD segue quindi nel suo andamento il profilo
specifico della risposta emodinamica, grazie, però, a un’interessante scoperta
90
sul disaccoppiamento fisiologico tra CBF e metabolismo ossidativo, la cui
causa ancora oggi non ha una spiegazione sotto il profilo evolutivo:
l’ossigeno fornito eccede, infatti, le necessità metaboliche. Senza questo
scarto non saremmo in grado di registrare il segnale BOLD (Fox & Raichle,
1986).
Concludendo, il segnale fMRI cattura un’espressione indiretta
dell’attività neuronale in risposta ad uno specifico compito chiesto al
soggetto, che avviene in tempi molto rapidi (circa 100ms), basandosi su un
fenomeno, il cambiamento del livello di ossigenazione locale (Fig.5), di più
lunga latenza (fino a 20s).
Fig.5: andamento temporale del segnale BOLD
Analisi dati e disegno sperimentale
Prima di procedere all’analisi dei dati, è necessaria una fase di pre-
processing delle immagini funzionali. Si devono unire le sezioni registrate in
un unico volume, correggere per il movimento, co-registrare per ogni
soggetto immagini strutturali e funzionali, normalizzare tutti i volumi in un
91
unico spazio anatomico e quindi effettuare uno smooth del segnale, al fine di
aumentare il rapporto tra segnale e noise in favore del primo.
In particolare per la normalizzazione, si utilizza un modello
anatomico standardizzato in modo da poter comparare l’attivazione tra
soggetti differenti. Una dei modelli più frequenti, utilizzato anche nel nostro
studio (v. capitolo 2), è quello di Talairach (Talairach & Tournoux, 1988),
ottenuto negli anni 60’ dallo studio post-mortem di un unico cervello. La
trasformazione avviene per punti convenzionali.
Per ottenere un’immagine di risonanza magnetica funzionale si
utilizza una registrazione del segnale ad alta velocità e a bassa risoluzione
spaziale che risulta molto sensibile al contrasto BOLD. Una sequenza molto
utilizzata è quella detta Gre-Epi (Gradient-Recall Echo Echo-planar
Imaging), che mediamente consente una risoluzione spaziale di 3mm2 per
voxel con un intervallo di campionamento del segnale di 2,5 secondi.
Questa sequenza riesce a cogliere la variazione del segnale BOLD indotta
dallo specifico task, che molto ridotta: dell’ordine di 1-5%. Durante la
registrazione è inoltre prevista anche un’acquisizione anatomica del cervello.
Nello studio della relazione tra segnale BOLD e uno specifico task si
può scegliere tra due diversi paradigmi sperimentali: il disegno a blocchi e il
disegno event-related. Il disegno a blocchi prevede la presentazione di stimoli
all’interno di blocchi in modo da dedurne l’attivazione media indotta da
ciascun blocco. Questo tipo di paradigma era già utilizzato nella PET, che
aveva bisogno di tempi di acquisizione maggiori, mentre la migliore
risoluzione temporale della fMRI permette l’utilizzo anche di un altro tipo
di paradigma. Il disegno event-related prevede, infatti, la somministrazione
di stimoli in modo più casuale, con il vantaggio di eliminare o ridurre la
prevedibilità del compito e la conseguente distrazione o sensibilizzazione al
task da parte del paziente.
Negli ultimi dieci anni si è diffuso, soprattutto in ambito clinico,
anche un paradigma detto resting-state che non necessità di alcun compito
92
cognitivo. Rappresentato, infatti, da modalità di acquisizione in cui il
soggetto riposa e non deve compiere nessun compito particolare.
Fig.6: schema dei due principali paradigmi sperimentali in uso.
93
Appendice B: Scale utilizzate
BDI- II: Beck Depression Inventory II
Si veda al capitolo 2 per la descrizione.
Tabella 2: scala BDI-II
1. Tristezza
0. Non mi sento triste.�
1. Mi sento triste per la maggior parte del tempo
2. Mi sento sempre triste �
3. Mi sento così triste o infelice da non poterlo sopportare.
2. Pessimismo
0. Non sono scoraggiato riguardo al mio futuro.�
1. Mi sento più scoraggiato riguardo al mio. futuro rispetto al solito.
2. �Non mi aspetto nulla di buono per me.�
3. Sento che il mio futuro è senza speranza e che continuerà a peggiorare.
3. Fallimento
0. Non mi sento un fallito.�
1. Ho fallito più di quanto avrei dovuto.
94
2. Se ripenso alla mia vita riesco a vedere solo una serie di fallimenti.�
3. Ho la sensazione di essere un fallimento totale come persona.
4. Perdita di piacere
0. Traggo lo stesso piacere di sempre dalle cose che faccio.�
1. Non traggo più piacere dalle cose come un. tempo.
2. Traggo molto poco piacere dalle cose che di solito mi divertivano.�
3. Non riesco a trarre alcun piacere dalle cose che una volta mi piacevano.
5. Senso di colpa
0. Non mi sento particolarmente in colpa.�
1. Mi sento in colpa per molte cose che ho fatto o che avrei dovuto fare.�
2. Mi sento molto spesso in colpa.�
3. Mi sento sempre in colpa.
6. Sentimenti di punizione
0. Non mi sento come se stessi subendo una punizione.�
1. Sento che potrei essere punito.
2. Mi aspetto di essere punito.�
3. Mi sento come se stessi subendo una punizione.
7. Autostima
0. Considero me stesso come ho sempre fatto
1. Credo meno in me stesso�
2. Sono deluso di me stesso.�
3. Mi detesto.
95
8. Autocritica
0. Non mi critico né mi biasimo più del solito.
1. Mi critico più spesso del solito.�
2. Mi critico per tutte le mie colpe.�
3. Mi biasimo per ogni cosa brutta che mi accade.
9. Suicidio
0. Non ho alcun pensiero suicida�
1. Ho pensieri suicidi ma non li realizzerei
2. �Sento che starei meglio se morissi.
3. �Se mi si presentasse l’occasione, non esiterei ad uccidermi
10. Pianto
0. Non piango più del solito.�
1. Piango più del solito.
2. �Piango per ogni minima cosa.�
3. Ho spesso voglia di piangere ma non ci riesco.
11. Agitazione
0. Non mi sento più agitato o teso del solito.
1. Mi sento più agitato o teso del solito.�
2. Sono così nervoso o agitato al punto che mi è difficile rimanere fermo.
3. Sono così nervoso o agitato che devo continuare a muovermi o fare qualcosa.
12. Perdita di interessi
96
0. Non ho perso interesse verso le altre persone o verso le attività.�
1. Sono meno interessato agli altri o alle cose rispetto a prima.
2. Ho perso la maggior parte dell’interesse verso le altre persone o cose.
3. �Mi risulta difficile interessarmi a qualsiasi cosa.
13. Indecisione
0. Prendo decisioni come sempre.
1. �Trovo più difficoltà del solito nel prendere decisioni.
2. Ho molte più difficoltà nel prendere decisioni rispetto al solito.�
3. Non riesco a prendere nessuna decisione.
14. Senso di inutilità
0. Non mi sento inutile.�
1. Non mi sento valido e utile come un tempo.
2. Mi sento più inutile delle altre persone.�
3. Mi sento completamente inutile su qualsiasi cosa.
15. Perdita di energia
0. Ho la stessa energia di sempre.�
1. Ho meno energia del solito.�
2. Non ho energia sufficiente per fare la maggior parte delle cose.�
3. Ho così poca energia che non riesco a fare nulla.
16. Sonno
0. Non ho notato alcun cambiamento nel mio modo di dormire.�
1a. Dormo un po’ più del solito.�
1b. Dormo un po’ meno del solito.
97
2a. Dormo molto più del solito.�
2b. Dormo molto meno del solito.�
3a. Dormo quasi tutto il giorno.�
3b. Mi sveglio 1-2 ore prima e non riesco a riaddormentarmi.
17. Irritabilità
0. Non sono più irritabile del solito.
1. Sono più irritabile del solito.�
2. Sono molto più irritabile del solito.
3. Sono sempre irritabile.
18. Appetito
0. Non ho notato alcun cambiamento nel mio appetito.�
1a. Il mio appetito è un po’ diminuito rispetto al solito.
1b. Il mio appetito è un po’ aumentato rispetto al solito�
2a. Il mi appetito è molto diminuito rispetto al solito
2b. Il mio appetito è molto aumentato rispetto al solito.
�3a. Non ho per niente appetito.�
3b. Mangerei in qualsiasi momento
19. Concentrazione
0. Riesco a concentrarmi come sempre.�
1. Non riesco a concentrarmi come al solito.�
2. Trovo difficile concentrarmi per molto tempo
3. Non riesco a concentrarmi su nulla.
20. Fatica
98
0. Non sono più stanco o affaticato del solito.�
1. Mi stanco e mi affatico più facilmente del solito.
2. Sono così stanco e affaticato che non riesco a fare molte delle cose che facevo prima.�
3. Sono talmente stanco e affaticato che non riesco più a fare nessuna delle cose che facevo prima.
21. Sesso
0. Non ho notato alcun cambiamento recente nel mio interesse verso il sesso.�
1. Sono meno interessato al sesso rispetto a prima.
2. Ora sono molto meno interessante al sesso.
3. Ho completamente perso l’interesse verso il sesso.
Scala di Hamilton
Una delle scale più utilizzate sia in ambito clinico che di ricerca per
la valutazione, mediante intervista, della gravità dell’episodio o per
identificare un’eventuale remissione dei pazienti inseriti all’interno di un
trial. È composta da 21 item (nella versione originale del 1960 erano
inizialmente 17) che valutano gli aspetti più importanti dello spettro
depressivo tra cui l’umore depresso, il senso di colpa, l’insonnia. Ogni item
prevede un punteggio su una scala da 3 o 5 punti e la somma totale dei
punteggi permette di ottenere uno score espressione della gravità del
disturbo.
Tabella 3: scala di Hamilton
1. Umore depresso (sentimento di tristezza, mancanza di speranza, sentimento di incapacità e
di inutilità)
99
0. Per niente
1. Manifesto questi sentimenti solo se mi viene chiesto
2. Ne parlo spontaneamente
3. Comunico questi sentimenti con attraverso l’espressione del volto, la posizione del corpo, la voce e la
tendenza al pianto
4 . Manifesto questi sentimenti mediante messaggi sia verbali che non verbali
2. Sentimenti di colpa
0. Per niente
1. Auto accusa, penso di aver deluso la gente
2. Idee di colpa o ripensamenti su errori passati o su azioni peccaminose
3. Penso che l’attuale malattia sia una punizione. Deliri di colpa
4. Odo voci di accusa o di denigrazione e/o ho esperienze allucinatorie visive a contenuto minaccioso
3. Suicidio
0. Per niente
1. Penso che la vita non valga la pena di essere vissuta
2. Vorrei essere morto o penso alla possibilità di suicidarmi
3. Ho idee di suicidio
4. Ho tentato il suicidio (ogni serio tentativo di suicidio deve essere valutato ‘4’)
4. Insonnia iniziale
0. Non ho difficoltà ad addormentarmi
1. Talvolta ho difficoltà ad addormentarmi (p.e. mi occorre più di mezz’ora) 2 = Ho sempre difficoltà ad
addormentarmi
5. Insonnia centrale
100
0. Non mi sveglio durante la notte
1. Sono diventato irrequieto durante la notte
2. Mi sveglio durante la notte – segnare ‘2’ se ti alzi dal letto (a meno che non sia per urinare)
6. Insonnia ritardata
0. Nessuna difficoltà
1. Mi sveglio prestissimo (nelle prime ore del mattino), ma mi riaddormento 2 = Non riesco a
riaddormentarmi se mi alzo dal letto
7. Lavoro e interessi
0. Nessuna difficoltà
1. Mi sento incapace, mi affatico facilmente o mi sento debole durante le attività (lavoro o hobby)
2. Ho perso interesse per le attività – lavoro o hobby . Devo sforzarmi per lavorare
3. Dedico un minor tempo alle attività o sono meno efficiente
4. Ha cessato di lavorare a causa della malattia
8. Rallentamento (Ideazione e linguaggio rallentati; ridotta capacità a concentrarsi; diminuita
attività motoria)
0. Nessun cambiamento nel pensiero e linguaggio
1. Mi sento lievemente rallentato mentre parlo 2 = Mi sento molto rallentato mentre parlo
3. Ho difficoltà a parlare
4. Stato di arresto psicomotorio
9. Agitazione
0. Per niente
1. Sono irrequieto
101
2. Gioco con le mani, con i capelli, ecc.
3. Mi muovo continuamente, non riesco a stare seduto
4. Mi torco le mani, mi mordo le unghie, mi tiro i capelli, mi mordo le labbra
10. Ansia psichica
0. Per niente
1. Sono teso ed irritabile
2. Mi preoccupo per questioni di poco conto
3. Sono apprensivo ed è evidente da come mi muovo e da come parlo 4 = Manifesto spontaneamente le mie
paure
11. Ansia somatica (Aspetti somatici dell’ansia. Gastrointestinali: secchezza delle fauci,
meteorismo, indigestione, diarrea, crampi, eruttazione. Cardiovascolari: palpitazioni, cefalea.
Respirazione: iperventilazione, sospiri. Genito-urinari: pollachiuria. Sudorazione)
0. Per niente
1. Lieve
2. Moderata
3. Notevole
4. Invalidante
12. Sintomi somatici gastrointestinali
0. Per niente
1. Ho perso l’appetito, ma mi alimenta senza essere stimolato o aiutato dal personale. Senso di peso
all’addome
2. Ho difficoltà ad alimentarmi senza lo stimolo o l’aiuto di qualcuno. Prendo dei lassativi o dei farmaci
per i disturbi gastrointestinali
13. Sintomi somatici generali
102
0. Per niente
1. Ho pesantezza agli arti, alla schiena o alla testa. Ho mal di testa, mal di schiena, dolori muscolari. Mi
sento privo di energie e mi affatico facilmente
2. Se i sintomi sono molto evidenti segnare ‘2’
14. Sintomi genitali
0. Per niente
1. Lievi
2. Gravi
15. Ipocondria
0. Per niente
1. Iper-attenzione nei confronti del mio corpo
2. Sono preoccupato per la mia salute
3. Mi lamento spesso e chiedo aiuto
4. Sono convinto di avere una malattia somatica, senza che ve ne siano i motivi
16. Perdita di peso
0. Nessuna perdita di peso
1. Probabile perdita di peso a causa della presente malattia
2. Evidente perdita di peso
3. Non valutata
17. Insight
0. Penso di essere depresso ed ammalato
1. Penso di essere ammalato e ritengo che ciò sia dovuto alla cattiva alimentazione, al clima, al
103
superlavoro, a malattie infettive, al bisogno di riposo
2. Non penso di essere ammalato
18. Variazioni diurne
A - Indicare se i sintomi sono più gravi al mattino o alla sera
0. Nessuna variazione
1. Sto peggio al mattino
2. Sto peggio alla sera
B – Se presenti, valutare l’entità delle variazioni
0. Assenti
1. Lievi
2. Gravi
19. Depersonalizzazione e derealizzazione (Per es. idee di irrealtà, idee di negazione)
0. Per niente
1. Lieve
2. Moderata
3. Grave
4. Invalidante
20. Sintomi paranoidei
0. Per niente
1. Sono sospettoso
2. Idee di riferimento
3. Mi sento perseguitato
104
21. Sintomi ossessivi e compulsivi
0. Assenti
1. Lievi
2. Gravi
Scl-90
Questionario autosomministrato a 90 item che il paziente deve
compilare tenendo conto della sua condizione nell’ultima settimana e di
quali affermazioni quantifichino meglio l’intensità del disturbo laddove ne
abbia sofferto. I risultati individuano dieci dimensioni sintomatologiche di
diverso significato (somatizzazione, ossessione-compulsione, sensibilità
interpersonale, depressione, ansia , ostilità, ansi fobica, ideazione paranoide,
psicoticismo e disturbi del sonno). Per ogni dimensione si calcola la media
delle risposte agli item appartenenti a quella scala. È inoltre calcolato un
indice globale (global score index) come punteggio medio di tutte le domande
con risposta del test.
Tabella 3: Scl-90.
Per niente Un poco Moderatamente Molto Moltissimo
1. Mal di testa �
2. Nervosismo
o agitazione interna �
105
3. Incapacità a scacciare
pensieri, parole �o
idee indesiderate �
4. Sensazione di
svenimenti o di
vertigini �
5. Perdita dell’interesse o
del piacere �sessuale �
6. Tendenza a criticare
gli altri �
7. Convinzione che gli
altri possano
con �trollare i tuoi
pensieri �
8. Convinzione che gli
altri siano
responsabili dei tuoi
disturbi �
9. Difficoltà a ricordare le
cose �
10. Preoccupazioni per
la tua negligenza �o
trascuratezza �
11. Sentirti facilmente
infastidito/a o
irritato/a �
106
12. Dolori al cuore o al
petto �
13. Paura degli spazi
aperti o delle strade �
14. Sentirti debole o
fiacco/a �
15. Idee di toglierti la
vita �
16. Udire le voci che le
altre persone
non �odono �
17. Tremori �
18. Mancanza di fiducia
negli altri �
19. Scarso appetito �
20. Facili crisi di pianto �
21. Sentirti intimidito/a
nei confronti
del�l’altro sesso �
22. Sensazione di essere
preso/a in trappola �
23. Paure improvvise
senza ragione �
24. Scatti d’ira
107
incontrollabili �
25. Paura di uscire da
solo/a �
26. Rimproverarti per
qualsiasi cosa �
27. Dolori alla schiena �
28. Senso di incapacità
a portare a termi �ne
le cose �
29. Sentirti solo/a �
30. Sentirti giù di
morale �
31. Preoccuparti
eccessivamente
per �qualsiasi cosa �
32. Mancanza di
interesse �
33. Senso di paura �
108
Scale for suicide ideation
Strumento clinico a 19 item disegnato per quantificare l’intento
corrente e conscio al suicidio attraverso la valutazione dell’intensità di
pensieri o desideri autodistruttivi e di eventuali comportamenti o
affermazioni. È strutturata come un’intervista in cui ogni item prevede una
scala a 3 punti. Si è
dimostrata essere
sensibile ai
cambiamenti nel
tempo della gravità
dell’episodio
depressivo.
109
Fig.7: SSI in italiano
110
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Ringraziamenti
Nel realizzare questa tesi mi è stato fondamentale l’aiuto, il consiglio
e l’incoraggiamento di alcune persone senza le quali questo lavoro non
sarebbe stato possibile.
Al professor Pietro Pietrini va la mia riconoscenza per avermi
concesso di frequentare i suoi reparti per più di un anno, sotto la guida del
professor Claudio Gentili. Al professor Gentili devo la mia totale gratitudine
per avermi introdotto ad aspetti così appassionanti della disciplina che spero
diventi un giorno la mia professione.
Al professor Emiliano Ricciardi va la mia stima e il mio
ringraziamento per il sincero interesse e supporto dimostratomi in questi
anni.
E così ringrazio di tutto cuore anche il dott. Andrea Leo, del
Laboratorio di Biochimica Clinica e Biologia Molecolare, per il suo aiuto
disinteressato e la smisurata pazienza.
Al suo collega, il dott. Dario Menicagli per il sostegno e l’amicizia
mostratami in questi ultimi mesi.
A Francesco Varricchio, della Biblioteca di Medicina e Farmacia,
per la cordialità con cui mi ha introdotto agli strumenti di ricerca e
produzione bibliografica.
E a Paolo, per l’incoraggiamento, le discussioni, i frequenti confronti
e i consigli letterari.
Infine, per l’esempio, la fiducia e la paziente sopportazione dedico
questo lavoro ai miei genitori e ai miei amici, senza i quali questo giorno
non sarebbe mai arrivato.
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