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CopertinaColophonIndiceL’angoscia dell’abitare Ricœur, Lyotard e La Città Postmoderna di Franco Riva1. Decostruzione o narrazione?2. Corpo e tempo. I luoghi di vita3. Architettura e vulnerabilità4. Itineranza. Erranza. Sradicamento

Riferimenti bibliograficiRingraziamentiLeggere La Città` Quattro Testi Di Paul Ricœur1. Architettura e narratività2. La città è fondamentalmente in pericolo. La sua sopravvivenza dipende da noi3. Urbanizzazione e secolarizzazione4. Il progetto di una morale socialeNote

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LDB

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Le Navi

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ISBN : 978-88-6826-702-5

I edizione: maggio 2013 © 2013 Lit Edizioni Srl

Traduzione di Diana Gianola

Castelvecchi è un marchio di Lit Edizioni Sede operativa: Via Isonzo, 34 – 00198 Roma www.castelvecchieditore.com [email protected]

Versione digitale realizzata da Simplicissimus Book Farm srl

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A cura di Franco Riva

Leggere la città

Quattro testi di Paul Ricœur

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L’angoscia dell’abitare

Ricœur, Lyotard e la città postmoderna

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di Franco Riva

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Tutto è già stato messo a mano per tradurre in parola l’indicibile città.

Risultato di tanto travaglio: molte mirabili e memorabili pagine, ma non una pagina che ci dia la chiave del mistero.

DIEGO VALERI, Guida sentimentale di Venezia

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1.

DECOSTRUZIONE O NARRAZIONE?

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La città ha aiutato lo sviluppo delle civiltà. Ma le civiltà che edificarono le città, morirono sempre con essa,

o, forse, morirono di essa. FRANK LLOYD WRIGHT, Architettura e demptlkocrazia

Sa che la promessa è un’illusione, evoca il passato moderno come un fantasma, ne fa la satira,

richiede pluralismo contro l’universalismo, è per il locale contro la totalità.

Progetta l’inversione del progetto modernista. Ma progetta ancora, come il modernismo.

JEAN-FRANÇOIS LYOTARD, Alterità e immaginario postmoderno

Decostruzione e narrazione: la città postmoderna

Dedicata a Identità e differenze, la XIX Esposizione Internazionale della Triennale di Milano del 1994 ospitava l’intervento di due filosofi, Jean-François Lyotard e Paul Ricœur, che nei confronti del gesto architettonico assumono atteggiamenti ben diversi, a segnare modi alternativi di pensare alla città postmoderna. Per quanto sia comune il clima culturale sotteso a entrambi, vale a dire la crisi della modernità quale crisi delle certezze e di una ragione totalizzante, nonché l’approdo inevitabile a un sapere narrativo, gli esiti che ne derivano si incamminano lungo percorsi divergenti.

Il postmoderno che viene indirizzato da Lyotard verso la meta del decostruzionismo rifluisce invece in Ricœur su di un narrare inteso diversamente.

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Nel primo caso prevale il motivo della frattura e dell’abbandono dei grandi racconti – quelli, cioè, che hanno una «pretesa di valere in modo universale» e la cui «diffusione è necessariamente violenta, talvolta terroristica» (J.-F. Lyotard, 1996, vol. I, p. 52) –, e quindi di una narratività postmodernista concepita sotto la cifra dell’indebolimento. Nel caso di Ricœur si difende un’unità ammorbidita, ma insieme conservata, proprio lungo i sentieri di una narratività ermeneutica ed esplicativa. Decostruzione e narratività non segnano soltanto degli orizzonti di pensiero nell’epoca della crisi delle certezze; riflettono pure modi alternativi di concepire il gesto architettonico, la costruzione della città degli uomini: immagini diverse della convivenza come tentativi di uscire dalla crisi della razionalità moderna.

Proprio intorno al senso del gesto di costruire si esalta la differenza tra il postmodernismo di Lyotard e l’ermeneutica narrativa di Ricœur. Lyotard, ragionando su alterità e postmoderno, arriva perfino a incriminare la «parola progetto» come eredità «profondamente metafisica», essendo tesa alla «legittimazione dell’opera» attraverso la pretesa di «soddisfare una domanda» in modo definitivo: «Domanda di concordia, per ogni essere umano e tra gli uomini nello spazio-tempo abitabili»; e quindi «ciò che resta» nonostante tutto «moderno è il progetto, la promessa del progresso, l’escatologia». Al di là delle sue diversità e delle sue manifestazioni contrastanti, che si esplicitano altresì nelle diverse pratiche architettoniche, quelle che vedono contrapporsi ad esempio un Gaudì a un Mies van der Rohe, un Gropius a un Wright o a uno Speer –, anche nel progettare modernista si tratta pur sempre di promettere una «soluzione finale all’angoscia ontologica dell’abitare e soprattutto all’umiliazione moderna dell’essere messi in scatola – quel che noi chiamiamo essere alloggiati». L’incriminazione del progetto implica ovviamente la necessità di un indebolimento dell’eredità metafisica che alberga nell’architettura, tale da lasciare in conclusione soltanto una domanda: «Come sarà un’architettura così decostruita, un’architettura debole»? (J.-F. Lyotard, 1996, vol. I, pp. 53, 55; cfr. pp. 46-55; cfr. J.-F. Lyotard, 1985, pp. 52 e sgg., P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 65).

All’angoscia ontologica dell’abitare non può esserci, per Lyotard, risposta definitiva e, in questo, il progetto architettonico scopre la propria intima debolezza. Ricœur compie invece la scelta diametralmente opposta: quella, cioè, di riflettere nuovamente sull’atto e sulla progettualità architettonica, per ritrovare una plausibilità formale in senso narrativo.

L’esordio di Ricœur alla Triennale di Milano non lascia dubbi: «È sempre motivo di soddisfazione per un autore scoprire un intero campo di investigazione in cui le sue analisi trovano un’applicazione inaspettata, anzi, più che un’applicazione, una proiezione che conferisce a tali analisi una portata capace di modificarne, come un effetto-boomerang, il primitivo significato. Mi riferisco per

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esempio alle attuali riflessioni sulla dimensione narrativa dell’architettura e, di conseguenza, sulla dimensione temporale dello spazio architettonico» (P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 64; cfr. P.A. Rovatti, 2000, pp. 63-69). Facile notare la progressione di questo esordio: ciò che si presenta dapprima come la sorpresa per un’«applicazione» insospettata – la dimensione narrativa dell’architettura – diventa subito dopo una «proiezione» intima del proprio pensiero, per assumere infine il volto di un vero e proprio «ripensamento»: in breve, di un «effetto-boomerang».

Cosa avesse inteso fare esattamente, Ricœur lo dice, ricordandosi dell’intervento alla Triennale, in La memoria, la storia, l’oblio (La mémoire, l’histoire, l’oubli, 2000):

Avevo tentato di trasporre sul piano architettonico le categorie legate alla triplice mimesis, esposte in Tempo e racconto I: prefigurazione, configurazione, rifigurazione. Mostravo nell’atto di abitare la prefigurazione dell’atto architettonico, nella misura in cui il bisogno di riparo e di circolazione delinea lo spazio interno della dimora e gli intervalli dati da percorrere. A sua volta, l’atto di costruire si dà come l’equivalente spaziale della configurazione narrativa mediante la costruzione dell’intreccio; dal racconto all’edificio, la stessa intenzione di coerenza interna abita l’intelligenza del narratore e del costruttore. Infine, l’abitare, risultante dal costruire, era ritenuto l’equivalente della «rifigurazione» che, nell’ordine del racconto, si produce nella lettura: l’abitante, come il lettore, accoglie il costruire con le sue aspettative e anche le sue resistenze e le sue contestazioni. Davo compimento al saggio con un elogio dell’itineranza (P. Ricœur, 2003, p. 210, nota 17).

Affiancando l’arte del costruire a quella del raccontare, lo spazio al tempo, Ricœur ha dunque voluto istituire un parallelismo ritmato – anche per «chiarezza didattica» (P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 68) – che, a partire dalla sponda narrativa, illustri il gesto del costruire entro la griglia del prefigurare, del configurare e del rifigurare.

Filosofi, architetti e democrazia

Da un lato troviamo dunque il decostruzionismo di Lyotard o di Derrida (J.-F. Lyotard, 1988; J. Derrida, 1976; J. Derrida, 2008), che mette a sua volta sotto accusa la gerarchia metafisica tra parola e segno a favore della parola: pensiero logocentrico, che nega l’autonomia di significato dell’opera fin tanto che la parola non ne rende infine comprensibile il significato. Dall’altro lato abbiamo l’intelligenza narrativa di Ricœur, che si struttura intorno alla compenetrazione tra

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raccontare e costruire. Da una parte la messa sotto accusa dell’intento soggiacente al progetto, dall’altra la sua rilettura narrativa.

La differenza tra i due modi di pensare al rapporto tra identità e differenze – di pensare alla città – dentro la crisi della razionalità moderna si cala dunque nel fare architettonico, e nell’urbanistica. A un’architettura decostruzionista, che segue la falsariga dell’indebolimento e della decontestualizzazione, dell’emergenza dell’altro come irriducibilità a un ordine preconfezionato di senso – e quindi un’architettura dello «spiazzamento» e della «sorpresa» intenzionale, della decodificazione linguistica, della dispersione – si affianca e si contrappone un’architettura narrativa, dove prevalgono i concetti di testo e di contesto, di identità narrativa.

Filosofi e architetti, dunque, che si richiamano a proposito di come pensare l’alterità che avanza e, con essa, una diversa vicinanza. Anche nel caso di Ricœur, Architettura e narratività ha dato spunto nella versione della Triennale – quella definitiva è stata pubblicata su «Urbanisme» nel 1998 – a un seminario milanese del 1999 che metteva a tema proprio la questione di una «legittimazione» dell’architettura dopo «la perdita di credibilità del grande “récit” del movimento moderno, anche dovuta alla constatazione dei discutibili risultati dei suoi esiti rispetto alla costruzione e al rinnovamento della città»: con la preoccupazione quindi, secondo Pietro Derossi, di «partecipare al dibattito sulla democrazia» (P. Derossi, in AA.VV., 2000, pp. 7, 8; P. Derossi, 2000, pp. 25-26; cfr. L. Benevolo, 1987, p. 268). Ma non si tratta di una novità assoluta, perché anche un altro saggio di Ricœur, Civilizzazione universale e culture nazionali (Civilisation universelle et cultures nationales, 1961), compare già in bella vista nella Storia dell’architettura contemporanea di Frampton (K. Frampton, 1990, pp. 371-373, 386), in apertura del capitolo dedicato al conflitto tra universalismo e regionalismo architettonico: di nuovo, quindi, in chiave postrazionalistica e postmoderna.

Il diverso modo di essere postmoderni per così dire, quello della decostruzione e quello della contestualizzazione narrativa, esprime reazioni differenti alla frattura insanabile che per un verso ha messo in crisi le pretese di una razionalità monovalente e che, per un altro verso, si è trovata investita dall’annuncio dell’alterità dell’altro. La stessa XIX Esposizione della Triennale di Milano, che metteva a fuoco Identità e differenze, si presentava come «un contributo espositivo alla convivenza civile» (P. Berté, in AA.VV., 1996, vol. I, p. 7).

Il motivo della differenza, dell’alterità – motivo di un’umanità più umana – rimbalza quindi dalla sponda filosofica a quella architettonica, dal versante etico a quello urbanistico. Si tratta in definitiva di pensare (e ripensare) i luoghi dove l’altro si fa vicino, e dove il vicino si fa altro.

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Urbanesimo e socialità

Il rapporto tra identità e differenze attraversa il pensiero, e attraversa la città: alla tensione etica dell’urbanistica corrisponde una tensione urbanistica dell’etica.

L’intervento di Ricœur alla Triennale non rimane un episodio isolato: applicazione insospettata, trova diversi riscontri non solo in un’architettura narrativa, ma anche nella sua vasta produzione. Per quanto concerne l’ultimo Ricœur, l’applicazione inaspettata dell’ermeneutica narrativa all’architettura ha dato vita in effetti a un continuo ritorno: ritorna infatti sul nesso tra il tempo raccontato e lo spazio costruito, tra l’umano e l’abitare, ma con modifiche e ripensamenti, addirittura con delle inversioni di impostazione.

Presentato alla Triennale nel 1994, Architettura e narratività viene riproposto, come detto, in una nuova versione sulla rivista «Urbanisme» nel 1998: nel suo impianto il discorso si affida sempre al parallelismo tra narrazione e costruzione, con l’unica differenza di asciugare infine la parte preliminare dedicata alla narratività per dare più rilievo all’architettura.

L’inclusione del rapporto tra architettura e narratività all’interno di La memoria, la storia, l’oblio, invece, assume uno spessore più autonomo. Qui non si tratta più di arrivare allo spazio vissuto dell’abitare partendo dal tempo, ossia dalla sponda narrativa, perché «dalla fenomenologia dei “posti” che esseri in carne ed ossa occupano, abbandonano, perdono, ritrovano – passando attraverso l’intelligibilità propria dell’architettura – fino alla geografia, che descrive uno spazio abitato, il discorso dello spazio ha tracciato, esso stesso, un percorso secondo cui lo spazio vissuto è, volta a volta, abolito dallo spazio geometrico e ricostruito al livello ipergeometrico dell’oikoumene» (P. Ricœur, 2003, p. 215; cfr. p. 578, nota 120). Lo spazio traccia adesso, esso stesso, il suo discorso, dal corpo vissuto allo spazio costruito e da questo fino alla cartografia e alla geografia: fino a quel punto in cui, come scrive Diego Valeri per Venezia, «la storia degli uomini inscritta nelle forme dell’arte edificatoria, si trova qui a immediato contatto con gli elementi naturali più indocili: l’aria libera e l’acqua viva» (D. Valeri, 1974, p. 30).

Architettura e narratività non rimane del tutto isolato neppure guardando all’indietro, anche se è vero che non si raccolgono poi molti testi dedicati in modo esplicito al tema della città (cfr. T. Paquot, in AA.VV., 2007, pp. 167-183), trattandosi in sostanza di alcuni interventi risalenti agli anni Sessanta: Urbanizzazione e secolarizzazione (P. Ricœur, 1967, pp. 327-341) – un fitto dialogo con La città secolare di Harvey Cox (cfr. H. Cox, 1968) –, e il già ricordato Civilizzazione universale e culture nazionali (P. Ricœur, 1961, pp. 439-453), ricompreso nella seconda edizione di Storia e verità (1964), a cui si possono aggiungere le note del Progetto di una morale sociale (P. Ricœur, 1966, pp. 285-295).

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Tra le mani sembra dunque rimanere non molto a proposito della città, così da registrare, per Ricœur ma anche per Emmanuel Lévinas, il sentore di pensieri senz’altro importanti «a proposito dell’ospitalità e dell’alterità, che stanno alla città come il pesce all’acqua» e che pure «restano muti o quasi circa i processi di urbanizzazione che stravolgono l’esistenza di ognuno» (T. Paquot, in AA.VV., 2007, p. 168; cfr. T. Paquot, 2000, pp. 68-83).

Altri segnali invitano però a valutare qualche ulteriore elemento, che rianima un poco il tema della città. Trent’anni passano, non c’è dubbio, tra gli interventi degli anni Sessanta e Architettura e narratività con le sue appendici. E passa soprattutto una diversità di messa a fuoco: mentre l’ultimo saggio è di tono urbanistico e architettonico, concentrato com’è sull’atto di costruire, quelli degli anni Sessanta attraversano la città alla ricerca di una morale sociale, o indagando il fenomeno della secolarizzazione e dell’incipiente globalizzazione. Registri diversi, dunque, che si intersecano e che si articolano tra di loro: da un lato le questioni etiche e politiche sottese ai macro-fenomeni sociali, dall’altro lato la concretezza materica della città costruita. Al di là della distanza e degli accenti diversi, è possibile tuttavia intravedere alcuni elementi di continuità e di convergenza. Elementi, ancora, di una consapevolezza.

La vicinanza tra l’interesse più etico-politico e quello più architettonico-urbanistico della riflessione sulla città si lascia cogliere proprio attraverso la registrazione di una doppia spinta teorica: quando si parte dalla sponda etica e socio-politica, si allude comunque molto da vicino alla configurazione della città, mentre quando viene tematizzata la questione urbana ci si riavvicina all’etico. Dei precisi elementi di inclusione lessicale, inoltre, testimoniano le vicinanze e i rimbalzi.

Patologia urbana

La città postmoderna che sorge nella crisi delle certezze impone un ripensamento, anche perché pone di fronte a un singolare paradosso: in questa città, per un verso tutto cambia velocemente, mentre per un altro sembra che il vuoto delle certezze sia subito riempito dall’omogeneità della globalizzazione forzata degli stili di vita. Il cambiamento urbano è mutamento umano, lo stravolgimento della città è uno straziarsi della vita. La sofferenza urbana è patologia sociale.

L’allusione alla città sul versante etico in particolare non si consuma del tutto in un vago rimando. In Percorsi del riconoscimento (2003) Ricœur dedica un intero paragrafo – Le economie della grandezza – al rapporto tra la città e il pluralismo, nel contesto di un discorso sul mutuo riconoscimento implicato dal legame sociale: mediato da una sponda sociologica (P. Ricœur, 2005, pp. 231 e sgg.; cfr. L.

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Boltanski, L. Thévenot, 1991; e anche P. Ricœur, 1998b, pp. 101-102, 108 e sgg.), questo intervento conferma che la città continua a rappresentare un pungolo per il suo pensiero, documenta l’affacciarsi sui mondi culturali della città, e insiste sulla pluralità stessa dei suoi modi di essere. L’attenzione alla città viene inoltre confermata dalla ripresa degli interessi etici e politici dell’ultimo Ricœur, e dalla progressiva e più marcata apertura al tema della responsabilità (cfr. P. Ricœur, 2005; P. Ricœur, 1991a; M. Foessel, in AA.VV., 2007, pp. 37- 56; M. Piras, 2007; per la responsabilità, cfr. P. Ricœur, 1998b, pp. 31-56; P. Ricœur, 2004b, pp. 53-67).

In breve, la complessità della lettura della città viene mantenuta viva nel rimbalzo tra una sponda e l’altra. E questo permette di cogliere anche la continuità tra Architettura e narratività e i saggi degli anni Sessanta dedicati alla città.

A partire dall’impressione che l’umanità stia diventando sempre più un «corpo unico» planetario, Ricœur individua, quasi a cogliere le grandi spinte contemporanee alla dispersione della città, i caratteri principali di questa incipiente «civilizzazione universale» (P. Ricœur, 1961): la scienza che oltrepassa le frontiere; la tecnica come situazione irreversibile; l’omogeneità della razionalità politica e dell’economia; l’uniformità globale dello stile di vita improntato al consumo. Dinnanzi allo scontro in atto tra la civilizzazione universale e l’usura delle culture nazionali, Ricœur mette in guardia contro il rischio di un estremo impoverimento culturale e si appella al dialogo e all’incontro.

In Urbanizzazione e secolarizzazione (1967) Ricœur avvicina più direttamente il tema della città, grazie alla mediazione di Cox di cui condivide la diagnosi sulle trasformazioni in atto nella città contemporanea: la città tende a diventare un «fatto di comunicazione»; i rapporti personali diventano più anonimi e frammentati; la città tecnologica accelera la propria velocità in modo generalizzato; ci si apre collettivamente a un futuro inedito senza più rimpianti per il «villaggio» o la piccola città, autoripiegati su se stessi. In parte inquietato per la perdita di intelligibilità della città, Ricœur ne approfitta piuttosto per interrogarsi sulla condizione umana nell’epoca della secolarizzazione, sottolineando tra l’altro i motivi dell’itineranza e della responsabilità.

Nel saggio su il Progetto di una morale sociale nell’epoca della società industriale avanzata (P. Ricœur, 1966) infine, dove si respira in parte lo stesso clima della secolarizzazione, fa capolino anche il motivo della narratività, e alla città si rimanda come a ciò che ospita e sorregge il lavoro e i bisogni, la proprietà e la socializzazione, l’esistenza tecnologica, le battaglie ideologiche.

Tra questi testi degli anni Sessanta e Architettura e narratività bisogna soprattutto osservare una singolare inclusione di termini. Ritorna difatti l’identica insistenza sulla parola itineranza, che accompagna tanto la responsabilità per l’umano quanto quella per la città, sia in Urbanizzazione e secolarizzazione (cfr. P.

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Ricœur, 1967, pp. 335, 340) sia a conclusione di Architettura e narratività (P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 72; cfr. P. Ricœur, 1998a, p. 51), ribadita ancor più dall’ulteriore ripresa in La memoria, la storia, l’oblio (P. Ricœur, 2003, p. 211). Non è di certo l’unico richiamo: torna ad esempio anche il tema dei «bisogni», introdotto nel Progetto di una morale sociale (P. Ricœur, 1966, pp. 292-293). Sull’itineranza vi è però un’insistenza strategica: nella città degli uomini essa è al tempo stesso visita, narrazione, mobilità, erranza. È spazio che si fa tempo, tempo che si fa spazio. È corpo vissuto: condizione umana, condizione urbana.

Non sorprende perciò, e fa anzi riflettere, quanto dice Ricœur in Urbanizzazione e secolarizzazione a proposito della «patologia della città» nel contesto dei rapidi mutamenti attuali. Di fronte alla constatazione che non tutto nell’improvvisa accelerazione cittadina è positivo, si sottolinea il rapporto tra la patologia della città e la patologia sociale: da un lato «oggi si parla di un’“urbanistica” proprio perché questa patologia è avvertita come insopportabile: l’urbanistica è la risposta alla patologia urbana», dall’altro lato la patologia urbana è «l’espressione mostruosa della patologia della società globale: la città svolge una funzione di drenaggio rispetto a tutto il patologico diffuso» (P. Ricœur, 1967, p. 330). Nell’«immagine della città» si travasa una sofferenza urbana che è una sofferenza sociale: la città condensa in sé, e rende visibile, la patologia diffusa di una convivenza.

Da questo punto di vista diventa di particolare significato Architettura e narratività: la prima parola si concentra in modo inedito sull’atto di costruire, la seconda evoca il movimento complessivo della filosofia ermeneutica di Ricœur. La narratività trascina infatti con sé il linguaggio e la scrittura, il tempo e la memoria, l’identità personale e sociale: l’umanità stessa dell’umano. La città appare e si tematizza là dove si mette a fuoco l’umano sociale, così come all’umano sociale ci si riferisce all’interno del discorso sulla forma urbana della città, sull’atto di costruire. Tra le parole che descrivono la città costruita si frammischiano quelle della «vita», dei suoi «luoghi», della sua «memoria», della sua «quotidianità».

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2.

CORPO E TEMPO. I LUOGHI DI VITA

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Il termine etica vuol dire che con questo nome si pensa il soggiorno dell’uomo.

Martin Heidegger, Lettera sull’umanismo

La pietra e la parola: costruire e raccontare

Lyotard destabilizza la pretesa del progetto architettonico quale modo per far emergere la crisi di una razionalità ultimativa e totalizzante. Nell’ottica di giustificare lo specifico della configurazione architettonica, quale messa in forma del bisogno di abitare, Paul Ricœur interviene invece a più riprese sulla vicinanza tra il tempo del racconto e lo spazio del costruire, mutando e integrando il registro: al movimento che dal tempo conduce allo spazio affianca infine quello capovolto. Architettura e narratività segue il primo movimento. Sembra a prima vista che il costruire e il raccontare non si possano conciliare, perché un «abisso» separa la pietra della costruzione, lo spazio fisico, dalla leggerezza e dalla mobilità del tempo, ossia del racconto e della parola. Infatti, «il racconto fa parte della sfera del linguaggio, dei segni parlati e scritti, della composizione letteraria; l’architettura della sfera del materiale, delle forme visibili, del costruire tra terra e cielo. Allo stesso modo il racconto si sviluppa nel tempo, innalzato al rango di tempo raccontato; l’edificio si dispiega e si erige nello spazio, trasformato in spazio costruito» (P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 64).

Fosse così fino in fondo, come si spiega allora che un testo antico di fondazione della città (Uruk in Mesopotamia) metta la parola nel cuore del costruire? Nell’Epopea di Gilgameš, la città costruita, con i suoi muri e suoi giardini, abbraccia al proprio interno il boschetto sacro dove si custodisce, in un contenitore

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in rame, il tesoro, ossia lo scritto (N.K. Sandars, 1986, pp. 85, 144-145). Il muro e la parola. Il mattone e lo scritto. Anche della città sarà possibile parlare come di un «testo», anche il testo diventa una città. Il libro è edificato. La biblioteca è turrita (cfr. M. Butor, 1982).

Inconciliabili in apparenza, il costruire e il raccontare, lo spazio e il tempo, presentano invece ciascuno al proprio interno una duplicità di significati che li apre l’uno all’altro. C’è infatti lo spazio geometrico e lo spazio dei luoghi di vita; e c’è il tempo fisico della misura e il tempo vissuto dell’anima: non tutto dello spazio sta sul lato della geometria, e non tutto del tempo su quello del cronometro. Lo spazio vissuto dei luoghi di vita diventa tempo: è spazio temporalizzato, per cui anche le pietre hanno un tempo, anche l’architettura, anche la città costruita. Sull’altro versante, quello della parola e del tempo, si può dire che anche il racconto si spazializza nel suo distendersi narrativo: «Racconto e costruzione operano una stessa sorta di iscrizione, l’uno nella durata, l’altra nella durezza del materiale» (P. Ricœur, 2003, p. 211). E Luce Irigaray, in La via dell’amore, sembra quasi chiosare a distanza, con qualche riserva: «Per ancorare la sua durata» l’uomo «si ormeggia a ciò che è fatto ancora di materia» (L. Irigaray, 2008, p. 95).

Tra l’edificare e il raccontare non scorre soltanto una similitudine che tiene a distanza, ma una vera e propria compenetrazione, un «intrigo». Per lo spazio costruito, soprattutto, la sua qualifica di luogo di vita si sovrappone e si interpone alle sue «proprietà geometriche» (P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 64)*. Le parole del costruire e quelle del narrare si confondono allora; e si scambiano. Il tempo tende a costruirsi, a edificarsi: è il passaggio dalla parola quotidiana alla sua configurazione in un racconto. Lo spazio tende, per contrasto, a raccontarsi: nella città i luoghi del progetto architettonico sono anche luoghi della memoria, che non è solo tempo, ricordo dell’anima, ma anche spazio visibile. Nella compenetrazione tra l’edificare e il raccontare, né spazio né tempo saranno più puri: per entrambi, spazio e tempo saranno «misti». La memoria che riesce a prendere la consistenza della pietra è «la gloria dell’architettura». Nel fare architettonico si ritroverà infatti «la dialettica della memoria e del progetto».

Il rapporto che tanto il racconto quanto l’architettura intrattengono con la vita risulta al tempo stesso di radicamento e di elevazione: radicamento nel bisogno quotidiano ed esistenziale che fa dell’umano un essere che parla e che abita, elevazione per l’innalzamento che questo bisogno riceve attraverso la forma che gli viene data. Il passaggio dalla semplice parola alla letteratura e dal semplice abitare al costruire corrisponde così a un vero e proprio «salto di qualità» (P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 65).

L’elevazione è anche un distacco, la messa in ordine anche un discutere: narrazione e architettura si distaccano dall’«ingenuità» del quotidiano; mettono in ordine quel che nella vita si presenta come «confuso» dandogli intelligibilità e

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significato; discutono infine la separazione, la solitudine, l’immediatezza stessa degli atti della vita guadagnando un livello di storicità e di intertestualità, dove il parlare e il costruire vengono sottratti all’ultima tentazione di un loro uso strumentale per essere richiamati infine a una dimensione «ludica», celebrativa – alla possibilità di sperimentare sempre nuove forme, e di decostruire le forme già date tanto ai racconti quanto alle costruzioni.

Il corpo e il luogo: lo spazio vissuto

L’intreccio tra la spazialità del costruire e la temporalità del racconto viene proposto da Ricœur in entrambi i sensi di marcia. Diventa allora interessante registrare cosa succede quando si comincia dallo spazio, anziché dal tempo, come avviene in La memoria, la storia, l’oblio, dove si opera una sorta di inversione. Come se, dopo tanta insistenza sul racconto del tempo, avanzasse, in rivalsa, il racconto dello spazio: nella stessa opera Ricœur si sofferma inoltre su Pierre Nora e la sua invenzione dei «luoghi di memoria», con la coscienza precisa dell’«alleanza apparentemente contraddittoria di due termini, di cui l’uno allontana e l’altro avvicina» (P. Ricœur, 2003, pp. 586-587).

Il rovesciamento dal tempo allo spazio come punto di partenza di un discorso sulla dimora dell’umano può darsi non abbia connessioni dirette con le riletture critiche di Martin Heidegger, per via del primato assegnato al tempo nell’analisi dell’esistenza. Pur tuttavia, l’esigenza avvertita infine da Ricœur di non far dipendere del tutto il discorso sullo spazio da quello sul tempo raccontato, si allinea proprio con queste riletture tese a rivalutare l’originalità umana dello spazio, e di cui in Heidegger stesso vi sarebbero già i segnali: con Didier Franck (citato da Ricœur in Sé come un altro), per il quale Essere e tempo di Heidegger «naufraga sul problema della carne», ossia sull’umanità già umana dello spazio vissuto, del corpo proprio (cfr. D. Franck, 2006, p. 183; l’originale è del 1988); o con Peter Sloterdijk, il quale fa presente che il legame principale nell’evoluzione della specie umana non è quello tra essere e tempo, ma piuttosto quello tra essere e spazio (cfr. P. Sloterdijk, 1999). Nel rovesciamento della prospettiva e nel tentativo di far sgorgare il discorso sullo spazio dallo spazio stesso, dalla sua umanità, è quindi in gioco molto di più che un cambio di impostazione: viene a galla semmai il problema stesso del modo, umano, di essere.

Adesso, «nel nostro punto di partenza, noi abbiamo la spazialità corporea e ambientale inerente al richiamo del ricordo»: «I ricordi, quello di aver abitato in quella casa di quella città, oppure quello di aver viaggiato in quella parte del mondo, sono particolarmente eloquenti e preziosi; essi tessono, a un tempo, una memoria interna e una memoria condivisa tra i più vicini: in questi ricordi-tipo lo spazio corporeo è immediatamente collegato con lo spazio dell’ambiente,

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frammento di terra abitabile, con i suoi percorsi più o meno praticabili, i suoi ostacoli diversamente superabili». Partire con lo spazio impone di affrontare il lavoro di una «fenomenologia del “posto” o del “luogo”», suggerita da Edward S. Casey (P. Ricœur, 2003, p. 208; cfr. E.S. Casey, 1993; M. Vitta, 2008, pp. 112 e sgg.): mentre ripropone l’intimo rapporto tra lo spazio vissuto e il tempo della memoria, conduce al luogo preciso e insostituibile dove questo può dirsi, rappresentato dal mio corpo.

Il corpo è il mio spazio, il mio posto nel mondo, a partire dal quale tanto l’atto di situarsi quanto quello di spostarsi prendono senso. Un posto che non è però assicurato in anticipo, così che alla sua ricerca incessante si accompagna il terrore di non trovarlo mai. E proprio su «queste alternanze di quiete e movimento si innesta l’atto di abitare, che ha le sue polarità: risiedere e spostarsi, ripararsi sotto un tetto, entrare da una porta e uscire fuori. Pensiamo qui all’esplorazione della casa, dalla cantina al granaio, in La poetica dello spazio di Gaston Bachelard» (P. Ricœur, 2003, p. 209; cfr. G. Bachelard, 1999).

L’essere e i luoghi

In riferimento al corpo proprio, l’itineranza diventa condizione umana. Partire direttamente dallo spazio offre il vantaggio di distogliersi per un momento dal «gioco didattico» dei parallelismi per radicare tanto l’architettura quanto l’urbanistica, la casa e la città, nell’esperienza quotidiana: che solo qui, tuttavia, prende il nome preciso di un’esperienza del corpo proprio. L’abitare si radica nel corpo vissuto o proprio: modo peculiare e insostituibile di essere al mondo, che spingerebbe verso una «ontologia del “luogo”» quale continuazione di «questa odissea dello spazio, di volta in volta vissuto, costruito, percorso, abitato» (P. Ricœur, 2003, p. 215; Ricœur rinvia a P. Amphoux, 1996, e ad A. Berque, P. Nys, 1997). Il discorso sul luogo dell’uomo inizia lì dove è il suo corpo.

Il «linguaggio ordinario», allora, che «conosce espressioni quali ubicazione e spostamento», rinvia più precisamente a «esperienze vive del corpo proprio, che postulano di essere dette all’interno di un discorso prima che nello spazio euclideo, cartesiano, newtoniano, come Merleau-Ponty insiste nella Fenomenologia della percezione», e questo per un motivo invincibile: «Il corpo, questo qui assoluto, è il punto di riferimento sia del là, vicino o lontano, dell’incluso o dell’escluso, dell’alto o del basso, della destra o della sinistra, dell’avanti e del dietro, sia altrettanto di dimensioni asimmetriche che articolano una tipologia corporea» (P. Ricœur, 2003, p. 209). Il corpo non è solo nello spazio e nel tempo: esso abita spazio, e abita tempo. (cfr. M. Merleau-Ponty, 1972, La spazialità del corpo proprio e la motilità, pp. 151-203). Spazio e tempo del corpo decidono per me dello spazio e del tempo del mondo.

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Prima ancora che con lo spazio geometrico, l’esperienza quotidiana del corpo proprio definisce un rapporto con la parola perché è ciò che permette l’apertura al mondo. Riferendosi a Il visibile e l’invisibile di Merleau-Ponty, Lyotard affida al corpo una doppia possibilità di linguaggio: sia per il corpo che «si unisce al mondo, che fa parte di esso, che lo fa e ne è fatto», sia nel caso contrario del «corpo che si ritira dal mondo, nella notte di ciò che ha perduto per nascere ad esso». In entrambi i casi si tratta «di un idioma, di un modo assolutamente singolare, intraducibile, di decifrare ciò che accade. Il punto di vista, il punto d’ascolto, il punto di tatto, il punto di aroma attraverso il quale i sensibili mi attaccano non è trasferibile nello spazio-tempo». Intraducibile dunque in termini spaziali, l’esperienza del corpo proprio, «questa singolarità della risonanza, si chiama “esistenza”. Nel linguaggio essa è sospesa ai deittici io, questo, ora, là, ecc. e si segnala attraverso di essi» (J.-F. Lyotard, 1987, p. 105).

Il corpo proprio in quanto spazio vissuto appartiene già all’universo della parola e del tempo, è già espressivo. La sua espressività discende da una centratura assoluta rispetto a cui tutto il resto si rapporta; e tuttavia centratura in perenne bilico, distesa tra sosta e spostamento, tra alto e basso, tra dentro e fuori. Tra centro e decentramento. L’atto di costruire si rapporta al centro mobile dell’esistenza – centro di un mondo –, allo spazio vissuto del corpo proprio: già parola, già espressione, già tempo. Già dimora e già oltrepassamento.

La casa e la città: «naturale» e «artificiale»

Nelle due versioni di Architettura e narratività, Ricœur articola invece l’altro movimento, quello che scopre la temporalità dello spazio costruito a partire dalla configurazione del racconto: movimento che è, al tempo stesso, di radicamento e di contestazione rispetto al quotidiano. Si tratta infatti di una messa in forma, di un dare intelligibilità.

Per Lyotard non c’è una risposta definitiva all’angoscia umana dell’abitare, così come Derrida sente l’esigenza di pensare in modo più libero l’architettura senza sottometterla all’abitare. Derrida è consapevole che l’architettura è «sempre stata interpretata come abitazione, o come l’elemento dell’abitazione – abitazione per gli esseri umani o abitazione per le divinità –, il luogo dove le divinità e le persone sono presenti o si raccolgono o vivono, ecc.». E riconosce senza dubbio che «questa è un’interpretazione molto profonda e potente», ma ha lo svantaggio di sottomettere il costruire «a un valore che può essere messo in discussione». Derrida denuncia che una simile impostazione si può criticare e che essa proviene da Heidegger, dove «tali valori sono connessi con la questione del costruire, con il tema diciamo, del mantenere, conservare, proteggere, ecc.». In Heidegger prevale la conservazione mentre in Derrida la domanda: a cosa equivale «un’architettura

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non semplicemente subordinata a questi valori di abitazione, di abitare, e di proteggere la presenza delle divinità e degli esseri umani. Sarebbe possibile?» (J. Derrida, 2008, p. 143).

Per Ricœur, al contrario, il costruire risponde all’abitare in quanto l’uomo non abita perché costruisce, ma costruisce perché abita: così Heidegger in Costruire abitare pensare a cui Ricœur allude (P. Ricœur, 1998a, p. 45; cfr. M. Heidegger, 1976-80, pp. 96-108, 125-138; cfr. T. Paquot, 2005; T. Paquot, M. Lussault, C. Younès, 2007). In ogni caso, tra il costruire e l’abitare si crea una tensione della quale bisognerà verificare la tenuta ultima di ciò a cui aspira.

Il costruire traffica dunque con il mondo della vita attraverso operazioni artificiali. E l’esito sarà una trasformazione, o meglio un’estraneazione dello spazio rispetto a se stesso, dal momento che il costruire trasforma lo spazio fisico in luogo dell’abitare. Nella città degli uomini il «vuoto» non sarà più quello di Aristotele – spazio vuoto –, che serve per essere occupato, per il fissarsi di qualcosa. Nella città degli uomini il vuoto sarà anche «l’intervallo da percorrere», snodo tra il «riparo» (la protezione) e la «dislocazione» (per il concetto di dislocazione, cfr. B. Goetz, 2000).

Per l’umano, la casa e la città, il bisogno di abitare e quello di costruire sono contestuali. La costruzione della città diversifica socialmente ciò che tende a differenziarsi già all’interno della dimora, ossia nel «costruire-abitare primordiali». Il risultato è formidabile perché, dal punto di vista della corrispondenza ancestrale tra la casa e la città, tra la vita e l’artificio, tra l’abitare e il costruire, anche su questo lato urbano «diventa introvabile uno stato “naturale” dell’uomo» (P. Ricœur, 1998a, pp. 45-46; cfr. P. Ricœur 1996, vol. I, p. 66; cfr. P. Sloterdijk, 1999). L’umano è cittadino.

Il rapporto tra la città e l’artificio era posto in rilievo fin da Urbanizzazione e secolarizzazione dove, dopo aver precisato che la «rappresentazione collettiva che l’uomo elabora è parte integrante del “fenomeno” città tanto quanto la sua realtà», e inseguendo l’«immagine della città contemporanea» e secolare, Ricœur arriva a dire che questa «città è l’artificio assoluto»: si rende così esplicito il rapporto tra la città e il prometeismo, tra la tecnica e la condizione umana (P. Ricœur, 1966, pp. 293-294).

Ogni costruire rimanda a un abitare, e ogni abitare domanda un costruire. Non c’è uno stato naturale dell’uomo che non sia già aperto all’artificiale del costruire. E non c’è neppure uno stato puramente artificiale dell’umano, dal momento che ogni costruire si innesta nel mondo della vita: «A questo proposito è inutile domandarsi se l’abitare preceda il costruire, perché si può dire innanzitutto che vi è un costruire correlato al bisogno vitale di abitare. Occorre quindi partire dall’insieme abitare-costruire, salvo dare la priorità al costruire sul piano della “configurazione” e, forse, di nuovo all’abitare al momento della “rifigurazione”,

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dato che il progetto architettonico ridisegna proprio l’abitare» (P. Ricœur, 1998, p. 45; cfr. P. Ricœur, 1996, p. 66).

Le operazioni dell’artificio architettonico sono per un verso modi di aderire al livello vitale dell’esistenza: così è per la delimitazione del dentro e del fuori, per l’annuncio dei limiti e insieme del loro sfondamento; per l’aprire e per il chiudere; per il ritmo che, articolando tra loro nei rispettivi ambienti il giorno e la notte, si dà tanto alla vita quanto alla luce nelle scansioni di intensità e diffusione. Per un altro verso tutte le operazioni architettoniche sono «atti di un vivente già vivo»: il dimorare, l’arrestarsi, il fissarsi – comune ad ogni uomo, anche nomade –; il muoversi e il circolare, il fluidificare. Si «assiste così alla nascita simultanea del bisogno di architettura e del bisogno di urbanistica, essendo la casa e la città contemporanee nel costruire-abitare primordiale» (P. Ricœur, 1998a, p. 45). L’edificare e il mettere in rapporto si trovano già iscritti nell’abitare dell’uomo su questa Terra.

L’eterogeneo e l’intertestuale

L’artificialità non assoluta del gesto architettonico trova inoltre corrispondenza nella sua intima complessità: la messa in forma che avviene sia nel racconto sia nella costruzione è la compenetrazione di «atti poetici» che si aprono l’uno all’altro. L’atto di configurazione che attraversa entrambi «possiede una triplice membratura: da una parte la messa-in-intrigo, chiamata “sintesi dell’eterogeneo”; dall’altra parte l’intelligibilità, ossia il tentativo di rischiarare l’inestricabile; e infine il confronto di diversi racconti posti l’uno accanto all’altro, per contrasto o in sequenza che sia, vale a dire l’intertestualità» (P. Ricœur, 1987, p. 255; cfr. P. Ricœur, 2004a, pp. 17 e sgg.). Costruire e raccontare si corrispondono anche dal punto di vista del ritmo interno del loro differente gesto: messa-in-intrigo; dare intelligibilità; intertestualità.

La «sintesi spaziale dell’eterogeneo», caratteristica dell’architettura, è l’equivalente della messa-in-intrigo tipica del racconto (cfr. P. Ricœur, 1987, pp. 19 e sgg.): anche il costruire compone tra loro delle «variabili relativamente indipendenti» allo scopo di creare oggetti-edifici dotati di un’«unità sufficiente», perché «un’opera architettonica è un messaggio polifonico che si presta a una lettura che è a un tempo inglobante e analitica».

L’intelligibilità dell’atto architettonico si sforza anch’essa di districare l’inestricabile, e si rispecchia nell’incorporazione del tempo nello spazio: con il gesto architettonico la pietra della costruzione diventa durata, si fa tempo, progetto e memoria insieme. Anche il costruito parla, anche il costruito racconta: l’architettura è linguaggio. Durezza e durata, coesione e coerenza: l’arte narrativa e quella architettonica rappresentano entrambe, secondo la loro polarità specifica,

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una «vittoria provvisoria sull’effimero». Il progettare dell’architettura è un fare memoria, perché «lo spazio costruito è tempo condensato», cosa che diventa più chiara «se si considera il lavoro simultaneo di “configurazione” dell’atto del costruire e dell’atto dell’abitare: le funzioni abitative sono “inventate” – nei due significati del termine, ‘trovare’ e ‘creare’ – in contemporanea con le operazioni costruttive iscritte nella plastica dello spazio architettonico. Il reciproco rinvio delle funzioni abitative e di quelle costruttive consiste in un movimento o in una catena di movimenti dell’intelligenza architettonica» (P. Ricœur, 1998a, p. 48; cfr. P. Ricœur, 1996, vol. I, pp. 68-69). Ogni edificio è la memoria vivente del suo stesso costruirsi; il costruire rimanda inoltre di continuo all’abitare: crea quello che l’abitare in qualche modo ha già trovato.

Da ultimo, l’intertestualità della letteratura universale si riflette nella «storicità del costruire», da intendersi come la «storicità dell’atto stesso di iscrivere un nuovo edificio in uno spazio già costruito che coincide largamente con il fenomeno della città, che risalta da un atto “configurante” relativamente distinto secondo il differenziarsi di architettura e urbanistica» (P. Ricœur, 1998a, p. 48; cfr. P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 69). Come ogni nuovo racconto si inserisce nel fiume della letteratura, infatti, anche ogni edificio sorge a sua volta nel contesto di edifici già costruiti. Per questa via, il carattere storico e intertestuale del costruire architettonico entra in dialogo con l’urbanistica. Anche la città mette in intrigo, anch’essa cerca di rendere intelligibili le azioni più caotiche della vita spontanea, anche la città intreccia racconti dove il progetto razionale dello spazio costruito si fa tempo e memoria. Anche la città «spesso appartiene a questa natura di una grande intertestualità, che può diventare talvolta grido di opposizione» (P. Ricœur, 1998a, p. 47).

La città, proprio come il racconto, è un fenomeno intertestuale.* Nella XIX Esposizione della Triennale di Milano l’avvicinarsi tra loro della

pietra e della parola veniva posto in atto nella mostra, dove un narratore affiancava un architetto sul medesimo progetto architettonico che si trovava così detto due volte: per la mostra cfr. AA.VV., 1996, vol. I, pp. 102-133 (P. Derossi, p. 13; E. Calvi, pp. 92-99).

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3.

ARCHITETTURA E VULNERABILITÀ

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La città si dà a vedere e a leggere, a un tempo. PAUL RICŒUR, La memoria, la storia, l’oblio

Vulnerabilità e rovina. Storia e minaccia

Fare sintesi, mettere in forma, rendere intelligibile, contestualizzare e intertestualizzare: sono le opere della configurazione architettonica dell’abitare dell’umano. Tuttavia, quanto più avanza la complessità della configurazione tanto più si avvertono grandezze e pericoli di questo atto, genialità e baratri incombenti.

Denunciando l’assenza di una risposta definitiva all’angoscia dell’abitare, Lyotard invita a verificare l’intenzione del gesto architettonico, indebolendolo nella sua pretesa. Pur difendendolo quale risposta dell’intelligenza al bisogno umano di abitare, anche in Ricœur la vittoria sull’effimero resta provvisoria. La dialettica tra innovazione e tradizione, e quella tra distruzione e ricostruzione, rendono esplicita questa provvisorietà.

La configurazione architettonica dell’abitare si distende sempre tra una tradizione e un’innovazione del costruire perché, sebbene creativo, l’atto di costruire non è mai isolato: è ogni volta un nuovo atto configurante all’interno di un contesto urbano già costruito, che porta con sé la traccia di tutte le altre storie del costruire, e di tutte le storie di vita iscritte. Difatti, «come tutti gli scrittori scrivono “dopo”, “contro” o “secondo”, tutti gli architetti si misurano con una tradizione consolidata»; e anche:

La lotta contro l’effimero acquista così una nuova dimensione: non più contenuta nel singolo edificio, ma nel rapporto degli edifici tra di loro. Infatti occorre parlare anche di distruggere e di ricostruire. Non si è distrutto solo per odio dei simboli di una cultura, ma anche per negligenza, per disprezzo, per misconoscimento, per sostituire qualcosa che non piaceva più con ciò che suggerisce o impone il nuovo gusto. Ma al tempo stesso si è anche pietosamente ristrutturato, conservato e ricostruito, a volte in modo identico, come nell’Europa dell’Est dopo le grandi distruzioni delle guerre del XX

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secolo – penso a Dresda. L’effimero non si trova soltanto dalla parte della natura, a cui l’arte sovrappone la sua durezza e la sua durata, ma anche su quella della violenza della storia, e minaccia dall’interno il progetto architettonico considerato nella sua dimensione «storica» (P. Ricœur, 1998a, p. 48; cfr. P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 69).

Il costruire come risposta all’abitare è di per sé una lotta contro l’effimero: un proteggere rispondendo al bisogno dell’abitare. La storicità del costruire, l’intertesto cittadino, sospinge però verso una nuova dimensione di questa lotta. La costruzione della città non è mai soltanto un gesto singolo, un costruire per se stessi. È, piuttosto, un costruire insieme. Costruire insieme sfonda ogni singolo progetto verso altri progetti, che sono al tempo stesso diversi e contestuali, differenti e comuni. Fa anche incontrare con una nuova dimensione dell’effimero: non più soltanto la vita minacciata che chiede riparo, bensì la violenza stessa della storia. Mentre il costruire dona durezza alla durata, spazio al tempo, non mette al riparo dalla violenza della storia. Non solo da quella violenza che distrugge ciò che si è costruito – pensiero che va in questo caso alle devastazioni belliche del Novecento, al tema della «rovina» architettonica in qualche modo parallela alla distruzione degli archivi della storia, della sua stessa memoria (cfr. P. Ricœur, 2003, pp. 234 e sgg.; cfr. D. Hoffmann-Axthelm, in AA.VV., 1996, vol. I, pp. 56-60). Bisogna spingersi a dire che la violenza penetra lo stesso gesto architettonico fattosi storia: nella storicità del costruire non ci sarà solo un’architettura minacciata, ma pure un’architettura che minaccia.

Attraverso il tema della vulnerabilità, l’architettura e l’urbanistica restituiscono anch’esse il senso della fragilità dell’umano e della responsabilità nei suoi confronti. Pensieri che riguardano la condizione umana come tale, da sempre aperta alla propria fragilità, o, con Jonas, la sopravvivenza stessa dell’uomo sulla Terra impegnato nell’avventura tecnologica, e dove pure ricorrono le stesse dimensioni che strutturano la città, il tempo e lo spazio, perché «la responsabilità in età tecnologica va così lontano quanto le nostre possibilità nello spazio e nel tempo e nelle profondità della vita» (P. Ricœur, 1998b).

Ma la vulnerabilità non coinvolge soltanto la condizione umana e la sopravvivenza della specie umana: «Si tratta anche della città. La città è fondamentalmente in pericolo. Come è stato sottolineato da Hannah Arendt, la sua sopravvivenza dipende da noi» (P. Ricœur, 1994b, p. 11). La città è in pericolo, la sua sopravvivenza dipende da noi. Un solo flash, un’intuizione, in cui la città viene risucchiata nel grande problema della vulnerabilità dell’umano e della responsabilità precisa che ne deriva. Flash e intuizione però puntuali, che fanno affacciare sul discorso della fragilità dell’umano anche questo suo essere né del tutto naturale né del tutto artificiale – questo suo essere città. Architettura e

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urbanistica non sono estranee né al pericolo né alla sopravvivenza della città: alla sua fragilità, alla sua responsabilità.

Innovazione, perciò, tradizione, costruzione; ma anche distruzione.

Architettura e ideologia

La storicità del costruire provoca un duplice effetto sull’architettura, e solleva pure qualche interrogativo sull’equivalenza semplice tra il gesto di configurazione e il dare intelligibilità. Per un verso la consegna a un nuovo tipo di vulnerabilità, diverso da quello condiviso con tutte le cose del mondo, dalla finitudine dell’essere: la città è precaria in un senso diverso, quello della distruzione e dell’autodistruzione. Per un altro verso la riporta alla propria storicità, vale a dire ai mutamenti di stile che costituiscono il livello esplicito della teoria architettonica.

La storia entra nell’architettura anche nel gioco «particolarmente drammatico» delle contrapposizioni e delle sovrapposizioni degli stili: corrisponde al momento ludico dell’intertestualità narrativa, dove avviene un lavoro di messa a distanza e di liberazione «grazie al gioco tra i diversi livelli temporali derivati dalla riflessività dell’atto configurante stesso» (P. Ricœur, 1987, p. 104; cfr. cap. III, I giochi con il tempo, pp. 103- 165). Di questo gioco si ripropongono però anche i limiti, dal momento che «l’esaltazione illimitata della dimensione ludica dell’arte di raccontare rischia infatti di trasformare la celebrazione del linguaggio nella sua

arrogante solitudine, in un passatempo futile» (P. Ricœur, 1996, vol. I, cap. 68). In questo spazio che si fa dramma, in questo tempo che lacera lo spazio, il costruire entra in lotta con se stesso. L’architettura si fa al tempo stesso dialogo e conflitto.

Il carattere particolarmente drammatico del confronto degli stili deriva dal fatto che nelle teorie architettoniche si schierano due rapporti dell’atto di costruire: con se stesso e le proprie pre-comprensioni, e con l’abitare, i suoi bisogni, e le sue aspettative. Conflitto di stili, perciò, ma altresì conflitto tra le diverse interpretazioni che si danno dei bisogni vitali dell’abitare.

Circa il rapporto con l’interpretazione del bisogno, soprattutto, le scuole si distinguono e le dottrine – e le pratiche – entrano in competizione, quasi a rimarcare dall’interno dell’architettura, nella discutibilità stessa dell’atto configurante, la provvisorietà della vittoria sull’effimero. Formalismo e funzionalismo architettonico sembrano dividersi proprio intorno all’interpretazione dell’atto del costruire quale risposta all’atto dell’abitare, da cui risulta più svincolato nel primo caso e più vincolato nel secondo. Ma in entrambi i casi il pericolo dell’ideologia, per Ricœur, bussa alla porta.

I bisogni. Formalismo e funzionalismo

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Per l’architettura il formalismo concettuale è l’equivalente dello strutturalismo linguistico: le «preoccupazioni ideologiche» di chi costruisce prevalgono, e anche prevaricano, le «attese e i bisogni dell’atto dell’abitare». Ricœur rivolge al formalismo architettonico la stessa accusa di autoreferenzialità già rivolta a suo tempo allo strutturalismo linguistico, ossia di concepire il proprio atto a partire dalla propria coerenza interna: dalla visione ideale, dai «valori di civilizzazione», a cui aderisce in prospettiva, e quindi in «funzione del ruolo», assegnato alla propria arte, «nella storia della cultura». E solo qui si fanno dei nomi, che vengono ripetuti identici nelle due varianti di Architettura e narratività: il Bauhaus, Mies van der Rohe, Le Corbusier e i loro seguaci (P. Ricœur, 1998a, p. 49; cfr. P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 70; cfr. P. Derossi, in AA.VV., 1996, vol. I, p. 14; P. Derossi, 2000, pp. 27 e sgg.).

Nel testo presentato alla Triennale, in particolare, si precisa che secondo il formalismo architettonico «le preoccupazioni formali che prevalgono in un certo stile o in una certa scuola devono essere accostate molto più agli orientamenti propri delle altre arti, e più in generale alle visioni del mondo caratteristiche dell’epoca considerata, che non al valore delle attività che gli edifici sono destinati a ospitare»: prevalgono, cioè, «le preoccupazioni ideologiche soggiacenti» all’atto di costruire (P. Ricœur, 1996, vol. I, p.70; cfr. P. Ricœur, 1998a, p. 49).

Il funzionalismo architettonico si contrappone al «formalismo concettuale che trova il proprio limite nelle rappresentazioni che i teorici si fanno dei bisogni delle popolazioni». Nel prendere sul serio i bisogni dell’abitare, l’epoca contemporanea registra un progresso notevole, essendo passati dall’architettura al servizio della «gloria», che prende in considerazione per lo più soltanto le esigenze di committenti privilegiati e benestanti, all’architettura della «dignità» che l’abitare dovrebbe avere per ogni uomo di qualsiasi condizione sociale: si tratta dell’istanza democratica che ha finalmente raggiunto anche il fare architettonico e la costruzione della città.

Non per questo il rischio di ideologia risulta meno grave nel funzionalismo che nel formalismo, soprattutto perché i bisogni dell’abitare, pur invocati, possono diventare ostaggio delle «rappresentazioni che se ne fanno i “competenti”» così che la «speculazione» e la «destinazione dell’architettura» vanno in parallelo. Le «grandi torri» sarebbero il segno più evidente di una simile sovrapposizione tra l’attenzione ai bisogni delle persone e la rappresentazione distorta che se ne può fare l’architettura. Magari per giustificare il proprio costruire comunque. In quest’ottica, l’attenzione ai bisogni è usata alla stessa stregua di un puro pretesto, non di rado speculativo, che colloca presto il funzionalismo architettonico a un livello non meno ideologico rispetto al formalismo. Non meno strumentale. Non meno antidemocratico pur in nome della democrazia dei bisogni.

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Il funzionalismo architettonico reagisce allo sradicamento del formalismo, ma rischia a sua volta di radicarsi in un sostituto mentale, e talora interessato, dell’abitare. All’ideologia dello sradicamento si accompagna così quella del radicamento presunto, e pretestuoso, del costruire nell’abitare: presagio di un «ritorno all’architettura pura, svincolata da ogni sociologia e da ogni psicologia sociale, vale a dire da ogni ideologia» (P. Ricœur, 1998a, p. 49; cfr. P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 70). Per inciso, vale la pena ricordare che proprio la necessità di un’«indagine sui bisogni umani» costituisce un punto qualificante del Progetto di una morale sociale, dove sono già collocati nel giusto rilievo non solo i mutamenti, ma altresì i possibili scarti tra bisogni umani e costruzione sociale degli stessi (P. Ricœur, 1966, pp. 292-293).

Formalismo e funzionalismo sono modi con cui l’atto di costruire si rapporta all’abitare dell’umano: il primo riscrivendolo idealmente, il secondo fraintendendolo materialmente. La dialettica tipica del sociale, la tensione intima della città contesa tra ideologia e utopia (P. Ricœur, 1994a), la questione stessa della democrazia attraversano anche l’architettura. Ad ogni modo, il conflitto degli stili rende assai meno lineare la risposta del costruire all’abitare.

Progetto e vivibilità. La rifigurazione

Il rischio di ideologia introduce un’incertezza nell’atto configurante, che apre alla necessità di confrontarsi con il punto da cui si era partiti, con la vita, dove il costruire e l’abitare si affiancano. Nel movimento ermeneutico di Ricœur la prefigurazione indica l’abitare ingenuo, il mondo della vita, mentre la configurazione rappresenta la messa in forma architettonica dell’abitare, la costruzione stessa della città. La «rifigurazione» è invece il momento in cui dal costruire già costruito, dalla città già edificata, si torna all’abitare: «La possibilità di leggere e rileggere i nostri luoghi di vita a partire dal nostro modo di abitare». Si tratta adesso di rivalutare quell’atto di abitare che nella prefigurazione è «contestuale» e nella configurazione è «posteriore» al costruire: «Nella “prefigurazione” l’abitare e il costruire sono stati praticamente la stessa cosa, senza poter dire quale preceda l’altro. Nella “configurazione” il costruire ha avuto la meglio sotto forma di progetto architettonico, al quale si è potuto rimproverare un’inclinazione a misconoscere i bisogni degli abitanti dei luoghi, o a proiettare questi bisogni oltre la realtà. È ora di parlare dell’abitare come risposta o come reazione al costruire, sul modello dell’atto antagonista della lettura» (P. Ricœur, 1998a, pp. 50-51; cfr. P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 71) dove il lettore interagisce e reagisce con il racconto scritto.

Nel momento della rifigurazione riemerge con più forza il soggetto che abita. Ancora nel testo della Triennale, Ricœur intesse uno scambio suggestivo tra il

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«mondo del testo» e il «testo della città», perché così come il «lettore non recepisce soltanto il senso di una storia raccontata, ma anche il mondo proiettato dal testo», confrontato con il suo proprio «mondo vissuto», allo stesso modo l’abitante della città legge e confronta il testo ch’essa è diventata grazie all’atto di costruire (P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 71).

Riportare il costruire all’abitare si snoda tra una risposta, una replica, e un lavoro della memoria con cui il progetto che mette in forma l’abitare mostra altri aspetti della sua provvisorietà.

La risposta e la replica: di fronte al costruire già costruito, l’abitare si propone al tempo stesso come risposta e come replica che si distendono, con tutte le sfumature immaginabili, tra una «ricezione passiva, subìta, indifferente, fino alla ricezione ostile e corrucciata» (P. Ricœur, 1998a, p. 51). Se il costruire risponde all’abitare, l’abitare risponde a sua volta al costruire perché «ogni pianificatore dovrebbe essere consapevole che un abisso separa le regole della razionalità di un progetto – cosa che vale d’altronde per ogni politica – dalle regole di ricezione di un pubblico».

La rifigurazione del costruire attraverso l’abitare è il momento degli scarti: scarto tra la razionalità di un progetto e la sua vivibilità; e scarto tra i bisogni a cui s’appella il costruire e le attese congiunte a quei bisogni; scarto infine tra le politiche, urbanistiche e non, e la loro sopportabilità. Il rapporto tra architettura e democrazia è molto stretto anche dal punto di vista della risposta e della replica da parte di colui che abita a ciò che si è costruito. A maggior ragione quando emergono gli scarti che non bisogna occultare e passare sotto silenzio. La contestazione deve essere possibile. Il disagio deve avere voce. Non va nascosto né deviato.

Lo scarto tra il costruire e l’abitare fa di quest’ultimo anche una replica: non un abitare qualsiasi, ma quello «attento e attivo» che implica una rilettura puntuale dell’ambiente urbano, la consapevolezza continua delle giustapposizioni di stile, e la coscienza che all’edificato sono sempre incrostate storie di vita. Bisogna fare in modo che queste tracce di vita avviluppate al costruito «non siano solo dei resti, bensì delle testimonianze riattualizzate del passato». È l’opera della memoria, opera dello spazio che si è fatto tempo: il rendere presente l’assente che è stato, cosa che può fare solo «la pietra che dura», «gloria stessa dell’architettura» (P. Ricœur, 1998a, p. 44).

Città come testo: la traccia e la memoria

Attraverso la permeabilità reciproca del tempo e dello spazio – attraverso il tempo misto e lo spazio misto – Ricœur recupera l’idea di «luogo della memoria», diventata un po’ «banale». La compenetrazione del tempo e dello spazio pungola a

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un «lavoro della memoria» che, con Sigmund Freud, si deve contrapporre alla ripetizione ossessiva.

Il lavoro della memoria non è la compulsione ripetitiva del passato, la sua riproposizione nevrotica: in questa, il passato viene annunciato e ricacciato all’indietro nello stesso tempo perché, come ripetizione ossessiva, non ammette eccezioni alla sua lettura, né nel senso della pluralità né in quello dell’intertestualità. La ripetizione nevrotica ribadisce compulsivamente l’identico, ossia il già noto dallo stesso punto di vista. Su questo passato compulsivo non sarà possibile nessun lavoro della memoria perché qualsiasi «novità» gli risulta odiosa. Anziché essere nevroticamente ripetitivo, il lavoro della memoria è ricostruttivo. Nel lavoro ricostruttivo della memoria vanno insieme la cura per il passato e l’accoglienza del nuovo: cura e riorganizzazione del passato per fare spazio al nuovo, curiosità nei confronti del nuovo per valorizzare il passato.

La memoria non lavora nella ripetizione, ma nella ripresa e nella riproposizione. Lavora decontestualizzando per ricontestualizzare, o contestualizzando per decontestualizzare: si tratta allora di «de-familiarizzare ciò che è familiare, e di familiarizzare il non-familiare». La lettura della città costruita si trova così immersa in una pluralità di interpretazioni che vanno lasciate vivere nella loro pluralità. Per questo il lavoro della memoria deve infine accompagnarsi a quello «del cordoglio della comprensione totale e ammettere che nelle nostre città vi è dell’inestricabile. Alternano la gloria e l’umiliazione, la vita e la morte, gli eventi fondatori più violenti e la dolcezza del vivere» (P. Ricœur, 1998a, p. 51).

Città, pluralismo, bene comune

Il cordoglio della comprensione totale della città si ricongiunge pari pari con la conclusione di Tempo e racconto: dopo avere rinunciato a Hegel per l’impossibilità di una sintesi finale, e quindi di una mediazione totale, s’insiste proprio sulle aporie della temporalità, che sorgono all’interno della «mediazione imperfetta», dell’«unità plurale», dell’«imperscrutabilità» del tempo (P. Ricœur, 1988; per Hegel, pp. 310 e sgg.; conclusioni pp. 372 e sgg.). Il cordoglio della comprensione totale si riallaccia pure alle impressioni che si ricavano dal «pensare il sociale» in Ricœur, dove l’abbandono di uno sguardo panoramico non equivale «per nulla all’adesione ingenua e passiva all’ordine (sociale) di ciò che è. Al contrario» (M. Foessel, in AA.VV., 2007, p. 55).

Parole assonanti sulla fine di uno sguardo totalizzante che rimbalzano anche dalla sponda etico-politica quindi, ma con un riferimento preciso alla città e alla sua complessità. La città appartiene infatti all’«economia della grandezza», che porta la pluralità nel cuore stesso dell’esigenza di una giustificazione. La

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giustificazione di una realtà complessa come la città è operazione a sua volta plurale.

In Percorsi del riconoscimento (2004) Ricœur riprende il riferimento alla città, che viene attratta nell’ordine dell’intima pluralità, della complessità irrisolvibile, dell’impossibilità di una sintesi delle sintesi: appartiene appunto all’ordine della grandezza. Anche la città testimonia, nella sua molteplicità, a favore della «pluralità del principio di accordo», della pluralità stessa del «bene comune», e proprio in quanto comune, perché «il bene comune legittimo ha forma plurale». Con questo, la città non può più accontentarsi di essere «particolare», e si inscrive nell’orizzonte della partecipazione (P. Ricœur, 2005, pp. 231 e sgg.). L’unità della città è un rapporto partecipativo.

Dialogando con Luc Boltanski e Laurent Thévenot, Ricœur è interessato alla pluralità dei criteri di giustificazione, che è l’«operazione di qualificazione delle persone relativamente al posto occupato sulla scala delle grandezze»: con la giustificazione, come per il riconoscimento, è in gioco la «stima sociale», con cui «le singole persone commisurano, infatti, l’importanza delle proprie qualità relativamente alla vita dell’altro, ciascuna sulla base dei medesimi valori e dei medesimi fini» (P. Ricœur, 2005, pp. 228, 231). L’idea di città è presa in un senso preciso, quello appunto per il quale «i regimi di azione giustificata meritano di essere chiamati “città”, nella misura in cui conferiscono una sufficiente coerenza» – anche qui il motivo dell’unità sufficiente – «a un ordine di transazioni umane», così che le «città di Boltanski-Thévenot non sono ideal-types di valutazioni condivise, ma argomentazioni in situazioni di accordo e di controversia» (P. Ricœur, 1998b. pp. 108 e 109; in dialettica con M. Walzer, 1987).

Economie della grandezza. La compromissione

I criteri di giustificazione sono plurali, e alla loro diversità corrispondono città alternative quanto ai propri princìpi di giustificazione: si tratta di sintesi diverse all’interno della città degli uomini. Le città sono alternative perché rivaleggiano circa il diverso criterio di grandezza a cui si affidano, cioè le «credenze condivise che concernono la superiorità dei valori che distinguono ciascuno dei modi di vita propri di una città» (P. Ricœur, 2005, p. 238).

In questo modo:

Nella «città ispirata», la grandezza delle persone si avvale di una grazia, di un dono, che sono senza rapporto con il denaro, la gloria o l’utilità. Nella «città dell’opinione», la grandezza dipende dalla reputazione, dall’opinione degli altri. Nella «città commerciale» vengono negoziati beni rari, soggetti alla bramosia di tutti, mentre le persone sono unite soltanto dalla concorrenza delle

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brame. Nella «città domestica», che si estende a quella che Hannah Arendt chiamava l’intera famiglia, regnano valori di lealtà, di fedeltà, di riverenza. La «città civile» riposa sulla subordinazione dell’interesse proprio alla volontà di tutti, che è espressa dalla legge positiva. Nella «città industriale» – che non bisogna confondere con la città commerciale, in cui il valore è fatto dalla fissazione istantanea dei prezzi – dominano le regole funzionali di lunga durata, sottoposte al principio superiore dell’utilità» (P. Ricœur, 1998, p. 108; P. Ricœur, 2005, p. 233; cfr. M. Hénaff, 2008, pp. 80 e sgg.).

Si tratta di città diverse, e assunte per di più in un’accezione particolare, ma i riferimenti culturali che le accompagnano lasciano intravedere tutto un immaginario preciso della convivenza, anche dal punto di vista costruttivo e urbanistico: Agostino con La città di Dio per la città dell’ispirazione; Benigno Bossuet con La politica ricavata dalle stesse parole della Sacra Scrittura per la città domestica; Jean-Jacques Rousseau con Il contratto sociale per la città civile; Adam Smith con la Teoria dei sentimenti morali (e La ricchezza delle nazioni) per la città commerciale; e Claude-Henri de Saint-Simon con Il sistema industriale per la città industriale.

Pluralità dei criteri e pluralità delle città, dunque, per dire cosa? La concorrenza dei criteri, le città rivali, l’avvicinamento di città diverse – di mondi diversi – permettono un «confronto», una «critica», una «contestazione»: permettono la possibilità della comprensione di un altro mondo rispetto a quello al quale si appartiene; e questa possibilità svela una «nuova dimensione della persona». La pluralità delle città apre in definitiva sul cambiamento. Avanza infine anche l’idea di una città del «compromesso», che è «la forma che riveste il mutuo riconoscimento nelle situazioni di conflitto», o di «disputa», perché «la capacità al compromesso offre allora», nella città degli uomini, «l’accesso privilegiato al bene comune» (P. Ricœur, 2005, p. 236).

Dentro il pluralismo delle città balugina la città del compromesso, che segue l’interesse per i criteri del mutuo riconoscimento. Ma introdurre il compromesso nella città ha senso solo perché la città in qualche modo è da sempre compromessa: compromessa tra le diverse città che, nell’unica città, convivono e sopravvivono; e compromessa perché la città esprime da sempre una promessa comune, con le sue disattese.

Anche il compromettersi è una forma – forse prima forma – dell’intertestualità della città.

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4.

ITINERANZA. ERRANZA. SRADICAMENTO

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Bisogna dunque fare il cordoglio della comprensione totale e ammettere che nella lettura delle nostre città

vi è qualcosa di inestricabile. PAUL RICŒUR, Architettura e narratività

Costruire per costruire tuttavia non basta per abitare. Una cultura del vivente deve accompagnare ciò che non cresce da sé.

LUCE IRIGARAY, La via dell’amore

Cordoglio e itineranza: esequie alla comprensione totale

La città non si presta a letture semplici, impedisce la totalizzazione dello sguardo e allude a un’unità plurale, a una mediazione sempre imperfetta che si manifesta anche nel lutto per la fine della comprensione totale, a favore dell’itineranza.

Il motivo dell’itineranza costituisce un’inclusione esplicita tra Architettura e narratività (1996, vol. I; 1998a) e Urbanizzazione e secolarizzazione (1967) dove, osservata nel suo dinamismo accelerato, la città «può essere descritta come un contesto di migrazione interna». Per quanto gli interessi sottolineino in questo caso la mobilità sociale della città secolarizzata, con fenomeni quali l’immigrazione o la

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distanza sempre più accentuata tra i luoghi di abitazione e quelli di lavoro, il senso dell’itineranza emerge nettamente: sia per il fatto che la vita nella città assomiglia sempre più a un «viaggio» molteplice e generalizzato, sia per l’esigenza espressa che questa «itineranza» appartenga ai modi della «speranza» piuttosto che a quelli di un vagare senza più ritrovarsi, di uno «spaesamento», di un puro errare nella città.

Ricœur fornisce anche i prototipi sociali, per così dire, di questa itineranza nella città: da un lato i migranti, che oscillano tra sradicamento e adattamento, e per i quali «la mobilità è finalmente liberante, ma al prezzo di notevoli sofferenze»; dall’altro lato invece i «privilegiati» per i quali «la mobilità assume spesso la forma del viaggio e delle vacanze». Il turista e l’immigrato incarnano la mobilità accelerata di una città itinerante. «Nomadismo», in ogni caso, e «sradicamento», che si leggono nella città e sugli occhi che la guardano, ma in modo ben differente nel primo e nel secondo caso. Tutto questo movimento interno alla città contemporanea viene già chiamato, oltre che «viaggio» e «itineranza», una «de-familiarizzazione» (P. Ricœur, 1967, p. 328; cfr. pp. 335, 340; cfr. G. Simmel, 1995): proprio come in Architettura e narratività.

Cordoglio della comprensione totale, quindi, a favore dell’«itinerranza» nella città, come è sempre scritto – ma solo lì, e proprio in corsivo nel suo primo apparire – nella versione di Architettura e narratività (1996) presentata alla Triennale di Milano, che sta «a metà strada tra l’erranza e lo spirito domestico. Con l’itinerranza lo spazio e il tempo sono integrati l’uno nell’altro in quello che Bachtin aveva ben definito «cronotopo». E per la terza volta si impone l’idea di possibile: in che cosa un mondo (Welt) si distingue da un semplice ambiente (Umwelt), in quello che noi proiettiamo come Terra abitata nella quale potremmo dispiegare i nostri possibili più propri? È l’ambiente dell’identità narrativa e dell’itinerranza» (P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 72; per il concetto di cronotopo e M. Bachtin, cfr. E. Calvi, 1991; per il concetto di luogo-tempo, cfr. P. Nora, 1996, a cui Ricœur dedica, anche in connessione con lo spazio vissuto, un’ampia sezione in P. Ricœur, 2003, pp. 574-587, cfr. p. 578, nota 120).

Nel ricordo del suo «elogio dell’itineranza» incluso in La memoria, la storia, l’oblio (cfr. P. Ricœur, 2003, p. 210; originale del 2000: p. 186), Ricœur non ripete l’espressione della Triennale di Milano. Su di essa richiamano l’attenzione l’architetto Pietro Derossi, e il filosofo Pier Aldo Rovatti che commenta così: «Con lo strano vocabolo “itinerranza”, vengono intrecciate nella forma dell’intrigo e del paradosso, l’elemento dell’abitare come stare e l’elemento dell’abitare come continuo errare» (P.A. Rovatti, 2000, p. 68; cfr. P. Derossi, 2000, p. 27). L’architettura narrativa, a sua volta, reinterpreta l’itineranza quale trasmigrazione delle funzioni solite e uso improprio dei luoghi, come «seduzione antica del

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nomadismo» (cfr. P. Derossi, in AA.VV., 1996, vol. II, p. 13; sull’abitare viaggiando, cfr. E. Calvi, 1991).

Dimorare, errare, smarrirsi

In ogni caso, l’itineranza nella città evoca, e amplifica, il doppio movimento dello stare e dell’andare già osservato a proposito del corpo proprio, e della casa. Può darsi che esso conservi un’altra memoria di Heidegger in merito all’abitare – che riecheggia pur sempre Costruire abitare pensare –, quella che gioca tra dimorare e vagabondare, del tipo:

Se consideriamo il verbo abitare in senso lato ed essenziale, allora esso denota il modo con cui i mortali adempiono al loro errare: dalla nascita alla morte, sulla terra e sotto il cielo. Ovunque sia, l’errare resta l’essenza dell’abitare come lo stare tra terra e cielo, tra nascita e morte, tra gioia e dolore, tra opera e parola. Se con questo molteplice tra indichiamo il mondo, esso diventa la casa inabitata dei mortali. Le singole dimore, i villaggi, le città, sono comunque opere di architettura che radunano al di dentro e all’intorno il molteplice tra. Gli edifici avvicinano la terra all’uomo, quale paesaggio abitato, e pongono allo stesso tempo la vicinanza del dimorare insieme sotto la vastità del cielo (M. Heidegger, 1957, p. 13; in C. Norberg-Schulz, 1984, p. 19).

Il richiamo all’itineranza connesso con il cordoglio della comprensione totale porta senz’altro con sé, almeno come vaga assonanza, altre istanze heideggeriane, che interpretano l’esistere dell’umano come un esporsi mondano che si situa all’incrocio tra raccoglimento e apertura, tra dimora e movimento. Il dimorare e l’aprirsi non riguardano solo l’alternanza di raccoglimento e di dislocazione. Dalla loro tensione sgorga infatti un’«etica originaria».

Heidegger avverte che «il termine etica vuol dire che con questo nome si pensa il soggiorno dell’uomo». Sempre Heidegger riprende, ricordandosi di Eraclito, una dialettica tra ciò che è «solito» e ciò che è «insolito», perché, come «dice lo stesso Eraclito: “Il soggiorno (solito) è per l’uomo l’ambito aperto per il presentarsi del dio (dell’in-solito)» (M. Heidegger, 1995, p. 93; cfr. pp. 92 e sgg.). Solito e insolito, familiare e de-familiare: la dimora dell’uomo come itineranza verso un’alterità che non è del tutto estranea.

Jean-Luc Nancy replica, commentando, in questo modo: «L’ethos deve essere pensato come soggiorno», dove «il soggiorno è il “ci” in quanto aperto. Il soggiorno è, quindi, molto più una condotta che una dimora (oppure, dimorare è innanzitutto una condotta, la condotta dell’essere-ilci» (J.-L. Nancy, 1996, p. 36). La dimora e l’esser-ci: l’etica è un soggiornare aperto, e il dimorare è una condotta.

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Tutto un linguaggio andrebbe allora ripreso e fors’anche rivisitato (cfr. P. Sloterdijk, 1999), per accorgersi dei fili sparsi che si annodano a ricongiungere tra di loro il dimorare e l’essere vicini, l’abitare e l’aprirsi all’altro.

Oppure, il cordoglio può indirizzarsi a favore dell’auspicio sollevato da Ricœur con Walter Benjamin e la sua Parigi, a chiusura del testo pubblicato sulla rivista «Urbanisme», di diventare i «perditempo dei luoghi della memoria», i perdigiorno della città come il flâneur di Benjamin, che «cerca rifugio nella folla. La folla è il velo attraverso il quale la città familiare appare al flâneur come fantasmagoria» (P. Ricœur, 1998a, p. 51; cfr. W. Benjamin, 1995, pp. 145 e sgg.): osservatori cinici e insieme affascinati, pellegrini instancabili, della città e della sua vita.

Itineranza ancora come situazione cittadina, evocata in La memoria, la storia, l’oblio: situazione di quell’essere che non è né solo natura né solo artificiale, né solo casa né solo città. Condizione dell’umano in bilico tra l’itinerare e l’errare, perché «la città suscita anche passioni più complesse che non la casa, nella misura in cui offre uno spazio di spostamento, di avvicinamento e di allontanamento. Vi ci si può sentire smarriti, erranti, sperduti, mentre di contro i suoi spazi pubblici, le sue piazze ben denominate invitano alle commemorazioni e alle riunioni ritualizzate» (P. Ricœur, 2003, p. 211).

Nella città si può passeggiare, ma ci si può anche perdere. L’itineranza rimane vicino alla possibilità dell’erranza. L’augurio di Ricœur rivolto agli architetti e agli urbanisti in occasione della Triennale di Milano deve quindi cambiare. Allora si trattava di un augurio di felicità: «Felice l’architetto che suscita l’itinerranza tra le vestigia divenute testimonianze rese alle storie di vita inscritte nei luoghi della vita!» (P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 72). Adesso si tratta di un augurio contrario: che il costruire e il pianificare non confondano tra loro l’itineranza con l’erranza negativa, il vivere nella città con lo smarrirsi: che il «nomade urbano» non diventi un «disorientato» (cfr. G.-H. de Radkowski, 2002; M. Cacciari, 2008, pp. 50 e sgg.).

Di fronte alla molteplicità dei criteri di giustificazione poi – molteplicità delle città nell’unica città –, il senso dell’itineranza si conferma e si amplia, perché, nel confronto e nello scontro dei criteri che ispirano il riconoscimento all’interno delle diverse città, è come se la città stessa si mettesse in movimento, come se la città diventasse itinerante: si passeggia e ci si perde nella città, si passeggia e ci si perde tra le diverse città dell’unica città.

Sull’orlo dei precipizi. Resistenze, contestazioni

Lyotard mette in guardia su quanto di metafisico rimane inscritto nel progetto architettonico, quando questo equivale alla promessa/pretesa di una risposta

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ultimativa «all’angoscia ontologica dell’abitare»: promessa/pretesa di negazione di un resto, di un fuori, rispetto all’atto stesso configurante. Di un’alterità.

Attraverso la corrispondenza tra il configurare narrativo e quello architettonico, Ricœur dilata invece e dà risalto in senso più classico al momento progettuale quale risposta formale all’abitare, che fa entrare nel ritmo del prefigurare, del configurare e del rifigurare. Solo che, come in un video incapace di tenere ferme le parole appena scritte, che cominciano a cadere e a sgretolarsi come in una pioggia di meteoriti, man mano che ci si addentra nel gesto a cui viene assegnata la responsabilità di dare forma all’abitare dell’umano, aumentano anche gli scarti e le fratture, le messe in discussione – come se il progetto realizzato diventasse, nel suo essere abitato e al tempo stesso contestato, un testimone controvoglia del fallimento implicito fin dall’inizio nella promessa/pretesa di rispondere una volta per tutte all’angoscia dell’abitare di cui parla Lyotard.

Un abisso separa la razionalità del progetto architettonico dal vissuto dello stesso: dalla sua ricettività. Tra prefigurare, configurare e rifigurare non passa un ordine di successione cronologica. Il costruire si radica nel mondo della vita, nell’abitare che affianca fin dall’inizio; ma l’abitare replica al costruire, forse lo mette anche sotto processo: oltre che di «aspettative» dell’abitare nei confronti del costruire, in La memoria, la storia, l’oblio Ricœur ritorna a parlare – con ulteriore rafforzamento – di «resistenze» e perfino di «contestazioni» (P. Ricœur, 2003, p. 210). Altro abisso che si scopre, tra l’abitare della prima ora, dove le parole e la vita si vogliono anche ingenue e irriflesse, confuse – quell’abitare che non si distingue ancora dal costruire –, e l’abitare che risponde e che sollecita nuovamente la costruzione. Che la discute e la contesta.

Crepe dunque, incertezze, che portano in evidenza le ferite dello spazio che si fa tempo, e del tempo che si fa spazio. Ferite quasi insanabili nel rapporto tra la città e l’umano. Fratture, ancora, che lasciano in qualche misura intravedere come nel gioco ritmato del prefigurare, del configurare e del rifigurare, che si rifrangono confondendosi tra la sponda del tempo e quella dello spazio, tra la spazialità del racconto e la temporalità dei luoghi, avanzi in sofferenza, come in un calvario, proprio quel mondo della vita: un mondo che si trova tanto prima quanto dopo il costruire e che, in definitiva, non è né prima né dopo se non per la sospensione dovuta a un magnifico gioco euristico capace come una spugna marina di assorbire e rilasciare percorsi sempre nuovi di lettura.

Il mondo della vita attraversa tutto del racconto e tutto dell’architettura, tutto della parola e tutto della città. Collocandosi anzi nel punto di vista della rifigurazione, là dove il soggetto entra nella narrazione e l’abitare replica al costruire – là dove sorgono risposte e repliche, resistenze e contestazioni –, non si è nemmeno più del tutto sicuri cosa sia talora più ingenuo e confuso, quasi banale e

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poco meditato: se il mondo della vita o tutti quegli atti di configurazione che tentano di metterlo in forma.

Il costruire rimanda all’abitare. Ma l’abitare discute il costruire. La vita non è per forza di cose più vita dopo il costruire, l’abitare non necessariamente più degno. Abissi nell’abisso: la città che fa incontrare vulnerabilità impensate; le violenze della storia che coinvolgono la costruzione e la pianificazione della città; le attese che non coincidono con i bisogni; la patologia urbana; l’itinerare, l’errare e lo smarrirsi.

L’urbano e l’umano

La città e la vita sono contestuali. Si costruisce mentre si vive e si vive mentre si costruisce: la domanda di architettura e quella di urbanistica nascono insieme, al punto che un essere «naturale» dell’uomo risulta introvabile: l’umano

«si lascia incontrare sempre lungo la linea di frattura e di sutura tra la natura e la cultura» (P. Ricœur, 1998a, pp. 45-46; cfr. P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 66).

Abitare e costruire, natura e cultura: lungo la linea di frattura e di sutura si incontrano il sociale e il politico. Se si parte con la diagnostica epocale, con l’etica e la politica, s’incontra giocoforza la città. E se si legge la città nel suo essere storicità e intertestualità, nuova vulnerabilità ancora, spazio di compromissione, si incontrano il sociale e il politico: lungo le ferite, sull’orlo dei precipizi.

Lyotard fa presente che un certo postmodernismo in architettura rischia di rimanere moderno, nonostante l’abbandono della fondazione ultima, perché «un film che denuncia violentemente i mali che l’architettura e l’urbanistica hanno prodotto relativamente alla domanda dell’abitare può certamente essere ancora modernista». Infatti, un certo postmodernismo «sa che la promessa è un’illusione, evoca il passato moderno come un fantasma, ne fa la satira, richiede pluralismo contro l’universalismo, è per il locale contro la totalità. Progetta l’inversione del progetto modernista. Ma progetta ancora, come il modernismo» (J.-F. Lyotard, 1996, vol. I, p. 54).

Vengono allora in mente altre associazioni, di solito meno frequentate, dove si è invitati a riflettere fin dall’inizio sul tipo di pensiero a cui si affida la messa in forma dell’abitare, la costruzione stessa della città: nella pretesa di essere la risposta intelligente all’abitare mostra la brutalità del suo progetto, che sarà al tempo stesso indifferente e omologante.

L’edilizia fa mostra di sé proprio all’inizio di quella parte della Dialettica dell’Illuminismo che Max Horkheimer e Theodor W. Adorno dedicano all’industria culturale, là dove si presenta una tesi sulla civiltà attuale: essa

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conferisce «a tutti i suoi prodotti un’aria di somiglianza». L’«edilizia» si distende tra il costruire e il pianificare: centri cittadini con i «palazzi monumentali» che si assomigliano sempre più in ogni parte del mondo e che «rappresentano la pura razionalità priva di senso di grandi cartelli internazionali», periferie usa e getta, e «progetti urbanistici» che anziché preservare la libertà dell’umano la rinchiudono in «cellule edilizie», in «piccole abitazioni igieniche». Tutto questo documenta «lo schema» di una cultura che mette in scena «la falsa identità di universale e particolare» (M. Horkheimer, T.W. Adorno, 1997, pp. 122-123).

Di rimbalzo, sovvengono pure, quasi tra le righe, le note di Jürgen Habermas sullo stato dell’«odierno stile di abitazione cittadino» dove si perdono insieme tanto la sfera privata quanto quella pubblica, a cui conduce la «disposizione dei blocchi abitativi da parte dell’urbanistica moderna»: William H. Whyte individuava nella «situazione abitativa americana» il prototipo di una «versione civile di una vita di guarnigione». (J. Habermas, 2002, p. 182; cfr. W.H. Whyte, 1960, pp. 341 e sgg.). La città è una caserma.

Il mettere in forma non è neutro. Il rapporto tra l’abitare e il costruire è davvero complesso, edificare la città porta con sé altre ragioni rispetto alle attese di una vita. Questo mondo della vita, poi, sempre contestuale alla costruzione della città, non andrebbe anch’esso precisato meglio? Non andrebbero dette altre cose circa il rapporto tra la città e la vita, forse per presagire proprio quella «città della vita» che si cerca a fatica dentro la «città di pietra», che privilegia «gli aspetti fisico-formali», e la «città delle relazioni», che punta al «tessuto delle attività»? (C. Béguinot, 2008, pp. 78 e sgg.). E lo spazio vissuto che è anche tempo, quello spazio e quel tempo misti definiti dal nostro stesso corpo, in quanto proprio, vissuto, non si può spingere ancora più avanti fino a osservare il ribaltamento, a individuare l’urbanità del corpo, corpi tra corpi e corpi tra cementi, «corpi urbani»? (T. Paquot, 2006; cfr. I. Chambers, in AA.VV., 1996, vol. I, p. 61; F. Riva, 2007, cap. I). Ma è poi costruita davvero questa città, o non ci mette sempre di fronte a un’alternativa affettiva tra la corruzione di qualcosa che è già stato e l’anticipazione di qualcosa che deve ancora venire? (cfr. O. Mongin, 2005; M. Hénaff, 2008).

La città è sempre in eccesso, sempre al limite tra un modello di civilizzazione e la propria «inciviltà» (J.-L. Nancy, 2011). Complessità, certo, e complessità della complessità nella città degli uomini, cordoglio della comprensione totale, precarizzazione del comprendere, rifiuto, infine, della sintesi – ma forse anche un’intertestualità (e un pluralismo) differente: la stessa che non ha mai un livello troppo ingenuo o primitivo, perché coincide con il sorgere dell’umano in quanto umano di fronte all’altro uomo.

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Abitare, coabitare

L’abitare allora è anche già un coabitare, cercare rifugio già un proteggersi insieme, parlare già un parlarsi: la città un compromettersi. Non è ancora una volta Heidegger che accenna, purtroppo senza precisare molto, alla «comunità degli uomini» mentre discute del costruire e dell’abitare? Del «costruire che è propriamente un abitare», dell’abitare che è «il modo con cui i mortali sono sulla Terra», e del «costruire come abitare» che si «dispiega nel costruire che coltiva e coltiva ciò che cresce; e nel costruire che edifica costruzioni» (Heidegger, 1976-1980, pp. 98-99).

Il corpo, ancora una volta, questo spazio-tempo, è da subito luogo di prossimità e di cura responsabile, ma anche spazio di ogni fatica e di ogni fastidio, di molta violenza, a cui non sono estranei per la loro rilevante parte né il costruire né il pianificare urbano. Il costruire sempre costruito e mai costruito. Sempre in qualche modo da ricostruire, perché «volendo costruire senza curarsi dell’altro, l’uomo si è espropriato anche di sé»: «Costruire per costruire tuttavia non basta per abitare. Una cultura del vivente deve accompagnare un’edificazione di ciò che non cresce da sé» (L. Irigaray, 2008, p. 97).

La città già da sempre città e non ancora, non del tutto, non abbastanza, città.L’umano già da sempre umano e non ancora, non del tutto, non abbastanza,

umano.Il pensiero già da sempre pensiero e non ancora, non del tutto, non abbastanza,

pensiero.La morale già da sempre morale e non ancora, non del tutto, non abbastanza

morale: etica, città, bene comune, socialità, contestazione, giustizia.

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RINGRAZIAMENTI

Si ringraziano il Comité éditorial du Fond Ricœur*, nella persona di Catherine Goldenstein, per il permesso di poter riunire in volume i testi di Paul Ricœur e per la concessione dei diritti di traduzione di Le projet d’une morale sociale (in «Christianisme social», n. 74, 1996), Urbanisation et sécularisation, (in «Christianisme social», n. 75, 1967), La cité est fondamentalement périssable (in Les grands entretiens du monde, tome II, Penser les sciences, penser les religions, Mai 1994); e Thierry Paquot, editore della rivista «Urbanisme»**, per la cortese concessione di poter tradurre Architecture et narrativité.

* Fonds Ricœur, I.P.T. 83 bd Arago, 75014 Paris.** 176 rue du Temple, 75003 Paris.

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Leggere la città

Quattro testi di Paul Ricœur

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1. ARCHITETTURA E NARRATIVITÀ1

Dato che mi è stato affidato il tema della memoria, comincerò spiegando come si collegano memoria e narratività.

Adotto la definizione più generale di memoria – tratta da un breve testo di Aristotele intitolato per l’appunto Della memoria e della reminescenza2, che riprende delle notazioni del Teeteto3 platonico riguardanti l’eikôn, l’‘immagine’: «Rendere presente l’assenza», «rendere presente l’assente». Adotto anche la distinzione tra due assenti: l’assente come mero irreale, vale a dire l’immaginario, e l’assente-che-è-stato, il precedente, l’anteriore, il proteron. Per Aristotele è quest’ultima la tipologia di assente che contraddistingue la memoria: fare memoria è rendere presente l’assenza-cheè-stata. Ai due estremi della storia dell’Occidente si riscontra una forte complicità di pensiero tra gli Antichi – con questo concetto dell’assenza resa presente e dell’anteriorità – e un motivo di Heidegger a cui tengo molto, nonostante la mia distanza dalla sua idea dell’essere-per-la-morte: l’idea che occorra sdoppiare il nostro concetto di passato in ciò che egli chiama il passato, il Vergangen, e ciò-che-è-stato, il Gewesen. Nello stesso tempo si rende giustizia alla definizione degli Antichi poiché il precedente-resopresente è grammaticalmente sottolineato due volte: non è più, ma è stato. E mi sembra che la gloria stessa dell’architettura sia rendere presente non tanto ciò che non è più, ma ciò che è stato attraverso ciò che non è più.

La narratività

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Per quanto riguarda la narratività, durante alcuni studi di una decina d’anni fa (in Tempo e racconto4 ), mi era parso che la memoria si rapportasse contemporaneamente al linguaggio e ad alcune opere attraverso il racconto, attraverso il mettere-in-racconto. Il passaggio dalla memoria al racconto si realizza in questo modo: ricordarsi, sia privatamente che pubblicamente, equivale a dichiarare che «io ero là». Il testimone dice: «Io c’ero». E questo carattere dichiarativo della memoria si inscrive in testimonianze, in affermazioni, ma anche in un racconto attraverso il quale io dico agli altri ciò che ho vissuto.

Nella mia riflessione seguo quindi due presupposizioni: da un lato rendere presente l’anteriorità che è stata e dall’altro lato metterla in opera attraverso il discorso, ma anche attraverso un’operazione fondamentale di messa-in-racconto che identifico con la «configurazione».

Vorrei innanzitutto istituire un’analogia o, meglio, ciò che a prima vista sembra essere soltanto un’analogia: uno stretto parallelismo tra architettura e narratività, in cui l’architettura sarebbe per lo spazio ciò che il racconto è per il tempo, vale a dire un’operazione «configurante»; un parallelismo tra costruire, vale a dire edificare nello spazio, e raccontare, cioè intrecciare nel tempo.

Nel corso dell’analisi mi domanderò se non sia legittimo andare oltre l’analogia fino a delinearla come un vero e proprio intreccio, un intrico tra la «configurazione» architettonica dello spazio e la «configurazione» narrativa del tempo. In altri termini, si tratta di incrociare lo spazio e il tempo attraverso il costruire e il raccontare. Questo è l’obiettivo della ricerca: intersecare la spazialità del racconto con la temporalità dell’atto architettonico per mezzo dello scambio, in certo qual modo, di spazio-tempo nelle due direzioni. Al termine, seguendo la temporalità dell’atto architettonico, si potrà così ritrovare la dialettica della memoria e del progetto nel cuore stesso di questa attività. E nell’ultima parte della mia riflessione mostrerò soprattutto come il mettere-in-racconto proietti nel futuro il passato ricordato.

Tempo raccontato e spazio costruito

Tornando all’analogia tra architettura e narratività bisogna dire che in proposito non vi è nulla di evidente poiché sembra esserci un abisso a separare il progetto architettonico inscritto nella pietra, o in qualsiasi altro materiale duro, dalla narratività letteraria inscritta nel linguaggio: il primo si collocherebbe nello spazio, la seconda nel tempo. Da un lato il racconto offerto alla lettura, dall’altro la costruzione tra il cielo e la terra offerta alla visibilità, data a vedere. All’inizio lo scarto o l’«abisso logico» tra tempo raccontato e spazio costruito sembra essere notevole. È possibile tuttavia ridurlo progressivamente, sostando comunque ancora all’interno del parallelismo, se si considera che né il tempo del racconto né lo

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spazio dell’architettura si riducono a delle semplici frazioni del tempo universale e dello spazio geometrico.

Il tempo del racconto interviene nel punto di rottura e di sutura tra il tempo fisico e il tempo psichico, descritto da sant’Agostino nelle Confessioni5 come «dilatato», come distensione dell’anima tra ciò ch’egli definiva «il presente del passato» – la memoria –, «il presente del futuro» – l’attesa – e «il presente del presente» – l’attenzione. Il tempo del racconto è quindi una combinazione tra il tempo vissuto e quello degli orologi, tempo cronologico inquadrato dal tempo del calendario, che si porta dietro tutta l’astronomia. Alla base del tempo narrativo si trova questa combinazione tra il semplice istante, che è una frattura nel tempo universale, e il presente vivo in cui non c’è che un presente: l’adesso.

Allo stesso modo lo spazio costruito è una sorta di commistione tra i luoghi di vita che circondano il corpo vivente e uno spazio geometrico a tre dimensioni nel quale tutti i punti sono luoghi qualsiasi. Si potrebbe dire che anch’esso è contemporaneamente ricavato dallo spazio cartesiano – lo spazio geometrico in cui tutti i punti possono essere dedotti a partire da altri punti grazie alle coordinate cartesiane – e dal luogo di vita, spazio umano. Così come il presente è il fulcro del tempo narrativo, il luogo è il fulcro dello spazio creato, costruito.

Mi baso dunque su questo doppio radicamento, su questa parallela inscrizione in un tempo misto e in uno spazio misto. Come griglia di analisi propongo la successione delle tre fasi già percorse in Tempo e racconto e che avevo collocato sotto il titolo molto antico di mimesis – ri-creazione, rappresentazione creatrice: si parte dalla fase denominata «prefigurazione», in cui il racconto è inserito nella vita quotidiana, nella conversazione, senza ancora distaccarsene per produrre forme letterarie; segue poi la fase di un tempo veramente costruito, un tempo raccontato, che costituirà il secondo momento logico, vale a dire la «configurazione»; terminerò infine con ciò che, a livello della lettura e della rilettura, ho chiamato «rifigurazione».

Per quanto concerne il costruire, seguirò un movimento parallelo per mostrare come si possa passare da un momento, da uno stadio di «prefigurazione», collegato all’idea, all’atto di abitare – c’è qui una risonanza heideggeriana (abitare e costruire)6 –, a un secondo stadio più evidentemente interventistico – l’atto di costruire –, per giungere infine al terzo stadio della «rifigurazione»: la rilettura delle nostre città e di tutti i nostri luoghi d’abitazione.

Si può quindi affermare che al primo stadio l’abitare è il presupposto del costruire, al secondo il costruire si fa carico dell’abitare, ma tutto questo perché l’ultima parola sia lasciata a un abitare riflessivo, un abitare che recuperi la memoria del costruire. Questa è la linea di sviluppo dell’itinerario di riflessione proposto.

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La «prefigurazione»

Nella fase della «prefigurazione» il racconto è praticato ben prima di essere messo in forma letteraria dai racconti degli storici, dalla finzione letteraria, dall’epopea alla tragedia, fino al romanzo moderno. La «prefigurazione» è quindi il «radicamento» del racconto nella vita, nella forma della conversazione ordinaria: in questa fase il racconto è coinvolto nella nostra presa di coscienza più immediata. Hannah Arendt, in Vita activa. La condizione umana7 , ne ha proposto una definizione molto semplice: la funzione del racconto è rivelare «il chi dell’azione». In effetti, quando vogliamo presentarci a un amico cominciamo proprio dal raccontargli una breve storia – «ho vissuto in questo modo, in quell’altro» – così da identificarci, nel senso di farci conoscere per chi siamo o per chi crediamo di essere. L’entrare in contatto che caratterizza il vivere insieme comincia, in sostanza, proprio con lo scambiarci racconti di vita. E questi racconti acquistano senso soltanto in uno scambio di memorie, di vissuti e di progetti.

A questo livello di pre-comprensione, il parallelismo tra la pratica del tempo e quella dello spazio è decisamente notevole. Prima ancora di ogni progetto architettonico, l’uomo ha costruito perché ha abitato. A questo proposito è inutile domandarsi se l’abitare preceda il costruire, perché si può dire innanzitutto che vi è un costruire correlato al bisogno vitale di abitare. Occorre quindi partire dall’insieme abitare-costruire, salvo dare la priorità al costruire sul piano della «configurazione» e, forse, di nuovo all’abitare nel momento della «rifigurazione», dato che il progetto architettonico ridisegna proprio l’abitare, che poi andremo a rileggere.

Influenzati dalla psicanalisi, alcuni autori vedono nel «circondare» l’origine dell’atto architettonico e nell’«inglobare» la funzione originale dello spazio architettonico: paradiso perduto, la matrice materna offre in effetti il suo involucro al desiderio umano, ma proprio come paradiso perduto. Dalla culla alla camera, al quartiere, alla città sarebbe possibile seguire il cordone ombelicale reciso. Questo cordone è stato tuttavia reciso alla nascita, e la sola nostalgia impedirebbe di vivere. Aperture e distanze hanno rotto l’incantesimo già al momento dell’ingresso all’aria aperta, con la quale ormai non resta che negoziare. Non si abbandona tuttavia il livello vitale e, in questo senso, pre-architettonico, se si caratterizza il costruire-abitare che emerge dal mondo della vita – dal Lebenswelt – con una varietà di operazioni che richiamano l’artificio architettonico: proteggere l’habitat con un tetto, delimitarlo con pareti, regolare i rapporti tra esterno e interno attraverso un gioco di aperture e chiusure, rappresentare con una soglia il superamento dei confini, indicare attraverso una specializzazione delle parti dell’habitat, in piano e in altezza, l’assegnazione a luoghi distinti delle varie

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attività della vita quotidiana, anzitutto la veglia e il sonno, attraverso uno studio appropriato, anche se sommario, di luci e ombre.

Non è tutto: non abbiamo ancora sottolineato dovutamente le operazioni del costruire che racchiudono l’atto del dimorare, del fermarsi e dell’installarsi che gli stessi nomadi non disdegnano, atto di un vivente già nato, lontano dalla matrice, alla ricerca di un sito all’aria aperta. Non abbiamo ancora menzionato le operazioni di circolazione, dell’andare e del venire, che comportano attività complementari a quelle finalizzate a fissare una dimora: il cammino, la strada, la via, la piazza fanno parte del costruire, nella misura in cui gli atti che guidano fanno anch’essi parte integrante dell’atto di abitare. L’abitare è fatto di ritmi, di arresto e di movimento, di stanziamenti e di spostamenti. Il luogo non è soltanto il vuoto in cui stabilirsi, come sosteneva Aristotele (la superficie interna dell’involucro), ma è anche l’intervallo da percorrere. La città è il primo involucro di questa dialettica tra dimora e dislocazione.

Dato che la casa e la città sono contemporanee nel costruire-abitare primordiale, il bisogno di architettura e quello di urbanistica nascono simultaneamente: come lo spazio interno dell’abitazione tende a differenziarsi, così lo spazio esterno dell’andare e del venire tende a specializzarsi in funzione delle attività sociali diversificate. A questo proposito, è impossibile individuare uno stato «naturale» dell’uomo: l’uomo cosiddetto «primitivo» si incontra sempre lungo la linea di frattura e di sutura tra natura e cultura.

Che ne è stato del parallelismo tra narratività e architettura in questa fase della «prefigurazione»? Quali segni di rinvio del racconto pre-letterario allo spazio abitato è possibile individuare? Innanzitutto, ogni storia di vita si svolge in uno spazio di vita. L’iscrizione dell’azione nel corso delle cose equivale a segnare lo spazio di avvenimenti che ineriscono alla disposizione spaziale delle cose. Ancora, e soprattutto, il racconto di conversazione non si limita a uno scambio di memorie, perché risulta essere coestensivo a percorsi che vanno di luogo in luogo. In precedenza si è richiamato Proust: la chiesa di Combray ne è, in qualche modo, il monumento di memoria. Ciò che Hannah Arendt chiamava «spazio pubblico di apparizione» non è solo uno spazio metaforico di parole scambiate, ma uno spazio materiale e terreno. Inversamente, sia esso spazio di stanziamento o spazio di circolazione, lo spazio costruito consiste in un insieme di gesti, di riti per le principali interazioni della vita. I luoghi sono posti in cui succede, accade qualcosa, in cui dei cambiamenti temporali seguono dei tragitti effettivi lungo intervalli che separano e ricollegano tra loro i luoghi: ho tenuto presente l’idea di cronotopo elaborata da Bachtin, composta dal topos, il ‘luogo’, il ‘sito’, e dal chronos, il ‘tempo’. Quel che viene delineandosi nella mia esposizione, e nella nostra storia, è proprio questo spazio-tempo raccontato e costruito: è proprio ciò che intendo

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mostrare. E, in questo caso, ho adottato l’idea sviluppata da Evelina Calvi nel suo saggio Tempo e progetto. L’architettura come narrazione8 .

La «configurazione»

Il secondo stadio del racconto, che definisco «configurazione», è quello in cui l’atto di raccontare si svincola dal contesto della vita quotidiana per addentrarsi nella sfera della letteratura, dapprima tramite la scrittura e poi attraverso la tecnica narrativa: cosa corrisponda sul lato del costruire a questa elevazione del racconto dalla vita quotidiana al livello della letteratura lo vedremo poi. Mi limiterò, in primo luogo, ad analizzare i tratti principali del racconto letterario per cercarne in seguito l’equivalente.

Prendo in considerazione tre idee che costituiscono peraltro una progressione nell’atto del raccontare.

La prima, già evidenziata in una precedente analisi, è la messa-in-intrigo (ciò che Aristotele definiva mythos, dove si privilegia la parte ordinata rispetto a quella fantastica): consiste nel creare una storia a partire dagli avvenimenti, nel raccoglierli in una trama – operazione che in italiano è felicemente traducibile con il termine intreccio (la tresse). Questo intreccio consente di riunire non soltanto degli avvenimenti ma anche degli aspetti dell’azione, e in particolare dei modi di produrla, con delle cause, delle ragioni di agire e anche delle casualità. Paul Veyne, nella sua descrizione della storia, raggruppa queste tre nozioni: causa, motivo o ragione, e casualità. Tutto ciò è contenuto nell’atto di fare-racconto. Si tratta quindi di trasformazioni regolate. In effetti, si può dire che un racconto trasforma una situazione iniziale in una situazione finale attraverso degli episodi: è quindi in atto una dialettica – di cui si vedrà l’interessante parallelismo con il costruire – tra la discontinuità di qualche cosa che accade all’improvviso e la continuità della storia che prosegue attraverso questa discontinuità; per questo ho adottato l’idea di un rapporto tra concordanza e discordanza. Ogni racconto contiene una sorta di concordanza-discordanza: può darsi che il racconto moderno accentui la discordanza a dispetto della concordanza, ma questo avviene sempre all’interno di una certa unità, se non altro perché vi è sempre una prima e un’ultima pagina del romanzo. Per quanto il romanzo moderno sia decostruito, c’è sempre una prima e un’ultima parola.

Dopo la messa-in-intrigo, la seconda idea è quella dell’intelligibilità: o, meglio, della conquista dell’intelligibilità, dato che i racconti di vita sono per loro natura confusi. Ho tenuto presenti le analisi di un giudice tedesco, il quale, confrontandosi con dei clienti, alcuni querelanti e altri accusati, ha constatato il carattere inestricabile delle storie. Aveva dato al suo libro il titolo Enchevêtrés dans des

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histoires, che il mio amico Jean Greisch ha tradotto con Empêtrés dans des histoires (Impigliati nelle storie)9 .

La narratività è quindi un tentativo di chiarificazione dell’inestricabile: in questo consiste la funzione dei modi narrativi, delle tipologie di intreccio. Di conseguenza l’oggetto della narratologia è tutto ciò che riguarda l’assetto del processo, l’artificio del raccontato. Questa scienza del racconto è possibile soltanto nella misura in cui sia stata effettuata una prima operazione riflessiva su ciò che succede, sugli avvenimenti, attraverso la messa-in-intrigo ma anche attraverso quegli archetipi di intreccio che sono le modalità narrative.

La terza idea è infine quella dell’intertestualità. La letteratura consiste precisamente nel mettere uno accanto all’altro e nel confrontare tra loro dei testi distinti gli uni dagli altri ma collegati da relazioni potenzialmente molto complesse nel tempo – d’influenza, ecc., ma anche di presa di distanza –, nella genealogia della scrittura o anche nella contemporaneità. Nella classificazione in ordine alfabetico di una biblioteca quel che colpisce di più è quanto possa contrastare la vicinanza di due libri. Spesso anche la città ha questa natura: una grande intertestualità che può diventare talvolta un grido d’opposizione.

Nel racconto moderno tutte le operazioni sempre più raffinate si innestano su questa intertestualità. L’introduzione dei cosiddetti «tropi» – le tipologie di stile, l’ironia, la derisione, la provocazione, e quindi la possibilità non solo di costruire, ma anche di decostruire – rappresenta, al limite, una modalità di utilizzo puramente ludica del linguaggio che, lontano dalle cose, celebra se stesso. In particolare il nuovo romanzo, una sorta di laboratorio di sperimentazione, che, allontanandosi – forse troppo – dalle costanti note del racconto, è divenuto esplorativo.

Riassumendo, l’atto di «configurazione» possiede una triplice ossatura: da una parte l’intreccio, che ho definito come «la sintesi dell’eterogeneo»; dall’altra l’intelligibilità, il tentativo di rischiarare l’inestricabile; infine il confronto tra più racconti posti l’uno accanto all’altro, per contrasto o in sequenza che sia, vale a dire l’intertestualità.

La «configurazione» del tempo attraverso il racconto letterario è una buona guida per interpretare la «configurazione» dello spazio attraverso il progetto architettonico. Tra i due atti poetici esiste molto più di un semplice parallelismo, perché si tratta di esibire la stessa dimensione temporale e narrativa del progetto architettonico. All’orizzonte di questa ricerca c’è, come già accennato, la manifestazione di uno spazio-tempo in cui i valori narrativi e quelli architettonici si scambiano. Per maggior chiarezza espositiva, si seguirà la stessa progressione dell’analisi precedente, partendo dal primo livello del fare narrativo, attraverso l’intrigo, fino al livello riflessivo dell’autocelebrazione del logos, dell’atto poetico nel momento ludico, passando attraverso i livelli dell’intertestualità e della

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razionalità narratologica. Seguendo questo asse verticale si vedrà il parallelismo rinserrarsi fino al punto in cui sarà legittimo parlare di narratività architettonica.

Al primo livello, quello del fare architettonico parallelo alla messa-inintrigo, il tratto principale dell’atto «configurante», cioè la sintesi temporale dell’eterogeneo, trova il suo corrispettivo in una sintesi spaziale dell’eterogeneo. Si è osservato che la plastica dell’edificio compone tra loro diverse variabili relativamente indipendenti: le cellule di spazio, le forme, le superfici limite. Il progetto architettonico mira a creare oggetti in cui questi differenti aspetti trovino un’unità sufficiente: concordanza discordante, «regolarità irregolari», che fanno in qualche modo esitare l’ordine. Un’opera architettonica è dunque un messaggio polifonico che si presta a una lettura al tempo stesso inglobante e analitica. Per l’opera architettonica vale lo stesso discorso fatto per l’intreccio che, come si è visto, non raggruppa solo avvenimenti, ma anche punti di vista, sotto forma di cause, motivi e coincidenze. L’intreccio era quindi sul punto di essere trasposto dalla dimensione temporale a quella spaziale attraverso la produzione di una quasi simultaneità delle sue componenti. La reciprocità tra il tutto e la parte, e la circolarità ermeneutica dell’interpretazione che ne risultava, trova un’esatta corrispondenza nelle reciproche implicazioni delle componenti dell’architettura.

D’altro canto, il racconto offre il suo modello di temporalità all’atto di costruire, di configurare lo spazio. Non è sufficiente dire che l’operazione del costruire richiede tempo: occorre aggiungere che ogni nuovo edificio presenta nella costruzione (al tempo stesso atto e risultato dell’atto) la memoria pietrificata del suo stesso costruirsi. Lo spazio costruito è tempo condensato.

Questo incorporare il tempo nello spazio si fa ancora più manifesto se si considera il lavoro simultaneo di «configurazione» dell’atto del costruire e dell’atto dell’abitare: le funzioni abitative sono continuamente «inventate» – nei due significati del termine (trovare e creare) – in contemporanea alle operazioni costruttive inscritte nella plastica dello spazio architettonico. Si può dire che l’atto di abitare e la costruzione risultante dall’atto di costruire si plasmano nello stesso tempo. Il reciproco rinvio delle funzioni abitative e delle formazioni costruttive consiste in un movimento o in una catena di movimenti dell’intelligenza architettonica investita nella mobilità dello sguardo che percorre l’opera. Dal racconto all’edificio, è la stessa coerenza discordante che occupa la mente del narratore e quella del costruttore che si appella – come si dirà più avanti – alla mente del lettore dei segni inscritti.

Il secondo parallelo al livello della «configurazione» riguarda l’intelligibilità, il passaggio dall’inestricabile al comprensibile. È infatti l’iscrizione che trasferisce nello spazio l’atto «configurante» del racconto, l’iscrizione di un oggetto che dura grazie alla sua coesione, alla sua coerenza (narrativa, architettonica). Se la scrittura conferisce durata alla cosa letteraria, la durezza del materiale assicura durata alla

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cosa costruita. Duratadurezza: un’assonanza ormai evidenziata e commentata più volte. Si può passare quindi a un secondo livello, già riflessivo in rapporto al fare sorpreso all’opera, per prendere coscienza della portata della vittoria provvisoria sull’effimero implicata dall’atto di costruire.

Al primo stadio di riflessione, la temporalità riguarda la storia della composizione architettonica. Non si tratta tuttavia della storia scritta a posteriori sull’architettura, ma della storicità conferita all’atto «configurativo» dal fatto che ogni nuovo edificio sorge in mezzo a edifici già costruiti che presentano lo stesso carattere di sedimentazione dello «spazio» letterario. Come il racconto ha il suo equivalente nell’edificio, così il fenomeno dell’intertestualità corrisponde all’insieme di edifici già esistenti che contestualizzano la nuova costruzione. La storicità propria a questa contestualizzazione deve essere ancora una volta ben distinta da una storia retrospettiva. Si tratta della storicità dell’atto stesso di inscrivere un nuovo edificio in uno spazio già costruito che coincide largamente con il fenomeno della città, la quale deriva da un atto «configurante» relativamente distinto secondo il differenziarsi di architettura e urbanistica.

Il rapporto tra innovazione e tradizione si sviluppa al centro di questo atto di iscrizione. Come tutti gli scrittori scrivono «dopo», «secondo» o «contro», tutti gli architetti si misurano con una tradizione consolidata. E nella misura in cui il contesto costruito conserva la traccia di tutte le storie di vita che hanno scandito l’atto di abitare dei cittadini di un tempo, il nuovo atto «configurante» progetta nuovi modi di abitare che si inseriranno nel groviglio di quelle storie di vita concluse. La lotta contro l’effimero acquista così una nuova dimensione: non è più contenuta nel singolo edificio, ma nel rapporto degli edifici tra di loro.

Occorre infatti parlare anche di distruggere e di ricostruire. Non si è distrutto soltanto per odio dei simboli di una cultura, ma anche per negligenza, disprezzo o ignoranza, per sostituire qualcosa che non piaceva più con ciò che è suggerito o imposto dal nuovo gusto. Ma al tempo stesso si è altresì pietosamente ristrutturato, conservato e ricostruito, a volte in maniera identica, come nell’Europa dell’Est dopo le ingenti distruzioni delle guerre del XX secolo (si pensi a Dresda). L’effimero non si trova soltanto sul lato della natura, a cui l’arte sovrappone la sua durata-durezza, ma anche sul lato della violenza della storia, e minaccia dall’interno il progetto architettonico considerato nella sua dimensione «storica». In particolare alla fine di questo orribile XX secolo, con tutte le rovine ancora da integrare nella storia in corso (peraltro vi sono delle belle riflessioni di Heidegger sulla rovina, scritte prima della Seconda Guerra Mondiale sulla scia del romanticismo tedesco). Confrontando le idee di traccia, residuo e rovina, altre riflessioni condotte da alcuni interpreti del progetto architettonico in tono minore possono avvalersi dello spettacolo offerto a tutti dalla nuova precarietà, che la storia aggiunge alla vulnerabilità già comune a tutte le cose del mondo.

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Passando ora a un livello più elevato di riflessione, l’architettura presenta una teorizzazione in tutto e per tutto paragonabile a quella in cui, sul lato del racconto, la razionalità si tramuta in gioco ragionevole e il racconto tende al ludico. Si può addirittura affermare che la composizione architettonica non ha mai smesso di stimolare la speculazione, mentre la storia interviene ora a livello di valori formali opponendo uno stile all’altro. Il fatto che la teorizzazione architettonica non si basi soltanto sull’atto del costruire, ma anche sul suo rapporto presuntivo con l’atto dell’abitare e con i bisogni ad esso connessi, conferisce alle questioni accademiche nel campo dell’architettura un carattere particolarmente drammatico. Delle dottrine tra loro in competizione si possono dunque fare due diverse letture.

Secondo la prima lettura, le preoccupazioni formali che prevalgono in un certo stile o in una certa scuola devono essere rapportate a quel che lo strutturalismo rappresenta in narratologia, e perciò al formalismo, con il rischio che le preoccupazioni ideologiche del costruttore prevalgano sulle aspettative e sui bisogni che derivano dall’atto di abitare. La storia sedimentata delle forme culturali si può leggere soprattutto nella «configurazione» della città, attraverso il suo spazio urbano organizzato in modo rappresentativo. La monumentalità assume allora il suo significato etimologico principale, per cui monumento è sinonimo di documento. Ora, questa prima lettura non si limita a interpretare delle «configurazioni» sedimentate del passato, ma si proietta anche verso il futuro dell’arte di costruire, verso ciò che merita a pieno titolo la definizione di progetto architettonico. In un passato recente, infatti, da cui gli attuali costruttori si sforzano di prendere le distanze, i membri del Bauhaus, i fedeli di Mies van der Rohe, di Le Corbusier, hanno pensato la loro arte di costruttori in relazione con i valori di civiltà ai quali aderivano, in funzione del ruolo che attribuivano alla loro arte nella storia della cultura.

In base alla seconda lettura, il formalismo concettuale trova il suo limite nelle rappresentazioni che i teorici si fanno dei bisogni delle popolazioni. In un certo senso questa preoccupazione è sempre esistita, ma in un passato non troppo remoto venivano prese in considerazione soltanto le attese di una determinata categoria di abitanti (prìncipi, dignitari religiosi, a seguire i grandi borghesi) e il bisogno di fastosa esibizione delle istituzioni dominanti. L’epoca contemporanea si contraddistingue certamente per la presa di coscienza delle necessità delle masse, della folla, che anch’esse a loro volta guadagnano in visibilità, ma sotto il segno della dignità più che della gloria. Non si giunga tuttavia alla conclusione che questo approccio al progetto architettonico sia meno ideologico del precedente: troppo spesso, infatti, a influenzare la speculazione sulla destinazione dell’architettura non è il bisogno di abitare delle suddette masse ma la rappresentazione che se ne costruiscono i «competenti» – e i grattacieli ne sono il segno. Questo spiega la reazione contraria di coloro che auspicano un ritorno

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all’architettura pura, svincolata da ogni sociologia e da ogni psicologia sociale, vale a dire da ogni ideologia. Ci si trova quindi di fronte a una rivendicazione simile a quella avanzata dai teorici del nuovo romanzo, tramite la celebrazione del linguaggio per se stesso, dove le «parole» si dissociano irreversibilmente dalle «cose» e la rappresentazione lascia spazio al gioco. Narratività e architettura seguono dunque dei corsi storici simili.

La «rifigurazione»

Concludo con alcune riflessioni su ciò che nelle mie categorie letterarie ho chiamato «rifigurazione», e di cui vorrei mostrare il parallelo sul lato dell’architettura. Con questa terza componente, che corrisponde alla lettura sul lato del racconto, l’avvicinamento tra racconto e architettura si fa ancora più stretto, fino al punto in cui il tempo raccontato e lo spazio costruito si scambiano i loro significati.

Mettendosi in un primo tempo dalla parte del racconto, bisogna dire che esso conclude il suo percorso non nell’ambito del testo scritto, ma nel suo confronto diretto con il lettore, protagonista dimenticato dallo strutturalismo. Questo spostamento d’accento dalla scrittura alla lettura lo dobbiamo all’estetica della ricezione, inaugurata da H.R. Jauss e dalla scuola di Costanza: la negazione della referenzialità tipica dei teorici che seguono De Saussure viene così compensata dal riconoscimento della dialettica tra scrittura e lettura. Si tratta infatti proprio di dialettica: ripreso e assunto nell’atto di leggere, il testo dispiega la sua capacità di chiarire o d’illuminare la vita del lettore. Possiede la facoltà di scoprire, di rivelare ciò che è nascosto, il non-detto di una vita sottratta all’esame socratico, ma al tempo stesso anche la facoltà di trasformare l’interpretazione banale fatta dal lettore secondo il declivio della quotidianità. Rivelare (secondo un senso della verità a cui Heidegger ci ha reso sensibili), ma anche trasformare, ecco cos’è in grado di fare il testo al di là di se stesso.

Questa dialettica è passibile tuttavia di una duplice interpretazione, dato che il lettore giunge al testo con le proprie aspettative: queste aspettative sono esaminate e confrontate con le proposizioni di senso del testo durante la lettura, che può attraversare tutte le fasi, dalla ricezione passiva, o perfino coatta (Madame Bovary, la lettrice di cattivi romanzi!), fino alla lettura reticente, ostile, collerica, prossima al rifiuto scandalizzato, passando per la lettura attivamente complice. Tengo a sottolineare che grazie a questa lettura agonistica l’intertestualità si lascia incontrare come una grande sfida: quello che per il creatore era un problema di posizionamento rispetto ai suoi pari, per l’appassionato diventa un problema di lettura plurale, polemica. Si vede già quale apertura si produca così, dalla parte del possibile, nella comprensione di sé.

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Per quanto riguarda il costruire abbiamo incontrato, nello stesso tempo, la possibilità di leggere e di rileggere i nostri luoghi di vita a partire dal nostro modo di abitare: la forza del modello della lettura è grande al fine di rivalutare l’atto di abitare. Nel momento della «prefigurazione», abitare e costruire sono stati praticamente la stessa cosa, ed era impossibile stabilire quale dei due precedesse l’altro. Nel momento della «configurazione», il costruire ha avuto la meglio sotto forma di progetto architettonico, al quale si è potuto rimproverare un’inclinazione a misconoscere i bisogni degli abitanti o a proiettare questi bisogni in una loro rappresentazione mentale.

È ora di parlare dell’abitare come risposta, o perfino come reazione al costruire, sul modello dell’atto antagonista della lettura. Affinché un progetto architettonico venga compreso e accettato non basta infatti che sia ben pensato e ritenuto razionale. Ogni pianificatore dovrebbe allora essere consapevole che un abisso può separare le regole di razionalità di un progetto dalle regole di ricezione da parte di un pubblico – cosa valida d’altronde per ogni politica. Occorre dunque imparare a considerare l’atto di abitare come un centro non solo di bisogni ma anche di aspettative. E così può essere riproposto lo stesso ventaglio di risposte, dalla ricezione passiva, subìta, indifferente, fino alla ricezione ostile e corrucciata (anche per la Torre Eiffel, all’epoca!).

Abitare come replica del costruire. Come la ricezione del testo letterario comporta un tentativo di lettura plurale, di approccio paziente all’intertestualità, così l’abitare ricettivo e attivo implica una rilettura attenta dell’ambiente urbano, un riapprendimento continuo della giustapposizione degli stili, e quindi anche delle storie di vita di cui recano traccia tutti i monumenti e gli edifici. Fare in modo che queste tracce non siano soltanto dei resti, bensì delle testimonianze riattualizzate del passato che non è più ma che è stato, fare in modo che l’esser-stato del passato sia salvaguardato nonostante il suo non-essere-più: è quanto può la «pietra» che dura.

In conclusione, abbiamo ricostruito l’idea divenuta un po’ banale di «luogo di memoria», ma come composizione ragionata e riflessiva dello spazio e del tempo. A essersi assommate e conservate nei luoghi in cui sono inscritte sono in effetti memorie di epoche differenti. Questi luoghi di memoria richiedono inoltre un lavoro della memoria, nel senso in cui Freud oppone tale lavoro alla ripetizione ossessiva, definita «coazione alla ripetizione», dove è annullata la lettura plurale del passato e reso impossibile l’equivalente spaziale dell’intertestualità.

Stesso gioco, quindi, per la cosa costruita e per il testo letterario perché, in entrambi i casi, si agita un antagonismo tra i due tipi di memoria: per la memoria-ripetizione ha valore solo ciò che è ben conosciuto, mentre il nuovo risulta odioso; per la memoria-ricostruzione la novità deve essere accolta con curiosità e con la preoccupazione di riorganizzare l’antico per far posto al nuovo. Non si tratta, in

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altri termini, se non di de-familiarizzare ciò che è familiare e di familiarizzare il non-familiare. Vorrei concludere con questa lettura plurale delle nostre città, ma non senza aver detto che il lavoro di memoria (preferisco l’espressione «lavoro di memoria» a «dovere di memoria» dal momento che, essendo il lavoro di memoria un’esigenza di vita, non capisco perché mai la memoria dovrebbe essere un dovere) non è possibile senza un lavoro di lutto.

Ho fatto riferimento alle rovine dell’Europa della metà del secolo. Oltre che di monumenti andati distrutti, e di vite perdute, si tratta anche di epoche, perché si è smarrito il modo di comprendersi di allora: occorre dunque elaborare il cordoglio della comprensione totale e ammettere che nella lettura delle nostre città vi è dell’inestricabile. Le nostre città alternano la gloria e l’umiliazione, la vita e la morte, gli eventi fondatori più violenti e la dolcezza di vivere. Questa è la sintesi che è possibile fare della loro lettura.

L’ultima parola la lascio a Walter Benjamin, pensatore che ammiro profondamente. In Parigi, capitale del XIX secolo egli scrive: «Il flâneur cerca un asilo nella folla. La folla è il velo attraverso il quale la città familiare appare al flâneur come fantasmagoria»10. Dobbiamo essere i flâneur dei luoghi di memoria.

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2. LA CITTÀ È FONDAMENTALMENTE IN PERICOLO LA SUA SOPRAVVIVENZA DIPENDE DA NOI* 1

A che titolo un filosofo può intervenire oggi nella vita pubblica? Con quale scopo? Con quali mezzi?

In materia di politica non possiamo aspettarci da un filosofo un discorso realmente dimostrativo. Conviene innanzitutto liberarsi dall’illusione che possa esistere una politica scientifica: il marxismo-leninismo si è rivelato colpevole, e non solo fallace, proprio nel far credere che potesse esistere un socialismo scientifico. Il genere di conoscenza che possiamo raggiungere in questo ambito non appartiene all’ordine del sapere scientifico.

Certamente esistono delle «scienze politiche», ma si tratta di discipline essenzialmente descrittive che studiano, ad esempio, il funzionamento dei regimi costituzionali o i comportamenti elettorali. Le loro ricerche non mirano assolutamente a elaborare una conoscenza realmente scientifica dei princìpi e dei meccanismi di potere, cosa che è a rigore impossibile.

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Tuttavia questo non significa affatto che il discorso politico sia consegnato all’arbitrio. In uno dei saggi di Lectures I2 , ho proposto di collocarlo al livello retorico; non si tratta di un modo per screditarlo, anzi, al contrario, in questo livello si risollevano le sorti di argomenti che, senza elevarsi al piano della dimostrazione, della prova logica o scientifica, non scadono in quello della sofistica, in cui si cerca di estorcere l’accordo altrui tramite l’adulazione o l’intimidazione. Tra dimostrare e sedurre c’è spazio per argomenti probabili oppure, se si preferisce, verosimili o semplicemente plausibili. A questo livello, la persuasione viene ricercata per mezzo di una discussione regolata. Credo dunque che esista una buona retorica, e che il discorso politico possa collocarsi a questo livello.

Questo collegamento tra la retorica e la discussione, però, non risponde ancora alla domanda: a che titolo un filosofo può oggi intervenire nella discussione politica?

Se si riconosce che la democrazia è il regime politico basato su una discussione pubblica a cui partecipa il maggior numero possibile di cittadini, la sua domanda è al contempo una domanda sulla democrazia. Detto ciò, occorre innanzitutto interrogarsi sulle poste in gioco di una tale discussione pubblica, ed è in questo che la filosofia può intervenire.

Per quanto mi riguarda ho cercato di distinguere, nella discussione pubblica, le poste in gioco più vicine da quelle a medio termine e a lungo termine.

Per capire in cosa consistano le poste in gioco più vicine si parta da questa idea: le società industriali avanzate possono essere considerate degli operatori di distribuzione. Ma troppo spesso si dimentica che distribuiscono beni eterogenei: alcuni sono beni di mercato (redditi, patrimoni, servizi, ecc.), altri sono beni che non possono essere né comprati né venduti (educazione, sanità, sicurezza, impiego pubblico, cittadinanza, ecc.). Vi è quindi una pluralità di beni qualitativamente differenti tra i quali non è possibile individuare nessuna priorità che si imponga di per sé come un’evidenza assoluta o come un ordine delle cose.

Il primo obiettivo dell’intervento del filosofo può perciò essere quello di fare acquisire la consapevolezza dell’esistenza di questa situazione: i beni da distribuire sono eterogenei e nella scelta delle priorità non vi è nessun ordine che si impone.

La scelta deve essere quindi oggetto di una discussione: quale ordine di priorità risulta preferibile alla maggior parte delle persone in una data società? Un compito di chiarificazione che mi sembra spetti al filosofo consiste nel far comprendere la natura di tale scelta e delle sue poste in gioco.

Ma questo è soltanto un primo livello del suo intervento…Infatti. Il secondo livello, vale a dire quello delle poste in gioco medie o

intermedie, consiste nel comprendere secondo quali princìpi viene impostata la scelta di ciò che è preferibile. Si incontrano quindi dei termini fortemente sovraccarichi di ideologia: giustizia, libertà, uguaglianza, fraternità… Alcuni

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rappresentanti della filosofia analitica hanno considerato queste nozioni come irrevocabilmente corrotte dall’ideologia e ritengono che la riflessione filosofica dovrebbe estrometterle dalle proprie preoccupazioni. Io non condivido questa posizione.

Penso al contrario che sia possibile progredire efficacemente nella distinzione dei differenti significati di questi termini. Un secondo compito della chiarificazione filosofica consiste nel dipanare i significati multipli e talvolta intricati di questi concetti depositari di una lunga storia, nel far riemergere i loro diversi aspetti e mostrare in cosa si differenziano e, a volte, si sovrappongono (per esempio, il concetto di libertà può sovrapporsi in parte al concetto di uguaglianza). I discorsi politici utilizzano quotidianamente questi termini senza la consapevolezza che in essi si affiancano molteplici elementi talvolta incompatibili tra loro.

Qual è l’ultimo livello, ossia la posta in gioco più lontana dell’intervento del filosofo?

È quello che riguarda l’orientamento generale, la scelta globale delle nostre società – come, ad esempio, la scelta di una crescita e di un consumo illimitati. In questo caso, l’azione del filosofo non può limitarsi semplicemente a una chiarificazione dei concetti: l’analisi deve essere necessariamente accompagnata da una scelta, da una preferenza intima in favore della quale il pensatore si schiera personalmente. In effetti, concetti fondamentali come quelli di giustizia, di uguaglianza, di libertà, ecc. hanno un contenuto intellettuale tale da poter costituire l’oggetto di analisi teoriche. Ma d’altro canto il loro significato assume valore soltanto se vi si aderisce per intima convinzione. È per questo che se ne parla in termini di «valori».

Questi valori esisterebbero dunque solo grazie a una fede in essi?Non è così semplice. Non si può dire che i valori siano inventati da coloro che vi

credono. Lo statuto dei valori è in effetti molto particolare e difficile da comprendere: gli uomini politici se ne dimenticano troppo spesso quando fanno riferimento ai «valori repubblicani» o ai «valori della democrazia», come se queste espressioni fossero di per sé chiare e non sollevassero nessuna difficoltà.

La nozione di valore ha uno statuto particolare per due motivi. In primo luogo, combina in modo singolare l’oggettività e la soggettività: da un lato un valore si impone a qualcuno con una certa autorità, come un elemento ereditato per tradizione, e in questo senso è provvisto di oggettività; dall’altro lato il valore non esiste realmente se non perché vi si aderisce, come se l’essere convinti della sua validità fosse anche la condizione della sua effettiva esistenza.

In secondo luogo, i valori si collocano a metà strada tra le convinzioni durevoli di una comunità storica e i continui ripensamenti richiesti dai cambiamenti di epoca e di circostanze, con l’emergere di nuovi problemi come quelli ambientali,

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dell’applicazione delle tecnologie biologiche al controllo della vita, dell’economia su scala mondiale, ecc.

Per illustrare questa seconda particolarità dei valori, si può fare riferimento a ciò che vede un passeggero dal finestrino di un treno: il paesaggio scorre, ma non tutti i piani scorrono alla medesima velocità; gli orizzonti lontani scivolano lentamente mentre le scarpate vicine passano a gran velocità. Dal mio punto di vista, i valori sono in una posizione intermedia e specifica, della quale nei dibattiti attuali ci si dimentica troppo spesso: i dogmatici confidano con eccessiva tranquillità nell’immobilità dell’orizzonte; i nichilisti sottolineano con troppa facilità la scomparsa istantanea di ciò che appare in primo piano e la fragilità dei valori. Ritengo al contrario che le grandi categorie direttive del politico si collochino a metà strada tra questi due estremi: non passano in un battito di ciglia, ma si inseriscono in un lungo periodo; d’altro canto sono anche essenzialmente corruttibili e per rispondere alle mutazioni molto rapide della nostra storia devono essere continuamente riattualizzate.

Significa che ne siamo responsabili?Esattamente, ma secondo un’accezione nuova e particolare dell’idea di

responsabilità che dobbiamo al filosofo Hans Jonas. Fino ad ora si attribuiva la responsabilità a qualcuno soltanto per atti passati dei quali era riconosciuto essere l’autore e che potevano quindi venirgli imputati. All’opposto, Hans Jonas, neprincipio Il principio responsabilità3 , elabora l’idea di una responsabilità rivolta al futuro lontano: ci è affidato qualcosa di essenzialmente fragile; l’oggetto della responsabilità – afferma Jonas – è minacciato in quanto tale, che si tratti della vita o dell’equilibrio del pianeta.

Ma si tratta anche della città. La città è fondamentalmente in pericolo. Come è stato sottolineato da Hannah Arendt, la sua sopravvivenza dipende da noi. In effetti nessun sistema istituzionale si mantiene nel tempo senza il sostegno di una volontà di vivere insieme, che è in atto ogni giorno anche se ce ne dimentichiamo. Se viene a mancare questa volontà, tutta l’organizzazione politica crolla molto rapidamente – il nostro secolo ce ne ha forniti molteplici esempi, in particolare in occasione di grandi sconfitte.

Ritiene che la crescente indifferenza verso la vita politica nasconda questo rischio?

Si potrebbe essere tentati di trattare questa forma di astensionismo con indulgenza. Negli Stati Uniti parecchi cittadini, e tra questi molti studenti, si dispensano dal partecipare alla cosa pubblica in quanto sono convinti che le loro istituzioni abbiano un’esistenza sufficientemente solida. È un errore: la città non esiste mai grazie alla sola inerzia del suo sistema istituzionale. Hannah Arendt

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distingue acutamente l’autorità dal potere: l’autorità dipende da un sistema istituzionale che fa sempre riferimento a un passato, a delle istituzioni più antiche le quali non possono che «aumentare» il potere. Il potere, al contrario, è in un certo senso istantaneo: esiste qui ed ora, fintanto che noi lo vogliamo insieme. L’oggetto della nostra responsabilità è proprio il dare continuità e rinnovare questo volere.

Responsabilità soltanto politica o anche morale? Le due sono separabili?Queste due responsabilità sono indissociabili, ma ancora una volta in un senso

particolare. Ciò che caratterizza l’ambito politico non è né l’etica né la morale – la cui distinzione non ha importanza in questo contesto – ma l’esistenza di mediazioni istituzionali. Il politico sorge nel momento in cui una comunità storica si organizza al fine di acquisire la capacità di prendere delle decisioni collettive. Il «voler vivere insieme» viene trasposto su un nucleo istituzionale che è più forte rispetto a ciascuno: l’esistenza dello Stato si basa quindi su una sorta di disappropriazione degli individui. Questo spossessamento è fondativo, e in tal senso necessario, ma nel contempo genera le forme specifiche del male politico. Il politico, infatti, è predisposto a dei mali caratteristici per il fatto stesso che sembra capace di esistere al di sopra di noi o, al limite, contro di noi. In quanto puro fenomeno di potere può perciò corrompersi, indipendentemente dalla sua base sociale ed economica.

Per questo il politico deve rimanere sotto sorveglianza. Merita qui di essere sottolineata l’eredità del pensiero liberale: conviene diffidare degli abusi del politico e vigilare nel controllo, dividendolo contro se stesso, mettendo in gioco dei contro-poteri contro il potere stesso. Su questo punto Montesquieu è stato più chiaro di Rousseau. Ai mali specifici del politico deve rispondere una terapeutica appropriata.

I benefici connessi all’istituzionalizzazione del «volere politico» comporterebbero quindi come contropartita il rischio di assoggettamento o di dominio incontrollato.

Sì. E quest’ultimo può assumere forme in apparenza moralmente neutre. Al giorno d’oggi, ad esempio, deleghiamo agli esperti le decisioni riguardanti i problemi economici, finanziari, fiscali, ecc.: ci viene detto infatti che questi settori sono diventati talmente complessi che occorre affidarsi ai giudizi di coloro che hanno competenza in materia. Con questo, in realtà, si realizza una sorta di espropriazione del cittadino: la discussione pubblica si trova così catturata e monopolizzata dagli esperti.

Non si tratta di negare che esistono settori nei quali per risolvere i problemi sono necessarie competenze giuridiche, finanziarie o socio-economiche molto specializzate. Si tratta invece di ricordare anche, e con molta fermezza, che per

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quanto riguarda la scelta delle poste in gioco globali gli esperti non sono più compenti rispetto a ciascuno di noi. Occorre recuperare, dietro quei falsi misteri, la semplicità delle scelte fondamentali.

Nei settori richiamati all’inizio, questo equivale a definire delle priorità nella distribuzione dei beni molteplici e fra loro non sempre commisurabili, a chiarire i criteri generali che determinano queste scelte e, infine, a mettere in discussione l’orientamento globale della nostra civilizzazione. Mi sembra che in questo gli esperti stessi siano alla ricerca di chiarimenti e di consigli.

In ogni caso, non sono più qualificati di noi e le decisioni di fondo non possono spettare esclusivamente a loro. Il compito di un educatore politico è anche quello di re-immettere costantemente nel flusso della discussione pubblica ciò che viene monopolizzato abusivamente dagli specialisti.

Al giorno d’oggi, dopo il crollo delle grandi speranze rivoluzionarie, vi sono modelli capaci di sostituire quello della crescita e del consumo?

In un primo tempo, la morte delle ideologie può suscitare scoraggiamento o smobilitazione. Questo fenomeno, però, è superficiale e addirittura fittizio, in quanto noi attendiamo sempre qualcosa. Come ha affermato il filosofo Koselleck, la coscienza storica degli individui o delle comunità si regge sul contrasto tra un orizzonte di attesa nel quale ci proiettiamo e uno spazio d’esperienza nel quale siamo radicati. Che cosa significa questo per noi europei?

L’Europa ha la fortuna di essere intessuta di molteplici tradizioni: eredità giudaica e cristiana, greca e latina, umanesimo rinascimentale e della Riforma, progetto illuministico e socialismi del XIX secolo. Nessuna di queste tradizioni è sfuggita alla critica, ma al tempo stesso nessuna si è veramente esaurita né totalmente compiuta: occorre ripensarle in funzione delle nuove esigenze della Storia, poiché una tradizione è viva soltanto se fornisce spunti d’innovazione, se rappresenta una risorsa da reinterpretare e non un’eternità rappresa.

Abbiamo alle spalle così tanti progetti incompiuti, così tante promesse ancora non mantenute, da poter costruire un futuro attraverso la rivivificazione di queste molteplici eredità. Per uno strano paradosso, le utopie più forti possono derivare soltanto da ciò che nelle nostre tradizioni è rimasto incompiuto e che permane come una risorsa di significato, come una riserva di senso. Le utopie future non possono sorgere dal nulla, e non potrebbero nemmeno derivare direttamente dal passato: ma sarebbero senza forza se non recuperassero ciò che non si è ancora esaurito di questo molteplice passato.

Per esempio?Al giorno d’oggi l’idea di perdono, d’origine teologica, ha delle implicazioni

politiche straordinarie! Non dobbiamo confinarla soltanto nell’ambito delle

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relazioni interpersonali. Il cancelliere Brandt che si inginocchia a Varsavia, o Václav Havel che scrive al presidente tedesco per chiedere perdono per ciò che i cechi hanno compiuto nei Sudeti tra il 1945 e il 1948, sono gesti che mi sembrano avere una notevole importanza per la costruzione della dimensione culturale e spirituale dell’Europa. Dobbiamo diventare capaci di scambiare le nostre memorie nazionali o etniche e di esercitare gli uni verso gli altri sia la volontà di non dimenticare, sia quella di perdonare, vale a dire di liberare la memoria altrui dal peso della colpevolezza!

* Intervista di Roger-Pol Droit.

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3. URBANIZZAZIONE E SECOLARIZZAZIONE1

Lo scopo di questa esposizione è duplice: a) analizzare i rapporti tra il fenomeno dell’urbanizzazione, considerato nel suo grado massimo di sviluppo, e il fenomeno culturale di secolarizzazione; b) indagare quali compiti si presentano oggi – nella città all’epoca della secolarizzazione – a una teologia della cultura e, più in generale, alla predicazione della Chiesa. Il primo di questi due progetti è già di per sé impegnativo in quanto mette in contatto diretto due fatti sociologici molto importanti che competono a metodi differenti: da un lato la sociologia urbana, settore della sociologia delle società industriali avanzate, e dall’altro lato la sociologia della cultura2.

I. La città

Partendo dal fenomeno dell’urbanizzazione ne prenderò in considerazione alcuni caratteri scelti in funzione delle possibilità offerte all’uomo dalla grande città, allo scopo di confrontarli poi con il fenomeno della secolarizzazione.

1. Moltiplicazione, astrazione ed estensione delle relazioni e degli scambiLimitandosi al suo aspetto quantitativo si sfiorerebbe solo marginalmente il

fenomeno «città», in quanto il carattere di agglomerato umano in uno spazio concentrato non riesce a definire la città in modo né comprensivo né parziale: essa è innanzitutto un fatto di comunicazione; simile a un enorme svincolo, a un gigantesco quadro degli strumenti, istituisce tra gli uomini un reticolo denso e ramificato di relazioni, non solo più numerose, ma anche più lunghe, più varie, più specializzate e più astratte. Per l’uomo tutto questo significa avere allo stesso

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tempo sia occasioni di incontro che occasioni di scelta sempre più numerose. Si potrebbe descrivere il fenomeno in termini di informazione: la città sottopone l’uomo a un diluvio di segnali e lo costringe a una decodificazione di messaggi che aumentano contemporaneamente il suo campo d’informazione e il suo campo di decisione.

Con Harvey Cox mi sono interessato a un effetto presentato di solito come una piaga della civilizzazione moderna: l’anonimato delle relazioni umane. Occorre invece descriverlo innanzitutto in maniera neutra, come una nuova ridistribuzione tra privato e pubblico e – ancor più fondamentalmente – come una reazione di difesa o, meglio ancora, come una immunizzazione contro le innumerevoli interferenze altrui dovute alla molteplicità dei contatti. Per instaurare o proteggere delle relazioni personali elettive e preziose non c’è altro modo se non neutralizzare la maggior parte degli scambi sociali: il socius diventa tollerabile nella misura in cui gran parte delle nostre relazioni restano segmentarie. Questa spersonalizzazione della maggior parte delle nostre relazioni ha un aspetto positivo nella misura in cui riserva un ambito di incontro autentico. Ciò significa almeno che non tutte le relazioni sociali possono essere trascritte nel linguaggio dell’«io» e del «tu».

2. Mobilità accelerata (geografica, residenziale, professionale, sociale, psicologica, ecc.)

La città può essere descritta come un contesto di migrazione interna. Questo fenomeno si ricollega al precedente in quanto è la migrazione che produce l’instaurarsi delle relazioni e dei contatti precedentemente evocati. La mobilità aggiunge però un tratto nuovo: per la maggior parte degli uomini il luogo di residenza e quello di lavoro sono adesso molto distanti tra loro, e questa distanza geografica implica anche una distanza psicologica. I diversi ruoli sono dissociati e dilaniati: i cambiamenti di ruolo assumono la forma del viaggio, a volte quella di uno spaesamento, sempre quella di una de-familiarizzazione. Per l’uomo moderno la mobilità è una prova certa: obbliga al cambiamento sociale, talvolta a quello professionale; richiede una grande flessibilità di accoglienza e confronto; abbassando le soglie di accettazione e di tolleranza rende più difficili gli scontri tra convinzioni rivali facendoli oscillare dall’aggressività all’indifferenza. Inoltre, la mobilità accelerata non è avvertita da tutti i gruppi sociali nello stesso modo: come sanno bene tutti i migranti, per i non privilegiati lo sradicamento è la via difficile per l’adattamento al mondo moderno; per essi la mobilità è finalmente liberante, ma al prezzo di notevoli sofferenze. Per i privilegiati, invece, la mobilità assume spesso la forma del viaggio e delle vacanze, e nonostante il nomadismo e lo sradicamento che la caratterizza, i suoi effetti culturali sono ampiamente benefici.

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3. Organizzazione concentrataLa concentrazione geografica richiamata all’inizio rappresenta solo l’aspetto

superficiale e quantitativo di un fenomeno funzionale molto più importante che ha origine nell’organizzazione moderna del lavoro. La «metropoli» è la «tecnopoli», dominata dal modello burocratico di divisione e organizzazione del lavoro. La città è il luogo in cui si avverte fisicamente la conversione del settore primario nel secondario (gli antichi contadini e artigiani divenuti cittadini) e la crescita rapida del territorio (commercio e distribuzione, amministrazione e relazioni sociali, istruzione e divertimenti, ecc.). Nella città l’assembramento degli uffici direzionali delle industrie, del sistema bancario, del sistema di distribuzione, scambio e vendita mostra agli occhi di tutti che siamo nel regno dell’uomo dell’organizzazione. Attorno a questo nucleo tecnologico si snoda il sistema – molto differenziato – delle infrastrutture educative, sanitarie, dei divertimenti e del tempo libero, ecc. Tutto ciò rende la città l’apparato logistico dei ruoli sociali.

4. L’immagine che la città ha di séLa rappresentazione collettiva che l’uomo elabora è parte integrante del

«fenomeno» città tanto quanto la sua realtà. Sia che si pensi alle immagini mitiche della «città» come forma visibile di un modello celeste (Babilonia, Gerusalemme, in una parola tutte le «città di Dio»), sia che si pensi all’identificazione greca tra la città e la cellula del politico (polis), c’è sempre un’immagine della città. Ebbene, noi moderni percepiamo la città come la principale testimonianza dell’energia umana: la città è l’opposto della terra, che è un prodotto della natura. La città è l’artificio assoluto, realizzazione del progetto umano. Questa immagine del potere umano è al contempo immagine di un’energia rivolta essenzialmente verso il futuro. La città è sempre in progettazione, protesa verso il proprio futuro. La città è il luogo in cui l’uomo percepisce il cambiamento come progetto umano; il luogo in cui l’uomo intravede la propria «modernità».

La città implica allora solo degli aspetti positivi? L’ho descritta in termini neutri, come una nuova qualità delle relazioni umane. Questa opportunità, questa possibilità, è vissuta a volte come liberazione e a volte come costrizione: liberazione dalle costrizioni del villaggio e della cittadina, ma nuovo tipo di costrizione. Impossibile quindi negare la patologia della città, mischiata inestricabilmente alla ricerca di un nuovo equilibrio dinamico. Oggi si parla di «urbanistica» proprio perché questa patologia è avvertita come insopportabile: l’urbanistica è la risposta alla patologia urbana. Significa che la città non può continuare a crescere secondo il suo moto naturale, ma questo deve essere controllato, regolato e orientato. Non c’è solo una patologia della città, perché questa è l’espressione mostruosa della patologia della società globale: la città svolge una funzione di drenaggio rispetto a tutto il patologico diffuso.

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I quattro caratteri principali attorno ai quali è stata organizzata la descrizione della città odierna presentano difatti ciascuno una propria patologia.

La comunicazione è avvertita come un eccesso di segnali, un diluvio di informazioni che logorano, nel senso fisico e psichico del termine, la nostra capacità di integrazione e di discernimento. L’ingorgo delle nostre città è il simbolo di un tratto patologico generale: l’intasamento e la saturazione delle relazioni, che non uniscono più. L’anonimato non è soltanto un modo per renderci immuni dall’eccesso di segnali e di segni, ma è anche una sottile destituzione dello stesso spazio privato.

La mobilità non è solo funzionale, ma anche aberrante: l’ammassamento degli emarginati nelle periferie delle nostre città, la fuga dei ricchi verso la cintura urbana, il deterioramento delle grandi città a partire dal centro, attestano che la mobilità sociale non è un fenomeno esclusivamente positivo. Il neo-nomadismo dell’uomo moderno significa anche sradicamento e perdita di un centro. Nell’eccesso dei confronti, l’abbassamento del tasso di tolleranza insinua l’indifferenza e il cinismo.

La concentrazione organizzata ha anch’essa la sua patologia. Le nostre città soffrono nello stesso tempo di un eccesso di organizzazione burocratica e di una carenza di amministrazione; la città moderna è come un fenomeno canceroso incontrollato in cui l’uomo percepisce il proprio destino al contempo come massiccio e parcellare: luogo della costrizione generalizzata, della sovra-repressione descritta da Herbert Marcuse, essa è anche il luogo della segmentazione della personalità.

Abbiamo infine descritto la città come l’immagine dell’energia umana, ma questa energia – nella misura in cui è dominata dalla tecnica – rischia di perdersi in un futurismo vuoto, in un prometeismo vano, a causa della perdita della memoria. Tutto l’ambito tecnologico è un ambito futurista senza tradizione: l’invenzione tecnica si accumula cancellando il proprio passato. È vero che le «vecchie città» sono anche delle città d’arte, a volte degli autentici musei; la città è allora uno svincolo da un altro punto di vista rispetto al precedente: uno svincolo fra la tradizione e la proiezione del futuro. Ma nella misura in cui l’elemento dominante nella costruzione della città è tecnologico, la città rischia di essere anche il luogo nel quale l’uomo percepisce l’assenza di qualsiasi progetto collettivo e personale, l’ingranaggio dei mezzi nell’assenza di scopi e nella perdita del senso.

Nella riflessione che segue, relativa a quella parte di azione terapeutica di cui sono oggi responsabili le società di cultura e di pensiero e – con esse e tra esse – le comunità ecclesiali, si dovrà tenere presente questa ambiguità e ambivalenza della città.

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II. Il rapporto tra secolarizzazione e urbanizzazione

Si tengano a mente alcune nozioni fondamentali circa la secolarizzazione. Con secolarizzazione si intende innanzitutto un fenomeno istituzionale, ossia l’emancipazione della maggior parte delle attività umane dalle istituzioni ecclesiastiche. In questo primo senso, la secolarizzazione è sinonimo di laicizzazione: il comune cessa di coincidere con la parrocchia, l’autorità politica si separa dall’autorità religiosa. Il trasferimento del potere dall’uomo di Chiesa all’uomo civile e politico è stato contrassegnato da una serie di crisi che hanno interessato l’uno dopo l’altro i comuni, gli ospedali e le scuole.

In un secondo senso la secolarizzazione si caratterizza per l’abolizione della distinzione tra la sfera del sacro e quella del profano. Questa distinzione che attraversa il tempo (festa e giorni profani), lo spazio (luoghi santi e edifici pubblici), i ruoli sociali (il prete e il laico), la rappresentazione del mondo (il cielo e la terra), i sentimenti (la pietà e la giustizia) tende a scomparire per l’uomo moderno; e questa scomparsa caratterizza la modernità in quanto tale. La dissoluzione delle tradizioni religiose particolari, che appaiono al giorno d’oggi come dei provincialismi culturali che resistono alla società industriale universale, si ricollega a tale soppressione.

Sullo sfondo dei due fenomeni precedenti si può individuare un fattore fondamentale di carattere antropologico: la promozione dell’uomo come soggetto autonomo della propria storia. Questo fenomeno è stato spesso indicato come il farsi adulto dell’uomo: al limite, si può descriverlo come la promozione dell’uomo a-religioso – nel senso inteso da Bonhoeffer quando presagiva l’approssimarsi di un tempo senza religione, un tempo dell’uomo senza alcuna religione.

Come si ricollega dunque il fenomeno della città a quello della secolarizzazione sopra descritto per sommi capi? Si può dire che ne è sia l’effetto che la causa. La città accelera la secolarizzazione proprio mentre quest’ultima ne costituisce la condizione culturale di possibilità. Così, l’uomo della comunicazione anonima – mostrata precedentemente come primo carattere dell’urbanizzazione – è certamente un uomo secolarizzato: per lui le relazioni esteriori prevalgono sull’interiorità. La mobilità accelera poi la secolarizzazione perché infrange la chiusura delle società tradizionali e condanna gli uomini a una totale mescolanza. Allo stesso modo, anche l’organizzazione è un fattore di secolarizzazione in quanto costringe a rappresentarsi i ruoli sociali in modo essenzialmente laico: questi sono sempre meno degli «ordini» con fondamento tradizionale e sacrale, delle istituzioni di origine mistica che affondano le radici in un passato lontano; sono invece sempre più delle relazioni funzionali e non tradizionali che non aspirano ad alcuna origine o significato ultimo. Orientate verso il futuro più che radicate nel passato, queste relazioni non pretendono di donare un senso ultimo alla vita: sono

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segmentarie e non inglobanti. Tutto questo è stato sottolineato con forza da Harvey Cox. Da ultimo è inutile insistere sul carattere profano, radicalmente secolarizzato, dell’immagine della città: la città è effettivamente il mondo da cui gli dèi sono fuggiti e in cui l’uomo è consegnato a se stesso, alla responsabilità dell’artificio integrale.

III. Per una teologia della cultura

Sarebbe inutile tentare di articolare, partendo direttamente da questa descrizione, una riflessione ecclesiologica e domandarsi quale possa essere il compito della Chiesa nell’epoca della secolarizzazione e dell’urbanizzazione. Al giorno d’oggi, tra la sociologia e l’ecclesiologia occorre inserire una teologia della cultura. E bisogna riconoscere che in questo intervallo resta ancora tutto – o quasi tutto – da realizzarsi. Per questo La città secolare di Harvey Cox rappresenta, malgrado il suo carattere improvvisato, uno studio pionieristico.

Innanzitutto Harvey Cox formula la questione correttamente: per poter assumere nella predicazione cristiana i motivi fondamentali della secolarizzazione, occorrerebbe che tale processo avesse delle radici nelle origini stesse di questa predicazione, vale a dire nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Questa è certamente la questione preliminare. In questo genere di ricerca la teologia della cultura conferma il dibattito ermeneutico poiché il modo di leggere la Scrittura dipende dal modo di leggere la cultura contemporanea: se è vero che il problema ermeneutico è dovuto alla distanza culturale che separa il nostro tempo da quello in cui «quelle cose furono dette», c’è anche un rapporto circolare tra l’attualizzazione della predicazione primitiva e il discernimento delle radici bibliche del processo di secolarizzazione. Per questo motivo tutto si gioca nello stesso tempo in una piena reciprocità tra l’intelligenza biblica e l’intelligenza del nostro tempo.

Questo è quindi il primo fondamento sul quale è possibile costruire poi una teologia dello sviluppo, una teologia della società responsabile, se non addirittura una teologia della rivoluzione (ma questo aspetto non riguarda direttamente l’obiettivo attuale di questa esposizione).

Harvey Cox individua tre linee guida in grado di offrire quella che io chiamerei una struttura d’accoglienza per una teologia della città secolare: disincantamento della natura, desacralizzazione della politica, sconsacrazione dei valori.

• Disincantamento della natura: l’intenzione profonda di demitizzare la natura e di offrirla conseguentemente all’iniziativa e alla responsabilità dell’uomo va cercata soprattutto nell’Antico Testamento. La lotta contro i Baal, dèi della natura e signori della Terra, l’annuncio di un Dio che non è rappresentabile, in particolare

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con gli astri o con le forze della natura, l’annuncio di un Dio che ha un solo nome e non di base cosmica, la predicazione di un Dio che inaugura e accompagna una storia più che consacrare una natura, tutti questi temi trovano rispondenza in un’antropologia dove l’uomo, colui che impone i nomi, è chiamato a dominare la natura. Di conseguenza, ciò che Max Weber aveva chiamato il «disincantamento della natura» non documenta soltanto la dissoluzione della religione nella cultura contemporanea ma anche l’affiorare di un tema che è originariamente biblico.

• Desacralizzazione della politica. In effetti l’Esodo può essere considerato come una rottura con la politica sacrale dei Faraoni: la storia di Israele non è segnata da re intronizzati e sacralizzati, ma dai profeti, dagli scribi e dai farisei. Nonostante gli sforzi per dotarsi di una politica comparabile a quella dei suoi potenti vicini, Israele non è mai riuscito a instaurare una politica divina e ha così realizzato la sua più autentica destinazione, iscritta nell’atto di rottura dell’Esodo. Il Nuovo Testamento, collegando la Passione di Cristo al processo romano, vale a dire alla colpevolezza del politico, dà un primo compimento a questa politica non divina: lo Stato divinizzato appartiene ormai alle potenze e alle dominazioni che sulla Croce sono state vinte.

• Sconsacrazione dei valori. La lotta contro gli idoli, che ha il suo culmine nel Secondo Isaia, ha delle notevoli implicazioni etiche. Basti ricordare come il Secondo Isaia profana gli idoli: tu prendi un ceppo, lo tagli in due, con una metà ti riscaldi e con l’altra costruisci un dio. Nietzsche dirà la stessa cosa circa la nascita dei valori: l’uomo con lo stesso legno garantisce da un lato la conservazione e l’espansione del proprio volere e proietta, dall’altro lato, i propri valori nel cielo dell’ideale. Siamo così rinviati all’invenzione storica dei valori, in relazione alla quale il Vangelo dona soltanto un assoluto – l’amore – ma nessun tabù o proibizione. Con questo noi siamo rinviati alla nostra responsabilità, affidati alla formazione inter-umana e profana di un’etica.

Questo è il primo fondamento di una teologia della cultura. Su questa base è possibile edificare due livelli: in primo luogo una teologia del cambiamento sociale, e in secondo luogo una teologia del controllo responsabile.

• La teologia del cambiamento sociale permette di riprendere i primi due punti della descrizione: l’allargamento della sfera delle relazioni e l’accelerazione della mobilità. Se la precedente analisi delle intenzioni fondamentali della Bibbia è esatta, è allora possibile accogliere il fenomeno della secolarizzazione in modo positivo e riconoscere il nostro bene negli aspetti che a prima vista ci fanno tremare e ci inquietano, come la rottura delle tradizioni, la disponibilità a nuovi contatti, l’apertura al futuro, l’accettazione dell’altro. Il regno dell’anonimato e questa specie di neo-nomadismo, che sembrano voler estendere il loro dominio, sono i due punti che meritano in particolare una riflessione in quanto costituiscono il punto critico della nostra accettazione della «modernità».

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La mobilità alla quale sembriamo condannati non dovrebbe sorprenderci: il popolo ebraico non è forse stato nomade prima di legarsi stabilmente a una terra, e soprattutto a dei luoghi santi, a un tempio? Nella cultura ebraica la despazializzazione di Dio, operata dalla teologia del «nome», non ha trovato il proprio compimento; può forse essere che tutte le implicazioni di questo «non-luogo» di Dio prendano senso nella nostra cultura? Lo stesso Gesù ha avuto come autentici interlocutori i nonintegrati, i non-devoti, i «contadini». La famosa affermazione di Paolo – «non c’è né Giudeo né Greco, né schiavo né libero, né uomo né donna poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» – non sta forse lasciando segni nell’incessante mescolanza delle grandi città? E l’itineranza, se intimamente solidale con una teologia della speranza, non mostra forse la priorità della categoria del futuro rispetto a quella del presente e del passato, a dispetto di ogni insediamento? Nell’epoca della civilizzazione rurale e della piccola città, il cristianesimo è stato ri-spazializzato: il tema dell’itineranza è stato trasferito sul viaggio verso la patria celeste, fornendo un alibi all’insediamento su questa Terra. Senza un ritorno a questa tematica radicale, nessuna teologia del cambiamento sociale è possibile. Noi siamo itineranti di luogo in luogo: la predicazione cristiana lo ha sempre affermato, ma la cristianità ha sempre dislocato «altrove» questa mobilità. Abbiamo reso meteci gli stranieri, abbiamo sedentarizzato culturalmente e spiritualmente la nostra esistenza. Per questo la nostra escatologia è rimasta mitologica: poiché eravamo incapaci di tradurla profanamente nella nostra visione del futuro.

Il tema dell’anonimato crea più problemi in quanto si scontra frontalmente con le teologie classiche e soprattutto con le teologie protestanti: mentre i cattolici assicuravano la loro teologia a delle ontologie e in definitiva a delle cosmologie (si pensi alle «prove dell’esistenza» di Dio a partire dal movimento), la teologia protestante ha ripiegato sul tema personalista della relazione «io-tu». Da Lutero a Bultmann questa relazione ha resistito alla demitizzazione, e in particolare Bultmann mette in luce come la relazione io-tu sia analogica nel suo fondamento, ma nient’affatto mitologica. Oggi possiamo chiederci fino a che punto questa relazione non sia soltanto una parte del complesso delle relazioni Dio-uomo: non tutto è personalizzato nell’essere-uomo e, come hanno affermato Maestro Eckhart e diversi pensatori mistici, può darsi che anche nell’essere- Dio non tutto sia personalizzabile. Per ciò che riguarda l’uomo, non c’è dubbio che qualcosa dell’umano resista quando si cerchi di riportarlo per intero alla soggettività personale: l’esempio più eclatante è la lingua, ma si pensi anche all’istituzione in tutte le sue forme. Ebbene, la relazione umana, così come la viviamo oggi nella città, attesta che il problema del socius non si riduce al problema del prossimo, o piuttosto che la nozione di prossimo – preziosa e completa – deve avvolgere e integrare sia la relazione al socius, anonima per eccellenza, sia la relazione di

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amicizia e di amore, personale per eccellenza. D’altronde, il buon Samaritano della parabola non è affatto entrato in una relazione io-tu con l’uomo che ha incontrato, ma lo ha trattato – oserei dire – funzionalmente: lo ha medicato, condotto in albergo, ha pagato la notte dell’albergo. Però non si dice assolutamente che ne sia diventato amico. Possiamo chiederci, con Harvey Cox, se non siano stati l’«ethos preurbano», la mentalità del villaggio, ad averci indotto a sopravvalutare la relazione io-tu come somma di tutte le relazioni possibili tra gli uomini e tra Dio e l’uomo. La nuova ridistribuzione delle relazioni umane tra il privato e il pubblico alla quale assistiamo al giorno d’oggi ci invita a rimettere in discussione la collusione tra la teologia personalista e l’etica del villaggio e della piccola città. Non dico che non debba rimanere nulla di questa teologia, anzi penso perfino il contrario. Dico solamente che deve essere ripensata e concordo facilmente sul fatto che la patologia della città, a cui Harvey Cox forse non ha prestato abbastanza attenzione, ci mette in guardia contro ogni entusiasmo ingenuo riguardante la modernità. C’è un «gregarismo» teologico che non vale più dell’«integralismo», suo nemico gemello. Ripensare una situazione non equivale per forza a «gettare il bambino con l’acqua sporca». Ma se noi sapessimo pensare meglio i rapporti tra il personale e l’anonimo, l’esistenziale e l’istituzionale, all’interno della costituzione stessa dell’uomo, saremmo anche più critici rispetto alle analogie ingenue a cui ricorre la teologia. Dopotutto Paolo – affermando: «Né Giudeo né Greco, né schiavo né libero, né uomo né donna» – indicava dei ruoli non personalizzati a livello dei quali è possibile solo un lavoro di riconciliazione di tipo istituzionale. L’essere-uomo, il diventare-uomo, ha luogo anche nel gran sovvertimento delle relazioni tra i «ruoli» sociali: una certa teologia della conversione individuale ha nascosto la portata di questi sovvertimenti e di queste instaurazioni in cui tutto l’umano è in lavorazione.

• Il secondo livello di questa teologia è rappresentato da una teologia dell’organizzazione alla quale personalmente darei altrettanta importanza che alla teologia del cambiamento sociale, sviluppata da Harvey Cox soprattutto a partire dalle sue riflessioni sull’anonimato e sulla mobilità sotto il segno di una teologia del futuro e della speranza. Un europeo, dell’Ovest e dell’Est, sarà sicuramente più sensibile a questo compito, che d’altronde compensa il precedente, poiché la patologia del nomadismo, dello sradicamento e della perdita della memoria – su cui insisterei molto di più che Harvey Cox – trova la sua terapia anche nella responsabilità a livello delle organizzazioni. A questo proposito, il nostro compito più urgente è quello di liberarci da ogni recriminazione contro l’organizzazione in quanto tale: socialmente, politicamente e teologicamente ci troviamo su una china «reazionaria», al punto che vagheggiamo, se non l’uomo dei boschi, almeno l’uomo del villaggio, della bottega e della fattoria. Tutte le lamentazioni contro la separazione del lavoro e della famiglia, contro la separazione dei ruoli e la

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frammentazione della personalità, attestano che siamo ancora prigionieri dell’«etica protestante» della quale Max Weber ha messo in evidenza i legami (peraltro reciproci) con il capitalismo. Affrancandosi dal Medioevo, il protestantesimo si è poi invischiato in una teologia dell’uomo borghese della piccola città: ha sacralizzato la figura del direttore d’impresa che compete su un mercato concorrenziale mentre – nello stesso tempo – sacralizzava il lavoro come vocazione personale e il risparmio come ascesi. Così come il membro delle corporazioni era stato l’uomo cattolico, il puritano americano è diventato l’uomo protestante. Entrambe queste immagini sono oggi in rovina: non è più tempo di tentare di preservare il giardino personale della nostra anima contro l’esistenza pubblica. Il motivo per cui siamo cristiani-sociali è comprendere che una teologia imperniata sull’altro, sul prossimo sconosciuto, deve farsi carico dei problemi di organizzazione e riguadagnare l’umanità dell’uomo anche al livello stesso delle organizzazioni. Non si tratta nemmeno più di riconciliare l’uomo e il prodotto del suo lavoro, a livello di relazione corta tra l’individuo e la sua attività, come sognavano i grandi utopisti del socialismo del XIX secolo: una teologia del controllo responsabile deve operare in termini di controllo democratico, di controllo popolare sull’impresa, sui centri di decisione, sullo Stato, sulla comunità internazionale. In questo modo saremo realmente contemporanei alla seconda o terza rivoluzione industriale cui assistiamo: quella nella quale il direttore d’impresa è subordinato all’uomo dell’organizzazione, quella – infine – in cui il proprietario dei mezzi di produzione è subordinato all’uomo competente, il quale in virtù della sua competenza è oggi nella posizione di manovrare i proprietari stessi. Occorre «umanizzare» questo mondo, non uno che è già morto. In questo campo – occorre dirlo – tutto rimane ancora da realizzare. La democrazia industriale non esiste da nessuna parte al mondo. Da nessuna parte al mondo il controllo democratico della produzione, dell’informazione e della distribuzione sono realizzati pienamente. Il tema teologico conduttore sarebbe questo: la libertà non si trova solamente là dove un individuo «si salva da sé», ma dove si sente «a casa» nella comunità degli uomini per mezzo del controllo responsabile in vista del bene comune. Mi ricollego qui alle riflessioni che ho già sviluppato altrove sulla previsione e sulla prospettiva; mi limito a rinviare a quello studio3.

IV. Dalla teologia della cultura all’ecclesiologia

Solamente dopo aver attraversato la teologia della cultura è possibile rimettere in cantiere l’ecclesiologia. Anche nell’ambito dell’ecclesiologia occorre ancora rinviare le discussioni riguardanti la parrocchia e le altre organizzazioni ecclesiali sulle quali ci si getta precipitosamente. Prima di riflettere sull’organizzazione e le organizzazioni della Chiesa occorre riflettere sulla sua funzione. Questa riflessione

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si ricollega da vicino alla precedente, riguardante i compiti di una teologia della cultura. Su questo punto l’ecclesiologia è strettamente subordinata ai tre temi precedentemente sviluppati: la subordinazione si giustifica in quanto la Chiesa non è innanzitutto istituzione, ma popolo di Dio, e tale popolo è definito dal suo compito di liberazione e non dalle strutture che si dà, e che anzi devono essere esattamente proporzionate ad esso.

Harvey Cox, assumendo come idea direttrice che la Chiesa sia «l’avanguardia di Dio», ne articola il mandato attuale attorno a tre ministeri, a tre servizi: annunciare, prendersi cura, rendere visibile la speranza con dei segni comunitari. Egli parla della tripla funzione kerygmatica, diaconale e comunitaria della Chiesa riprendendo i tre termini greci corrispondenti – kèrygma o ‘annuncio’, diakonia o ‘terapia attraverso la riconciliazione’ e koinonia o ‘comunità escatologica’. Io adotto ben volentieri questa struttura d’analisi.

La Chiesa annuncia: ciò significa innanzitutto che insegna a discernere i tempi, a individuare i rischi e i compiti, le aperture e gli ostacoli. Questo è ciò che è essenziale per noi della predicazione di Gesù contro le potenze. Noi annunciamo che Dio, in Cristo, ha sconfitto le autorità e questo vuol dire due cose: in primo luogo che non vi è nulla di prestabilito; di fronte alle abdicazioni di tutti coloro che credono di essere abbandonati a meccanismi ciechi, occorre «de-fatalizzare» le evoluzioni attuali e mostrare alla gente che il calcolo e la previsione generano delle scelte e delle responsabilità (cosa che ho dimostrato anche nella mia riflessione sulla prospettiva). Ma in secondo luogo, di fronte alle minacce contemporanee dell’assurdo, occorre anche affermare che c’è sempre un senso da trovare. Riprenderemo così a nostro modo l’immagine dell’Esodo e della Pasqua e come san Paolo diremo: «Là dove abbonda il peccato, la grazia sovrabbonda». Siamo i testimoni di un’economia della sovrabbondanza: quella del senso rispetto al non-senso. Il compito della Chiesa è indicare questo surplus di senso rispetto al non-senso, anche di fronte ai processi di decadimento e di cancerizzazione della città moderna. In questo modo riconsegneremo sempre alla responsabilità dell’uomo ciò che sembrava provenire da forze estranee, da potenze disumane. Questo è il cuore di ciò che potremmo chiamare la predicazione al mondo, di cui la predicazione indirizzata ai fedeli deve restare una semplice replica.

Il compito terapeutico può essere compreso a partire da ciò che è stato detto precedentemente sulla patologia della città. Se è vero che uno dei ministeri fondamentali di Cristo è stato l’esorcismo dei demoni (che Cristo, nella sua disputa con gli scribi, non ha mai separato dalla lotta contro le obbligazioni legalistiche), la modalità moderna di recuperare il ministero dell’esorcismo è rivolgere la vigilanza della Chiesa alle neo-formazioni, ai fenomeni di cancerizzazione e in generale alle produzioni patologiche proprie del mondo moderno. Qui il ministero della Chiesa è essenzialmente un ministero di comunicazione, rivolto alle separazioni, ai

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frazionamenti di ogni sorta della città moderna, alle tendenze alla segmentazione e alla dissociazione della stessa personalità. L’autentica diaconia non consiste nel sopperire alla città nelle sue carenze: anche se certamente occorrerà occuparsi a lungo degli ospedali, curare i malati e i poveri che la società ignora o abbandona, la diaconia non si limita a queste funzioni di supplenza, ma si applica ai centri di decisione, ai punti nodali di funzionamento della città dove si incrociano i processi di integrazione e di disgregazione. Una teologia dell’itineranza e quella di un controllo responsabile trovano qui il loro punto d’intersezione. Come è possibile che la Chiesa sia l’avanguardia di Dio se l’individuo cristiano sta nella retroguardia dello sviluppo storico, se tutta la sua sensibilità e le sue reazioni profonde sono rivolte verso il paradiso perduto e non verso il regno a venire? Ma ancora una volta non si insiste mai troppo sulla necessità di associare la teologia del controllo responsabile a quella dell’itineranza e della speranza.

La terza funzione, propriamente comunicativa, non può essere isolata dalle due precedenti. La Chiesa non può rendere visibile la speranza, essere un segno dell’avanguardia di Dio, se si riduce a un club della classe media, preoccupato solo di mantenere l’omogeneità tra i suoi membri. Occorre dire con forza che in una comunità dove non si mette in atto nessuna riconciliazione non c’è Chiesa. Ancora una volta l’affermazione di Paolo – «Né Giudeo né Greco, né schiavo né libero, né uomo né donna» – non costituisce un’applicazione secondaria tra le altre dell’unità in Cristo, ma designa la dimora dell’antropologia e dell’ecclesiologia, il luogo stesso della loro origine. L’uomo non è la somma di un tale e di un talaltro: l’uomo è l’umanità dell’uomo. E l’umanità dell’uomo avanza quando il Greco, il Giudeo e il Barbaro sono coinvolti in un processo di riconciliazione: in quel momento l’uomo accade. Nello stesso tempo, una comunità è possibile attraverso l’atto stesso del gesto di riconciliazione. Questo carattere fa sì che la Chiesa si allontani dal modello della parrocchia del villaggio o della parrocchia residenziale dell’epoca preindustriale. Oggi abbiamo bisogno di forme ecclesiali che tengano conto degli aspetti non residenziali della relazione umana, del rapporto sociale; abbiamo bisogno soprattutto di forme ecclesiali che permettano di esercitare il ministero della riconciliazione contemporaneamente all’annuncio del senso attraverso le fratture della metropoli.

Da queste riflessioni non si deve però concludere affrettatamente che la parrocchia residenziale abbia fatto il suo tempo. Appaiono infatti nuove motivazioni che sostituiscono le precedenti e in particolare la risposta al nomadismo e all’anonimato ridà possibilità a delle comunità concrete basate sulla vicinanza. Ma l’errore sarebbe quello di credere che la funzione comunitaria della Chiesa si esaurisca nella perpetuazione, o anche nel rinnovamento, di questa modalità di congregazione. Penso che la parrocchia tradizionale ritroverà la sua fortuna quando sarà una tra le altre modalità ecclesiali. La non-parrocchia salverà

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la parrocchia. Bisognerà imparare a riconoscere l’immagine della Chiesa ovunque il ministero dell’annuncio, della diaconia e della comunità concreta avranno di fronte la città intera così come il mondo moderno l’ha resa: vale a dire la città secolare.

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4. IL PROGETTO DI UNA MORALE SOCIALE1

Scopo di questa semplice nota è di esplorare il terreno sul quale dovrà svilupparsi la nostra ricerca collettiva. Siccome dalla fondazione del nostro movimento il problema è alquanto mutato, e così la metodologia di approccio e di ricerca, dirò innanzitutto qualcosa su di esso e sulle ragioni del cambio di fronte attuato con questa pubblicazione.

A. Il problema

In ambiente cristiano ci si è figurati spesso il problema della morale sociale come se fosse la costruzione di una dottrina coerente destinata a colmare un vuoto tra la predicazione cristiana da un lato e, dall’altro, i giudizi e le decisioni di carattere tecnico riguardanti l’ordinamento della società, considerata principalmente dal punto di vista della società industriale. Per adempiere a questa funzione di intermediario, la morale sociale doveva prevedere tre tappe o tre livelli.

1. L’etica sociale della Bibbia. Sotto questo titolo si raggruppavano gli «insegnamenti sociali» tratti dai profeti, dalla predicazione di Gesù e degli apostoli. La teologia biblica era incaricata di ricavare dall’esegesi un sistema coerente di precetti validi in ogni tempo.

2. La dottrina sociale della Chiesa. Con questa si possono intendere i sistemi successivi, configurati nel Medioevo, all’epoca della Riforma o nella modernità, in vista di fondere i princìpi precedenti con i principali concetti della filosofia sociale; si mutuavano così da Aristotele e dagli stoici i concetti di giustizia distributiva e commutativa, di città o di comunità umana; si riprendevano nel Medioevo le differenti nozioni di diritto naturale e di diritto sociale che si sono succedute fino all’epoca di Rousseau; dai filosofi del XVIII secolo si prendeva a prestito la nozione moderna di contratto; Hegel forniva infine a tutti i contemporanei i concetti «storici» di alienazione, dialettica, razionalità, fattività, ecc. Quella che chiamiamo dottrina sociale della Chiesa ha rappresentato, da parte cattolica, un tentativo continuamente fallito e continuamente ripreso di rivitalizzare i concetti medievali con dei concetti moderni di varia origine, mentre da parte protestante si

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è lavorato più spesso sulla base di concetti presi a prestito dalla Riforma, dal kantismo e dal neokantismo, e dalla fase hegeliana e posthegeliana della filosofia sociale. Le teologie liberali hanno creato degli amalgami molto significativi di questi diversi concetti fino ai nostri giorni.

3. Il confronto dei sistemi globali. Questa terza tappa della morale sociale rappresenta uno sforzo di criteriologia, ossia di discernimento coerente, a livello dei sistemi: socialismo e capitalismo; liberalismo e collettivismo. Ad essa è stato attribuito di frequente il titolo di «morale sociale», unificando sotto tale giudizio le tre tappe che stiamo percorrendo: questo discernimento è consistito spesso in un’arte del «male minore»; ed esprime in effetti l’arte del moralista, vale a dire un esercizio del giudizio pratico, quanto di più vicino alla realtà e alla pratica sociale ma a livello dell’ideologia del sistema. Più in là comincia infatti il giudizio di circostanza, in funzione delle situazioni concrete e degli impegni particolari.

Per molti dei nostri contemporanei è ancora questo lo schema che rappresenta la morale sociale del cristianesimo, e cioè un documento di pensiero, di giudizio e di azione nel quale si ritrovano concatenati i tre progressivi punti di vista che abbiamo appena percorso. Se l’operazione fosse possibile, non ci sarebbe soluzione di continuità tra la predicazione cristiana e l’impegno politico-sociale, essendo del tutto attuata la congiunzione sul piano teologico, filosofico e ideologico.

La domanda preliminare che dobbiamo porci è la seguente: il nostro compito sarebbe oggi quello di migliorare, di ammodernare, di rendere più coerente questo genere di dottrina? O bisogna rinunciarvi del tutto?

A dire il vero, non è dipeso da noi che questo progetto sia esploso in frantumi.1. Una migliore esegesi e una migliore teologia biblica hanno reso pressoché

impossibile la ricerca di princìpi «universali» fondati sulla Scrittura: la critica biblica ci invita piuttosto a ricollocare nel loro giusto contesto, e a comprendere secondo la loro propria intenzione, nozioni quali il regno di Dio, la giustizia, la legge, l’alleanza ecc.; inoltre, non potendo derivarne dei princìpi e dei valori eterni, è diventato sempre più difficile, se non addirittura impossibile, mescolare la proclamazionekèrygma con dei concetti di filosofia politica e sociale.

2. Le metafisiche che supportavano questo discorso filosofico-teologico sono per la maggior parte crollate, oppure sono diventate esse stesse problematiche e non sopravvivono se non al modo di un’interrogazione aperta: non è possibile tenere lontana la morale sociale dalla cosiddetta crisi della metafisica e dal processo di demolizione e di ricostruzione nel quale è oramai impegnata.

3. Le ideologie che servivano spesso da livello intermediario sono esse stesse in crisi: siamo in una fase di riflusso ideologico su tutti i fronti; e si capisce perché, dal momento che l’ideologia è sovente il rifugio delle frasi vuote, degli alibi e delle menzogne. Ma c’è qualcosa di più grave: la società globale fa sempre meno ricorso

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alla proiezione di mire lontane e di ideali, e risolve sempre di più i suoi problemi sulla base della tecnicità presente. Nella società industriale gli interventi efficaci sono diventati essenzialmente un affare di specialisti, i quali non ragionano a partire dai grandi princìpi, ma sulla base di un empirismo ragionevole. I sistemi globali ereditati dal periodo ideologico – capitalismo, socialismo – sono trattati come delle strutture, dei dati di fatto, all’interno dei quali delle comunità hanno il compito di vivere e di sopravvivere: il problema è quello di mettere a punto dei meccanismi regolatori che permettano a quei sistemi di funzionare empiricamente nella maniera più coerente, ponendosi così ciascuno al riparo sia dalle crisi interne sia dalle azioni di rottura esercitate dall’esterno dal sistema rivale.

Il grande progetto di una morale sociale sistematica e coerente è così esploso in frantumi. La teologia biblica è riportata sul lato dell’esegesi, e si sente sempre più estranea all’elaborazione di princìpi immortali: si preoccupa piuttosto di rischiarare il senso dei comportamenti concreti degli uomini della Bibbia e di discernere il valore di testimonianza e di segno insito negli avvenimenti e nelle istituzioni del passato biblico. All’estremo opposto troviamo una tecnicità sempre più neutra e sempre più diffidente verso i princìpi, i valori, gli ideali. Il declino delle ideologie scava un po’ di più il vuoto tra i «segni» biblici e le «tecniche» di regolazione applicabili ai meccanismi economici e sociali.

Questa è la congiuntura che domina la nostra attuale ricerca. Che cosa fare in una tale situazione? Non credo ci si trovi più – o non ci si trovi ancora – nell’epoca delle grandi sintesi. Una costruzione totale e coerente sarebbe oggi un inganno. La sola via oggigiorno aperta è quella di un metodo per approssimazione e convergenza. Da un lato occorre cercare i punti discontinui, mutevoli, variabili secondo i tempi, in cui la predicazione si inserisce nella realtà sociale; dall’altro lato occorre partire dalle ricerche degli specialisti, che vertono su dei punti ben determinati – come il lavoro, l’impresa, l’informazione ecc. – e cercare non tanto di inserirli in un sistema, in una summa, quanto di mettere in risalto le loro affinità implicite con ciò che vi è di più concreto, e di più storico, nell’insegnamento biblico. In breve, occorre mettere in contatto diretto il concreto biblico con il concreto sociale.

B. Punti di incrocio

Partirei dai due punti estremi e opposti dove l’intento dell’azione risulta quanto mai chiaro.

1. A un estremo mi sembra si possa affermare che l’umanità è oggi l’unico soggetto della Storia. La Scrittura parla dell’uomo come di un essere generico: la creazione, la caduta, la redenzione riguardano l’uomo; Tu l’hai creato appena

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inferiore a un Dio, ecc. (cosa che non deve farci dimenticare che la Scrittura parla anche delle nazioni e dei popoli, degli individui che nomina, che chiama per nome: ci torneremo più avanti). Ma noi siamo la prima epoca che può dare un contenuto e un senso a questo progetto. Il destino dell’umanità come un unico soggetto è la figura che prende forma attraverso tutti i nostri dibattiti sulla fame nel mondo, sulla minaccia atomica, sulla decolonizzazione, sulla ricerca di un ordine mondiale e, forse più di ogni altra cosa, su quella che Perroux chiama l’«economia generalizzata». Però questa unità dell’umanità non si fa da sola, non funziona come una macchina cibernetica che si corregge o si ripara da sé: un grande scopo che si persegue attraverso ciò che chiamerei la patologia di questo essere generico. Ne conosciamo i segni. Nella stessa epoca in cui pensiamo l’umanità, i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Alcune grandi potenze pretendono di regolare le sorti del mondo attraverso la spartizione delle influenze. Nazionalismi disgregatori si consolidano e si infiammano. Le ideologie, per riflusso, fanno a pezzi la razionalità economica al livello dei grandi scambi internazionali. L’economia mondiale dei bisogni è frenata dalle rivalità e dalle politiche di prestigio. Penso dunque che la nostra azione e il nostro pensiero sociale debbano concentrare la loro attenzione sulla volontà di far prevalere i bisogni dell’umanità considerata come un tutto: tale è il valore includente verso tutti i progetti particolari.

2. All’altro estremo, vedo un compito diverso: personalizzare al massimo le relazioni che nella società industriale diventano astratte, anonime, inumane. Occorre allora affrontare la morale sociale dal lato opposto, dove a contare sono le azioni concrete a partire da piccoli gruppi efficaci. La lotta contro la disumanizzazione, nei grandi complessi urbani, negli ospedali psichiatrici, negli ospizi per anziani, ecc., ci fornisce il modello di quella che si può chiamare un’«azione personalizzante». Come il precedente, anche lo scopo di questa azione costituisce un’utopia: che ciascun uomo si realizzi pienamente. Riprenderei volentieri la sentenza di Spinoza: «Più conosciamo le cose singolari, più conosciamo Dio». Per conto mio, una morale sociale non parte da un sistema, ma da un paradosso, e riguarda due cose opposte: la totalità umana e la singolarità umana. Le voglio entrambe. La loro realizzazione completa e non contraddittoria sarebbe il regno di Dio; è da lì che la morale sociale riceve la sua duplice motivazione, comunitaria e personalista.

3. A partire da questa iniziale polarità ci si può orientare nell’intervallo? Che cosa c’è tra l’umanità considerata come un tutto e la persona singolare? La questione è strana: tutto il sociale si distende tra questi due poli. Non bisogna lasciarsi obnubilare dal giudizio a livello ideologico: l’esercizio di un giudizio

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critico a livello dei sistemi sociali globali (capitalismo, socialismo, ecc.) è legittimo a condizione di non separare mai l’ideologia alla quale essi fanno appello e la pratica effettiva dei rapporti reali tra uomini reali. Così, importa discernere non tanto il diritto astratto di proprietà quanto il potere reale e il suo esercizio da parte di gruppi reali. Dobbiamo inoltre mettere sempre in comparazione solo ciò che è effettivamente comparabile e non, ad esempio, la forma reale di un sistema con la forma ideale dell’altro. Bisognerebbe, da questo punto di vista, riprendere tutte le nostre analisi sul socialismo per individuare esattamente il livello del nostro giudizio. I sistemi devono essere valutati molto concretamente in funzione del loro duplice intento: verso l’umanità totale e verso la persona singolare.

Come affrontare adesso in modo «cristiano sociale» le unità piccole e medie quali l’impresa, il ramo industriale, la pianificazione, il mercato comune, ecc.? Questo è il punto fondamentale del problema sociale, anche se risulta il più difficile. Intravedo soprattutto degli interrogativi: fino a che punto la tecnicità e l’automaticità delle regolazioni economico-sociali escludono un giudizio morale? Che presa può avere il giudizio morale? Quando lo formuliamo, a chi lo indirizziamo, chi lo comprende, chi può riceverlo e applicarlo? La domanda sul punto d’inserzione si pone qui in modo serio: su che cosa si può far forza? Infatti rischiamo a turno o di aumentare gli automatismi e la loro neutralità rispetto a ogni giudizio morale o, al contrario, di ignorare per ingenuità moralista i determinismi sociali sui quali si può intervenire. Mi pare che il problema si concentri sulla nozione di centro di decisione: delle considerazioni etiche si possono applicare nel punto in cui si prende la decisione. Le scelte del pianificatore mettono così in gioco una concezione dell’uomo, dei suoi bisogni, della sua destinazione.

Bisognerebbe vedere fino a che punto è possibile spingere una riflessione innescata dalla polarità enunciata in precedenza, che aspira insieme all’umanità totale e alla persona singolare. Fino a che punto possiamo ricavarne un criterio sicuro? Diremo ad esempio che il bene è contemporaneamente ciò che aumenta la comunicazione e che moltiplica le responsabilità? Sarebbe l’espressione, a livello medio, dei due progetti che abbiamo individuato alle due estremità dell’azione umana. Nel passato non abbiamo forse detto che la ricchezza è dannosa perché lacera la comunità, perché lega e isola? Le condizioni di un giudizio morale in materia sociale sarepertantobbero da ricercare pertanto non al livello della tecnicità, bensì delle motivazioni: che uomo vogliamo creare? Che uomo creiamo effettivamente? È con interrogativi di questo tipo che possiamo orientarci in modo critico nella riforma dell’impresa, nella pianificazione, nell’unificazione europea, ecc. Più che ai sistemi semplicemente addotti o pretesi, la domanda sull’uomo che si desidera e che si plasma conduce a porre maggiore attenzione alle relazioni effettive tra gli uomini.

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C. Ricerche convergenti

Anche se non ci permettono di distinguere un progetto d’insieme, invece di migliorare una dottrina ingannevole – la quale è contestabile nel suo fondamento e contestata di fatto nella realtà –, dobbiamo piuttosto coordinare delle ricerche precise che siano l’espressione di una particolare competenza in un settore ben delimitato.

1. Teologia biblica. Un primo insieme, relativamente chiuso ma ben definito, è costituito dalla teologia biblica contemporanea di cattolici e protestanti, dove ciò che vi è di più valido non è – paradossalmente – la riflessione astratta sull’etica sociale dei profeti, del sermone della montagna, o delle lettere di Paolo. Nella Bibbia non ci sono princìpi o ideali nel senso di una morale teorica, ma imprecazioni, racconti, parabole, esortazioni, promesse, lodi che occorre comprendere secondo il loro senso proprio e nel loro contesto storico. Ad essere i più istruttivi per l’azione sono finalmente gli studi più concreti, più specifici, sul regno, il nuovo uomo, il mondo, il peccato, la legge, la vita secondo la carne e la vita secondo lo spirito. Siamo sicuri di trovarvi il nostro bene perché la Bibbia non conosce l’individuo nell’accezione della coscienza moderna, e si rivolge invece a un uomo che è sempre interpellato in quanto persona situata in una comunità concreta: nella Scrittura, infatti, non c’è distinzione tra morale privata e morale sociale e, per questo motivo, riceviamo ragguagli a proposito di ogni situazione concreta. Sarebbe quindi vano cercare nella Scrittura dei princìpi divini che dovrebbero poi permetterci di dedurre altri princìpi profani. L’articolazione da cercare è di un altro ordine: a livello della motivazione, dell’esemplarità e dell’analogia, il che è altra cosa rispetto a una deduzione astratta.

2. Le ricerche sull’uomo nella società industriale danno vita a un secondo gruppo di studi particolari che, per quanto non possa affatto venire dedotto dal precedente, ritengo ne sia il più vicino. All’interno si scorgono almeno quattro sottogruppi.

a) L’uomo e il lavoro. Gli studi migliori sono stati fatti, o sono ancora in corso, proprio in questo ambito. Si tratta in realtà di un insieme di ricerche molto discontinue, e che presuppongono per di più dei punti di vista differenti, ma ciò nonostante costituiscono un gruppo di convergenza. Partendo dal polo biblico e patristico ci si concentra sul significato del lavoro umano, mentre a partire dal polo tecnologico si studiano l’evoluzione del lavoro nelle società industriali, gli effetti della meccanizzazione e della frantumazione, il loro rapporto con la condizione del lavoratore dipendente, la gestione dell’impresa, il tempo libero. A questo proposito, il concetto di civilizzazione del lavoro è servito da «copertura» per degli studi validi, che esplorano le connessioni tra la teologia, l’etica, la sociologia e la tecnologia. Nel punto di confluenza di queste ricerche possono nascere degli

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elementi di giudizio; e penso se ne ricavino già alcuni criteri circa le condizioni in cui il lavoro rimane sensato, prima fra tutte l’impressione appunto che le questioni di senso e di non senso del lavoro siano oggi altrettanto importanti quanto quelle che riguardano la giustizia e l’uguaglianza. Anche in questo caso non bisogna tuttavia partire dall’astratto, ma dal concreto biblico e dal concreto umano.

b) L’indagine sui bisogni umani. L’uomo non persegue ciò che fa, ma ciò che desidera. In questa prospettiva i problemi di finalità sono affrontati con profitto. Anche in questo caso gli studi più concreti sono quelli che partono dai bisogni insoddisfatti nel pianeta (come il problema della fame nel mondo, ecc.), ossia dalla presa di coscienza dei bisogni nelle circostanze particolari della società industriale. Questo studio è sempre concreto poiché il bisogno umano muta a seconda dei regimi di appropriazione, delle sollecitazioni sociali (la pubblicità), dei valori tradizionali: una società in espansione non stimola allo stesso modo di una società stabile. Queste ricerche concrete possono essere abbinate a delle ricerche più teoriche sulla gerarchia tra bisogni vitali, bisogni personali, bisogni culturali, bisogni spirituali. In questo secondo sottogruppo di convergenza bisogna quindi mettere in conto anche l’esame delle finalità delle società moderne. A che cosa mirano: al benessere, all’autonomia delle persone? – e cosa significano adesso piacere, soddisfazione?

Qual è l’idea implicita della felicità? I regimi globali hanno lo stesso scopo? E, più radicalmente, anche la società industriale ha uno scopo o è invece un concatenamento di mezzi senza fini? Non ci si imbatte qui soltanto in problemi di valori – giustizia, libertà –, ma nella questione stessa della presenza o dell’assenza del senso. L’uomo moderno manca forse più di senso che di giustizia.

Questi studi permettono di sgomberare il campo dai tentativi poco felici di redigere dei cataloghi dei diritti dell’uomo – libertà, uguaglianza, ecc. –, che sono una proiezione arbitraria, in un dato momento, delle soddisfazioni raggiunte e delle rivendicazioni imminenti. Non bisogna di certo impegnarsi nel perfezionamento di questo catalogo.

c) Proprietà e socializzazione. Un terzo sottogruppo si colloca bene sotto il titolo Proprietà e socializzazione, preso in prestito da Economia e umanesimo. L’era industriale ha imposto delle modificazioni profonde al regime di proprietà individualista che ha preso forma agli inizi del XIX secolo. Le unità di produzione hanno assunto delle dimensioni collettive, conferendo ai loro detentori un potere economico esorbitante. Il fenomeno universale della socializzazione altera profondamente e complessivamente il regime dell’appropriazione privata. Che cosa ne consegue per l’uomo? Di nuovo, si può procedere solo mettendo insieme una riflessione su alcuni princìpi quali il diritto di utilizzo dei beni materiali per il sostentamento che compete a ogni uomo, o il primato della comunità sugli interessi individuali e dei gruppi (e così via); e, dall’altra parte, lo studio dell’evoluzione dei

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regimi giuridici nel mondo. Vengono infine delle ricerche concrete sull’esercizio del potere, i gruppi di pressione, i gruppi gestionali, gli organizzatori, ecc.

d) Tecnica e tecnologia. Essendo la prima società storica in cui la tecnica è il fenomeno predominante, si pone un problema specifico che la riguarda. Il carattere dominante della tecnica rende necessaria una riflessione della quale non si vedono a tutt’oggi i tratti coerenti. Ancora una volta, bisogna procedere per convergenze: da un lato una riflessione sul progetto d’insieme di una società che si concepisce come sfruttamento della natura e dominio della vita e dello psichismo; da un altro lato uno studio concreto attinente fenomeni quali la trasformazione del lavoro umano, l’industrializzazione del tempo libero e la cultura di massa.

3. Un terzo gruppo di ricerche è costituito dalla critica dei sistemi sociali globali: capitalismo, socialismo. Lo metto in terza posizione per rimarcare che la morale sociale non si limita a una criteriologia dei sistemi (il socialismo è meglio del capitalismo perché…). La critica non costituisce un problema unico, ma un insieme di problemi: da una parte c’è l’ideologia dei sistemi, vale a dire il modo in cui si sono rappresentati teoricamente nel pensiero dei loro fondatori, dei loro apologeti, dei teorici; dall’altra parte c’è la pratica dei sistemi, che porta a chiedersi ad esempio quali siano gli effettivi rapporti sociali in un regime capitalista piuttosto che socialista. Un giudizio sui sistemi deve tener conto di questa dialettica tra la teoria e la pratica, e quindi connettere le considerazioni sulla persona e sulla comunità con le strutture e le ideologie particolari. Le discussioni astratte sul diritto di proprietà, la giustizia distributiva, il profitto, la regolazione attraverso i bisogni anziché i servizi, o viceversa, non devono essere separate dalla loro interazione con le situazioni determinate: le monografie sui regimi particolari devono sempre correggere le dissertazioni sulle dottrine.

Un sottogruppo di problemi sembra oggi distinguersi: qual è il vero ruolo del regime sociale globale nelle società industriali? Esiste un problema della società industriale in quanto tale (problema di Raymond Aron)? Questa società crea una convergenza più grande rispetto alle divergenze dei sistemi, e a quale livello? Tali convergenze potrebbero infine venire imputate agli effetti di aggiustamento reciproco dei diversi sistemi gli uni verso gli altri, cioè a effetti di sincretismo – se così si può dire –, dal momento che una dose di liberalismo è stata iniettata nel collettivismo e che il collettivismo moderno assorbe dosi crescenti di socializzazione? O sono invece l’effetto dell’industrializzazione in quanto tale? Queste domande si riallacciano evidentemente alle riflessioni fatte sulla tecnica.

4. Un quarto gruppo di ricerche, le più disperse e tuttavia le più importanti per l’azione quotidiana, riguarda le unità di produzione: queste ricerche sono centrate sull’impresa, dove il giudizio morale è più difficile da esercitarsi. Nel proseguire, sarà un onere inevitabile domandarsi qual è il punto di applicazione della

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riflessione morale. Che cosa significa riforma dell’impresa? Come può prevalervi l’umano? E cosa significa l’umano nell’impresa?

La morale sociale delimita un livello di giudizio piuttosto che un sistema già costituito o da costituire. È lo spazio di una riflessione variegata, multidimensionale, discontinua. La convergenza di studi concreti vale sempre di più che la falsa logica del sistema.

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NOTE

ARCHITETTURA E NARRATIVITÀ

1. P. Ricœur, Architecture et narrativité, «Urbanisme», n. 303, nov.- déc. 1998, pp. 41-51.

2. Aristotele, La memoria e il richiamo alla memoria, in Id., L’anima e il corpo: Parva Naturalia, a cura di A.L. Carbone, Bompiani, Milano, 2002 (ndt).

3. Platone, Teeteto, G. Laterza & Figli, Bari, 1924 (ndt).4. P. Ricœur, Temps et récit, Le Seuil, Parigi, 1983-1986; trad. it., P. Ricœur,

Tempo e racconto, Jaca Book, Milano, 1986 (ndt).5. Agostino, Confessioni, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1966 (ndt).6. M. Heidegger, Costruire abitare pensare, in Saggi e discorsi, a cura di G.

Vattimo, Mursia, Milano, 1976-1980, pp. 96-108 (ndt).7. H. Arendt, Condition de l’homme moderne, Calmann Lévy, Parigi, 1961; trad.

it., H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, a cura di S. Finzi, Bompiani, Milano, 1964 (ndt).

8. E. Calvi, Tempo e progetto. L’architettura come narrazione, Guerini studio, Milano, 1991 (ndt).

9. W. Schapp, Empêtrés dans des histoires: l’être de l’homme et de la chose, Editions du Cerf, Parigi, 1992; edizione originale: In Geschichten verstrickt: zum Sein von Mensch und Ding, Meiner, Amburgo, 1953 (ndt).

10. W. Benjamin, Paris, capitale du XIXe siècle: le livre des passages, Éditions du Cerf, Paris, 1989; trad. it., W. Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo: i «passages» di Parigi, a cura di R. Solmi, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1986, p. 14 (ndt).

LA CITTÀ È FONDAMENTALMENTE IN PERICOLO

1. P. Ricœur, La cité est fondamentalement périssable, in AA.VV., Les grands entretiens du monde, Le Monde Éditions, Parigi, maggio 1994, tomo II, pp. 10-12.

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2. P. Ricœur, Lectures I. Autour du politique, Éditions du Seuil, Parigi, 1991 (ndt).

3. H. Jonas, Le Principe responsabilité: une éthique pour la civilisation technologique, Éditions du Cerf, Parigi, 1990; trad. it., H. Jonas, Il principio responsabilità: un’etica per la civiltà tecnologica, a cura di P.P. Portinaro, Einaudi, Torino, 1993 (ndt).

URBANIZZAZIONE E SECOLARIZZAZIONE

1. P. Ricœur, Urbanisation et sécularisation, «Christianisme social», n. 75, 1967, pp. 327-341.

2. Questo studio è ispirato dalla lettura di Harvey Cox, The Secular City (La città profana, secolare, o la città nell’epoca della secolarizzazione) e commenta liberamente l’opera. [H. Cox, The Secular City. Secularization and Urbanization in Theological Perspective, The MacMillan Company, New York, 1965-1966; trad. it., H. Cox, La città secolare, a cura di A. Sorsaja, Vallecchi, Firenze, 1968 (ndt)].

3. Prospective et Planification. Dialogue avec Pier Massé, «Cahier de Villemétrie», n. 44.

IL PROGETTO DI UNA MORALE SOCIALE

1. P. Ricœur, Le projet d’une morale sociale, «Christianisme social», n. 74, 1966, pp. 285-295.

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INDICE

L’Angoscia Dell’Abitare Ricœur, Lyotard E La Città Postmoderna di Franco Franco Riva

1. Decostruzione o narrazione?

2. Corpo e tempo. I luoghi di vita

3. Architettura e vulnerabilità

4. Itineranza. Erranza. Sradicamento

Riferimenti bibliografici

Ringraziamenti

Leggere La Città` Quattro Testi Di Paul Ricœur

1. Architettura e narratività

2. La città è fondamentalmente in pericolo La sua sopravvivenza dipende da noi

3. Urbanizzazione e secolarizzazione

4. Il progetto di una morale sociale

Note