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Tecnologia in sanità: innovazione e sviluppoA cura di Mariapia Garavaglia

I grandi progressi tecnologici, che si sono verificati negli ultimi due decenni, hanno avuto significative ricadute sul benessere collettivo, perché hanno permesso di affrontare situazioni patologiche comples-se, che non potevano essere gestite e guarite con i mezzi tradizionali. Ora è giunto il momento per una revisione critica del percorso compiuto, non per negarne l’importanza, ma, al contrario, per rin-forzarne le concrete possibilità di rispondere con mezzi nuovi alle situazioni di bisogno. è quindi particolarmente significativo affrontare il rapporto tra tecnologia e applicazione nel singolo caso, costruendo un modello di lavoro che vede la tecnologia stessa come strumento per avvicinarsi alla specificità clinica del singolo cittadino ammalato.

Si aprono scenari inediti e di grande rilievo per tecnologie inserite nei processi di cura, apportatrici di un rilevante valore aggiunto; di queste i sistemi sanitari dei paesi avanzati non potranno fare a meno. Peraltro attorno all’innovazione tecnologica deve crescere anche la preparazione dei professionisti, sia sul piano strettamente operativo, sia su quello dell’inserimento delle nuove strumenta-zioni nella logica di una clinica razionale.Le parole chiave del volume sono: organizzazione, valutazione, health technology assessment, nel contesto italiano.

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Istituto per l’Analisi dello Stato Sociale

Tecnologia in sanità:innovazione esviluppoA cura di Mariapia Garavaglia

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2 primavera 2014 | numero 79L’ARCO DI GIANO

DirettoreMariapia Garavaglia

Comitato SCieNtiFiCoAnna Banchero, legislazione regionale sociosanitaria - Giovanni Berlinguer, bioetica - Mario Bertini, psicologia - Paola Binetti, pedagogia medica - Alberto Bondolfi, filosofia morale e bioetica - Luigino Bruni, economia politica - Mauro Ceruti, filosofia della scienza - Gilberto Corbellini, storia della medicina - Giorgio Cosma-cini, storia della sanità - Francesco D’Agostino, filosofia del diritto - Bruno Dallapiccola, genetica - Dietrich von Engelhardt, teoria della medicina - Adriano Fabris, filosofia delle religioni - Bernardino Fantini, storia e filosofia delle scienze biologiche - Carlo Favaretti, management sanitario - Raffaele Landolfi, clinica - Salvino Leone, bioetica - Luca Marini, diritto internazionale - Alessandro Pagnini, storia della filosofia - Roberto Palumbo, habitat - Augusto Panà, sanità pubblica - Corrado Poli, ecologia - Alberto Quadrio Curzio, economia politica - Pietro Rescigno, sanità e diritti umani - Walter Ricciardi, sanità internazionale - Rosanna Tarricone, economia sanitaria - Willem Tousijn, sociologia - Marco Trabucchi, neuroscienze - Massimo Valsecchi, politica economico-sanitaria - Silvia Vegetti Finzi, psicoanalisi

COORDINAMENTOFrancesca Vanara

SEgRETERIA DI REDAzIONEGiuseppina Ventura

La corrispondenza con la direzione e la redazione va inviata a:«L’Arco di Giano» c/o I.A.S.S. - Istituto per l’Analisi dello Stato Sociale Piazza Luigi di Savoia, 22 - 20124 MilanoTel. e Fax 0258301407 - [email protected]

EDITORE

EDIzIonI PAnoRAMA DELLA SAnITà - S.C.A R.L.Piazzale di Val Fiorita, 3 - 00144 Roma - Tel. 065911662 - Fax 065917809 [email protected] - [email protected] - www.arcodigiano.org

AbbONAMENTI 2014Italia € 60,00 - Paesi U.E. € 80,00 - Paesi Extra U.E. € 90,00da versare su:c/c p. 89920847bonifico bancario Banca Popolare di Sondrio - IBAN IT10N0569603211000008992X72Intestati a Edizioni Panorama della Sanità scarl - Viale di Val Fiorita, 86 - 00144 Romaa

Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 636 del 20/11/1992 - Direttore responsabile: Sandro Franco - Trimestrale Poste Italiane S.P.A. Spedizione in Abbonamento Postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/2/2004 n. 46) art. 1 comma 1 DCB- Roma

Finito di stampare nel mese di maggio 2014 dalla tipografia “D’Auria Printing Spa” - S. Egidio alla Vibrata (TE)

Chiunque è autorizzato a utilizzare e duplicare gli articoli de L’Arco di Giano. Naturalmente apprezziamo chi vorrà, per correttezza, citare la fonte.FoTo DI CoPERTInA: SAnDRo FRAnCo

Con il contributo incondizionato di

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di Mariapia GaravaGlia

L’Arco di Giano dedica il primo numero del 2014 al rapporto tra alta tecnologia sanitaria e suo ruolo in medicina. Le parole chiave sono alta tecnologia, innovazione clinica, sostenibilità, umanizzazione e formazione.

I grandi progressi tecnologici, che si sono verificati negli ultimi due decenni, hanno avuto significative ricadute sul benessere collettivo, perché hanno permesso di affrontare situazioni patologiche complesse, che non potevano essere gestite e guarite con i mezzi tradizionali. Ora è però giunto il momento per una revisione critica del percorso compiuto, non per negarne l’importanza, ma, al contrario, per rinforzarne le concrete possibilità di rispondere con mezzi nuovi alle situazioni di bisogno. È quindi particolarmente signi-ficativo affrontare il rapporto tra tecnologia e applicazione nel singolo caso, costruendo un modello di lavoro che vede la tecnologia stessa come strumento per avvicinarsi alla specificità clinica del singolo cittadino ammalato. Il cittadino, che pure coglie la rilevanza dell’industrializzazione del paese, non attribuisce immediatamente al sistema manifattu-riero di alta tecnologia l’attenzione che merita nel sistema sanitario; anzi, non attribuisce al settore quella importanza, che invece è insita nella sua stessa funzione: migliorare continuamente gli strumenti di diagnosi, cura e riabilitazione per i cittadini che abbiano necessità di essere presi in carico dalla medicina. A cosa serve allora avere informazioni sulla provenienza delle tac, moc, valvole cardiache o altro? Se potessimo avere informazioni sull’avanzamento della ricerca e sulla diffusione di macchinari italiani potrebbe derivarne una migliore affezione anche al sistema sanitario nazionale in generale, fiduciosi nelle potenzialità del paese e nella capacità di utilizzazione degli operatori italiani.

In questa logica, il numero dell’Arco di Giano discute come dare nuovo impulso alla ricerca, con un occhio di particolare attenzione all’Italia. Infatti in questi campi il prodotto industriale è strettamente legato alle possibilità di un continuo rinnovamento sulla base di ricerche avanzate; senza innovazione, non vi sono più mercati e si innesca un circolo vizioso per il quale si rende praticamente impossibile ogni ulteriore progresso.

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Ben vengano quindi scelte strategiche di politica economico-industriale volte ad affiancare la crescita dei settori produttivi più avanzati in questo ambito. Anche l’Unione Europea stanzia 1200 milioni di euro per il biennio 2014-2015 a sostegno della ricerca biomedica all’interno del programma Horizon 2020. A guidare le scelte della Commissione Europea sono stati tre fattori: l’invecchiamento della popolazione, il peso economico delle malattie e la crisi economica.

Sono inoltre discussi gli aspetti concreti -e delicatissimi- legati alla sostenibilità delle tecnologie sul piano organizzativo ed economico; il punto cruciale è il loro inserimento nei programmi diagnostico-terapeutici, documentandone la reale efficacia e quindi giu-stificandone anche i costi talvolta elevati. Se un intervento tecnologico porta a risultati importanti (e verificati) per la salute umana non vi motivo per impedirne la diffusione; è però necessario disporre di metodologie avanzate per rilevare il raggiungimento di specifici risultati; non è più il tempo infatti delle tecnologie autoreferenziali, esposte anche al rischio di un’utilizzazione impropria. Si aprono invece scenari inediti e di grande rilievo per tecnologie inserite nei processi di cura, apportatrici di un rilevante valore aggiunto; di queste i sistemi sanitari dei paesi avanzati non potranno fare a meno. Peraltro attorno all’innovazione tecnologica deve crescere anche la preparazione dei professionisti, sia sul piano strettamente operativo, sia su quello dell’inserimento delle nuove strumentazioni nella logica di una clinica razionale.

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a cura di Mariapia GaravaGlia

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Il valore generato dalla localizzazione in Italia degli impianti di produzione di alta tecnologia1

di rosanna Tarricone

RiassuntoQuesto articolo valuta l’impatto socio-economico della localizzazione in Italia di un’impresa bio-medicale con l’obiettivo di fornire evidenze complete ai decisori pubblici circa i benefici derivanti dalle scelte di localizzazione dell’insediamento produttivo in Italia. I produttori di tecnologia me-dicale, oltre a contribuire in modo determinante al miglioramento della salute, producono benefici aggiuntivi per il settore pubblico e per l’economia in generale.

Parole chiave:Industria biomedicale, impatto economico, effetto moltiplicativo.

AbstractThis paper evaluates the socio-economic impact of a medical devices firm’s decision to set up its manufacturing plants in Italy, using information on production processes. Besides being amongst the major contributors of health outcomes, medical manufacturers provide benefits to public sector and to the entire economy. A broader perspective needs to be endorsed when deciding about introducing new healthcare technologies, thus achieving optimal outcomes for society as a whole.

Key words:Medical device industry, economic impact, multiplier effect.

PremessaL’innovazione tecnologica in sanità produce benefici sanitari, economici

e sociali. Aiuta le persone a vivere vite più sane, attive e produttive. Allo

1 Il presente articolo è estratto da G. Callea, R. Tarricone e R. Mujica-Mota, The economic impact of a me-dical device company’s location in Italy, Journal of Medical Marketing: Device, Diagnostic and Pharmaceutical Marketing, 2013, Vol. 13 (1).

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stesso tempo contribuisce alla produttività del sistema sanitario in termini di erogazione di servizi efficienti e costo efficaci. Inoltre, contribuisce alla crescita economica e alla creazione di occupazione.

Il mercato globale dei dispositivi sanitari è stato valutato pari a 308 miliardi di dollari nel 2012 con una crescita proiettata a oltre 349 miliardi al 2016. Quasi tre quarti del mercato di dispositivi medici è composto da Stati Uniti (41%) ed Europa: (29,5% in Europa occidentale, 4,6% in quella orien-tale). In termini di occupazione, l’industria delle tecnologie sanitarie occupa direttamente 500.000 persone in Europa, 400.000 negli Stati Uniti, per un totale di oltre due milioni tra occupati diretti e indiretti.

L’impatto economico e occupazionale va però oltre la somma di occupazione, reddito e produzione che si realizza nell’economia della regione o dello stato in cui l’impresa è localizzata. L’industria delle tecnologie medicali, infatti, può generare effetti moltiplicativi sul resto dell’economia in due direzioni: da un lato su altre indu-strie locali che diventano fornitrici del produttore biomedicale, dall’altro sul resto del tessuto industriale in termini di consumi locali da parte della sua forza lavoro.

Conoscere la dimensione di questi effetti moltiplicativi diventa cruciale per valutare il contributo del produttore biomedicale all’economia nel suo complesso. Recenti studi americani indicano che questo impatto moltiplica-tivo è molto forte in termini produttivi e occupazionali sull’economia degli stati in cui le industrie biomedicali sono insediate. Non esiste tuttavia una letteratura vasta e, in particolare, non vi è alcuno studio specifico sull’Eu-ropa. Colmare questo gap consentirebbe di fornire ai decisori pubblici un utile strumento per valutare l’impatto economico complessivo derivante dalle scelte di localizzazione delle sedi produttive in termini di occupazione, produzione e reddito.

il contributo economico dell’industria biomedicaleLe evidenze della letteratura dimostrano che il settore delle tecnologie

mediche esercita un forte impatto positivo sulle economie attraverso una serie di fattori, come occupazione, reddito e fatturato. L’impatto è di tre tipi. Il primo è l’impatto diretto attraverso l’occupazione, i salari e le vendite. Gli altri due sono indiretti e si generano sia nel momento in cui l’azienda acquista i beni e i servizi necessari alla produzione, sia nel momento in cui i fornitori di questi beni e servizi a loro volta assumono personale ed erogano stipendi. Il circolo virtuoso contagia l’intera economia in quanto i dipendenti dell’industria biomedicale e dei fornitori a loro volta spendono reddito in consumi di beni e servizi, il che genera a sua volta nuovi posti di lavoro e nuovo reddito.

L’obiettivo del lavoro è quantificare l’impatto sull’economia regionale e nazionale legato all’insediamento di un produttore di valvole cardiache prostetiche in Italia.

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metodiPer conseguire l’obiettivo dello studio, sono stati raccolti e analizzati dati di

dettaglio sul reddito medio dei dipendenti dell’impresa per comune di residenza, successivamente comparati con il reddito medio IRPEF degli stessi comuni pubbli-cati dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, oltre a informazioni sul prelievo fiscale (IRAP e IRES) a carico dell’impresa. Attraverso interrogazioni su ORBIS, un database finanziario sulle imprese italiane, sono stati acquisiti dati su reddito, tasse e numero di dipendenti dei fornitori dell’impresa analizzata.

risultatiImpatto diretto sull’economia regionaleCirca il 76% della forza lavoro dell’impresa presa in considerazione vive in un

raggio di 30 km dall’impianto, il 17% ha un livello di istruzione universitario e il 68% è costituito da donne. La componente di genere riflette la speciale natura dell’at-tività manifatturiera nel settore delle valvole prostetiche, che richiede la cucitura, e si differenzia fortemente rispetto a quella delle altre attività manifatturiere della regione, dove la componente femminile scende al 22%. Considerando tutti i settori dell’economia regionale, e non solo quello manifatturiero, si sale al 43%, ben al di sotto dei valori dell’impresa analizzata. Se si analizza la composizione di genere nelle diverse posizioni gerarchiche, si rilevano percentuali più alte della presenza femminile rispetto alle medie regionali del settore manifatturiero sia per posizioni executive sia manageriali. A conferma di ciò, un recente studio indipendente su 1.076 aziende italiane con almeno 100 dipendenti nella stessa regione dell’azienda biomedicale colloca l’azienda analizzata nelle prime tre posizioni quanto a forza della componente femminile.

Generalmente, la densità abitativa dei dipendenti di un’azienda localizzata in un dato comune diminuisce con l’aumento della distanza dal sito produttivo. Nel caso in esame, i dipendenti dell’impresa rappresentano oltre il 5% della forza lavoro cittadina. Il contributo marginale all’economia locale può essere stimato paragonando i salari medi dei lavoratori dell’azienda con quelli medi dei comuni di residenza. Nel 2010 il salario medio dei dipendenti dell’azienda era più alto che nella maggior parte dei comuni di provenienza dei lavoratori, ed in particolare superiore del 19% nel comune in cui è localizzato lo stabilimento produttivo. Il dato è coerente con altri studi che stimano, negli Stati Uniti, un premium di alme-no il 15% per i lavori nell’industria delle tecnologie medicali rispetto alla media manifatturiera, indicando come il settore impieghi manodopera particolarmente qualificata. La combinazione di salari superiori alla media con un’alta concentrazione di dipendenti nel comune risulta in un maggior contributo da parte dell’azienda in esame rispetto a quello degli altri datori di lavoro all’economia cittadina stimabile equivalente al 6%.

Il prelievo fiscale operato sull’azienda e sui dipendenti costituisce un ulteriore contributo economico, in questo caso per il settore pubblico, il cui ammontare è

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di particolare rilievo in quanto va a contribuire alla copertura dei costi dei servizi pubblici come ad esempio il Servizio Sanitario Nazionale, che è anche un utilizza-tore di valvole cardiache.

Effetti indiretti e moltiplicativiLe vendite di fornitori italiani all’azienda esaminata rappresentano lo 0,19%

dei loro ricavi nel 2009 (Fonte: elaborazioni dei ricercatori su dati ORBIS). Mol-tiplicando tale valore per il numero di addetti dei fornitori, si può ottenere una stima dell’impatto indiretto dell’impresa sul loro livello di occupazione, stimato in 181 addetti. Distinguendo tra fornitori locali e fornitori di altre regioni italiane, per i primi il fatturato riconducibile all’impresa analizzata è pari a 0,34%, mentre per i secondi il dato si dimezza. Assumendo che l’azienda analizzata contribuisca all’occupazione di lavoratori presso i fornitori in maniera proporzionale alla quota del loro fatturato che genera, si conclude che per ogni quattro posti di lavoro generati, uno viene prodotto localmente, ovvero nella regione in cui l’impresa è ubicata. Per quanto riguarda i fornitori locali, le vendite all’azienda rappresentano il 25% del totale di quelle collegate alla produzione di valvole cardiache prostetiche. Tradotto in posti di lavoro, 10 sono direttamente collegati alle forniture specifiche e 24 lo sono indirettamente. Viceversa, considerando i fornitori locali ubicati in altre regioni italiane, la quota sul fatturato scende all’1%, mentre il numero di posti di lavoro sale rispettivamente a 49 e 79.

Ipotizzando una correlazione esatta tra le forniture e la produzione di valvole si può stimare che il fattore moltiplicativo del fatturato attribuibile al produttore in questione sia stato 1,26 e 1,30 rispettivamente nel 2009 e nel 2010. Questo vuol dire che il rapporto dell’azienda con l’economia locale è tale che a ogni euro di fatturato corrispondono 30 centesimi di sostegno al fatturato del fornitore. Il mol-tiplicatore qui adottato è coerente con i risultati del Milken Institute sull’industria dei dispositivi medicali nel 2009. Il moltiplicatore occupazionale stimato per il 2009, ultimo anno di disponibilità dei dati ORBIS, è pari a 1,26, indicando che ogni quattro posti di lavoro creati almeno uno è attribuibile alle forniture all’azienda esaminata.

Oltre che in termini di fatturato e occupazione, l’impatto indiretto può es-sere misurato in termini di gettito fiscale. Nell’ipotesi che tale gettito sia generato nelle stesse proporzioni del fatturato, si arriva ad un gettito aggiuntivo stimabile in 219.000 euro nel 2009, suddiviso approssimativamente al 50% tra fornitori locali e non locali. È interessante notare che la parte di gettito fiscale generato dalle forniture non direttamente legate alla produzione di valvole è in gran misura prevalentemente locale.

Dai dati di bilancio dell’impresa analizzata è emerso che il costo del lavoro rappresenta il 37% del fatturato globale in entrambi gli anni. Metà di questa quota è costituita da reddito disponibile, mentre la parte restante riguarda le altri com-ponenti del costo del lavoro, tra cui il contributo dell’azienda per la previdenza sociale (9–10%). Gli acquisti dai fornitori rappresentano un altro terzo del fatturato

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globale mentre l’ultimo terzo è il reddito dell’azienda. Il gettito fiscale generato dall’azienda e dai suoi dipendenti rappresenta il 9% del fatturato e costituisce un contributo all’economia italiana: per ogni euro di fatturato di valvole cardiache prostetiche prodotte in Italia, 9 centesimi tornano allo Stato italiano. La maggior parte del gettito fiscale generato dall’azienda deriva dall’imposta sul reddito dei dipendenti ed è pari all’ 84% del totale, con un moltiplicatore di 5,25 rispetto al gettito generato dalla sola azienda. In questo calcolo non sono incluse le tasse pagate dai dipendenti dei fornitori.

ConclusioniCon il metodo appena descritto2 è stato stimato il contributo economico

all’economia italiana da parte di una multinazionale italiana produttrice di valvole cardiache prostetiche localizzata in Italia. Sulla base dei più recenti dati ISTAT pub-blicati nel 2011 sull’economia italiana a livello provinciale, si è stimato, per il periodo 2009-2010, un contributo al PIL della provincia in cui è ubicato l’impianto pari allo 0,82%. Questo risultato è stato conseguito principalmente grazie all’impiego di forza lavoro localizzata nello stesso comune in cui ha sede l’impianto, che rappresenta complessivamente circa il 6% del reddito della forza lavoro locale. Inoltre, si è sti-mato che, per ogni 100 euro di fatturato generato dalla vendita di valvole cardiache prostetiche prodotte in Italia, si generi un fatturato di 30 euro legato a forniture alla stessa azienda. La stima è sicuramente calcolata per difetto dal momento che non comprende alcuna attività economica indiretta generata dall’azienda al di fuori degli acquisti di forniture e dall’impiego di lavoro associato a queste da parte dei fornitori. Di conseguenza non sono state presi in considerazione ai fini della stima conclusiva tutti quegli effetti diretti e indiretti derivanti da transazioni e altre attività economiche intercorse tra i produttori intermedi e i rispettivi fornitori che sono in ultima analisi al servizio delle forniture destinate all’azienda, dal momento che non è possibile ricostruire e tracciare l’intera catena delle forniture stesse. Inoltre, non sono stati considerati i consumi aggiuntivi indotti da parte della forza lavoro dell’azienda. Dal punto di vista del contributo all’occupazione, la stima rileva che per ogni quattro nuovi posti di lavoro creati dalla localizzazione in Italia della pro-duzione di valvole cardiache prostetiche almeno uno venga creato nella catena di fornitori immediatamente a monte del processo produttivo. I risultati esposti sono più conservativi rispetto a precedenti studi. La differenza può essere parzialmente spiegata con le diverse metodologie utilizzate. Gli studi americani, infatti, calcolano i multipli utilizzando modelli input-output che forniscono una stima dei collegamenti inter-industriali e prendono in considerazione tutte i settori dell’economia. Nel nostro caso è stato considerato l’effetto moltiplicativo relativo solo alle attività immediatamente a monte nella catena di forniture all’azienda considerata. Inoltre, l’analisi ha preso in considerazione solo gli impatti indiretti e non gli effetti indotti,

2 Per maggiori dettagli sulla metodologia si veda G. Callea et al., 2013.

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a differenza di analoghi studi condotti in precedenza. Infine, il moltiplicatore occu-pazionale è basato sulle informazioni disponibili in ORBIS, aggiornato al 2009-2010, che non copre l’intero universo rilevante.

Per tutte queste ragioni gli effetti stimati sono conservativi. Oltre un terzo dei ricavi generati dalla produzione di valvole cardiache prostetiche è stato allocato alla remunerazione del lavoro (37% del fatturato totale), di cui la metà si è tradotta in reddito disponibile (18%) che andrà a contribuire all’attività economica nel suo complesso, mentre il resto è costituito da imposte sul reddito (8%) e da contributi pensionistici da parte di lavoratori (3%) e datore di lavoro (9–10%).

In aggiunta ai benefici economici generati dall’azienda dal punto di vista della società nel suo complesso, le indicazioni esposte fin qui hanno implicazioni relative al valore dell’azienda dal punto di vista del contribuente. Grazie agli effetti diretti, indiretti e moltiplicativi descritti, il valore aggiunto da un impianto produttivo localizzato in Italia ha un effetto mitigante sui costi sostenuti dai contribuenti per l’utilizzo di questi prodotti. Infatti, a parità di prezzo di acquisto (e di qualità del prodotto), il costo netto per l’acquirente pubblico di dispositivi medicali prodotti localmente rispetto a quelli prodotti in altri paesi, è inferiore. Questo vuol dire che per ogni euro di fatturato generato dalla vendita di valvole cardiache prostetiche prodotte in Italia, il ritorno economico per lo Stato è di 9 centesimi di euro.

Questo lavoro ha contribuito ad illustrare le diverse tipologie di benefici de-rivanti dalle scelte di localizzazione produttiva da parte delle imprese di tecnologie mediche. In aggiunta alla produzione di salute, l’industria di tecnologie mediche contribuisce allo sviluppo economico di un paese attraverso occupazione e pro-duzione di reddito. Sarebbe pertanto auspicabile che nell’ambito delle decisioni di introduzione di nuove tecnologie, il decisore pubblico consideri tutti questi aspetti e il ritorno dell’investimento per la società nel suo complesso. In tempi di crisi economica e di stagnazione, quando gli investimenti in ricerca e sviluppo sono minacciati dai tagli alla spesa, ragionare a compartimenti stagni è un lusso che non ci si può più permettere.

ringraziamentiGli autori sono grati ad André-Michel Ballester (Amministratore Delegato,

Sorin Group) e a Matteo Pinciroli (Direttore del Programma Perceval, Business Unit Valvole Cardiache, Sorin Group) per i commenti ricevuti sul manoscritto. Tuttavia gli autori sono gli unici responsabili per i contenuti dell’articolo.

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Le nuove tecnologie e la personalizzazione della medicinadi Marco Trabucchi

RiassuntoL’articolo esamina le caratteristiche di un rapporto difficile, ma che può diventare di grande utilità per la salute delle persone più fragili. Infatti, in ogni ambito della cura le nuove tecnologie possono allo stesso tempo contribuire alla definizione del bisogno e della sua specificità e a strutturare una risposta adeguata.

Parole chiave:Clinica, nuove tecnologie, personalizzazione.

SummaryThe paper describes the difficulties related with a conciliation of new technologies with a per-sonalized care. In fact advanced technologies may at the same time concur to the definition of medical needs and predispose a correct answer.

Key words: Effective care, new technologies, personalized medicine.

La medicina contemporanea deve fare i conti con una serie di dicotomie, conseguenza del rapido cambiamento avvenuto in diversi ambiti della pratica clinica, senza che vi sia stato il tempo per aggiustamenti progressivi. Infatti, in pochi decenni si è assistito ad una trasformazione radicale delle attività di cura, mentre la cultura alla base di queste non è stata in grado di dare un senso ed una collocazione ai diversi eventi.

Tra le molte dialettiche prive di una sintesi, quella apparentemente più forte è tra la tecnologia e la personalizzazione degli interventi. Infatti è difficile l’incontro tra le esigenze di sistemi tecnologici, governati da precise leggi, e l’enorme variabilità della persona, nelle sue espressioni tempo e storia dipendenti. Però è necessario identificare gli strumenti culturali per un superamento della dicotomia, nella continua

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ricerca della possibilità di ridurre la sofferenza della persona grazie ai progressi della scienza e della tecnologia. Infatti, almeno parte dell’apparente contrasto è indotto in modo artificiale da chi difende spazi in nome di premesse ideologiche, mentre vi sono prospettive concrete per delineare strade che portano ad una sintesi tra i due poli, nell’interesse della persona oggetto delle cure.

Negli ultimi decenni i risultati ottenuti dalla medicina sono cambiati radi-calmente rispetto al passato; la clinica ha salvato moltissime vite, ma allo stesso tempo ha indotto una diffusa tendenza alla cronicizzazione delle malattie. Oggi le patologie curate, ma non guarite, rappresentano buona parte delle problematiche di salute. Questa situazione -inattesa e non progettata- ha portato a riconsiderare la visione ottimistica ed “espansionistica” che ha caratterizzato la medicina fino a tempi recenti; la critica, però, per quanto appropriata e doverosa, non ha ancora permesso la definizione di una nuova prospettiva. Nel frattempo prevale incertezza: dove stiamo andando? il successo continuerà ad arridere alle ricerche o incomincia ad apparire qualche segnale d’allarme (si veda ad esempio, la crisi dell’antibiotico-terapia)? l’espansione di tecnologie costose è giustificata dal raggiungimento di risultati significativi sulla salute? dove si colloca in molti campi il confine tra il nor-male e il patologico? la complessità che si riscontra nei sistemi biologici, in modo tanto più marcato quanto più si approfondiscono gli studi e le ricerche, è motivo di preoccupazione per la comprensione dei fenomeni clinici o permette già ora di spiegare -almeno in parte- la realtà delle malattie e della sofferenza? Molte altre potrebbero essere le domande delle quali è necessario farsi carico nel momento del cambiamento per non lasciare aree inesplorate, fonte di ansia e di incertezza per il medico, per il personale sanitario, ma anche per i cittadini. Al fine di un reale progresso,di seguito vengono discussi alcuni aspetti di una tecnologia che contri-buisce, attraverso gli strumenti più raffinati, a caratterizzare il singolo individuo (dalla genomica, alla proteomica, all’imaging più avanzato, ecc.) e allo stesso tempo a rispondere allo specifico bisogno indotto dalle malattie (dall’interventistica ai farmaci). In questa prospettiva non vi sono dicotomie, ma solo una integrazione che porta a importanti risultati per la cura.

Sul concetto di personalizzazioneIl termine personalizzazione della medicina comprende il riconoscimento

dell’individualità di ogni persona quando si progettano interventi di cura. La domanda centrale in questo ambito è: come si può raggiungere (o si cerca

di raggiungere) un modello clinico adeguato alla varietà dei fenotipi che si fondano sulla genetica, sulla storia famigliare, sull’esposizione alle malattie, sull’ambiente, sui comportamenti individuali, sulla cultura e sui valori? In particolare, come si inte-grano le tecnologie, che sempre più numerose e complesse si rendono disponibili per la cura, con l’esigenza di adattamento alla peculiarità di ogni singolo individuo?

Nelle righe che seguono, si suggeriscono alcune possibili risposte rispetto a questi interrogativi.

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Un sistema sanitario adeguato al tempo presente deve essere impostato secondo linee teoriche che descrivono prima di tutto l’obiettivo degli interventi di cura, la persona ammalata.

L’uomo è una grande opera incompiuta (non in senso evoluzionistico, ma in riferimento ad ogni singolo individuo). La vita costruisce una continua evoluzione dell’essere umano sul piano biologico, somatico, psicologico, relazionale, senza mai arrivare ad una fine, ad ogni età. L’evoluzione individuale avviene prevalentemente adattandosi ai limiti imposti dalle circostanze vitali; il riconoscere queste realtà è importante, perché non pone obiettivi irraggiungibili, ma segue una logica di vita che rispetta i confini, pur mirando a superarli. D’altra parte, il formidabile aumento della spettanza di vita avvenuta negli ultimi decenni non è forse segno anche di un’evoluzione della specie, indipendente o conseguenza dell’evoluzione individuale?

Qualsiasi relazione con l’incompiutezza (dal piano relazionale tra persone, al piano clinico) deve porsi il problema di conoscere l’altro prima di compiere atti che vogliano essere significanti. Su questa base si fonda l’importanza delle valutazioni multidimensionali, collegate ad una lettura empatica dell’altro, che hanno nella di-mensione tempo il loro fondamento; in questo modo si arriva ad una conoscenza approfondita, indispensabile per una cura che si ponga l’interrogativo sulle deter-minanti di disagio e sulle loro evoluzioni come conseguenza delle interazioni tra condizione di malattia e fattori esterni.

Sul piano clinico, quindi, il fenotipo di un paziente è sempre diverso da ogni altro fenotipo e si trova in una condizione di continua instabilità. La componente genetica ha un ruolo rilevante, ma prevale la modulazione che viene messa in atto nel corso della vita; sappiamo, ad esempio, che le farfalle hanno molti più geni dell’uomo. È quindi ovvio che il fenotipo discende soprattutto dalle interazione tra geni e dalla loro modulazione indotta dalla vita stessa. Recentemente l’autore di un articolo ha analizzato il proprio genoma e poi per un anno e mezzo ha ana-lizzato contestualmente e ripetutamente il suo proteoma, trascrittoma, le risposte immunologiche e antigeniche e ha rilevato come di mese in mese questi parametri si modificavano in rapporto alla dieta, allo stile di vita, alle problematiche cliniche. Manca però un modello alternativo teorico, che non sia l’osservazione dei vari domini vitali e la loro collocazione l’uno vicino all’altro. In altro campo, si pensi che le specie che colonizzano l’intestino umano esprimono da 2 a 4 milioni di geni, contro i 25.000 della specie umana; questa disparità deve essere interpretata per le influenze che ha sulla condizione clinica e sulle malattie. La crisi della visione genomacentrica non ha però ancora portato ad un modello interpretativo della complessità che permetta di comprendere le modalità attraverso le quali i vari elementi producano un certo fenotipo come risultato di interazioni non sempre predicibili.

La complessità come cultura di fondo del nostro tempo apre ad una mentalità “estetica”, che guarda al mondo in modo aperto a qualsiasi evoluzione, e non in modo segmentato, così da arrivare necessariamente ad un risultato ed uno solo.

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Questa visione deve essere rivolta verso l’esterno della persona (le relazioni), ma anche verso il suo interno (la biologia). Anche gli interventi devono essere condotti in questa prospettiva, aprendosi così ad una modalità di “defragmenting care”; la struttura della persona richiede risposte di cura necessariamente unitarie.

La medicina si è illusa -sulla scia della ricchezza delle scoperte del periodo 1940-1970- di poter sconfiggere la sofferenza e la malattia attraverso interventi specifici, legati ad un particolare segmento della fenomenologia clinica analizzato e studiato in modo approfondito, per il quale ha identificato risposte importanti ed adeguate. Ora però la medicina stessa inizia a comprendere che la mancanza di un “collante”, che permetta di interpretare il significato unitario delle varie alterazioni o disregolazioni, impedisce di compiere interventi di cura davvero efficaci. Con quali modalità sarà possibile identificare il collante? Non potrà certamente discendere da visioni retoriche come quella dell’umanizzazione; infatti, al di là dell’inconsistenza dell’approccio, guarda agli aspetti della relazione operatore-paziente, che costitu-iscono solo una parte della grande tematica “personalizzazione della medicina”.

La tecnologia e il suo spazioLa medicina che voglia rispondere al bisogno del singolo (personalizzazione

della cura) deve fare una sintesi alta tra la medicina basata sulle evidenze (una delle grandi e indiscusse conquiste del pensiero contemporaneo) e la medicina narrativa. È come dire una sintesi tra tecnologia e personalizzazione... è peraltro l’ennesimo riproporsi del pendolo nella storia del pensiero clinico. Ad esempio, all’inizio del ‘900 vi è stato un dibattito tra Kraepelin, che tendeva ad inserire l’individuo malato entro schemi fissi e precostituiti, e Alzheimer, che poneva l’osservazione clinica al centro di valutazioni autonome per arrivare alla conoscenza del paziente. La stessa problematica si pone rispetto all’adozione di linee guida per specifici aspetti clinici; spesso non possono essere adottate a causa della loro incapacità di rispondere alla complessità degli interrogativi posti dell’effettiva condizione clinica di un certo paziente, che non era stata prevista al momento di costruire le linee guida (né al momento di impostare gli studi clinici sui quali esse si basano).

All’opposto rispetto a queste considerazioni, la discussione del ruolo della tecnologia nella medicina contemporanea non può trascurare la descrizione di eventi che sembrano andare controcorrente. Ad esempio, l’evoluzione delle conoscenze sulle demenze è l’immagine di una dinamica incerta tra tecnologia e bisogno del paziente. Si profila infatti la definizione di una malattia costruita su un’alterazione della betaamiloide, studiata con i criteri rigidi di selezione di pazienti che rispondono a condizioni lontane dalla realtà; per questa “amiloidopatia” si identificheranno farmaci in grado di controllare la diffusione della sostanza tos-sica nel cervello. Si arriverà quindi a definire una malattia sulla base del successo di un intervento biologico, ottenuto attraverso procedure che standardizzano rigidamente la realtà (probabilmente in un campione così selezionato la cura avrà effetti positivi). Tutto il resto, la malattia vera, quella che riguarda la massa di

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persone che si trovano in condizioni di disagio perché colpite da alterazioni della cognitività accompagnate da polipatologia, da storie complesse, da condizioni di vita molto diverse, ecc., non rientrerà nell’interesse della medicina scientifica e quindi probabilmente sarà dimenticata...

È un esempio di come la scienza contemporanea non sempre riesca a collo-care il proprio intervento nella logica della personalizzazione della cura; l’errore è ancor più grave se si considera il rischio “culturale” di diffondere un modello “panbiologico” della medicina, fondato su dati di laboratorio, altamente selezionati e di difficile (e costosa) raccolta.

In contrasto con quanto discusso sulle demenze si deve riconoscere che la tecnologia da qualche tempo ha iniziato a criticare la propria autoreferenzialità, avendo compreso di fatto che la sua espansione richiede anche consenso sociale, condizione che in medicina segue regole del tutto peculiari.

Un aspetto specifico è rappresentato dall’intervento tecnologico nelle varie età della vita. La decisione in queste condizioni deve essere affidata al concorrere di volontà e di sensibilità diverse: quelle del cittadino, spesso non chiare, e quelle del medico, in grado di comprendere se l’intervento tecnologico si colloca nell’am-bito dell’attesa di vita del paziente e quindi ha la possibilità di esercitare un effetto positivo. Oggi, ad esempio, le tecniche chirurgiche più raffinate, che si fondano su strumentazioni avanzate, sono applicate alle persone di qualsiasi età. Non si tratta quindi di giudicare negativamente o positivamente un certo intervento, ma di apprezzare la possibilità che possa guarire una malattia in modo commisurato con la spettanza di vita. In questa direzione, l’ICT potrà rappresentare lo strumento sul quale costruire prospettive di intervento anche in ambiti così complessi come la vita della persona affetta da molte malattie, fragile, priva di autonomia, ecc. La web medicine sarà lo strumento per una reale personalizzazione; risponde infatti all’esigenza di costruire una medicina non puntiforme, che incorpora la continuità terapeutico-assistenziale, una medicina appropriata, che risponde ad un bisogno identificato con rigore, una medicina legata all’ottenimento di un risultato e non alla prestazione autoreferenziale di un servizio. Mette in rapporto le persone e non solo queste con i servizi. Si comprende bene come questa prospettiva permetterà anche di evitare molti sprechi, superando l’attuale dibattito tutto incentrato sui tagli, che trascura ogni valutazione sui risultati e la loro specificità. D’altra parte, una lettura dell’evoluzione della medicina contemporanea porta a rilevare una serie di “movimenti” che possono essere letti in modo ambiguo, ma che vanno certamente nel senso di una personalizzazione, se fondati su precise premesse. Si pensi, ad esempio, al “less is more”, che può diventare ambiguamente sia un’indi-cazione a tagliare le procedure diagnostiche e terapeutiche indipendentemente dal bisogno, sia, al contrario, in positivo, una precisa indicazione a privilegiare il bisogno del singolo rispetto alla cultura medica.

Una considerazione particolare riguarda la collocazione dell’intervento tecnologico all’interno di una logica clinica generale, per cui non rappresenta un

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momento puntiforme, ma si colloca nella logica dell’accompagnamento e della presa in carico. Non vi sono da una parte la tecnologia e dall’altra l’ammalato, ma una clinica che segue il paziente nel tempo utilizzando i mezzi più appropriati per le diverse condizioni cliniche.

alcune considerazioni conclusiveIn conclusione si devono considerare ulteriori aspetti, non secondari. Alla base del rapporto tra tecnologia e personalizzazione vi è un’ area di

innovazione di grande rilievo, cioè la possibilità che i sistemi sanitari siano in gra-do di incorporare al loro interno culture diverse che assieme portano a risultati significativi. Biologia e clinica, scienze umane, sociali e dell’assistenza, modellistica e organizzazione, tecnologie dell’informazione e della comunicazione devono trovare una relazione dialettica per permettere una crescita armonica del sistema delle cure. Infatti queste competenze e culture sono in grado di rappresentare per molti aspetti il reticolo e la cornice che accompagnano il singolo individuo nei percorsi di cura e quindi anche nei rapporti con la tecnologia. Sono in grado di adattare le offerte tecnologiche ad un bisogno che cambia, attraverso continue modulazioni. L’innovazione non tecnologica si incontra con quella tecnologica dando maggior valore a quest’ultima; è peraltro un fattore non irrilevante nel momento di difficoltà economiche, che richiedono un impegno mirato delle scarse risorse disponibili.

Il rapporto tra tecnologia e personalizzazione deve riconoscere la centralità del bisogno, anche al di là di considerazioni etiche ed economiche. Infatti, è necessario riaffermare che la cura ha di per sé il massimo valore. Se il rapporto tra la tecnologia e la persona porta ad un adeguato vantaggio per la salute, perché l’effetto è diret-tamente commisurato con la specificità della condizione, si realizza di fatto l’eticità della scelta. Il bene raggiunto di un paziente è sempre un atto eticamente positivo, senza che sia opportuno fare altre considerazioni; quindi la valutazione etica non può avere una collocazione indipendente, perché la tecnologia è neutrale, mentre il suo utilizzo è commisurato all’importanza clinica del risultato (su questo piano si aprono le grandi tematiche di cosa sia realmente utile per la salute, in uno scenario caratterizzato, come indicato nel primo paragrafo, dalla cronicizzazione delle malattie).

Per quanto riguarda gli aspetti economici le considerazioni sono diverse, perché spesso la disponibilità di finanziamenti è rigida e quindi si deve costruire all’interno di questa una lista di priorità che non negano il valore di uno specifico atto, ma lo mettono in serie con altri di diversi livelli di efficacia. Sarà compito della cultura clinica agire in modo da ampliare le disponibilità economiche, al fine di includere anche uno specifico intervento tecnologico. Ciò richiede equilibrio da parte di chi gestisce la tecnologia; purtroppo, nel nostro paese non vi sono esempi particolarmente felici di realismo colto, per cui spesso si è delegata la programmazione ad altri interessi, non solo economici, ma di prestigio personale, di potere politico, ecc. Attorno a questa tematica è invece necessario costruire linee guida e protocolli che si ispirano alla cultura scientifica più avanzata a livello

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internazionale. Anche se anch’essi non sono sempre scevri da influenze di parte, rappresentano certamente il punto di riferimento più valido.

Un aspetto non secondario, in conclusione, riguarda la valutazione soggettiva dei cittadini rispetto alle tecnologie. È un’area che andrebbe esplorata in modo più attento, perché mancano indicazioni controllate sulla valutazione delle nuove (o innovative) tecnologie da parte del singolo individuo. Infatti molti cittadini non distinguono con chiarezza quali hanno funzione diagnostica (l’imaging), quali invece possono avere un ruolo importante nelle cure (l’area dell’interventistica, dei farmaci, ecc.), quali collaborano alla definizione del bisogno del singolo individuo (l’ICT). Sarebbe utile arrivare ad una coscienza diffusa sull’importanza delle tecnologie per il bene collettivo, al di là delle informazioni spesso non precise fornite dai media, e nell’ambito di un approccio complessivo con i servizi sanitari; il fine è costruire serenamente un rapporto con gli ambiti dove le tecnologie svolgono un ruolo im-portante (ad esempio, in questa prospettiva non si potrebbe giustificare l’esistenza di realtà ospedaliere di piccole dimensioni, prive di tecnologie avanzate dal punto di vista diagnostico, interventistico e anche dell’uso dei farmaci più innovativi). D’altra parte, una positiva valutazione del cittadino avrebbe una ricaduta rilevante sull’efficacia degli interventi stessi, che verrebbero interpretati come un contributo fondamentale per recuperare la salute e quindi soggettivamente valorizzati.

Infine, ma non secondario, vi è il problema della formazione degli operatori su queste tematiche. L’equilibrio nell’adattare la tecnologia al bisogno del singolo non si apprende senza problemi; è infatti il frutto di insegnamenti che percorrono lo stesso iter delineato in questo articolo, per trasmettere all’operatore (tecnologo o clinico) il significato del suo lavoro, sempre influenzato dal progresso scientifico, ma allo stesso tempo sempre responsabilizzato rispetto al benessere del paziente. Non è un equilibrio facile da raggiungere, sotto la pressione della cultura scientista da una parte e della tendenza ad enfatizzare solo gli aspetti assistenziali dall’altra. Però il futuro della medicina non può non essere fondato su una fusione dinamica tra due realtà, quella della sofferenza che si presenta sotto forme sempre nuove e quella della tecnologia che esprime con prudenza le sue enormi potenzialità. In questa logica dovrà avere un maggiore sviluppo all’interno dei servizi sanitari il lavoro di équipe, non come avvicinamento acritico tra professionalità diverse, ma come base per un continuo scambio dialettico di informazioni per arrivare alla migliore decisione. Su questo piano vi è ancora molta strada da compiere; per esempio, all’interno degli ospedali il rapporto tra i servizi tecnologici e quelli direttamente a contatto con l’ammalato non sono sempre facili. Però più che prevedere protocolli su come devono avvenire i processi decisionali, sarà utile sviluppare sempre più l’analisi del singolo caso, attorno al quale costruire consensi; la verifica dei risultati in conseguenza di una certa decisione più o meno condivisa sarà la modalità più efficace per definire le modalità di una collaborazione efficace.

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Innovazione e ricerca per il rilancio dei settori high techdi andrea bianchi

RiassuntoSostenere la ricerca è un passaggio obbligato per la crescita. I dati sull’attività di ricerca in Italia mostrano la debolezza strutturale del nostro paese, ma allo stesso tempo nascondono le eccellenze dell’industria italiana sia nei settori a media che in quelli ad alta tecnologia, dove si concentra il maggiore livello di innovazione. Gli strumenti messi in campo sono importanti ma ancora insuffi-cienti. Servono politiche industriali mirate che puntino sulla qualificazione della domanda pubblica, sul credito d’imposta e sul finanziamento dei progetti di ricerca.

Parole chiave:Tecnologia, innovazione, ricerca.

AbstractSupporting Research and Innovation is a an essential step to sustain growth. The data on Research and Innovation in Italy provide unequivocal evidence of the intrinsic weakness of our country, but at the same time disguise the excellencies of the Italian Industry in areas such as the media and high tech sectors, where the highest level of innovation is concentrated. The adopted procedures are effective but still highly insufficient. It is extremely important to deliver tailored industrial policies that aim to a qualification of the public demand, the tax credit and the funding of research projects.

Key words: Tecnologies - innovation, research.

La crisi finanziaria, che ha colpito le economie mondiali innescando la più grave recessione del dopoguerra, ha tra le altre cose evidenziato il valore strategico dell’indu-stria nelle economie avanzate. L’industria consente infatti di rendere più stabile il ciclo economico anche in presenza di ampie oscillazioni dei mercati finanziari tipiche di un’e-conomia globalizzata in cui le spinte alla speculazione hanno una straordinaria potenza.

Tale capacità deriva dal fatto che l’industria genera crescita grazie al grande bacino

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occupazionale che rappresenta e grazie al fatto che svolge gran parte dell’attività di ricerca privata e possiede un’elevata propensione ad innovare. Attraverso la diffusione di innovazioni mantiene una buona dinamica della produttività, garantendo più elevate retribuzioni e una maggiore capacità di attrarre risorse umane qualificate.

Il valore del settore manifatturiero impone quindi una forte attenzione da parte dei policy maker al fine di mettere la competitività delle imprese al centro di tutte le politiche economiche.

L’Europa si sta già muovendo verso questo obiettivo. Dal 2010 il rilancio dell’industria e il tema della reindustrializzazione dell’Europa sono stati oggetto di importanti comunicazioni della Commissione – l’ultima “Per un rinascimento industriale europeo” del 22 gennaio 2014 - che si sta orientando verso l’adozione di politiche selettive, nella convinzione che per uscire dalla crisi sia necessario valorizzare in via prioritaria le potenzialità di alcuni grandi driver industriali.

In particolare, l’idea della Commissione è di affiancare agli interventi orizzon-tali volti a creare condizioni più favorevoli per l’attività d’impresa - quali ad esempio l’accesso ai finanziamenti e il rafforzamento del mercato unico - anche interventi in aree industriali ad elevata crescita, in cui l’adozione di tecnologie innovative può giocare un ruolo determinante per la creazione di nuovi prodotti o per aumentare la produttività. Sotto questo profilo, i mercati più rilevanti individuati dalla Com-missione sono quelli delle tecnologie di fabbricazione avanzate per la produzione “pulita” e delle tecnologie abilitanti, i mercati dei prodotti biologici, l’industria sostenibile, edilizia e materie prime, la mobilità sostenibile e le reti intelligenti.

Un ruolo chiave in queste aeree di sviluppo è svolto dall’attività di ricerca. La ricerca e l’innovazione sono unanimemente considerate le fondamenta del progresso economico e sociale e il motore che dà impulso allo sviluppo durevole e sostenibile.

Secondo i dati dell’ISTAT, nei paesi europei l’attività di ricerca e sviluppo ha raggiunto nel 2010 i 247 miliardi di euro. L’Italia, con una spesa di 19,6 miliardi di euro nel 2010 sostenuta da imprese, istituzioni pubbliche, istituzioni private non profit e università conferma la sua debolezza rispetto agli altri grandi paesi industriali europei. La spesa italiana rappresenta infatti l’8% del totale europeo contro il 28,3% della Germania, il 18% della Francia e il 12,5% del Regno Unito.

In termini di rapporto tra spesa in ricerca e sviluppo e PIL, nel 2010 solo la Svezia, la Finlandia e la Danimarca hanno superato la soglia l’obiettivo del 3% fis-sato nell’ambito della strategia “Europa 2020”. Al di sotto del 3%, ma ampiamente sopra la media europea del 2%, ci sono la Germania e l’Austria. L’Italia si colloca molto al di sotto non solo della soglia del 3%, ma anche della media europea: con un rapporto dell’1,3% l’Italia presenta un livello di spesa per ricerca inferiore a quasi tutti i Paesi dell’Ue.

Questo quadro è confermato da altri indicatori che misurano il peso dell’at-tività di ricerca. Un indicatore è dato dall’incidenza degli occupati nei settori high tech: in Italia il 3,3% degli occupati lavora nei settori più innovativi, al di sotto della

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media europea del 3,8%, registrando uno dei valori più bassi tra i paesi dell’UE a 15. L’altro è dato dall’incidenza dei cosiddetti “lavoratori della conoscenza” con laurea o specializzazioni post laurea occupati in professioni tecnico-scientifiche: nel 2011 in Italia sono il 13,3% del totale degli occupati contro la media europea del 18,8%.

Se si esamina l’intensità di brevettazione, l’Italia con 73,3 brevetti per milione di abitanti, si colloca al di sotto della media europea che nel 2010 è stata di 108,6 brevetti. L’Italia però registra risultati migliori se si considera la propensione ad innovare che è misurata in termini di innovazione tecnologiche, di prodotto e/o di processo, e di altre innovazioni organizzative realizzate dalle imprese. Nel triennio 2008-2010, infatti, l’Italia con il 53,9% di imprese innovatrici si posiziona al di sopra della media europea (49%)

I dati illustrati mostrano un ritardo strutturale dell’Italia nell’attività di ri-cerca e nell’alta tecnologia. Questo ritardo è legato in primo luogo alla struttura molecolare del nostro sistema produttivo: più la dimensione è piccola e maggiori sono le difficoltà di sostenere gli elevati costi fissi connessi all’avvio di progetti innovativi; anche la minore propensione all’esportazione delle imprese più piccole riduce l’incentivo a investire in innovazione perché i costi si ripartiscono su un numero minore di vendite. Anche la gestione delle imprese ampiamente fondata su un management familiare, con la sostanziale coincidenza tra patrimonio azien-dale e familiare, può influire sulle decisioni di spesa in progetti di ricerca incerti e rischiosi. Infine, un freno alla ricerca è costituito dalla struttura finanziaria delle imprese italiane e la loro forte dipendenza dal credito bancario, che però è meno adatto a sostenere investimenti a causa dell’incertezza dei risultati e delle difficoltà di valutazione dei progetti di ricerca.

A questi elementi di freno si aggiunge la regolamentazione. Secondo l’OCSE la crescita dimensionale delle aziende innovative è inferiore nei paesi in cui la regolamentazione nel settore dei servizi alle imprese è più restrittiva, il sistema giudiziario è più inefficiente e la normativa fallimentare è più penalizzante per le imprese: tutti elementi che purtroppo si ritrovano in Italia.

Va tuttavia rilevato che i dati sulla ricerca possono sottostimare l’innovazio-ne realizzata dalle tante PMI che spesso innovano senza effettuare o registrare ufficialmente tale spesa. Il potenziale di crescita di queste imprese e la loro capa-cità di realizzare brevetti risulta però inferiore a quella delle imprese che hanno anche svolto l’attività di ricerca. Secondo i dati riportati nella Relazione Annuale 2013 della Banca d’Italia, in tutti i paesi il numero di imprese che hanno destinato risorse e progetti innovativi supera il numero di quelle che hanno sostenuto spese in ricerca e sviluppo: in Italia queste imprese rappresentano il 40%.

I dati riportati dunque nascondono eccellenze tecnologiche sia in settori a media intensità tecnologica che in quelli ad alta tecnologia.

Ad esempio nella meccanica, segmento della manifattura oggi fondamentale per il nostro paese, l’Italia è seconda solo alla Germania per spesa in ricerca con oltre 1 miliardo di euro, cifra che peraltro sottostima largamente tanta ricerca

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informale fatta dalle PMI. Inoltre, considerando i 935 prodotti in cui, secondo l’Osservatorio Fondazione Edison-GEA, l’Italia è prima, seconda o terza al mondo per attivo commerciale con l’estero, si rileva che ben 415 di tali beni apparten-gono a settori innovativi della meccanica e dei mezzi di trasporto diversi dagli autoveicoli e che tali 415 beni hanno generato nel 2012 un surplus con l’estero pari a 95 miliardi di dollari.

Esempi di eccellenze nell’alta tecnologia li ritroviamo nel settore della difesa e dell’aerospazio, in cui l’Italia ha una posizione di grande rilievo a livello mondiale. Nel panorama italiano spicca ovviamente Finmeccanica.

Presente in 45 paesi e con un elevato numero di dipendenti qualificati impiegati nelle sue aziende, Finmeccanica si pone al di sopra della media delle multinazionali europee, anche di quelle tedesche, nella produzione di prodotti ad alta e medio-alta tecnologia. In Italia Finmeccanica è presente su tutto il territorio nazionale con oltre 100 siti industriali e commerciali, che rilevano un valore della produzione nel 2012 superiore a 11 miliardi di euro e un valore aggiunto per oltre 3.5 miliardi di euro che diventano 9 se si considera anche l’indotto.

L’indotto è infatti una parte molto importante del settore. Si tratta di tante piccole e medie imprese altamente specializzate che hanno potuto sviluppare elevate competenze tecnologiche grazie alla partecipazione a progetti interna-zionali promossi da Finmeccanica. Anche il dato sulle esportazioni del gruppo Finmeccanica è di particolare rilevanza: le esportazioni superano i 7 miliardi, rappresentando l’1,9% del valore totale delle esportazioni italiane di beni. Ma tra tutti i dati riportati, quello che fa comprendere pienamente il ruolo trainante di questa industria nell’economia italiana riguarda gli effetti moltiplicativi generati dalla sua attività. Ogni euro di valore aggiunto del gruppo Finmeccanica genera ulteriori 1,6 euro nell’economia italiana e ogni occupato di Finmeccanica sostiene altri 2,1 posti di lavoro in Italia.

Più in generale, questi dati indicano che l’industria aerospaziale e della sicu-rezza rappresenta un settore strategico dell’economia, che svolge una funzione di traino grazie agli effetti prodotti dall’attività di ricerca e innovazione che rappre-senta il cuore e il motore del settore stesso e contribuisce in modo determinante all’ampliamento delle competenze all’interno delle filiere, al rafforzamento della base tecnologica industriale attraverso processi di trasferimento tecnologico e, in definitiva, alla crescita della domanda e dell’occupazione.

E ancora altri esempi di eccellenza si trovano nel settore della sanità e in particolare della scienza della vita (farmaceutica e dispositivi medici). Una recente ricerca dell’Aspen rileva come, con 43 miliardi di euro di fatturato pari al 4,2% del manifatturiero italiano, questo settore sia uno dei comparti ad alta tecnologia in cui l’industria italiana è altamente specializzata. Il settore delle scienze della vita presenta una struttura produttiva globale e capace di attrarre investitori esteri, con una forte presenza di multinazionali anche estere, affiancate da un fitto tessuto di piccole e medie imprese dinamiche e flessibili e da numerose start up innovative

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che applicano le conoscenze e i risultati della ricerca svolta nei centri di ricerca universitari e ospedalieri.

Si tratta dunque di un settore molto competitivo, che tra il 2008 e il 2012 ha visto crescere del 36,5% le proprie esportazioni contro la media del 6,5% del manifatturiero e che con questi straordinari risultati si colloca al di sopra dei livelli di fatturato precedenti alla crisi. In particolare, emergono i risultati ottenuti dalle imprese più innovative - e che hanno depositato i loro brevetti allo European Patent Office – che hanno registrato i migliori risultati in termini di fatturato e di redditività.

Il settore delle scienze della vita ha, inoltre, un elevato potenziale di svilup-po legato alla domanda pubblica. In particolare, una domanda pubblica orientata all’innovazione può dare un forte impulso all’innovazione high tech e dei servizi avanzati, configurandosi così come un efficace strumento di politica industriale. Questo è vero per tutti i settori e ovviamente in tutti i paesi.

Nella strategia “Europa 2020” la domanda pubblica di prodotti innovativi e di servizi di ricerca sono un pilastro delle politiche europee sull’innovazione. In par-ticolare, nel caso della fornitura di servizi di ricerca e sviluppo, quando le esigenze del committente pubblico presentano un’elevata complessità tecnologica, si attiva la procedura di appalto pubblico pre-commerciale che segue schemi diversi dai comuni appalti pubblici e risponde a fabbisogni specifici della stazione appaltante e che per questo non potrebbe essere soddisfatto allo stesso modo tramite le forme di approvvigionamento più tradizionali e codificate.

In Italia – dove secondo i dati Eurostat gli acquisti per forniture ammonta-vano nel 2010 al 16,2% del PIL - il “Decreto sviluppo bis” ha rafforzato questo strumento, prevedendo il suo utilizzo nell’ambito di grandi progetti di ricerca e innovazione connessi alla realizzazione dell’Agenda digitale.

Un impulso significativo all’attività innovativa in Italia può venire dai cluster tecnologici, la cui nascita è stata favorita negli ultimi anni da alcune specifiche misure ispirate alle esperienze di agglomerazioni volontarie di imprese ad alta tecnologia. L’obiettivo di tali misure, attraverso il sostegno di fondi pubblici, è attivare sinergie tra centri di ricerca, università e imprese private in ambiti geografici circoscritti. Tra queste politiche rientrano i distretti tecnologici e i parchi scientifici e tecnologici.

Alla fine del 2011 il MIUR ha censito 29 distretti tecnologici, distribuiti in 18 regioni e popolati da circa 2.300 imprese. Circa la metà dei distretti è localizzata nel Mezzogiorno mentre il resto è distribuito uniformemente nelle altre tre ma-croaree. Con riferimento ai parchi tecnologici, una ricerca promossa dalla Banca d’Italia presso 25 parchi scientifici italiani ha messo in evidenza che quasi tutti hanno una proprietà pubblica o mista e che, in media, il 30 per cento delle entrate proviene da fondi pubblici. Inoltre, ogni parco occupa in media poco meno di 40 addetti, ospita 28 imprese e offre servizi a 105 aziende. I parchi inoltre cooperano prevalentemente con le università piuttosto che con i centri di ricerca pubblici, partecipando insieme a progetti e condividendo infrastrutture per la ricerca.

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Queste misure contribuiscono anche a superare il limite sopracitato della dimensione delle imprese, ma l’attività di ricerca va ulteriormente sostenuta. In questo senso uno strumento fondamentale è il credito di imposta per gli inve-stimenti realizzati dalle imprese sia in house sia in collaborazione con il sistema pubblico di ricerca e altri organismi.

Un primo passo in questa direzione viene dal decreto “Destinazione Italia” che introduce per il triennio 2014 – 2016 un credito di imposta al 50% per i nuovi investimenti in ricerca e sviluppo compresi tra 50 mila euro e 2,5 milioni di euro. La misura è certamente apprezzabile, ma dovrebbe essere resa più incisiva: perché il credito d’imposta possa configurarsi come un vero strumento di politica industriale è necessario renderlo strutturale ed estenderlo al volume complessivo degli investimenti in ricerca e innovazione. L’introduzione di misure limitate nel tempo scoraggiano l’avvio di investimenti di ricerca che per loro natura richiedono tempi di realizzazione lunghi. Misure non strutturali penalizzano la ricerca in Italia e scoraggiano anche eventuali investimenti da parte di imprese estere, che in altri paesi come Francia, Spagna, Gran Bretagna e Germania possono invece beneficiare di condizioni strutturali e di particolare favore per la ricerca.

Infine, occorre favorire il finanziamento dei progetti di ricerca che, come detto in precedenza, non trovano il supporto del sistema bancario. In proposito sono due le strade da seguire in questo momento. La prima consiste nello sviluppo di modalità di finanziamento basate sul meccanismo di risk sharing; una prima misura che va in questa direzione è la costituzione, prevista dalla legge di stabilità, di una sezione del Fondo di garanzia che garantisce i finanziamenti erogati dalla BEI per la realizzazione di progetti di innovazione industriale. La seconda riguarda i fondi europei di Horizon 2020 che vanno orientati verso progetti che avvicinano la ricerca di base e la ricerca applicata al fine di favorire il trasferimento dei risultati della ricerca all’industria.

Dagli investimenti in Ricerca e sviluppo dipende la modernizzazione del Paese e il loro sostegno rappresenta una misura essenziale per la competitività delle imprese, oltre che per il rilancio degli investimenti esteri.

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Crescere puntando sull’innovazione e le tecnologie sanitariedi sTefano riMondi

RiassuntoCon la crisi economica gli investimenti in ricerca nel settore dei dispositivi medici in Italia si sono ridotti notevolmente. Eppure sono proprio questi che rendono il settore vivo e competitivo, oltre a contribuire a innovare la Sanità e a migliorare la qualità della vita dei cittadini. Purtroppo invece il Servizio sanitario nazionale sta pian piano rinunciando a investire in innovazione tecnologica a discapito della qualità della cure dei cittadini. L’Italia è un paese che ha enormi potenzialità in campo medico-scientifico grazie a un’ottima classe medica e a un’industria che produce tecnologie di livello, oltre a una gran quantità di laboratori di ricerca pubblica. Se questi soggetti fossero messi in condizione di fare sistema, creando delle reti nazionali di eccellenza, che riuniscano i migliori poli per specifiche competenze, si metterebbe un primo tassello per la crescita e la creazione di nuovi posti di lavoro.

Parole chiave:Investimenti, reti, competenze.

AbstractDealing with the consequences of the economic crisis, investments in technological research in the field of medical devices in Italy were considerably reduced. Unfortunately these just make the sector lively and competitive as well as contributing to the Health innovation and the improvement of the citizen’s quality of life. However the NHS is slowly giving up on investing in technological innovation to the detriment of the quality of therapies and health services. Italy is a country that has huge potentiality in medical and scientific field due to excellent medical profession and industry, that produces high technologies, in addition to a large amount of public research laboratories. If these members were put in a position to interact each other, creating national networks of excellence, bringing together the best poles for specific expertise, it would put a first step for the growth and the creation of new jobs.

Key words: Investiments, networks, expertise.

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I principali problemi che il nostro Paese deve affrontare sono l’ingente debito pubblico e l’andamento negativo dell’economia. Essi sono legati in modo molto stretto l’uno all’altro e per riuscire a risolverli è indispensabile poter contare su una crescita economica stabile. Tornare a crescere è dunque un imperativo per il Paese, tanto quanto le riforme strutturali che vanno avviate in parallelo.

L’Italia investe troppo poco in ricerca e sviluppo (R&S) e in misura importante ciò è dovuto al venire meno del cosiddetto “effetto traino” della spesa pubblica nei confronti degli investimenti privati. In altre parole, gli investimenti pubblici in R&S in Italia non producono un volano sufficiente a generare investimenti delle imprese, se non in misura modesta. Le ragioni di questo, in generale, sono di varia natura. Detto ciò siamo ancora un Paese con grandi potenzialità; potenzialità che ora più che mai dobbiamo valorizzare in modo che attraggano investimenti in R&S e generino innovazione. Affinché questo possa realizzarsi, occorre intervenire su tutti i punti deboli elencati. Questo andrebbe fatto attraverso scelte strategiche chiare, individuando priorità che siano in linea con i bisogni e le competenze del Paese, nel solco degli indirizzi strategici 2011-2020 indicati dalla Commissione europea nel quadro di “Europa 2020”.

La Sanità e il settore dei dispositivi medici offrono importanti opportunità di sviluppo per il Paese ed è in questa chiave, dunque, che andrebbero pensati gli interventi da mettere in campo per questo settore, compresi quelli tesi ad assicu-rare la necessaria sostenibilità del sistema: un obiettivo, quest’ultimo, da perseguire non rinunciando alla qualità delle tecnologie sanitarie e delle prestazioni erogabili, bensì puntando proprio su di essa come volano di sviluppo. In questo momento nel Paese ci sono diverse iniziative in moto a livello locale e regionale che dimo-strano come, da un lato, le opportunità offerte dal settore siano state intraviste, ma, dall’altro, manchi una strategia di coordinamento e un sistema finalizzato a cogliere le possibili sinergie tra queste iniziative.

Quello che Assobiomedica cerca di fare da alcuni anni è di richiamare l’atten-zione su una serie di possibili interventi strutturali, in massima parte a costo netto pari a zero, quali spunti finalizzati a una politica per lo sviluppo centrata sul settore sanitario e, in particolare, dei dispositivi medici. Tutto questo con il presupposto che nel Paese sia prioritario da una parte elevare il livello di collaborazione tra i soggetti interessati nel fare investimenti, nel promuovere tali investimenti, nel potenziare e offrire capacità di fare ricerca; dall’altra non disperdere le risorse a disposizione, ma fare il più possibile massa critica.

Il nostro sistema sanitario, pur con tutte le disuguaglianze interregionali e infra-regionali, può contare su competenze e tecnologie che lo pongono certa-mente tra quelli più avanzati al mondo. In particolare, il fatto che la classe medica italiana sia di ottimo livello e all’avanguardia nell’utilizzo di numerose tecnologie sanitarie innovative, rappresenta sicuramente un’importante punto di forza del nostro sistema che occorre valorizzare al massimo, su due piani: quello delle capa-cità progettuali per cogliere le opportunità presenti nel quadro dei finanziamenti

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europei per l’innovazione; quello delle capacità di offerta di servizi alle imprese in tema di R&S, trasferimento tecnologico e indagini cliniche. Attrarre investimenti per la ricerca e l’innovazione è un obiettivo che molti paesi si pongono. Di più, è un obiettivo rispetto al quale la competizione tra i paesi interessati alle ricadute dirette e indirette di tali investimenti è già oggi molto forte e andrà crescendo ancora in futuro. A questo proposito il principale ostacolo da superare nel nostro Paese è la frammentazione delle politiche, delle iniziative e degli investimenti. Essa, con i suoi risvolti pratici sul piano delle risorse a disposizione, limita fortemente sia le possibilità di valorizzare il sistema nel suo complesso, sia l’efficacia e l’efficienza delle iniziative che vengono portate avanti. In tema di governance della ricer-ca e dell’innovazione, le proposte domestiche e gli esempi dall’estero su cui ragionare, anche criticamente, non mancano. L’obiettivo, però, deve essere quello di trovare rapidamente una soluzione in grado di favorire sinergie e collaborazioni attraverso una regia e un coordinamento, almeno per le iniziative più impegnative; promuovere soluzioni in grado di attrarre con maggiore efficacia gli investimenti europei; semplificare l’accesso ai finanziamenti disponibili.

Nel prossimo futuro andranno probabilmente consolidandosi “macro-archi-tetture” ad alta tecnologia che risulteranno sempre più attrattive per gli investimenti e, di conseguenza, diminuiranno le opportunità alla portata di singole strutture, o di singole regioni al di fuori di tali architetture. Sul piano strategico, la risposta a un tale scenario consisterebbe nel passare dall’odierna logica “micro-competitiva” (tra singole strutture e/o singole regioni) a una logica “collaborativa di sistema” basata sulle eccellenze, che permetta di rafforzare le competenze specialistiche. Sul piano pratico, si tratterebbe di realizzare apposite “reti” ciascuna delle quali ospiti al suo interno il centro nazionale di competenza per la propria specialità e riunisca tutti i migliori poli con competenze in quella specialità. I vantaggi, rispetto a oggi, che queste reti offrirebbero sarebbero diversi. Consentirebbero di non disperdere le risorse a disposizione a livello regionale e nazionale, e di migliorare il livello qualitativo della ricerca sanitaria italiana; inoltre, favorirebbero il consolida-mento infrastrutturale dei laboratori, a cominciare da quelli che oggi sono deficitari di risorse. Darebbero ai centri italiani più forza per intercettare le opportunità offerte dalla programmazione europea e i finanziamenti privati. Darebbero a tutte le imprese certezze riguardo a dove poter trovare determinate competenze a cui esse fossero interessate, offrendosi non solo come partner ideali per l’attività di R&S, ma altresì come piattaforme tecnologiche (multicentriche e interregionali) ideali per validare le innovazioni su scala internazionale. L’Italia ha tutto quello che occorre per creare numerose reti di eccellenza. Una soluzione pragmatica consisterebbe nell’allargare il respiro delle reti che già esistono, coinvolgendovi tutti i poli di eccellenza che possono renderle più competitive. Al contempo è necessario creare nuove reti di questa concezione, così da giungere ad avere una rete nazionale per ognuna delle branche medico-specialistiche e tecnologiche nelle quali l’Italia ha oggettivi punti di forza da valorizzare.

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La R&S e il trasferimento tecnologico non passano attraverso semplici “in-terruttori” da accendere episodicamente e tenere spenti per il resto del tempo. I risultati della R&S e del trasferimento tecnologico sono tanto più proficui quanto più si tratta di finalizzare un rapporto di “frequentazione” tra impresa e ricerca che è sistematico, continuativo, caratterizzato da una fertilizzazione reciproca. L’idea di “parco scientifico e tecnologico” (PST) nasce infatti come luogo d’elezione dove industria e laboratori di ricerca (collegati all’università) possano interagire già in fase di programmazione delle rispettive attività e poi collaborare in fase di R&S e trasferimento tecnologico. Questo è un aspetto di fondamentale importanza, che invece tende a essere tuttora sottovalutato in Italia. È noto che sotto il profilo della frequentazione stabile tra il mondo dell’impresa e quello della ricerca all’interno dei PST la situazione è tuttora meno brillante di quanto servirebbe, complice pro-babilmente il fatto che diversi PST, quando sono nati, non avevano alle spalle una progettualità forte. Per questa ragione, il ripensamento dei PST esistenti potrebbe essere un esercizio decisamente utile – ad esempio per favorirne l’aggregazione, in taluni casi, e rafforzarne le specializzazioni, in altri – che andrebbe fatto nell’ambito e in sinergia con la valorizzazione delle reti di eccellenze. Riguardo, poi, agli uffici di trasferimento tecnologico (UTT) interni alle università, questi nel nostro Paese hanno finora svolto una funzione più culturale che pratica. In linea generale, infatti, hanno sì promosso e sviluppato interazioni con il sistema produttivo, ma sul piano del trasferimento tecnologico vero e proprio, i risultati prodotti appaiono modesti. Le ragioni di questo sono diverse, ma sarebbe molto più sensato creare un UTT nazionale dedicato al settore delle tecnologie sanitarie e collegato in rete a una serie di UTT regionali, altrettanto dedicati a questo settore e a loro volta in contatto con gli atenei e i centri di ricerca non universitari.

Investimenti in R&S, indagini cliniche, registri, studi post-marketing sono tutti momenti di un unico processo finalizzato all’innovazione per un’assistenza sanitaria sempre più appropriata. Tale processo va favorito nel suo insieme e sostenuto crean-dogli intorno le condizioni di cui necessita. In Italia gli investimenti delle imprese in studi clinici, siano essi pre-marketing o post-marketing, appaiono modesti rispetto alle potenzialità del nostro sistema sanitario nazionale (SSN), che è all’avanguardia nell’utilizzo di innumerevoli tecnologie sanitarie. Questo si è tradotto in minori risorse a disposizione del SSN. Le motivazioni sono legate a una certa disorganizzazione del sistema nel suo complesso, e in particolare alla burocrazia (che produce tempi lunghi e incerti) prima ancora che ai costi (maggiori soprattutto rispetto ai paesi emergenti). L’elemento positivo in tutto ciò consiste nel fatto che l’Italia ha ancora la possibilità di essere competitiva su questo fronte. Allo scopo di valorizzare le potenzialità del nostro SSN e attrarre maggiori investimenti in studi clinici, sia di imprese produttrici che di multinazionali estere commerciali, è necessario, prima di ogni altra cosa, rendere uniformi tempistiche, modalità di presentazione dei protocolli clinici (i documenti da produrre e il formato standard degli stessi, le istruzioni per la formulazione del con-senso del paziente, ecc.) e tariffe di rimborso spese applicate dai Comitati etici locali.

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Altri aspetti che l’Italia oggi riesce a cogliere in misura molto inferiore ri-spetto ad altri paesi sono le opportunità che offrono i bandi comunitari. Tra tutti i progetti di ricerca che, a partire dal 1990, sono stati finanziati direttamente dall’Unione Europea e che riguardano il settore Health and Medicine, l’Italia è 4° (e molto distanziata da Regno Unito, Germania e Francia) nel ranking europeo per numero di progetti in cui è presente e 5° per numero di progetti che coordina (cedendo il quarto posto all’Olanda). A questo riguardo, la realizzazione di apposite reti nazionali di eccellenze specialistiche sarebbe la via per rafforzare le nostre realtà di punta e potenziarne le capacità di proporsi con il ruolo di coordinatrici di progetti europei. Sul fronte interno, l’esame dei programmi, delle norme e delle iniziative in questione mette in luce in generale un’altissima dispersione, a livello nazionale, dei finanziamenti, i quali peraltro risultano normalmente caratterizzati da un respiro di breve periodo; un’ampia sovrapposizione, a livello regionale, delle voci, degli strumenti, e soprattutto delle aree strategiche di intervento.

Sarebbe necessaria una politica di lungo respiro che dia certezza sulle linee di indirizzo e sulle risorse che si renderanno disponibili, oltre ad essere quanto mai utile che si diffonda un approccio sistemico e interregionale che miri a cogliere sinergie e a evitare competizioni domestiche irragionevoli. Infatti, al fine di mas-simizzarne le ricadute economiche, sarebbe decisivo un coordinamento, almeno a livello interregionale, delle politiche regionali di finanziamento a sostegno della ricerca e dell’innovazione, legate ai territori e ai rispettivi sistemi produttivi (distretti tecnologici). Nel complesso, la frammentazione degli interventi disposti all’interno di una stessa regione è talmente alta che, per un’impresa, risulta difficile orientarsi, anche perché non tutte le misure inizialmente disposte vengono poi effettivamen-te finanziate. Per riuscire nel prossimo futuro a cogliere maggiormente le grandi opportunità offerte dai bandi comunitari, è necessario che tanto i finanziamenti nazionali quanto quelli delle singole regioni vengano in massima parte finalizzati a rafforzare le eccellenze e le specializzazioni forti del nostro Paese. Infatti, l’efficacia dei futuri finanziamenti nazionali e regionali dipenderà da quanto questi risulteranno sinergici rispetto a quelli europei: alla strategia “Europa 2020” è quindi bene che il nostro Paese risponda con un’analoga strategia “Italia 2020”, in cui l’innovazione legata alle tecnologie sanitarie sia uno degli assi portanti.

Con l’obiettivo di riorientare il nostro modello di sviluppo economico verso determinati settori ad alta intensità di ricerca e strategici per il Paese, quale ad esempio il settore dei dispositivi medici, servono segnali forti e stabili perché se-gnali deboli e intermittenti hanno già dimostrato di non essere efficaci. A questo proposito, il meccanismo del credito di imposta è uno strumento di grande rilevanza che, in Italia, deve però essere migliorato, sotto il profilo sia della stabilità che della portata. In relazione all’aspetto della stabilità, si sottolinea come fino a oggi il credito di imposta sia stato oggetto di continue ridefinizioni; infatti, i provve-dimenti che nel tempo lo hanno introdotto e regolamentato si sono caratterizzati per la loro breve durata e ciò li ha resi fatti isolati in balia di una perenne incertezza.

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Invece, i programmi di investimento delle imprese, e in particolare quelli in R&S, in particolare, non sono decisi con logiche di breve periodo: il credito di imposta nel nostro Paese andrebbe dunque reso strutturale, stabilizzato per un periodo di almeno dieci anni. In relazione all’aspetto della portata, è fin troppo facile affermare che occorre destinare al credito di imposta un’adeguata dotazione finanziaria. Il punto è come riuscire a conciliare l’esigenza di offrire agevolazioni sufficiente-mente attraenti, da un lato, con la limitatezza delle disponibilità finanziarie pubbli-che, dall’altro. A questo proposito, si ritiene che una possibile soluzione consista nell’adottare un approccio doppiamente selettivo, che punti su pochissimi settori, quelli ritenuti realmente strategici, nonché soprattutto sulle imprese realmente innovative. Sul piano pratico, una volta definiti quali siano i settori strategici e fatto salvo l’automatismo iniziale del credito (nessuna valutazione ex-ante sull’impresa interessata), andrebbero introdotti meccanismi di valutazione (periodica) ex-post che non siano meramente fiscali e contabili, ma siano in grado di cogliere e pre-miare la produttività degli investimenti effettuati. Le imprese che dimostrassero di sapere meglio investire in R&S si vedrebbero riconoscere lo status di “imprese innovative”, in base al quale, il credito di imposta da esse inizialmente goduto verrebbe aumentato per gli anni a venire. Si consideri che lo status di “impresa innovativa” è presente in Francia, Belgio, e probabilmente verrà presto introdotto in Spagna e Gran Bretagna; in Francia, in particolare, questo meccanismo esiste dal 2004 e sembra aver funzionato bene. A completare il quadro, la rosa delle attività e dei costi ammissibili dovrebbe essere definita in modo stringente (così da esser certi di incentivare investimenti in R&S), la rendicontazione dovrebbe essere il più possibile semplificata, e il credito dovrebbe riguardare l’intera spesa sostenuta, e non unicamente il suo relativo eventuale incremento rispetto all’anno precedente (come invece è previsto che sia attualmente), per non penalizzare le imprese che già investono molto, facendo venir loro a mancare il sostegno offerto alle altre. Tutti questi interventi, insieme, garantirebbero che gli incentivi alla R&S andassero effettivamente non solo a investimenti di questo tipo, ma altresì alle imprese che dimostrassero di saperli fare in modo produttivo.

Nei mercati la domanda incide profondamente sulle politiche di investimento delle imprese e alla cosiddetta “industria o filiera italiana della salute” va attribuita una quota importante del PIL italiano, e in questo ambito la domanda pubblica ha un ruolo predominante. Per i dispositivi medici, in particolare, la sanità è l’unico mercato di sbocco. Quello italiano è uno dei più importanti nel mondo – è il terzo mercato europeo, il sesto a livello mondiale (dopo Stati Uniti, Giappone, Cina, Germania, Francia) – e la domanda pubblica ne rappresenta direttamente circa il 73%. Non a caso, l’innovazione è storicamente entrata e si è diffusa nel nostro sistema sanitario passando prima e soprattutto attraverso le strutture sanitarie pubbliche. La domanda pubblica per questo comparto ha dunque una valenza enorme e, se bene esercitata, può risultare determinante nello stimolare e attrarre gli investimenti in R&S. Infatti, il sapere di poter contare su un contesto

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istituzionale e tecnico favorevole all’introduzione sul mercato dell’innovazione stimola la propensione dell’industria a investire, sin dalle fasi più precoci, in pro-dotti innovativi. Ovviamente è vero anche l’inverso: un paese che facesse suo un atteggiamento anche solo di timidezza nei confronti dell’innovazione tecnologica finirebbe per allontanare gli investimenti delle imprese.

Sulla base di queste considerazioni, è fondamentale che le innovazioni pro-venienti dal settore dei dispositivi medici possano trovare nel mercato italiano logiche premianti in termini di politiche di acquisto e criteri di aggiudicazione delle forniture; meccanismi di finanziamento e di rimborso delle prestazioni sanitarie. Riguardo al primo aspetto, da diversi anni, in Italia la politica pubblica di acquisto dei dispositivi medici sembra, invece, non preoccuparsi del suo possibile impatto a medio-lungo termine sul “genoma” dell’offerta. Questo almeno traspare dalle sempre più numerose gare caratterizzate da punteggi prezzo-qualità sbilanciati sul prezzo e dalle gare centralizzate. Queste ultime, in particolare, nella misura in cui tentano di imporre la logica del “one device for all” appaiono in totale controten-denza rispetto agli indirizzi della ricerca nel campo delle tecnologie sanitarie, che invece va verso una crescente personalizzazione dei dispositivi medici. Riguardo al secondo aspetto, si osserva come la pervasività delle tecnologie oggi sembri spaventare chi governa sul piano amministrativo il sistema. Il pensiero corre al concetto di health technology assessment (HTA), una funzione che, nonostante fosse stata considerata una priorità sia nel Piano sanitario nazionale (PSN) 2006-2008 che nella quasi totalità dei piani sanitari regionali, finora è stata implementata più sul piano mediatico che sostanziale. L’HTA può essere di grande utilità nell’orientare al meglio le decisioni sulle politiche sanitarie e per assicurare un servizio di sempre maggiore equità ed efficienza. Questo a due condizioni: che resti ancorato a una visione e a un approccio prettamente clinici e non amministrativi; che sia coor-dinata a livello centrale, utilizzando per le valutazioni le competenze esistenti sui territori. Non si deve commettere l’errore di appiattire la valutazione dell’impatto di tecnologie sanitarie innovative a un mero esercizio per il controllo della spesa.

GLoSSarioParco scientifico e tecnologico (PST)- In linea con le definizioni riportate da

APSTI (Associazione dei PST italiani) e da IASP (International Association of Science Parks), con questa espressione si intende una realtà che comprende imprese impegnate in settori ad alta tecnologia e istituti di ricerca e di università. Il PST funge da snodo tra il mercato e la produzione di conoscenza, in grado di facilitare, abbreviare e rendere meno costoso il percorso tra bisogni di sostegno all’innovazione e soluzioni possibili, in funzione di un effettivo incremento del dialogo e una “fertilizzazione incrociata” tra ricerca scientifica e produzione di beni e servizi. All’interno della maggioranza dei PST sono presenti anche servizi e infrastrutture d’incubazione per la nascita e sviluppo di nuove imprese a base innovativa, funzionalmente e strutturalmente integrati con il

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Parco, in cui le idee innovative provenienti dall’eccellenza scientifica trovano un habitat naturale per trasformarsi in impresa. Il PST si distingue dal Parco Scientifico per la presenza di imprese che legano operativamente le proprie attività di ricerca, soprattutto applicata e di sviluppo, alle attività di produzione e commercializzazione. Le istituzioni accademiche continuano ad essere presenti, con laboratori messi al servizio delle imprese e con dipartimenti di ricerca. All’interno dei laboratori le università effettuano attività di ricerca, sia in proprio sia per conto delle imprese.

Indagine clinica – Qualsiasi studio sistematico progettato e pianificato nei soggetti umani intrapreso per verificare la sicurezza e/o le prestazioni di un dispositivo medico (norma europea UNI EN ISO 14155-1). Nel quadro della regolamentazione europea e nazionale, si distinguono in indagini (o studi) pre-marketing e post-marketing.

Health technology assessment (HTA) – Con questa espressione si intende un approccio multidimensionale e multidisciplinare per l’analisi di tutte le possibili implicazioni (medico-cliniche, sociali, organizzative, economiche, etiche, ecc.) di una tecnologia. L’obiettivo è quello di valutare gli effetti reali e/o potenziali della tecnologia, sia a priori che durante l’intero ciclo di vita, nonché le conseguenze che l’introduzione o l’esclusione di un intervento ha per il sistema sanitario, l’economia e la società.

Polo tecnologico – Con questa espressione si intende una struttura specializzata, dotata di solide competenze e mezzi per svolgere attività di ricerca industriale e trasferimento tecnologico in un determinato campo e che può appartenere a sua volta a organizzazioni più ampie (rete, piattaforma) per la ricerca e l’innovazione.

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Tecnologie avanzate:sfide della ricerca in Europadi paTrizia Toia

RiassuntoL’Europa è stata a lungo l’area più tecnologicamente avanzata del mondo, ma ha perso questo primato. Horizon 2020 è il programma europeo della ricerca, è un’occasione e un volano per ridurre il gap tra la UE e gli altri grandi paesi industrializzati. Il programma, supporterà la ricerca privilegiando lo sviluppo commerciale e dedicherà parte delle proprie risorse alle PMI.Si tratta di un quadro di azione che, grazie al co-finanziamento e alla collaborazione tra il settore pubblico e privato aiuterà a promuovere la competitività in Europa.

Parole chiave:Europa, Horizon 2020, ricerca.

AbstractEurope was, in the past, one of the most technologically advanced areas in the world, with time we have lost positions in investment on research. Horizon 2020 is the European Research Program, a chance to reduce the gap between EU and other industrialized countries.The programme will support research, focusing on commercial development and ring-fencing part of its resources for Small and Medium Enterprises.It is a framework, which, thanks to national co-financing and Public-Private Partnerships, will support increased competitiveness in Europe.

Key words: Europe, Horizon 2020, research.

Fino al secolo scorso, e per ben tre secoli,l’Europa ha avuto il dominio nel campo della ricerca, e solo a partire dagli anni 30 ha condiviso questa leadership con gli Stati Uniti.

Ma ora tutto é cambiato perché é verso l’area indocinese che si é spostato con forza questo primato e molto rapidamente cambierà ancora se l’Europa non si muoverà nella giusta direzione.

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Qualche cifra lo dimostra: nel 2010 la quota del PIL dedicata alla ricerca in Europa era il 2%, negli USA il 2,68%, in Giappone il 3,3%. E, purtroppo, in Europa non é solo la ricerca pubblica ad essere inferiore agli altri Paesi, anche quella privata lo é.

Infatti, se lo Stato piange, il privato, purtroppo, non ride: il livello degli investi-menti del settore privato é 1,23% in UE e invece 2,2% in USA e 2,7% in Giappone.

Analoga tendenza si evidenzia anche se si guarda l’ambito delle risorse umane, come dimostra l’Istituto di statistica dell’UNESCO nel 2009, con un aumento del numero di ricercatori in Asia e una corrispondente diminuzione in Europa. Nel 2007, il 41,4% dei ricercatori di tutto il mondo si trovava in Asia (nel 2002: 35,7%), mentre solo il 28,2% dei ricercatori di tutto il mondo era in Europa (nel 2002: 32%).

Peraltro l’Europa non solo spende meno, ma ha un trend discendente sia nel 2011 che nel 2012 e l’obiettivo del 3% del PIL alla ricerca, che da tutti é con-siderato indispensabile per il 2020 appare ancora lontano.

Tuttavia il quadro europeo non presenta solo questi segni di debolezza in termini di “quantità” di risorse per la ricerca, ma, al contrario, offre anche brillanti esempi di risultati delle scoperte scientifiche e tecnologiche e dunque presenta significative aree di capacità innovativa.

Infatti, nel campo dell’innovazione arrivano, per l’Europa nel suo complesso, notizie confortanti dalla recentissima pubblicazione Quadro di valutazione “L’U-nione dell’innovazione” 2014 e del Quadro dell’innovazione regionale 2014 della Commissione europea: l’UE sta colmando il proprio divario sul piano dell’innova-zione con gli Stati Uniti e col Giappone e puo’ anche mantenere alcune posizioni di punta in determinati settori.

Dalla pubblicazione emerge, però, che le differenze sul piano della resa inno-vativa tra gli Stati membri sono ancora considerevoli e si riducono lentamente: a livello regionale il gap dell’innovazione si sta allargando e in quasi un quinto delle regioni il rendimento innovativo è peggiorato.

Tutto cio’ mostra dunque un quadro “a macchia di leopardo” tra gli Stati e all’interno degli Stati con tendenze, in atto, contrastanti. C’é dunque necessità di molta attenzione e di molto lavoro “mirato” a questo proposito, sia per ridurre i divari che per mantenere le eccellenze.

L’Italia, purtroppo, si colloca in un gruppo di Stati, insieme, tra gli altri, a Croazia, Grecia, Ungheria e Polonia, il cui rendimento è al di sotto della media unionale.

E dunque anche per il nostro Paese occorrono politiche specifiche che, at-traverso adeguati stanziamenti, si propongano di potenziare la capacità di ricerca, di innovazione e di trasferimento tecnologico attraverso lo “sfruttamento” dei risultati delle ricerche e la diffusione delle opportunità.

Anche in campo sanitario la situazione non è migliore: il nostro Paese tende a spendere poco per la salute e a investire al minimo: basti pensare che in soli

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tre anni il nostro sistema sanitario è passato dal 15° al 21° posto per qualità, tra i trentaquattro Paesi che sono stati censiti dall’Euro Health Consumer Index 2012.

In questo difficile quadro arriva, come una ventata di ossigeno, il nuovo Programma Quadro per la Ricerca e l’Innovazione per il periodo 2014 – 2020 “Horizon 2020”.

Nel Bilancio Pluriennale Europeo, giudicato da molti di noi insufficiente, Horizon è l’unico programma che vede il segno + nelle risorse rispetto al pas-sato bilancio.

In un budget europeo caratterizzato dalla riduzione dei fondi e da un taglio rigorista, voluto dalle forze conservatrici che oggi sono in maggioranza nelle isti-tuzioni comunitarie, che non hanno avuto il coraggio di un “bilancio per la crescita e lo sviluppo”, Horizon vede un investimento significativo, con un incremento rispetto al passato.

Si tratta di 77 miliardi di risorse pubbliche capaci di mobilizzare, con il cofi-nanziamento nazionale e l’arrivo di risorse private, un volume molto significativo di investimenti in Ricerca & Sviluppo e una cooperazione tra Pubblico e Privato con Partnership e Iniziative congiunte che massimizzeranno investimenti e risultati.

Horizon comprende anche l’attività dell’Istituto europeo di Innovazione Tecnologica (IET), realizzazione recente che vede già, per fortuna, una presenza di università italiane in una delle 3 KICs avviate e la futura presenza di altre realtà accademiche, e non solo, nelle prossime già progettate per il “manifacturing” e il “food”.

I pilastri di Horizon sono 3: il primo è l’Eccellenza Scientifica, che vuole incrementare la qualità della base scientifica, favorendo lo sviluppo dei talenti dei ricercatori, aprendo l’accesso alle migliori infrastrutture di ricerca europea. Vi rientrano anche il sostegno alle FET, cioè le “tecnologie future ed emergenti”, le azioni Marie Curie e le opportunità di sviluppo di carriera dei ricercatori, nonché il miglioramento dei processi di trasferimento della conoscenza.

Il secondo, Leadership industriale, è una grande novità e vuole sostenere il trasferimento tecnologico dei risultati delle scoperte nei processi produttivi per massimizzare il potenziale di crescita delle PMI attraverso l’innovazione e un più facile accesso al capitale di rischio..

Se in Europa siamo già leader nel settore delle tecnologie industriali abilitanti, la posizione va mantenuta, con attenzione alle ICT, oltre che ai materiali avanzati, alle biotecnologie e alle nanotecnologie.

Il terzo, Sfide della società, é una finestra sul futuro, a partire dalle odierne sfide e sarà focalizzato sui seguenti obiettivi:

• Salute, cambiamento demografico e benessere;• Sicurezza alimentare, agricoltura sostenibile e bio-economia;• Energia sicura, pulita ed efficiente;• Trasporto intelligente, integrato e pulito;• Azioni per il clima, l’efficienza delle risorse e delle materie prime;

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• Europa in un mondo in fase di cambiamento;• Società sicure innovative, sicure e inclusive.

Si tratta di una novità, almeno per la dimensione e la varietà degli obiettivi, e vuole essere la dimostrazione che la ricerca riguarda le scienze umane, cioé l’uomo nella sua integrità e che occorre approfondire anche la capacità di “comprendere” tutte le implicazioni della scienza e delle tecnologie che si stanno sviluppando.

Anche in ambito sanitario, dunque, la ricerca e l’innovazione assumono oggi un valore ancora più strategico rispetto al passato, perché si pongono in uno scenario di profondi cambiamenti sia della domanda di salute che delle modalità di risposta da parte dei sistemi sanitari, sia sulla centralità del ruolo del “paziente”.

Sappiamo che il costo dell’assistenza sanitaria in Europa raggiungerà presto il 10 % del Pil, e questa cifra rischia di salire ancora, anche perché la popolazione europea sta invecchiando e le malattie croniche sono in aumento, cosi come i costi delle prestazioni.

L’Italia,poi,è oggi il Paese più longevo dell’Unione Europea, e conta la maggiore percentuale di persone al di sopra degli 80 anni di età, che nel 2060 si calcola saranno ben il 14,9% della popolazione complessiva. Investire in innovazione e ricerca è dunque l’unica strada percorribile per favorire una maggiore efficienza dell’intero sistema, in termini di costi, prestazioni e con una prospettiva di me-dio-lungo periodo.

È il sistema anche per rendere sempre più importante il benessere della vita, dell’invecchiamento e la personalizzazione delle prestazioni.

La dotazione finanziaria del pilastro “sfide della società” è di 29.6 mi-liardi di € per i 7 anni e ha proprio lo scopo di indirizzare le risorse a settori, tecnologie e discipline per poter rispondere al meglio alle nuove sfide sociali.

Per il periodo 2014-2015 si prevedono, per questo pilastro, finanziamenti per 2,8 miliardi di euro.

Nello specifico, per quanto riguarda il settore sanitario sono stati stanziati per questi primi due anni 549.000.000 € per bandi sul tema “Personalizzare la salute e la cura”, cioè progetti finalizzati ad una migliore comprensione delle cause di salute e malattia, fare il miglior uso di dati di grandi dimensioni, sviluppa-re una migliore diagnostica, terapie (ad esempio studi clinici per le malattie non trasmissibili), promozione della salute e strategie di prevenzione delle malattie (ad esempio ambiente e interventi sanitari basati a livello personale e di popo-lazione), nonché tecnologie per sostenere un invecchiamento sano (ad esempio applicazioni e-Health).

Il finanziamento in questo settore mira inoltre a fornire ricerca e innova-zione nel campo della povertà e le malattie infettive resistenti agli antibiotici (es. piattaforme vaccino per l’HIV/AIDS e la tubercolosi).

Horizon vuole innovare anche dal punto di vista metodologico e della co-operazione tra vari soggetti nazionali ed europei.

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È importante anche citare la possibilità dei partenariati pubblico-privati, Partnership in ricerca e innovazione che riguardano tecnologie strategiche che consolidano la crescita e l’occupazione in settori chiave dell’economia europea basata sulla conoscenza e indirizzano anche importanti sfide sociali e che assu-mono la forma di accordi contrattuali (cPPPs) tra la Commissione europea e le associazioni industriali rappresentative per i settori chiave dell’economia europea.

In questo modo, l’UE e l’industria forniranno finanziamenti vitali per le attività di ricerca e innovazione nei settori che sono essenziali per la leadership industriale dell’Europa, per mantenerla, se l’abbiamo già, o per conquistarla.

I cPPPs pertanto riuniranno aziende, università, laboratori di ricerca, le PMI innovative e altri gruppi e organizzazioni in tutte le grandi sfide della ricerca e dell’innovazione, creando cluster, piattaforme e filiere capaci di lavorare insieme e di moltiplicare le ricadute industriali.

Nelle 7 partnership troviamo quella sulla Robotica, un fattore chiave della competitività industriale ed essenziale per affrontare le principali sfide sociali in settori quali il cambiamento demografico, la salute e il benessere, la produzione alimentare, i trasporti e la sicurezza.Per tali settori sono stati stanziati, per questi primi due anni, 700.000.000 €.

L’industria si è impegnata a integrare tali importi con investimenti privati nell’ordi-ne da tre a dieci volte il livello di finanziamento pubblico, con attività connesse incluse.

Altro fronte importante per il settore sanitario sono le “Iniziative tec-nologiche congiunte” (ITC), partenariati di ricerca che daranno slancio alla competitività dell’industria dell’UE in settori che già procurano oltre 4 milioni di posti di lavoro e permetteranno di trovare soluzioni alle importanti sfide che deve affrontare la società e alle quali il mercato da solo non offre risposte abbastanza.

Si stima che grazie ad investimenti per 8 miliardi di euro provenienti da Horizon 2020, saranno garantiti circa 10 miliardi di euro da parte dell’industria e quasi 4 miliardi di euro da parte degli Stati membri dell’UE.

Tra le cinque “Iniziative tecnologiche congiunte” (ITC) troviamo quella dei Medicinali innovativi 2 (IMI2) che, nei 7 anni,riceverà 1.725 milioni di euro da Horizon e dagli Stati membri e 1.725 dall’industria per un totale di 3.450 milioni di euro e sarà finalizzata allo sviluppo di vaccini, medicinali e terapie di nuova generazione, tra cui nuovi antibiotici;

Le iniziative tecnologiche congiunte sono aperte ad un’ampia gamma di indu-strie in tutta Europa, comprese le PMI, e tutti i tipi di organismi di ricerca possono fare domanda di finanziamento.

Horizon 2020 rappresenta dunque un vero e proprio “serbatoio” di risorse e idee per l’innovazione del sistema industriale europeo e per quello italiano, per mantenere la competitività nei settori dove siamo ancora leader e per acquisire più capacità d’innovazione nei settori in difficoltà.

C’é un punto che é sempre stato critico per la ricerca europea e riguarda l’applicazione dei risultati.

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Infatti spesso é successo, in passato, che i risultati delle “scoperte” siano stati lasciati sulla carta di un bel volume, di una rivista specializzata o in un “file” a ridotta circolazione.

I risultati non sono diventati un prototipo o un prodotto. Non si é arrivati insomma a verificarne o tentarne la commercializzazione.

Questa é una lacuna, in Europa, molto grave che danneggia le potenzialità del nostro sistema produttivo e della sua competitività, privandolo di tanta “po-tenziale” innovazione.

E su questo aspetto bisognerà lavorare per arrivare a dire, per ogni ricerca, che si dovrà tentarne l’implementazionee, soprattutto, di tentarla “first in Europe”.

Il nuovo programma prevede una maggiore semplificazione di regole e pro-cedure per i partecipanti.

La semplificazione servirà a ridurre i costi amministrativi che gravano sui partecipanti, accelerare i processi di presentazione delle proposte e gestione delle sovvenzioni e a ridurre il tasso di errore di tipo finanziario.

Sarà anche garantita un’adeguata partecipazione delle imprese, in modo par-ticolare delle PMI innovative che mostrano un’ambizione a sviluppare, crescere e internazionalizzarsi, alle quali saranno destinate misure specifiche.

In primo luogo, un nuovo strumento consentirà alle PMI di presentare do-manda di finanziamento, pur partecipando al progetto con altri partner; gli aiuti saranno quindi concessi in diverse fasi: una fase di fattibilità, una d’implementazione, una di follow-up.

Una forte attenzione é stata dedicata alle PMI con il cosiddetto “fast track”.È prevista infatti un’attività dedicata alle PMI ad alta intensità di ricerca e, anche in materia di accesso al rischio finanziario, vi saranno iniziative particolari per le PMI. A ciò si aggiungerà quanto previsto dal programma specifico “competitività delle imprese e PMI” (COSME), che mira a migliorare la competitività e la sostenibilità delle imprese e a promuovere una cultura imprenditoriale e a mettere in campo strumenti finanziari innovativi capaci di creare, grazie alle risorse pubbliche, un effetto leva di moltiplicatore di risorse private.

Non va poi dimenticato che la Politica di coesione, cioé i fondi strutturali, ed Horizon risulteranno sinergici e complementari grazie alla presenza all’interno di Horizon del concetto di smart specialization (identificazione delle risorse e carat-teristiche uniche di ogni paese o regione e riunione di risorse e soggetti coinvolti intorno ad una visione del futuro basata sull’eccellenza) e di diversi riferimenti ai fondi strutturali.

Insomma i due canali possono essere utilizzati in modo complementare sugli stessi progetti.

Infine una ultima osservazione:grazie all’impegno del Gruppo dei Socialisti & Democratici di cui sono vicepresidente, per la prima volta sarà obbligatorio, per le ricerche scientifiche derivanti dal programma quadro, pubblicare in maniera aperta i loro risultati. Questo passo, permetterà di massimizzare i risultati delle ricerche,

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promuovendo la massima diffusione della conoscenza prodotta e consentirà di far circolare idee, scoperte, proposte nella comunità scientifica e non solo.

Ora occorre che gli Stati membri, per noi l’Italia, sappiano fare sistema per mettere a frutto le eccellenze che ci sono, anche in campo sanitario e biomedicale, al fine di sfruttare davvero le opportunità che Horizon 2020 offre e per chiamare tutti gli stakeholders attorno a comuni impegni su proposte chiare e definite.

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Medicina tra umanesimo e tecnologiadi alessandro Mazzucco

RiassuntoIl progresso della medicina moderna è la naturale conseguenza dello sviluppo della conoscenza e della espansione della tecnologia. Si tratta di un fenomeno molto positivo, che comporta possibilità di cure un tempo impensabili sia in termini di sopravvivenza che di qualità di vita. Tuttavia, questa evoluzione non è priva di alcune importanti ricadute negative, rappresentate in primo luogo dal prevalere di questi aspetti tecnologici - spesso sovrastimati non tanto per i loro risultati, quanti per l’intrinseca attrazione esercitata dalla procedura stessa – sugli obiettivi di miglioramento della salute individuale e collettiva cui sono finalizzati. La medicina attuale va perdendo la sua tradizio-nale caratteristica di relazione interumana mediata da una professionalità costituita da scienza inseparabilmente fusa con spirito di dedizione e sta destinando una attenzione prevalente, se non esclusiva, ai contenuti tecnici, con il grave rischio che possano declinare le valenze umanistiche della arte medica. Questa perdita del riferimento unico ed insostituibile della medicina è di fatto insito nella cultura stessa dell’approccio tecnologico, che realizza una macroscopica deviazione dalla antica ricerca di basi scientifiche della medicina stessa, che sono naturalmente fondate sul metodo sperimentale e che richiedono la prova documentata di efficacia di ogni procedura per poter essere sistematicamente adottata. Probabilmente ciò è riconducibile in larga misura a forti pressioni commerciali. Ma non manca qualche segno di una crescente cultura post-umana. Tutto ciò va letto con attenzione critica all’insegnamento della medicina e alla formazione dei medici specialisti, ai quali è affidata la salute e, indirettamente, la vita dell’uomo.

Parole chiave:Valori, efficacia, insegnamento.

AbstractThe progress of modern medicine is the natural consequence of the development of knowledge and technology expansion. This is a very positive phenomenon, which involves once unthinkable possibility of care in terms of both survival and quality of life. However, this development is linked to some important negative effects, represented primarily by the prevalence of these technologi-cal aspects - often overestimated, not so much for their results, rather for the inherent attraction exerted by the procedure itself – over the objectives of improvement of individual and collective health which should be finalized. Current medicine is losing its traditional characteristic of human relationship mediated by a load of professional science inseparably merged with spirit of dedica-

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tion. It is now devoting a predominant attention, if not exclusive, to technical contents, with the serious threat that they can decline the humanistic values of a liberal art. This loss of unique and irreplaceable reference of medicine is in fact inherent in the culture of the technological approach, that produces a deviation from the ancient scientific basis of medicine itself, which are of course founded on the experimental method and that require documented evidence of effectiveness of each procedure to be adopted systematically. Probably this is due largely to strong commercial pressures, but there are some signs of a growing post- human culture. All of this needs to be read with critical attention to the teaching of medicine and the training of medical specialists, which is in charge of health and, indirectly, the life of man.

Key words: Values, effectiveness, teaching.

Fino a pochi decenni fa, la medicina tradizionale, pur arricchita in modo so-stanziale di conoscenza scientifica, non poteva che dichiararsi impotente di fronte ad alcune malattie, che poco o nulla consentivano, se non la rassegnazione. Non è più del tutto così oggi, grazie allo sviluppo tecnologico. Basti pensare a cosa rappresentano gli organi artificiali, pur radicalmente sfrondati di tante illusioni.

D’altra parte, era in qualche misura previsto che la medicina moderna rag-giungesse gli attuali standard di risultato grazie a dei progressi forse poco tempo fa impensabili, nella capacità di esplorare inesauribili fonti di conoscenza dei fe-nomeni patologici grazie alla nuova strumentazione che la tecnologia ha messo a disposizione, dal microscopio elettronico allo spettrometro a risonanza magnetica, dai sofisticati strumenti di imaging quali la TAC, la RNM, la PET, ai fantascientifici strumenti che consentono precisioni e selettività di obiettivi terapeutici tanto elevati da rischiare di attrarre verso un abuso di queste tecnologie. Il contributo della capacità ingegneristica della mente umana ha intimamente accompagnato il progresso dell’umanità dagli albori ad oggi ovunque, anche nella medicina. Il sorpren-dente acume che si coglie nel disegno di antichi strumenti chirurgici o diagnostici ne è la prova inconfutabile. Così è sempre stato, così è ora e così sarà in futuro, la questione non è in discussione. Ciò che può- anzi deve – essere approfondito e verificato è il grado di attenzione necessario all’impiego dei derivati tecnologici. Questa attenzione si può ricondurre ad una azione comune che vale ovviamente per la ricerca scientifica ma non può venir meno nella applicazione dei suoi ritro-vati. Nella ricerca si definisce “metodo sperimentale”, nella applicazione si chiama “evidenza”, ma sono la stessa cosa. Qualsiasi deviazione da questa impostazione produce sostanziali errori e aberrazioni del potenziale progresso della scienza.

Non vi è alcun dubbio sulla dimensione dell’interesse suscitato anche negli ambiti di competenze non professionali da parte di notizie che sembrano docu-mentare la inarrestabilità del progresso raggiunto in ambito medico, non raramente

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inquinato da toni miracolistici che è più che opportuno decriptare, alla ricerca di qualche possibile interesse di parte che potrebbe forzare la reale portata delle cose. Di conseguenza, anche i medici, gli scienziati, i ricercatori debbono essere informati sulla percezione da parte del pubblico di notizie presentate in tal senso dagli ambienti professionali.

Consultando un blog su questo tema, ebbi l’avventura di leggere la seguente domanda:

Quanto l’aiuto della medicina può migliorare la vita? E fu risposto:Faccio un esempio: prima quando avveniva un infarto si apriva il cuore e si cercava di

riparare le arterie, invece adesso vengono introdotti tubicini di plastica nel cuore tutto nel giro di due ore, quindi è ovvio che la tecnologia può migliorare la vita. Quindi, è di fonda-mentale importanza riuscire ad integrare la ricerca tecnologica con quella farmacologica.

Forse non è stato scelto proprio il miglior esempio per documentare la tesi di un progresso esclusivamente tecnologico capace di modificare i risultati terapeutici e quindi la storia naturale di una malattia tanto impegnativa e diffusa quanto la ostruzione delle coronarie.

Questo capitolo ebbe una vera rivoluzione negli anni ’60 -’70, quando il problema sembrò aver trovato soluzione perfetta e definitiva nella chirurgia di rivascolarizzazione delle coronarie, cioè in una operazione con la quale il letto coronarico viene riperfuso dalla inserzione di un nuovo vaso autologo a ponte sulla occlusione. Intervento di grandissima efficacia, che ben presto sollecitò l’idea di convertirlo in una procedura endo-vascolare quale la dilatazione della zona ristretta attraverso un catetere gonfiabile e poi, constatata la forte tendenza alla recidiva, l’inserimento di un supporto metallico in grado di mantenere espansa questa zona.

È superfluo dire che, se la strada della rivascolarizzazione chirurgica trovò un grande successo, ancor più evidente fu il richiamo della rivascolarizzazione “transcatetere”, presso i cardiologi che così riuscirono a recuperare una posizione di primo piano tra questo consistente gruppo di pazienti, dai pazienti stessi che furono estremamente attratti dalla speranza di poter risolvere il loro problema senza una operazione vera e propria, e dalla industria biomedicale che scoprì in questo percorso la possibilità di realizzazioni assai promettenti. Ne seguì un clamoroso ridirezionamento dei malati di coronarie verso queste procedure, che mantennero la propria immagine attrattiva malgrado i non pochi insuccessi e complicazioni. Nel 2005 il New England Journal of Medicine pubblicò uno studio che confrontava i risultati dell’approccio chirurgico con quello percutaneo. Lo studio documentava una sopravvivenza significativamente superiore nei pazienti trattati chirurgicamente rispetto a quelli trattati per via interventistica, in tutti i sottogruppi anatomici.

Eppure, questa informazione è stata totalmente esclusa dalla divulgazione presso il pubblico e gli stessi medici di medicina generale, perciò la pratica inter-ventistica non solo è proseguita, ma si è scatenata in tentativi di perfezionamento

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attraverso sofisticate metodologie di impregnazione dello “stent” con farmaci di presunta attività antiproliferativa e quindi capaci di prevenire l’occlusione. Purtrop-po, anche questa innovazione non raggiunse alcun beneficio, all’opposto, produsse dei fenomeni che sostanzialmente proibivano una successiva opzione chirurgica.

Il risultato è quello che si può cogliere nel modello stereotipo di approc-cio prevalente a questi pazienti, che vengono di regola sottoposti a procedure percutanee indipendentemente dalle indicazioni sopra citate e, successivamente, nella frequente circostanza in cui dopo un tempo anche molto breve lo “stent” va incontro a chiusura, viene sottoposto a nuova procedura e solo quando, infine, la situazione anatomica è divenuta proibitiva viene indirizzato al chirurgo con un albe-ro coronarico gravemente amputato e di trattamento quasi sempre problematico.

Ciò è in parte da ricondursi alla proliferazione libera - non programmata - di centri autorizzati alle procedure interventistiche in emodinamica, che ha prodot-to una polverizzazione della casistica con conseguente caduta della possibilità di acquisire sufficiente esperienza; alla pressione indiscriminata verso la abolizione delle liste d’attesa, che facilita il decisionismo operativo senza adeguato appro-fondimento; e infine, naturalmente, al noto fenomeno per il quale un incremento dell’offerta genera un aumento della richiesta.

Un paziente di 59 anni, affetto da angina da sforzo causata da una lesione occlusiva di due rami coronarici, veniva sottoposto al posizionamento di tre stent – evidentemente uno anche su un ramo cosiddetto “non responsabile”, con scomparsa dei sintomi. Questi, tuttavia, recidivavano dopo solo tre mesi, per cui fu sottoposto a nuovo esame coronarografico che dimostrava una lesione de novo all’origine della coronaria sinistra, precedentemente non evidenziata e verosimil-mente provocata dal catetere nel corso del precedente esame; inoltre una stenosi al tratto medio della arteria discendente anteriore ed una occlusione dello stent posizionato nel tratto distale, fino all’apice del cuore. La coronaria destra era sede di uno stent ancora ben funzionante, ma presentava una stenosi distalmente ad esso. La situazione clinica, stabile prima dell’angioplastica, era divenuta preoccupante ed instabile, tanto da evolvere in una crisi ipotensiva grave all’atto della introdu-zione del catetere all’ostio della coronaria sinistra. Il paziente fu quindi condotto in situazione d’urgenza ad un intervento di rivascolarizzazione, programmato sulla porzione distale della coronaria destra e sul tratto iniziale della discendente anteriore, subito a valle del primo restringimento. Concluso l’intervento, dopo un iniziale soddisfacente recupero della funzione contrattile, il cuore manifestò acutamente segni di una grave ischemia, prevalentemente localizzati alla zona dell’a-pice che era vascolarizzata da un ramo marginale dell’arteria circonflessa e dalla porzione distale della discendente anteriore, peraltro irrimediabilmente occlusa dallo stent. Si tentò quindi la strada di una rivascolarizzazione indiretta dell’apice posizionando un nuovo bypass sulla circonflessa – che comunque nasceva da un tronco gravemente stenotico. Tale procedura non migliorava tuttavia le condizioni, che rimanevano critiche. Si risolse allora per una esplorazione del tratto distale

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della discendente anteriore, esponendo l’inizio dello stent, che apparve totalmen-te occluso da pseudointima e da materiale trombotico fresco. Materiale che si riusciva a rimuovere, ripristinando così un flusso anche nel percorso dello stent . Sull’incisione si impiantava un nuovo by pass.

La situazione parzialmente migliorava, consentendo lo svezzamento dalla circolazione extracorporea, ma richiedendo un consistente supporto circolatorio mediante l’impianto di un sistema meccanico ECMO e contropulsazione aortica e lasciando il torace aperto. Sembra appena il caso di sottolineare che la situazione era drammatica e le aspettative assai poco promettenti. Tuttavia, i successivi 19 giorni, grazie alla ottenuta rivascolarizzazione completa, hanno visto un lento, graduale recupero della funzione contrattile globale complessiva, pur rimanendo, naturalmente, una zona di necrosi irreversibile all’apice. Progressivamente il paziente potè essere svezzato dai vari sistemi di assistenza e messo in condizioni di essere avviato ad una fase di convalescenza e di riabilitazione.

Sostanzialmente ciò che è stato descritto rientra tra i casi che nella infortuni-stica si definiscono “near miss”. All’inizio della sua storia egli presentava condizioni cliniche di tutta tranquillità, due sole lesioni da rivascolarizzare in modo molto semplice e riproducibile con una previsione di ottimo risultato, a rischio trascu-rabile se fosse stato subito avviato ad intervento chirurgico programmato, che è considerato il trattamento di scelta. Così non è stato ed è prevalsa la sconcertante attitudine -oggi dominante - che vede favorire non tanto la salute del paziente quanto la realizzazione delle procedure privilegiate dal medico. In questo modo questo paziente è arrivato alla soglia dell’exitus, dalla quale è stato sottratto a prezzo di una cicatrice infartuale evitabile, di un travaglio postoperatorio indicibile, di un trauma psicologico enorme per lui e la sua famiglia.

Questo è il punto fondamentale: il prevalere, nella scelta diagnostico-tera-peutica di procedure che, pur non avendo l’avvallo della documentata evidenza di successo ed appropriatezza, sembrano coniugare i due meriti oggi largamente privilegiati:

1. L’essere d’avanguardia; 2. Vantare un trauma ridotto ed un recupero più o meno immediato. La velleitarietà di questo approccio forse non è facile da cogliere per i non

addetti ai lavori, ma è di gran lunga superiore a quanto si sospetti.Con riferimento al punto primo, è assai difficile separare quanto la ricerca

di una affermazione personale porti ad abbracciare senza condizioni delle inno-vazioni tecnologiche che assai spesso mancano della conferma della validazione clinica a lungo termine. Come in questo caso, gli studi condotti in proposito con metodologia corretta smentiscono regolarmente la superiorità di risultato della innovazione tecnologica, tant’ è che questa è in perenne evoluzione, sostenuta dalla pressione della produzione industriale alla ricerca di un mercato e dalla più ampia disponibilità dei clinici a farsi carico della introduzione nell’uso abituale di tecniche che hanno la vera e propria natura di sperimentazione clinica. Ciò che

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deve fare riflettere nella analisi dei progressi medici prodotti dalle nuove tecno-logie è la scarsissima attenzione rivolta al miglioramento della sopravvivenza, al miglioramento della qualità della vita e alla sostenibilità finanziaria. Nel caso più frequente, quello delle procedure “non chirurgiche”, questo aspetto è per lo più ignorato. La rivascolarizzazione miocardica percutanea non ha in alcun modo aumentato le prospettive di sopravvivenza o guarigione dei pazienti, al contrario.

L’aspetto primariamente considerato a sostegno di queste procedure è quello del contenimento del trauma da esse consentito. Tuttavia, anche questo è signifi-cativamente sovrastimato, quanto meno in termini comparativi con la “invasività” delle procedure cosiddette “meno invasive”. Non è raro che la traumaticità di una procedura sia solo spostata di sede, ma non di entità. Un esempio è quello delle procedure di impianto percutaneo di protesi valvolari aortiche. Si tratta di una tecnica proposta per evitare il trauma maggiore di un intervento a cuore aperto nei grandi anziani, ritenuti particolarmente fragili nei confronti dello stesso e di possibili complicanze. In realtà quattro considerazioni debbono essere fatte: a) i risultati della sostituzione chirurgica della valvola aortica nell’ultraottantenne sono tanto soddisfacenti e duraturi da non poter facilmente essere riprodotti in modo diverso. b) il numero delle complicanze, in ciò compreso il malfunzionamento della protesi, sono ben superiori nel caso delle procedure percutanee. c) la procedura percutanea ha delle proprie limitazioni e complicanze, in buona parte legate alla via d’accesso, l’arteria iliaca, che richiede comunque la esposizione chirurgica e non raramente rischia serie lesioni difficilmente riparabili. d) la protesi percutanea ha costi talmente elevati, dalle 12 alle 15 volte superiori a quella di una protesi ordinaria, da essere difficilmente sostenibile se non per impieghi meramente occa-sionali. Ancora una volta, una seria analisi dei rapporti costi/benefici confrontate tra i due approcci è l’ultimo aspetto che viene preso in considerazione, nonostante le segnalazioni disponibili nella letteratura scientifica internazionale.

Il sovraccarico tecnologico della medicina ha quindi drammaticamente coin-ciso con un impoverimento antropologico, privandola della sua dimensione umana e solidaristica, e soprattutto provocando un progressivo distacco del medico dal paziente. Oggi il paziente, grazie anche al dilagare dei mezzi di comunicazione, è diventato titolare di decisioni, non di diritti, e coinvolge il medico nella sua scelta in materia di procreazione e di morte, come insegna l’attuale disputa sulla pro-creazione artificiale, sulle cellule staminali embrionali e sul testamento biologico.

Vi è un equivoco di fondo, forse riconducibile al diffondersi di una cultura ispirata a ciò che Popper indicò come “razionalismo acritico”, che rivoluziona la natura della medicina, sostituendo in essa – piuttosto che integrando - la prevalente componente tradizionale di tipo osservazionale e descrittivo, con un orientamento nel quale la scienza è rimpiazzata pregiudizialmente dalla tecnologia. L’obiettivo è quello - in sé apprezzabile, ma irrealizzabile - di raggiungere obiettivi impossibili quali la eliminazione delle malattie e della morte. L’aspetto più preoccupante di questa nuova concezione è soprattutto il rilievo di una forte tendenza ad identificare

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il primato nella procedura stessa piuttosto che nell’obiettivo che essa dovrebbe consentire di raggiungere. Probabilmente ciò è riconducibile in larga misura ad un inerte subire forti pressioni commerciali. Ma non manca qualche preoccupante nota ispirata all’emergere di quelle concezioni post-umane che hanno sì costellato la letteratura, ma non hanno mancato di trovare deliranti tentativi di attuazione, per esempio di un malconcepito uso della genetica (e, più recentemente, della robotica) testimonianza della mai soppressa ansia dell’uomo di divenire artefice di se stesso e del proprio destino, senza dover sottostare a vincoli di altra origine ed ignorando che “alla fin fine dipendiamo pur sempre dalle creature che abbiamo inventato noi”. (W. Goethe, Faust.)

Antul Gawande, chirurgo e scrittore, nel suo libro Le complicazioni, ispirato alla sua formazione in chirurgia presso il Brigham and Women’s Hospital, di Boston, nell’affrontare i contenuti della educazione specialistica affronta un aspetto essen-ziale riferendosi all’equilibrio “tra il desiderio di ottimizzare le capacità tecniche e di produrre dei chirurghi dotati di una visione più ampia del semplice campo operatorio. …Se il chirurgo è chiamato ad essere qualcosa di più che un tecnico, allora il tirocinio in chirurgia non può essere limitato all’intervento chirurgico. Esso richiede di essere allargato ad una ben più ampia base di conoscenze che dirigano i suoi comportamenti e le sue scelte.

A tal proposito non può sfuggire la involuzione che sta incidendo e forse minacciando la storica identità della cultura chirurgica odierna. Non raramente si incontrano professionisti ben preparati, autori di evidenze scientifiche e dotati di eccellenti qualità tecniche, ma del tutto privi di quelle qualità umane e umani-stiche che consentono la crescita di medici capaci e dedicati alla cura dell’umanità, piuttosto che di celebrati tecnologi. Non voglio essere frainteso, l’introduzione in medicina - originariamente ed ancor oggi arte liberale - di contenuti e metodologie scientifiche, purché supportate dall’evidenza, rappresentano una fondamentale acquisizione della medicina moderna ed hanno impresso un impulso straordinario alla ricerca, il cui tema principale oggi si chiama biologia molecolare, biotecnolo-gia, nanotecnologia. Ciò che preoccupa è che una attenzione prevalente, se non esclusiva, a contenuti tecnici possa far declinare le valenze umanistiche della arte medica, scordandone per esempio i valori etici, tema tanto rilevante che preferisco evitare la tentazione di scivolarci dentro. E quale più clamoroso oblio dei valori deontologici ed etici si può rappresentare rispetto alla situazione, oggi dominante, nella quale il percorso decisionale è fondato primariamente sul primato degli aspetti tecnologici? Mi limito ad esprimere la mia convinzione che sarebbe sbagliato illudersi che leggi e regolamenti deontologici siano sufficienti a controllarli: si pensi solo al grande equivoco e alle banalizzazioni del consenso informato e del testamento biologico, che quasi sempre finiscono con una inevitabile delega al medico curante. La più efficace garanzia contro il ripetersi di comportamenti abnormi, alcuni dei quali, gravissimi, non è certo quella di frenare il genio umano, la ricerca scientifica, la innovazione mediante disposizioni legislative restrittive volte a scoraggiare o

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addirittura impedire la ricerca genetica. Piuttosto, si tratta di promuovere attra-verso la educazione il rispetto per la libertà individuale e culturale all’interno di un contesto democratico in cui vi sia un libero confronto di idee. Un tale contesto richiede un responsabile rapporto di fiducia tra il pubblico ed una colta comunità scientifica, che deve godere del credito e della considerazione della società nella misura in cui non si limita ad una dipendenza, per così dire, dogmatica dal credo scientifico, che è uno strumento della complessa attività intellettiva umana, ma non ne può essere un elemento condizionante. Tutto ciò va letto con attenzione critica anche all’insegnamento della medicina e alla formazione dei medici specialisti, ai quali è affidata la salute e, indirettamente, la vita dell’uomo. Se la abilità manuale di riprodurre delle procedure ad elevato contenuto tecnologico fosse l’obiettivo standard della nostra disciplina e fosse di per se stesso un elemento da perseguire, allora veramente verrebbe meno il senso della medicina stessa, quella che ancor oggi, in una umanità divenuta il tempio della religione della scienza, mantiene intatta la sua natura di arte liberale, riconosciutale anche in era rinascimentale, come testimoniato nel fregio delle arti di Giorgione visitabile nel Museo della casa di Giorgione. E se così dovesse un tempo avvenire, cambierebbe la identità stessa del medico, che sarebbe trasformato in un tecnico.

Sono persuaso che non è nemmeno pensabile cercare di arrestare l’evo-luzione della conoscenza umana e del suo impatto sulle realizzazioni che ne conseguono. Si tratta di mantenere un approccio intellettualmente e moralmente libero ed aperto, si tratta di guidare le trasformazioni nella direzione più corret-ta, il che significa nella direzione del bene individuale e collettivo dei destinatari della nostra professione, non dei vantaggi dei professionisti. Comprensibilmente i pazienti, subissati da informazioni incontrollate diffuse in tempo reale dai mezzi di comunicazione di massa, subiscono il fascino dell’offerta di procedure non invasive senza porsi alcun interrogativo sulla durata del beneficio e sulla gravità di eventuali effetti collaterali. Non porgere loro ascolto significa solo dirottarli verso altri specialisti meno consapevoli del significato millenario dei dogmi della chirurgia. La aspettativa del pubblico è quella di una procedura rapida, indolore, che non lascia cicatrici deturpanti ed è compatibile con degenze estremamente brevi. Non è stato detto loro che spesso le cose non vanno come è stato lasciato loro intendere e soprattutto che una procedura più invasiva è sovente l’unico mezzo per garantire risultati ben più stabili e cura più radicale. Molti di loro semplicemente non vogliono sentirselo dire. E noi, consapevoli che più credibili risultati di studi clinici randomizzati a lungo termine potranno alla fine decretare il ridimensionamento se non la archiviazione di questa o quella procedura, come infinite volte è avvenuto in passato, dobbiamo semplicemente cercare di capire le loro aspettative, senza arroccarci sulla difesa a priori di antiche e gloriose com-petenze chirurgiche, ormai più o meno definitivamente sottratte alla nostra cura quali le comunicazioni interatriali, il dotto arterioso pervio, la coartazione aortica, ed altro. Spesso ci capita di essere molto riluttanti di fronte al sorgere di nuove

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procedure non invasive che recuperano idee ed ipotesi già sperimentate chirurgi-camente ed eliminate perché rivelatesi non adeguate. È sicuramente possibile che la nostra pratica in un futuro non molto lontano si riconverta prevalentemente al trattamento di esiti di procedure interventistiche fallimentari. Auspico solo che si capisca che nel suo processo formativo quel chirurgo non debba venir privato, nel nome della tecnologia interventistica, della esperienza, difficile da acquisire e necessaria, per trattare chirurgicamente i casi complicati. Ma parlando di futuro e ricerca, sono altrettanto convinto che la vera evoluzione della medicina troverà la sua più moderna collocazione nelle aperture che si intravvedono verso la ricerca di base che, mediante la biologia molecolare, la genomica e la ingegneria genetica offrono dei formidabili spunti alla medicina transazionale della quale il clinico moderno deve essere il secondo terminale, parte consapevole di un approccio di sistema, non più eccelso e dorato luminare della scienza medica.

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Innovazione tecnologica in medicina e sostenibilitàdi carlo favareTTi

RiassuntoLa transizione demografica ed epidemiologica e il continuo sviluppo tecnologico rischiano di rendere insostenibile il sistema sanitario. È necessario definire priorità di azione e selezionale un’assistenza basata su prove di efficacia, non duplicativa di altri test e procedure già erogate, non pericolosa per il paziente, veramente necessaria.La sfida è decidere con saggezza (in termini di efficacia, costo-efficacia, sicurezza, tempestività, equità e centralità del paziente), individualmente, nel corso del ragionamento clinico diagnostico-te-rapeutico o, come team operativo, in quello di budget annuale o di contributo alla pianificazione e programmazione aziendale, regionale e nazionale.L’HTA può essere un utile strumento multidisciplinare e multidimensionale per inserire maggiore razionalità nelle decisioni a livello macro, meso e micro.

Parole chiave:Efficacia, Sicurezza, Costo-beneficio.

AbstractDemographic and epidemiological transition and technological development may make the heal-thcare system unsustainable. A process of priority selection is needed to select an evidence-based, safe and necessary healthcare.The american example of “Choosing Wisely” may help the italian NHS to improve in terms of effectiveness, cost-effectiveness, safety, timeliness, equità and patient-centerdness.Health technology assessment witth its muldidisciplinary and muldimensional approach may help more rational decision-making process at macro, meso and micro level.

Key words: Evidence-based, Safe, Cost-effectivenes.

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il contestoIl momento attuale si caratterizza per un’elevata “turbolenza ambientale”,

nella quale importanti fermenti di natura culturale, sociale, economica e politica influenzano il presente ed il futuro della nostra società e del nostro sistema sanitario.

Già alla fine degli anni ’70 del secolo scorso Ansoff, nel suo libro Manage-ment strategico, sosteneva che i livelli di “turbolenza ambientale” vanno da un minimo cosiddetto “stabile” a un massimo definito “creativo”. L’attuale livello di turbolenza è probabilmente di tipo creativo, caratterizzato com’è dalla necessità di agire in condizioni difficilmente prevedibili a causa di cambiamenti continui delle condizioni operative; di acquisire velocemente nuove competenze; di essere contemporaneamente in grado di identificare le fonti di turbolenza e di affrontarle anche in tempi lunghi.

La sfida principale che abbiamo di fronte, come singoli professionisti e come importanti elementi del sistema sanitario in cui lavoriamo, è come prendere deci-sioni efficaci e rapide in un momento di massima turbolenza ambientale che, vista la grave crisi economica, durerà molto tempo.

Limitando il nostro interesse ai professionisti sanitari e in particolare, ai me-dici, mi sembra che il punto critico sia l’acquisizione rapida di conoscenze, abilità pratiche e atteggiamenti coerenti che vadano oltre a quelli clinici e specialistici (in qualche modo tradizionali nel percorso di crescita professionale). Decidere con saggezza (in termini di efficacia, costo-efficacia, sicurezza, tempestività, equità e centralità del paziente), individualmente, nel corso del ragionamento clinico diagnostico-terapeutico o, come team operativo, in quello di budget annuale o di contributo alla pianificazione e programmazione aziendale, regionale e nazionale, non è un processo intuitivo nel quale la sola esperienza e il solo buonsenso, pur essenziali, sono sufficienti.

Il tema dello sviluppo di una cultura che influenzi il pensiero sistemico e che aiuti i professionisti a giocare un ruolo positivo in condizioni d’incertezza operativa, di riduzione delle risorse disponibili, di transizione epidemiologica e demografica che fa cambiare i bisogni socio-sanitari delle nostre popolazioni, è d’importanza cruciale.

Senza questa trasformazione culturale e pratica dei professionisti della sanità, l’ultima parola è quella degli economisti.

Storicamente, in Italia, le manovre economico-finanziarie per “riequilibrare i conti pubblici” sono state basate su aumento della pressione fiscale (naturalmente a carico di chi è obbligato a pagare le tasse!) e su tagli lineari ai vari capitoli di spesa del bilancio pubblico. La prima manovra produce effetti visibili immediati, la seconda è molto più farraginosa e si è rivelata di scarsa efficacia, visto che la spesa pubblica è continuamente aumentata nel corso degli ultimi decenni.

In realtà, per superare questa situazione di sistematica inefficienza, dapprima sperimentalmente nel 2007, e successivamente con la legge finanziaria del 2008, fu istituito un programma permanente di revisione della spesa che permettesse

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il passaggio a un bilancio classificato per missioni e programmi, ponendo le pre-messe sia per una consapevole discussione politica degli obiettivi e delle priorità, da realizzare attraverso la spesa, sia per una gestione responsabile delle risorse da parte delle amministrazioni.

Per revisione della spesa pubblica (spending review) si intende il processo diretto a migliorare l’efficienza e l’efficacia nella gestione della spesa pubblica attraverso la sistematica analisi e valutazione delle strutture organizzative, delle procedure di decisione e di attuazione, dei singoli atti all’interno dei programmi, dei risultati. Analizza più il come che il quanto: i capitoli di spesa sono passati al vaglio per vedere cosa può essere tagliato, per scoprire se ci sono sprechi o casi d’inefficienza. Principio dell’operazione in linea teorica è quello di identificare spese che non contribuiscono a raggiungere gli obiettivi che sono stati affidati alle diverse amministrazioni o che li raggiungono solo in maniera inefficiente, a fronte di spese molto più alte del necessario.

È chiaro che una simile impostazione richiede tempi medi e lunghi e apparati tecnici che la mettano in pratica e non apparati burocratici che la sterilizzino!

La crisi economica che richiede azioni immediate e l’atteggiamento degli apparati burocratici hanno finora reso impossibile una vera e propria revisione della spesa.

Ecco quindi l’ennesima distorsione del significato delle parole: spendig review è diventata un’espressione che equivale a tagli lineari. In tempi di politicamente corretto, l’espressione è sicuramente più elegante!

La valutazione della tecnologia sanitaria (Hta)Anche l’espressione valutazione della tecnologia sanitaria, e soprattutto la

sua versione inglese, non è esente da distorsioni di significato, in particolare da quando essa ha cominciato a essere presente in documenti nazionali e regionali di programmazione sanitaria. Quante volte, nel corso di convegni, personaggi che ricoprono ruoli di grande responsabilità, usano una forma tronca: “… l’health te-chnology dovrebbe essere strumento principale…”, dimenticando l’essenza della stessa, cioè la parola assessment/valutazione! A molti poi sfugge l’importanza della multisciplinarietà e la multidimensionalità della valutazione e considerano HTA le valutazioni settoriali isolate e non integrate (epidemiologiche ed economiche soprattutto).

Per tecnologia s’intende, in generale, tutto ciò che può essere applicato alla soluzione di problemi pratici, all’ottimizzazione delle procedure, alla presa di decisioni, alla scelta di strategie finalizzate a determinati obiettivi.

Secondo una definizione ormai piuttosto condivisa, la tecnologia sanitaria comprende le attrezzature sanitarie, i dispositivi medici, i farmaci, i sistemi dia-gnostici, le procedure mediche e chirurgiche, i percorsi assistenziali e gli assetti strutturali e organizzativi nei quali viene erogata l’assistenza sanitaria.

D’altra parte la valutazione della tecnologia sanitaria (traduzione, anch’essa condivisa di health technology assessment, HTA) è la complessiva e sistematica va-

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lutazione multidisciplinare delle conseguenze assistenziali, economiche, sociali ed etiche provocate in modo diretto e indiretto, nel breve e nel lungo periodo, dalle tecnologie sanitarie esistenti e da quelle di nuova introduzione.

Sempre più le attività di HTA sono considerate un elemento importante di “governance” dei sistemi sanitari.

I progressi della medicina e della tecnologia, la diffusione di sistemi organiz-zativi complessi, e la contrazione delle risorse finanziarie disponibili per la sanità, hanno reso ovunque necessario lo sviluppo di approcci e metodologie per la valutazione degli interventi sanitari di promozione, prevenzione, diagnosi, terapia e riabilitazione.

Negli ultimi decenni si è assistito, in particolare, a un crescente interesse per la valutazione della tecnologia sanitaria.

Tre elementi caratterizzano l’HTA: i contenuti della valutazione, i livelli ai quali i processi decisionali avvengono, l’amministrazione delle decisioni prese.

ProcessoI contenuti rappresentano il cuore della valutazione poiché danno la misura

degli effetti dell’applicazione della tecnologia sulla salute (valutazione di efficacia), dei costi rispetto ai risultati (valutazione economica), di accettabilità rispetto alla cultura della popolazione (valutazione sociale) e di equità e giustizia (valutazione etica). Si deve ricordare che l’HTA è un approccio multidisciplinare e multidimen-sionale nel quale tutte le valutazioni di cui sopra sono fra loro integrate.

I processi rappresentano i livelli nei quali le valutazioni della tecnologia sani-taria (HTA) vengono svolte e nei quali vengono prese le decisioni conseguenti. Il punto di vista rispetto al quale le decisioni vengono prese può essere differente nei tre livelli: è chiaro che le decisioni politiche, quelle gestionali e quelle dei clinici e dei pazienti possono non essere completamente allineate. Si tratta di un punto molto rilevante sul quale in futuro si dovrà lavorare per mediare le esigenze e le aspetta-tive, nonché le responsabilità, dei diversi soggetti interessati all’HTA (stakeholder) al fine di ottenere processi decisionali più espliciti e, quando possibile, condivisi.

L’amministrazione delle decisioni conseguenti ai processi di valutazione è importantissima poiché, in ultima analisi, riguarda gli standard di servizio dei livelli essenziali d’assistenza (LEA), quindi l’esigibilità pratica del diritto costituzionale alla tutela della salute.

Normalmente, la priorità che viene data per la scelta delle tecnologie da valutare e per le decisioni conseguenti è fortemente influenzata dal seguente modello: carico di malattia per la popolazione di riferimento (misure epidemio-logiche di mortalità, incidenza e prevalenza); efficacia della tecnologia sanitaria; efficienza e impatto sulla popolazione della tecnologia; sintesi multidisciplinare e multidimensionale e introduzione o applicazione della tecnologia; monitoraggio; rivalutazione. Si tratta di un processo iterativo poiché, idealmente, l’introduzione della tecnologia dovrebbe influenzare positivamente il carico di malattia.

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Negli ultimi anni, i processi di health technology assessment si sono concen-trati non solo sulle tecnologie innovative in vista della loro diffusione, ma anche su quelle obsolete o di scarso valore per la salute, dal cui disinvestimento potrebbero essere ricavate risorse per l’innovazione.

organizzazione per processiLa tecnologia sanitaria, intesa come le procedure mediche e chirurgiche, i

percorsi assistenziali e gli assetti strutturali e organizzativi nei quali viene erogata l’assistenza sanitaria, è forse il tema di maggior interesse per i processi di disin-vestimento e di trasformazione del sistema verso più marcate caratteristiche di sostenibilità economica e professionale.

La medicina e la sanità sono tradizionalmente organizzate per offrire presta-zioni: singoli test diagnostici; interventi chirurgici; visite mediche; ecc.

I sistemi informativi sottostanti la nostra organizzazione sono impostati secondo i nomenclatori tariffari, i codici nosologici, i DRG.

La transizione demografica ed epidemiologica ha cambiato le esigenze e le aspettative dei cittadini, dei pazienti e delle loro famiglie. Una persona anziana, con più di una patologia cronica, in terapia con numerosi farmaci, che necessità di monitoraggio nel tempo è disorientata nell’accesso al sistema sanitario organizzato per prestazione e deve, ogni volta, cercare il suo percorso.

Secondo Muir Gray, “molti pazienti fanno l’esperienza di attraversare il sistema sanitario in un moto browniano (casuale). Questa esperienza consiste nell’avere frequenti contatti con diversi professionisti molto occupati, che spesso lavorano isolati. Molti di questi contatti individuali possono essere utili, ma il miglioramento del paziente sembra casuale, non sistematico e, talvolta, caotico”.

Anche l’organizzazione istituzionale del servizio sanitario nazionale rinforza l’impostazione dell’attività per prestazione: la distinzione tra aziende sanitarie e ospedaliere; i sistemi di finanziamento; l’equilibrio di bilancio delle singole aziende e non quello consolidato dei sistemi regionali, sono tutti elementi che “ostacolano” una trasformazione del sistema non solo basato sulle modificazioni strutturali, ma soprattutto su quelle dei sistemi organizzativi e della cultura dei professionisti.

Il lavoro per processi, in linea teorica, è la base per la trasformazione del servizio sanitario in sistemi (per gruppi di patologia), reti assistenziali (che superano le barriere istituzionali), percorsi dei pazienti.

Il sistema è un insieme di attività caratterizzate da uno scopo comune, da comuni obiettivi, da criteri rispetto ai quali si possa misurare il raggiungimento degli obiettivi.

La rete è un insieme di organizzazioni e di individui che raggiungono gli obiettivi del sistema.

Il percorso è la “strada” che la maggior parte dei pazienti percorre attraverso la rete.

In linea generale, un processo può essere definito come un insieme di attività

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correlate o interagenti che trasformano elementi in entrata in elementi in uscita. Per esempio, un paziente con un determinato problema accede ai servizi sanitari che mettono a disposizione risorse e competenze professionali (elementi in entrata del processo assistenziale) per risolvere il problema (elementi in uscita).

La realtà è naturalmente più complessa di quella percepibile con questo esempio! Le esigenze e le aspettative dei pazienti, delle loro famiglie, della comunità (stakeholder) sono moltissime e spesso differenziate. I processi messi in campo dal servizio sanitario per soddisfare queste esigenze e aspettative non sono solo quelli clinici e assistenziali (processi produttivi tipici), ma anche quelli gestionali (propri della “macchina organizzativa) e quelli di supporto (forniture, trasporti, ecc.). Al termine la soddisfazione degli stakeholder è determinata dall’insieme di queste tre tipologie di processi interrelati e il giudizio complessivo degli stessi stakeholder si misura sull’anello più debole della catena dei processi. Ciò significa che una parte dei processi può essere di qualità eccellente, ma in un contesto scadente: il giudizio complessivo sul processo non potrà che essere negativo.

La sfida per i clinici italianiCome si è detto, in sanità si decide a tre grandi livelli: macro, meso e micro.

Si tratta di decisioni diverse che, tuttavia, per quanto possibile, dovrebbero essere tra loro coerentemente coordinate. Nei sistemi complessi, come quello sanitario, nessuno può tirarsi fuori!

Come i clinici italiani vogliono porsi di fronte alle decisioni riguardanti l’inno-vazione e il disinvestimento? Come vogliono e possono dare il proprio contributo a processi decisionali multidisciplinari e multidimensionali?

Essi dovranno decidere in prima persona e collaborare a decidere in modo saggio in termini di efficacia, costo-efficacia, sicurezza, tempestività, equità e centralità del paziente.

L’esempio americano di Choosing Wisely (www.choosingwisely.org) può dare qualche spunto di riflessione. Si tratta di un’iniziativa della Fondazione ABIM (American Board of Internal Medicine) per incoraggiare medici, pazienti e altri attori del sistema sanitario a pensare e parlare pubblicamente su esami clinici e procedure mediche e chirurgiche che possono non essere necessari e che, in alcuni casi, possono essere pericolosi per la salute. Il risultato atteso sono raccomanda-zioni basate su prove di efficacia che possono aiutare a prendere decisioni sagge sull’assistenza più appropriata per il singolo paziente. Finora, 35 società scientifiche specialistiche americane hanno aderito all’iniziativa e hanno prodotto 17 liste di procedure da discutere.

Il ruolo dei clinici è chiaro perché i principi di riferimento sono ben definiti; l’assistenza deve essere:

1. basata su prove di efficacia2. non duplicativa di altri test e procedure già erogate3. non pericolosa per il paziente4. veramente necessaria.

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L’iniziativa non vuole usare le raccomandazioni per definire o escludere livelli essenziali di assistenza (questo non è il compito dei medici), ma per definire che cos’è un trattamento appropriato e necessario e fare in modo che medico e paziente possano, insieme, tracciare un piano diagnostico-terapeutico appropriato.

In Italia, AGENAS ha lanciato il Programma Nazionale Esiti. Esso usa il gran-de database delle schede di dimissione ospedaliera (SDO) per analizzare dati di mortalità, di durata della degenza, di riammissione non programmata in ospedale entro 30 giorni, nonché quelli relativi alle procedure che vengono correntemente registrate nelle SDO.

Dalle prime analisi dei dati emerge, innanzitutto, un’enorme variazione interregionale e intraregionale nell’uso dei servizi sanitari e negli esiti clinici tra i diversi ospedali. La variazione non è indicatore di appropriatezza! Osservando alcune procedure “salvavita” si nota che talora esse hanno tassi generali elevati di utilizzazione, ma tassi specifici molto bassi per le condizioni cliniche che, secondo la letteratura scientifica, ne beneficerebbero. Il che significa che abbiamo un uso eccessivo (overuse) e, contemporaneamente, non trattiamo tutti i pazienti che ne avrebbero veramente bisogno (undertreatment). Si tratta, in termini sanitari, di una perdita di opportunità terapeutiche e, in termini economici, di uno spreco di risorse.

Questo è un tema in cui i clinici dovrebbero discutere con politici, amministra-tori, cittadini e pazienti per impostare una correzione di rotta: evitiamo procedure inappropriate (e talora pericolose), risparmiando, e dedichiamo le risorse liberate a trattare pazienti eleggibili oggi non trattati.

La valutazione della tecnologia sanitaria (HTA) può essere, anche per i clinici italiani, un’opportunità di essere rilevanti nei processi decisionali che riguardano le scelte presenti e future per la sanità. È necessario, tuttavia, che essi integrino le proprie competenze con altre che consentano loro di essere protagonisti nel gioco multidisciplinare e multidimensionale nel quale operano i sistemi complessi come il nostro.

Tutti gli attori del sistema (portatori d’interesse, stakeholder) sono importanti nei processi decisionali delle moderne società aperte. Tuttavia, i medici possono presidiare, pur con peso relativo diverso, tutti i temi che costituiscono le sfide per il futuro: efficacia, costo-efficacia, sicurezza, tempestività, equità e centralità del paziente. L’ipse dixit non funziona più, ma per decidere con saggezza i medici devono esserci, con nuove competenze! Solo così possono essere leader di un processo di cambiamento necessario, altrimenti subiranno il cambiamento, che comunque avverrà, e non resterà loro che l’inutile lamento.

Bibliografia1. Ansoff H.I.: Management strategico, Etas Libri, Milano, 1980, 249.2. Favaretti C. e De Pieri P.: Qualità nei servizi socio-sanitari e management

aziendale, in Vecchiato T. (a cura di): La valutazione della qualità nei servizi: metodi, tecniche, esperienze, Fondazione Emanuela Zancan Editrice, 2000, 109-121.

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3. Favaretti C., De Pieri P., Fontana F., Guarrera G. M., Baldantoni E., Betta A., Debiasi F. e Dossi G.: Clinical governance o integrated governance? L’approccio dell’Azienda provinciale per i servizi sanitari di Trento, Clinical Governance: dalla gestione del rischio clinico al miglioramento continuo della qualità, 2005, 1, 29-35.

4. Favaretti C., De Pieri P., Fontana F., Guarrera G. M., Baldantoni E., Betta A., Debiasi F. e Dossi G.: Integrated governance: esempi applicativi nell’Azienda provinciale per i servizi sanitari di Trento, Clinical Governance: dalla gestione del rischio clinico al miglioramento continuo della qualità, 2005, 1, 35-41.

5. Favaretti C., De Pieri P., Fontana F., Guarrera G.M., Debiasi F., Betta A. e Baldantoni E.: La governance clinica nell’esperienza dell’Azienda provinciale per i servizi sanitari di Trento, in Wright J. e Hill P.: La governance clinica, McGraw-Hill, Milano, 2005, XXI-LXI.

6. Favaretti C. e De Pieri P.: La governance integrata delle aziende sanitarie e il modello EFQM, in Pilati G. (Ed.), Programmazione unitaria delle politiche per la salute, Fondazione Emanuela Zancan, 2008, 113-118.

7. Gray J.A. Muir: How To Build Healthcare Systems, Oxoff Press, 2011, 157.8. Favaretti C.: L’esperienza della direzione generale in HTA: il processo decisionale

va condiviso con gli stakeholder clinici, HETA Health economics and technology assessment, 2011, 1, 15-17.

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Tecnologie sanitarie: uso efficace e razionale delle risorsedi crivellini Marcello

RiassuntoL’impiego di tecnologie sanitarie è essenziale nei processi di diagnosi e cura, ma il continuo rinnovo delle tecnologie non sempre è giustificato. A volte nelle scelte prevalgono criteri e interessi estranei a reali esigenze di salute. Investimenti, uso e consumi devono essere valutati secondo criteri oggettivi e indipendenti. In Italia l’uso della Health Technology Assessment è spesso marginale; maggiori regole, norme, controlli e valutazioni indipendenti sono necessarie.

Parole chiave:Tecnologie, Valutazione, Appropriatezza.

AbstractThe use of health technologies is essential in the processes of diagnosis and treatment, but the continuous renewal of the technologies is not always justified. Sometimes the choices and interests prevail criteria unrelated to actual health needs. Investment, use and consumption should be evaluated according to objective and independent. In Italy the use of Health Te-chnology Assessment is often marginal; further rules, regulations, controls and independent evaluations are needed.

Key words: Technology assessment, Regulations, Controls.

Gli ultimi decenni hanno visto una grandissima trasformazione delle strutture e dei protocolli di cura. L’evoluzione dell’informatica ha imposto cambiamenti epocali nelle apparecchiature diagnostiche e di gestione delle immagini, così come tecnologie e nuovi materiali hanno rivoluzionato tutti i sistemi di intervento, spesso attenuandone dimensioni e grado di invasività.

La tecnologia in genere ha invaso pratica clinica e sanità cambiandone radi-

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calmente prestazioni, consumi e servizi, suggerendo nuovi modelli organizzativi e fisici per le strutture sanitarie.

Contestualmente la vita media delle apparecchiature mediche è andata pro-gressivamente diminuendo in conseguenza del tasso crescente di obsolescenza.

L’irruzione della tecnologia sullo scenario clinico-sanitario ha creato certa-mente nuove e numerose opportunità e scelte di cura, ma il processo non è lineare e necessita di un’opera di intelligente governo.

Negli ultimi quattro decenni, infatti, in sanità abbiamo assistito a una specie di corsa all’innovazione continua, senza chiedersi quanto fosse opportuno con-servare e quanto cambiare, se ad un miglioramento delle specifiche dei dispositivi corrispondesse un vantaggio clinico misurabile o quale fosse la diffusione più opportuna dei nuovi sistemi sul territorio.

Insomma si è innovato e si è speso senza farsi alcuna domanda, partendo dal presupposto che comunque un sistema nuovo, più preciso o più raffinato sia comunque meglio di sistemi precedenti, anche se sperimentati con successo nella pratica clinica.

Qualche esempio di tale corsa senza domande. Esaminiamo la diffusione di sistemi diagnostici complessi (e costosi) quali TAC e RMN nei paesi maggiormente industrializzati. La banca dati dell’ Oecd(1) fornisce la situazione mostrata in Fig. 1.

Nell’ambito di paesi comparabili per ricchezza, stile di vita e livelli di salute è riscontrabile una fortissima differenza numerica, che non trova alcuna giusti-ficazione nelle condizioni di vita e di salute. Confrontando ad esempio i dati di Francia, Regno Unito e Germania con quelli di Giappone e Stati Uniti si misurano differenze non spiegabili secondo normali criteri di programmazione o di tutela della salute. Che senso ha, infatti, che il Giappone abbia oltre 11 volte il numero di TAC (per milione di popolazione) rispetto al Regno Unito e oltre 8 volte rispetto alla Francia; e ancora qual’è la logica per cui gli USA hanno un numero di RMN rispettivamente oltre 5 e 4 volte quello di Regno Unito e Francia?

Se si misura il numero degli esami RMN e TAC, il fenomeno è anche più evi-dente; sempre per il 2011 gli Stati Uniti hanno eseguito 102,7 RMN e 273,8 TAC per 1000 abitanti, la Francia rispettivamente 67,5 e 154,5 ,la Spagna 65,7 e 91,3; che dire poi della Grecia che detiene il record di esami TAC con 320,4 ? Quali ragioni di salute possono mai giustificare queste differenze? Forse le uniche spiegazioni si trovano nelle logiche commerciali ed economiche dei produttori delle attrezzature e di chi prescrive gli esami diagnostici o nel fatto che in questa frenetica corsa alle nuove opportunità tecnologiche ci si soffermati più sul mezzo che sui fini.

Tutto ciò ha ovviamente notevoli ripercussioni sulla spesa sanitaria; già qualche anno fa uno studio dell’Oecd(2) metteva in evidenza che secondo alcune ricerche il fattore che determina maggiormente l’aumento della spesa sanitaria non è tanto l’invecchiamento ma il continuo rinnovo delle tecnologie sanitarie.

(1) OECD Health Statistics 2013(2) OECD, A Disease-based Comparison of Health Systems : What is Best and at what Cost?, OECD Publications, 2003.

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Questo fenomeno è accentuato da un discutibile e incontrastato approccio che vede l’azione di promozione dei potenti produttori/venditori, l’atteggiamento con essi “collaborativo” degli operatori e quello disinformato e “fragile” degli utenti convergere verso una diffusione senza regole e motivazioni reali di ogni forma di novità tecnologica in sanità.

Se il comportamento dei produttori è riconducibile all’ambito delle normali logiche di produzione e mercato, non è giustificabile che chi è deputato alla rego-lazione del sistema sanità-salute (Ministero, Regioni, ecc) sia pressoché assente nel fissare regole, criteri di valutazione e limiti sul fronte dell’offerta e del consumo.

L’atteggiamento degli operatori e dei medici in particolare è inoltre palese-mente influenzato da valutazioni di “status” professionale spesso non basate su reali dati scientifici, epidemiologici e di valutazione della reale efficacia in termini

Figura 1: Numero di TAC e RMN per milione di abitanti, 2011 o anno più recente. Fonte: OECD Health Statistics 2013

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di salute; è frequente osservare interviste o affermazioni di compiacimento sulla disponibilità di costosi nuovi sistemi di diagnosi e cura senza preoccuparsi della misura dei risultati sul lato dei pazienti. Si insiste a volte più sulla “potenza” insita nei nuovi sistemi che sui risultati che producono e molti operatori tendono ad estenderne l’uso ad una platea più vasta possibile, dando l’impressione di anteporre i benefici propri a quelli degli utenti realmente indicati.

Anche l’utenza, priva di informazione completa, corretta e indipendente e in condizioni di oggettiva fragilità derivante da preoccupazioni di salute (fondate o meno), è naturalmente portata ad aggrapparsi alla speranza di soluzioni nuove e moderne. Si aggiunge a volte una discutibile cultura che esalta il sano, il bello e considera l’invecchiamento una malattia.

Certamente l’innovazione tecnologica è essenziale in clinica e nell’orga-nizzazione sanitaria: fornisce opportunità di diagnosi e cura prima impensabili e costituisce un formidabile strumento di tutela della salute.

Ma non deve essere una variabile fuori da ogni controllo e da misure di effi-cacia e di costo che dovrebbero essere invece obbligatorie e assunte da soggetti indipendenti, scevri da qualsiasi conflitto di interesse. (3)

A questo proposito in alcuni paesi da tempo va affermandosi in campo sanita-rio una nuova disciplina, l’Health Technology Assessment (HTA) ovvero Valutazione delle Tecnologie per la Salute. È nata negli USA ed si è maggiormente diffusa in quei paesi in cui è tradizionale la cultura del controllo e dei risultati, in ogni campo.

Proprio per questo in Italia è stata presa in considerazione solo recentemente e la sua diffusione è relativa; paradossalmente i problemi di finanza pubblica e la conseguente necessità di limitare le spese, svolgono un ruolo positivo, costringendo finalmente gli attori deputati ai finanziamenti a porsi il problema di una allocazione razionale e più efficace delle risorse.

Scopo dell’HTA è la valutazione delle tecnologie e del loro impiego, fornendo indicazioni quantitative su sicurezza, rischio, efficacia, flessibilità, appropriatezza di uso, costi, relazioni costi/benefici e avendo come riferimento la salute, non altro.

Nel Regno Unito, ad esempio, da circa quindici anni è stato creato un Isti-tuto nazionale indipendente per la verifica dei protocolli di cura, della loro reale efficacia e delle tecnologie.

In Italia manca ancora un centro nazionale indipendente (dai naturali interessi in gioco) di questo tipo; si è dato all’Agenas anche questo compito, ma senza reali poteri e senza regole a livello di aziende e strutture sanitarie.

Nel nostro paese storicamente non sono mai mancati eroici difensori del sistema pubblico ed indignati oppositori di politiche di liberalizzazione, eppure nel mondo sanitario quasi nessuno ha provato ad inserire nel sistema norme, regole, controlli veri ed obbligatori sull’ottimizzazione delle tecnologie sanitarie, sulla loro

(3) M. Crivellini, M. Galli, Sanità e salute: due storie diverse. Sistemi sanitari e salute nei principali paesi industria-lizzati, F. Angeli Editore, Milano, 2011

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ragionevole diffusione, sull’uso appropriato, sulla reale efficacia, su analisi costi/benefici in termini di salute.

Anche in questo caso sono sinora prevalse le logiche e gli interessi delle corporazioni interne e limitrofe alla sanità, contro gli interessi di salute dei cittadini.

Forse l’ultima speranza è la crisi economica che, se non altro, costringerà a fissare priorità e criteri su spesa e finanziamenti.

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RiassuntoIl Settore dei dispositivi medici è un ambito caratterizzato da alta complessità tecnologica ed elevata eterogeneità. Rappresenta un contesto produttivo molto dinamico ed innovativo, con realtà di punta presenti anche Italia. La gestione del tecnologie e la necessità di una loro inte-grazione sempre più spinta nei processi assistenziali non possono prescindere da competenze sempre più specializzate. L’ingegnere clinico, come definito dall’Associazione Italiana Ingegneri Clinici (AIIC), e come formato nelle principali università italiane, rappresenta la figura chiave nel complesso processo di governo delle tecnologie biomediche. Il capitolo vuole fornire un quadro generale sul mondo delle tecnologie in sanità, evidenziando il valore aggiunto che professionalità internazionalmente riconosciute nella gestione ed utilizzo sicuro, appropriato ed economico delle tecnologie nei servizi sanitari.

Parole chiave:Dispositivi Medici, Ingegnere Clinico, Tecnologie biomediche.

AbstractThe sector of medical devices is characterized by an high degree of technological complexity as well as high heterogeneity. It represents a very innovative and dynamic context, and cutting edge entities are located also in Italy. The management of technologies and the increasing need of their integration in clinical pathways cannot leave specialized skills out of consideration. The clinical engineer, as defined by the Italian Association of Clinical Engineers (AIIC), and as trained by Italian Universities, is a key role player in the process of management of biomedical techno-logies. The current chapter is aimed at providing an overview of the technological landscape in healthcare, highlighting the added value of these professionals internationally recognized in the safe appropriate and economic use of technologies in healthcare.

Key words: Medical devices, Clinical Engineer, Biomedical technologies.

Valutare e gestire tecnologie sempre più complessedi lorenzo leoGrande

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Le tecnologie e gli aspetti normativiLa diffusione di un numero crescente di apparecchiature biomediche e di

tecnologie “avanzate” per la diagnosi e la terapia ha radicalmente modificato l’approccio alla cura della salute. Un ospedale moderno si presenta, infatti, come un contenitore di tecnologie sempre più avanzate e numerose, la cui razionaliz-zazione e mantenimento in sicurezza sono esigenze sempre più pressanti.

L’evoluzione tecnologica dei dispostivi collegati alla cura della salute ha se-guito l’evoluzione di tutti i principali settori industriali e produttivi, dall’elettronica all’informatica, dalle telecomunicazioni ai sistemi di automazione, dalla meccanica a biomateriali. Il trend in atto infatti ha consentito in questi anni di disporre di:

• dispositivi ad elevatissimo contenuto tecnologico con alta capacità e velocità di acquisizione e trattamento dei dati. Gli esempi sono molteplici e signi-ficativi: le tecnologie di imaging quali le TAC volumetriche di ultima generazione, la risonanza magnetica ad alto campo, l’”imagingmolecolare”, i sistemi di archi-viazione e gestione delle immagini (PACS), le isole completamente automatizzate del laboratorio analisi, le tecnologie per l’analisi del DNA, i sistemi di chirurgia assistita dal computer, etc.;

• miniaturizzazione dei componenti e delle dimensioni delle tecnologie: sempre più compatte, trasportabili, ergonomiche, performanti;

• realizzazione di “biosensori” sempre più piccoli, più sensibili, e sofisticati; • dispostivi medici sempre più connessi in rete, con la conseguente

realizzazione di software medicali che organizzano ed integrano le informazioni che provengono dalle tecnologie sanitarie;

• applicazioni di telemedicina: la frontiera dell’utilizzo delle tecnologie sanitarie ha ormai varcato il confine e l’ambito ospedaliero spostandosi sempre più verso una dimensione territoriale (reti di punti di cura) sino al domicilio del paziente (home care) sfruttando le applicazioni di telemedicina e del software ad uso medico.

Le enormi prospettive di questo mercato e l’importanza che hanno assunto le tecnologie hanno reso necessaria una ampia riforma normativa sovranazionale e a questo scopo l’Unione Europea ha regolamentato con tre direttive tutta la materia sui dispositivi medici. Dispositivi che al loro interno contengono le tec-nologie utilizzate per la diagnosi e la terapia. Di seguito si riportano le direttive che attualmente regolamentano il settore dei dispositivi medici:

• Direttiva Dispositivi Impiantabili attivi (direttiva UE 90/385 recentemente modificata dalla 07/47),

• Direttiva Dispositivi Medici (direttiva UE 93/42 recentemente modificata dalla 07/47),

• Direttiva Dispositivi Diagnostici in Vitro (direttiva UE 98/79). La logica di fondo delle Direttive Europee è fornire agli utilizzatori un di-

spositivo che sia costruito “a regola d’arte”, ovvero in modo tale da rispettare

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requisiti di sicurezza previsti dalla normativa (i cosiddetti requisiti essenziali), e che garantisca le prestazioni per le quali è stato costruito in termini di efficacia. L’apposizione del marchio CE quindi è assunzione di responsabilità da parte del costruttore che il dispositivo rispetti le due condizioni riportate sopra.

Le due condizioni sono realizzate mediante il rispetto di normative tecniche recepite a livello sovranazionale e attraverso una rigorosa analisi dei rischi che il produttore deve condurre in fase di progettazione ma che deve essere aggiornata durante tutta la vita del dispositivo.

La logica delle direttive sintetizza il cosiddetto “nuovo approccio”, così chia-mato in quanto il legislatore ha voluto definire uno strumento legislativo in tema di dispositivi medici, in grado di adattarsi ad un settore in continua evoluzione (certamente il settore con il più alto tasso di innovazione a livello industriale). Requisiti essenziali e norme tecniche (quest’ultime specifiche e non obbligatorie) consentono infatti la strutturazione di un sistema regolatorio in grado da un lato di garantire il governo dell’immissione nel mercato dei dispostivi medici, ma dall’altro di non ostacolare quella dinamicità produttiva, peculiare del settore.

Oltre che da un punto di vista normativo, la peculiarità del settore tecnolo-gico di riferimento è richiedere adeguati strumenti di governo anche negli ambiti di utilizzo di riferimento. La complessità del settore dei dispositivi medici rende necessaria la presenza di competenze specifiche nelle strutture sanitarie. Strutture organizzative e specifiche procedure tali da garantire un’efficiente e corretta ge-stione delle tecnologie, sia dal punto di vista tecnico che economico. La tecnologia infatti non può più essere considerata “in se stessa” ma deve essere sempre più inserita nel processo clinico complessivo, in conseguenza delle interazioni che ogni sistema introduce con altri device, e con gli aspetti organizzativi. Solo tale approccio consente di garante in modo efficace la sicurezza a pazienti e operatori.

A fronte quindi di una distribuzione sempre più vasta ed ormai irrinunciabile di tecnologie biomediche, le strutture sanitarie devono essere in grado di scegliere le tecnologie più appropriate, di impiegare correttamente la strumentazione, di garantire la sicurezza dei pazienti e degli operatori, nonché la qualità del servizio erogato ed ottimizzare i costi di acquisto e di gestione.

Si può affermare, come dato comune a tutti i paesi industrializzati che, se da un lato la crescita economica ha permesso di finanziare nuovi investimenti e strutture all’avanguardia dal punto di vista tecnologico, d’altra parte il pesante ingresso della tecnologia negli ospedali ha contribuito, insieme ad altri fattori (aumentato tenore di vita, crescente urbanizzazione, invecchiamento della po-polazione, ...) ad incrementare la spesa sanitaria.

il governo dell’innovazione: tra il valutare e il disinvestireNegli ultimi anni si è assistito ad numero sempre crescente di dispositivi

medici come testimoniato dagli oltre 650.000 dispositivi registrati nella banca dati/repertorio del Ministero della Salute. Non tutte le tecnologie messe in

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commercio rappresentano vera innovazione e non tutte sono adatte per essere installate ed utilizzate in tutti i contesti. In ogni caso, la medicina moderna si affida in modo sempre più massiccio alle soluzioni tecnologiche per rispondere ai bisogni di salute espressi dalla popolazione, soluzioni di cui è necessario cono-scere l’impatto in termini di efficacia clinica, di efficienza rispetto al contesto di utilizzo, di sicurezza ed ovviamente di costi. L’introduzione di nuove tecnologie non può prescindere dalla conoscenza puntuale del parco tecnologico installa-to, del suo “stato di salute”. L’approvvigionamento delle nuove tecnologie, non può prevedere una approccio unicamente di tipo economico, ma deve anzitutto analizzare in modo critico il setting di riferimento, la presenza di dispositivi già installati, le reali esigenze.

La valutazione richiede un approccio più sofisticato, completo e quindi multidimensionale, con il contributo di più figure professionali come gli ingegneri clinici, gli economisti, gli operatori clinici.

Il processo di valutazione per l’introduzione delle tecnologie sta diventando un’attività sempre più imprescindibile per il governo dell’innovazione. È infatti fondamentale capire in anticipo l’impatto e la portata di una tecnologia in termini di conseguenze su paziente e organizzazione. Il più diffuso approccio alla valuta-zione delle tecnologie, per il suo carattere multidisciplinare e multidimensionale è l’Health Technology Assessment (HTA), disciplina che ha suscitato da subito l’attenzione degli ingegneri e che ha visto il coinvolgimento di numerose figure professionali. L’HTA ha l’obiettivo di analizzare non solo gli outcome clinici asso-ciati ad una tecnologia, ma anche l’impatto sull’organizzazione, la comparazione rispetto altre soluzioni presenti all’interno di una struttura cercando di capire quali tecnologie devono essere sostituite: in molti casi infatti, l’introduzione del-le nuove tecnologie crea un problema di sovrapposizione con quelle esistenti, creando inevitabili diseconomie.

Il governo dell’innovazione avviene anche attraverso altri strumenti. Non vi è infatti soltanto un problema di valutazione delle nuove tecnologie, ma occorre valutare anche quelle esistenti e presenti nelle strutture ospedaliere: sono realmente utili, sono ancora efficaci rispetto alla soluzioni che il mercato propone, sono ancora coerenti con gli indirizzi strategici della organizzazione sanitaria di riferimento? Ecco perché un nuovo filone di ricerca dell’HTA si sta concentrando sul disinvestment ossia la ricerca di tutte quelle tecnologie che per ragioni di obsolescenza, sicurezza ed efficienza possano essere dismesse per fare posto a quelle di nuova generazione. Il disinvestimento può essere quindi visto come un’opportunità per assicurare un accesso a cure efficaci in un contesto economico di forte crisi, dove i tagli lineari sono stati implementati quali soluzioni al contenimento della spesa sanitaria pubblica perché evidentemente efficaci in un’ottica di breve periodo.

La società internazionale di HTA (HTAi) propone l’utilizzo dei metodi dell’HTA a supporto dei processi di disinvestimento attraverso la (ri)valutazione

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dell’appropriatezza d’uso delle tecnologie sanitarie e lo sviluppo di linee guida e percorsi diagnostico-terapeutici. L’HTA può essere considerato come uno strumento potenzialmente in grado di incentivare la riduzione d’uso di tecno-logie non efficaci o di scarso valore per i pazienti. La (ri)valutazione può essere attivata a qualsiasi stadio del ciclo di vita della tecnologia, ma più frequentemente è l’introduzione di nuova tecnologia nella pratica clinica che innesca la necessità di rivalutare quelle già esistenti. In aggiunta, l’HTA può supportare le decisioni di riallocazione, reinvestimento o disinvestimento che si rendono necessarie durante lo sviluppo di linee guida e percorsi di cura. Un tale approccio non è focalizzato solo sulla variazione d’uso di una singola tecnologia, bensì sul miglioramento di una più ampia gamma di servizi sanitari correlati tra loro al fine di concepire un percorso di cure integrate, efficiente e di alta qualità.

Sul tema del disinvestimento in particolare, l’ingegneria clinica può fornire un supporto decisivo. La conoscenza delle tecnologie installate presso una struttura ospedaliera (si parla ormai di svariate migliaia anche per un ospedale con poche centinaia di posti letto) consente di avere una reale mappatura funzionale delle stesse, del loro stato di obsolescenza, delle eventuali criticità o diseconomie legate al loro utilizzo. La letteratura propone diversi algoritmi volti alla determinazione di indici matematici che sintetizzano l’obsolescenza di tutte le tecnologie presenti i un dato contesto, contribuendo alla determinazione di veri e propri piani di sostituzione delle tecnologie. La sostituzione delle tecnologie all’interno di una struttura ospedaliera rappresenta non solo una opportunità per introdurre più moderne ed efficaci soluzioni, ma costituisce una vera e propria criticità, non sempre tenuta in debita considerazione, se si tiene conto della obsolescenza generale del parco tecnologico biomedicale italiano.

Le tecnologie stanno cambiando: Convergenza tra tecnologie e ICT

Oltre al citato sviluppo dei dispositivi medici, negli ultimi anni, si è assistito ad importanti cambiamenti sul fronte dei software. L’ambito dell’Information and Communication Technology (ICT) è indubbiamente un mondo in continua evoluzione. Come evidenziato da James Keller, vice presidente dell’ECRI Insiti-tute (Emergency Care Research Institute) e presidente dell’ACCE (American College of Clinical Engineering), vi è una convergenza sempre più marcata tra i dispositivi medici e le tecnologie dell’information technology, tanto da definire un nuovo modo di intendere la tecnologia stessa: si parla di sistemi piuttosto che di device. Gli stessi dispositivi medici sono funzionalmente rappresentati sempre più dalle caratteristiche del software interno e sempre meno dall’hardware (senza dimenticare che sono sempre più spesso connessi ad una rete dati). Già nel 2008 tale problematica è stata oggetto di attenzione da parte dell’americana ECRI (Health Devices, october 2008) attraverso una prima mappatura delle tecnologie “combinate”. Nello stesso periodo anche JCI (Joint Commission

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International) pone fortemente l’attenzione sulle “converging technologies”, per analizzare la corrispondente segnalazione di eventi avversi, imputabili proprio al funzionamento combinato del “sistema”. Diversi sono gli esempi delle tecnolo-gie convergenti – dalla cartella clinica informatizzata, alla telemetria wireless, alle sale operatorie integrate - molteplici i benefici associati a questo nuovo modo di intendere la tecnologia in ospedale, compreso il miglioramento degli standard di cura e dei processi gestionali. Molteplici sono però anche le problematiche ed i rischi, quando questa convergenza non è ottimale o non ben gestita, perchè può tradursi, ad esempio, in problemi di scarsa ottimizzazione dei work flow, bassa interoperatività, costi incrementali non sempre evidenti o preventivabili. Occorre ricordare che l’integrazione va intesa sempre in modo bidirezionale: un medical device può essere condizionato da dispositivi non medicali cui è collegato, ma allo stesso tempo può costituire un problema per il “sistema” al quale è colle-gato. Si consideri, ad esempio, la mancata connessione di un moderno sistema di telemetria ECG ad un access point di un rete WiFi, con conseguente perdita di dati e/o allarmi; oppure alle conseguenze per l’intera rete dati, della connessione di un medical device non “protetto” sotto il profilo della sicurezza informatica. Da questi semplici esempi risulta chiaro che è necessaria una nuova modalità di gestione della convergenza tecnologica.

La convergenza modifica e rende più complesso anche il modo classico di gestire il software: si va verso una vera e propria mescolanza di software medici con software non medici, con una conseguente maggiore probabilità di interferenza tra i diversi approcci e di codifica. Lo stesso confine tra un software inteso come “medical device” ed un software “non medical device” merita attente valutazioni. Infatti, mentre in alcuni casi risulta molto chiaro considerare un software come medicaldevice (ad esempio, un software per la neuronavigazione o per l’interpreta-zione del tracciato ECG sono dispositivi medici, un software per la teleconferenza o per la gestione dell’agenda non lo sono), c’è un’area grigia in cui il confine non è ben delineato a priori ed è necessario dotarsi di strumenti che contribuiscano a fare chiarezza.Tra questi, la guida Meddev 2.1/6 “Qualification and classification of standalone software used in health care” rappresenta un valido ausilio nel classi-ficare il software, soprattutto in assenza di certificazione come da direttiva 47/07.

A conferma di tale complessità e delle problematiche che si ingenerano, un recente report dell’ECRI dedicato alle prime 10 cause di incidenti associati alle tecnologie biomediche ha ben evidenziato le criticità associate ai sistemi combinati; ben 7 delle 10 cause sono imputabili a problematiche di convergenza tra ICT e medical device (allarmi, problemi nella impostazione delle medicazione dei sistemi infusionali, mismatch nei dati paziente tra i diversi sistemi, problemi di interopera-bilità tra medicaldevice e ICT, etc.).

D’altronde la complessità non si ferma al solo device, ma permane, forse si complica, quando quest’ultimo va “in rete”. Sempre più dispositivi medici vengono collegati a vario titolo alle reti IT; e le reti IT sono diventate vitali negli ambienti

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clinici nel supportare il funzionamento di diversi processi. C’è quindi il bisogno di nuovi strumenti normativi, di linee guida, di standard internazionali, che consentano di dirimere le questioni, i rischi, generati dalla integrazione medicaldevice - rete IT.

La spinta verso l’integrazione dei MD tra di loro e con il Sistema Informativo Ospedaliero nasce quindi da una serie di fattori che vengono alimentati da con-crete esigenze cliniche e gestionali. Occorre governare la tendenza alla sempre maggiore integrazione dei dispositivi medici nelle reti IT e con i Sistemi Informativi Ospedalieri, con cautela ma senza diffidenza, acquisendo nuove competenze nel settore dell’interoperabilità e mettendo in atto processi riorganizzativi all’interno delle strutture sanitarie che tengano conto della naturale evoluzione delle tecno-logie e del mercato.

arrivano le app della salute! La normativa vigente in tema di dispositivi medici, prevede che anche il

software stand alone possa costituire un dispositivo medico. Tale direttiva impone che i software rispondano ai medesimi criteri che vengono previsti per i dispositivi medici tradizionalmente intesi: devono garantire specifiche esigenze cliniche ed essere sviluppati effettuando una corretta analisi dei rischi e gestione del ciclo di vita del prodotto software. A fianco di questo percorso ormai consolidato negli ultimi anni si è assistito alla presentazione di applicazioni che de facto rappresen-tano dei “gadget” a supporto della vendita del dispositivo medico tradizionale. Il fenomeno dei software offerti come “accessori” gratuiti trova le sue origini molti anni fa, quando non esisteva nessuna regolamentazione; tra questi si annoverano principalmente cataloghi/archivi di immagini provenienti da dispositivi come ad esempio apparecchiature radiologiche, video processori di sala operatoria ecc; cartelle cliniche elettroniche, software per la post elaborazione di eventi elettro-fisiologici; sistemi di esportazione di dati a scopo scientifico ecc.

L’attenzione alla problematica deve essere sempre maggiore nel momento in cui sistemi di gestione della salute in senso lato, spesso anche di aiuto alla diagnosi ed alla terapia, incominciano a diffondersi in ambienti poco controllati, come il mercato consumer delle “app mediche”.

Tutto ciò avviene in un contesto di bassa coscienza, da parte del personale sanitario (e spesso anche di quello tecnico), di quanto sia rilevante una corretta acquisizione, installazione e gestione di un software utilizzato in un contesto sanitario nel rispetto dei vincoli tecnici/normativi e di sicurezza. Molti temi, so-prattutto relativamente alla sicurezza e alla privacy, vengono sottovalutati a favore delle nuove funzionalità che si possono ottenere con l’introduzione delle nuove applicazioni software.

Questo identico percorso è quello seguito dalle applicazioni per dispositivi mobile. E la massiccia spinta a favore dell’introduzione di applicazioni del mobile health evidenzia ancora una volta come la mancanza culturale nell’ambito della gestione dei SW medicali possa essere fonte di tensione e pericoli.

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Le dimensioni del fenomeno M-health non sono trascurabili: da una recente indagine effettuata negli Stati Uniti emerge che il 72% dei medici intervistati di-chiara un significativo aumento della produttività del proprio lavoro grazie all’uso delle tecnologie mobili, il 58% evidenzia un aumento del livello di collaborazione con il proprio staff ed infine l’89% dei medici di medicina generale dichiara di utilizzare uno smartphone come strumento di lavoro e collaborazione. La rapida espansione della produzione, in particolare nel settore sanitario, di applicazioni software installabili su dispositivi mobili, quali le mobile applications o “APP” e la loro disponibilità per un vasto numero di utenti, rappresenta allo stesso tempo una grande opportunità di sviluppo ma anche un potenziale rischio di salute pubblica. Tale considerazione ha indotto la Food and Drug Administration (FDA) a pubblicare, alla fine del 2013, una linea guida dal titolo “Mobile Medical Applica-tions” con lo scopo di regolamentare un sottoinsieme di Apps, le “mobile Medi-calApps”, applicazioni classificabili come dispositivo medico secondo le normative statunitensi. La linea guida FDA mantiene discrezionale la sua applicazione per il resto delle App utilizzate nel contesto sanitario (per esempio applicazioni che hanno come scopo fornire supporto al paziente nella gestione della sua salute, nel suo ambiente e o comunicare condizioni di salute ai medici che lo hanno in cura senza che queste attività comportino rischi significativi per la sua salute).

Gestire la complessità: una necessitàGestire la complessità delle tecnologie biomediche sia all’interno di una

struttura ospedaliera sia all’esterno è diventato un imperativo. I temi della pro-grammazione e valutazione da un lato, e della integrazione e gestione dall’altro, sono divenuti imprescindibili e non rinviabili. I temi tradizionali legati alla garanzia della sicurezza nell’utilizzo delle apparecchiature per pazienti ed operatori, ottenu-ta grazie ad attività quali i collaudi di accettazione, la manutenzione programmata e correttiva, le verifiche funzionali di sicurezza, la formazione al corretto utilizzo, ecc., ben sintetizzate nella fig. 1 (attività associate al ciclo di vita di una tecnologia biomedica all’interno di un ospedale), vengono sempre più affiancate da nuove attività di gestione che contemplano nuove esigenze legate ad una complessità tecnologica che cambia e si evolve.

L’evoluzione in atto nel panorama biomedicale internazionale, la nuova vision della tecnologia, che da elemento singolo si integra in una logica sistemica, impongono una nuova modalità di gestione delle tecnologie che si avvalga di un bagaglio di competenze e capacità di gestione fortemente rinnovato, di più alto livello e in grado di intendere la dimensione tecnologica non più un ausilio ma sempre più come un asset strategico.

Per tali ragioni le competenze richieste, come evidenziato da Saide Jorge Calil, chairman della “Clinical Engineer Division” (CED) in seno alla “International Federation for Medical and BiologicalEngineering” (IFMBE), devono contemplare ambiti quali:

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- il Project Management: gestione di progetti complessi in cui la tecnologia ha un ruolo significativo, ma che contemplano fortemente aspetti impiantistici e strutturali, ed aspetti organizzativi e sanitari;

- il Quality Management: sempre più strutture sanitarie qualificano la propria organizzazione con l’accreditamento di eccellenza secondo gli standard di Joint Commission International (JCI). La gestione delle tecnologie biomediche è centrale per il successo delle iniziative di certificazione;

- il Risk Management: le competenze rivolte alla sicurezza delle apparecchiature vengono sempre più spesso integrate all’interno dei team multidisciplinari di ClinicalRisk Management;

- il Contract Management: volto alla gestione di servizi e forniture sempre più complessi ed integrati (ICT, service manutentivi o di sistemi, servizi di gestione di medicaldevice, servizi integrati prestazioni/sistemi);

- la gestione dei costi di processo: non più focalizzata ai soli costi “tecnologici”, ma visti in un ottica più ampia di processo assistenziale/organizzativo;

- l’implementazione della sanità sul territorio (cure domiciliari, trasporti

Figura 1: Il ciclo di vita della tecnologia secondo Lenel et al.

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dei pazienti, gestione e prevenzione delle emergenze); - l’integrazione e la convergenza tra i dispositivi medici con l’ICT; - l’implementazione e gestione di soluzioni di telemedicina, la gestione del

software come dispositivo medico.

L’ingegneria ClinicaLe competenze richieste esistono, si trovano in quasi tutti gli ospedali italiani,

e vengono formate nei principali atenei Italiani, sono gli ingegneri clinici.L’Ingegneria Clinica è una disciplina relativamente nuova nel panorama sa-

nitario internazionale; nasce infatti negli anni Settanta negli Stati Uniti, quando le tecnologie elettromedicali cominciano a costituire una presenza significativa nelle strutture ospedaliere. In particolare, iniziano a diffondersi le grandi tecnologie di imaging radiologico e si sente il bisogno di garantire la sicurezza di pazienti ed operatori.

L’Associazione Italiana Ingegneri Clinici (AIIC) che opera in Italia sin dai primi anni ‘90 definisce “Ingegnere Clinico” un “professionista che partecipa alla cura della salute garantendo un uso sicuro, appropriato ed economico delle tecnologie nei servizi sanitari”. I colleghi americani dell’American College of Clinical Engineering (ACCE) fanno esplicito riferimento al ruolo dell’ingegneria clinica per la salute/sicurezza del paziente: “Clinical Engineeris a professional who supports and advances patient care by applyingengineering and managerialskills to healthcaretechnology” (1992). An-che l’International Federation of Medical and Biomedical Engineering (IFMBE) Division for Clinical Engineering (DCE) attribuisce all’Ingegneria clinica l’attività di gestione sicura ed efficiente della tecnologia e le applicazioni dell’ingegneria biomedica in ambiente clinico, per il miglioramento della salute: “the safe and effective mana-gement of technology and the application of medical and biological engineering within the clinical environment, for the advancement of health care” (1985).

Una professione sempre scelta dai giovaniL’annuale classifica dei “Best jobs in America” pubblicata da CNNMoney e

redatta tenendo conto del tasso di crescita occupazionale prevista nei prossimi dieci anni, dei livelli salariali e del numero di posti di lavoro potenzialmente dispo-nibili, colloca al primo posto la figura dell’ingegnere biomedico/clinico; spaziando da attività di ricerca e sviluppo di nuovi dispositivi medici all’analisi di dati me-dici fino ai campi applicativi nell’industria o nelle strutture sanitarie, l’ingegnere biomedico si colloca così sopra professioni certamente emergenti e accattivanti quali “Marketing consultant” o “Software architect”. Anche la più specifica figura professionale dell’ingegnere clinico – dedicata principalmente alla gestione delle tecnologie biomediche all’interno degli ospedali –si piazza al posto numero 2 della classifica dei “Fastestgrowingjobs”; questo grazie all’eccezionale tasso di crescita previsto nei prossimi dieci anni pari al 61,7%, superato solamente dalla figura delle “Home Care Nurses” che testimonia il progressivo spostamento

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delle cure sanitarie dall’ospedale alla casa del paziente, trend di interesse anche per la nostra figura professionale.

Quanto affermato trova pieno riscontro nella progressiva crescita delle immatricolazioni nelle facoltà di ingegneria biomedica, attualmente presente in tutti i principali atenei italiani. Solo al Politecnico di Milano si contano per l’anno accademico 2013/14 oltre 500 immatricolati in ingegneria biomedica, numeri ormai in linea se non addirittura superiori a quelli dei principali e tradizionali corsi di ingegnerica (elettronica, gestionale, meccanica, ecc.)

ConclusioniDa quanto riportato appare evidente come le tecnologie biomediche rap-

presentino un settore ad alta tecnologia, ad alta intensità di ricerca e con forte tasso di innovazione. Un ulteriore aspetto che le caratterizza è certamente costituito dalla numerosità e diversità; il settore raggruppa al suo interno infatti un elevato numero di “famiglie di tecnologie” che lo rendono molto eterogeneo. Numerosità, eterogeneità, innovazione sono tutti elementi che concorrono a definire la complessità di un settore che richiede conoscenza e competenze sempre più definite.

Il settore delle tecnologie, e quindi dei dispositivi medici, è certamente uno dei settori più interessanti e strategici anche da un punto di vista meramente industriale.Anche in Italia questo settore rappresenta un ambito produttivo particolarmente vivace. Volendo fornire qualche dato, secondo il rapporto di Assobiomedica (2013), le aziende di dispositivi medici presenti sul territorio nazionale sono pari a 3.037 con un numero di dipendenti superiore ai 10.000. La distribuzione geografica si concentra in particolar modo in cinque Regioni (Lombardia, Emilia Romagna, Lazio, Veneto, Toscana). Per quanto riguarda invece le attività svolte dalle Aziende, il 59% svolge attività di natura prettamente com-merciale, e solo il 37% sono Aziende produttrici di dispositivi. Sempre secondo il rapporto di Assobiomedica il mercato italiano dei dispositivi medici è un mer-cato eterogeno costituito prevalentemente(circa il 90%) da imprese di piccole o micro dimensioni.

La conoscenza delle tecnologie rappresenta una criticità non solo in termini di gestione, per le motivazioni espresse in precedenza, ma anche e soprattutto in relazione all’utilizzo. Dal corretto utilizzo delle tecnologie dipendono infatti qualità ed efficacia delle prestazioni erogate. Si parla quindi di vera e propria formazione per gli operatori. Le aziende produttrici dedicano una attenzione sempre maggiore alla formazione degli operatori, consapevoli del fatto che solo la conoscenza ed il training su una tecnologia possono portare intanto ad un utilizzo corretto, quindi ad un esito clinico atteso. La complessità legata alla for-mazione al corretto utilizzo di una tecnologia non si esaurisce con il ruolo delle aziende produttrici. Anche in questo caso gli ingegneri clinici giocano una partita importante. Le tecnologie, infatti, vengono inserite in un determinato contesto,

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caratterizzato da flussi e percorsi ben precisi, da una data organizzazione, dalla presenza di altri sistemi, dalla necessità di integrare i diversi sistemi anche in una logica di utilizzo.

L’elevata innovazione nel campo dei dispositivi medici impone l’utilizzo di strumenti sempre più efficaci di governo, atti a gestire l’introduzione dell’innova-zione tecnologica e quindi di garantire efficacia e sostenibilità. Da tutto ciò emerge l’importanza che le competenze di un ingegnere clinico possono portare per un corretto e appropriato governo delle tecnologie biomediche, in un settore che dal punto di vista di prodotti è molto eterogeneo, ma dalla cui corretta gestione dipende la sostenibilità del sistema sanitario.

Citazione completa: Andreas Lenel, Caroline Temple-Bird, WilliKawohl, ManjitKaur - How to Organize a System of Healthcare Technology Management, 2005 Assobiomedica Rapporto 2013

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La strada dell’innovazione tecnologica italiana è piena di distinguo, quando non di contrapposizioni apparentemente inconciliabili. Non si tratta, infatti, di aspetti complementari di un sistema polivalente, in grado di trovare nelle proprie diversità delle potenzialie proficue sinergie interiori, anche se resta comunque importante nel nostro paese il fenomeno assai caratteristico delle filiere distrettuali di subfornitura. Si tratta piuttosto di un una insidiosa deriva verso un arroccamento di posizioni concorrenziali, ognuna tesa a ritagliarsi sempre più ristretti spazi di sopravvivenza nei rapporti con il mercato interno e internazionale, oltre che con le istituzioni. Per citare solo alcuni di questi distinguo, attualmente il piccolo sembra andare meglio del grande, il virtuale sembra andare meglio del reale, il privato sembra andare meglio del pubblico, anche se sotto questo profilo bisogna considerare che spesso, e fortunatamente, almeno nelle prime fasi della innovazione, quelle della ricerca e della sua incubazione, pubblico e privato vanno ancora a braccetto.

Questi distinguo sembrano gonfiarsi e radicalizzarsi anno dopo anno, a con-ferma che probabilmente non si tratta di fenomeni congiunturali, ma strutturali: che cioè nel nostro paese il grande, il reale e il pubblico tendono nel loro insieme a configurarsi come una sorta di sistema negativamente collusivo sotto il profilo funzionale,teso prevalentemente a riprodursi e a perpetuarsi evitando di correre qualsiasi rischio connesso con il cambiamento, anche quando indispensabile per sopravvivere. Per contro, il piccolo, il virtuale e il privato cominciano a manifestare un respiro troppocorto e asfittico per riuscire a farcela da soli, in Italia, ma non soltanto.

Una economia globalizzata, nonostante i crescenti vantaggi competitivi della specificità, di quello che si definisce il “locale”, ma che spesso si rivela un vero e proprio cul de sac in cui ci si rinchiude talvolta senza neppure rendersene conto,

Eccellenza, ovvero come spingersi fuori, senza caderedi Gian piero Jacobelli

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richiede infatti un rilevante livello di soglia, una massa critica di risorse umane, organizzative e finanziarie, di cui chi è piccolo, perché comincia o perché si muove in contesti di nicchia, non può usufruire, quanto meno senza associarsi a realtà concomitanti di supporto o di promozione.

Quanto al virtuale, l’area dei prodotti immateriali dell’informatica e delle sue proliferanti utilities, persino l’esperienza statunitense, all’avanguardia nella gestione delle rete, insegna come non possa darsi una innovazione valida, costante e robusta senza una manifattura altrettanto valida, costante e robusta. L’attenzione di ritorno per i settori manifatturieri d’oltre oceano sta a dimostrare che la ricerca e tanto più lo sviluppo si fanno in fabbrica, perché è in fabbrica che si possono testare e implementare prodotti e processi in grado di cambiare radicalmente il modo di produrre,in particolare quelli a tecnologia avanzata, che richiedono infrastrutture produttive strategiche e imponenti investimenti.

Infine, sarebbe sbagliato pensare al pubblico solo come una sorta di sportello bancario che da qualche tempo non riesce più ad alimentare la domanda d’inve-stimenti espressa dalle imprese in maniera sempre più impellente e determinante. Pubblico dovrebbe significare anche, e forse soprattutto, un quadro di riferimento normativo, formativo e organizzativo, senza cui l’iniziativa privata, soprattutto in un tempo in cui la dimensione nazionale sta affogando in quella internazionale, non saprebbe letteralmente da che parte andare.

Un riscontro, sia pure da un punto di vista piuttosto circoscritto, anche se non privo di una sua indicativa specificità, ci è venuto proprio in queste settimane da una ricorrente iniziativa di MIT Technology Review, la edizione italiana della autorevole rivista del MIT di Boston, che appunto con la innovazione scientifica e tecnologica si misura ormai da molti anni: oltre un secolo nel caso della Casa madre statunitense; oltre venticinque anni, nel nostro caso.

Qualche tempo fa, insieme ad Alessandro Ovi, con il quale dall’inizio di questa originale e complessa impresa editoriale ne condivido la responsabilità, abbiamo provveduto a una selezione delle aziende che nello scorso anno abbiano mostrato una maggiore intraprendenza nel campo della ricerca, della produzione e della commercializzazione nei rispettivi campi di attività. La selezione, che tra gli addetti ai lavori chiamiamo TR 10 (le 10 imprese più innovative selezionate da MIT Technology Review) replica un’analoga iniziativa della Casa madre statuniten-se, da vari anni impegnata a segnalare annualmente le aziende che i loro esperti definiscono“smart”, cioè brillanti e soprattutto adeguate ai loro stessi obiettivi programmatici, e“disruptive”, cioè capaci di irrompere in maniera dirompente (anche le onomatopee servono a rendere evidente la rapidità con cui avvengono le rivoluzioni, in economia, come anche in politica) sul mercato, mutandone in breve tempo e radicalmente gli equilibri e le prospettive.

I colleghi d’oltre oceano sembrano da qualche anno tornare sui loro passi, ripristinando le ragioni del grande (alcune delle aziende selezionate vantano fatturati miliardari e investono in R&S molti milioni di dollari) e le ragioni del

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reale (nonostante la prevalenza delle aziende della rete, non mancano le nuove manifatture, dalla elettronica alla biotecnologia), se non del pubblico,per quanto la crisi finanziaria ancora incombente abbia restituito tutta la sua importanza agli investimenti pubblici rispetto al cosiddetto “venture capital”, i capitali privati disposti a correre il rischio di una novità promettente, ma non garantita.

Per quanto ci riguarda, invece, se il grande latita tradizionalmente, a eccezione di alcuni esempi di manifatture tecnologicamente avanzate che trovano alimento innovativo nell’elettronica e nella stessa informatica (importanti, a titolo di esempio, i casi dell’accordo tra Ferrari e Apple e dei nuovi “penumatici intelligenti” della Pirelli, che si possono leggere negli ultimi fascicoli di MIT Technology Review e nel sito on line della rivista), il reale sembra davvero stare a guardare, persino nei settori tradizionalmente più sviluppati come quello energetico, quello farmaceutico, quello chimico, quello dei materiali, quello delle macchine utensili e via dicendo.

Se mai, le novità più interessanti provengono da quelle attività di assemblaggio che i nostri vicini transalpini chiamano bricolage: attività che testimoniano di una genialità capace di esprimersi modificando, integrando, migliorando produzioni più tradizionali. Al contempo proliferano le start up del settore informatico, in cui piccolo e virtuale rappresentano le condizioni indispensabili per superare gli ostacoli posti dalla mancanza di risorse, ma che, purtroppo, quando riescono ad affermarsi, cambiano subito indirizzo: ci è capitato di non riconoscere immedia-tamente alcune di queste piccole imprese di Internet, che, nate a casa nostra, si dichiarano residenti a Los Angeles o San Francisco;in una parola, a Silicon Valley!

L’impressione generale è che, nel nostro caso, l’innovazione stenta ormai a farsi largo, per ragioni economiche, ma anche per la fatica di emergere e d’imporsi. Tuttavia, quando ci riesce, a dispetto della inerzia del grande e della regressione del reale, il contesto innovativo italiano lascia intravvedere un modello di collaborazione tra pubblico e privato che consente ancora l’affermazione di vivaci e “native” energie creative. Perché, in effetti, nonostante le talvolta insuperabili difficoltà, nel nostro paese la creatività continua a fluire interstizialmente, interfacciando strutture e processi decisionali di ambiti diversi, disciplinari, settoriali, istituzionali. Basterebbe ricordare a questo proposito l’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, fondato nel 2003 con una dotazione di 100 milioni di euro l’anno tra il 2005 e il 2014, che ha ormai concluso con successo la fase iniziale di costruzione d’importanti strutture di ricerca e che ospita oltre 1000 ricercatori al massimo livello da tutto il mondo, avendo da poco iniziato una intensa attività di trasferimento tecnologico.

Anche MIT Technology Review, nonostante disponga della maggiore banca dati mondiale sulla innovazione, trova significativi apporti informativi nelle attività di ricerca dell’IIT, che non soltanto opera allo stato dell’arte in molti settori, dalla robotica alla neuroingegneria, ma che è ormai diventato un prezioso punto di riferimento sia per le molte collaborazioni internazionali in cui gioca un ruolo da protagonista, sia per tastare il polso a ciò che ci si può aspettare dagli scenari scientifici e tecnologici a livello nazionale e internazionale.

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In un recente colloquio con la nostra rivista, Roberto Cingolani, direttore scientifico dell’IIT, ha sottolineato la difficoltà a fare previsioni in un sistema come quello della ricerca tanto interconnesso e tanto imprevedibile per quanto concer-ne la translational research, cioè la capacità di passare dal laboratorio al mercato e dal mercato alla cosiddetta società civile. Ma ha anche fornito alcune preziose e promettenti indicazioni nei campi oggi fondamentali delle biotecnologie, delle fonti di energia e dell’Internet pervasivo, in cui anche il nostro paese, nelle sue diverse articolazioni accademiche e imprenditoriali, può conseguire traguardi non trascurabili.

Nelle biotecnologie la caratteristica comune a tutte le ricerche più avanzate è quella di avere a che fare con interventi a livello molecolare su cellule singole: «Ciò comporta una profonda interdisciplinarietà tra la biologia molecolare, la fisica nano, le tecnologie di imaging, che permettono di osservare all’interno della dimensione molecolare, e infine la medicina».

Nell’energia, Cingolani tende a non dare per conclusa la vicenda del nucleare: «C’è ancora molta strada da fare per la fusione, ma lo sforzo è ancora intenso e, anche se al 2025 non si registreranno specifici impatti in termini di innovazione, il settore è ancora aperto a possibili risultati. Non certo la fusione fredda, ma le macchine di contenimento del plasma potrebbero arrivare a portarci il Sole sulla Terra. Per la fissione vedo solo reattori più o meno convenzionali di dimen-sioni più piccole». Nelle energie alternative il solare ha ancora buoni margini di miglioramento nelle celle e, con le crescenti prestazioni delle batterie per lo stoccaggio della energia prodotta in eccesso, dovrebbe continuare ad accrescere il suo contributo alla produzione di energia pulita. Tuttavia, secondo Cingolani, «la vera rivoluzione potrebbe venire, e credo che verrà, dal settore affascinante dei cosiddetti Portable Energy Harvesters. Ognuno di noi produce e disperde una energia di non pochi watt/ora, mentre camminiamo, facciamo ginnastica o stiamo esposti al vento. Il metabolismo degli zuccheri produce continuamente energia, in un modo che dovremmo imparare ad imitare. Se tutti questi watt di potenza prodotta individualmente venissero moltiplicati per centinaia di milioni, se non per miliardi di individui, si potrebbe raccogliere abbastanza energia da fare a meno di parecchi megawatt installati. Sull’Energy Harvesting c’è molto da fare e in tanti hanno cominciato a farlo».

Anche nel caso della gigantesca crescita di connessione che viene defini-ta“Internet delle cose”, Cingolani ribadisce il primato della multidisciplinarità, dalle tecnologie dei server alla microelettronica, dai sensori ai software semantici, anche se non manca di sottolineare l’esigenza di una “misura” al tempo stesso economica e culturale: «Se qualcosa resta indietro, si ferma tutto. Oggi siamo al collegamento in rete di circa il 2 per cento di ciò che ci circonda. Pensare, come fanno alcuni, che si possa arrivare al 100 per cento, mi pare sinceramente impossibile e credo anche non consigliabile, Questo collegamento di tutto con tutti renderebbe necessarie tali ridondanze affinché, in caso qualcosa si guastasse, la vita potesse continuare

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normale, che forse alla fine il rapporto costi/benefici si rivelerebbe non soddisfa-cente. Accontentiamoci di un altro 10 per cento».

Come si vede, quando si parla di ricerca, non si può pensare a un hortuscon-clusus, nel quale convergano le competenze e le risorse indispensabili, ma si deve pensare, come abbiamo già accennato, a un sistema d’interfacciamento, grazie al quale interagiscano come in un poliedro a più facce le dimensioni della domanda e dell’offerta, quelle delle aspettative e delle compatibilità, quelle, last butnotleast,degli interessi particolari e generali.

Da questo ultimo punto di vista, un caso significativo (anche questo rin-tracciabile su MIT Technology Reviw) è quello di Torino, anche se vi sarebbero certamente in Italia altre realtà che meriterebbero attenzione: da Milano, intorno al Politecnico, alla Fondazione Filarete e al San Raffaele, ma anche a Trieste, a Trento, a Pisa, a Roma, a Bari, a Palermo, a Catania e via dicendo. A Torino sono sorte due delle iniziative più importanti a livello europeo in materia di creazione di impresa:I3P, l’Incubatore di Imprese Innovative del Politecnico, e 2i3T, la Società per la Gestione dell’Incubatore di Imprese dell’Università di Torino.

I3P è il principale incubatore universitario italiano e uno dei maggiori a livello europeo. Nato nel 1999, è una Società consortile per azioni costituita da Politecnico, Provincia, Comune di Torino Camera di commercio, Finpiemonte e Torino Wireless. La sua missione è quella di favorire la nascita di nuove imprese a base scientifica, con potenzialità di crescita, fornendo spazi attrezzati, servizi di consulenza e una rete di collegamenti manageriali e finanziari. In 14 anni di attività, ha avviato circa 150 start-up in diversi settori – cleantech, medtech, IT, elettronica e automazione, energia, meccanica – che nel 2012 hanno raggiunto circa 700 posti di lavoro e creato un giro d’affari prossimo a 50 milioni di euro. Nel recente rapporto annuale dell’UBI (University Business Incubator), realizzato in collaborazione tra le università svedesi di Chalmers e di Linkoping, I3P si è piazzato al quarto posto nella classifica dei migliori incubatori universitari europei e all’undicesimo a livello mondiale.

2i3Tè una società costituita nel 2007 dall’Università di Torino con partner istituzionali idonei a sviluppare l’economia del territorio. Riveste una funzione di ponte tra l’attività di ricerca svolta nell’università e il tessuto industriale di riferimento. Idee passibili di trasferimento tecnologico, attraverso un percorso di formazione, vengono sviluppate sino alla redazione di un progetto che simula la fattibilità dell’impresa. 2i3T ha già contribuito alla attivazione di quasi quaranta imprese in vari settori.

Anche questi due esempi dimostrano come il vero segreto, o forse il vero problema, almeno per quanto concerne il nostro paese, risieda nella possibilità di fare massa critica tra i diversi fattori della eccellenza, da quello formativo a quello imprenditoriale, da quello politico a quello amministrativo. Fare massa critica non significa per altro che le istanze proprie di ciascuno di questi momenti debbano rinunciare alla propria identità differenziale: non abbiamo condiviso a suo tempo la

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pretesa, purtroppo passata dalle parole ai fatti con esisti disastrosi, che l’università dovesse diventare più o meno esplicitamente una struttura di formazione aziendale e non condividiamo oggi la imputazione della tanto paventata fuga di cervelli alle carenze della formazione superiore italiana, la cui qualità di fondo continua a non temere confronti, proprio per la sua consolidata e caratteristica commistione tra le “due culture”. Se mai, questa “fuga” tuttora crescente sta a testimoniare quanto le eccellenze, nonostante le difficoltà logistiche e curriculari, abitino ancora nelle nostra aule e si alimentino ancora della nostra tradizione, dal momento che con-tinuano a riscuotere un successo così straordinario all’estero.

Il problema è quello di consentire e agevolare il rientro dei cervelli che sono andati a maturare altrove, come avviene tipicamente per i laureati cinesi negli Stati Uniti: ma questo è appunto un problema che non riguarda tanto la funzionalità delle singole strutture in campo, quanto piuttosto il loro coordinamento nel prima e nel dopo dei processi qualificanti dell’eccellenza. Processi che si concretizzano nella possibilità di diventare eccellenti, ma anche in quella,implicita nella stessa etimologia della eccellenza, di potersi spingere al fuori delle proprie asfittiche condizioni di vita, senza cadere nelle insidie di una involuta e controproducente rimozione delle proprie appartenenze e delle proprie memorie culturali. Insomma, si dovrebbe partire senza dimenticarsi di ciò che si è, per riuscire a tornare con la possibilità di mettere a frutto nel proprio paese le esperienze maturate altrove. Ma questo non è soltanto un problema di chi deve partire.

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L’Alleanza degli ospedali Italiani nel Mondo è stata costituita nel 2004 con lo scopo di promuovere una collaborazione stabile dei centri sanitari italiani con sede fuori dei confini nazionali con alcuni centri di riferimento dentro i nostri confini.

Fra i soci ordinari di Alleanza oggi annoveriamo 39 strutture sanitarie all’e-stero sparse in diversi Paesi, 21 in Africa, 11 in Sud America ed i restanti in Nord America, nel Medio ed Estremo Oriente. Tra i 31 Centri sanitari di riferimento in Italia prevalgono quelli dislocati nel centro-nord.

I centri sanitari italiani all’estero furono censiti nei primi anni duemila dal Ministero degli Affari Esteri. Le loro origini sono molto eterogenee. I centri in Sud America, ad esempio, sono nati sull’onda dell’emigrazione di massa cominciata alla fine dell’800, favoriti nella quasi totalità dalle Società di mutuo soccorso costituite dalla generosità delle famiglie italiane che erano riuscite ad affermarsi ed avevano contribuito in modo determinante alla realizzazione dei primi ospedali.

I centri in Africa, invece, sono sorti prevalentemente grazie ad iniziative di solidarietà legate a organizzazioni non governative, con prevalenza di quelle ricon-ducibili a medici missionari.

I centri che inizialmente aderirono all’Alleanza lo fecero sulla base di un progetto di teleconsulto, basato sulla comunicazione dei centri all’estero con quelli di riferimento in Italia, per facilitare sia le diagnosi che le terapie.

naturalmente, considerando la localizzazione dei centri, in molti casi, soprat-tutto in Africa, le difficoltà furono numerose. Basti pensare al fatto che il progetto era basato sulla comunicazione di dati bidirezionale e che in quegli anni la diffusione delle linee telefoniche, soprattutto nei paesi in via di sviluppo che maggiormente avrebbero beneficiato del teleconsulto, era molto difficoltosa e soprattutto limitata. In quei casi il ricorso alla telefonia satellitare era l’unica via d’uscita, per quanto molto onerosa e discontinua.

ospedali italiani nel mondodi barbara conTini

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Il termine di “centro sanitario” si presenta abbastanza generico, ma possiamo dire che è stato ben scelto se ci riferiamo ai centri fuori dei confini nazionali, in ragione della forte eterogeneità esistente nella loro tipologia. Infatti comprendiamo tra di essi ospedali di eccellenza, come ad esempio l’ospedale Italiano di Buenos Aires, noto non soltanto in Argentina, ma in tutto il Sud America, al livello, ad esempio, del Sirio Libanês di San Paolo in Brasile. In alcuni casi, poi, tali ospedali sono riusciti a dotarsi anche di una struttura universitaria interna, come nel caso di Rosario, nella provincia argentina di Santa Fè. Ma comprendiamo anche centri sanitari in Burkina Faso che, per mancanza di medici, sono diretti da infermieri come, ad esempio, alcuni dei 5 centri esistenti in Burkina Faso.

Il progetto iniziale del teleconsulto, sorto in un’epoca nella quale le stesse tecnologie di comunicazione non erano molto sviluppate, ha mostrato nel tempo i suoi limiti. A tali limiti si sono successivamente aggiunte anche le difficoltà di ordine finanziario del Sistema Italia che ha via via ridotto le risorse destinate al sociale: tra le prime ad essere addirittura tagliate vi sono state quelle previste per l’Alleanza che, tuttavia, vuole continuare ad esistere.

Le difficoltà incontrate, in alcuni casi, dai nostri ospedali, privi di sufficiente sostegno li hanno portati a proprietà e gestioni private, come nel caso di Mendoza in Argentina, ma in altri più fortunati, come il caso di Montevideo in Uruguay o, più recentemente a Rio de Janeiro, ad una ristrutturazione, col mantenimento della proprietà e del nome di ospedale Italiano.

nella maggioranza dei casi, la qualità dei servizi forniti è stato l’atout che ne ha consentito la sopravvivenza e la collocazione sul “mercato della salute”, con accordi oltre che con le assicurazioni private, anche con i sistemi sanitari pubblici dei Paesi ospitanti.

In altri casi il sostegno ai centri sanitari è garantito esclusivamente da iniziative di volontariato sostenute dalla solidarietà umana.

Il congresso del novembre del 2012, gli interventi dell’Organizzazione Mon-diale della Sanità, della Baxter Italia e dell’osservatorio nazionale della Salute della Donna, ha consentito di confrontarci sulle prospettive del sistema salute sia nei paesi più sviluppati che in quelli meno.

L’impressione che ne abbiamo tratto e che non ci sembra smentita dai fatti, ma al contrario rafforzata dagli avvenimenti quotidiani che si susseguono, è che la prospettiva con cui dobbiamo fare i conti non è certamente quella di sistemi sanitari pubblici quasi “puri”, come in Italia o nel resto d’Europa e dei Paesi oCSE, con quasi l’80% dell’onere finanziato dal sistema pubblico. In Italia, ad esempio, la prospettiva di invecchiamento della popolazione che si accompagna ad un ac-crescimento del bisogno di assistenza incide negativamente sulla sostenibilità del sistema, così come il progresso che paradossalmente si accompagna al crescere delle malattie in virtù di una maggiore capacità scientifica nell’individuarle, aumen-terà il fabbisogno di “salute” ed influirà negativamente sulla sostenibilità del sistema, così come la prevenzione ed i costi delle terapie collegati.

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La chiave della sostenibilità sembra, invece, poggiarsi su sistemi né prevalen-temente pubblici, né prevalentemente privati, bensì su sistemi misti basati sulla competitività, di cui è parte importante l’innovazione tecnologica, sulla collabora-zione pubblico privato e sulla solidarietà, magari di quelle imprese del settore che reinvestono parte dei propri guadagni a favore del malato.

Se tale previsione risultasse confermata, la sopravvivenza dell’Alleanza, per la quale abbiamo lottato, troverebbe una ulteriore motivazione a vantaggio sia dei centri sanitari fuori dei confini italiani, che di quelli entro i confini, poco inclini, questi ultimi, ad operare fuori della logica dell’efficienza imposta dalla necessità di operare, sia pure parzialmente, in un mercato.

Resta da augurarsi che le future evoluzioni del “sistema” nel quale opera il Servizio Sanitario possano essere ben comprese non solo dalla politica, ma so-prattutto dal management, primo vero ostacolo al cambiamento.

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PremessaLa DGR del Veneto n. 41 del 25/01/2011 pone l’accento su:

• un nuovo modello di erogazione dell’assistenza sul territorio: passare da una medi-cina d’attesa ad una medicina d’iniziativa, con una visione integrata ed olistica dei problemi, centrata sulla persona e sul processo di cura, non soltanto sulla malattia;

• la presa in carico globale dei bisogni degli utenti da parte di equipes multiprofessionali e interdisciplinari;

• la realizzazione di forme aggregate delle cure primarie e l’integrazione con le altre professionalità del territorio, che prevedono la rimodulazione dell’offerta assistenziale;

• la responsabilizzazione del cittadino a prendersi cura della propria salute ed essere, quindi, soggetto attivo nelle scelte di salute che lo riguardano.Le malattie croniche sono rappresentate nel Veneto da 1.204.568 residenti

esenti per patologia cronica, tra le quali l’ipertensione arteriosa (24%), il diabete mellito (10%), malattie cardiache e polmonari (12%).

L’aderenza alla terapia prescritta non supera il 30% per l’ipertensione, malat-tia che colpisce oltre il 30% della popolazione (Servizio Epidemiologico Regionale Veneto). Coniugare un’erogazione dell’assistenza territoriale integrata tra le varie professionalità e ottenere una responsabilizzazione del cittadino finalizzata alla presa in carico del paziente e ad una migliore cura, necessita di sperimentazioni sul campo che non possono fermarsi alla aggregazione tra MMG, ma occorre esplorare ogni razionale possibilità di ottenere risultati qualitativamente migliori di salute nella popolazione. Fra gli obiettivi strategici del sistema veneto delle Cure Primarie appare sempre più evidente l’orientamento a configurare il MMG come parte integrante del Servizio Sanitario Regionale. In prospettiva, anche per la presa in carico dei problemi legati alla cronicità, ad alto impatto sociale, i MMG dovranno lavorare sempre più come team di assistenza primaria multiprofessionale variegato e integrato e avvalersi di un maggiore supporto da parte di collaboratori di studio,

Ipotesi di progetto sperimentale per la collaborazione MMG psicologo/a nelle cure primariedi Marina rossi e enrico Massa

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specialisti ambulatoriali delle principali branche, personale educativo appositamente formato, psicologi, assistenti sociali, personale amministrativo.

In questa direzione si inserisce la sperimentazione che si propone in questa sede: sperimentare come la collaborazione coordinata e continuativa tra una Medicina di Gruppo e uno/a psicologo/a possa produrre migliori risultati di salute in termini di migliore aderenza alla terapia, superamento dei blocchi mentali nella trattazione di particolari problematiche, precocità degli interventi, ecc.

Alcuni dati interessanti la pratica del MMG riflettono i bisogni dei cittadini: nel Veneto gli utenti psichiatrici di età superiore a 17 anni rappresentano 17,2 persone ogni mille residenti; gli utenti psichiatrici in tal modo definiti sono quasi 70 mila, con un’età media di 51,9 anni. Tra gli utenti prevale il sesso femminile (58%), con un rapporto di19,3 utenti per mille residenti fra le donne e di 14,9 per mille residenti fra gli uomini.

L’assistenza ai pazienti psichiatrici è in larga parte di natura territoriale; l’83% degli utenti è trattato esclusivamente nei servizi del territorio.

Solo il 10% degli utenti territoriali ha un ricovero per disturbi psichici nell’arco dell’anno. Il 46% dei pazienti avviati ai servizi psichiatrici è ad opera dei MMG. La depressione nell’anziano è molto frequente.

Il modello di cura delle malattie croniche che vede la continuità assistenziale come condizione importante per il monitoraggio ed il trattamento della patologia, ben si adatta alla necessità di assistenza di questo disturbo mentale.

L’obiettivo è definire quindi una modalità di presa in carico globale dei bisogni degli utenti, attraverso un’équipe interdisciplinare e multiprofessionale formata da professionalità diverse e complementari; lo scopo è non solo quello di migliorare l’efficacia dell’assistenza, ma anche qualificare maggiormente le attività della medicina territoriale, inquadrando in modo più compiuto il medico di famiglia nel sistema sanitario regionale.

nell’ultimo decennio si sta portando avanti una profonda reingegnerizzazione delle cure primarie, che ha visto realizzarsi, anche se non ancora compiutamente in tutto il territorio regionale, il passaggio dall’erogazione di prestazioni parcellizzate alla realizzazione di percorsi condivisi tra gli operatori, trasformando il paradigma della medicina di attesa in medicina di iniziativa orientata alla “promozione attiva” della salute, alla responsabilizzazione del cittadino verso la propria salute, al coinvol-gimento delle proprie risorse personali e sociali, alla gestione di percorsi assistenziali e alla continuità delle cure.

Il modello tecnologico-scientifico della medicina moderna si caratterizza per la inevitabile frammentazione e parcellizzazione del sapere e dell’agire specialistico. In tale contesto invece la medicina generalista si pone come disciplina autonoma in grado di garantire e mantenere nel tempo una visione integrata ed olistica dei problemi, centrata sulla persona e sul processo di cura, non soltanto sulla malattia (D.G.R. 18/1/2011, n. 41 ALL. A).

Essa infatti:• si fonda su un approccio centrato sulla persona, orientato all’individuo, alla sua fa-

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miglia e alla comunità di appartenenza, su una relazione individuale che si sviluppa nel tempo attraverso una comunicazione efficace tra medico e paziente;

• garantisce la continuità longitudinale delle cure;• utilizza uno specifico processo decisionale condizionato dalle modalità di presentazione

dei problemi e dal contesto specifico in cui sono affrontati;• si occupa dei problemi di salute acuti e cronici dei singoli pazienti in modo indiffe-

renziato;• promuove la salute ed il benessere dell’individuo e della collettività mediante interventi

di prevenzione e di promozione della salute;• tratta i problemi di salute nelle loro dimensioni fisiche, psicologiche, sociali, antropo-

logiche.

Obiettivi:La collaborazione sperimentale, coordinata e continuativa, tra un MMG/Me-

dicina di Gruppo e uno/a Psicologo/a, consente:• la presa in carico globale della persona (approccio olistico) che considera parallela-

mente la condizione bio-medica, quella psico-sociale e di ciclo di vita del paziente a partire dai sei anni;

• di intervenire nel momento in cui, dalla diagnosi medica, emerge che i disturbi di alcuni pazienti sono fortemente influenzati e/o direttamente correlati al loro stile di vita e livello di stress; il supporto psicologico è determinante per ristabilire un equili-brio accettabile quando si avverte che disturbi importanti e diffusi come il diabete, le cardiopatie, i disturbi del sonno, dell’alimentazione, problemi gastrointestinali, malattie autoimmuni, dermatiti, sono profondamente influenzati dal loro modo di vivere, di pensare, di sperimentare le emozioni e di entrare in rapporto con gli altri;

• di offrire l’opportunità dell’integrazione organizzata delle competenze del medico e dello/a psicologo/a come risorsa disponibile per tutti e non riservata a particolari categorie di persone (senza richieste formali da parte del paziente);

• interventi precoci sul disagio iniziale, quando questo non ha ancora prodotto modifi-cazioni comportamentali croniche e relativamente indipendenti dalla situazione che le ha generate (stili di vita);

• di favorire la realizzazione da parte del MMG di una “medicina d’iniziativa” attraverso un’offerta assistenziale proattiva ed estensiva ai pazienti cronici che, in un contesto interdisciplinare, sono chiamati anche dallo Psicologo ad un impegno più responsabile nel rispetto di sé e della propria salute;

• la riduzione dei ricoveri e/o accessi impropri a servizi ospedalieri (pronto soccorso) e/o territoriali, attraverso l’integrazione degli interventi medico e psicologico.

Obiettivi istituzionali (ovvero perché la Regione Veneto dovrebbeavere interesse per questo progetto)

• Favorire la continuità assistenziale.• Prendere in carico globalmente i bisogni dei pazienti.• Promuovere il benessere e affrontare i principali problemi di salute nella comunità.• Concorrere ai processi di governo della domanda di salute.

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• Favorire la partecipazione dei pazienti al processo di cura (educazione terapeutica, responsabilizzazione del paziente e della famiglia nella corretta gestione del proprio stato di salute).

Modello di interventoÈ opportuno realizzare una modalità di lavoro congiunta fra MMG e Psico-

logo/a in una dimensione di collaborazione professionale all’interno dello stesso ambulatorio; si tratta di un nuovo e più efficace approccio al benessere dei pazienti che si rivolgono al MMG, una prospettiva bio-psico-sociale che consente di guardare a lui nella sua totalità di persona e di contesto familiare.

Attraverso la collaborazione diretta fra i due professionisti i pazienti hanno la possibilità di accedere direttamente ad entrambe le figure professionali in uno o più giorni alla settimana. I colloqui del MMG con i pazienti si svolgono, durante il turno precedentemente concordato, in copresenza con lo psicologo sia che si presenti una sola persona, sia che questa si presenti in coppia o come gruppo familiare.

Un avviso in sala d’attesa comunicherà, con il dovuto preavviso, l’avvio dell’i-niziativa sperimentale di collaborazione MMG-psicologo/a ai pazienti dell’ambula-torio, indicherà il turno di presenza dello psicologo e la possibilità (ove il paziente lo desiderasse) di essere ricevuto solo dal proprio medico. In alcuni casi selezionati si prevede l’opportunità di proporre al paziente, quando il MMG lo ritenga utile e/o dopo sua esplicita richiesta, colloqui psicologici focalizzati sul sintomo e/o su specifiche tematiche comportamentali in tempi e spazi separati.

Sperimentalmente la frequenza dello/a psicologo/a potrebbe essere di due turni alla settimana, collocati uno di mattina e uno di pomeriggio. Questo eviterebbe di rendere obbligatorio per il paziente l’incontro con lui/lei: è importante infatti offri-re a ogni persona la possibilità di scegliere di incontrare o meno lo/a psicologo/a semplicemente chiedendo appuntamento nello studio medico in un determinato giorno della settimana, senza assumersi a priori la responsabilità di una richiesta esplicita di consulenza psicologica.

Il funzionamento generale dell’iniziativa e/o la gestione di singoli casi problema-tici saranno discussi, a seconda della rispettiva disponibilità, con il/i MMG dello Studio associato e lo/a psicologo/a, nel corso di incontri settimanali (o quindicinali) dedicati.

Attività dello/a psicologo/a• Osservazione, da parte dello/a psicologo/a presente nell’ambulatorio, delle richieste

e delle modalità di instaurare la relazione con il MMG da parte del paziente.• Eventuali interventi esplorativi e chiarificatori nei confronti del paziente, nel corso

della visita ambulatoriale.• Discussione dei casi osservati con il MMG o in un contesto di gruppo con i MMG

dello Studio associato, secondo disponibilità, per approfondire l’anamnesi medica e la biografia di alcuni pazienti di maggior problematicità e interesse.

• Incontri brevi di consulenza psicologica focalizzati sul sintomo e sulle modalità di risposta del paziente a situazioni di vita.

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• Interventi psicologici a sostegno della terapia prescritta dal MMG.• Gestione di gruppi di pazienti e/o familiari.• Tecniche di rilassamento (terapie antistress e training autogeno).• Stesura di appunti di riflessione durante le ore di ambulatorio.• Compilazione schede sulla condizione specifica di singoli pazienti.• Messa a punto di questionari volti a rilevare sia le sensazioni/impressioni dei/del

MMG nella relazione con la psicologa, sia la percezione di gradimento dei pazienti nei confronti dell’iniziativa sperimentale avviata.

Risultati attesi• Riduzione e contenimento delle indagini strumentali, consulti specialistici o trattamenti

farmacologici inappropriati nella misura in cui questi derivano dal tentativo di lettura del disagio secondo un modello esclusivamente bio-medico (Indicatore: n. prestazioni erogate alle persone trattate, rispetto a quelle non trattate).

• riduzione degli invii agli specialisti della salute mentale effettuati limitatamente ai soggetti con disturbi psichici conclamati (Indicatore: n. prestazioni psichiatriche eseguite nelle persone trattate).

• ampliamento e approfondimento degli aspetti comunicativi e interpretativi fra MMG e paziente: miglioramento della compliance psicologica medico-paziente (Indicatore: interviste su Questionario ai MMG o ISTANT TEST sulla relazione medico/paziente).

• prevenzione della cronicizzazione di sintomi attraverso interventi di educazione terapeutica finalizzati all’informazione/formazione del paziente sulla patologia di interesse, alla promozione di specifiche risorse personali (life skills), alla responsabilità individuale per il proprio stato di salute e all’aderenza al trattamento prescritto dal MMG (Indicatore: valutazione degli effetti prodotti dalla partecipazione al percorso di apprendimento in termini di conoscenze e abilità, oltre alla misurazione di indicatori di risultato clinico connessi con l’evoluzione della patologia).

• percezione di una migliore qualità dell’assistenza e qualità di vita da parte dei pazienti (Indicatore: TAS-20 Scala di Alessitimia o Scala del Benessere psicologico - RYFF, 1989, Validazione italiana di Ruini et Alii 2003).

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ALLEgATO. Obiettvi e azioni per la presa in carico della cronicità. Indicatori di processo e di risultato

Obiettivi/finalità (per la razionalizzione del-le risorse e contenim. della spesa sanitaria)

Prevenzione e gestio-ne del sovrappeso e dell’obesità. (trasversale e preliminare al raggiun- gimento di altri obiettivi di salute)

Cura e aderenza alla terapia diabetica - prevenire e/o ritardare le complicanze cronico-de-generative.

Artrosi Artriti

Azioni

Valutaz.ne stato nutriz.le dei paz.ti - Approccio (multidisciplinare) alla pre-venzione dell’obesità -Interventi psicoeducazio-nali e di comunicazione strutturata per famiglie e follow-up dopo il parto -Informazione/formazione sui corretti stili di vita (attività fisica) Interv. di ristrutturaz.ne cognitiva e comportam. per modific. le abitudini -

Valutaz.ne di processo e risultato - Educazione terapeutica (del pz.e fam) individuale e di gruppo -Counselling motivazio-nale (per gestione dieta, trat-tam.to farmacologico e suoi effetti collaterali, disassuefazione al fumo) Tecniche di rilassamento Sostegno all’automonito-raggio e all’autogestione delle terapie, anche in piccoli gruppi.

Approccio olistico alle malattie osteoarticolari -Campagna informativa sull’importan- za del trat-tamento integrato (far-maco logico, riabilitativo, comportamentale) per il miglioramento della qualità di vita -

Indicatori di attività/processo

Monitoraggio dell’aderen-za alla terapia nutrizionale e/o farmacol. - Monitorag-gio dello stato nutrizion.le e psicologico dei destina-tari degli interventi Monitoraggio delle attività di prevenzione di comu-nità (controllo fattori di rischio) -Interventi di terapia edu-cazionale e counselling motivazionale breve

n. incontri di educaz.ne terapeutica individualin. incontri di gruppo e/o di sostegn o alla famiglia -n. interventi psicofarma-cologici Frequenza con cui i pazienti eseguono l’automonitoraggio e l’au-togestione delle terapie Miglioramento della co-municazione fra i soggetti coinvolti -n. interviste/questionari somministrati per rilevare grado di soddisfazione -

Interventi di counselling motivaz.le breveInterv. di ristrutturaz.ne cognit/comp. per modifi-caz. abitudini sedentarie e stili di vitaPer artrosi: Educ.Terap. per l’applicaz.ne medica

Indicatori di esito/ risultato/efficacia/ qualità di vita

n. casi di migliore cono-scenza dei fattori di rischio obesità nella popolazione assistita -n. casi di migliore cono-scenza dei comportam.ti scorretti e modificabili N. casi di applicazione delle co-noscenze apprese - efficacia degli interventi -n. di pz. che raggiungono l’obiettivo- cambiamento -n. incontri effettuati (indivi-duali e di gruppo) -n. ore di formazione per nu-mero di persone coinvolte -n.casi di percez. di miglio-re qualità dell’assistenza e di vita(Questionario) n. fallimenti -

n. casi di miglioramento dei parame- tri clinici -n. pazienti in sola dieta -n. pazienti che svolgono o riprendono a svolgere attività fisica -n. pazienti partecipanti agli incontri individuali o di gruppo per la cono- scienza e gestione della malattia -n. casi di miglior aderenza alle prescrizioni/indicazioni mediche e a stili di vita più sani -n. pazienti che hanno com-pilato il questionario di qualità percepita -

n. interventi di informaz./formaz.ne per la cono-scenza del percorso tera peutico specifico sia far-macolgico che fisioterapi-co/riabilitativo -n.pz. in grado di praticare una moderata attività fisica

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99primavera 2014 | numero 79 L’ARCO DI GIANO

Obiettivi/finalità (per la razionalizzione del-le risorse e contenim. della spesa sanitaria)

Azioni Indicatori di attività/processo

Indicatori di esito/ risultato/efficacia/ qualità di vita

Asma - BPCO (Bron-copneumopatia cro-nica ostruttiva)

Malattie cardiovasco-lari:- Ipertensione arte-riosa- Cardiopatia ischemi-ca(post evento cardio-vascol.)

Valutazione dello stato nutrizionale dei pazienti Interventi psicoeduca-zionali per il controllo e gestione delle limitazioni funzionali in atto e fron-teggiamento del disagio emotivo -

Educaz.ne terapeutica per avere un ruolo attivo nel-la terapia, controllare la malattia, comprendere le ragioni dei vari metodi te-rapeutici, come e quando usare i farmaci.Stimolo a ricercare i fatto-ri scatenanti per ridurre i contatti con l’allergene. Informazione e formaz.ne individ. familiare o di gruppo circa le istruz.ni mediche nei casi di emergenza. Informaz.ni di profilassi ambientale e per la qualità dell’aria.Interventi per la disassue-fazione al fumo e migliora-mento stili di vita.

Modello di prevenzione cardiovascol. basato sulla collaborazione fra una Medicina di Gruppo e la popolazione.Assistenza globale alla persona cardio patica per una migliore qualità di vitae la prevenzione delle recidive.Strategie preventive basa-te sulla correzione di con-dizioni patologiche specifi-che e sul cambiamento di com- portamenti e stili di vita che predi- spongono all’insorgenza di nuovi casi di malattia.Strategie di prevenzione secondaria efficaci per

del movimento (chinesi-terapia) Apprendim.to di gestualità protettive delle articolaz.ni -economia articolare Interventi per la disassuefaz.ne al fumo e alcoolTecniche di rilassamentoTerapie antistress/training autogeno

n. casi in cui si è adottato il diario per l’uso corretto dei farmaci, il cambiam.to dei sintomi, gli effetti collaterali eventuali.n. questionari sommini-strati sulla qualità di vita per valutare soggettiv. la gravità della malattia.

Monitoraggio di parametri come pres sione arteriosa, dosaggio della colesterole-mia e della glicemia.Informazione personaliz-zata,anche in gruppo,sui principali fattori di rischio comportamentali e sui dettagli del trattamento.Restituzione/ rinforzo dei risultati raggiunti e moni-toraggio continuo de- gli obiettivi di prevenzione.Attività di condivisione, in gruppo e/o in Associazione, della propria esperienza di malattia che contribuisca ad assicurare continuità assistenziale al paziente.Attività di supporto per

e adottare una postura corretta -n. persone in grado di tenere sotto controllo il proprio peso -n. partecipanti alle attività di gruppo per la disassue-fazione al fumo - n. casi di migliore percezione della qualità dell’assistenza e di vita -

n. casi in cui si è provve-duto a ridurre l’allergene con misure di prevenzione individuale e ambientale. n. casi di non sospensione della terapia continuativa di propria iniziativa.n. casi in cui si sono ridot-te limitaz.ni importanti per il paziente.n. casi in cui sono miglio-rate le relazioni sociali del paziente e lo svolgimento delle sue attività.

-n. casi di aumentata co-noscenza dei principali fattori di rischio (para-metri clinici e stili di vita) e della correlazio ne fra sindrome ansioso/depres-siva e comparsa di malattia coronarica.-n. casi di più elevata ade-renza alla compliance me-dico-farmacologica.-n. casi di miglioramento dei parametri clinici.-n. interventi psicoedu-cazionali individualizzati per rafforzare la moti-vazione al cambiamento comportamentale nelle aree dell’alimentazione,

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Obiettivi/finalità (per la razionalizzione del-le risorse e contenim. della spesa sanitaria)

Azioni Indicatori di attività/processo

Indicatori di esito/ risultato/efficacia/ qualità di vita

Terapia Farmacologi-ca Anticoagu- lante in persone che necessi-tano di trattamento a tempo indetermin. (alcune trombofilie, fibril-lazione atriale valvolare e non valvolare, protesi valvolari meccaniche, fe-nomeni tromboembolici ripetuti)

la riduzione di ulterio-ri eventi cardiovascolari (Follow-up a lungo ter-mine).

Interventi di cardiologia riabilitativa, tenuto conto anche della correlazione fra depressione/ansia, ca-renza di supporto sociale e malattia coronarica

Trattamento per la pre-venzione delle trombo-embolieEducazione terapeutica dei pz. per la regolazione della terapia (individuale e di gruppo)Informaz.ne e formaz.ne per la gestione delle emergenze.Informaz.ne e formaz.ne per la prev. del rischio emorragie.Informaz.ni sulle caratte-ristiche della TAo e per l’ottimizz.ne del trattam.to (individuale e di grup-po).Monitoraggio degli stili di vita e dei comportam.ti che possono compro- mettere la conduzione della terapia -

migliorare la adesione alla terapia farmacologica di prevenzione secondaria.

Programma strutturato, polivalente e persona-lizzato di gestione della malattia (follow-up a lun-go termine) che includa trattam. ti farmacologici, programmi psico-sociali e sullo stile di vita.

Divulgazione di materiale illustrativo sui vari fattori che influenzano l’azione dei farmaci anticoagulanti Promozione della colla-borazione fra paziente e Medico di Medicina Gen.-Attività di formazione/in-formazione per la preven-zione di comportamenti quotidiani a rischio Incentivare l’attitudine al controllo periodico del grado di coagulabilità del sangue Interventi di Ed. terapeu-tica per saper riconosce-re le manifestazioni di alcuni tipi di emorragie (gastrointe- stinali) e/o fatti embolici nuovi

Approccio terapeutico interdiscipli- nare e/o mul-tiprofessionale.

della gestione del peso, dell’attività fisica, del ta-bagismo.-n.di feedback informati sui progressi di apprendi-mento e cambiamento --n.interventi psicotera-peutici brevi (o di suppor-to cognitivo-comport.) ef-ficaci nei disturbi ansioso/depressivi e post trauma-tici da stress, secondari alle patologie cardiovascolari.-Riduzione del n. dei ri-coveri osped. e/o delle giornate di ricovero.-n. di partecipanti ai grup-pi di autosostegno per la riabilitazione cardiaca di mantenimento.-n. casi di miglioramento delle capacità funzionali.-n. casi di migliore perce-zione della qualità dell’as-sist.za e di vita.

n. pazienti con tempo trascorso in range (per-centuale di tempo che ogni pz. trascorre entro il livello di anticoa gulazione prefissato) -n. casi di riduzione delle trasferte ai centri specia-listici -n. interventi di Educazione terapeutica (individuali e di gruppo) per la corretta gestione della terapia -n. interventi psicofarma-cologici di supporto per il miglioramento della quali-tà di vita dei pz. e familiari -n. interv. di counselling individuale e di gruppo per la gestione della dieta alimentare -Riduzione del n. di prelievi impropri-n. casi di miglioramento della compliance rispetto

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Obiettivi/finalità (per la razionalizzione del-le risorse e contenim. della spesa sanitaria)

Azioni Indicatori di attività/processo

Indicatori di esito/ risultato/efficacia/ qualità di vita

all’intervento psico- far-macologico.n. casi di percezione di mi-gliore qualità dell’assistenza e di vita (Questio- nario)Riduzione del n.di invii impropri ai servizi specia-listici del territorio.n. di interventi specialisti-ci ambulatoriali di coun-sellig strategico e/o di psicoterapia breve.n.di pazienti che parte-cipano con regolarità ai gruppi di ascolto e auto- aiuto.n. interventi di rilassa-mento anti- stress.n. interventi informativi/formativi sulla sintomato-logia ansiosa e depres siva più diffusa.n. sedute ambulatoriali di Light Terapy .Riduzione del n. di accessi all’ambulatorio del MMG e del n. di richiami di esami clinici -

Riduzione del n. di accessi agli ambu latori specialisti-ci ospedalieri.Aumento del n. dei con-trolli “al bisogno” (rispet-to a quelli “periodici”) direttamente gestiti dalla persona in base al proprio stato di salute e all’insor genza di recidive.n. iniziative di informazio-ne/formazione specifica.n. interventi di sostegno/contenimen- to del disagio emotivo individuali e di gruppon. pazienti che hanno compilato il questionario per il miglioramento del- la qualità di vita e dell’as-sistenza percepita.n. interventi educazionali

Riconoscimento e identi-ficazione del- la morbilità psichiatrica prevalente nella popolazione.Trattamento precoce e integrato (farmacologico e psicoterapeutico) de gli stati depressivi e ansiosi.Utilizzo della relazione con il medico e con lo psicologo come strumen-to terapeutico centrale in grado di influenzare l’intero spettro dei pro-cessi clinici.

Diagnosi precoce (all’in-sorgenza dei sintomi) per la futura qualità di vita e il contrasto agli effetti della malattia.Prevenzione delle com-plicanze e della necessità di ulteriori accerta-menti specialistici attraverso il monitoraggio clinico della malattia e della terapia.Ascolto attivo della perso-na per facilitare la narra-zione della propria storia clinica e di vita.

Miglioramento dell’appro-priatezza degli interventi psicofarmacologici erogati.Utilizzo di competenze emotive e relazionali ade-guate alla gestione del disagio psichico ed esi-stenziale.Controllo nel tempo e monitoraggio delle princi-pali e più diffuse morbilità psichiatriche e psicolo-giche.Attività informative e di sostegno (individuali e di gruppo) rivolte alle fami-glie dei pazienti.

Monitoraggio (medico e psicologico) della variabi-lità individuale dei sintomi, del decorso, dell’insorgen-za delle recidive, della durata della remissione.Interventi di educazione terapeutica per l’adde-stramento al follow-up au- togestito e per il controllo del disagio emotivo.Attività informative per l’inserimento in gruppi di supporto per il soste- gno della persona e della sua famiglia.Attività informative per il miglioramento delle abi-tudini alimentari e dello stile di vita.

Disagio psichico:- disturbi depressivi- disturbi d’ansia

Malattie infiammato-rie croniche dell’inte-stino:- rettocolite ulcerosa- morbo di Crhon

Tumori

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Obiettivi/finalità (per la razionalizzione del-le risorse e contenim. della spesa sanitaria)

Azioni Indicatori di attività/processo

Indicatori di esito/ risultato/efficacia/ qualità di vita

e psicoterapeutici brevi individuali e di gruppo.n. interventi di sostegno alla comunicazione medica della diagnosi di malattia e del suo trattamento.n. interventi informativi (stili di coping e gestione dello stress) per l’incre-mento della conoscenza emotiva e del senso di controllo.n. sedute di rilassamento muscolare progressivo, respirazione profonda e immaginazione guidata.n. incontri di gruppo per la gestione degli aspetti emo-zionali attraverso la libera espressione dei sentimenti (anche per i familiari dei pazienti).n. interventi di supporto psicologico per la riduzio-ne dell’ansia e del senso di minaccia.n. interventi per favorire un’attitudine mentale at-tiva e propositiva verso la malattia e di mobilitazione affettiva verso programmi e valori di senso per la persona.

Interventi di prevenzione primaria e rimozione dei fattori di rischio (modi- ficazione delle abitudini di vita e ridu zione delle esposizioni ambientali).Interventi di prevenzione secondaria: diagnosi pre-coce, partecipazione ai programmi di screening, informazione attiva nei confronti della popolazio-ne target, in collaborazio-ne con il Diparti mento di Prevenzione dell’ULSS -Trattamenti integrati, effi-caci per il miglioramento della prognosi.Collaborazione clinica e organizzativa con i servizi ospedalieri e distret- tuali di riferimento (oncologia, cure palliative, Hospice, ADI).

Approccio psicosociale alla malattia che ne faciliti il decorso e migliori le capacità di adattamento dei pazienti (stili di coping).Approfondimento del ruo-lo delle variabili psicolo-giche e comportamentali nella prev., nella diagnosi precoce e nella cura delle neoplasie.Favorire la realizzazione degli obiettivi psicosociali con interv.individuali o di gruppo per:- diminuzione del senso

di solitudine e di dispe-razione

- riduzione dell’ansia e dello stress indotti dalla terapia

- superamento della di-sinformazione e o della mancanza di informazio-ne

- miglioramento dell’adat-tamento alla condizione di malattia, della capacità di controllo personale, e di problem solving

- accompagnamento ed elaborazione del lutto per i familiari.

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PremessaIl fenomeno dei gemelli congiunti (o, utilizzando un lessico più “informale”,

dei gemelli siamesi), particolarmente raro ed infrequente2, ha da sempre attirato l’attenzione degli studiosi e dell’intero genere umano per l’indiscussa peculiarità e drammaticità: come se la nascita di due individui inevitabilmente “attaccati” l’uno all’altro potesse identificare con chiarezza l’anelito di ogni persona ad una propria singolarità corporea.

A maggior ragione oggi, in seguito allo sviluppo sempre più rapido della chirurgia pediatrica e della tecnologia applicata in ambito medico, l’evento di una nascita congiunta sembra acquisire una crescente problematicità bioetica.

Il fine della presente riflessione vuol essere quello di affrontare la varietà dei problemi bioetici riguardanti il trattamento di individui venuti alla luce con un’e-sistenza “unita” a quella dell’altro gemello, tenendo in primaria considerazione la dignità personale dei neonati ed il loro inalienabile diritto alla vita.

1. Definizione e cause della gemellarità congiuntaAlla voce “siamese”, nel vocabolario di lingua italiana, corrispondono due

riferimenti di tipo aggettivale: da un lato siamese significa proveniente dal Siam (attuale Thailandia), dall’altro, aggiunto ai sostantivi plurali “gemelli” o “fratelli”, fa riferimento ad individui uniti per una parte del corpo (nello specifico ad un’ “ano-malia teratologica costituita da due individui ugualmente sviluppati e parzialmente congiunti”3).

Il primo significato rappresenta un richiamo alla coppia più nota di gemelli congiunti, Chang ed Eng Bunker (1811-1874), entrambi provenienti dal Siam (proprio in seguito alla loro nascita, infatti, i fratelli congiunti cominciarono ad essere definiti “siamesi”). Il secondo, invece, è quello che maggiormente interessa il fenomeno in esame.

Gemelli congiunti e aspetti bioetici1

di francesca d’aMaTo

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I gemelli (ovvero i nati “con uno o più fratelli da un medesimo parto”4) siamesi sono dunque quelli che risultano uniti per una parte del corpo: per questa ragione essi vengono anche indicati come “congiunti” (dove l’aggettivo “congiunti” indica due entità “più o meno stabilmente a contatto”5): termine più corretto dal punto di vista scientifico rispetto a quello piuttosto “informale” di “siamesi”.

Sulle cause della gemellarità congiunta non vi è ancora un pronunciamento scientifico univoco, in quanto alcuni aspetti delle origini del fenomeno risultano ancora parzialmente ignoti. In particolare non sono ancora spiegabili con certezza i diversi fattori che potrebbero influire in un processo di sviluppo embrionale de-terminando la nascita di due individui parzialmente “attaccati” simmetricamente o asimmetricamente. A tal riguardo, la comunità scientifica ha elaborato due diverse ipotesi, che non saranno oggetto di analisi nella presente riflessione: la teoria della fusione (fusion theory) e quella, maggiormente accreditata, della fissione (fission theory)6.

2. Le diverse tipologie di gemelli congiuntiI gemelli congiunti, dal punto di vista scientifico, sono classificati in diversa ma-

niera7, ed ogni suddivisione è fondata tendenzialmente sul punto o sulle parti del corpo nelle quali i neonati risultano “uniti”: si parla, ad esempio, di individui tora-copagi (posti l’uno di fronte all’altro e congiunti dalla parte superiore del torace alla parte superiore dell’addome); cefalopagi (congiunti dalla parte superiore della testa all’ombelico, con due facce non complete, due colli e le rimanenti parti del corpo separate); parapaghi (congiunti lateralmente e che generalmente condivi-dono la pelvi, con teste e arti superiori separati e generalmente tre gambe); ecc.

Il punto di congiunzione riveste un ruolo così determinante nella definizione dei gemelli siamesi in quanto è proprio a seconda della tipologia di “unione” dei neonati (e della presenza di alcuni organi, vitali o meno, condivisi tra i due) che potrà essere pianificata o esclusa a priori una possibile separazione chirurgica dei bambini (tenendo in debita considerazione che la maggior parte degli interventi divisori operati sui gemelli siamesi viene attuata nei primi mesi o anni di vita dei minori, al fine di stabilizzare o risolvere positivamente le criticità della prognosi8) e partendo comunque dal presupposto che non tutti i gemelli congiunti possono essere separati (come, ad esempio, il caso evidente dei neonati parapagi dicefali).

3. La separazione chirurgica dei gemelli congiunti: eticità dell’intervento9

È l’eventuale intervento chirurgico di separazione, posto in essere per separa-re i gemelli congiunti, a costituire la questione bioetica principalmente controversa, sia dal punto di vista etico, sia dal punto di vista giuridico.10 Tale problematicità deriverebbe dall’interrogativo circa l’esistenza o meno di una convenienza antro-pologica ed etica alla divisione degli individui congiunti (a prescindere da specifiche esigenze di carattere medico).

L’operazione di separazione dei siamesi, infatti, (ove tecnicamente possibile)

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sarebbe realizzata con l’intento di dare ai gemelli la possibilità di condurre un’esi-stenza come tutte le altre persone nella propria singolarità11. non si può, in ogni caso, non tenere in debita considerazione il fenomeno in base al quale gli individui congiunti ed in grado di esprimere le proprie volontà, tendenzialmente, manifestino una certa propensione ad accettare il proprio difficile “stato di congiunzione”, an-ziché a richiedere un possibile intervento di separazione pericoloso per entrambi i fratelli o per uno dei due in favore dell’altro12.

Il Comitato nazionale per la Bioetica, con il parere sull’argomento pubblicato in data 13 settembre 2013, sul punto, ha evidenziato come “ i gemelli congiunti (siano) due soggetti umani distinti, in quanto ognuno è auto-organizzato, ma al tempo stesso con organi e parti in comune, la cui comunanza può essere necessaria per la reciproca sopravvivenza. La loro esistenza vive non solo una condizione di connessione fisica, ma spesso anche di integrazione e dipendenza reciproca (…), pur nella distinzione delle individualità/personalità. Il fenomeno dei gemelli congiunti costituisce un caso limite del rapporto sé/altro, in una sorta di ‘dualità unitarià”13.

L’operazione di separazione può articolarsi secondo tre modalità, non tutte perfettamente compatibili con una visione bioetica rispettosa della dignità personale di ogni individuo, così come del suo inalienabile diritto alla vita:

- la prima, che potrebbe essere definita di “emergenza o di necessarietà”, consiste nella necessità di separare immediatamente i gemelli congiunti sia subito dopo la nascita (in quanto la sopravvivenza di entrambi nelle condizioni neonatali risulta impossibile dal punto di vista medico) sia in una situazione di criticità e urgenza verificatasi improvvisamente. In questo caso un’eventuale attesa o un di-niego nella decisione favorevole all’intervento chirurgico comporterebbe la morte di tutti e due gli individui.

Tale intervento deve essere considerato non soltanto eticamente lecito, ma anche doveroso (purché non diventi causa di un accanimento terapeutico su di uno o tutti e due gemelli), in quanto sia la decisione di operare chirurgicamente i neonati sia gli esiti eventualmente infausti dell’intervento (per uno dei due o per entrambi) deriverebbero da una condizione di urgenza e necessità.

- la seconda modalità, che potrebbe essere definita “opzionale”, è costi-tuita dalla possibilità di separare dei gemelli siamesi che, nella loro condizione di congiunzione, potrebbero non soltanto sopravvivere ma anche condurre una vita relativamente in salute, attraverso un’operazione chirurgica caratterizzata da un variabile margine di rischio. In tale condizione, l’intervento di separazione non sarebbe necessario al fine di salvare la vita dei gemelli e lo stesso verrebbe eseguito esclusivamente con l’intento di consentire ai bambini la conduzione di una vita “normale”14.

Sotto questo profilo, un’operazione condotta su individui con una prospettiva di vita relativamente in salute, pur se contraddistinta da una tragica condizione, che fosse caratterizzata da un elevato margine di rischio, sottoponendo i neonati al rischio di non superare l’operazione o di riportare un peggioramento notevole nella prognosi, non sembrerebbe essere rispettoso del principio di proporzione.

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Un’operazione di separazione altamente rischiosa (come potrebbe risultare una “divisione” dei gemelli congiunti), infatti, potrebbe essere eticamente giustificata soltanto se posta in essere con l’intento di salvare la vita dei soggetti coinvolti, oppure al fine di intervenire su gravi patologie che potrebbero seriamente com-promettere, in futuro, la salute dei neonati.

Al contrario, invece, un intervento di separazione dei gemelli caratterizzato da un contenuto margine di rischio potrebbe essere considerato non soltanto legittimo sotto il profilo etico, ma anche consigliabile al fine di consentire agli in-dividui siamesi la conduzione di una vita non “attaccata” inevitabilmente a quella del gemello.

In tali casi, pertanto, all’interno del processo decisionale, si ritiene che un grande peso debba essere attribuito ad una valutazione (in termini medici) del margine di rischio connesso all’operazione di separazione, potendo risultare eti-camente giustificata da un intervento con un ridotto margine di pericolo.

- la terza modalità, che potrebbe essere definita “discrezionale”, consiste nella scelta di separare i gemelli congiunti non in base ad una imminente necessità di tipo medico o ad una valutazione seria dei margini di rischio connessi all’operazione, ma in seguito all’elaborazione di una valutazione di carattere meramente qualitativo che potrebbe essere sintetizzata in questi termini: “partendo dal presupposto che vivere da individui congiunti non può essere considerato come un’esistenza pie-namente degna di essere vissuta, siccome la condizione clinica dei bambini risulta particolarmente complessa e, nella maggior parte dei casi, ‘sbilanciata’ a favore di un gemello piuttosto che dell’altro (che versa in uno stato di accentuata gravità rispetto al fratello), sarebbe lecito offrire la possibilità al neonato ‘più forte’ di vivere un’esistenza qualitativamente migliore e accettabile, scegliendo a priori di ‘sacrificare’ (sacrifice separation) la vita del gemello ‘più debole’ (che morirà du-rante l’intervento di separazione così deciso)”. Questo, a maggior ragione, qualora la prognosi del gemello debole dovesse costituire un rischio per la sopravvivenza del gemello forte15.

L’attesa in tale condizione del verificarsi dell’emergenza per decidere di inter-venire su entrambi i neonati, infatti, costituirebbe un’inutile perdita di tempo, che causerebbe, di fatto, l’impossibilità di fare di tutto per salvare la vita di almeno uno dei due fratelli. nella prospettiva discrezionale, dunque, l’intero intervento chirur-gico sarebbe preparato per tentare di salvare esclusivamente la vita del bambino scelto (ad esempio attraverso l’allocazione di organi condivisi sottratti al neonato debole e assegnati a quello “più forte”) e garantirgli un’esistenza qualitativamente soddisfacente (ad esempio attraverso una complessa opera di ricostruzione delle parti del corpo mancanti). Tale atteggiamento, operato nella scelta di separazione dei gemelli congiunti, risulta discutibile sotto diversi profili. Innanzitutto, la distinzione effettuata dalla letteratura riportata ed operata tra il gemello definito “forte” e quello classificato come “debole” risulta di per sé visibilmente discriminatoria. In secondo luogo, inoltre, l’individuazione del gemello più forte si rivolge al soggetto che soltanto potenzialmente, in seguito all’intervento, potrebbe vivere un’esistenza

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qualitativamente migliore o quantomeno accettabile. La distinzione suindicata, infine, non tiene in conto o non considera sufficientemente valido il diritto alla vita del gemello debole, in quanto essa, ad ogni modo, sarebbe caratterizzata da un livello qualitativo molto scarso.

È, d’altra parte, proprio la situazione che è stata indicata come discrezionale ad attirare maggiormente l’attenzione e l’eco mediatica e giornalistica su casi riguar-danti i gemelli congiunti, spesso vissuti, nei loro attimi cruciali (come l’operazione chirurgica di separazione), sotto la lente ed il commento delle trasmissioni televisive.

In corrispondenza delle tre modalità operatorie descritte, possono essere elaborate due tesi di carattere bioetico: una che può essere definita utilitarista16 (in quanto basata su presupposti quali la massimizzazione del piacere e la mini-mizzazione del dolore per il maggior numero di individui17) e l’altra di ispirazione personalista18 (in quanto basata su un presupposto quale la priorità della natura sulle funzioni19 a prescindere dal possesso di determinate qualità e funzionalità).

La tesi utilitarista, basandosi sulla prevalenza da dare, nella considerazione del valore della vita, alla massimizzazione del piacere ed alla minimizzazione del dolore, sulla base di un calcolo costi/benefici, risulterebbe a favore del tentativo di un intervento chirurgico, attuato con l’obiettivo di garantire al neonato con maggiori possibilità di sopravvivenza la più alta qualità della vita possibile. Ciò in quanto si riterrebbe che una vita vissuta in un perenne “noi”, soprattutto se in condizioni di salute precarie, non sarebbe accettabile, auspicabile e quindi degna di essere vissuta. nel caso in cui, perciò, per i motivi suindicati, sarebbe impossibile salvare entrambi i gemelli, un intervento chirurgico (anche se rischioso o altamente sperimentale), volto a liberare il bambino “più forte” dalla “gabbia” che lo costrin-gerebbe a vivere attaccato al fratello, con la conseguente morte del neonato “più debole”, risulterebbe legittimo dal punto di vista etico.

L’ipotesi riportata, in realtà, contrasta con ciò che nella maggior parte dei casi si verifica nella storia clinica dei bambini congiunti20. Questa, infatti, oltre ad essere altamente variabile per quanto riguarda l’esito, non può essere interpretata con gli stessi criteri utilizzati per un neonato non congiunto. È noto, infatti, come i gemelli siamesi, da questo punto di vista, costituiscano un sistema a sé stante dal punto di vista psico-fisico, medico e biologico, basato su una particolare forma di comunicazione. Questo spiegherebbe (oltre alla rischiosità dell’intervento ed al complesso problema dell’allocazione degli organi) l’elevata fallibilità degli interventi di separazione (con la conseguente morte di entrambi i neonati “sotto i ferri”, oppure con il decesso del bambino sopravvissuto dopo poche ore, o dopo poco tempo, dall’operazione per le conseguenze di essa: quasi come se questa compor-tasse una “rottura” dell’ “equilibrio” del sistema).

Secondo la visione utilitarista ricostruita, inoltre, la morte del gemello “debo-le” come conseguenza prevista dell’intervento, sarebbe giustificabile con la teoria del c.d. “ingiusto aggressore” o “unjust aggressor”.21 Il bambino in condizioni di salute più precarie, dunque, rappresenterebbe nient’altro che un aggressore ed una fonte di pericolo per la vita del fratello. Per meglio dire, questi costituirebbe una

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minaccia contro la quale sarebbe legittimamente invocabile la causa di giustificazio-ne penale e morale della legittima difesa (che consentirebbe una reazione contro l’aggressore fino a ricomprenderne l’uccisione qualora questo sia l’unico mezzo per salvare la vita propria o di un terzo, come in questo caso, da una grave minaccia).

L’ipotesi utilitarista, tuttavia, non risulta condivisibile per le seguenti moti-vazioni. Innanzitutto, non sarebbe corretto qualificare il gemello “debole” come ingiusto aggressore, in quanto minore d’età e, dunque, privo della capacità di agire (nonché dell’intento di ledere la persona aggredita). Pur parificando, ad ogni modo, la “minaccia” del gemello debole a quella operata, ad esempio, da una persona incapace di intendere e di volere (basti pensare ad uno squilibrato psichico che cerca di colpire un passante con un coltello da cucina), occorre evidenziare come nel caso oggetto della presente riflessione risulti in realtà carente qualsiasi tipo di azione. Il neonato congiunto, in altre parole, nasce semplicemente “attaccato” al fratello, senza volere o poter “agire” in alcun modo “contro” il gemello. La mancanza di volontà o di possibilità di scelta determina, evidentemente, il venir meno di qualsiasi forma di imputazione di aggressione a carico del gemello debole.

Secondo la tesi di ispirazione personalista, invece, non vi sarebbe alcuna ipotesi che giustificherebbe la scelta di intervenire chirurgicamente su una coppia di neo-nati siamesi con la conseguenza prevista e voluta di causare la morte del gemello “debole”. Questo perché, avendo entrambi i siamesi la stessa dignità di persone, non sarebbe lecita una scelta del bambino più forte elaborata esclusivamente in una prospettiva “di qualità della vita”. non si potrebbe decidere, in altre parole, quale neonato salvare perché entrambi sarebbero degni di eguale tutela e protezione, ed una scelta arbitraria del gemello che dovrebbe sopravvivere risulterebbe discri-minatoria, perché fondata sulla considerazione che una vita “con scarsa qualità” o non perfettamente in salute non sia degna di essere vissuta. Un intervento volto a salvare uno solo dei neonati potrebbe, invece, essere giustificato soltanto in una situazione di emergenza, dove, essendo ormai pregiudicata la vita del bambino più debole (che non si è scelto di far morire in seguito ad un intervento pianificato per salvare il gemello “con una prospettiva qualitativa di vita migliore”), si tente-rebbe di salvare almeno uno dei due. nei rimanenti casi, si dovrebbe attendere l’evoluzione della situazione (valutando le possibilità ed i rischi connessi ad un intervento operatorio rivolto ad entrambi i neonati), monitorando i due siamesi.

Per quanto riguarda, poi, l’allocazione degli organi eventualmente condivisi tra i bambini, non sarebbe corretto parlare di un’appartenenza, di una proprietà o peggio ancora di un’attribuzione degli stessi al gemello considerato più forte. Essi, infatti, essendo nati con entrambi, appartengono alla “coppia” di gemelli: come tali non possono essere “assegnati” ad uno dei due neonati (nello specifico al “più forte”), sottraendoli all’altro arbitrariamente.

Una critica opponibile alla tesi personalista potrebbe essere quella fonda-ta sull’inutilità dell’intervento chirurgico e sull’inesorabilità del suo esito, nella maggior parte dei casi infausto per entrambi i neonati, se effettuato al momento dell’emergenza (con una situazione ormai precipitata a livelli veramente critici). A

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tale assunto si potrebbe obiettare che l’analisi della tragica condizione dei gemelli congiunti, nonché la scelta dell’intervento operatorio, svolti in un’ottica meramente qualitativa, non sembrano essere rispettosi della dignità personale di entrambi i soggetti coinvolti.

In merito alla questione della possibile separazione di gemelli c.d. neonati/minori, all’interno del Comitato nazionale per la Bioetica, sono emersi orientamenti bioetici differenti in relazione alle due possibili ipotesi analizzate: quella in cui non è in pericolo la vita dei gemelli, mentre l’intervento di separazione, sebbene sia possibile tecnicamente, risulta altamente rischioso per la vita di uno o di entrambi e quella in cui si evidenzia un imminente e grave pericolo di vita e di salute per entrambi i gemelli. In quest’ultimo caso l’astensione da un intervento di separazione comporterebbe la morte di entrambi, mentre il separare i due gemelli potrebbe configurare due finalità: la prima di salvare entrambe le vite; la seconda di salvare almeno una delle due22.

Quanto alla prima ipotesi, una prima linea di pensiero “ritiene che questa scelta di tentare di separare i gemelli non sia eticamente giustificata. In tali circostanze in cui un’operazione chirurgica non sia necessaria (infatti), non sussistendo un immediato e grave pericolo di vita per i gemelli né un prevedibile peggioramento della prognosi (…), l’intervento è ritenuto sproporzionato per gli alti rischi, potendo compromet-tere seriamente la vita e la salute dei neonati o di uno di essi a scapito dell’altro”23.

Una seconda linea di pensiero, invece, “partendo dal medesimo presupposto filosofico di riconoscimento del valore della vita e della salute, ritiene che tale valore possa pensarsi solo in termini di individuazione e considera la congiunzione una compromissione inaccettabile della identità umana. Ritiene che anche l’indi-vidualità sia un elemento essenziale di tali valori e vada garantita quando sussiste una ragionevole possibilità di successo dell’intervento chirurgico di separazione anche ad elevato rischio, purché fornisca speranze, ancorché esili, di successo24”. Tale posizione risulta basata su due differenti motivazioni, in parte convergenti. La prima, partendo dal presupposto che la congiunzione non possa essere qualificata come forma di disabilità “accettabile”, ritiene “che per quanto elevato possa essere il rischio della separazione esso sia sempre proporzionato alla patologia si intende fronteggiare”25. In base alla seconda argomentazione, invece, “l’intervento chirurgico sarebbe giustificato in quanto volto a garantire una certa qualità di vita ai gemelli o ad uno di essi. La vita congiunta (in questa prospettiva) è ritenuta contraria ad una compiuta realizzazione della persona, in quanto annulla la sua individualità autonoma e costituisce una forma di ‘anormalità’ o ‘grave anomalia’ che va oltre l’ambito proprio della disabilità”26.

Una terza linea di pensiero, infine, ritiene che “non sia possibile giudicare in astratto sulla liceità/illiceità di interventi ad alto rischio, seppur non in presenza di pericolo immediato di vita”27.

Per quanto riguarda la seconda condizione analizzata dal Comitato nazionale per la Bioetica, ovvero quella in cui si evidenzia un imminente e grave pericolo di vita e di salute per entrambi i gemelli, il Comitato puntualizza che l’astensione

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da un intervento di separazione comporterebbe la morte di entrambi, mentre il separare i due gemelli potrebbe configurare due finalità: la prima di salvare en-trambe le vite; la seconda di salvare almeno una delle due. Anche in questo caso, sono delineabili all’interno del Comitato tre linee di pensiero.

Il primo orientamento ritiene “che sarebbe eticamente comprensibile ed accettabile la scelta dei genitori che, a seguito di una adeguata informazione me-dica ed anche in contrasto con questa, nell’incertezza dell’esito di un eventuale intervento di separazione, decidano di astenersi dall’intervento, pur sapendo che tale scelta comporterà la morte di entrambi i gemelli o di uno dei due”28.

Un’altra linea di pensiero, invece, si mostra “favorevole ad un intervento finalizzato a salvare entrambi i gemelli, ma (manifesta) una opposizione etica nei confronti di quegli interventi che a priori non consentiranno di salvare entrambi”29.

Una ulteriore linea di pensiero “ritiene che nella condizione di imminente e grave pericolo di vita di entrambi i gemelli e a fronte di un apprezzabile e ragionevole previsio-ne di un esito salvifico per uno dei due gemelli- sulla base di un rigoroso accertamento clinico- l’intervento di separazione vada considerato eticamente corretto (…)”30.

4. I neonati congiunti e la qualità della vitaUn interrogativo sembrerebbe emergere costantemente nell’analisi del

fenomeno dei gemelli siamesi: l’esistenza condotta da due individui congiunti può essere considerata qualitativamente soddisfacente?

Al complesso rapporto esistente tra la nascita congiunta e la qualità della vita sarà, dunque, necessario rivolgere la presente riflessione, con l’intento di sottoli-neare, in modo particolare, il carattere equivoco che il termine “qualità” potrebbe assumere all’interno del dibattito bioetico sul fenomeno dei gemelli congiunti.

nel caso dei gemelli siamesi, a tal proposito, si possono rilevare due diverse considerazioni:- come primo punto occorre rilevare come l’esistenza dei neonati congiunti sia fre-

quentemente correlata ad una prognosi caratterizzata da disabilità abbastanza gravose e che richiedono un’assistenza altamente qualificata dal punto di vista medico sia nel breve che nel lungo termine31;

- come secondo punto, invece, è utile sottolineare come la vita di due neonati congiunti (che non possano essere separati) sia contraddistinta da una serie di difficoltà so-prattutto legate all’impossibilità per entrambi di svolgere alcuna attività “staccati” dal fratello (basti pensare all’impossibilità per i fratelli di spostarsi in due luoghi differenti contemporaneamente, così come di vivere separatamente, in età adulta, una vita di coppia e familiare, ecc.) .Dalla prima constatazione deriverebbe, secondo l’approccio di ispirazione

utilitarista costruito ed esaminato in precedenza, un’inutilità della cura applicata ad entrambi i bambini, in quanto li “condannerebbe” ad un’esistenza vissuta con un livello qualitativo estremamente basso e fonte di gravosi costi in termini as-sistenziali per la collettività, in assenza di una previsione di miglioramento della prognosi in futuro.

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L’unica soluzione per una vita qualificata come avente uno “scarso livello qua-litativo”, dunque, sarebbe rappresentata dal sacrificio del gemello debole, attuato con l’operazione chirurgica di separazione (sacrifice separation).

L’ipotesi utilitarista in merito alla “qualità della vita”, fondandosi su una consi-derazione dei gemelli siamesi come categoria meno meritevole di tutela (in quanto caratterizzata da gravi disabilità ed elevati costi dal punto di vista sanitario), appare fortemente lesiva del principio costituzionale di uguaglianza (in base al quale deve considerarsi ingiustificabile un trattamento differenziato di due individui che sono da considerare ugualmente delle persone in senso assoluto).

“Il valore della vita umana (infatti) non può dipendere dalle qualità che essa esprime, ma dal fatto di essere la vita di una persona la quale mantiene la sua dignità in qualsiasi condizione si trovi ad esistere”32. Ammettere che un individuo sia da considerarsi persona solo se in possesso di talune funzionalità vorrebbe dire far dipendere il carattere ontologico di un soggetto dalla presenza di condizioni c.d. “accessoriali”, che, come tali, possono manifestarsi o meno. In altre parole, un individuo, per il solo fatto che esiste, non può che essere persona, altrimenti si dovrebbe dire che tale soggetto non è presente nella realtà spazio/tempo (come appunto avviene quando una persona muore e si dice che “non è più”). Tale consi-derazione, evidentemente, non può essere utilizzata per definire dei soggetti viventi.

La carenza di risorse medico-sanitarie, d’altra parte, soventemente invocata come “giustificazione” per un atteggiamento di disimpegno nelle cure dei soggetti33 con una prognosi clinica particolarmente infausta, deve sicuramente essere risolta con l’attuazione di una migliore allocazione delle risorse stesse, così come con la ricerca di nuove forme di finanziamento eticamente lecite: non può, però, essere affrontata attraverso la diminuzione della tutela di quelle categorie di soggetti che, di tale forma di assistenza, hanno maggiormente bisogno.

nel caso dei gemelli congiunti, dunque, è da ritenersi eticamente illecita la decisione di non attivarsi o sospendere le cure prestate a tale tipologia di neonati con il solo intento di “liberare” i due bambini da un’esistenza qualitativamente scarsa e, contemporaneamente, di risparmiare l’impiego di costose risorse sanitarie per utilizzarle a beneficio di pazienti con una prognosi di vita qualitativamente meno infausta. Ciò a meno che non si voglia procedere verso quella deriva bioetica che è costituita dall’eutanasia neonatale.

5. Le diagnosi prenatali nella gemellarità congiuntaLa possibilità di effettuare indagini “che consentono di identificare precocemente

malformazioni somatiche e patologiche genetiche nello sviluppo embrio-fetale” 34 ha un impatto molto rilevante sul fenomeno dei gemelli congiunti, sia sotto il profilo morale sia sotto il profilo etico, “a causa dello scarto incolmabile (esistente) per ora, ma prevedibilmente anche nel prossimo futuro tra l’incremento crescente delle conoscenze diagnostiche (…) e l’ancora scarsa e comunque non sempre sufficiente possibilità di intervento terapeutico sulle patologie, in atto o ad in-sorgenza successiva, diagnosticabili”35, consentendo ad una coppia (nelle parti del mondo in cui tali strumenti diagnostici sono accessibili per un gran numero di

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individui) di venire a conoscenza prima del momento del parto di una inevitabile nascita gemellare congiunta.

È evidente, infatti, che, nonostante una percentuale di gemelli siamesi venga scoperta come tale al momento della nascita (perché avvenuta in paesi del mondo dove non tutte le gestanti riescono a godere di una sufficiente assistenza sanitaria), soprattutto nei paesi più “all’avanguardia” dal punto di vista dell’accesso agli esami diagnostici, la scoperta di una gravidanza gemellare congiunta potrebbe condurre facilmente verso la scelta di interrompere volontariamente la gravidanza.

Tale drammatico epilogo, d’altra parte, sarebbe incentivato dall’impossibilità (quan-tomeno attuale) di curare la gemellarità siamese a livello embrio-fetale, lasciando nei genitori come unica speranza l’eventuale intervento di separazione dei neonati attuabile dopo la nascita (qualora non impossibile). Per tali motivi, nella maggior parte dei casi, “se la condizione dei gemelli monocoriali è tale che si possa intervenire a nascita avvenuta per separarli, i medici stessi consiglieranno di proseguire la gestazione. Se questa possibilità manca o è di scarsa probabilità, i medici potrebbero proporre una soluzione diversa che potrebbe concludersi con l’aborto”36.

Ecco che, dinanzi alla nascita congiunta, si manifesta nuovamente la necessità di ribadire la tutela del diritto alla vita di individui caratterizzati da malformazioni e da un’esistenza, secondo una prospettiva di ispirazione utilitarista, con un livello qualitativo molto scarso, soprattutto in seguito al discutibile “riconoscimento” ottenuto in alcuni casi (a livello esclusivamente giurisprudenziale) del c.d. diritto a nascere sani (wrongful birth).

6. L’eutanasia pediatrica In relazione ai gemelli congiunti, la prospettiva eutanasica potrebbe consistere

nella possibilità di non iniziare (opzione omissiva), oppure sospendere (opzione attiva) i trattamenti terapeutici necessari, dal momento della nascita, alla soprav-vivenza ed alla cura dei neonati congiunti. L’eutanasia, inoltre, potrebbe realizzarsi nella somministrazione di una sostanza o trattamento finalizzato ad accelerare o causare la morte dei bambini (opzione ugualmente attiva)37. Tali scelte, discutibili sotto il profilo etico, verrebbero attuate sulla base della convinzione che una vita non autonoma non sia degna di essere vissuta, in quanto contraddistinta da una grave sofferenza e fonte di pesanti costi per la società38 (a fronte di nessun beneficio in termini di recupero dello stato di salute e di efficienza). L’opzione eutanasica ricostruita risulta in contrasto con una tutela “forte” del diritto alla salute (avente copertura costituzionale), in quanto non tiene in primaria considerazione le reali necessità terapeutiche e la dignità personale di soggetti particolarmente fragili ed indifesi (quali appunto appaiono i gemelli siamesi). Per tali motivi, essa non può ritenersi eticamente lecita.

7. L’accanimento terapeutico sui gemelli siamesi e le cure compassionevoliSi differenzia significativamente dall’eutanasia l’accanimento terapeutico.

Esso può essere definito come “il tentativo della medicina di posticipare, oltre

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ogni limite, la morte”39, ovvero, in altre parole, “come la lotta ad oltranza contro la morte inevitabile”40.

Si ha accanimento terapeutico, dunque, quando si applicano al paziente, nel sopraggiungere della morte, dei trattamenti sproporzionati ed eccezionali che non hanno altro scopo se non quello di prolungare la vita biologica dell’individuo.

L’accanimento terapeutico, in altre parole, a differenza dell’eutanasia, consiste nel prolungare ostinatamente la vita della persona umana, nell’illusione di riuscire ad evitare una morte ormai scientificamente inevitabile. Esso costituisce una fonte di sofferenze inutili per il paziente, in quanto sproporzionato al suo effettivo stato di salute ed alla prognosi clinica.

I fattori che potrebbero determinare un accanimento terapeutico nel caso dei gemelli congiunti sarebbero riconducibili a tre atteggiamenti fondamentali: il convincimento che si debba agire per tentare di salvare la vita biologica di uno o di entrambi i neonati anche nei casi in cui la morte risulti impossibile da evitare; la continuazione di trattamenti che hanno come effetto quello di prolungare l’ago-nia dei bambini ormai allo stadio terminale, senza rispettare il loro diritto a non ricevere (e per i genitori di rifiutare) le cure ormai inutili; la difficoltà del medico ad accettare l’insuccesso e quindi l’impotenza dinanzi alla morte dei pazienti, soprattutto in tenera età41.

Anche nel caso dei gemelli congiunti, tuttavia, qualora non dovessero essere più ipotizzabili degli interventi terapeutici finalizzati a controllare la prognosi patologica dei neonati (oppure a farla regredire), andrà evitata qualsiasi forma di accanimento terapeutico, cioè qualsiasi tipologia di trattamenti sanitari inutili in quanto straordinari e causa di una gratuita sofferenza per i neonati. Dinanzi all’impossibilità di attuare un’operazione di separazione, così come nel caso in cui i bambini (o uno solo dei due, quale sopravvissuto all’intervento chirurgico) manifestassero una prognosi in-fausta ormai inevitabile, pertanto, non si dovrà tentare di prolungare in ogni modo la vita biologica dei pazienti, sottoponendoli a cure sproporzionate rispetto alle loro esigenze.

Ai gemelli, ad ogni modo, dovranno comunque essere sempre garantite le cure normali o ordinarie (qualora non risultino inevitabilmente gravose) e quelle c.d. compassionevoli per andare incontro al dolore degli stessi ed accompagnarli con umana solidarietà al momento della morte.

Le cure confortevoli, infatti, essendo dei trattamenti di natura palliativa, con-sentirebbero di accostarsi alla prognosi ormai infausta dei siamesi cercando di farli soffrire il meno possibile, nell’attesa di un esito ormai immodificabile42.

Un particolare impegno, infine, dovrà essere impiegato nell’assicurare una co-stante vicinanza umana ai familiari dei pazienti, al fine di sostenerli in un momento così drammatico qual è quello della perdita di uno o più figli, soprattutto se in tenera età.

8. Indicazioni bioeticheLa problematicità delle questioni della cura gemelli congiunti neonati/minori,

malgrado le divergenze riportate nel presente lavoro, non ha impedito al Comitato

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nazionale per la Bioetica di formulare, a conclusione del parere sull’argomento pubblicato in data 13 settembre 2013, alcune raccomandazioni condivise da inten-dere quale “orizzonte concettuale di riferimento per favorire decisioni eticamente complesse (…) (riguardanti i gemelli congiunti)”43.

Tali indicazioni risultano condivisibili ed auspicabili al fine di realizzare un approccio alla condizione drammatica dei gemelli in una prospettiva eticamente corretta e rispettosa della dignità di entrambi.

Particolare attenzione dovrà essere posta, dunque, nella promozione ed incremento della ricerca sulle cause del fenomeno della gemellazione congiun-ta, partendo dal presupposto che i gemelli congiunti “non possono essere solo considerati un problema da evitare (attraverso la diagnosi prenatale), ma anche da comprendere, prevenire e curare con approccio interdisciplinare”44. Ciò an-che attraverso la formazione di una équipe specializzata e la predisposizione di strutture adeguate.

L’informazione ai genitori di una gravidanza congiunta, inoltre, nell’ambito della diagnosi prenatale, a causa dei limiti delle tecnologie utilizzabili nella cura di tale tipologia di gemellazione, deve essere fornita da un team multispecialistico medico45.

Pur riconoscendo la complessità dei casi di gemellarità congiunta, si deve evitare di intervenire nei casi in cui si configurino delle ipotesi di accanimento te-rapeutico o sperimentale; tenendo in debita considerazione che, in ogni valutazione etica circa la doverosità dell’intervento da attuare sui gemelli congiunti (così come nelle eventuali ipotesi di astensione), non si deve far riferimento ai costi socio-as-sistenziali che tale intervento (o astensione) comporterebbe. Ai gemelli, pertanto, deve essere assicurata la possibilità di accedere alla riabilitazione ed alla continuità delle cure, nonché ad una rete assistenziale di tipo fisico-psichico-sociale 46.

In ogni caso, particolare attenzione deve essere posta per impedire che la possibile invadenza dei media disturbi il delicato processo decisionale relativo alla complessità della condizione di gemellazione congiunta47.

ConclusioniIl rapporto esistente tra due gemelli siamesi appare, alla luce di quanto

descritto, sin dalla nascita, una realtà complessa, origine di una relazione unica ed insostituibile, tale da far sentire entrambi i membri della coppia come indissolu-bilmente legati l’uno all’altro.

Questa particolare condizione, tuttavia, necessita di un’attenta e continua valutazione bioetica, sia nella fase tipicamente embrio-fetale, sia nel successivo stadio post-natale, al fine di evitare, in particolare nella scelta del trattamento da applicare ai gemelli (e, nello specifico, dell’eventuale intervento di separazione), qualsiasi azione direttamente o indirettamente eutanasica, non rispettosa della dignità personale e del diritto alla vita di entrambi i neonati.

Due singolarità, dunque, occorre riconoscere nei gemelli siamesi, poste in relazione con se stesse e con la collettività secondo una modalità che può essere

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definita “interindividuale” o di “sinergia duale”: rispettosa, cioè, dell’individualità di entrambi i gemelli e non interpretata come deficitaria (perché inevitabilmente congiunta), ma come inserita necessariamente in un “sistema comunicativo binario” con l’altro fratello.

Bibliografia1. Sul punto occorre precisare che, in fase di ultimazione della redazione del

presente articolo, il Comitato nazionale per la Bioetica (CnB) ha pubblicato un parere sull’argomento dal titolo “I Gemelli Congiunti e gli interventi di separazione, aspetti bioetici” (13 settembre 2013), relativo ai casi dei neonati/minori e dei grandi minori/adulti. Al documento citato si farà parzialmente riferimento nel corso del presente lavoro;

2. Mutchinick osvaldo M., Mastroiacovo Pierpaolo, et al, Conjoined Twins: A Worldwide Collaborative Epidemiological Study of the International Clearinghouse for Birth Defects Surveillance and Research, American Journal of Medical Genetics Part C (Seminars in Medical Genetics) 157: 276-278 (2011);

3. Devoto G. oli G., Le Monnier. Il Dizionario della Lingua Italiana, Casa Editrice Felice Le Monnier spa, 1995, Firenze, pag. 1836;

4. Ivi, pag. 839;5. Ivi, pag. 464;6. Per un approfondimento della teoria della fusione cfr. Spencer Rowena,

Theoretical and analytical embryology of conjoined twins: part I: embryogenesis, Clinical Anatomy, vol. 13, no. 1, pp. 36-53, 2000; Spencer Rowena, Theoretical and analytical embryology of conjoined twins: part II: adjustments to union, Clinical Anatomy, vol. 13, no. 2, pp. 97-120, 2000; Per un’analisi della teoria della fissione cfr. Aird Ian, Conjoined twins: Further observations, Br. Med J 1 (5133): 1313-1315; Per un approfondimento cfr. Mutchinick osvaldo M., Mastroiacovo Pierpaolo, et al, Conjoined Twins: A Worldwide Collaborative Epidemiological Study of the International Clearinghouse for Birth Defects Surveillance and Research, American Journal of Medical Genetics Part C (Seminars in Medical Genetics) 157: 275-276 (2011);

7. Mutchinick osvaldo M., Mastroiacovo Pierpaolo, et al, Conjoined Twins: A Worldwide Collaborative Epidemiological Study of the International Clearinghouse for Birth Defects Surveillance and Research, American Journal of Medical Genetics Part C (Seminars in Medical Genetics) 157: 278 (2011);

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8. Il primo caso riportato di separazione chirurgica realizzata su richiesta di due gemelle congiunte in età adulta è rappresentato dalle sorelle iraniane Ladan e Laleh Bijani (ventinovenni al momento dell’intervento avvenuto nel 2003);

9. Per un caso particolarmente drammatico in cui l’Autorità giudiziaria ha autorizzato l’intervento chirurgico di separazione di due gemelle congiunte dopo aver analizzato la letteratura medica e la giurisprudenza applicabile al fenomeno in esame cfr. Royal Courts of Justice, Re A (Children) (Conjoined Twins: Surgical Separation), Case No: B1/2000/2969, in www.justice.gov.uk/;

10. Proprio la questione della possibile separazione dei gemelli, posta al centro della discussione bioetica, costituisce il problema etico principalmente trattato ed argomentato dal CNB nel parere sull’argomento, pubblicato in data 13 settembre 2013. Il Comitato, in particolare, ha evidenziato come “l’avanzamento delle conoscenze scientifiche e tecnologie biomediche (…) (abbia) reso possibili interventi di separazione che, fino a qualche decennio fa, erano impraticabili, (…) sollevando diversi problemi etici in ordine ai soggetti legittimati a decidere, al rapporto tra eventuali rischi e benefici per la vita e la qualità della vita (dei gemelli), al periodo in cui intervenire” (Comitato nazionale per la Bioetica, I Gemelli congiunti e gli interventi di separazione, aspetti bioetici, 13 settembre 2013, pag. 8);

11. Kiesewetter William B., Surgery on Conjoined (Siamese) Twins, Surgery, 59 (1966): 860-871; Lipskey Karasz, Conjoined Twins: Psychosocial Aspects, AORN Journal, 35 (1982): 58; O’Neill James A., et al., Surgical Experience with Thirteen Conjoined Twins, Annals of Surgery, 208, no. 3 (1988): 299-312; Raffensperger J. , A philosophical approach to conjoined twins, Pediatric Surgery International (1997) 12, Issue 4: 249-255; Per una riflessione critica su tale prospettiva cfr. Bradley John G., Phillip V. Davis, The Meaning of normal, Perspectives in Biology and Medicine, 40, no. 1 (1996): 68-76; Weiss Gail, Intertwined Identities: Challenges to Bodily Autonomy, Perspectives: International Postgraduate Journal of Philosophy, pp. 22-37;

12. Dreger Domurat Alice, One of us: Conjoined Twins and the Future of Normal, Harvard University Press, Cambridge, 2004, pp. 46-50; Per un approfondimento sul punto relativamente ai gemelli congiunti c.d. grandi minori/adulti cfr. Comitato nazionale per la Bioetica, I Gemelli congiunti e gli interventi di separazione, aspetti bioetici, 13 settembre 2013, pp. 14-15);

13. Comitato Nazionale per la Bioetica, I Gemelli congiunti e gli interventi di separazione, aspetti bioetici, 13 settembre 2013, pag. 9);

14. Anche se, va ribadito, che una componente significativa di gemelli siamesi, interrogati sul punto, ha affermato di preferire la condizione di congiunzione nella quale è venuta alla luce ad un eventuale intervento chirurgico di separazione, rischioso per entrambi o per uno dei due in favore dell’altro. Per un approfondimento su questo aspetto cfr. Ivi, pp. 67-68;

15. Thomasma David C. et al., The Ethics of Caring for Conjoined Twins: The Lakeberg Twins, Hastings Center Report, Vol. 26, No. 4, (Jul.-Aug. 1996), pp. 4-12; Mainous Rosalie o., Conjoined twins: whose best interest should prevail? An argue for separation, Pediatr. nurs., Sep.-oct 2002, Vol. 28 (5), pp. 525-529; per una critica a tale posizione cfr. Harris John, Human Beings, Persons and Conjoined Twins: an ethical

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16. Singer Peter, Etica Pratica, tr. it. Di G. Ferranti, Liguori, Napoli, 1989, Id., Ripensare la vita. La vecchia morale non serve più, tr. it. Di S. Rini, Il Saggiatore, Milano 2000, Harris John, The Value of Life, Routledge, London, 1985; Lecaldano Eugenio, Bioetica. Le scelte morali, Laterza, Roma-Bari, 1999;

17. Palazzani Laura, Introduzione alla biogiuridica, Giappichelli, Torino, 2002, pag. 23; 18. Sgreccia Elio, Manuale di Bioetica. Fondamenti ed etica Biomedica, vol. I., Vita

e Pensiero, Milano, 1996; Palazzani Laura, Il concetto di persona tra bioetica e diritto, Giappichelli, Torino, 1996; Lucas Lucas Ramon, Antropologia e problemi bioetici, San Paolo, Milano, 2001;

19. Palazzani Laura, Introduzione alla biogiuridica, Giappichelli, Torino, 2002, pag. 37;20. Basti pensare che, soltanto analizzando alcuni casi di gemelli congiunti

craniopagi separati chirurgicamente, su 60 soggetti operati, 30 sono morti nel corso dell’intervento, 17 hanno riportato gravi disabilità, 6 hanno superato l’operazione ma non è stato riportato con quale esito nel lungo periodo, soltanto 7 hanno potuto condurre un’esistenza “normale” (Spencer Rowena, Conjoined Twins: Developmental Malformations and Clinical Implications, Baltimore: Johns Hopkins University Press, 2003, pp. 310 311);

21. Thomasma David C. et al., The Ethics of Caring for Conjoined Twins: The Lakeberg Twins, Hastings Center Report, Vol. 26, No. 4, (Jul.-Aug. 1996), pp. 8-9; Per una critica a tale posizione cfr: Harris John, Human Beings, Persons and Conjoined Twins: an ethical analysis of the judgment in Re A, Medical Law Review, 9, Autumn 2001, pag. 229; Kaveny M. Cathleen, The case of conjoined twins: embodiment, individuality, and dependence, Theological Studies 62 (2001): 753-772; Watt Helen, Conjoined Twins: separation as mutilation, Medical Law Review, 9, Autumn 2001, pp. 241-242;

22. Comitato nazionale per la Bioetica, I Gemelli congiunti e gli interventi di separazione, aspetti bioetici, 13 settembre 2013, pp. 10, 12;

23. Comitato nazionale per la Bioetica, I Gemelli congiunti e gli interventi di separazione, aspetti bioetici, 13 settembre 2013, pag. 10;

24. Comitato nazionale per la Bioetica, I Gemelli congiunti e gli interventi di separazione, aspetti bioetici, 13 settembre 2013, pag. 11;

25. Ibidem;26. Ibidem;27. Ibidem;28. Ivi, pp. 12-13;29. Ivi, pag. 13;30. Ivi, pag. 13;31. Per un approfondimento sul tema cfr. Spencer Rowena, Conjoined Twins:

Developmental Malformations and Clinical Implications, Baltimore: Johns Hopkins University Press, 2003;

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32. Faggioni Maurizio, Salute e qualità della vita dei minori, a cura di L. Palazzani, L’interesse del minore tra bioetica e biodiritto, Studium, Roma, 2010, pag. 29;

33. Mainous Rosalie o., Conjoined twins: whose best interest should prevail? An argue for separation, Pediatr. nurs., Sep.-oct 2002, Vol. 28 (5), pp. 525-529; Ratiu Peter, Singer Peter, The Ethics and Economics of Heroic Surgery, Hasting Center Report 31, no. 2 (2001): 47-48;

34. D’Agostino Francesco, Palazzani Laura, Bioetica. nozioni fondamentali, La Scuola, Brescia, 2007, pag. 94;

35. Ibidem; Per un approfondimento sul punto relativamente ai gemelli congiunti cfr. Comitato nazionale per la Bioetica, I Gemelli congiunti e gli interventi di separazione, aspetti bioetici, 13 settembre 2013, pag. 8;

36. Concetti Gino, Le gemelline siamesi. Separarle o non separarle?, Vivere in 2001, pag. 17; per approfondire cfr.: Sgreccia Elio, Manuale di Bioetica, Volume I, Vita e Pensiero, Milano, 2003, pp. 342-366; D’Agostino Francesco, Palazzani Laura, Bioetica. Nozioni fondamentali, La Scuola, Brescia, 2007, pp. 94-101;

37. Per un approfondimento cfr. Palazzani Laura, Introduzione alla biogiuridica, Giappichelli, Torino, 2002, pag. 201;

38. Mainous Rosalie o., Conjoined twins: whose best interest should prevail? An argue for separation, Pediatr. nurs., Sep.-oct 2002, Vol. 28 (5), pp. 525-529; Ratiu Peter, Singer Peter, The Ethics and Economics of Heroic Surgery, Hasting Center Report 31, no. 2 (2001): 47-48;

39. D’Agostino Francesco, Palazzani Laura, Bioetica. nozioni fondamentali, La Scuola, Brescia, 2007, pag. 127; per un approfondimento sul tema dell’accanimento terapeutico cfr.: Sgreccia Elio, Manuale di Bioetica, Volume I, Vita e Pensiero, Milano, 2003, pp. 739 - 742;

40. Concetti Gino, Le gemelline siamesi. Separarle o non separarle?, Vivere in 2001, pag. 36;

41. A tal proposito, è interessante notare come, secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica, possa essere legittima l’interruzione di pratiche mediche rivelatesi onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati previsti. Ciò sulla base del presupposto che, in questo caso, “non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire” (Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2005, pag. 608);

42. Per approfondire la posizione della Chiesa Cattolica sul tema cfr.: Ibidem; per approfondire dal punto di vista bioetico la tematica delle cure del malato terminale cfr.: D’Agostino Francesco, Palazzani Laura, Bioetica. nozioni fondamentali, La Scuola, Brescia, 2007, pp. 135 - 137;

43. Comitato nazionale per la Bioetica, I Gemelli congiunti e gli interventi di separazione, aspetti bioetici, 13 settembre 2013, pag. 16;

44. Ibidem;45. Ibidem;46. Ivi, pp. 16-17;47. Ibidem.

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recensioni

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Questo libro vuole aiutare il lettore a “farsi un’idea” sulla vita, costruita attorno al susseguirsi di eventi che sono premessa di altri sempre nuovi, in un continuo rapporto tra ieri, oggi e domani. Questo rapporto si realizza non solo sul piano psicologico, come del resto è noto da tempo, ma anche su quello stret-tamente biologico. L’intento è quello di favorire la comprensione di come la salute da concetto teorico possa diventare un elemento vitale, con il quale ogni persona si incontra, reagendo talvolta in un modo, talvolta in un altro, anche in conseguenza della sua condizione di benessere soggettivo.

Nell’insieme i capitoli che seguono sono volti a spiegare come la vita non sia un patrimonio che si può solo consumare, ma un talento che si deve spendere ogni giorno per ricevere una ricompensa dalla sua rivalutazione. Ciò è valido per ogni età, per il bambino che si sviluppa aggrappato ad una vita che non lo abbandona, per l’adolescente dalle mille crisi che alla fine riesce ad emergere e ad andare avanti, per l’adulto, fino ad arrivare al vecchio, che ogni giorno crea una vita nuova.

Quindi, se è vero che “vita crea vita”, altrettanto vero è che tutti siamo - almeno in parte - responsabili della nostra salute e del benessere futuro e che i comportamenti di oggi non sono indifferenti rispetto al domani. “Ciascuno costru-isce la propria fortuna”: l’antico adagio conserva il suo significato e valore umano, ma è oggi fondato, più di un tempo, su studi e ricerche scientifiche.

Ovviamente “costruire la propria fortuna” non è un esercizio mentale

superficiale, ma è un impegno da realizzare anche attraverso passaggi difficili. Non è sufficiente il pensiero positivo, come sembrano, invece, indicare i manuali di autoaiuto costruiti sulla falsa riga di quelli che insegnano le strategie di mar-keting, né il ricorso a un’ipotetica forza di volontà, la cui messa in atto spesso è

Marco Trabucchi, I segreti di una vita sana e lunga, il Mulino

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assolutamente impossibile. La vita è molto più complessa, è costruita su fallimenti e successi; allo stesso modo l’“obiettivo felicità” - tanto spesso quanto banalmente evocato - non è raggiungibile per molte donne e uomini, nonostante si cerchi da più parti di indurre a credere che sia alla portata di tutti.

Sono il dubbio, la fatica, l’impegno a modificarsi anche di fronte a difficoltà apparentemente insormontabili che permettono di costruire davvero un domani. Senza sicurezze edificate sulla sabbia, destinate a franare alle prime crisi, o di fronte a ipotesi culturali diverse. Partendo da questo concetto di fondo, le pagine che seguono delineano - sia sul piano teorico sia su quello pratico - i percorsi vitali più appropriati per vivere sereni e senza costrizioni, spiegandone allo stesso tempo le ragioni e i meccanismi, in modo che ciascuno possa raggiungere un’evoluzione salutare delle proprie condizioni. Senza abbandonarsi agli atteggiamenti, purtrop-po frequenti, che oscillano tra il pessimismo e il fideismo, quindi tra la rinuncia all’impegno, perché non vi sarebbe speranza nel futuro, e l’affidarsi - all’opposto - a qualsiasi proposta che prometta “miracoli” rispetto alla salute.

Al fondo vi deve essere un atteggiamento di generosità verso gli altri e verso se stessi: la vita si costruisce attraverso rapporti significanti che comportano lo spendersi per costruire una comunità il più possibile coesa. Ciò è possibile solo se si è generosi anche verso se stessi, cioè donandosi tempo, mente e cuore da spendere per costruire il futuro. La generosità porta anche alla gratitudine (un collante fortissimo per una crescita condivisa) e alla fiducia. La generosità combatte la paura, perché permette di guardare alle novità, che ci raggiungono ogni giorno, senza preconcetti negativi, ma sempre alla ricerca di luoghi e condizioni in cui trovarsi in sintonia con l’altro e – se possibile - cercando un vicendevole aiuto.

Il mondo occidentale vive l’era più prospera della sua storia; eppure mai come ora è forte la paura del futuro. Troppe condizioni assumono contemporaneamente il ruolo di promesse e pericoli: dalla manipolazione genetica, alla sovrappopolazione della terra, alla globalizzazione, alla rivoluzione digitale, alla comparsa di vecchi fantasmi... Eppure è necessario trovare la forza per non rinchiudersi, perché il pessimismo e la mancanza di legami impediscono la crescita della persona e fa-voriscono l’isolamento, che a sua volta genera conflitti. La paura dei barbari è ciò che rischia di renderci barbari!

La felicità legata al possesso o alla costruzione di supporti artificiali è una chimera che appare e scompare e può trasformarsi in delusione e conseguente aggressività; invece, l’accettazione del mondo impone di vivere attraversando eventi positivi e negativi, in una continua alternanza e ricerca che dà significato e sapore alla vita.

Nel secolo scorso le grandi ideologie garantivano una cornice alle speranze e alle attese, anche se poi la storia ne ha mostrato i fallimenti. Oggi, invece, siamo consapevoli di vivere una transizione dalla quale ci piacerebbe uscire, ma che non abbiamo le forze di modificare. Ugualmente, però, è necessario affrontare il futuro con coraggio, garantendo a noi stessi – seppure faticosamente-centralità rispetto

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agli eventi; garantendoci, soprattutto, il futuro, nonostante i timori e l’apparente incapacità di costruirlo.

Nell’epoca delle “passioni tristi”, come è stato definito il unsi ro tempo, la perdita della fiducia nel sacro, nelle grandi ideologie rivoluzionarie e la disillu-sione sulle capacità della tecnica di risolvere i problemi dell’uomo hanno aperto un varco, che è necessario riempire, attraverso un rapporto tra individui, che diviene significante soprattutto per chi è più fragile. Vi è sempre più bisogno di chi ricostruisce i legami e contribuisce a ridare senso al tempo, breve o lungo, forte o precario, della vita.

In generale, di fronte alle grandi crisi, si assiste ad una sorta di “privatizzazione del futuro”; ma non tutti sono in grado - anche per condizioni oggettive - di costru-ire in solitudine (e talvolta nell’abbandono) il proprio futuro. Vi è quindi bisogno di un impegno diffuso, dell’utopia di molti non volta a costruì re una società perfetta, ma a proporre vie di uscita concrete, incominciando da una lenta,ma continua e determinata, opera di rammendo della rete che tiene insieme le persone, perché possano appoggiarsi le une alle altre. La difesa della libertà dei più fragili permette alle comunità di trovare il senso della vita assieme, dalla quale derivano serenità individuale oltre che sociale, e perfino felicità, costruendo sempre nuove occasioni, perché la speranza si fonda con la realtà. Non è un caso se, mai come in questi tempi, si è assistito alla diffusione di una letteratura che si occupa di malattia, sof-ferenza, dolore psichico e somatico. È perché, forse, il romanzo, per alcuni aspetti meglio dell’approccio scientifico, insegna come costruire e “leggere” le reti tra le persone, in particolare quelle che avvolgono chi soffre? Potrebbero sembrare queste considerazioni fuori dal tempo, soprattutto ora che il nostro paese è do-minato da conflitti, da accuse reciproche tra gruppi sociali, dal proiettare sull’altro le responsabilità di fallimenti che dovrebbero essere condivise, da un sottofondo di violenza che, seppure repressa, talvolta s’intravvede: ma è proprio la crisi a indurre a scelte importanti per la nostra vita, che diventano anche scelte per la collocazione di ciascuno nella realtà collettiva. L’intento di questo libro è aiutare il lettore a capire come meglio costruire un futuro per sé che sia compatibile con quello degli altri e, se possibile, anche convergente verso altre vite per contribuire alla serenità sociale. Partiremo dal dato somatico, che non è una pura espressione biologica, ma la base della realtà personale e delle dinamiche collettive. L’esistenza umana conserva e nasconde aspetti di mistero e di imprevedibilità; di fronte a questi, anche chi crede nelle: potenzialità della scienza a favore del benessere della persona si ferma. Così facciamo noi, scrivendo e leggendo le pagine che seguono. Ma quest’area apparentemente misteriosa e oscura (il caso!) non deve essere abbandonata a timori, superstizioni o risposte consolatorie ed errate; ciascuno è in grado di delimitarla, se controlla il proprio vissuto, dandole il giusto spazio e impedendole di invadere la vita e di toglierle libertà e speranza. Due condizioni queste che si conquistano con fatica, ma rendono la vita possibile...

In sintonia con il Camus dell’Uomo in rivolta, ricordiamo che:

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“L’uomo deve riparare nella creazione tutto quello che è possibile. Dopo di che i bambini continueranno a morire ingiustamente, anche in una società perfetta. Col suo grande sforzo, l’uomo può soltanto proporsi di diminuire aritmeticamente il dolore del mondo. Ma l’ingiustizia e la sofferenza rimarranno e, benché limitate, non cesseranno di essere uno scandalo. Il “perché?” dei Karamazov continuerà a risuonare”.

(dall’Introduzione pgg.7-11)

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La vicenda di Stamina, piena di dolore e di sofferenza, di ideali nobili e generosi, di bisogno incoercibile di speranza, ma anche di calcoli e di piccole macchinazioni, presenta due aspetti virtuosi: il valore della speranza e quello della solidarietà. Sono valori che superano di gran lunga il tentativo, fortunatamente fallito, di sostituire la scienza con la magia, di inficiare quel metodo scientifico che ha permesso di concentrare in questo ultimo secolo più progressi di quanti non siano stati fatti in tutti i secoli precedenti. La scienza medica deve molto all’acquisizione di un metodo rigoroso, che parte dalla identificazione di un problema per procedere attraverso la formulazione di ipotesi, che vanno tutte verificate dalla comunità scientifica. Una a una, con pazienza e umiltà nella fase della valutazione, anche se questo non esclude affatto coraggio e immaginazione nel momento della formulazione delle ipotesi. La comunità scientifica, attraverso le pubblicazioni su riviste prestigiose, attraverso congressi internazionali, ma anche a monte nella formazione dei gruppi di ricerca internazionali svolge un’importante funzione di garanzia per la tutela della salute e del benessere dei cittadini e dei pazienti. C’è quindi bisogno di scienza, ma c’è anche bisogno di speranza, perché l’uomo e soprattutto l’uomo malato, non può fare a meno né dell’una né dell’altra. E questa è la grande lezione positiva che questa vicenda ci restituisce, sottolineando errori e omissioni degli uni e degli altri, anche se – evidentemente – con un diverso grado di responsabilità e di complicità.

In questa storia confluiscono davvero tante storie umane meritevoli di essere tenute nella massima considerazione, appare chiaramente quanto sia forte nell’uo-mo il bisogno di speranza e come non sia possibile sradicarlo dal cuore umano, neppure quando versa in condizioni estreme. Il malato, i suoi familiari, oggi più che mai, non accettano più che si dica loro che non c’è nulla da fare. Vogliono continuare a lottare, vogliono continuare a sperare. Quando il senso della speranza si attenua

Un libro per pensare e per evitare errori già commessi… stando dalla parte dei malatidi paola bineTTi

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nel cuore umano, il rischio immediato è quello di veder precipitare le persone nella tristezza e perfino nella disperazione. E tristezza e disperazione diventano cause concrete di ulteriore compromissione dello stato di salute del paziente. Il senso di solitudine estrema che si sperimenta a livello personale e istituzionale può spingere chi soffre verso soluzioni confuse, in cui si può manipolare e strumentalizzare il loro stesso dolore, trasformandolo in occasione di business. Ne scaturisce una operazione di marketing sofisticata e pericolosa di cui è parte integrante anche una certa spettacolarizzazione della malattia. Dal dolore estremo privato di ogni possibile forma di speranza si può scivolare facilmente verso il suicidio o verso una richiesta di eutanasia, che spingono a mettere fine alla vita umana. E si può pretendere che questo avvenga anche in base a nuove norme che stravolgono la natura stessa del rapporto medico-paziente e contraddicono a quell’attaccamen-to alla vita, che invece è possibile sperimentare in tanti malati. Mentre in Belgio si approva una norma per legittimare l’eutanasia infantile, un gruppo di genitori italiani si dichiarava disposto a tutto pur di non vedere morire e soffrire i propri figli. Perché la vicenda Stamina è anche questo: un coro di voci di genitori e di bambini che gridano alle istituzioni la loro voglia di vivere e pretendono di essere ascoltati; chiedono mezzi per vivere, assumendosi in prima persona il rischio di terapie innovative, nella pura semplice speranza che possano essere efficaci, per loro o per altri. Perché la vicenda Stamina mostra anche quanto sia forte il senso di solidarietà umana che ci fa schierare immediatamente dalla parte di chi soffre, per condividerne il disagio e aiutarlo nella misura del possibile. È una solidarietà che ha spinto molti malati a offrirsi come cavie generose, ben sapendo che la loro aspettativa di vita era limitata e molto probabilmente non avrebbero goduto dei benefici del trattamento, neppure se fosse risultato efficace. Ma era la solidarietà dei malati verso altri malati, che ha commosso tante persone nel momento in cui avvicinandosi a queste persone ha letto nei loro occhi il desiderio, addirittura il bisogno, di dare un senso alla propria vita non nonostante la malattia, ma proprio a ragione della loro malattia.

Ma la solidarietà, per essere autentica, non può limitarsi solo alle ragioni del cuore, che sono comunque fondamentali. Ha bisogno di capire e di valutare quale sia la forma più efficace di aiuto. Si è solidali anche nella misura in cui si è efficaci. Ed è qui che intelligenza e sentimenti, pietas e scienza, devono trovare il loro punto di convergenza, per evitare che certe storie si ripetano, illudano altre persone innocenti, coinvolgano le istituzioni ai massimi livelli, per poi risolversi in una sorta di bolla mediatica. C’è un elemento di questa storia che non manca di sorprendere quanti vi si accostano con la mente e il cuore liberi da pregiudizi: come abbia po-tuto la Fondazione Stamina sviluppare questo modello, che con il trascorrere dei giorni appare sempre più privo di consistenza, in modo così capillare, coinvolgendo politica e sanità, magistratura e ricerca, mezzi di comunicazione. Potremmo dire che nell’arco di pochi mesi, una storia che fin dall’inizio aveva insospettito magistrati e clinici di comprovata esperienza, è cresciuta a ritmi incalzanti, tentando in tutti i

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modi di silenziare le voci autorevoli di un dissenso informato. È una anomalia tutta italiana: la vicenda Stamina avrebbe dovuto essere rispedita al mittente da subito, è invece entrata nelle istituzioni, monopolizzandone l’attenzione fino a trovare spazio in appositi disegni di legge, pretendendo di imporre una cura discutibile, proprio perché sprovvista di fondamento scientifico.

A livello legislativo il dibattito non avrebbe dovuto neppure iniziare, perché mancava la materia prima: la serietà scientifica della proposta Vannoni. Eppure dopo aver indotto il Parlamento a legiferare con il decreto Balduzzi, con la storia degli emendamenti che si sono rincorsi tra Camera e Senato, è stato fatto oggetto di molteplici interrogazioni e interpellanze, da parte di tutti i partiti. Sembra proprio che si possa e si debba dire che ci si è occupati troppo del metodo Vannoni e troppo poco dei malati e della loro condizione clinica e umana. La disgiuntiva posta da alcuni di loro: o Stamina o nulla, andava ribaltata e trasformata in un arco più ampio di opportunità terapeutiche, anche non esclusivamente farmacologiche. Non dovevamo permettere che questi malati si sentissero traditi dalle istituzioni, abbandonati dalla medicina più tradizionale, perché anche quest’ultima è capace di proposte sperimentali coraggiose, attentamente selezionate. Alle istituzioni compete infatti il compito di garantire un pari accesso al diritto di cura, a partire dai livelli essenziali di assistenza, che in molte parti del nostro Paese sono ancora disattesi. Questa è la battaglia da condurre oggi per il domani. Agli occhi di chi non riceve aiuti adeguati per il proprio familiare malato, di chi si vede dimezzare le ore di fisioterapia dalla ASL, di chi perde il lavoro per assistere il proprio familiare ma-lato di Sla e continua a farlo con amore, Stamina appare come una sorta di ultima spiaggia. Lì forse potrebbe esserci una soluzione, forse non aiuterà a guarire, forse non curerà neppure alcuni sintomi della malattia, ma certamente non farà sentire soli. Anzi, in questi mesi questi malati sono stati al centro dell’interesse mediatico, ognuno ha potuto raccontare la sua storia, sperando di poterlo fare anche in televisione e magari in qualche trasmissione ad alta audience. Hanno rilasciato interviste, hanno difeso un’idea e una speranza, si sono sentiti vivi e vivi per uno scopo ben preciso. Hanno combattuto per difendere il proprio diritto a vivere e hanno difeso chi prometteva loro questa speranza, sentendolo aggredito da una serie di critiche, che per quanto lucide apparivano loro prive di quella autentica comprensione umana, su cui poggia il fragile edificio delle cure compassionevoli.

Saranno loro a pagare per primi le conseguenze di questa drammatica vicenda, quando si renderanno conto dell’illusione in cui sono vissuti finora e di cui ormai si intravede la conclusione, perché finalmente scienza, magistratura e politica sem-brano aver trovato un punto di intersezione chiaro e concreto. A questo punto la nostra responsabilità, sia a livello sociale che politico, è quella di non lasciarli soli ancora una volta. Ripercorrendo a ritroso la storia dei malati che si sono affidati a Stamina appare chiaro come il punto cruciale è quello in cui hanno percepito come indifferenza, una sorta di non-risposta ai loro bisogni, l’oggettiva incapacità della scienza di offrire loro soluzioni soddisfacenti. Questa non-risposta sul piano

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clinico è apparsa come un vero e proprio rifiuto a livello personale. «Poiché, non avendo gli strumenti adatti, non sono in grado di curarti, allora tu come malato per me non esisti, in quanto io come medico per te non esisto». Per questo bi-sogna distinguere meglio i due piani: quello della presa in carico dei malati nella complessità delle loro esigenze e quello della valutazione scientifica del metodo utilizzato per curarli. Per trasmettere a questi malati un messaggio forte e chiaro: occorre dire che anche se Stamina non funziona, i medici non si sottrarranno affatto alla loro responsabilità di presa in carico. Ma proprio per questo non basta nomi-nare un’altra commissione scientifica, neppure se fosse formata da superesperti assolutamente imparziali. Occorre qualcosa di più proprio sul piano umano della relazione con questi pazienti e i loro familiari. Il libro potrebbe essere l’occasione per cui le ferite dell’incomprensione e le furbizie del mestiere lasceranno spazio a una visione della scienza al servizio dell’uomo: seria e rigorosa quanto serve, ma anche umana e compassionevole.

Il libro pone anche il tema del rapporto con la magistratura, cerca di capire come sia possibile che alcuni magistrati hanno ritenuto di poter, o in alcuni casi di dover prescrivere un metodo terapeutico di cui ignoravano pressoché tutto, sulla base di una richiesta dei familiari, mossi dalla drammatica esperienza di una serie di malattie attualmente incurabili oltre che inguaribili. Si è fatta confusione sul senso e sul valore delle cure compassionevoli e sulla necessità di non lasciare mai soli i malati, accompagnandoli con quelle cure palliative per cui esiste una norma chiara e precisa, che si applica ai minori, rispettandone tutti i diritti, nel pieno e maturo coinvolgimento dei loro genitori. Strano potere quello dei magistrati che include un potere di cura per cui mancano le relative competenze e sostanzia quella medicina «pretensiva», che cancella secoli di studio e di riflessione scientifica, trasformando un sia pur legittimo desiderio in un diritto. In realtà se il malato, e nel caso specifico di Stamina, e/o i genitori, sapessero davvero cosa viene loro somministrato, come è preparato e a quale logico risponde, molto probabilmente non darebbero mai il loro consenso. Il malato dà il suo consenso a una cura, nella speranza che possa essere efficace, credendo in quanto gli viene detto, accettando anche ciò che non comprende fino in fondo, ma sperando che nessuno voglia farne un «caso», mediaticamente efficace, ma clinicamente inefficace. Proprio sulla base del valore chiave che il consenso informato gioca nella relazione medico-paziente, e pur sapendo bene che la decisione del paziente non viene mai presa solo sulla base di argomentazioni scientifico-razionali, si resta stupiti della posizione assunta dal Comitato etico che ha autorizzato questi protocolli nelle diverse strutture ospedaliere. Ciò che ormai è evidente a tutti: la composizione «misteriosa» delle infusioni somministrate ai malati e la loro mancata corrispondenza con quanto si presuppone che dovessero contenere, non può essere sfuggita ai comitati etici di riferimento, solitamente molto rigorosi prima di concedere le autorizzazioni a procedere. Forse, neppure loro sapevano in cosa consistesse esattamente il me-todo, e l’hanno autorizzato, tollerando che i malati potessero dare un consenso

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dis-informato! Infine bisogna proprio riconoscere che la storia, anche la storia della Medicina, ci ha insegnato poco, se dopo poco più di venti anni, analogamente a quanto accaduto al caso Di Bella, siamo ancora una volta a discutere a chi tocchi dimostrare se un sistema funziona o no…

Non tocca al TAR decidere se i ricercatori che fanno parte di un Comitato scientifico sono persone competenti o no… Ma non tocca neppure ai membri di quello stesso comitato dimostrare se un sistema di cura funziona o no, se quel metodo ha le giuste caratteristiche o no… Non è il tribunale amministrativo, né una commissione di esperti, né un comitato scientifico che deve dimostrare l’opportu-nità di una sperimentazione o la validità di un sistema! L’onere della prova tocca a chi propone un determinato metodo, a chi suggerisce un trattamento innovativo. È lui che deve portare prove a favore della propria ipotesi e prove che creano dubbi e perplessità, facendo un bilancio dei vantaggi e delle difficoltà incontrate, riportando dati precisi in cui le reazioni dei pazienti alla terapia proposta sono descritte con l’eloquenza asciutta del linguaggio scientifico. Tocca a chi propone un metodo «rivoluzionario» rispetto a standard tradizionali, riferire in che modo ha misurato i progressi dei propri pazienti con cadenze regolari, gli eventuali drop out, e descrivere gli eventi critici, se si sono manifestati. È lui che deve convincere gli altri con i fatti e con gli strumenti propri della comunicazione scientifica, sotto-ponendosi alla valutazione dei suoi pari sulle migliori riviste scientifiche del settore, per essere certo di avere un metodo scientificamente fondato e delle categorie interpretative corrette e condivisibili. Ciò che è mancato in questa vicenda – e manca ancora! – è proprio l’impegno dei proponenti, che hanno chiesto fin dall’i-nizio una sorta di cambiale in bianco, pretendendo fiducia a priori, e rinunciando a quel naturale impianto narrativo che «spiega» nel senso letterale del termine cosa si sta facendo, come la si sta facendo e cosa ci si aspetta al termine. Uno «spiegare» che chiarisce con pazienza le diverse fasi, le illustra con un linguaggio tecnico ai tecnici e divulgativo ai malati e ai loro familiari, senza mai alterare i fatti e senza confondere sogni e speranze con la nuda realtà dei dati. Tutto il metodo, la sequenza degli eventi, la composizione delle infusioni, sono stati avvolti in una cortina fumosa, dai toni emotivamente coinvolgenti nel caso dei pazienti, ma re-spingenti in altri, soprattutto nei confronti della comunità scientifica, volutamente tenuta a distanza. Si è così creato uno strano capovolgimento di responsabilità e di compiti, per cui sono stati gli esperti-estranei a dover spiegare il metodo, smontandolo pezzo per pezzo e incorrendo nell’accusa di faziosità antiscientifica. Vannoni è riuscito a rimanere tutto il tempo «alla finestra», a giudicare, criticare, ciò che altri facevano al posto suo, evitando di essere lui a esporre in prima persona «fatti e misfatti»: cioè spiegare in cosa consistesse davvero il «suo» metodo, senza aver paura di comprometterne gli eventuali risvolti economici della commercia-lizzazione del metodo Stamina. Trincerandosi nel silenzio, per la paura di essere scippato di un eventuale mancato guadagno, Vannoni ha lasciato agli altri una fatica che avrebbe dovuto essere solo sua. Esclusivamente sua! La vicenda Stamina in

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tutti questi mesi è sempre stata letta come se fosse al centro di un sistema in cui confluiscono richieste di malati gravissimi, protocolli terapeutici privi di evidenze scientifiche, interventi contraddittori di magistrati che da un lato indagano sospet-tando di essere davanti a una truffa colossale e dall’altro prescrivono terapie che non conoscono e così facendo contribuiscono a ingigantire questa stessa truffa. Il tipico intreccio, sempre più frequente, di bioetica e di biopolitica, di scienza biomedica e di biodiritto, da cui scaturiscono interrogativi in gran parte inediti, con cui ci dovremo confrontare nei prossimi anni. Sono problemi anche di natura economica, che la bioeconomia affronta mettendo in primo piano la tutela della vita e della dignità umana, ma che in alcuni casi mostrano rischi e devianze, anche sul piano etico, come accade quando fa commercio della vita umana. Al decisore politico si è chiesto di fare chiarezza in questioni in cui si sono creati veri e propri conflitti di interesse, tutelando il diritto alla salute dei malati, senza perdere di vista le ragioni della scienza. Difendendo gli uni e gli altri da una speculazione, spesso senza scrupoli, condotta sulla pelle di persone già provate dalla malattia e dalla sofferenza. Recentemente, grazie anche a un giornalismo di inchiesta coraggioso e determinato, stanno emergendo tanti, troppi, intrecci con la malaeconomia, un’economia dai risvolti sempre più inquietanti. Per cui la mancanza di rigore scientifico non ha generato solo fantascienza, che ha illuso i malati e le loro famiglie, ma ha supportato anche una complessa operazione di raccolta fondi a vantaggio solo degli addetti ai lavori. Una mistificazione infinita di quei valori umani, come la fiducia e la solidarietà, che fanno da collante a tutta la vita sociale. Stamina ci appare oggi come una sorta di moderno vaso di Pandora, da cui sono fuggiti tanti messaggi negativi, che come un boomerang hanno colpito chi li ha lanciati, dopo aver innescato delle reazioni deflagranti tra i malati e nella stessa classe medica. Ma se in fondo al vaso di Pandora era rimasta la speranza come dono di Giove agli uomini, anche Stamina dopo aver fatto tanto male può aiutarci a ritrovare il senso della speranza, a patto che si provi a elaborare il lutto che ne è derivato. Davanti a tanta mancanza di etica, occorre ricominciare dall’etica dell’ascolto: i malati vogliono essere ascoltati, anche quando non possono essere guariti, anzi, soprattutto allora. Solo un ascolto attento e condiviso, permette di capire la vera natura dei bisogni di cui danno testimonianza le persone affette da malattie ancora inguaribili e permette di tracciare una linea di investimenti scientifici innovativi e densi di prospettive positive. Ma per questo medici e ricercatori, magistrati e gior-nalisti, politici ed amministratori non solo debbono ascoltare i malati, ma debbono anche imparare ad ascoltarsi tra di loro, superando ogni potenziale conflittualità, per arricchire la propria cultura specifica con quel sapere sapienziale che solo il senso di una profonda umanità ci trasmette. Dobbiamo superare i confini della cultura dei diritti individuali, che ha generato un’ingombrante forma di medicina «pretensiva», per cui ogni desiderio diventa diritto e lo Stato non può non farsene garante; dobbiamo invece approdare a un nuovo modello di medicina partecipativa, più efficace e trasparente, in cui la salute è davvero un bene che appartiene all’intera

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collettività, che deve assumerne la piena responsabilità. La medicina partecipativa ha il suo incipit nell’alleanza medico-paziente, ma va oltre l’intensità e l’esclusività di questa relazione, per abbracciare la salute pubblica come bene di tutti, con i suoi criteri, i suoi costi e anche i suoi vantaggi. Se il caso Stamina si può ritenere concluso nei suoi aspetti formali alcune questioni rimangono aperte. Ormai è questa una vera e propria battaglia tra scienziati.

Quale destino avranno questi malati non è dato saperlo. È necessaria per loro una presa in carico. Sono le vittime principali di questa storia. Di loro ci si vuole far carico nel miglior modo possibile, ma finora il caso Stamina ha contribuito a fare solo un gran pasticcio: i criteri scientifici sembrano collidere con i criteri umani, e gli uni e gli altri appaiono estranei rispetto ai criteri etici che dovrebbero sempre e comunque orientare l’attività della ricerca e l’attività clinica, nel quadro di un più ampio e per certi versi più complesso impegno sociale di tutti. Davanti alle nuove sfide che la scienza medica pone sia alla bioetica che alla biopolitica, i cittadini devono reagire con una rinnovata consapevolezza, che passa anche attraverso le categorie di un formazione scientifica aggiornata.

Il problema che queste famiglie pongono è solo una parte del grande tema delle malattie rare e dei malati affetti da malattie rare. Per loro è stato tracciato un piano specifico proprio per le malattie rare: Europlan II, che vuole potenziare la ricerca, soprattutto per quanto attiene ai cosiddetti farmaci orfani. L’attenzione per i malati rari, come sono tutti quelli che finora hanno avuto accesso al tratta-mento con Stamina, va ben oltre Stamina stesso, comprende interventi sul piano socio-sanitario, punta a creare delle reti tra i pazienti riuniti in associazioni di ca-tegoria, specifiche per patologia, e con le società scientifiche di riferimento, lavora per accelerare la sperimentazione di farmaci innovativi. Sta diventando sempre più urgente dare una forte accelerazione allo sviluppo del piano nazionale per le malattie rare: lo chiedono sia le associazioni familiari dei pazienti che le società scientifiche.

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HaNNo CoLLaBorato a QUeSto NUmero

• aNDrea BiaNCHiEconomista, ha svolto la propria attività inizialmente nel campo degli stu-

di e della ricerca applicata al settore industriale e, successivamente, ricoprendo incarichi di grande responsabilità nella Pubblica Amministrazione. Nella funzione prima di direttore generale e poi di capo di dipartimento per la competitività del Ministero dello Sviluppo Economico ha ideato e progettato il programma Industria 2015 per il rilancio della competitività del sistema industriale. Già capo Direttore generale del Ministero dello Sviluppo Economico, attualmente ricopre l’incarico di Direttore area politiche industriali presso la Confindustria.

• PaoLa BiNettiSpecialista in Psicologia Clinica e in Neuropsichiatria Infantile. Psicoterapeuta.

Docente ordinario di Storia della Medicina al Campus Bio-Medico di Roma, con particolare attenzione alle problematiche della Pedagogia Medica e della Bioetica. Membro del Comitato Nazionale di Bioetica, Past President della Società Italiana di Pedagogia Medica. Autore di oltre 300 articoli su riviste nazionali. È presidente dell’Associazione Etica & Democrazia, membro di numerose società scientifiche nazionali ed internazionali. Presente nel Board editoriale di numerose riviste nazionali ed internazionali. Deputato della Repubblica Italiana (XVII legislatura), è membro della XII Commissione Affari sociali e presidente dell’intergruppo parlamentare per le malattie rare. Ha presentato numerosi disegni di legge in ambito sociale e sanita-rio. Molti di questi sono specificamente rivolti alla famiglia. È membro del Comitato Scientifico de L’Arco di Giano per la pedagogia medica.

• BarBara CoNtiNiNata a Milano nel 1961, è una funzionaria delle organizzazioni internazionali,

esperta di politica e sicurezza internazionale. Laureatasi in Scienze politiche e in Lingue e giapponese all’Università di Napoli “L’Orientale”, è esperta di peacekeeping, negoziazioni internazionali e gestione delle emergenze. Ha conseguito diversi master nazionali ed internazionali relativi agli studi di negoziazione internazionale, contrattua-listica industriale, cooperazione e sviluppo in aeree di crisi, management, marketing e gestione d’azienda. Parla e scrive correttamente inglese, francese, spagnolo, giapponese, e capisce il serbo-croato e l’arabo. Ha lavorato per più di ventisette anni all’estero in aree di crisi e paesi in via di sviluppo e non. Senatore della Repubblica dal 2008 al 2013 e per tutta la legislatura presidente del Comitato parlamentare di amicizia Italia-Iraq,

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paese nel quale torna nel novembre 2012 per presiedere il Congresso mondiale sui prigionieri palestinesi in Israele. Dal 2009 eletta all’unanimità presidente degli Ospedali italiani nel Mondo e suggella l’incontro con tutti i presidenti in occasione dell’assemblea generale del 2010, che organizza a Ginevra presso l’O.M.S.

• marCeLLo CriVeLLLiNiProfessore di Analisi e organizzazione di Sistemi Sanitari presso la Facoltà di

Ingegneria dei Sistemi del Politecnico di Milano. Autore di numerose pubblicazioni sulle principali riviste internazionali e autore di libri di organizzazione e analisi dei sistemi sanitari dei principali paesi industrializzati.

Ha creato e dirige il Laboratorio di Analisi della Postura e del Movimento “L. Divieti” presso il Dipartimento di Bioingegneria del Politecnico.

1979- 987 Deputato e membro della Commissione Bilancio della Camera. È autore di trasparenza e di studi sul Bilancio della Camera dei deputati.

1990-92 Consigliere presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, in rela-zione a problemi di controllo e semplificazione dei documenti pubblici, trasparenza, informatizzazione e comunicazione dei dati.

1994-2000 Commissario Straordinario dell’I.N.R.C.A., Istituto Nazionale di Ricovero e Cura per Anziani – IRCCS che opera nel settore della ricerca e dell’as-sistenza in campo geriatrico con sedi in sette regioni italiane (Marche, Lombardia, Toscana, Lazio, Molise, Calabria, Sardegna).

2001-2002 Consulente per l’analisi del sistema sanitario regionale della Lombardia.

2003-2005 Direttore di molti corsi di formazione manageriale e past-uni-versitaria sulla qualità dei servizi.

Coordinatore di progetti internazionali di ricerca pluriennali (TRAMA, NICE) nel settore della riabilitazione e dell’uso di tecnologie avanzate per la salute.

Nel 2010 fa parte del Consiglio di Amministrazione del Politecnico.È fra i responsabili del progetto i-MOTION, per l’uso di tecnologie innova-

tive del monitoraggio ed il supporto socio-assistenziale di persone anziane che vivono sole.

Membro del Consiglio di Amministrazione dell’Azienda di Servizi alla Persona Pio Albergo Trivulzio di Milano.

Dal 2012 consulente della Commissione parlamentare di inchiesta sull’ef-ficacia e l’efficienza del Servizio Sanitario Nazionale.

• FraNCeSCa D’amatoFrancesca D’Amato è nata a Salerno, il 17 gennaio 1987, laureata in Giuri-

sprudenza presso la Libera Università Maria SS. Assunta (LUMSA) di Roma con una tesi in Biogiuridica dal titolo: “I grandi prematuri: aspetti bioetici e biogiuridici”

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(marzo 2011). Successivamente ha conseguito il Diploma di Master di II livello in “Bioetica e Diritti Umani” presso l’Istituto Internazionale di Teologia Pastorale Sa-nitaria “Camillianum” e la Libera Università Maria SS. Assunta (LUMSA) di Roma, discutendo una tesi sugli aspetti bioetici e biogiuridici relativi al fenomeno dei gemelli congiunti (ottobre 2012); è, attualmente, dottoranda di ricerca in Diritto Pubblico – Indirizzo di Filosofia del Diritto e Teoria Generale dello Stato - presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata (novembre 2012).

• mariaPia GaraVaGLiaMariapia Garavaglia, laureata all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

Nel 1979 è stata eletta alla Camera dei deputati, dove è stata rieletta fino al 1994. Dal 1988 al 1992 è stata Sottosegretario di Stato al Ministero della Sanità e dal 1993 al 1994 Ministro della Sanità. Dal 1995 la carica di Commissario straordina-rio della Croce Rossa Italiana, divenendone poi, fino all’ottobre 2002, Presidente Generale. Nel 1997 è stata eletta Vice Presidente della Federazione Internazionale delle Società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa e nel dicembre 2000 Presidente dell’Ufficio di Coordinamento tra le Società di Croce Rossa Comunitarie e le Istituzioni dell’Unione Europea.

Medaglia d’oro al merito per la Sanità pubblica. Tra le altre onorificenze Cava-liere di Gran Croce della Repubblica Italiana. Dal 24 giugno 2003 al 21 marzo 2008 Vice Sindaco di Roma. Dal maggio 2008 al marzo 2013 Senatrice della Repubblica.

Direttore della Rivista di Medical Humanities L’Arco di Giano. Presidente Istituto Superiore di Studi Sanitari Giuseppe Cannarella. Partecipa a diversi enti e fondazioni no profit.

• CarLo FaVarettiCarlo Favaretti, medico specialista in igiene e medicina preventiva, è docente

a contratto di organizzazione dei servizi sanitari presso la Facoltà di medicina e chirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Nell’Istituto di Sanità Pubblica della stessa Università è senior advisor del Centro per la Valutazione della Tec-nologia Sanitaria e membro del comitato direttivo del Centro sulla Leadership in medicina.

È stato direttore generale di aziende sanitarie per oltre diciotto anni nella Regione Veneto, nella Provincia autonoma di Trento e nella Regione autonoma Friuli Venezia Giulia.

La sua produzione scientifica è orientata ai temi della promozione della salute, della valutazione delle tecnologie sanitarie, dello sviluppo di sistemi qualità nelle Aziende sanitarie, della programmazione e dell’organizzazione sanitaria.

È presidente della Società Italiana di Health Technology Assessment.

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• GiaN Piero JaCoBeLLiGiornalista professionista, è stato caporedattore delle riviste “Civiltà delle

Macchine” e “Futuribili”, condirettore della rivista “Holding” e, dal 1988, Diret-tore responsabile di “Technology Review”, l’edizione italiana della rivista del Massachusetts Institute of Technology. Opera anche come consulente d’imma-gine e promozione, curando tra l’altro grandi esposizioni in Italia e all’estero e realizzando numerosi cataloghi e libri d’arte sui rapporti tra impresa e cultura. Dal 2000 si è dedicato all’insegnamento universitario, tenendo corsi di filosofia ed etica della comunicazione, semiotica della moda, della marca e del turismo, sociologia dei processi culturali presso le università Sapienza di Roma, Roma Tre, Roma Tor Vergata, Luiss, IULM. Ha pubblicato Scomunicare (Meltemi, 2003), Storia di Jad (Jader, 2006), Le mosse del cavallo (Rubbettino, 2008), Babele o della traduzione (Franco Angeli, 2010), La corna (Bevivino, 2010), Il posto improprio (Franco Angeli 2011).

• LoreNzo LeoGraNDeNato a Castellaneta(TA) il 29 maggio 1971. Laureato in Ingegneria Infor-

matica (Bioingegneria). Ha lavorato presso l’Ingegneria Clinica del Policlinico San Matteo di Pavia. Attualmente lavora presso l’Unità di Valutazione delle Tecnolo-gie e Ingegneria Clinica del Policlinico A. Gemelli. Esperto in Valutazione delle tecnologie Sanitarie (HTA) ed Ingegneria Clinica. Socio Fondatore della Società Italiana di Health Technology Assessment (SIHTA). Attualmente è Presidente della Associazione Italiana Ingegneri Clinici (AIIC). Docente a contratto presso l’Università Cattolica. Docente di Ingegneria Clinica e di HTA, con particolare riferimento alla Pianificazione degli Investimenti, nei principali Master di II Livello in ambito sanitario (Università Cattolica, Luiss, Università di Pisa, Università di Siena, Politecnico di Milano, Sole24ore). Relatore presso convegni nazionali ed internazionali nell’ambito della Valutazione delle tecnologie sanitarie e della ingegneria clinica. Membro della Commissione di Bioingegneria all’Ordine degli Ingegneri delle Provincia di Roma. Autore di diverse pubblicazioni sulle riviste specializzate.

• eNriCo maSSaLaurea in Medicina e Chirurgia presso l’Università di Padova nel 1976. Spe-

cialità in Cardiologia presso l’Università di Padova nel 1979. Medico di Medicina Generale ASL 15 – Regione Veneto dal 1979. Animatore di formazione della Società Italiana di Medicina generale dal 1985. Animatore di formazione della Regione Veneto dal 1986. Formazione in Metodologia della ricerca 1997-2000. Master in Management sanitario presso l’Università Bocconi. Tutor della Scuola di formazione Specifica in Medicina generale.

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• aLeSSaNDro mazzUCCoNato a Venezia il 04/02/1944, Professore Ordinario di Cardiochirurgia presso

l’Università di Verona. Rettore della stessa dal 2005 al 2013. Laureato in Medicina e Chirurgia all’ Università di Padova il 23 luglio 1968, Assistente Universitario presso l’Istituto di Patologia Generale dell’ Università di Padova nel 1968-1969. Dal 1970 Assistente Universitario di Chirurgia Cardiovascolare e, dal 1983, Professore Associato di Cardiochirurgia Pediatrica presso l’Università di Padova. Dal 1995, Professore Ordinario di Cardiochirurgia e direttore del programma di Trapianto Cardio-polmonare presso l’Università di Verona. È specialista in Chirurgia Generale, in Chirurgia Cardiovascolare e in Chirurgia Toracica. Ha ottenuto l’European Board of Cardiothoracic Surgery nel 1998. È past president della Società Italiana di Chirurgia Cardiaca, e della “Aldo R. Castaneda” Society for Pediatric Cardiovascular Surgery, membro della Società Italiana di Cardiologia Pediatrica, della European Association for Cardio-thoracic Surgery, è stato Councilor e Chairman del Mem-bership Committee della EACTS dal 1997 al 2000. È autore di 394 articoli originali su riviste nazionali e internazionali, di 200 abstract pubblicati in congressi nazionali e internazionali, di 150 presentazioni a congressi nazionali e internazionali, oltre a 5 capitoli di libri e la edizione di 2 monografie.

• SteFaNo rimoNDiStefano Rimondi è Presidente di Assobiomedica dal 2011. Ingegnere elettro-

nico, ha da sempre dedicato la sua attività professionale al settore dei dispositivi medici con diversi ruoli operativi e gestionali. Dal 2001 al 2008 in Sorin Group ha ricoperto vari incarichi tra cui quello di amministratore delegato e responsabile delle attività del Gruppo per il mercato italiano. I settori merceologici di cui si è interessato sono molteplici dalla nefrologia e dialisi all’urologia, dalla cardiologia e cardiochirurgia all’anestesia e rianimazione, dall’ematologia alla diagnostica in vitro. Dal 2009 al 2012 è stato amministratore delegato di Bellco srl, società creata dallo spin off di Sorin del settore nefrologia e dialisi. Attualmente collabora con un’impresa italiana del settore cardio. È stato anche Presidente della Commissione Sanità di Confindustria Emilia-Romagna. In Assobiomedica Rimondi è stato Vice-presidente con la delega di coordinatore dei rapporti con le istituzioni regionali.

• mariNa roSSiPsicologa-psicoterapeuta, dal ’93 e formatore professionale coordinatore,

svolge a Mestre attività libero-professionale dedicandosi principalmente al miglio-ramento degli scambi relazionali e comunicativi all’interno del nucleo familiare, quando la condizione genitoriale e di coppia è particolarmente complessa. Ha collaborato con enti ed istituzioni socio-sanitari pubblici e privati, incaricata, per la Regione Veneto, della realizzazione e gestione di progetti attinenti a materie

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emergenti soggette a programmazione di sistema, quali la Medicina del dolore e le Cure palliative, il Progetto osteoporosi, la Neuropsichiatria infantile e la Psicologia dell’età evolutiva, il Progetto incontinenza urinaria. Da tempo sostiene esperienze di collaborazione diretta fra Medico di Medicina Generale e Psicologo nelle Cure Primarie, consapevole degli importanti limiti che derivano dall’ignorare il gioco delle soggettività nella relazione clinica medico-paziente.

• roSaNNa tarriCoNeDirettore del CERGAS e Professore Associato in Economia delle Amministra-

zioni Pubbliche in Università Bocconi. é stata Direttore del Master in International Healthcare Management, Economics and Policy (MIHMEP) della SDA Bocconi fino al 2012. Laureata in Economia aziendale all’Università Bocconi, ha ottenuto il titolo di MSc e PhD in Economia all’University of London. Le maggiori aree di ricerca sono: HTA, valutazioni economiche di programmi sanitari, economia sanitaria, management in sanità, politica sanitaria. È autrice di molte pubblicazioni scientifiche in economia e politica sanitaria. È Direttore Scientifico dell’European Health Technology Institute for Socio-Economic Research (EHTI).

• Patrizia toiaNata a Pogliano Milanese (Milano); laureata in Scienze politiche all’Università

degli Studi di Milano, si specializza in Pianificazione Strategica all’Università Bocconi. Dirigente della Regione Lombardia. Consigliere regionale in Lombardia, e assessore regionale alla sanità. Eletta a Roma alla Camera dei Deputati e al Senato della Re-pubblica. Sottosegretario al Ministero degli Affari Esteri. Ministro per le Politiche Comunitarie. Ministro per i Rapporti con il Parlamento. Dal 2004 parlamentare europea, Vice Presidente della Commissione per l’Industria, la Ricerca e l’Energia; membro della Delegazione all’Assemblea parlamentare paritetica ACP-UE; membro sostituto della Commissione per lo sviluppo e la Delegazione per le relazioni con il Mercosur. È vicepresidente del Gruppo dell’Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici al Parlamento europeo (S&D).

• marCo traBUCCHiÈ professore ordinario nell’Università di Roma “Tor Vergata”. Specialista in

psichiatria. È Presidente dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria ed è past pre-sident della Società Italiana di Gerontologia e Geriatria. È membro del comitato scientifico de “L’Arco di Giano” per le neuroscienze.

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ii nd i ce

EDITORIALE di Mariapia Garavaglia .................................................................................. pagina 3

DOSSIER - TECNOLOgIE IN SANITà: INNOVAZIONE E SVILUPPO a cura di Mariapia Garavaglia

Il valore generato dalla localizzazione in Italia degli impianti di produzione di alta tecnologiadi Rosanna Tarricone ....................................................................................... pagina 7

Le nuove tecnologie e la personalizzazione della medicinadi Marco Trabucchi ........................................................................................... pagina 15

Innovazione e ricerca per Il rilancio dei settori High Techdi Andrea Bianchi .................................................................................................. pagina 23

Crescere puntando sull’innovazione e le tecnologie sanitarie di Stefano Rimondi .............................................................................................. pagina 29

Tecnologie avanzate: sfide della ricerca in Europa di Patrizia Toia ......................................................................................................... pagina 37

Medicina tra umanesimo e tecnologia di Alessandro Mazzucco .................................................................................. pagina 45

Innovazione tecnologica e sostenibilità di Carlo Favaretti ................................................................................................ pagina 55

Tecnologie sanitarie: uso efficace e razionale delle risorse di Marcello Crivellini .......................................................................................... pagina 63

Valutare e gestire tecnologie sempre piu’ complesse: competenze necessarie di Lorenzo Leogrande ...................................................................................... pagina 69

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ATTUALITà

Eccellenza, ovvero come spingersi fuori, senza cadere di Gian Piero Jacobelli ....................................................................................... pagina 83

ospedali italiani nel mondo di Barbara Contini ............................................................................................... pagina 89

Ipotesi di progetto sperimentale per la collaborazione MMG psicologo/a nelle cure primarie di Marina Rossi e Enrico Massa .................................................................. pagina 93

Gemelli congiunti e aspetti bioetici di Francesca D’Amato ...................................................................................... pagina 103

RECENSIONI

Marco Trabucchi, I segreti di una vita sana e lunga, il Mulino .................................................................................................................... pagina 121

Un libro per pensare e per evitare errori già commessi … stando dalla parte dei malati ....................................................................... pagina 125

HAnno CoLLABoRATo A QUESTo nUMERo ........................... pagina 133A b b o n a m e n t i

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Gli stili di vita tra prevenzione e responsabilitàVolume n° 47 - PRIMAVERAEditoriale di Massimo Valsecchi

L’autonomia del paziente.Paradigma bioetico e politico dellamodernità occidentaleVolume n° 48 - ESTATEEditoriale di Alberto Bondolfi

Vecchiaia e qualità della vitaVolume n° 49 - AUTUNNOEditoriale di Bernardino Fantini eMatteo Borri

Rischi e benefici dellenanotecnologieVolume n° 50 - INVERNOEditoriale di Mariapia Garavaglia

2006

Evoluzionismo e humanitiesVolume n° 43 - PRIMAVERAEditoriale di Gilberto Corbellinie Alessandro Pagnini

Corpo e cura di seVolume n° 44 - ESTATEEditoriale di Adriano Fabris

Accertare l’identita. Problemi di biopoliticaVolume n° 45 - AUTUNNOEditoriale di Francesco D’Agostino

I sistemi sanitari tra diritto alla prestazionee tutela del pazienteVolume n° 46 - INVERNOEditoriale di Pietro Rescigno e Aurelio Donato Candian2

005

L’AIDS in Africa ed oltreVolume n° 51 - PRIMAVERAEditoriale di Marco Trabucchi

Diritti e doveri dell’ospedaleVolume n° 52 - ESTATEEditoriale di Marco Trabucchi

Modelli di corpoVolume n° 53 - AUTUNNOEditoriale di Massimo Baldini

Le dichiarazioni anticipate di trattamentoVolume n° 54 - INVERNOEditoriale di Francesco D'Agostino2

007

L'errore in MedicinaVolume n° 55 - PRIMAVERAEditoriale di Alessandro Pagnini

Le vaccinazioni: un modellodi medicina che si evolveVolume n° 56 - ESTATEEditoriale di Massimo Valsecchi

L'Arco di Giano, Le sfide morali del post-umanoVolume n° 57 - AUTUNNOEditoriale di Salvino Leone

Federalismo in sanità:opportunità o salto nel buio?Volume n° 58 - INVERNOEditoriale di Walter Ricciardi2008

Medical Education: luci ed ombreVolume n° 61 - AUTUNNOEditoriale di Paola Binetti

Medicina di genereVolume n° 62 - INVERNOEditoriale di Marco Trabucchi

Lettura darwiniana della medicinaVolume n° 59 - PRIMAVERAEditoriale di Bernardino Fantini e Fabio Zampieri

Culture religiose e medicinaVolume n° 60 - ESTATEEditoriale di Adriano Fabris

2009

Le emozioni in medicina e le medicinadelle emozioniVolume n° 63 - PRIMAVERAEditoriale di Bernardino Fantini e Alessandro Pagnini

Dalla lotta alla malattia alla promozionedella saluteVolume n° 64 - ESTATEEditoriale di Mario Bertini

Genomica e Sanità Pubblica:le sfide per la Medicina PreventivaVolume n° 65 - AUTUNNOEditoriale di Walter Ricciardie Bruno Dalla Piccola

I linguaggi della BioeticaVolume n° 66 - INVERNOEditoriale di Salvino Leone

2010

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2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013

Malattie rare: conoscere per assistereVolume n° 71 - PRIMAVERAEditoriale di Bernardino Fantinie Domenica Taruscio

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Salute e benessere. Un giusto stiledi vita per stare beneVolume n° 73 - AUTUNNOEditoriale di Paola Binetti

A che gioco giochiamo?Gioco e giocatori d’azzardoVolume n° 74 - INVERNOEditoriale di Paola Binetti

2012

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La medicina tra mortalità e immortalitàVolume n° 77 - AUTUNNOEditoriale di Francesco D’Agostino

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2013

Mangiare fra cultura e naturaVolume n° 67 - PRIMAVERAEditoriale di Paolo Rossie Laura Dalla Ragione

La medicina dell’anziano tra limitie opportunitàVolume n° 68 - ESTATEEditoriale di Marco Trabucchi

Politica e SanitàVolume n° 69 - AUTUNNOEditoriale di Paola Binetti

Psicologia ed economia della felicità:verso un cambiamento dell’agire politicoVolume n° 70 - INVERNOa cura di Mario Bertini e Paola MamoneIntroduzione di Mariapia Garavaglia

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Tecnologia in sanità: innovazione e sviluppoA cura di Mariapia Garavaglia

I grandi progressi tecnologici, che si sono verificati negli ultimi due decenni, hanno avuto significative ricadute sul benessere collettivo, perché hanno permesso di affrontare situazioni patologiche comples-se, che non potevano essere gestite e guarite con i mezzi tradizionali. Ora è giunto il momento per una revisione critica del percorso compiuto, non per negarne l’importanza, ma, al contrario, per rin-forzarne le concrete possibilità di rispondere con mezzi nuovi alle situazioni di bisogno. è quindi particolarmente significativo affrontare il rapporto tra tecnologia e applicazione nel singolo caso, costruendo un modello di lavoro che vede la tecnologia stessa come strumento per avvicinarsi alla specificità clinica del singolo cittadino ammalato.

Si aprono scenari inediti e di grande rilievo per tecnologie inserite nei processi di cura, apportatrici di un rilevante valore aggiunto; di queste i sistemi sanitari dei paesi avanzati non potranno fare a meno. Peraltro attorno all’innovazione tecnologica deve crescere anche la preparazione dei professionisti, sia sul piano strettamente operativo, sia su quello dell’inserimento delle nuove strumenta-zioni nella logica di una clinica razionale.Le parole chiave del volume sono: organizzazione, valutazione, health technology assessment, nel contesto italiano.

€ 18,00 i.i.ISSN 1721-0178 Post

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Istituto per l’Analisi dello Stato Sociale

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