LA MITIGAZIONE DEL CAMBIAMENTO CLIMATICO:
ACCORDI INTERNAZIONALI, DILEMMI, POLITICHE INTERNE
PER RIDURRE LA PRODUZIONE DEI GAS AD EFFETTO SERRA
(Versione Provvisoria: 6.3.06)
di
Daniele Alfani*
*Daniele Alfani si è laureato in Economia nell’anno accademico 2004-2005. Questo lavoro attinge principalmente
alla sua tesi di laurea ‘La politica Economica del Cambiamento Climatico, Fra Istituzioni, Incentivi e Lobbying’.
I
Indice
Introduzione
L’effetto serra...............................................................................................................................p.1
Le conseguenze dell’effetto serra: alcune valutazioni....................................................................p.7
Cap.I: L’UNFCCC ed il Protocollo di Kyoto
I.1 Premessa ..............................................................................................................................p.13
I.2 Il Protocollo di Kyoto ed i suoi target di riduzione (o limitazione) delle emissioni ................p.13
I.3 Un mercato delle emissioni per aiutare chi non riesce a centrare il proprio target ..................p.17
I.4 La ‘Joint Implementation’ ....................................................................................................p.20
I.5 Il ‘Clean Development Mechanism’ .....................................................................................p.23
I.6 Qualche aspetto del CDM da non dimenticare, nel pronunciarsi sulla sua utilità per la
protezione del clima e per lo sviluppo ..................................................................................p.27
I.7 I target ed il ‘sequestro’ del carbonio tramite i ‘sink’ ............................................................p.33
I.8 Le disposizioni del Protocollo riguardo ai sink .....................................................................p.36
I.9 Le disposizioni del Protocollo riguardo alla sua propria entrata in vigore..............................p.44
I.10 Il problema dell’enforcement dei limiti alle emissioni.........................................................p.49
II
Capitolo II: Il Protocollo di Kyoto sullo sfondo dei dilemmi posti dal trade-off fra
efficienza ed equità intergenerazionale nell’allocazione intertempo-
rale delle emissioni
II.1 Premessa.............................................................................................................................p.50
II.2 Efficienza ed andamento temporale delle emissioni.............................................................p.50
Capitolo III: Riduzione a breve termine delle emissioni: le ‘no regret policies’ e l’uso
congiunto di quantità e prezzi come palliativi alla carenza di volontà
collettiva
III.1 Premessa ...........................................................................................................................p.64
III.2 Le ‘no regret policies’........................................................................................................p.70
III.3 Oltre le no regret policies, ma con prudenza: l’uso congiunto dei prezzi e delle quantità
nel controllo delle emissioni .......................................................................................................p.77
Capitolo IV: Società, interessi particolari, abbattimento delle emissioni negli Stati Uniti
IV.1 Premessa ...........................................................................................................................p.92
IV.2 Politica climatica e gruppi di interesse ...............................................................................p.98
IV.3 Politica climatica e gruppi di interesse: money buys influence? .......................................p.105
IV.4 Volontà collettiva e riduzione delle emissioni negli Stati Uniti.........................................p.118
IV.5 Verso il controllo delle emissioni negli Stati Uniti? .........................................................p.130
III
Capitolo V: L’innovazione tecnologica
V.1 Premessa .........................................................................................................................p. 133
V.2 L’importanza del contributo collettivo all’innovazione tecnologica ...................................p.135
V.3 Lo svantaggio delle fonti delle fonti rinnovabili nell’allocazione delle risorse alla ricerca .p.136
V.4 Un compito per gli ambientalisti .......................................................................................p.138
Bibliografia
1
Introduzione
L’effetto serra
Il 30% circa della radiazione solare viene riflesso dalle nuvole e dalle polveri presenti
nell’atmosfera: di conseguenza, solo il 70% dell’energia inviata dal Sole la attraversa e
raggiunge la superficie terrestre. La potenza di questa radiazione, da sola, non riuscirebbe a far si
che la temperatura media della Terra oltrepassi i 18 gradi sotto zero. Tuttavia, il calore
proveniente dal Sole viene riflesso dalla superficie terrestre e dagli oceani. Questa radiazione
diretta verso lo spazio (in senso contrario a quella solare) viene in parte trattenuta dall’atmosfera,
che così contribuisce ad aumentare le temperature terrestri. Più precisamente, alcuni fra i gas dei
quali è composta l’atmosfera, interagendo con la radiazione infrarossa che viene dalla superficie
terrestre, portano la temperatura del pianeta verso la media di circa 15 gradi. Si comprende
dunque l’importanza per la vita sulla Terra di questi gas, collettivamente noti come ‘gas serra’,
dal nome dell’effetto di riscaldamento che producono (‘effetto serra’)… Non va però
dimenticato che ad un aumento delle concentrazioni dei gas serra nell’atmosfera corrisponde,
ceteris paribus, un aumento delle temperature medie. Per esempio, l’anidride carbonica (CO2) è
un gas serra, e Venere, la cui atmosfera ne è composta per il 98% (contro lo 0,035% di quella
terrestre), ha una temperatura media di ben 430 gradi. V. Navarra, Pinchera (2000).
Secondo la National Academy of Sciences degli Stati Uniti, fra i gas serra direttamente
influenzati dalle attività umane, quelli più importanti sono: la già menzionata anidride carbonica,
il metano, l’ozono, il protossido di azoto, i clorofluorocarburi (CFC). Gli aerosols – particelle
microscopiche, solide o liquide, sospese in un gas – sono anch’essi in grado di incidere sul
clima; v. NAS.
Le carote di ghiaccio estratte in Groenlandia ed Antartide ci dicono che le concentrazioni di
anidride carbonica nell’atmosfera hanno spaziato fra le quasi 190 ppm (parti per milione) delle
età glaciali e le quasi 280 ppm dei periodi interglaciali. Nel presente periodo interglaciale –
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iniziato all’incirca 10000 anni fa – le concentrazioni non si sono spinte molto al di sopra delle
280 ppm (parti per milione), fino alla Rivoluzione Industriale. Nel 1958, anno in cui sono
iniziate le rilevazioni atmosferiche sistematiche, le concentrazioni avevano raggiunto le 315
ppm. Attualmente si trovano sulle 370 ppm, e aumentano con un passo di 1,5 ppm all’anno
(leggermente più alto di quello dei primi anni in cui sono state effettuate misurazioni). Gli
aumenti vanno imputati alle attività umane, e sono stati causati principalmente dalla combustione
dei combustibili fossili. Essa, in verità, ha comportato un rilascio di anidride carbonica doppio
rispetto a quello che occorrerebbe per dar conto dei medesimi aumenti. Infatti, al rilascio di
anidride carbonica ha contribuito pure la deforestazione tropicale, e l’eccesso di anidride
carbonica (rispetto a quello necessario per giustificare la crescita delle concentrazioni) è stato
assorbito dagli oceani e dalla biosfera terrestre (ibid.).
Circa 2/3 delle attuali emissioni di metano, che è un gas serra al pari della CO2, sono dovute
ad attività come la coltivazione del riso, l’allevamento del bestiame, l’estrazione di carbone,
l’uso di discariche, l’uso del gas naturale. Si tratta di attività che hanno tutte registrato un
incremento negli ultimi 50 anni (ibid.).
Nell’atmosfera più alta, la ‘stratosfera’, L’ozono svolge un ruolo altamente benefico. Uno
strato sottile di questo gas, infatti, intercetta la radiazione ultravioletta che dal Sole si dirige
verso la Terra, proteggendoci dai danni provocati da questi raggi. Gli scienziati hanno osservato
– prima sopra il Polo Sud, poi anche nell’emisfero opposto – che lo strato di ozono è sempre più
rarefatto. Responsabili di tale rarefazione sono alcuni composti chimici – in primo luogo i
clorofluorocarburi (CFC) – non esistenti in natura e destinati ad applicazioni industriali. Dal
1987, anno in cui è stato siglato il Protocollo di Montreal, c’è stato un impegno internazionale
alla graduale rimozione dal commercio di queste sostanze. Esse sono fra l’altro dei gas serra. Le
concentrazioni di CFC, dopo l’apparizione dei medesimi nel 1928, sono aumentate con costanza,
raggiungendo il proprio picco nei primi anni ’90. Gli idrofluorocarburi, con i quali sono stati
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sostituiti i CFC, rientrano anch’essi nella categoria dei gas serra – v. Navarra e Pinchera, assieme
a NAS.
Alla piccola frazione di ozono stratosferico che raggiunge l’atmosfera più bassa (il quale è
detto pertanto ‘troposferico’) si è aggiunto anche, nel ventesimo secolo, quello creato localmente
dall’azione dei raggi solari sui gas di scarico dei veicoli a motore, dalle centrali elettriche
alimentate a carbone, dalla combustione della biomassa; v. NAS.
Il protossido di azoto è formato da parecchi processi microbici che avvengono nel suolo e
nell’acqua, compresi quelli che riguardano i fertilizzanti. Le concentrazioni del protossido di
azoto sono cresciute approssimativamente del 13% negli ultimi 200 anni (Ibid.).
Molti scienziati sostengono che detta crescita delle concentrazioni dei gas serra potrebbe far
aumentare troppo l’intensità dell’effetto serra, e dunque alterare a sfavore del genere umano –
causa il riscaldamento globale che deriverebbe dall’aumento – il clima.
Il clima è lo stato medio dell’atmosfera e della terra o acqua sotto di essa su scale temporali
di stagioni o più estese. E’ descritto dalla statistica di un insieme di variabili atmosferiche e di
superficie, quali temperatura, precipitazione, vento, umidità, nuvolosità, umidità del suolo,
temperatura del mare in superficie, concentrazione e spessore del ghiaccio in mare. Anche se il
clima ed il suo cambiamento vengono generalmente presentati in termini di media globale, ci
possono essere forti scostamenti locali e regionali dalle medie globali. Questi scostamenti sono
in grado di mitigare o accentuare l’impatto di un eventuale cambiamento climatico nelle
differenti parti del mondo – v. NAS.
Il Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (Intergovernamental Panel on
Climate Change; IPCC, d’ora in poi) e un gruppo internazionale di scienziati che è stato posto in
essere dalle Nazioni Unite. Il suo compito è rendere di dominio generale – tramite rapporti
diffusi con cadenza quinquennale – i risultati prodotti dalla ricerca sul cambiamento climatico
nei cinque anni precedenti. Il primo rapporto è stato pubblicato nel 1990, il secondo nel 1996; il
terzo rapporto è stato pubblicato nell’agosto 2001 dalla Cambridge University Press. L’IPCC
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non ha dunque una propria attività di ricerca, ma si limita a raccogliere e riportare quella degli
scienziati di tutte le nazioni.
L’IPCC è praticamente certo che nel ventunesimo l’influsso dominante sui trend delle
concentrazioni atmosferiche di CO2 sarà quello delle emissioni di anidride carbonica alimentate
dall’impiego dei combustibili fossili; ha inoltre attribuito al futuro livello delle concentrazioni un
range che spazia dalle 540 alle 970 ppm – non escludendo pertanto che le concentrazioni
possano arrivare ad essere tre volte maggiori di quelle attuali. Lungo il periodo 2000-2100,
concentrazioni più elevate dei gas serra accrescerebbero le temperature globali medie fra 1,4 °C
e 5,8 °C, sempre secondo l’IPCC. Una delle molteplici conseguenze negative che esso annette
alla crescita delle temperature è l’innalzamento del livello medio del mare fra gli 0,09 e gli 0,88
cm, nel presente secolo Aldly et alt. (2001).
I combustibili fossili rappresentano la risorsa più utilizzata al mondo per la produzione di
energia. Secondo Holdren (2003), nell’ambito dei problemi associati con l’energia, il
cambiamento climatico si rivelerà probabilmente il più pericoloso ed intrattabile nel lungo
termine. Non si può dire che oggi costituisca in generale il più terribile in termini di numero
morti premature: l’inquinamento dell’aria e la contaminazione batterica della superficie
dell’acqua mietono molte più vittime. Tuttavia ciò cambierà con il tempo, perché il clima è in
grado di influire profondamente su ogni altra condizione e processo ambientale; è l’inviluppo nel
quale tutte le altre condizioni e processi devono funzionare. Se il clima è sufficientemente
compromesso è lecito attendersi che qualsiasi altra cosa legata all’ambiente evolva in senso
negativo: la produttività delle fattorie, delle foreste, della pesca; la geografia delle malattie, la
vivibilità delle città durante l’estate, i danni associati a tempeste, siccità, alluvioni, incendi. Il
livello del mare, e molto altro ancora.
Sulle visioni catastrofiche come quella presente in Holdren (2003) c’è dibattito… In primis
questo dibattito concerne il prodursi stesso del cambiamento climatico e la sua pericolosità.
Secondo quanto sostenuto sul Wall Street Journal da uno dei più noti scettici riguardo al
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cambiamento climatico (R. Lindzen), di tre cose si può essere abbastanza certi: la temperatura
media globale è circa mezzo grado Celsius più alta oggi, rispetto ad un secolo fa; lungo gli ultimi
due secoli è aumentata la quantità di carbonio presente nell’atmosfera; l’aumento dell’anidride
carbonica porterà probabilmente ad un riscaldamento del Pianeta. Messe insieme però, queste tre
affermazioni non rappresentano alcunchè di rilevante per il dibattito politico. Il clima, ricorda
difatti Lindzen, è in continuo mutamento; il cambiamento è la norma. Due secoli fa gran parte
dell’emisfero settentrionale stava uscendo da una piccola età glaciale. Mille anni fa, nel
Medioevo, questa stessa regione attraversò un periodo di caldo. Trenta anni fa si temeva un
raffreddamento globale. Distinguere i piccoli recenti cambiamenti verificatisi nella temperatura
media globale dalla sua variabilità naturale non è una cosa semplice. Tutto quel che si sa è che,
di per se, un raddoppio del anidride carbonica contenuta nell’atmosfera, produrrebbe un modesto
incremento nella temperatura di un solo grado Celsius. La prospettiva di incrementi più ampi
dipende dall’ ‘espansione’ (amplification) dell’anidride carbonica ad opera di molto più
importanti, ma scarsamente modellizzati, gas serra: il vapore acqueo e le nubi… Lindzen (2001).
Ho riportato l’opinione di Lindzen non perché la consideri rappresentativa del mainstream,
bensì perchè le sue parole colgono un dato di fondo della questione climatica: la scienza del
riscaldamento globale ha ancora molte incertezze da sciogliere, prima di poter essere un punto di
riferimento sicuro per chi è chiamato a prendere decisioni di policy.
I cosiddetti feedback della crescita della CO2 presente nell’atmosfera complicano la
valutazione delle conseguenze della stessa crescita per la futura intensità dell’effetto serra. Ad
esempio, esiste un ’effetto ‘albedo’ dei ghiacci e della neve, dovuto alla loro capacità di riflettere
la radiazione solare. Man mano che il mondo si scalderà, le coltri glaciali si scioglieranno,
lasciando libere ampie superfici di suolo e di acqua. Il biancore delle nevi e dei ghiacci è molto
efficiente nel riflettere la radiazione del sole verso lo spazio, laddove acqua e suolo ne assorbono
in quantità molto superiori. Così la superficie terrestre catturerà più calore, aumentando il
riscaldamento. Il meccanismo appena descritto è facilmente classificabile come un feedback
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positivo: opera cioè nel senso di amplificare l’impatto della crescita dell’anidride carbonica
nell’atmosfera. Il segno di altri tipi di feedback (o della loro interazione) è invece molto più
difficile da determinare… Uno dei feedback più importanti ha a che fare con il vapore. Esso è il
gas serra più abbondante nell’atmosfera, nonché il più efficace nel trattenere il calore, e dunque
quello di maggior importanza per il clima. Verrebbe allora da domandarsi come mai l’emissione
di anidride carbonica venga considerata l’effetto più rilevante dell’uso dei combustibili fossili,
dato che la combustione implica anche il rilascio di una notevole quantità di vapore. La
spiegazione è che solo una parte insignificante (meno dell’uno per mille) dei 20 mila miliardi di
tonnellate di vapore presenti in pianta stabile nell’atmosfera, ha un legame (diretto) con l’attività
umana. Tuttavia la quantità di vapore contenuta nell’atmosfera è strettamente dipendente dalla
sua temperatura: l’aria calda può sostenere infatti maggiore umidità, rispetto a quella fredda,
senza arrivare a saturazione. Di conseguenza – pensano molti scienziati – man mano che l’aria si
scalderà a causa della CO2, aumenteranno l’evaporazione e la concentrazione di vapore acqueo
nell’atmosfera. E una crescita di vapore, grazie alla sua capacità di intercettare il calore,
intensificherà l’effetto serra dando luogo ad un riscaldamento ancora maggiore. Questo feedback
positivo è uno dei principali risultati usciti dalle simulazioni numeriche e uno dei punti chiave
della scienza del riscaldamento globale. Ma l’aumento di umidità nell’atmosfera dovrebbe anche
far crescere la copertura delle nubi, il cui ruolo climatico è assai complesso. L’effetto principale
prodotto da alcuni tipi di nuvole è di avvolgere come un velo la Terra, intercettando la luce
solare – il che si tradurrebbe in un feedback negativo. Invece altre formazioni, come i cirri,
trattengono calore alle basse altitudini. La valutazione su come il vapore acqueo e le nubi
influenzeranno il clima è il cuore delle dispute tra i sostenitori del riscaldamento globale ed i
contrari. In genere si ritiene che l’insieme dei feedback amplificherà il riscaldamento di circa 2,5
volte, mentre gli scettici sostengono che il loro effetto sarà neutrale o addirittura negativo. La
convinzione di Lindzen è che è che gli scenari pessimistici non tengano conto della dinamica del
sistema climatico e della fisica di alcuni suoi elementi come le nubi. Secondo il meteorologo del
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Mit, il vapore acqueo prodotto dall’accentuata evaporazione verrebbe in gran parte trasportato
nell’alta atmosfera tropicale, con il risultato netto dell’aumento della dispersione di energia, e
quindi di una mitigazione dell’effetto serra. Non sembra al momento che ciò stia avvenendo, ma
è chiaro che una migliore conoscenza dei meccanismi di distribuzione del vapore acqueo e dei
suoi effetti sulle temperature è vitale per stimare i cambiamenti climatici nel lungo periodo –
Navarra e Pinchera.
Le conseguenze dell’effetto serra: alcune valutazioni
C’è chi è convinto che, poiché innumerevoli incertezze (delle quali quella appena menzionata
costituisce un semplice esempio) impediscono di essere meno approssimativi dell’IPCC riguardo
al riscaldamento globale cui starebbe andando incontro il Pianeta, i policymakers dovrebbero
astenersi dall’imporre vincoli alla produzione di gas serra. Altri invece giustificano la creazione
di detti vincoli sostenendo che la gravità delle conseguenze di tale riscaldamento, qualora esso
dovesse effettivamente avvenire, è tale da far passare in secondo piano l’incertezza sul reale
prodursi delle conseguenze medesime.
E’ difficile pronunciarsi sul grado di pericolosità del riscaldamento globale. Per farlo occorre
ovviamente considerare gli impatti dell’aumento delle temperature medie globali. Non sembra in
verità possibile accorpare tutti gli impatti, così da ottenere una ragione unica per la quale abbia
senso temere l’anzidetto aumento. Però è possibile associare a singole ragioni di preoccupazione
il livello di incremento delle temperature medie ‘in grado’ di farle materializzare, così come è
stato fatto in Smith et alt. (2001). Si tratterà sempre di un incremento cui guardare come ad
un’indicazione approssimativa degli impatti, non come ad una soglia assoluta. In aggiunta, il
cambiamento della temperatura media globale non descrive tutti gli aspetti rilevanti dell’impatto
del cambiamento climatico, ad esempio gli eventi climatici estremi, il tasso e il tipo di
cambiamento, i suoi effetti ritardati (o latenti), quali la crescita dei livelli del mare.
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Semplificando, si può fare dell’incremento della temperatura una variabile qualitativa con tre
modalità: piccolo (circa 2°C), medio (compreso fra i 2 ed i 3°C), elevato (superiore ai 3°C).
Associazioni statisticamente significative fra trend climatici regionali ed impatti sono state
documentate nel caso di ~100 processi fisici e ~ 450 specie biologiche o comunità negli ambienti
terrestri e polari. Anche se la presenza di fattori multipli – come i cambiamenti degli usi ai quali
è destinata la terra (land-use-changes) e l’inquinamento – rende difficile l’attribuzione degli
impatti osservati a cambiamenti climatici regionali, più del 90% dei cambiamenti documentati
nel globo sono coerenti con il modo in cui i processi fisici e biologici rispondono al clima. Sulla
base del giudizio di esperti, è possibile attribuire un grado di attendibilità elevato
all’affermazione che durante il ventesimo secolo parecchi sistemi fisici e biologici hanno
risposto ampiamente ai mutamenti del clima. I segnali di impatti regionali del cambiamento
climatico sono più chiari nel caso dei processi fisici e biologici che nel caso dei sistemi
socioeconomici, poiché questi sperimentano parecchie complesse mutazioni che non hanno a che
fare con il clima – la crescita della popolazione e l’urbanizzazione, ad esempio. I sistemi
socioeconomici hanno complicati e variabili meccanismi di adattamento al cambiamento
climatico. Vi sono indicazioni preliminari che alcuni sistemi sociali ed economici siano stati in
parte influenzati dal cambiamenti climatici regionali del ventesimo secolo (ad esempio dai più
ingenti danni associati ad alluvioni e siccità che si sono avuti in alcuni luoghi). Tuttavia è in
generale difficile separare gli effetti del cambiamento climatico da spiegazioni concomitanti o
alternative degli impatti regionali osservati.
I ghiacciai tropicali, le barriere coralline, le mangrovie costituiscono esempi di entità rare ed
in pericolo che si trovano concentrate in zone geografiche ristrette e sono molto sensibili al
cambiamento climatico. Il loro degrado o la loro perdita potrebbero avere un impatto anche su
regioni al di fuori dello spazio geografico sul quale insistono. Smith et alt. si considerano
mediamente attendibile l’affermazione che pure piccoli incrementi delle temperature
metterebbero a rischio parecchie di esse, provocando ad esempio il ritiro dei ghiacciai o la
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perdita di colore delle barriere coralline. Incrementi delle temperature maggiori renderebbero
suscettibili di essere negativamente influenzati dal cambiamento climatico altre e più numerose
entità uniche ed in pericolo.
Quanto alla distribuzione degli impatti del cambiamento climatico, secondo Smith et alt.,
questi ultimi non saranno uniformemente distribuiti sulla popolazione mondiale. Gli autori in
parola qualificano come fortemente attendibile l’affermazione che i paesi in via di sviluppo
saranno più vulnerabili al cambiamento climatico di quelli sviluppati, e come mediamente
attedibile quella che detto cambiamento tenderà ad esacerbare la disuguaglianza dei redditi, tanto
fra paesi quanto all’interno dei medesimi. Ritengono mediamente attedibile anche l’affermazione
che, mentre nei paesi di sviluppo l’impatto netto di un piccolo incremento della temperatura sui
settori di mercato sarebbe negativo, in parecchi paesi sviluppati esso potrebbe essere positivo.
Però, il passaggio ad un incremento medio e poi ad uno elevato farebbe diminuire l’intensità
degli impatti netti positivi, rendendoli col tempo negativi, e tenderebbe a rendere ancora più
marcati gli impatti netti che sono negativi già per incrementi inferiori. Per Smith et alt. questa
affermazione ha un’attendibilità elevata, ma essi sottolineano che, in generale, le valutazioni
degli effetti distributivi sono incerte.
Ciò a causa delle metodologie di aggregazione e di confronto impiegate, a causa delle
assunzioni sulla variabilità del clima, sull’adattamento, sui livelli di sviluppo e su altri fattori.
Guardando agli impatti aggregati, sempre Smith et alt. qualificano come mediamente
attendibile l’affermazione che, con una piccola crescita della temperatura, si potrebbe avere tanto
una perdita quanto un guadagno di termini di GDP mondiale – il cui ammontare in entrambi i
casi sarebbe pari solo ad una piccola percentuale di tale GDP. Gli impatti aggregati ‘non di
mercato’ – cioè relativi a cose cui non è possibile assegnare un valore tramite il meccanismo
della formazione di un prezzo di mercato (in quanto non sono oggetto di alcuna transazione di
mercato) – sarebbero inequivocabilmente negativi. Anche se gli autori ritengono bassa
l’attendibilità di quest’ultima affermazione, va comunque tenuto presente che, secondo i
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medesimi autori, la maggior parte delle persone del mondo risentirebbe negativamente già di un
incremento di temperatura prossimo all’intervallo degli incrementi medi, o di uno degli
incrementi più bassi appartenenti a quest’ultimo. La maggior parte degli studi sugli impatti
aggregati – si dice poi in Smith et alt. – trova che per incrementi delle temperature al di la di
quelli medi si avrebbero danni netti su scala globale, i quali sono via via più consistenti in
risposta alla crescita dell’entità degli incrementi di temperatura. Le importanti qualificazioni
fatte dagli autori in relazione all’analisi distributiva valgono pure in relazione a quella degli
impatti aggregati. Per la sua stessa natura, l’analisi aggregata maschera potenzialmente rilevanti
differenze di equità. Le valutazioni degli impatti aggregati sono controverse, perché in esse i
guadagni per alcuni si elidono con le perdite subite da altri, e perché i pesi che si utilizzano
nell’aggregare gli individui sono per forza di cose soggettivi.
E’ elevato il grado di attendibilità che Smith et alt. attribuiscono all’affermazione che gli
eventi climatici estremi si inasprirebbero già in risposta a piccoli incrementi delle temperature –
tanto in termini di frequenza quanto in termini di entità dei medesimi – con un inasprimento via
via più forte al crescere dell’intensità degli incrementi. Sono eventi climatici estremi, per
esempio, le alluvioni, i deficit di umidità del suolo, le tempeste tropicali e di altro tipo, le
temperature anomale, gli incendi. Gli impatti locali degli eventi climatici estremi sono spesso
ampi, e potrebbero influire fortemente su regioni e settori specifici. Gli incrementi di tali eventi
potrebbero altresì causare l’oltrepassamento di soglie critiche (artificiali o naturali), superate le
quali la grandezza degli impatti aumenta con rapidità; questa affermazione per Smith et alt.
possiede un elevato grado di attendibilità.
Per Smith et alt. eventi come l’arresto della circolazione termoalina (THC) dell’Atlantico o
la disintegrazione della Calotta Polare Artica sono ‘singolarità di vasta scala’ (large-scale
singularities) che potrebbero verificarsi nella risposta del clima all’intervento umano.
Determinare il tempo e la probabilità del loro presentarsi è difficile, perché vengono indotti da
complesse interazioni fra le componenti del sistema climatico. Rapidi e forti incrementi della
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temperatura porterebbero all’apparizione di singolarità di vasta scala, anche se è medio-basso il
grado di fiducia che si ha al riguardo. Delle anzidette singolarità non sono state ancora studiate
bene le implicazioni, malgrado l’impatto sostanziale che potrebbero avere sui sistemi naturali e
socioeconomici. Facendo l’esempio della THC, va detto che parecchi studi hanno cercato di
analizzare, la risposta non-lineare della circolazione oceanica mondiale – il cosiddetto ‘nastro
trasportatore’ (conveyor belt) – al cambiamento climatico. Esiste un sistema che trasporta il
calore ed influisce sulle tipologie climatiche regionali. Una componente di questo sistema è la
circolazione nell’Oceano Atlantico. Le correnti calde fluiscono verso nord. Il rilascio di calore e
l’evaporazione dalla superficie oceanica abbassano la temperatura e accrescono la densità e la
salinità dell’acqua. Arrivata al Labrador ed alla Groenlandia l’acqua, divenuta più densa, si
inabissa e rifluisce verso sud come acqua profonda. La THC nord-atlantica potrebbe rallentare o
addirittura arrestarsi, in risposta al cambiamento climatico. La regione dell’Atlantico del Nord
durante l’ultima glaciazione (ed all’inizio del periodo immediatamente successivo) venne
interessata da rapide fluttuazioni climatiche: si pensa che eventi come lo Younger Dryas – e cioè
l’interruzione di un riscaldamento post-glaciale (avutasi 11.000 anni fa nel giro di poche decadi)
– siano stati generati da cambiamenti nella stabilità delle acque dell’Atlantico del Nord. Questi
ultimi sarebbero stati a loro volta causati da un afflusso di acqua dolce associato allo
scioglimento del ghiaccio antartico. L’intensificarsi del riscaldamento prodotto dai gas serra
potrebbe condurre a cambiamenti nella stabilità dell’Atlantico del Nord simili, a causa del
riscaldamento e del minor contenuto di sale che determinerebbe nelle sue acque di superficie. Il
funzionamento attuale della THC è autosufficiente, entro limiti che sono definiti da soglie
specifiche, i cui valori sono però difficili da determinare. In Stocker e Schmittner (1997) si
mostra ad esempio che circolazione è sensibile non solo al livello finale della concentrazione di
CO2, ma pure alla rapidità del suo incremento. Alcune simulazioni citate in Smith et alt.
suggeriscono che il riscaldamento globale condurrebbe, dopo il 2100, ad un’interruzione
improvvisa della circolazione. Tuttavia, è vaga l’entità del ritardo con cui avverrebbe
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l’interruzione: sarà di secoli oppure soltanto di decadi? L’arresto completo della circolazione
rappresenterebbe un grosso cambiamento nel bilancio termico dell’Emisfero Nord, perché
attualmente essa rende le temperature dell’Europa nord-occidentale circa 5-10 °C più elevate di
quel che sarebbero in sua assenza. Questa regione sarebbe così interessata da un’inversione del
trend di riscaldamento. Si potrebbe verificare anche un’interruzione solo regionale della THC –
v. Smith et alt. – e cioè circoscritta o alla Groenlandia, o al Mare del Labrador. Nel primo caso le
conseguenze per il clima europeo sarebbero meno marcate che non nel caso alternativo. Tuttavia
in entrambi vi sarebbero lo stesso effetti gravi per gli ecosistemi marini e per la pesca. Per
approfondimenti sui danni prodotti dal cambiamento climatico rimandiamo agli autori.
Un prospetto sintetico circa tali danni costruito a partire dal terzo rapporto dell’IPCC – dal
quale ultimo sono tratte anche le valutazioni richiamate immediatamente sopra – è reperibile in
McKibbin e Wilcoxen (2002); da detto prospetto si evince, fra le altre cose, che l’innalzamento
del livello del mare dovuto al cambiamento climatico rischia di sommergere porzioni di popolose
zone costiere (facenti parte dei paesi in via di sviluppo), a motivo del fatto che esse non si
trovano in posizione sufficientemente elevata da sfuggire all’invasione dell’acqua (sono cioè
‘low-lying areas’). E’ probabile che Bangladesh, Indonesia e Vietnam sarebbero duramente
colpite da tale invasione, come lo sarebbero anche alcuni stati che insistono su piccole isole. Per
quanto concerne gli impatti sulla salute umana, è più che semplicemente medio il grado di
attendibilità da assegnare all’affermazione che il cambiamento climatico produrrebbe un
moderato incremento nella porzione di popolazione globale esposta al rischio di contrarre la
malaria, la febbre dengue e altre malattie trasmesse dagli insetti. E’ media l’attendibilità
dell’affermazione che, a causa dell’anzidetto cambiamento si assisterebbe ad un incremento della
diffusione di malattie legate all’acqua, come il colera, e ad un incremento dell’ozono a bassa
quota, notoriamente dannoso per la salute.
13
Capitolo I : L'UNFCCC ed il Protocollo di Kyoto
I.1 Premessa
Come si è visto la ‘fiducia’ che gli scienziati ripongono nelle proprie affermazioni in molti casi è
lontana dall’essere piena, per cui anche sugli effetti del riscaldamento globale non esistono
certezze. Malgrado questo, l’opinione sempre più diffusa che l’evolvere del clima non sia
immune al condizionamento delle attività umane, ha portato all’avvio di un processo di
negoziazione internazionale – tuttora in corso – finalizzato all’abbassamento delle emissioni
globali di gas serra.
Tralasciando l’attività diplomatica precedente, il vero punto di partenza di tale processo si
può considerare il cosiddetto ‘Earth Summit’ di Rio de Janeiro, organizzato nel 1992 dalle
Nazioni Unite. Da esso è scaturita la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento
Climatico (United Nation Framework Conference on Climate Change), la quale è stata firmata e
ratificata dalla maggior parte dei paesi del mondo.
La Convenzione è entrata in forza il 24 marzo 1994. Il risultato più rilevante che ha prodotto
sinora è un accordo internazionale per la riduzione delle emissioni di gas serra, il Protocollo di
Kyoto, il quale risale al 1997. Siglato a dicembre di tale anno (e rimasto da quel momento a
disposizione dei paesi che avessero voluto firmarlo e ratificarlo) l’accordo è diventato vincolante
per i paesi firmatari solo nel febbraio 2005, essendosi finalmente verificate le condizioni (v.
oltre) in esso stesso indicate come necessarie all’entrata in vigore.
I.2 Il Protocollo di Kyoto ed i suoi target di riduzione (o limitazione) delle emissioni
In base al Protocollo di Kyoto, lungo il quinquennio 2008-12, 38 paesi dovranno rispettare
determinati vincoli in termini delle rispettive emissioni di gas serra. Gli stati sono da un lato
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quelli appartenenti all’OCSE (con l’eccezione di Messico, Corea del Sud e Turchia), dall’altro la
Federazione Russa più una dozzina di altri paesi: Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia,
Ungheria, Lettonia Lituania, Polonia, Romania, Slovacchia, Slovenia, Ucraina. I gas le cui
emissioni andranno ridotte sono: biossido di carbonio (CO2), metano (CH4), protossido di azoto
(NO2), i gruppi di gas formati rispettivamente dagli idrofluorocarburi (HFCs) e dai
perfluorocarburi (PFCs), l’esafuoruro di zolfo (SF6). Da come mi sono espresso chi legge
potrebbe pensare che ciascun paese fronteggi un vincolo specifico per ognuno dei gas appena
indicati. In realtà non è così.
Consideriamo l’ipotetica situazione in cui tutti i paesi avessero un proprio vincolo espresso
in termini di unità di sola anidride carbonica. Non si può escludere che in determinato paese, o in
più d’uno, evitare la produzione di CH4, NO2, e via dicendo, presenti costi inferiori rispetto
all’evitare la produzione di CO2. In tal caso, qualora fosse dato individuare per le unità di
ciascun gas serra un equivalente in termini di unità di biossido di carbonio, tutti i paesi
potrebbero essere autorizzati ad intervenire sulle quantità prodotte di gas diversi dal CO2. Questo
ridurrebbe, per alcuni di essi (o anche per tutti), il sacrificio economico di non eccedere i
rispettivi vincoli in unità di solo biossido di carbonio. Proprio per evitare l’antieconomicità di
imporre vincoli in termini di sola CO2 si è fatto ricorso al concetto di ‘emissioni di carbonio
equivalente’ (carbon-equivalent-emissions, CO2e, d’ora in poi). Il Protocollo lo ha introdotto per
creare una forma di sostituibilità fra interventi ambientali. Le CO2e sono la somma delle quantità
generate di tutti i gas elencati più sopra, una volta che siano state rese ‘omogenee’ fra di loro.
Ossia, una volta che le emissioni di ciascun gas diverso dall’anidride carbonica siano state
convertite in emissioni di CO2 mediante specifici ‘tassi di cambio’ – v. Michaelowa (2001). I
tassi di cambio sono i seguenti: CH4: 21, N2O: 310, HFCs: 140-11700, perfluorocarburi PFCs:
6500-9200, esafuoruro di zolfo (SF6): 23900. Essi posseggono un fondamento scientifico, nel
senso che ciascuno di essi è pari al Global Warming Potential (GWP) del corrispondente gas
serra, così come determinato dall’IPCC (il GPW di un gas serra approssima l’effetto di
15
riscaldamento – integrato rispetto al tempo – che viene prodotto dall’immissione nell’atmosfera
di una unità di massa del gas in questione; il tempo considerato dall’IPCC è 100 anni).
Le quantità di gas serra che i singoli paesi avranno diritto a produrre nel 2012 saranno pari
ad una certa percentuale di quelle che essi hanno prodotto in passato (e cioè, nel caso della
maggior parte dei paesi, nel 1990. Ma alcuni paesi hanno un anno o un periodo di riferimento
diversi). Si tratta di una percentuale che è compresa fra il 92 ed il 110%: è del 92% nel caso dei
paesi europei, del 93% per gli Stati Uniti (i quali hanno poi ripudiato l’accordo: pur avendolo
firmato nel 1998, non l’hanno mai ratificato), del 94% per il Canada ed il Giappone, del 100%
per la Federazione Russa, del 110% per l’Islanda. Assume poi vari altri valori per i rimanenti
paesi. Così, come si vede, alcuni paesi saranno tenuti a ridurre le proprie emissioni, altri a non
accrescerle (rispetto al passato) oltre una certa misura (cioè dovranno semplicemente ‘limitarle’,
come dice il Protocollo di Kyoto). La base cui applicare le percentuali appena elencate – essa
verrà fissata definitivamente solo nel 2007: v. Michaelowa (2001) – sarà quantificata in CO2e, a
partire dalle emissioni storiche dei vari gas serra menzionati nel Protocollo. Lo stesso criterio di
quantificazione delle emissioni complessive di un generico paese – vale a dire la loro
determinazione tramite la conversione in CO2 della produzione effettiva dei singoli gas – verrà
poi applicato dopo il quinquennio 2008-12, al momento di verificare se il paese in parola avrà
rispettato i limiti imposti alla sua produzione di gas serra.
Introducendo il Protocollo ho detto che 38 paesi dovranno rispettare determinati vincoli in
termini delle rispettive emissioni, ‘lungo il quinquennio 2008-12’. Spesso – v. ad esempio Yellen
(1998) – il senso di ciò che ho virgolettato viene reso dicendo che sussiste un obbligo di non
eccedere ‘in media’ il quantitativo di emissioni consentito (ossia quello determinato applicando
alle emissioni storiche di ogni nazione la percentuale in cui è tenuta a ridurle, oppure oltre la
quale non può accrescerle). In altre parole, il limite veramente invalicabile per le emissioni non è
annuale, bensì quinquennale. L’art. 3.7 del Protocollo stabilisce difatti, in sostanza, che, nel
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corso del ‘primo’ periodo di adempimento degli impegni per la riduzione e la limitazione delle
emissioni (dal 2008 al 2012), il quantitativo di emissioni consentite sarà quello determinato
applicando alle emissioni storiche… ecc. ecc., moltiplicato per 5. La scelta di non richiedere che
il quantitativo non moltiplicato per 5 venga rispettato anno per anno flessibilizza l’adempimento
degli obblighi di ciascuna nazione. Senza la questa forma di flessibilità, potrebbe rivelarsi
eccessivamente oneroso dover rispettare un target di controllo delle emissioni per forza entro un
dato specifico anno. La performance ambientale di un paese rischierebbe di essere compromessa
da circostanze transitorie, come un’estate insolitamente calda, tale da accrescere al di là
dell’usuale il consumo di energia. In tal caso il paese in questione, per centrare il suo target di
controllo delle emissioni verrebbe costretto al sostenimento di costi più elevati… Maggiori cioè,
rispetto a quelli che dovrebbe sostenere nell’ipotesi in cui sia possibile dimostrare lungo più
anni, anziché in uno solo, l’abilità nel controllo della produzione di gas climalteranti.
Un punto di vista alternativo è che in questo modo, almeno sotto il profilo formale, il
giudizio riguardo alla condotta ambientale di un paese viene sospeso fino a dopo il 2012. Se ci si
fosse accordati nel senso di eleggere ad ‘anno target’, ad esempio, il solo 2010, la conformità ai
limiti della condotta di ciascun paese avrebbe potuto essere accertata entro il 2011/12. Invece,
per come stanno le cose, la verifica della conformità non potrà avvenire prima del 2014. Ciò è
potenzialmente suscettibile di avere effetti negativi rispetto alla negoziazione di un successivo
commitment period (questo è il termine con cui ci si riferisce solitamente al quinquennio 2008-
12, per indicare che è quello lungo il quale ci si impegna a rispettare i limiti alle emissioni
previsti dal Protocollo di Kyoto) – si veda Oberthur e Ott (1999).
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I.3 Un mercato delle emissioni per aiutare chi non riesce a centrare il proprio target
Ciò che il Protocollo di Kyoto contiene è, nella sua essenza, la disciplina di un mercato delle
emissioni o più precisamente, di un mercato nel quale la merce in vendita è costituita da
permessi di inquinare – v. Edmond e Sands (2003).
E’ ormai largamente condivisa (e da tempo recepita dagli schemi di regolamentazione
ambientale adottati negli Stati Uniti) l’opinione secondo cui il disinquinamento presenta costi
minori, quando esso è perseguito autorizzando il commercio di permessi (emission trading),
piuttosto che ponendo in essere di regolamentazioni ‘coercitive’ (command-and-control).
Chiarirò questo punto con un esempio. Poniamo che due imprese operino in modo da (e
siano obbligate a) rispettare un singolo standard uniforme in termini di emissioni. Ipotizziamo
inoltre che lo standard sia ‘stringente’, ossia che se fossero lasciate libere di scegliere le proprie
emissioni, entrambe le imprese immetterebbero nell’atmosfera quantità di gas serra maggiori di
quelle che hanno il divieto di oltrepassare. Ipotizziamo infine che, per l’impresa 1, emettere una
tonnellata in meno comporti una spesa di $500. E che questa stessa spesa ammonti a $3000 per
l’impresa 2.
Ovviamente la stessa riduzione complessiva delle emissioni potrebbe essere ottenuta a costi
più bassi imponendo all’impresa 1 di ridurre di più le sue emissioni, e concedendo all’impresa 2
di ridurre di meno le proprie (ad esempio verrebbero risparmiati $2500 qualora al tetto in
emissioni invalicabile per l’impresa 2 venisse aggiunta una tonnellata, e, nel contempo il tetto
dell’impresa 1 venisse ‘abbassato’ di una unità). Una soluzione di questo genere potrebbe
tuttavia creare controversie, specie qualora le imprese siano in competizione fra loro. Inoltre
rivedere (e, in generale, comunque fissare) degli standard specifici alle singole imprese costringe
il governo a raccogliere una mole enorme di informazioni riguardanti dette imprese. Invece è
meglio lasciare alle imprese la decisione circa la ‘distribuzione’ fra loro dei limiti che non
possono oltrepassare; esse sono infatti quelle più informate sui costi delle alternative di cui
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dispongono per tenere sotto controllo le emissioni, e quelle più in grado di utilizzare
efficacemente ciò che sanno.
Se si fa così si realizzano dei risparmi di costo, e ciò che consente di fare così è il trading
delle emissioni: ciascuna delle due fonti delle emissioni, conoscendo i costi che presenta per se
medesima la conformità alla regolamentazione cui è soggetta assieme all’altra fonte, ha diritto di
commerciare con quest’ultima dei permessi ad inquinare (che le sono stati assegnati dal
regolamentatore). Ciascuna fonte comparerà il suo proprio costo del controllo delle emissioni
con il prezzo di mercato dei permessi, e stabilirà se è profittevole ridurle più del dovuto – con la
conseguenza di poter poi di vendere permessi – o ridurle di meno, con la conseguenza di dover
poi acquistare permessi per ‘coprire’ le sue emissioni addizionali (rispetto a quelle autorizzate
dai permessi di cui era già in possesso per averli ricevuti dal regolamentatore).
Tornando al nostro esempio numerico, ipotizziamo che il prezzo di mercato
dell’autorizzazione ad emettere una tonnellata di inquinante sia di $2000; inizialmente il governo
ha allocato i permessi in modo da assicurare a ciascuna fonte un numero di essi bastante a
coprire le emissioni che sarebbe tenuta a non eccedere per rispettare lo standard. L’impresa 1,
grazie ai bassi costi che presenta per essa la riduzione delle emissioni, le riduce più di quanto
imposto dallo standard. Ciò le consente di vendere i suoi permessi eccedenti all’impresa 2,
guadagnando nella prima transazione $1500 (al netto del costo di evitare la produzione di una
tonnellata di inquinante). L’altro protagonista della transazione, l’impresa 2, per la quale la
riduzione delle emissioni presenta maggiori difficoltà, ricaverà dalla medesima transazione un
risparmio netto di $1000 ( risultante dal suo proprio costo di emettere una tonnellata in meno,
nettato del prezzo di mercato del permesso).
Le correnti atmosferiche disperdono rapidamente le emissioni all’interno dell’atmosfera,
rendendo relativamente uniformi nel globo le concentrazioni di tali gas. Così l’effetto (sul
cambiamento climatico) dell’emissione o della rimozione di una tonnellata di un dato gas serra è
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indipendente dal fatto che l’emissione o la rimozione venga effettuata in California, a New York
o in qualunque altro posto del mondo – v. Ellerman e Joskov (2003).
Il funzionamento e la ragion d’essere dell’emission trading fra nazioni aventi obblighi di
riduzione o limitazione delle emissioni sotto il Protocollo di Kyoto – nazioni elencate
nell’allegato B del medesimo – non differiscono in nulla da quelli – li ho esposti poc’anzi –
dell’emission trading fra imprese soggette ad una regolamentazione ambientale avente validità
entro i confini di un singolo stato. Sotto il Protocollo di Kyoto ogni nazione dell’Allegato B
dovrà gestire un proprio ‘budget’ di autorizzazioni ad (o permessi di) inquinare, pari in numero
alle tonnellate di CO2e la cui emissione non implicherebbe inadempienza. Stiamo parlando
dell’‘assigned’ amount di quella nazione. Per essere precisi, nella determinazione degli assigned
amounts, interagiscono i criteri visti più sopra (cioè le percentuali applicate alle emissioni
storiche) e le regole sui ‘sink’ (v.oltre).
E’ bene dire che, formalmente, saranno le nazioni su cui gravano gli obblighi di riduzione (o
limitazione) delle emissioni previsti nel Protocollo di Kyoto, a prender parte al mercato delle
autorizzazioni reso possibile dal Protocollo medesimo. In realtà, però, a detto mercato potranno
partecipare anche delle ‘entità autorizzate’. Ad esempio, delle imprese delle nazioni in parola.
Nel caso in cui la cessione e l’acquisizione (da parte di due stati) di emissioni consentite sia il
portato di un atto di compravendita fra imprese di questi due stati, non esiste un unico possibile
modo di conciliare i due livelli ai quali avviene il trasferimento delle emissioni. In altri termini si
potrebbe, per dire, imporre che ogni scambio fra imprese di due paesi differenti richieda la
registrazione delle rispettive nazioni di appartenenza (le quali poi assumono in prima persona la
responsabilità dello scambio). Ma ci si potrebbe pure accordare per un sistema di questo tipo: i
governi riconoscono reciprocamente i rispettivi mercati interni delle emissioni, così che gli
scambi non devono essere autorizzati caso per caso – v. Grubb et alt. (1999).
20
I.4 La ‘Joint Implementation’
Il trading delle emissioni rappresenta una soltanto delle facilitazioni su cui potranno contare –
nell’adempimento degli obblighi assunti firmando (e ratificando) il Protocollo di Kyoto – i paesi
tenuti al controllo della produzione di gas climalteranti. Nell’ambito di queste facilitazioni
collettivamente note come ‘meccanismi flessibili’ (flexible mechanisms) – le altre due di cui si
parla più spesso sono (in aggiunta al trading delle emissioni): l’’implementazione congiunta’
(Joint Implementation) ed il ‘meccanismo di sviluppo pulito’ (Clean Development Mechanism).
Secondo la ‘Guide to the climate change convention and its Kyoto Protocol’ del Climate
Change Secretariat (2002), il meccanismo della Joint Implementation autorizza le Parti
all’Allegato I (l’allegato alla convenzione del 1992 nel quale sono elencate sostanzialmente le
stesse nazioni iscritte nell’Allegato B del Protocollo) a realizzare progetti che riducono le
emissioni, o accrescono le rimozioni (di CO2) tramite i sinks (per il concetto di sink, v.oltre) in
territori di altre Parti all’Allegato I.
I progetti generano delle Emission Reduction units – ERUs. Queste possono essere usate
(dalle Parti all’Allegato I che hanno investito nel progetto) per riuscire a centrare i loro target in
termini di emissioni. Per evitare doppi conteggi, viene attuata una corrispondente sottrazione
dall’ammontare di emissioni consentite alla Parte che ‘ospita’ il progetto.
Malgrado il termine ‘Joint Implementation’ non appaia nell’art.6 del Protocollo di Kyoto –
dove viene definito il meccanismo cui si riferisce – lo stesso termine viene utilizzato come
un’utile semplificazione.
Un progetto di implementazione congiunta può consistere – ad esempio – nel rimpiazzo di
una centrale elettrica a carbone con una il cui funzionamento comporti emissioni di anidride
carbonica inferiori. O in un progetto di riforestazione, v. Climate Change Secretariat (2002).
Se, ad esempio, l’Italia attua in un paese dell’ex-URSS un progetto di JI tale da portare
all’eliminazione di una tonnellata di CO2, questa corrisponde ad una ERU, la quale potrà essere
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impiegata dall’Italia per ‘coprire’ una tonnellata di CO2 che abbia prodotto in più (rispetto alle
tonnellate che era autorizzata a produrre).Corrispondentemente però, il paese dell’ex-URSS,
vedrà decurtarsi il suo ‘budget’ di una tonnellata (di emissioni consentite).
Attorno ad un progetto di JI deve esserci il consenso di tutte le Parti interessate, ed esso deve
condurre a riduzioni delle emissioni (o a rimozioni delle stesse) che siano in più rispetto alle
riduzioni e rimozioni che si sarebbero verificate comunque, in assenza del progetto. I progetti
consistenti nello svolgimento di attività che rientrano nel settore LULUFC (v.infra), come la
riforestazione, devono essere conformi alle disposizioni generali del Protocollo riguardo dette
attività, e le Parti dell’Allegato I ‘debbono astenersi’ dall’utilizzare – in vista del raggiungimento
del proprio target – ERUs che siano generati dall’energia nucleare. I progetti che partono dal
2000 e che rispettano le regole appena enunciate possono essere considerati progetti di joint
implementation. Però potranno essere produttivi di ERUs solo dal 2008.
Per i progetti di JI sono state stabilite due procedure alternative: una per il caso in cui la
Parte intenzionata a far ricorso al meccanismo della JI possieda i requisiti di idoneità previsti per
l’ammissione all’uso della medesima, l’altra per il caso in cui la Parte ne sia sprovvista.
Nella prima ipotesi si segue la procedura spesso detta ‘track 1’. Semplicemente, la Parte
potrà quantificare da sola le ERUs generate dal progetto che ospita, e trasferirle alla Parte che ha
investito sul suo territorio. Al contrario, in assenza del possesso dei requisiti di idoneità, l’iter
seguito è diverso: nella ‘track 2’ il quantitativo di ERUs generati da un progetto deve essere
verificato mediante una specifica procedura. Questa si svolgerà sotto la supervisione di un
comitato di 10 membri – l’ ‘Article 6 Supervisory Committee’ (la cui costituzione nel 2002, era
ancora da venire). Grazie a questa procedura i progetti di JI possono essere avviati anche prima
che la Parte abbia soddisfatto i requisiti di idoneità. Tuttavia la Parte ospite dovrà aver
soddisfatto parecchi dei requisiti, prima di essere autorizzata ad emettere e trasferire ERUs.
Deve, ad esempio, aver stabilito il quantitativo di emissioni che le spettano, ed aver già
22
presentato l’inventario delle emissioni il cui obbligo di presentazione è sorto più di recente: ‘its
most recent required emission inventory’ (UNFCCC).
Quando l’iter procedurale seguito è la track 2, i partecipanti al progetto debbono presentare
ad un’organizzazione indipendente – in gergo una ‘Independent Entity’ – un documento
contenente un ‘disegno’ del progetto. A detta organizzazione spetta il compito – affidatole
dall’Article 6 Supervisory Commitee – di valutare il documento. Il fine della valutazione – la
quale non può essere prodotta senza che sia stata offerta la possibilità di un commento pubblico
– è assicurare che il progetto abbia una sua propria trasparente e prudente ‘baseline’ (che è il
‘punto di partenza’ per la misurazione delle riduzioni o rimozioni delle emissioni), ed assieme
alla medesima, un piano di monitoraggio idoneo a consentire una stima accurata delle riduzioni e
delle rimozioni. La determinazione della baseline e la stesura del piano di monitoraggio debbono
essere effettuate applicando dei criteri standard; il documento descrittivo del progetto deve anche
contenere una valutazione degli impatti ambientali che deriverebbero dalla sua realizzazione.
Sulla base della propria valutazione, l’entità indipendente deciderà se il progetto può essere
attuato. Qualora l’Independent Entity decida in tal senso, dopo 45 giorni, e sempre che un
partecipante al progetto o almeno tre membri del Supervisory Commitee non ne domandino una
revisione, si potrà procedere all’implementazione. Una volta che il progetto sia in corso di
realizzazione, i partecipanti dovranno sottoporre all’Independent Entity una stima delle riduzioni
delle emissioni, o delle rimozioni, generate dal progetto. Dopo aver esaminato le stime,
l’Independent Entity stabilirà le riduzioni di emissioni, o le rimozioni, che la Parte che ospita il
progetto ha titolo a trasferire alla Parte che investe. A meno che un partecipante al progetto, o tre
membri del Supervisory Commitee non chiedano una revisione della decisione presa
dall’Independent Entity, questa sarà produttiva di effetti dopo 15 giorni, così che, se possiede
tutti i requisiti di idoneità, la Parte ospite può effettivamente emettere e trasferire le ERUs alla
Parte che investe.
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Si noti l’ambivalenza del termine ERUs, che in quanto precede indica, a seconda del
contesto, le tonnellate emesse in meno, o gli asset trasferibili che corrispondono a dette
tonnellate
I.5 Il ‘Clean Development Mechanism’
Come la JI, il Clean Development Mechanism (CDM) dà modo alle Parti dell’Allegato I di
implementare progetti che riducono le emissioni. Però, devono essere progetti implementati nei
territori delle Parti alla Convenzione non iscritte nell’Allegato I. Queste sono i paesi il cui grado
di sviluppo economico venne considerato – durante le prime fasi della cooperazione sul
cambiamento climatico, e quindi anche nel 1997 (l’anno dell’approvazione del Protocollo di
Kyoto) – tale da impedire loro il sostenimento dell’onere economico implicito nell’assunzione di
obblighi di limitazione o riduzione delle emissioni. Fra questi paesi rientrano ancora – a dispetto
del parere contrario di molti – Cina ed India.
Nel CDM l’‘asset’ oggetto di scambio fra il paese ospite e quello che ha investito sul suo
territorio, il quale potrà utilizzarlo al fine di centrare il proprio target in termini di emissioni, è
rappresentato dalle Certified Emission reductions – CERs. Un requisito che deve essere
posseduto dai progetti, è di contribuire allo sviluppo sostenibile delle Parti non iscritte
nell’Allegato I. Detti progetti, dunque, non possono servire solo alla riduzione delle emissioni
entro i confini delle nazioni in cui vengono realizzati.
Le Parti dell’Allegato I non potranno ricorrere in misura illimitata al CDM come mezzo ‘di
copertura’ delle emissioni in eccesso rispetto a quelle loro consentite, nel senso che se i CERs
sono generati da progetti di assorbimento della CO2 tramite i cosiddetti ‘sink’ (v.oltre), il
quantitativo di essi (impiegato ai fini del conseguimento dei target di limitazione delle emissioni)
non potrà essere superiore all’1% delle emissioni della Parte nel suo anno base, per ciascuno dei
5 anni del commitment period.
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Un progetto portato avanti nell’ambito del CDM potrebbe essere ad esempio,
l’elettrificazione rurale attraverso la costruzione di pannelli solari. Come nel caso dei progetti di
JI, le Parti dell’Allegato I dovranno astenersi dall’uso di CERs generati attraverso l’energia
nucleare per centrare i loro target in termini di emissioni.
Il Climate Change Secretariat si attende che il CDM generi investimenti nei paesi in via di
sviluppo, in particolar modo da parte del settore privato, e promuova il trasferimento di
tecnologie valide da un punto di vista ambientale verso di essi. Il CDM offre alle Parti
dell’Allegato I uno strumento per trasferire ai paesi fuori dallo stesso allegato risorse che li
mettano in grado di contribuire alla mitigazione del cambiamento climatico. Tuttavia, l’esistenza
di questo strumento non fa cadere l’obbligo posto in capo alle Parti dell’Allegato II. Nella
Convezione del 1992, questo Allegato è quello nel quale vennero iscritti i paesi dell’Allegato I
non definiti – nella stessa Convenzione – come Economie in Transizione. Si tratta in prevalenza
di paesi nati dalla disgregazione dell’URSS, e nei quali era iniziato da non molto – all’epoca
della stesura della UNFCCC – un processo di transizione all’economia di mercato. I Paesi
dell’Allegato II, debbono sostenere finanziariamente e con trasferimenti di tecnologia, nella loro
partecipazione alla mitigazione del cambiamento climatico, le Parti alla UNFCCC fuori
dall’Allegato I, oltre che le altre Parti iscritte nel medesimo. Quest’obbligo rimane in piedi. In
altre parole, i trasferimenti tecnologici effettuati nell’ambito del CDM, non potranno essere
addotti a pretesto per ottenere un’esenzione dall’ obbligo in parola. Inoltre, il finanziamento
pubblico dei progetti realizzati nell’ambito del CDM non dovrà tradursi in una diversione di – v.
oltre – assistenza ufficiale allo sviluppo.
I progetti nell’ambito del CDM dovranno riscuotere il consenso di tutte le Parti coinvolte.
Dovranno produrre benefici – reali, misurabili, e di lungo termine – connessi alla mitigazione del
cambiamento climatico cui sono diretti – mitigazione avente la forma di riduzioni delle emissioni
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(o rimozioni delle medesime) addizionali rispetto a quelle che si sarebbero verificate in assenza
del progetto.
I progetti realizzati che si candidano ad essere implementati nell’ambito del CDM debbono
avere una propria trasparente e prudente baseline, e in relazione ai medesimi dev’esserci un
rigoroso piano di monitoraggio, necessario all’ottenimento di dati accurati sulle emissioni. Per
giungere alla baseline ed al piano di monitoraggio dev’essere seguita una metodologia approvata.
Se i partecipanti al progetto intendono seguire una metodologia nuova, essa dev’essere
autorizzata e registrata dall’Executive Board.
Perché un progetto nell’ambito del CDM possa ricevere attuazione, i partecipanti al
medesimo debbono preparare un documento nel quale sia descritto il progetto medesimo. Esso
deve essere comprensivo di una descrizione della baseline, del piano di monitoraggio e di
un’analisi degli impatti ambientali, dei commenti espressi dagli stakeholders locali, e dei
benefici aggiuntivi che verranno prodotti dal progetto. Nel ciclo del progetto CDM, un ruolo
importante spetterà dalle ‘Operational Entities’, preposte al suo svolgimento dall’Executive
Board. Infatti, sarà un’ Operational Entity’ ad esaminare il documento. Essa, dopo aver offerto la
possibilità di un commento pubblico, deciderà se il progetto può considerarsi valido. Qualora la
sua valutazione sia positiva, essa presenterà il progetto all’Executive Board per la registrazione
formale. A meno che tre o più membri del medesimo (come pure uno o più dei partecipanti), non
richiedano una revisione del progetto, dopo 8 settimane la sua registrazione deve considerarsi
definitiva.
Una volta che il progetto sia in corso, i partecipanti lo monitoreranno, così da poter redigere
un rapporto contenente una stima dei CERs generati dal progetto, che sottoporranno per la
‘verifica’ ad un’Operational Entity (la quale, per escludere conflitti di interesse, sarà differente
da quella che ha dichiarato valido il documento descrittivo del progetto). Dopo un’attenta
revisione del progetto, la quale può comportare pure delle ispezioni dove il progetto è in corso,
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questa produrrà un rapporto di verifica, e se tutto và bene, certificherà come legittimi i CERs.
Qualora entro 15 giorni non venga chiesta una revisione del progetto da un partecipante, come
pure da tre o più membri dell’Executive Board, quest’ultimo emetterà i CERs e li distribuirà ai
partecipanti al progetto come richiesto dai medesimi. I sei step descritti – validazione,
registrazione, monitoraggio, verifica, certificazione, emissione – sono quelli di cui consta il ciclo
del CDM.
I CERs – va detto infine – sono assoggettati ad una tassa, chiamata ‘share of the proceeds’. Il
2% dei CERs di ciascun progetto sarà versato in un ‘Adaptation Fund’. Come suggerisce il suo
nome esso dovrà servire per aiutare i paesi in via di sviluppo particolarmente vulnerabili nei
confronti del cambiamento climatico ad adattarsi ai suoi effetti avversi. I progetti destinati ad
essere portati avanti nei Least Developed Countries saranno tuttavia esentati da questa tassa. Ciò
al fine di promuovere una distribuzione geograficamente equa dei progetti nell’ambito del CDM.
Un’altra percentuale dei ‘proceeds’, che al 2002 doveva ancora essere quantificata, servirà a
coprire i costi amministrativi del CDM.
Francamente mi sfugge cosa si debba intendere per ‘proceeds’; anche secondo Jepma e van
der Gaast (2000) non è chiaro il significato da attribuire a questo termine. L’art.12.8 parla di
‘proceeds from certified activities’, con il che potrebbe voler intendere, in senso letterale, i costi
risparmiati dalle parti all’Allegato I grazie all’investimento in progetto nell’ambito del CDM.
Oppure, potrebbe – l’articolo – fare riferimento ai benefici economici che nascono che nascono
dalla realizzazione del progetto. Infine ‘proceeds’, potrebbe riferirsi al valore di mercato delle
riduzioni delle emissioni certificate. Tale interpretazione mi sembra quella più aderente a quanto
viene detto nella guida del Climate Change Secretariat. Comunque – per quanto ne so –
l’ambiguità del termine non è stata ancora rimossa da alcuna disposizione ufficiale; per
rendersene conto basta cercare in rete, su uno delle decine di glossari ivi reperibili, una
definizione del termine ‘share of proceeds’.
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Si noti conclusivamente come il termine CERs sia caratterizzato dalla stessa ambivalenza
che ho attribuito – a conclusione della descrizione del meccanismo della JI – al termine ERUs.
I.6 Qualche aspetto del CDM da non dimenticare, nel pronunciarsi sulla sua utilità per la
protezione del clima e per lo sviluppo
Mentre nella JI il paese che ospita un progetto di riduzione delle emissioni vede decurtarsi la
propria disponibilità di emissioni autorizzate, ed ha dunque un interesse diretto ad evitare che la
realizzazione di un progetto frutti a chi ha investito in esso un quantitativo di autorizzazioni
maggiore delle emissioni che il progetto consente di rimuovere, nel CDM il paese ospite non
subisce alcuna decurtazione a fronte dei CERs emessi in favore di chi realizza il progetto: non
avendo un tetto alle emissioni consentite, non ha nemmeno un ‘budget’ di emissioni! In altri
termini nel CDM vi sono minori garanzie che il paese cui si deve l’attuazione del progetto non
entri in possesso di emissioni autorizzate (aggiuntive rispetto al suo assigned amount) le quali
non hanno però alcuna reale contropartita in riduzioni delle emissioni effettuate altrove.
Questa assenza di garanzie và tenuta presente: nelle transazioni che avvengono entro il CDM
un livello elevato delle emissioni in assenza di interventi diretti a ridurle risponde alle
convenienze di tutti i contraenti: più quel livello è alto, nel caso di un progetto potenzialmente
realizzabile, e maggiore è la probabilità, per chi ne vorrebbe la realizzazione, di trovare
investitori stranieri che si offrano di realizzarlo. Infatti, quanto più è grande la differenza fra le
emissioni originarie e quelle inferiori risultanti dalla realizzazione del progetto, tanto maggiore è
la quantità di CERs che si assicurerà l’altra parte della transazione – gli investitori – a parità di
dollaro investito. Il pericolo che ospite ed ospite ospitante colludano per gonfiare la baseline di
un progetto non va preso sottogamba. Specie tenendo conto che molti dei potenziali ospiti, non
hanno mai brillato per refrattarietà ai fenomeni di corruzione – almeno stando ai ‘voti’ loro
assegnati da Transparency International – v. Repetto (2001).
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Non tutte le critiche che rivolte inizialmente al CDM – v. Grubb et alt. (1999) – meritano la
stessa enfasi. Ad esempio, venne sollevata la seguente obiezione. I paesi sviluppati (responsabili,
per ovvie ragioni storiche, di una frazione dello stock di gas serra presenti nell’atmosfera assai
maggiore di quella imputabile ai paesi in via di sviluppo) – nell’ipotesi della creazione di un
meccanismo di JI fra Nord e Sud – avrebbero potuto adempiere più a buon mercato i propri
obblighi di riduzione delle emissioni; ma nel fare questo avrebbero pure ‘portato via’ ai paesi in
via di sviluppo riduzioni delle emissioni ‘a buon mercato’ (la cosiddetta ‘low-hanging fruit’),
sulle quali i medesimi non avrebbero poi più potuto contare in un momento successivo – vale a
dire quello dell’assunzione di obblighi (in termini di controllo delle rispettive produzioni di gas
serra); difatti tale assunzione non potrà essere rinviata all’infinito.
A questa obiezione si potrebbe rispondere – v. Banuri et alt., (2001) – che la low-hanging
fruit si ‘guasterà’, se non sarà colta immediatamente…
Probabilmente, sul fatto che vi sia un limite di tempo per cogliere la low-hanging fruit, gli
autori appena citati hanno ragione; nel 1992 – viene ricordato da Rajan (1997) – il 40% della
popolazione indiana viveva ancora al di sotto della linea di povertà, ed ufficialmente le persone
con problemi di malnutrizione superavano i 250 milioni. I costi ecologici della povertà di massa,
da allora, hanno continuato ad essere sostanziali. Nell’area dell’utilizzazione dell’energia, per
esempio, l’inadeguatezza dell’offerta e l’impossibilità per i poveri di permettersi le fonti di
energia commerciali, implicano, messe assieme, una domanda insostenibile di risorse ambientali:
grosso modo metà dell’energia di cui si fa uso in India, proviene da una serie di fonti non
commerciali: legna da ardere, concime, scarti prodotti dalle attività agricole; la legna da ardere
da sola è fonte del 50% dell’energia usata per cucinare nei centri urbani e del 70% di quella
impiegata nei villaggi… E’ difficile pensare che quando l’India accetterà di assumere un
impegno vincolante alla riduzione delle emissioni, le percentuali or ora riportate non saranno
diminuite, a causa della sostituzione della legna da ardere con combustibili più efficienti dal
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punto di vista energetico. Inoltre, nell’ambito del CDM dovrebbe avvenire un trasferimento di
tecnologia dal Nord verso il Sud, tale da rendere più accessibile ai paesi di via di sviluppo – per
continuare con la metafora – la riduzione delle emissioni ‘che stanno più in alto’.
Assai più della questione della low-hanging fruit dovrebbe impensierire – credo – una
eventuale ‘concorrenza’ che potrebbe sorgere fra CDM ed Assistenza Ufficiale allo Sviluppo
nell’attrarre verso di se le risorse necessarie al perseguimento delle rispettive finalità. Per fare un
esempio, il West Nile Hydropower Power Project è stato reso possibile dal Prototype Carbon
Found della Banca Mondiale, ma ha beneficiato pure di 3,7 milioni ($) provenienti
dall’Assistenza Ufficiale allo Sviluppo. E’stato sostenuto che tale assistenza era necessaria per
superare una barriera alla realizzazione del progetto: la mancanza nella regione di fonti in grado
di erogare finaziamenti commerciali – v. Duschke e Michaelowa (2003). Ritagliare un ruolo per
l’Assistenza Ufficiale allo sviluppo (Official Development Assistance) nel sostegno ai progetti
realizzati sotto il CDM non sarebbe in contrasto con il Protocollo di Kyoto, dato che in base al
suo art.12, al CDM possono partecipare non solo entità private, ma pure entità pubbliche.
Tuttavia, in generale, sarà sempre possibile sostenere che i progetti portati avanti tramite il
meccanismo del CDM siano vitali per lo sviluppo di alcuni paesi non meno, per dire, del
finanziamento alla costruzione di scuole ed ospedali? Questo interrogativo diventerebbe non
eludibile, qualora il travaso di risorse attuato tramite il CDM finisse per ‘spiazzare’ in qualche
misura le forme trazionali di aiuto. Clean Development Mechanism e Assistenza Ufficiale allo
Sviluppo, come suggerisce il nome del primo, dovrebbero costituire strumenti di allocazione
delle risorse, almeno in parte, complementari. Il problema è quanto sia forte la complementarità.
Secondo la definizione dell’OCSE, per rientrare nella fattispecie dell’ODA, i flussi verso i paesi
in via di sviluppo: 1) devono essere diretti ai medesimi oppure alle istituzioni multilaterali, 2)
devono essere erogati da agenzie governative, 3) devono servire principalmente allo sviluppo
economico ed all’accrescimento del benessere nei paesi in via di sviluppo, e, infine, essere
gratuiti almeno almeno nella misura del 25%. Si vede bene, dunque, che l’ODA, per sua natura,
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è diretta a soddisfare un insieme di necessità dei paesi in via di sviluppo (salute, istruzione,
salvaguardia della qualità ambientale) il quale è assai più ampio di quelle che potranno essere
soddisfatte mediante il CDM. La maggior parte dei paesi in via di sviluppo non è in grado di
attrarre gli investimenti che verranno realizzati sotto il CDM, anche a motivo della scarsa
capacità di ideare e negoziare i progetti nella cui realizzazione dovrebbero tradursi detti
investimenti. Non a caso durante l’ultima ‘Conferenza delle Parti’ – tenutasi a dal 28 novembre
al 10 dicembre 2005 – è stata lamentata da parte dei paesi dell’ ‘Africa Group’ la distribuzione
geografica iniqua dei progetti: v. International Institute for Sustainable Development (2005), p.
11. Secondo Kete et alt. (2001) molti modelli economici sui flussi di investimento che
passeranno per il CDM stimano che quasi tutti i progetti verranno realizzati in appena tre paesi:
Cina, India, Brasile, date le maggiori opportunità di investimento ivi presenti. Quindi
l’utilizzazione degli aiuti per finanziare i progetti portati avanti nell’ambito del CDM avrebbe
pure una propria logica: è necessario rendere accessibile questo meccanismo ai paesi che non
‘vedrebbero’ alcun progetto, qualora i finanziamenti di natura privata fossero gli unici
ammissibili. Malgrado ciò, non si può escludere che il CDM attragga verso di se, e verso le
attività che generano ‘credits’ per la riduzione delle emissioni, risorse altrimenti destinabili
all’abbassamento della mortalità infantile, della malnutrizione, dell’analfabetismo. Dopo tutto,
parecchi portatori di interessi (stakeholders) e funzionari governativi sono preoccupati dei costi
potenzialmente alti del centrare i target creati dal Protocollo di Kyoto. Qualora ai paesi
industrializzati fosse consentito usare i loro fondi destinati all’aiuto per finanziare i progetti del
CDM, potrebbe essere difficile per tali paesi resistere all’attrattività di rendere disponibili dei
sussidi ai propri investori che vogliano far uso del CDM: verosimilmente vi sarebbero pressioni
interne, dirette a fare in modo che, sotto l’ombrello dell’aiuto, vengano promossi soprattutto gli
interessi del settore privato.
Un commentatore particolarmente diffidente potrebbe essere tentato addirittura di definire il
CDM una forma di ‘tied aid’. Si ha il tied aid quando il flusso di risorse proveniente dai paesi
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donatori viene condizionato alla scelta dei recipienti di acquistare, ad esempio, apparecchiature
(equipment) o servizi dalle imprese degli stessi paesi donatori. Generalmente, questa pratica ha
implicazioni deleterie per l’assistenza allo sviluppo. La Banca Mondiale stima che vincolare
l’aiuto all’acquisto di beni e servizi prodotti nei paesi donatori, riduce il valore dell’aiuto di circa
il 25%, rispetto al caso in cui le finalità dell’aiuto medesimo venissero soddisfatte localmente, o
tramite acquisti a condizioni competitive sui mercati internazionali – v. Kete et alt. (2001).
L’aiuto vincolato produce anche gravi distorsioni del mercato, specialmente in quello
internazionale dei capitali e delle infrastrutture. Esse vengono esacerbate dal fatto che in molti
paesi, le imprese non hanno uguali possibilità di accesso al (o pari capacità di competere per il)
sostegno finanziario da parte dei governi, e di quello fornito dalle agenzie di credito
all’esportazione.
A partire dagli anni ‘60, le pecche del tied aid hanno indotto i governi dei paesi OCSE a
cooperare per limitare l’uso di questa pratica. Vari accordi fra detti paesi consentono l’aiuto
vincolato solo quando questo finanzia la realizzazione di progetti il cui elemento di gratuità sia
almeno del 35% (del 50%, se il progetto deve essere realizzato in un least developed country).
Deve trattarsi inoltre di progetti non financially viable – la qual cosa è da valutarsi caso per caso,
ma, secondo la categorizzazione dell’OCSE, sono qualificabili in questo modo i progetti diretti
alla fornitura di un bene pubblico, capital-intensive, aventi un costo elevato per unità di
produzione, e tali da rendere disponibile un prodotto che i locali non sarebbero in grado di
permettersi al prezzo di mercato, v. OECD (1996). Infine, l’aiuto vincolato è ammissibile solo se
i progetti non vengono intrapresi in un PVS fra quelli il cui reddito è più elevato. Fino ad ora
solo gli Stati Uniti ed il Regno Unito hanno deciso di considerare come unico possibile, l’aiuto
non soggetto a condizioni. Ad ogni modo, malgrado gli accordi di cui sopra, la maggior parte dei
paesi industrializzati continua a praticare l’aiuto vincolato, in una misura variabile da caso a
caso. Tale misura dipenderà ovviamente dal grado di insofferenza nei confronti del fatto che il
denaro dei tax-payer venga speso per sussidiare le esportazioni del settore privato, ma a volte
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può esistere un trade-off tra l’entità degli aiuti allo sviluppo e la misura in cui questi aiuti non
sono soggetti a vincoli. In altri termini, il sostegno politico agli aiuti allo sviluppo da parte delle
business constituencies verrebbe a mancare, in assenza della condizionalità da cui esse traggono
vantaggio. Il Giappone per esempio ha sostenuto che ‘Certain percentage of yen loans need to
be tied in order to avoid a loss of public support for Japanese aid itself in the current tight fiscal
situation’ – v. Castellano (2000). E durante i negoziati sul cambiamento climatico tenutisi a
Lione nel settembre 2000, l’ambasciatore giapponese dichiarò l’intenzione del suo paese di
utilizzare l’assistenza allo sviluppo per finanziare i progetti del CDM.
Io reputo, assieme a Kete et alt. che l’unico apporto ammissibile dell’ODA al CDM sia il
facilitare la creazione, nei paesi meno sviluppati fra quelli in via di sviluppo, di una capacità. La
capacità – tanto del settore privato quanto di quello pubblico – di competere per attrarre i
progetti. Vale a dire la capacità di individuarli, monitorare la loro attuazione e certificarla,
negoziare tutto ciò che li riguarda, e valutare quelli che vengono loro proposti. Tale linea di
intervento sarebbe di fatto in continuità con la condotta passata dei paesi donatori, i quali dagli
anni ‘60, hanno allocato gli aiuti includendo, tra proprie priorità, anche quella dell’innalzamento
delle capacità umane ed istituzionali.
Ciò detto, rimane il rischio della diversione delle risorse, ma ben poco può essere fatto per
mitigarlo. Perlomeno – io credo – fintantoché l’entità e la composizione degli aiuti verso i paesi
in via di sviluppo rimangono nella piena discrezionalità dei paesi donatori. Gli aiuti allo sviluppo
hanno natura volontaria. Così, se ad un paese è fatto divieto di usare detti aiuti per acquisire
credits (magari facendo piantare alberi ai contadini del Chiapas) invece che per costruire
ospedali in un least developed country, tale paese può farlo: basta che anziché incrementare le
risorse stanziate per l’ODA, costituisca ed alimenti un fondo per la mitigazione del cambiamento
climatico. Perciò l’unico vero modo per garantire che non sia abbia ‘diversione’ di risorse dal
sostegno allo sviluppo verso la mitigazione del cambiamento climatico sarebbe stabilire un
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quantitativo di risorse che i paesi donatori sono obbligati (in virtù di impegni assunti in sede
internazionale) a stanziare.
Nel 1970 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò una risoluzione con la quale si
richiedeva (a ciascun paese economicamente avanzato) di accrescere progressivamente l’
assistenza ai paesi in via di sviluppo e di fare tutto il possibile per far sì che questa raggiungesse
un ammontare minimo netto dello 0,7, in termini del GDP ai prezzi di mercato. Ciò ‘by the
middle of the decade’. Nella realtà l’obiettivo posto dalla risoluzione è stato raggiunto solo da
Danimarca, Norvegia, Svezia e Paesi Bassi, e nel periodo ‘91-’98 il rapporto fra gli aiuti e la
somma dei GDP dei paesi donatori si è praticamente dimezzato, cadendo dallo 0,42% allo 0,
26%.
La clausola della non diversione sarebbe certamente rispettata se, come propose una volta la
Danimarca – v. Intergovernmental Negotiating Committee for a Framework Convention on
Climate Change (1993), citato in Michaelowa e Dutsche (2000) – l’implementazione congiunta
di progetti nei paesi in via di sviluppo venisse condizionata al raggiungimento del target per gli
aiuti fissato a suo tempo dalle nazioni Unite.
I.7 I target ed il ‘sequestro’ del carbonio tramite i ‘sink’
E’ utile parlare di alcune attività il cui svolgimento darà verosimilmente un grosso contributo
alla semplificazione dell’adempimento degli obblighi in capo ai paesi dell’Allegato B – per
alcuni, un contributo eccessivo.
Le attività in parola sono quelle di imboschimento, rimboschimento, disboscamento; vanno
accomunate sulla base del fatto che consentono il sequestro del carbonio, o come anche si dice,
costituiscono dei pozzi di assorbimento del carbonio.
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Richiamerò sinteticamente le disposizioni del Protocollo loro dedicate, ma prima va
ricordato cosa c’è dietro il concetto di pozzo di assorbimento (sink): la crescita biologica delle
piante. Essa è consentita dalla fotosintesi clorofilliana, un processo il quale comporta, inter alia,
che il carbonio si leghi alle cellule delle piante. La crescita in parola è in sostanza il tramite di un
vero e proprio immagazzinamento del carbonio atmosferico nelle piante: sottrae CO2
all’atmosfera, e la sottrazione da parte di un ecosistema è tanto maggiore quanto è più grande la
quantità di biomassa ivi contenuta; le foreste, in particolare – causa le più grandi quantità di
biomassa che contengono – sono in grado di assorbire quantità consistenti di anidride carbonica.
La maggior parte dei paesi sviluppati dispone di accurati inventari forestali, ed è dunque in grado
di costruire una baseline utile per la stima della biomassa presente nella foresta. Specie differenti
di alberi e piante avranno differenti densità di biomassa, ma queste sono ben note, e così la
biomassa della foresta è rinvenibile mediante tecniche di campionamento. Gli alberi tipicamente
crescono con lentezza all’inizio, e poi ad un tasso in aumento, destinato a stabilizzarsi nel
momento in cui gli alberi raggiungono la maturità. Le tipologie di crescita dipendono dalle
specie, dalle condizioni climatiche, dalla fertilità del suolo, e da altri fattori. In alcune parti del
mondo certe specie crescono rapidamente, sequestrando quantità sostanziali di carbonio in meno
di una decade.
La possibilità che le varie nazioni hanno di ricorrere alle foreste per sequestrare l’anidride
carbonica cambia ovviamente da nazione a nazione. Si pensa ad esempio che nella maggior parte
dell’Europa le possibilità di far crescere ancora le foreste, così che queste sequestrino anidride
carbonica, siano limitate. In realtà, anzi, parecchi osservatori sostengono che la maggior parte
delle foreste europee sperimenterà un declino, nelle prime decadi del 21 secolo. Parecchi paesi
fuori dall’Europa (fra cui gli Stati Uniti), si aspettano che le loro foreste vadano incontro ad una
sorte di tipo esattamente opposto – ciò, almeno, secondo quanto affermato da Sedjo (2001).
Verosimilmente è anche per questo motivo che, durante il processo di definizione delle regole
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destinate a disciplinare il ricorso al sequestro terrestre, le quali erano state appena abbozzate nel
Protocollo, sorsero contrasti fra le nazioni firmatarie.
Il sequestro ‘terrestre’ dell’anidride carbonica non vuol dire solo l’impiego delle foreste
come mezzo di assorbimento del carbonio. Infatti prati, paludi, e terreni agricoli possono
anch’essi contribuire all’assorbimento del carbonio; i prati non generano quantità di biomassa
paragonabili a quelle prodotte dalle foreste, ma sono efficaci nel tenere il carbonio imprigionato
nel suolo. Le paludi possono pure loro trattenere ammontari considerevoli di carbonio.
Tuttavia le foreste sembrano offrire il potenziale di gran lunga maggiore di assorbimento del
carbonio, poiché ne assorbono grossi quantitativi sia al di sopra che al di sotto del terreno. Deve
ad ogni modo tenersi presente che il loro uso come strumento di policy presenta delle non
trascurabili difficoltà. Poniamo ad esempio che, essendo forte in un paese la volontà di
sequestrare carbonio abbia ivi inizio un rilevante processo di riforestazione; e che molti dei
nuovi alberi siano alberi suscettibili di essere tagliati per ottenere legname. In questo caso, i
produttori di legname, che annualmente piantano alberi su un numero di ettari stimabile
nell’ordine delle migliaia (così da ottenerne legna da vendere all’industria del legno), potrebbero
essere indotti a rivedere le loro strategie di investimento nella crescita degli alberi. Ciò a causa
dell’attesa di una riduzione del prezzo del legno, a sua volta dovuta all’espansione delle foreste
(e quindi della futura offerta di legno). Si assisterebbe in sostanza ad una compensazione
dell’effetto (benefico, in termini di assorbimento del carbonio) associato all’anzidetta
espansione. Un’altra difficoltà connessa all’uso delle foreste come strumento di politica
climatica ha a che fare con la protezione delle foreste ‘in pericolo’, come quelle dei tropici. Una
foresta può essere in pericolo a causa dell’intenzione di trasformarla in terreno agricolo, e allora
il rinunciare alla trasformazione potrebbe mettere in condizione di ottenere dei credits. Nulla
esclude però che in questo modo la pressione della deforestazione allentandosi su un’area,
divenga al tempo stesso più forte in un’altra.
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La maggior parte degli studi considera i costi associati all’uso dei sink più bassi di quelli
impliciti negli interventi che dovrebbe effettuare il settore energetico, per ottenere gli stessi
risultati associati all’uso dei sink. A detto uso si accompagnano anche benefici ulteriori, quali la
riduzione dell’erosione, la protezione degli spartiacque, la protezione della biodiversità delle
esistenti foreste native. Sia come sia, nel migliore dei casi, il potenziale dei carbon sink e di altri
di sistemi terrestri di catturare l’anidride carbonica, non va oltre la rimozione di un terzo delle
attuali emissioni nette. Per di più, man mano che il volume delle foreste crescerà su scala
mondiale, i costi di questo sistema cresceranno.
L’opinione espressa da Sedjo è che sarebbe prudente considerare il sistema in parola una
strategia di mitigazione del cambiamento climatico temporanea, tale da circoscrivere i costi della
mitigazione stessa e da lasciare ancora all’umanità fra le tre e le cinque decadi per trovare
sistemi di contenimento delle emissioni di CO2 più efficaci di quelli attuali.
I.8 Le disposizioni del Protocollo riguardo ai sink
In base all’art. 3.3 del Protocollo di Kyoto, Le variazioni nette di gas ad effetto serra, relative ad
emissioni da fonti, e da pozzi di assorbimento, risultanti da attività umane direttamente legate
alla variazione nella destinazione d’uso dei terreni e dei boschi, limitatamente
all’imboschimento, al rimboschimento e al disboscamento dopo il 1990, calcolate come
variazioni verificabili delle quantità di carbonio nel corso di ogni periodo di adempimento,
saranno utilizzabili per adempiere agli impegni assunti (di riduzione o limitazione delle
emissioni).
Imboschimento (afforrestation) e rimboschimento (reforestation) sono due concetti distinti,
in quanto il rimboschimento riguarda le aree prive di foreste da meno di 50 anni. Tuttavia gli
interventi di rimboschimento saranno ‘validi’ ai fini dell’adempimento degli impegni solo se
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attuati su aree prive di foreste già prima del 1990. Questa restrizione risponde all’esigenza di
evitare un incentivo perverso al taglio delle foreste esistenti – v. Michaelowa (2001).
Deve essere sottolineato che il quantitativo emissioni autorizzate nel commitment period
2008-12, di cui sopra, in generale, non potrà essere comprensivo delle emissioni nette generate
dai sink nel 1990 (o in altro anno o periodo di riferimento). Questo quantitativo consta cioè delle
sole – v. l’art. 3.7 – emissioni antropiche, come quelle legate all’impiego dei combustibili fossili.
Se si considerano il tipo di uso che viene fatto di un terreno, il cambiamento di tale uso e il
settore delle foreste (land use, land use-change, forestry, ossia ciò di cui si compone il settore
LULUFC), tutte e tre queste cose hanno la caratteristica assai particolare di poter: o generare
emissioni di anidride carbonica – le quali vanno così ad aggiungersi a quelle delle altre fonti – o
assorbire anidride carbonica, v. Marland e Schlamadinger (2000). Malgrado ciò, nel linguaggio
tecnico, è ormai un’abitudine indicare con l’espressione ‘emissioni lorde di gas serra’ il totale di
quelle che provengono da fonti diverse rispetto alle tre indicate poco sopra – e che non includono
dunque, ad esempio, l’anidride carbonica rimossa (o quella generata) dai cambiamenti nella
destinazione d’uso di un terreno. Viceversa, per ‘emissioni nette’ si intendono le emissioni
ottenute sottraendo a quelle di tutte le altre fonti l’anidride carbonica sequestrata dal settore
LULUFC (aggiungendovi, però, pure, al tempo stesso l’anidride emessa da questo medesimo
settore).
In una data nazione è logico attendersi la compresenza di anidride sequestrata ed anidride
prodotta dal settore LULUFC, e la seconda può benissimo superare la prima; per cui il
‘malgrado’ usato poche righe più sopra si riferisce al fatto che qualificando come ‘lorde’ le
emissioni di gas serra quantificate senza tener conto del settore LULUFC, e come nette quelle
quantificate tenendone conto, si può dare l’idea – sbagliata – che il tener conto del settore
LULUFC comporti necessariamente una sottrazione di emissioni. In realtà questo avviene solo
se le emissioni nette di questo settore sono negative. Ossia quando l’azione del settore LULUFC
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come sink non è più che compensata dall’accrescimento delle emissioni del quale si sia reso
eventualmente responsabile (in contemporanea con l’anzidetta azione) il medesimo settore.
Per fare un esempio: un anno la crescita degli alberi nelle foreste di un paese porta alla
rimozione dall’atmosfera di un certo quantitativo di CO2. Però, lo stesso anno, un incendio
distrugge diversi ettari di bosco immettendo nell’atmosfera un quantitativo di CO2 più grande di
quello che le ha sottratto la crescita degli alberi.
In questo caso le emissioni negative (CO2 assorbita) del settore LULUFC (o meglio della sua
componente ‘foreste’) saranno state inferiori (in valore assoluto) alle emissioni positive
imputabili al settore medesimo (o meglio alla sua componente ‘foreste’). Perciò le emissioni
nette del settore LULUFC (o meglio della sua componente ‘foreste’) per quell’anno saranno state
positive: l’assorbimento di CO2 è stato inferiore all’emissione della medesima.
Conclusivamente, si può dire che le ‘emissioni nette posive’ corrispondono ad un fenomeno
di accrescimento dell’anidride carbonica presente nell’atmosfera. Le ‘emissioni nette negative’
corrispondono invece ad un fenomeno di sottrazione dell’anidride dall’ atmosfera.
Fra le varie proposte che vennero avanzate durante la negoziazione del Protocollo di Kyoto
riguardo alla ‘contabilizzazione’delle emissioni provenienti dal (o del sequestro reso possibile
dal) settore LULUFC vi fu quella degli Stati Uniti: adottare un approccio ‘net-net’, e cioè
prendere come emissioni dell’anno (o periodo base) quelle nette di quello stesso anno (o periodo
base)… Prendere poi, al tempo stesso, come emissioni relative al commitment period quelle
nette generate durante il quinquennio 2008-12. Questa soluzione però sarebbe stata penalizzante
per i paesi in cui nell’anno base si era verificato un forte assorbimento, perché poteva essere
complicato mantenerne l’intensità fino a tutto il commitment period (effetto di saturazione). Nel
contesto di un approccio net-net, la diminuzione di detta intensità sarebbe stata l’equivalente di
una crescita nell’impiego di combustibili fossili… Una soluzione alternativa (in verità, quella poi
effettivamente adottata) poteva essere un approccio ‘gross-net’, ossia target formulati in termini
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di emissioni lorde nel 1990, ma quantità di CO2e generate nel 2008-12 espresse in termini di
emissioni nette.
In realtà quello presente nel Protocollo di Kyoto, è un ‘limited gross-net approach’, nel senso
che è ammesso sostituire, per dire, la limitazione dell’uso di combustibili fossili con gli
interventi di sequestro dell’anidride carbonica. Ma il Protocollo contiene anche – v. l’art. 3.3
citato più sopra – dei limiti spaziali, temporali (ed anche inerenti al tipo di attività intraprese)
entro i quali attuare detti interventi. Non sarebbe così se per il sequestro dell’anidride carbonica
in una nazione andassero bene tutti i terreni, tutti i momenti e tutte le attività potenzialmente in
grado di condurre all’assorbimento.
Lo scambio di carbonio fra biosfera terrestre ed atmosfera terrestre è parte del cosiddetto
‘ciclo del carbonio’, il quale coinvolge flussi e stock (uno di tali stock è quello della CO2
accumulantesi nell’atmosfera); per una sua sintetica descrizione si rinvia ancora una volta a
Marland e Schlamadinger. Secondo costoro, gli scienziati conoscono il funzionamento di base di
questo ciclo, e possono dimostrare che esiste un legame di causa-effetto fra combustione dei
carburanti fossili ed incremento di anidride carbonica nell’atmosfera. Ma ancora molto deve
essere appreso sul ciclo in se, e su come reagirà in futuro all’intervento umano. L’IPCC
quantificò tempo fa come pari a 0,7 +/-1,0 miliardi di tonnellate annuali l’incremento del
carbonio nella biosfera. L’accumulazione di carbonio è il risultato del ritorno delle foreste, o del
loro essersi riprese dopo danni causati da fattori naturali e dall’intervento umano (ad esempio
tramite il disboscamento, che è stato forte in particolar modo alle medie latitudini dell’Emisfero
Nord del globo). Essa, probabilmente, è pure un portato della fertilizzazione delle foreste dovuta
all’accresciuta immissione di CO2 nell’atmosfera da parte dell’uomo, e della maggiore
disponibilità di nutrienti essenziali per le piante, anch’essa riconducibile all’intervento umano.
Parte dell’incremento di carbonio nella biosfera terrestre può trovarsi immagazzinato nei suoli.
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Stando agli ultimi autori citati, la negoziazione del Protocollo di Kyoto si svolse in un
contesto di incertezza sul dove si stesse verificando l’incremento.
Questa incertezza non è priva di rilievo. Deve essere infatti tenuto presente il seguente caso.
Poniamo che nel 1990 una nazione abbia avuto emissioni lorde per 100 MMTC (Million Metric
Tons of Carbon) e nette per 80 MMTC… L’approccio ‘gross-net’ significa che, se nel 2010 le
emissioni nette rimangono le stesse del 1990, e se la nazione in parola avesse esclusivamente
l’obbligo di stabilizzare le proprie emissioni ai livelli del 1990, una crescita di 20 MMTC nelle
emissioni annuali estranee al settore LULUFC, non comporterebbe alcuna inadempienza a carico
della nazione medesima.
Fra i negoziatori del Protocollo di Kyoto, c’era chi temeva che nel periodo 2008-12
divenisse possibile – specie nell’eventualità che la maggior parte dell’assorbimento risultasse
negli anni successivi essere in corso soprattutto presso i paesi aventi obblighi di controllo delle
emissioni – scansare interventi incisivi sulle emissioni lorde (adducendo come giustificazione il
basso livello di quelle nette)…
In sede di negoziazione ed approvazione del Protocollo, le preoccupazioni circa il trade-off
fra ‘integrità ambientale’ del medesimo e la ‘cost-effectiveness’ dei sink sbarrarono la strada
all’adozione di un ‘full’ gross-net approach, ma non poterono impedire che parte degli
‘sbarramenti’ introdotti avesse carattere ‘transitorio’. Il testo del Protocollo lasciava ad esempio
aperta la possibilità di una estensione delle attività in grado di procurare credits per il sequestro
di CO2.
Come tutti ricorderanno, successivamente, in un importante round negoziale avutosi all’Aia
nel novembre 2000, ‘Europa’ e Stati Uniti si trovarono ai ferri corti sulla misura in cui avrebbe
dovuto essere ammissibile in futuro la sostituzione di tonnellate di CO2 ‘non prodotte’ con
tonnellate di anidride carbonica ‘sequestrate’. Da questa parte dell’Atlantico prevaleva la
tendenza ad ammettere una sostituibilità circoscritta, dalla parte opposta si voleva invece che le
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regole concernenti detta sostituibilità sfruttassero i punti ‘lasciati in bianco’ dal Protocollo in
modo per rendere il più possibile estesa la sostituibilità in questione… Il disaccordo portò al
fallimento del round negoziale di cui sopra.
La materia dei sink ha trovato poi una propria sistemazione nel corso dei negoziati avutisi a
Marrakesh nel dicembre 2001, a dire il vero in un contesto politico del tutto mutato – causa il
sopravvenuto abbandono del tavolo negoziale da parte degli Stati Uniti.
Prima di dire qualcosa circa tale sistemazione, vorrei notare che il paragrafo 7 dell’art. 3 crea
un’eccezione abbastanza bizzarra rispetto alle regole delineate nel resto dell’articolo: in base a
detto paragrafo, le nazioni aventi obblighi di riduzione o limitazione delle emissioni nelle quali
la variazione nella destinazione d’uso dei terreni e il settore delle foreste abbiano costituito nel
1990 (o in altro anno o periodo di riferimento) una fonte netta di emissione di gas ad effetto
serra, avranno come base (cui applicare le percentuali di riduzione o limitazione), le emissioni
antropiche aggregate, espresse in equivalente biossido di carbonio, meno le quantità assorbite dai
pozzi di assorbimento all’anno 1990, però quelle derivanti dalla sola variazione nella
destinazione d’uso dei terreni.
Alcuni parlano, in relazione al contenuto del paragrafo 7, di ‘Clausola Australiana’,
sostenendo che detta nazione sarebbe stata l’unica a potersene avvantaggiare, poiché era l’unica
a rientrare nella fattispecie del paragrafo.
In detta fattispecie vengono considerate la variazione della destinazione d’uso dei terreni ed
il settore delle foreste, però solo la prima conta ai fini della determinazione cui applicare la
percentuale di riduzione o limitazione delle emissioni (come già detto, in base al Protocollo di
Kyoto le emissioni dell’Australia nel commitment period potranno essere il 108% di quelle che
essa ha generato nel 1990). Ora, poiché in Australia il settore delle foreste, nei termini del
Protocollo di Kyoto, dal 1990 si comportato come un sink, la sua omissione si traduce in
un’espansione delle emissioni autorizzate nel 2008-12. Infatti la variazione d’uso dei terreni nel
42
1990 generò, a causa del land clearing emissioni nette positive: 102,7 milioni di tonnellate di
CO2e, che nel 1997 erano arrivate ad essere 64,8: un calo del 36% in 6 anni. Si è trattato di un
calo spontaneo, dovuto cioè, più che a politiche governative, ad una diminuzione (avvenuta negli
anni ‘80 e ‘90) della profittabilità commerciale della conversione a pascolo dei terreni, ed al fatto
che le terre migliori avevano già avuto un cambio di destinazione. La previsione dell’Australia
Institute fu che l’effetto congiunto del loophole or ora descritto, e di un programma federale (il
bushcare program) volto a ridurre la perdita netta di vegetazione a partire dal 2000, avrebbero
permesso alle emissioni di CO2 associate all’uso di combustibili fossili di crescere del 33% !
V.Australia Institute (1999).
Ho voluto riportare le valutazioni dell’Australia Institute perché – quale che sia la misura in
cui esse rispecchiano la realtà – esemplificano ulteriormente come la liceità di un ricorso ampio
ai sink possa porsi in contrasto con l’obiettivo dell’integrità ambientale del Protocollo –
naturalmente posto che tale integrità vada interpretata pure come capacità di disincentivare la
forma più difficilmente rimovibile di interazione fra l’umanità ed il clima, vale a dire l’impiego
dei combustibili fossili nelle attività produttive e di consumo.
Sia come sia, il modo in cui anni dopo (nel 2001, a Marrakesh) sono stati rivisti (o meglio,
interpretati) i paletti posti dal Protocollo medesimo al ‘sequestro’ del carbonio è abbastanza
indicativo di quanto poco abbiano pesato, alla fine, le obiezioni all’uso esteso dei ‘sink’.
Nonostante la serie di limiti che gli Accordi di Marrakesh hanno previsto rispetto alle possibilità
di attuazione del sequestro del carbonio, e che sarebbe troppo lungo considerare nel dettaglio, ha
prevalso alla fine una interpretazione ‘estensiva’ delle disposizioni del Protocollo. E’ stato
dichiarato ammissibile lo svolgimento di attività aggiuntive rispetto a quelle considerate nel
medesimo Protocollo. Queste attività (quelle di cui al suo art. 3.4) sono la gestione delle foreste
(forest management), quella dei terreni agricoli e da pascolo (grazing land management,
cropland management), ed infine la ‘rivegetazione’ (revegetation).
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Le definizioni precise di queste attività, ed in generale del concetto di foresta e delle attività
LULUFC, come da Accordi di Marrakech, sono le seguenti:
‘[…] For land use, land-use change and forestry activities under Articles 3.3 and 3.4, the following definitions shall apply: (a)
“Forest” is a minimum area of land of 0.05-1.0 hectares with tree crown cover (or equivalent stocking level) of more than 10-30
per cent with trees with the potential to reach a minimum height of 2-5 metres at maturity in situ. A forest may consist either of
closed forest formations where trees of various storeys and undergrowth cover a high proportion of the ground or open forest.
Young natural stands and all plantations which have yet to reach a crown density of 10-30 per cent or tree height of 2-5 metres
are included under forest, as are areas normally forming part of the forest area which are temporarily unstocked as a result of
human intervention such as harvesting or natural causes but which are expected to revert to forest; (b) “Afforestation” is the
direct human-induced conversion of land that has not been forested for a period of at least 50 years to forested land through
planting, seeding and/or the human-induced promotion of natural seed sources (c) “Reforestation” is the direct human-induced
conversion of non-forested land to forested land through planting, seeding and/or the human-induced promotion of natural seed
sources, on land that was forested but that has been converted to non-forested land. For the first commitment period, reforestation
activities will be limited to reforestation occurring on those lands that did not contain forest on 31 December 1989;
(d) “Deforestation” is the direct human-induced conversion of forested land to non-forested land; (e) “Revegetation” is a direct
human-induced activity to increase carbon stocks on sites through the establishment of vegetation that covers a minimum area of
0.05 hectares and does not meet the definitions of afforestation and reforestation contained here; (f) “Forest management” is a
system of practices for stewardship and use of forest land aimed at fulfilling relevant ecological (including biological diversity),
economic and social functions of the forest in a sustainable manner; (g) “Cropland management” is the system of practices on
land on which agricultural crops are grown and on land that is set aside or temporarily not being used for crop production; (h)
“Grazing land management” is the system of practices on land used for livestock production aimed at manipulating the amount
and type of vegetation and livestock produced […].
Per quel che concerne la gestione delle foreste, ciascun paese potrà servirsene al fine di
centrare i propri target di controllo delle emissioni, ma non al di la di una certa misura. Infatti
delle quantità di CO2e rimosse tramite detta gestione non si terrà conto, qualora tale quantità
ecceda una determinata percentuale delle emissioni dell’anno base, diversa da paese a paese.
Quanto alla fissazione delle percentuali, la quale avvenne nel precedente luglio 2001 a Bonn, è
degno di nota il fatto che nessun delegato russo si trovò presente alla sua determinazione della
percentuale per la Russia, e che quest’ultima chiese poi per lettera che la percentuale assegnatale
(2%) venisse raddoppiata. Così è stato fatto – v. Vrolijk (2001).
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I.9 Le disposizioni del Protocollo riguardo alla sua propria entrata in vigore
Cosa diede alla Russia un potere negoziale forte abbastanza da esigere ed ottenere il raddoppio?
Il motivo va ricercato nelle disposizioni del Protocollo di Kyoto riguardo alla sua propria entrata
in vigore. L’entrata in vigore del Protocollo ha richiesto la ratifica del medesimo da parte di un
numero sufficiente di paesi dell’Allegato I della Convenzione (l’art. 25 ha imposto che tali paesi
fossero almeno 55), e non avrebbe potuto avvenire, se (come da art. 25) la percentuale delle
emissioni che questi, messi insieme, effettuarono nel 1990, non fosse risultata superiore al 55%
delle emissioni generate in quello stesso anno dalla totalità delle nazioni elencate nell’Allegato I.
Di conseguenza la Russia, dopo il ripudio del Protocollo da parte degli Stati Uniti – responsabili,
come ammise il loro stesso Presidente, di circa il 20% della produzione mondiale di gas serra, v.
Bush (2001) – ha acquisito una forza contrattuale notevole, data la grande quantità di emissioni
‘mancanti all’appello’, e tuttavia necessarie, affinchè potesse essere oltrepassata la soglia del
55% (di cui all’art. 25). La posizione di forza acquisita dalla Russia suggerisce l’esistenza di un
trade-off fra le concessioni che debbono essere fatte a paesi restii ad essere parte di un trattato
internazionale sulla riduzione delle emissioni di gas serra, e l’efficacia ambientale del trattato
stesso.
I.10 Il problema dell’enforcement dei limiti alle emissioni
La minaccia di una punizione è essenziale per ottenere il rispetto dei vincoli. Essa deve essere
credibile. Per essere credibile la minaccia deve far stare chi la pone in pratica meglio che se non
la ponesse in pratica, data la condotta dello stato che non rispetta i vincoli. Per influire sul
comportamento degli stati soggetti ai limiti, la punizione minacciata deve essere severa, cioè
deve far stare il paese che non si attiene ai limiti significativamente meno bene di come starebbe
se li rispettasse. Il problema è che quanto più è severa la punizione, tanto meno è credibile la sua
45
posizione in essere, perché è più grande il danno che da detta posizione in essere ricaverebbero i
paesi che attuano l’enforcement.
E’ opportuno sottolineare cosa è che rende così difficile da realizzare l’enforcement di un
accordo sulla mitigazione del cambiamento climatico. Per gli accordi commerciali l’enforcement
non è poi un ostacolo tanto grande; il commercio infatti è un’attività bilaterale: il paese
danneggiato da una violazione dei patti può attuare una rappresaglia. La mitigazione del
cambiamento climatico però è un bene pubblico globale. Se un paese si sottrae all’offrirlo, un
altro paese può punire il primo. Ma al contrario di quel che accade nel caso del commercio,
l’enforcement ha implicazioni più ampie. Innanzitutto, lo stesso enforcement ha la natura di un
bene pubblico, e così tende ad essere offerto in misura inferiore a ciò che sarebbe ottimale, per i
motivi usuali. In secondo luogo, se l’enforcement implica una ritorsione consistente in un
comportamento identico a quello di chi ha violato i patti (una riduzione dell’attività di
mitigazione), allora anche gli altri paesi che cooperano, saranno danneggiati dall’enforcement.
I negoziati di Kyoto del 1997 non produssero alcun accordo circa le sanzioni da applicare nei
confronti dei paesi la cui condotta fosse risultata non conforme alle disposizioni del Protocollo.
Quando questa questione è stata finalmente affrontata, nel luglio 2001, gli sforzi negoziali si
sono concentrati più che sulla ‘reciprocità’, sul modo in cui gli anzidetti paesi avrebbero dovuto,
durante il commitment period successivo a quello del 2008-12 (il quale è ancora da stabilire),
porre rimedio al mancato rispetto dei limiti per le emissioni. Si è deciso che chi non rispetta i
limiti durante il 2008-12 vedrà decurtarsi il budget di emissioni assegnatogli per il periodo
successivo; a questo budget verrà sottratto il quantitativo delle emissioni generate in eccesso nel
2008-12, moltiplicato per 1,3. Il che vuol dire che se, nel 2008-12, una nazione emetterà 100
tonnellate in più rispetto al consentito, poi, nel successivo commitment period (il 2013-17) sarà
tenuta ad emettere 130 tonnellate in meno, rispetto a quelle che avrebbe altrimenti diritto a
generare (stante il suo target di limitazione o riduzione per il nuovo commitment period). Questa
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‘soluzione’ del problema ‘enforcement’ è del tutto insoddisfacente, dal punto di vista degli
incentivo al rispetto dei vincoli. In primo luogo esiste la possibilità che la punizione nei confronti
dei comportamenti devianti venga rimandata in perpetuo. Ossia: alla nazione che non abbia
rispettato i vincoli nel 2008-12 viene decurtato il budget di emissioni nel periodo successivo, ed
essa di nuovo non rispetta i vincoli, cosa che implica una nuova decurtazione a suo danno.
Neanche durante il terzo periodo questa nazione mantiene le emissioni entro il limite del proprio
budget, e così via... In secondo luogo l’entità della punizione non dipende solo dal numero per il
quale vengono moltiplicate le emissioni in eccesso (così da determinare la penalità), ma pure dai
limiti posti alle emissioni, poniamo, nel 2013-17. E detti limiti non possono essere imposti: i
paesi cui detti vincoli sono destinati debbono anche accettarli! Se un paese non rispetta i limiti
nel primo commitment period, non dovrà fare altro che ottenere dei limiti laschi per il secondo
periodo, o se non ci riesce, chiamarsi fuori dalla cooperazione in materia di riduzione delle
emissioni…
Secondo Aldly et alt. (2003), stabilire delle multe anziché delle riduzioni delle emissioni
consentite in futuro non modificherebbe granchè i termini nei quali si pone il problema
dell’enforcement: infatti gli altri paesi dovrebbero pretendere il pagamento delle multe da parte
dei paesi che abbiano ecceduto i limiti, ma ciò può comportare degli svantaggi, per detti altri
paesi.
Alcuni autori, per esempio Aldly et alt. (2001), hanno visto nella restrizione del commercio
attuata da parte dei paesi rispettosi dei vincoli (a danno di quelli che non lo sono), uno strumento
utile ad incentivare il rispetto dei vincoli. Questa restrizione può attutire o anche eliminare il
‘leakage’ (ossia la tendenza delle emissioni, e delle imprese che le producono, a spostarsi verso
quei paesi le cui regolamentazioni della produzione di gas serra sono più permissive. Questo
fenomeno è ovviamente in grado di tradursi, a livello globale, in un effetto accrescitivo di detta
produzione, effetto che tende a controbilanciare quello diminutivo indotto dalle regolamentazioni
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più stringenti, laddove vengono poste in essere). Però metterla in pratica presenterebbe difficoltà
non indifferenti.
Ipotizziamo che il Protocollo di Kyoto venisse pienamente implementato, e che il trading
delle emissioni funzionasse alla perfezione, così che il costo marginale della riduzione delle
emissioni sia il medesimo per tutte le nazioni che la attuano (sull’ottimalità della situazione in
cui i costi marginali dell’abbattimento sono uguali ovunque, v. cap.2). Ci sono dei paesi che non
cooperano: non fanno nulla per ridurre le loro emissioni. Per fare un esempio concreto,
immaginiamo che il prezzo ombra dell’emettere una tonnellata di carbonio pari a $25, e che nei
paesi che non cooperano, il costo marginale delle riduzioni sia nullo. Allora il leakage verrebbe
eliminato mediante l’esazione, alla frontiera, di una tassa di $25 per tonnellata di carbonio
(Border Tax Adjustment). Ossia, alla frontiera di ogni paese che coopera vengono calcolate le
emissioni implicite nella fabbricazione di ogni bene che le attraversa, indipendentemente dal
luogo di produzione. Tutte le importazioni sono assoggettate ad un dazio di $25 a tonnellata,
tutte le esportazioni godono di un sussidio dello stesso importo. In questo modo i produttori
interni di un bene non si troverebbero in una situazione di svantaggio competitivo, tanto entro i
confini del loro paese (dove il bene è tassato 25$ a tonnellata indipendentemente dal luogo di
produzione) quanto all’estero (dove sul bene non ci sono tasse). Il ‘campo di gioco’ nel quale
avviene la competizione tornerebbe dunque ad essere ‘pianeggiante’, nonostante l’introduzione
dei vincoli alle emissioni nei paesi che cooperano (in verità, se si vuole parlare di ‘punizione’, a
mio avviso esso potrebbe essere determinato anche in modo tale da permettere un lieve
miglioramento della ragione di scambio dei paesi che cooperano).
Tuttavia, per quanto possa apparire semplice, in linea di principio, ricorrere alla restrizione
del commercio, in pratica è impossibile calcolare le emissioni generate nella produzione e nella
distribuzione di tutti i beni. Inoltre, anche se il WTO si è evoluto nella direzione di un maggior
sostegno alla protezione dell’ambiente, il dazio ed il sussidio di cui sopra verrebbero applicati
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sulla base del modo in cui vengono prodotti i beni, piuttosto che sui beni in se, e ciò va contro le
regole del WTO. Si potrebbe poi sostenere il BTA è uno strumento improprio, a causa del rischio
che il medesimo venga determinato non soltanto nella misura occorrente a rendere piano il
terreno di gioco, ma anche in una tale da migliorare oltremisura la ragione di scambio del paese
che lo introduce. E forse non sarebbe così semplice stabilire quando il BTA è eccessivo.
Come si vede, l’assenza di un’autorità sovranazionale potente e rispettata quanto occorre per
imporre il rispetto dei vincoli, fa dell’enforcement dei medesimi un problema sostanzialmente
intrattabile.
Volendo completare la presente sintesi di come siano stati fronteggiati i problemi di
enforcement connessi al rispetto dei vincoli stabiliti dal Protocollo di Kyoto, ricordo che, per
ridurre la possibilità che si presentino fenomeni di ‘overselling’ (la cessione, da parte di una
nazione, di ammontari eccessivi di autorizzazioni ad inquinare, così che detta nazione si ritrovi,
alla fine, sprovvista di quelle occorrenti a coprire le emissioni effettuate) è stata resa obbligatoria
una ‘commitment period reserve’, pari alla più piccola fra queste due cose: il 90% del budget
delle emissioni, o il 100% dell’ultimo suo inventario che sia passato con successo per il processo
di ‘revisione’. Si tenga presente che al commitment period farà seguito un periodo di grazia,
entro il quale sarà possibile effettuare ancora scambi di permessi ad inquinare. Esso durerà 100
giorni, e non avrà inizio prima dell’1 gennaio 2015 – v. Michaelowa (2001).
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Capitolo II : Il Protocollo di Kyoto sullo sfondo dei dilemmi posti dal trade-
off fra efficienza ed equità intergenerazionale nell’allocazione
intertemporale delle emissioni
II.1 Premessa
Come si è visto nell’introduzione, pare per ora che il clima abbia deciso di lasciare in serbo per
le generazioni future gli effetti più deleteri del proprio mutamento. Ciò solleva complicate
questioni di natura etica. Da un lato – come direbbero alcuni e come ripeterò in seguito, un clima
il più possibile intatto non è l’unica risorsa suscettibile di essere ereditata dai nostri successori, e
non è chiaro se ve ne siano di altre che essi potrebbero essere, ex-post, più contenti di aver
ricevuto (qualora gliele lasciamo). Dall’altro lato, tuttavia, coloro che abiteranno la Terra fra
settanta o novant’anni non partecipano alla definizione delle scelte rilevanti per la conservazione
del clima. Così, il fatto che a trarre beneficio dalle politiche di abbattimento delle emissioni
attuate nel tempo presente saranno loro – ed ancor più chi verrà dopo di loro – piuttosto che noi,
rischia di rendere quelle politiche assai meno volenterose di quelle che verrebbero scelte da
decisori dotati di vita infinita – v. Toth et alt. (2001).
Chi è contro la regolamentazione delle emissioni di gas climalteranti, specie negli Stati
Uniti, enfatizza il rischio di svantaggiare la presente generazione dedicando quantitativi eccessivi
di risorse alla protezione del clima; il rischio, in altri termini, di non tener conto che dal
rimandare la riduzione delle emissioni al futuro, potrebbe nascere un considerevole risparmio di
risorse.
Durante la discussione della Resolution 98 – la cui approvazione da parte del Senato degli
Stati Uniti rese poi di fatto inattuabile il proposito dell’amministrazione guidata da W.J. Clinton
di condurre il paese alla ratifica del Protocollo di Kyoto – un senatore dello Stato di Rhode
Island disse:
50
‘[…] Some have argued that the United States and, indeed the entire world, should wait to address the looming
threat of climate change. In other words, don’t do anything. Let’s wait awhile. The scientists are divided on this.
How much has temperature gone up? Has indeed risen in the last 100 years by 1 degree Fahreneith? There are
argument over that. “Time is on our side”, some say, believing that if we simply wait long enough, new and
inexpensive technologies will come along to make this solution painless. But citizens of my State, for example, have
concerns. We are a sea-bordering State.[…]’ (U.S. Senate, 1997, p. S8132).
Ma nella stessa circostanza, un altro dell’Alaska affermò:
‘[…] If further science confirms the fact that carbon emission do indeed have dangerous implication for the climate,
then all nations must take meaningful steps.
The industrial nations simply don’t have it in their power to do it alone, even if they wanted to.
But here is some good news: we have time to approach this issue in a careful, deliberative manner.
We gain nothing to go ahead of science. Indeed we risk a great deal by moving too quickly:
According to economic analysis by the Stanford Energy Modeling Forum, an orderly, long-term strategy of
achieving a scientifically-justified carbon emission reduction costs just one-fifth what it would cost to achieve the
same reduction over the near term […]’ (U.S. Senate, 1997, p. S8135).
La Senate Resolution 98 è In effetti chi decide le politiche climatiche per forza di cose
fronteggia due incentivi confliggenti. L’incentivo a imporre la limitazione delle emissioni,
proveniente dal rischio di un’ evoluzione climatica avversa, e quello a rimandarla, tenendo conto
dei risparmi di costo che alcuni ritengono conseguibili posticipando il controllo delle emissioni.
II.2 Efficienza ed andamento temporale delle emissioni
Il cambiamento climatico è legato alla concentrazione dei gas serra e non alle loro emissioni
effettuate in un qualsivoglia singolo anno. Le concentrazioni sono strettamente legate
all’accumulazione netta delle emissioni su lunghi periodi di tempo. Ossia, è la somma nel tempo
delle emissioni che determina le concentrazioni atmosferiche. Le emissioni di uno specifico anno
sono solo marginalmente importanti. Malgrado i gas climalteranti diversi dall’anidride carbonica
51
con vita relativamente breve (come il metano ed anche il protossido di azoto) abbiano una
concentrazione atmosferica che è stabile nel caso di un livello stabile delle emissioni annuali, per
la CO2 non è così. Ossia, qualunque livello positivo e stabile delle emissioni prodotto
dall’impiego di sostanze fossili produce, con il passare del tempo, una crescita continua delle
concentrazioni di CO2 nell’atmosfera. Infatti, la relazione fra le emissioni di carbonio e le
concentrazioni CO2 è governata dal ciclo del carbonio: le emissioni associate ai cambiamenti di
destinazione del suolo ed all’ossidazione dei combustibili fossili entrano inizialmente
nell’atmosfera, ma con il tempo se le spartiscono la stessa atmosfera e gli oceani. E, sebbene gli
oceani assorbano alla fine una frazione considerevole del rilascio netto, qualunque emissione ha
una parte di se che rimane per più di un millennio nell’atmosfera (dove, pertanto, l’anidride
carbonica va cumulandosi nel corso del tempo).
La UNFCCC ha fatto proprio l’obiettivo della ‘convenienza’ (cost-effeciveness) della
mitigazione del cambiamento climatico, al pari di quello implicito della sua efficacia – da
ritenersi conseguito, posto che le emissioni vengano stabilizzate ‘ad un livello tale da impedire
pericolose interferenze antropogeniche con il sistema climatico’(art. 2). Non manca chi sostiene
che il raggiungimento di questo secondo obiettivo non verrà sacrificato, se al fine di conciliarlo
con il perseguimento del primo, si lascerà che le emissioni continuino a crescere, prima che inizi
il loro definitivo declino.
Il controllo delle concentrazioni di gas climalteranti implica la limitazione, con il tempo,
delle emissioni globali collegate all’energia. L’energia rappresenta da sola la maggiore fonte di
emissioni di gas serra. E’ responsabile di circa l’80% dell’immissione netta di carbonio
nell’atmosfera. Per quel che riguarda la combustione dei carburanti fossili, il rapporto carbonio
emesso/energia cambia di un fattore di circa 2 (dai carburanti nei quali detto rapporto è elevato –
quali il carbone – ai carburanti nei quali questo stesso rapporto è basso – sostanzialmente il
metano).
52
Sebbene il petrolio convenzionale ed il gas costituiscano un risorsa limitata, non può dirsi
tale la quantità di carbonio immagazzinato nei combustibili fossili: l’ammontare del carbonio
trattenuto dal carbone potrebbe eccedere quello del carbonio nell’atmosfera di un ordine di
grandezza. Per di più l’ammontare di carbonio esistente sotto forma di liquidi e gas non
convenzionali supera quello del carbonio sotto forma di carbone. Non c’è dunque alcuna seria
prospettiva di esaurimento dei combustibili fossili nel corso del ventunesimo secolo. E pertanto
non v’è motivo di ritenere che sarà l’assenza di alternative all’uso dei combustibili fossili a
costringere la società a sviluppare presto nuove forme di energia il cui sfruttamento non
comporti il rilascio di anidride carbonica – v. Edmonds e Sands (2003).
Un gran numero di fattori rende incerto il percorso delle emissioni nel ventunesimo secolo.
Si può tentare di classificarli, a grandissime linee, in quattro categorie (aventi un po’ la tendenza
a sovrapporsi, per la verità).
Alla prima categoria appartengono i fattori di scala, e cioè i fattori che determinano la scala
delle attività umane. Ne sono un esempio l’andamento della popolazione e quello del GDP; Una
seconda categoria aggrega i fattori di costo, cioè quelli dai quali dipende il costo assoluto
dell’energia, e quello relativo delle diverse forme di energia. Ne fanno parte la tecnologia, i
sussidi e le tasse. Le risorse energetiche, le risorse agricole, la struttura del mercato, le
istituzioni. Un terzo gruppo di fattori è quello riassumibile mediante l’ ‘etichetta’ policy,
intendendo per essa l’intervento diretto della società volto ad alterare le decisioni dei privati, che
può assumere la forma, ad esempio, delle politiche di sviluppo o di quelle ambientali. Infine la
categoria del ‘contesto globale’ include i fattori capaci di influire sull’ambito nel quale operano
gli altri tre gruppi di fattori; vi rientrano così, ad esempio, le relazioni internazionali e le
politiche commerciali, che possono spingere il mondo verso un’interdipendenza sempre
maggiore, o fare l’esatto opposto.
Fra i 232 scenari considerati nello Special Report on Emissions Scenarios prodotto nel 2000
dall’IPCC, quello mediano implica un più che raddoppio delle emissioni entro il 2100. Tuttavia è
53
importante notare che molti degli anzidetti scenari si allontano da quello mediano; alcuni in
senso accrescitivo, ma altri pure in senso contrario. Infatti, un gruppo nutrito di essi, alcuni dei
quali non prendono in alcun modo in considerazione il controllo intenzionale delle emissioni di
carbonio, è caratterizzato da sentieri coerenti con la stabilizzazione delle concentrazioni. In altre
parole essi mostrano un picco critico delle emissioni e un successivo, monotono, decremento
delle medesime.
Al momento non vi sono ancora le basi per ritenere ‘scientificamente’ preferibile ad altri un
dato livello specifico delle concentrazioni, e per alcune combinazioni di concentrazioni e di
percorsi di riferimento delle emissioni, la limitazione dell’accumulo di gas climalteranti non
richiederebbe interventi di policy.
In passato sono state proposte cinque traiettorie per le emissioni, ciascuna compatibile con
determinato tetto per le concentrazioni. Le si chiama sentieri WRE, dai loro proponenti: Wigely,
Richels ed Edmonds – v. Wigely et. alt (1996). La caratteristica che costoro attribuiscono alle
traiettorie proposte è di essere quelle che (fra le infinite possibili attraverso cui è possibile
raggiungere ciascuno specifico obiettivo di stabilizzazione) consentono un allontanamento
graduale dal percorso di riferimento nei primi anni, così che si possa evitare un rimpiazzo
prematuro dello stock di capitale a forte consumo di energia. Prendendo come esempio la curva
WRE 550 (dove 550 sta per 550 ppm), le emissioni di carbonio iniziano a divergere da uno dei
primi scenari prodotti dall’IPCC – la baseline IS92 – nel 2013. Raggiungono un massimo globale
nel 2033, e ritornano ai livelli del 1990 all’incirca nel 2100. Estendendo l’intervallo temporale
considerato fino al 2300, è possibile vedere che per i tetti delle concentrazioni più elevati, la
stabilizzazione viene raggiunta dopo il 2100. Prefiggersi un tetto delle concentrazioni di 350
richiederebbe secondo la curva WRE il raggiungimento del massimo delle emissioni nel 2005.
Le curve WRE 450, WRE 650, WRE 750 hanno il loro massimo globale rispettivamente negli
anni 2011, 2049, 2062.
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Il problema di rinvenire – per una risorsa disponibile in quantità finite – un percorso
temporale tale da implicare la minimizzazione di una funzione di costo, venne affrontato
originariamente in Hotelling (1931). Qui si mostrò che detto sentiero era ottenibile imponendo
l’uguaglianza, nel tempo e nello spazio, del costo marginale scontato. Le conclusioni tratte da
questo autore suggeriscono che tutti – indipendentemente dal luogo in cui risiedono, dal tipo di
attività svolta, dal tempo in cui vivono – dovrebbero avere di fronte un identico prezzo
dell’eliminazione di una tonnellata di carbonio. Poiché il costo in un periodo del tempo differisce
dal costo in altri periodi a causa del tasso di sconto, il prezzo di una tonnellata di carbonio
dovrebbe crescere al tasso dell’interesse, per escludere la possibilità che il costo attuale scontato
possa essere ridotto semplicemente rimandando la mitigazione delle emissioni da un periodo a
quello successivo.
Un’implicazione dell’approccio di Hotelling è la transizione graduale. Le deviazioni (dallo
scenario di riferimento) dei casi in cui viene attuato il controllo delle emissioni sono inizialmente
contenute, ma poi passano ad essere sostanziali. La difendibilità di questo approccio è legata a
molteplici elementi. Il primo è rappresentato dal fatto che in genere lo stock di capitale
occorrente per l’utilizzo e la produzione dell’energia (ad esempio le centrali elettriche, gli
edifici, le infrastrutture ed i mezzi di trasporto) ha una vita utile molto lunga. Il suo rimpiazzo
anticipato avrebbe costi elevati, che potrebbero invece essere ridimensionati attendendo il
momento del turn-over (spontaneo). In secondo luogo, attualmente nel settore energetico, sia dal
lato dell’offerta che da quello della domanda, sono scarse le opportunità di riduzione a basso
costo delle emissioni. Tagli profondi delle emissioni di carbonio presenterebbero costi
sostanziali. Con i miglioramenti previsti nell’efficienza dell’offerta, trasformazione ed uso finale
dell’energia, detti tagli dovrebbero presentare costi minori, nel futuro. Infine, a causa dei
rendimenti positivi del capitale, le riduzioni future potranno essere compiute sacrificando nel
presente un quantitativo delle risorse che è più piccolo di quello che ci vorrebbe per effettuarle
subito. Ad esempio, assumendo un tasso di rendimento reale del capitale del 5% all’anno, ed
55
ipotizzando che la rimozione di una tonnellata di carbonio costi (indipendentemente dall’anno in
cui avviene) 50 dollari, proprio questa è la spesa che andrebbe sostenuta per eliminare oggi la
tonnellata. La spesa risulterebbe invece minore se venissero investiti 19 dollari, così da averne
50 nel 2020, data nella quale si procederebbe all’eliminazione.
Nelle parole di Edmonds e Sands (2003), il fatto che il sentiero delle emissioni cui si
associano i minori costi della mitigazione segua nei primi anni la baseline, non deve essere
scambiato con un argomento a favore dell’ ‘inazione’…
Fra i diversi possibili modi di porre la questione del ‘timing’ (ottimale) dell’abbattimento
delle emissioni, è utile segnalare quello proposto da De Groot (2002): esiste un ammontare totale
delle emissioni che è compatibile con la stabilizzazione delle concentrazioni dei gas serra ad un
dato predeterminato livello, ed esiste un andamento nel tempo della frazione (di
quell’ammontare totale) che viene ‘usata’ in ciascun momento del tempo. Ponendo sulle ordinate
questa frazione e sulle ascisse gli anni – come nella figura poco più sotto – si otterrà una figura
che è reminescente della curva di Lorenz (che dice quale frazione del reddito totale è guadagnata
da quale frazione meno ricca della popolazione): se con il passare degli anni l’andamento è
quello di una retta a 45°, vuol dire che le emissioni sono uniformemente distribuite nel tempo.
Ma la frazione può anche seguire un andamento curvilineo, e allora quanto più la curva devia
dalla retta a 45°, ‘schiacciandosi’ sull’asse delle ascisse, tanto più è pesante l’onere in termini di
rinuncia alla produzione di gas serra che viene posto sulle generazioni vicine a noi (affinchè
possa essere raggiunto l’obiettivo finale in termini di concentrazione atmosferica dei gas). In altri
termini quanto più la curva è schiacciata, tanto più l’attività di abbattimento delle emissioni
viene effettuata nei primi anni del periodo entro il quale è stato pianificato che debba essere
raggiunta la concentrazione desiderata.
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Fig. 2.1: Emissioni Cumulate
lateaction
earlyaction
Frazione
anno
Questo tipo di impostazione rende bene – mi sembra – l’idea che dietro l’andamento
temporale della produzione di gas serra, e dietro la dislocazione temporale del suo abbattimento,
c’è anche un problema di equità. Esso sorge in relazione alla spartizione fra generazioni di una
risorsa: l’ammontare totale delle emissioni, di cui sopra. Più noi ritardiamo l’avvio di un
processo di abbattimento, e meno emissioni ‘lasciamo’ alle generazioni future.
Questo significa che esse, se fossero dotate di tecnologie non molto dissimili da quelle di cui
si dispone attualmente, potrebbero trovarsi di fronte ad una divaricazione sempre più grande fra
la baseline delle emissioni e il percorso che dette emissioni dovrebbero seguire (per non risultare
incompatibili con la tutela del clima). In altre parole la gravosità del controllo delle emissioni
potrebbe crescere nel tempo. Edmonds e Sands (2003) – lo si è visto – indicano che la strada
obbligata per evitare l’anzidetta divaricazione è adoperarsi da oggi per poter disporre, un
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domani, di un know-how tecnologico adeguato (cioè idoneo tanto a ridurre la gravosità del
processo di riduzione delle emissioni quanto a renderlo più celere).
Secondo Chakravorty et alt. (1997) le attuali predizioni circa lo sviluppo dell’energia solare
rendono credibile uno scenario in cui, dal semplice agire delle forze di mercato deriverà, entro la
metà del presente secolo, anche in assenza di qualunque politica climatica, una forte riduzione
delle emissioni. In Tahvonen (2001) si nota come, storicamente, lo sviluppo tecnologico e le
forze di mercato abbiano provocato un’espansione delle riserve (economicamente accessibili) di
combustibili fossili. Un rilevante incentivo a questa espansione è venuto dagli incrementi di
prezzo verificatisi durante le crisi energetiche (con la formazione del cartello OPEC, i prezzi del
petrolio raddoppiarono intorno al 1973, e quintuplicarono all’inizio degli anni ‘80). Detta
espansione ha fatto in modo che la continua crescita del consumo di combustibili non abbia
incontrato alcun vero fattore limitante. Il progresso tecnologico da cui è scaturita la possibilità di
estrarre petrolio ubicato in siti che un tempo venivano considerati irraggiungibili, potrebbe avere
ancora margini di prosecuzione. Il progresso tecnologico dal quale ci si aspetta un freno al
consumo di combustibili fossili è un’altra cosa, e non è chiaro se le forze del mercato stiano
incentivando in modo adeguato, ad esempio, un rapida crescita della quantità di energia ‘estratta’
dal Sole. In Chakravorty et alt. (1997) l’incentivo allo sviluppo dell’energia solare nasce dalla
previsione di un completo esaurimento del petrolio e del gas naturale nel corso dei prossimi 50-
70 anni, e dall’assunzione che nel futuro il costo di estrarli sarà costante o crescente. Tahvonen
(2001) invita a considerare l’eventualità che la previsione degli autori sull’andamento dei costi di
estrazione sia sbagliata (per via di un progresso tecnologico favorevole alle forme carbon-
intensive di produzione dell’energia). Tenuto conto di questa eventualità, diviene
raccomandabile, per esempio, imporre dei limiti alla produzione di gas climalteranti e consentire
lo scambio delle quote di produzione autorizzata, così che il progresso tecnologico (anzichè
seguire traiettorie in grado di assecondare la crescita del consumo di combustibili fossili), tenda a
tradursi nello sviluppo di forme ‘carbon saving’ di ottenimento dell’energia...
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La disponibilità di tutto quel che andrà utilizzato nel futuro (al fine di far allontanare
drammaticamente la produzione di gas serra dal proprio sentiero spontaneo) è davvero – come
sembra potersi evincere da Edmond e Sands (2003) – una questione completamente slegata e
separabile da quella del percorso di breve periodo delle emissioni? Il messaggio offerto da
Tahvonen (2001) pare essere che se non ci si prefigge da subito un allontanamento dalla
baseline, e non si fanno scelte di politica ambientale coerenti con il medesimo, mancherà pure
l’incentivo a creare le premesse tecnologiche per tagli (alle emissioni di gas climalteranti) via via
più consistenti nel lungo periodo.
Secondo Aldly et alt. (2001) le traiettorie proposte da Wigely et alt. (1996) impongono di
effettuare nel breve termine un abbattimento della produzione di gas serra che è troppo esiguo,
perché le traiettorie medesime possano ritenersi, oltre che rispettose dell’equità
intergenerazionale, ‘credibili’ da un punto di vista politico… L’esistenza di traiettorie ottimali da
un punto di vista economico conta poco, se poi è nulla la probabilità che queste vengano
effettivamente seguite (nella loro interezza). Le traiettorie di Wigely et alt. (1996) sono
programmi di riduzione delle emissioni che posticipano di 50-70 anni rispetto ad oggi la
fissazione di vincoli sostanziali per le medesime. Può accadere che con l’approssimarsi del
momento in cui i tagli alle emissioni dovrebbero divenire più forti, i policy maker in carica
decidano di non effettuarli, rifiutandosi di rispettare un programma di mitigazione del
cambiamento climatico sul quale non hanno messo bocca (perché magari non erano nemmeno
nati al tempo in cui venne stabilito). Credere alla realizzabilità delle anzidette traiettorie significa
ragionare come se si fosse in grado di impegnare i policy maker del futuro ad un qualche
specifico corso di azione. In realtà possiamo solo tentare di influire sugli incentivi che
orienteranno le loro scelte (e queste, del resto, potrebbero ben rispecchiare preferenze ‘collettive’
diverse da quelle della presente generazione). Il modo per farlo è cambiare i trade-off impliciti
nella mitigazione del cambiamento climatico. Ad esempio un’azione di abbattimento delle
emissioni (nel breve termine) più aggressiva di quella prescritta dai sentieri ottimali, accrescendo
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l’onere economico (per la protezione del clima) sopportato dalla nostra generazione, e da quelle
future a noi più prossime, andrebbe considerata come inefficiente. Ma la stessa azione,
alleggerendo l’onere delle generazioni più lontane nel tempo, potrebbe accrescere la probabilità
che i loro policy-maker continuino ad impegnarsi nella mitigazione del cambiamento climatico,
anche qualora dovessero scegliere obbedendo a sistemi di preferenze diversi dai nostri…
In definitiva, le scelte di breve periodo in materia di controllo delle emissioni andrebbero
prese tenendo conto non solo della loro rispondenza a dei criteri di ottimalità economica, ma
anche della loro idoneità a risolvere i problemi di ‘coerenza dinamica’. Per Aldly et alt. (2001), il
solo modo di assicurare che venga mantenuto l’impegno di lungo periodo di portare lo stock
delle emissioni ad un livello predeterminato (e diverso da quello più alto che detto stock sarebbe
altrimenti destinato a raggiungere), è far si che vengano attuate riduzioni delle emissioni nel
frattempo. Da questo punto vista, ciò a cui ammonta la questione della fissazione dei target, è
decidere riduzioni piccole, ma grandi quanto basta a far risultare altamente verosimile – data la
distribuzione di probabilità delle riduzioni che si riveleranno come desiderabili con il passare del
tempo – la coerenza dinamica (ossia la circostanza che, data l’entità delle riduzioni già effettuate,
il costo di conseguire il target finale rientri nei limiti del ‘politicamente possibile’).
Dalle considerazioni di Aldly et alt. (2001) si evince a mio avviso l’esistenza di un trade-off
tra efficienza ed equità intergenerazionale (nell’allocazione delle emissioni). Viene tuttavia
spontaneo notare come, di fatto, l’‘equità intergenerazionale’ considerata dagli autori – come
anche da De Groot (2002) – non sia un’equità in senso assoluto: è piuttosto l’equità nella
spartizione di una sola unica risorsa. Così, purtroppo, non possiamo essere certi che una
distribuzione della medesima meno sperequata a favore della generazione presente (e di quelle
ad essa più vicine in linea temporale), contribuirà, fuori dalla clausola ceteris paribus, ad un
innalzamento del benessere delle generazioni future.
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Di sicuro c’è chi ritiene che la protezione del clima non possa essere ritenuta un’obiettivo
che è irrinunciabile perseguire, data l’esiguità delle risorse destinate ad altri obiettivi, quali
debellare l’HIV e la malaria nei paesi poveri, o rendere accessibile l’acqua potabile a chi ancora
non ne dispone; le società dei paesi ricchi dovrebbero estendere il pool di dette risorse, piuttosto
che tutelare, in ossequio alla giustizia intergenerazionale, chi abiterà il pianeta fra cento e passa
anni – v. Economist (2004c). Inoltre, se anche – come è verosimile – l’impatto del cambiamento
climatico dovesse risultare più severo per i paesi del mondo in cui è più basso il reddito
procapite, sembra piuttosto bizzarro invocare oggi l’adozione di misure costose per tutelare
coloro che saranno poveri in un futuro assai lontano, quando non si è invece disposti a spendere
oggi per ridurre la povertà oggi. Se ci si preoccupa sul serio del possibile futuro impatto del
cambiamento climatico sui poveri, ci si dovrebbe anche adoperare di più per una riduzione
sistematica della povertà… Così facendo si accrescerebbe non solo la capacità dei poveri di
adattarsi al cambiamento climatico, ma anche quella di contribuire attivamente alla sua
mitigazione, v.Cooper (1999).
Infine, se Aldly et alt. (2001) ritengono desiderabile cercare indirizzare le scelte delle
generazioni future (‘lasciando loro’ più emissioni effettuabili di quel che sarebbe efficiente), altri
– ad esempio Cooper (1999) – hanno una sfiducia sostanziale nella nostra capacità di
prefigurarci cosa esse vorranno. Sappiamo che se stabiliamo delle regole oggi, le generazioni
future potrebbero infrangerle; se oggi piantiamo alberi, potrebbero tagliarli; se consumiamo
meno carbone, proprio perché glielo abbiamo lasciato, potrebbero avere incentivo a consumarne
di più… Dunque, se proprio si vuole cercare di orientare le scelte delle generazioni future tramite
qualche ‘lascito’, il solo che possiamo fare loro con una ragionevole speranza che non saranno in
grado di vanificarlo, è l’accrescimento del patrimonio delle conoscenze di cui disponiamo: una
più profonda conoscenza della natura, nuove e migliori tecnologie.
Per quanto mi riguarda, ritengo inverosimile che le generazioni future non abbiano interesse
a ricevere un clima, nei limiti del possibile, intatto. Sono trascorsi 18 anni dall’apparizione del
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rapporto ‘Our Common Future’ della Commissione Bruntland, cui corrispose l’inserimento della
‘sostenibilità’ nell’agenda politica e scientifica internazionale. Nel rapporto si legge che lo
sviluppo è sostenibile ‘quando implica il soddisfacimento delle necessità delle generazioni
presenti senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare le loro’ –
v.World Commission on Environment and Development (1987). Fra le scelte che dovrebbero
ispirarsi a questo principio – indubbiamente di scarsa utilità pratica nella soluzione dei casi
concreti – molti includerebbero di certo quella del momento in cui cominciare a sacrificare, alla
riduzione dei gas climalteranti, quantità considerevoli di risorse (altrimenti destinabili ad altri
fini). Riguardo al concetto di sostenibilità in generale è interessante il punto di vista proposto da
Fisher e Zhao (2002): il fatto che degli stock di risorse vengano irreversibilmente intaccati dallo
sviluppo economico non è sufficiente, di per se, ad implicare l’insostenibilità dello sviluppo
medesimo; la sostenibilità può essere interpretata come non decrescenza nel tempo dell’utilità
conseguibile dalle varie generazioni, e l’utilità può essere resa funzione tanto del consumo
quanto dello stock di risorse naturali, che possono essere rinnovabili o non rinnovabili. Il
progresso tecnologico è in grado di riportare lo stock delle risorse rinnovabili sui livelli
precedenti, qualora esso sia stato precedentemente intaccato. Lo stesso non può dirsi per quelle
risorse il cui venir meno, una volta che si sia verificato, è irreversibile. Tuttavia, anche se a volte
all’irreversibilità può accompagnarsi l’irrimpiazzabilità, bisogna in generale ammettere che la
diminuzione di utilità derivante dalla perdita irreversibile di alcune risorse, possa essere
compensata da un crescita del consumo, o da un cambiamento nel mix dei beni prodotti
dall’economia, (quando l’irreversibilità diventa un fattore limitante nella produzione di alcuni
beni). Il caso che citano ad esempio gli autori è il seguente: oggi non esiste più la Hetch Hechy
Valley nello Yosemite Natural Park (in California). Venne riempita d’acqua a seguito della
costruzione di una diga. Così non è più possible la fruizione di questa ‘natural amenity’, che era
invece a disposizione di chi avesse voluto visitarla 100 anni fa. Tuttavia oggi si dispone di mezzi
di trasporto più veloci per raggiunger l’area dello Yosemite, e di altri beni offerti dall’economia
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moderna. Parecchie persone sceglierebbero di vivere oggi, piuttosto che 100 anni fa, malgrado
allora ci fosse ancora la valle di cui sopra; le risorse irrimpiazzabili possono essere sostituibili, e
la ragione è che, in generale, le nostre vite non dipendono dalle risorse non rinnovabili. Però
desideriamo notare, da un lato che secondo quanto affermato dagli autori, il costo opportunità del
rimpiazzo di tali risorse può essere elevato, a causa dell’alta utilità marginale delle medesime
quando scendono al di sotto di certi livelli. Dall’altro lato che gli stessi autori scelgono il
miglioramento del clima prodotto dal sistema atmosferico, per esemplificare quei beni e servizi
(prodotti dal capitale naturale) relativamente ai quali le possibilità di sostituzione sono limitate.
Io condivido questa scelta; infatti penso – un pò come Holdren (2003) dell’introduzione – che la
rete di (possibili) legami fra la concentrazione atmosferica dei gas serra e le caratteristiche del
mondo in cui viviamo sia troppo fitta, perchè si possa pensare che gli sforzi per sfuggire ai rischi
impliciti in un allontanamento dell’anzidetta concentrazione dal suo status quo verrebbero
considerati privi di valore, dalle generazioni future. Ciò, anche tenuto conto delle possibilità di
sostituzione assicurate dal progresso tecnologico... Per cui, in definitiva, nel seguito ipotizzerò
sempre (implicitamente) che la distribuzione di probabilità di cui parlano Aldly et alt. (2001)
assuma valori elevati in corrispondenza di entità elevate delle riduzioni (delle emissioni).
Quale che sia il punto di vista scelto per guardare al problema dell’allocazione
intertemporale delle emissioni, il progresso tecnologico può mitigare il dilemma della scelta fra
efficienza ed equità intergenerazionale, per il semplice fatto che esso può rendere più efficaci e
meno dispendiose le politiche di riduzione delle emissioni attuate dalle generazioni che vengano
in possesso di nuovi espedienti tecnologici per abbattere le emissioni.
Però, nel caso di una politica come il protocollo di Kyoto, o di qualunque altra che punti ad
una riduzione delle emissioni in un arco di tempo vicino e più o meno determinato, è ovvio che
oltre all’impatto indiretto della policy sull’innovazione, va considerato importante pure l’impatto
diretto sul livello delle emissioni.
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Su questo impatto, svolgerò qualche considerazione nel capitolo che segue. Lì
esemplificherò pure la nozione di ‘no regret policy’, cioè di politica la cui desiderabilità sussiste
a prescindere dal beneficio per il clima derivante dalla sua attuazione. Affiancare l’uso dei prezzi
a quello delle quantità nel controllo delle emissioni è una politica che è stata proposta da svariati
autori come alternativa al Protocollo di Kyoto. Tanto questa politica quanto le no-regret policies,
possono considerarsi delle linee di azione valide quando si debba far fronte ad deficit di ‘volontà
collettiva’ circa il controllo delle emissioni.
La manifestazione più evidente di questo deficit è stato il ripudio del Protocollo di Kyoto da
parte degli Stati Uniti, e l’indisponibilità di paesi come la Cina a discutere di target ed obblighi
di riduzione delle emissioni. Comunque, pure uno sguardo più attento alla costellazione dei
target di riduzione o limitazione delle emissioni pattuiti a Kyoto – al cui rispetto dichiarano di
sentirsi ancora vincolati i paesi che a differenza di Australia e Stati Uniti hanno ratificato il
trattato ivi stipulato – potrebbe suggerire che quanto si sono impegnati a fare questi paesi in
termini di abbattimento delle emissioni sia meno di quello che appare a prima vista (v.oltre).
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Capitolo III : Riduzione a breve termine delle emissioni: le ‘no regret policies’
e l’uso congiunto di quantità e prezzi come palliativi alla caren-
za di ‘volontà collettiva’
III.1 Premessa
Come si sa, negli Stati Uniti le prospettive per una riduzione delle emissioni di gas serra, non
sono per il momento delle più rosee. Questa nazione deve rispondere di circa il 20% delle
quantità di gas climalteranti generate ogni anno nel mondo. Nel giugno 2001, G.W. Bush
affermò che l’indisponibilità del suo paese a farsi vincolare da un trattato mal disegnato, non
doveva essere interpretata come un’abdicazione di responsabilità – v.Bush (2001). Tuttavia nel
reimpostare la propria politica climatica, l’amministrazione non ha optato per misure la cui
attuazione induca a sperare in una riduzione a breve della produzione di gas serra…
Verosimilmente i progressi spontanei delle imprese e gli incentivi creati attraverso varie
categorie di sussidi permetteranno al più un leggera deviazione delle emissioni dal loro
andamento spontaneo, che è crescente; l’impegno assunto dall’amministrazione nel febbraio
2002 è stato semplicemente di far abbassare il rapporto fra emissioni e GDP del 18% in una
decade, ossia meno del 2%, in media, all’anno. Sembra tanto, ma dal 1917 detto rapporto è
caduto, da solo, sempre in media, del 1,5% all’anno. E’ ancora di meno se si riflette sul fatto che
le nuove attività economiche, come la progettazione del software, non hanno la stessa intensità
energetica della produzione dell’acciaio – v. Victor (2002).
Delle riduzioni realizzate volontariamente dalle imprese si terrebbe conto, è stato detto a suo
tempo dall’amministrazione, nel momento in cui gli Stati Uniti decidessero di imporre – entro i
propri confini – il rispetto di autentici vincoli alle emissioni.
In verità non sono mancate già ora proposte nel senso di creare sin d’ora tale sistema. La più
dettagliata che sia stata concepita fino a tutto il 2003 è il Climate Stewardship Act (S. 139) – dei
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senatori McCain (rep., Arizona) e Lieberman (dem., Connecticut). Questa proposta legislativa ha
per oggetto la creazione di un mercato di permessi ad inquinare, sul quale verrebbero scambiati
diritti di emettere (gli stessi gas serra del Protocollo di Kyoto). A dispetto delle esenzioni
contenute nella proposta – ad esempio quella del settore agricolo – poiché la maggior parte delle
emissioni proviene da un numero piccolo di grandi fonti, la disciplina ivi contenuta ‘copre’ una
frazione considerevole della produzione di gas serra statunitense: probabilmente il 90% di quella
di anidride carbonica, e l’80% di quella dell’insieme dei gas di cui si vorrebbe vincolare la
produzione. L’elevato grado di ‘copertura’ delle emissioni è consentito dal fatto che a
determinate fonti (fra cui le più importanti sono le raffinerie di petrolio, o gli importatori che
vendono prodotti petroliferi impiegati nel settore dei trasporti) non vengono imputate solo le
rispettive emissioni dirette, ma pure quelle ‘indirette’. In mancanza di ciò, le emissioni generate
dal settore dei trasporti (le cui emissioni di CO2 nel 2000, secondo le stime dell’EPA, hanno
rappresentato il 27% di quelle complessive) sarebbero in larga misura non soggette a vincoli. Per
un’analisi dettagliata del Climate Stewardship Act rimando a Paltsev et alt. (2003). Con la sua
attuazione le emissioni delle fonti considerate nel medesimo dovrebbero – questo è l’obiettivo –
scendere ai livelli del 2000 entro il 2010, ed a quelli del 1990 entro il 2016. Tuttavia, la proposta
legislativa non ha ottenuto l’approvazione del Senato, che l’ha respinta con 55 voti contrari e 33
favorevoli. Non è il 95 a 0 con cui venne approvata la Senate Resolution 98, e si tratta di un voto
interpretato come un primo passo, dai sostenitori. Gli opponenti invece hanno spiegato l’esito del
voto con la consapevolezza, da parte di tutti i senatori, che l’atto medesimo non passerebbe mai
alla Camera; così, molti, secondo i detti opponenti, avrebbero votato a favore, pensando in tal
modo di attirarsi le simpatie degli ambientalisti, senza poi dover sostenere il costo politico del
farlo… – v. Lee e Revkin (2003).
Se questa è la situazione negli Stati Uniti, secondo alcuni bisogna purtroppo aspettarsi che
l’implementazione Protocollo di Kyoto faccia ben poco per controbilanciare il loro attendismo, e
quello degli altri paesi che come loro non vogliono ridurre le proprie emissioni (o – per
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esprimersi in termini meno pessimistici – vogliono poter decidere se e quanto tagliarle nella più
assoluta libertà da obblighi assunti in sede internazionale).
Nel 1997 Gli Stati Uniti si impegnarono ad emettere in media lungo il periodo 2008-12 il 7%
in meno di quanto avevano emesso nel 1990. Così essi, al pari di altri paesi, non seppero tenere i
piedi per terra, perché all’epoca della negoziazione del Protocollo di Kyoto, le emissioni
statunitensi avevano già superato del 10% le emissioni del 1990 Victor (2001a). Dopo
l’abbandono del tavolo negoziale da parte degli Stati Uniti, tutti gli altri paesi – fatta eccezione
per l’Australia – hanno fatto quadrato attorno la Protocollo – sostenendo di voler procedere
comunque alla sua implementazione.
Forse fra i commenti più pungenti suscitati da tale condotta, v’è quello di chi ritiene che, con
essa, i paesi in parola, finiranno per fare della crescita economica indesiderabilmente bassa
sperimentata da alcuni di loro, la via attraverso cui tutti gli altri saranno in grado di pervenire
all’adempimento degli obblighi contratti nel 1997 – v. Hubbard (2002).
Dal modo in cui il Protocollo di Kyoto distribuisce l’onere del controllo delle emissioni,
sembra effettivamente nascere il rischio che questo – almeno in parte – avvenga.
Secondo Victor (2001b), il Protocollo di Kyoto fu negoziato in gran fretta, con la maggior
parte degli accordi messi insieme negli ultimi due mesi precedenti la sessione finale delle
negoziazioni (svoltasi nel dicembre 1997). Questo processo negoziale compresso non prestò
alcuna attenzione al modo in cui gli impegni presi a Kyoto avrebbero dovuto essere rispettati. In
negoziatori dei paesi più industrializzati volevano un patto – qualunque patto – il quale fosse in
grado di dare l’idea che i governi dei paesi in parola stavano prendendo sul serio il cambiamento
climatico.
Il grosso problema che si profila all’orizzonte è l’enorme quantità di permessi – quasi un
regalo a sorpresa, un ‘windfall’ – della quale hanno beneficiato a Kyoto i paesi dell’Est Europa
(in particolar modo Russia ed Ucraina). Il Protocollo impone a questi due paesi di evitare che
loro emissioni – nel 2008-12 – superino il livello che avevano nel 1990. Tuttavia – anche se non
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venisse posta in essere alcuna politica diretta alla riduzione delle emissioni – è improbabile che
nel periodo appena menzionato le emissioni di Russia ed Ucraina arrivino a toccare il livello che
non devono oltrepassare, o che si avvicinino ad esso. Il livello dell’attività economica è andato
scendendo in quei paesi, e con esso il loro utilizzo dei combustibili fossili. Parecchie nazioni
dell’Est Europa si trovano in situazioni simili. Nel 2008-12 le emissioni generate dall’Europa
dell’Est e dall’Ex-Unione Sovietica si troveranno sotto dei ‘tetti’ fissati a Kyoto per complessivi
6,3 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. Russia ed Ucraina sono i paesi nei quali sarà dato
riscontrare la maggiore distanza fra il tetto e le emissioni effettive. Per contro – nello stesso
periodo – le emissioni dell’Occidente – se qui non verranno attuate politiche per tagliare la
produzione di gas serra – eccederanno i limiti di un ammontare grosso modo simile. Victor
(2001b) colloca fra i 20 ed i 170 miliardi di dollari il guadagno che Russia ed Ucraina potrebbero
realizzare vendendo ai paesi ‘bisognosi’ i permessi in eccesso rispetto a quelli loro necessari per
non essere considerate inadempienti nei confronti del Protocollo di Kyoto. Non c’è da
meravigliarsi che gli ambientalisti più sospettosi abbiano parlato di commercio di ‘hot air’.
La Russia ed il resto dell’Est poterono sostenere – senza tema di essere smentite – che esse
necessitavano di un ampio spazio fra le loro emissioni ed il soffitto che queste ultime non
avrebbero dovuto oltrepassare nel futuro (un ampio ‘headroom’). Quale sicurezza si poteva
avere, infatti, che nel 2008-12, i limiti fissati una decade prima a Kyoto non avrebbero
rappresentato un ostacolo alla ripresa economica? Nel 1997 non era ancora certo che le difficoltà
economiche dell’Est sarebbero state così grandi e persistenti come poi si sono rivelate nel
seguito. E del resto, i governi di dei paesi appartenenti a quest’area – a differenza di quelli dei
paesi più ricchi – non erano soggetti ad alcuna pressione interna tale da imporre loro la
partecipazione ad un accordo globale per la protezione del clima; si sono trovati nella posizione
di poter pretendere ampi headroom in cambio del loro ‘prendere parte’ alla cooperazione
internazionale in materia di controllo delle emissioni.
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Un quesito posto da Victor – che rimane attuale – è cosa ci si debba aspettare se qualsiasi
paese riluttante a cooperare veramente fosse lasciato libero di ottenere ampi headroom. Mano a
mano cercheranno di coinvolgere i paesi in via di sviluppo – un timore legittimo è quello che i
loro sforzi in tal senso producano solo degli headroom elevati.
Nella misura in cui è elevata la probabilità che rimangano ‘vuoti’ e si traducano poi
nell’offerta, sul mercato dei fumi, di hot air, questi headroom sono incompatibili con l’autenticità
dell’impegno nel controllo delle emissioni; in altre parole, i permessi eccedenti, una volta offerti
sul mercato, indeboliscono i veri tentativi di ridurre la produzione di gas serra, un po’ come
stampare moneta erode il valore degli asset monetari – v. Victor (2001b).
Il modo cui interpreto quest’ultima considerazione di Victor – la quale tende a fare il paio
con quella di Hubbard (2002) è il seguente: per vendita di hot air bisogna intendere la vendita di
permessi che invece di essere divenuti superflui a seguito di interventi di politica ambientale
diretti alla riduzione delle emissioni, lo erano già a prescindere da qualunque intervento.
Il trasferimento di uno di questi permessi può levare dai pasticci un paese che abbia emesso
una tonnellata di CO2e in più e non ha permessi propri sufficienti a coprire pure quella
tonnellata. Esso tuttavia comporta la sostituzione di un intervento sulla produzione di gas serra
che non sarebbe possibile evitare in sua assenza con una riduzione delle emissioni che non ha
richiesto alcuna forma di intervento da parte del paese in cui è avvenuta.
Poniamo il caso due paesi che abbiano prodotto gas serra in eguale misura nel 1990. Uno dei
due però ha sperimentato una crisi economica, ed è verosimile che ne 2008 nonostante la ripresa,
le sue emissioni siano ancora del 7% inferiori a quelle del 1990. Ad entrambi i paesi era strato
assegnato – come target – la stabilizzazione delle rispettive emissioni al livello del 1990 entro il
2008; l’altro paese non fa nulla – prima del 2008 – per ridurre le sue emissioni in crescita: lascia
che crescano del 7% seguendo il loro trend naturale, senza cercare di correggerlo in alcun modo.
Sempre prima del 2008 il paese colpito dalla crisi (il quale non aveva fatto nulla per tagliare le
sue emissioni; sono cadute – poniamo del 14% – rispetto al 1990 per effetto della crisi, non
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perché sono stati montati pannelli solari) lascia pure lui che le proprie emissioni crescano, ed
aspetta che l’altro paese si presenti per acquistare i permessi senza i quali non riuscirebbe a
centrare il proprio target.
Una volta che la transazione sia stata effettuata, dal punto di vista di una ‘contabilità’ come
quella di Kyoto, non c’è nulla che non vada. Se il target collettivo dei due paesi fosse stato di
portare ad essere le loro emissioni collettive le stesse che nel 1990 entro il 2008, esso sarà stato
rispettato; come pure lo saranno stati i target individuali.
Consideriamo ora un altro caso. I target sono immutati. Ora però il paese che ha
sperimentato la crisi ha la ragionevole certezza di arrivare ad emettere nel 2008 la stessa precisa
quantità di gas serra che aveva emesso nel 1990. Esattamente come prima l’altro paese sa che –
in assenza di interventi sulle proprie emissioni – entro il 2008 queste cresceranno del 7% rispetto
al 1990.
Se le cose stanno così, perché possa essere centrato il target collettivo della stabilizzazione
delle emissioni congiunte al livello del 1990, non esistono alternative: ci si dovrà organizzare in
modo che nel 2008 – in un paese, nell’altro, o parte in uno e parte nell’altro – venga evitato un
quantitativo di emissioni pari al 7% del comune livello individuale al quale si trovavano nel 1990
le emissioni.
Nel primo esempio che ho fatto manca qualsiasi incentivo alla riduzione, nel secondo (pena
il venir meno agli impegni assunti) dovranno essere attuati interventi – individuate soluzioni,
fatti investimenti – per levare da mezzo una quantità positiva di tonnellate emesse; gli interventi
una volta effettuati, continueranno (più o meno, a seconda della loro natura) ad influire sul trend
delle emissioni dopo il 2008. Ed eviteranno che in un round negoziale successivo – al tempo del
quale il secondo paese abbia superato la recessione – il primo paese – per stabilizzare le proprie
emissioni al livello del 1990 – non solo debba eliminare la crescita delle sue emissioni dopo il
2008, ma anche quella cui non aveva posto rimedio fra il 1990 ed il 2008. Cosa che potrebbe
riuscirgli assai difficile. Ancora, nel primo esempio il risultato ‘nominale’ della stabilizzazione
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delle emissioni al livello del 1990 è privo di qualunque valore ‘reale’, in termini di capacità
dimostrata di evitare le emissioni. Nel secondo, invece, il risultato nominale ha dietro anche un
risultato reale: il successo di interventi specificamente diretti all’abbattimento delle emissioni.
Questa è una caricatura, e, a dire il vero, volendo porre in una luce meno ingenerosa la
costellazione di target pattuiti a Kyoto, si può pensare che tramite la medesima sia stata creata
una ‘riserva’ di autorizzazioni ad inquinare, cui, tuttavia, non è obbligatorio attingere.
In altre parole si può sempre sperare che i paesi tenuti al rispetto di vincoli stringenti,
piuttosto che espandere i rispettivi budget delle emissioni con l’acquisto di hot air, facciano tutto
il possibile per ‘rimanere entro’ quegli stessi budget…
Alcuni paesi – spinti ad esempio dall’avversione al rischio di dover dipendere dai
meccanismi flessibili, o l’intensità della preoccupazione riguardo al cambiamento climatico –
potrebbero volere (e riuscire a) centrare i rispettivi target, senza eccedere nell’acquisto di
permessi di inquinare che dietro di se non hanno alcuna tonnellata di anidride carbonica della
quale sia stata evitata la produzione.
Se tuttavia gli sforzi dei paesi più volenterosi non venissero coronati da successo, e
cadessero in un contesto in cui la preferenza degli altri paesi è per l’acquisto di ‘hot air’
(piuttosto che per il reale abbattimento delle emissioni entro i loro confini), il conseguimento
dell’obbiettivo del Protocollo di Kyoto (un taglio delle emissioni ‘collettive’ del 5%), potrebbe
più alla lunga rivelarsi un successo illusorio.
II.3 Le ‘no regret’ policies
Il fatto che secondo molti contenere le emissioni di anidride carbonica presenta costi elevati ma
benefici incerti, non dovrebbe in ogni caso far desistere dall’implementare le cosiddette ‘no
regret policies’, ossia quelle che non ci si pentirebbe di aver posto in essere qualora nel futuro
dovessero rivelarsi infondate le preoccupazioni nascenti dall’accumulo di gas serra
71
nell’atmosfera. Uno degli ambiti nei quali sembra verosimile la rinvenibilità di tali politiche è
quello dei problemi connessi alle distanze percorse dalle persone e dalle cose.
Come è facile intuire, in qualunque paese industrializzato, il settore dei trasporti è uno dei
più rilevanti – in termini di contributo all’immissione complessiva di anidride carbonica
nell’atmosfera. Negli Stati Uniti più che altrove, il contributo è rilevante. Esso è andato sempre
più rafforzandosi nel corso del tempo, vuoi a causa della minore densità di abitanti per unità di
territorio, vuoi per la composizione della flotta di veicoli (la quale, molto più che in Europa,
tende ad essere sbilanciata verso i veicoli il cui consumo di carburante è elevato), vuoi infine per
i bassi prezzi del carburante.
Ovunque la circolazione dei veicoli a motore é fonte di inquinamento, nonché di incidenti
automobilistici, e di congestione del traffico. In modo per mitigare i problemi nascenti
dall’elevato numero di miglia percorse potrebbe essere, negli Stati Uniti, tassare di più la
benzina, come suggerito in Mankiw (1999); ciò contribuirebbe a ridurre il traffico, poiché
incoraggerebbe un innalzamento del numero di occupanti per veicolo e incentiverebbe le persone
ad usare di più i mezzi pubblici o a vivere più vicino al posto di lavoro.
Gli argomenti di Mankiw, sul piano della pura desiderabilità di accrescere le imposte sul
carburante, sembrano tenere. Un semplice modello proposto in Edlin (2003) dà fondamento
teorico al fatto che il mettersi alla guida di un veicolo crea in se un’esternalità negativa, così che
il costo per la collettività del miglio margiale percorso da un veicolo è più alto del costo che
sopporta il conducente, per quel medesimo miglio.
Nel modello, per semplicità, l’insieme dei guidatori, quello dei territori, e quello delle strade,
sono presi omogenei al loro interno; in altri termini non esistono guidatori, territori e strade più
pericolosi o meno pericolosi. Poniamo:
mi = miglia percorse dal guidatore i in un anno
M = miglia percorse in aggregato da tutti i guidatori
72
l = miglia totali di strada
D = densità del traffico, o volume del traffico = M/l
fi = probabilità che i si trovi alla guida in un dato momento
d1 = danni derivanti da un incidente che coinvolga solo un veicolo
d2 = danni per ciascuna auto nel caso l’incidente coinvolga due veicoli
Assumendo la costanza della velocità, la frazione del tempo per il quale i si trova alla guida,
fi, sarà proporzionale alle miglia percorse; dunque fi = ?mi, per qualche ?. Conviene assumere che
le l miglia di strada siano una somma di L ‘luoghi’ aventi uguale lunghezza. i e j hanno un
incidente se si trovano nello stesso luogo, e nessuno dei due frena, o riesce comunque ad evitare
in qualche modo l’altro. La probabilità che i e j si trovino nel medesimo luogo è fi (fj / L).
Chiamiamo q la probabilità di incidente condizionata al fatto di trovarsi nel medesimo luogo;
allora il livello dei danni che i può aspettarsi di riportare in un incidente con j è:
a2i , j = d2 qLf
f ji j ? i
Sommando su j ? i e sostituendo fj con ?jmj (oltre che fi con ?imi) si ottiene l’espressione del
danno (atteso) sopportato da i in caso di incidente con un altro guidatore:
a2i = d2 ?2mi L
mqij j? ?
Ponendo c2 ? ( d2 ?2mi q)/L si ha:
73
a2i = c2 mil
mM i )( ?
o, assumendo che mi sia piccolo rispetto ad M
a2i ? c2 mi ?l
M c2 miD
Trascurando gli incidenti con più auto, il totale atteso del danno sopportato dal guidatore i è:
ai = c1 mi + c2 mi D
Il significato del primo termine dell’equazione è ovvio: si può avere un incidente anche
senza scontrarsi con alcun altro veicolo. c1 rappresenta il costo atteso dell’incidente che si
potrebbe avere percorrendo un miglio in una strada sgombra da altri veicoli, e, per dire, andando
a sbattere contro un albero. Se chiamiamo A il costo associato al numero totale delle miglia
percorse, si avrà:
A = c1M + c2MD = c1M + c2 M 2 /l
Si noti che il costo di un incidente fra due macchine – c2 M 2 /l – cresce nel quadrato delle
miglia totali percorse. Come si vede immediatamente qui sotto, questa non linearità è la fonte di
una esternalità negativa.
Infatti, il costo marginale totale degli incidenti associato all’attraversamento di un miglio in
più è:
74
?dMdA
c1 + 2 c2D
Per contro il costo marginale degli incidenti per il guidatore i è solo
?i
i
dmda
c1 + c2D
La differenza fra il costo marginale totale (per intendersi, quello della collettività), ed il costo
marginale individuale è positivo (è infatti pari a c2D).
Come si è detto, un modo semplice per far internalizzare ai guidatori l’esternalità associata
alla guida sarebbe, come suggerisce Mankiw (1999) tassare di più la benzina. Se si prescinde dal
problema della sua regressività – il quale probabilmente è meno facilmente liquidabile di quel
che pensa Mankiw – l’innalzamento della gasoline tax proposto dall’autore può considerarsi, nel
contesto statunitense, oltre che una misura per far internalizzare l’esternalità associata agli
incidenti, una via per ridurre il danno ambientale causato dal consumo di carburante. Sotto
questo secondo aspetto, prezzi della benzina più alti possono funzionare meglio del pretendere
che le case automobilistiche offrano veicoli in grado di percorrere distanze maggiori, a parità di
carburante consumato.
Il legislatore statunitense ha imposto ai light trucks – i quali consumano molta più benzina
delle auto – uno standard di efficienza energetica sostanzialmente più permissivo di quelli cui
sono stati assoggettati le auto. Da tanto tempo ormai questo trattamento differenziato è oggetto di
critiche. Per molti le case automobilistiche dovrebbero porre in commercio light trucks in grado,
mediamente, di percorrere distanze maggiori, a parità di benzina utilizzata (v. Cap. IV).
Due obiezioni si possono muovere ad un innalzamento dello standard di efficienza per i
veicoli meno efficienti: da un lato che questo innalzamento potrebbe tradursi in un incentivo a
75
guidare di più, anche se – in base alle stime contenute in Green et alt. (1999) – solo il 10-20%
dell’aumento dell’efficienza energetica viene compensato dal maggior uso dei veicoli. Dall’altro,
un più alto prezzo dei veicoli dovuto alla più alta efficienza, potrebbe trattenere i proprietari di
quelli più vecchi e meno efficienti dall’acquistarne di nuovi, e fare in modo che i primi
rimangono in circolazione più a lungo. Queste caratteristiche – le quali ridimensionano la
desiderabilità del pretendere dalle case automobilistiche l’accrescimento dell’efficienza
energetica media delle rispettive produzioni – sono entrambe estranee all’aumento della gasoline
tax.
Gli impedimenti a tale aumento non derivano da considerazioni di tipo economico, bensì di
tipo politico. In un paese dove i prezzi del carburante sono stati in genere bassi, e la domanda del
medesimo è elevata, esiste una potente ‘constituency’ contraria alla crescita delle tassa sulla
benzina. Sono numerosi i fattori cui si può ricondurre l’esistenza dell’anzidetta constituency: un
rapporto elevato fra il totale dei veicoli e la popolazione (‘high levels of vehicle ownerwership’),
sistemi di trasporto di massa scarsamente sviluppati, leggi locali di uso del suolo che favoriscono
uno sviluppo a bassa densità, e la mancanza di una ‘constituency’ favorevole all’innalzamento
delle tasse per via dei vantaggi che potrebbe derivarne (a differenza che in Europa infatti, il
gettito delle tasse sulla benzina rimane nel settore dei trasporti, servendo principalmente a
finanziare la costruzione di strade). Così a dispetto dei meriti intrenseci di una misura che
simultaneamente ridurrebbe l’uso del petrolio, l’inquinamento locale e globale, la congestione
delle strade e gli incidenti, sembra difficile, quantomeno in un futuro prossimo, attendersi un
aumento delle tasse sulla benzina. La tassa federale è rimasta immutata dal 1993, anche se
l’indice dei prezzi al consumo è aumentato del 20%, da allora – v. Portney et alt. (2003).
Gli autori appena citati ritengono che un approccio politicamente più fattibile alla riduzione
del consumo di carburante sarebbe far evolvere il sistema di assicurazione delle automobili da
quello attuale, basato sul pagamento di premi fissi annuali, ad uno in cui i premi sono basati sulle
miglia effettivamente percorse dai veicoli. Parecchi automobilisti spendono ogni anno per
76
l’assicurazione cifre non dissimili da quelle che spendono in carburante. Per esempio, il
guidatore generico percorre 12000 miglia ogni anno.
Se un gallone gli basta per 20 miglia, acquista 600 galloni annualmente. Se un gallone costa
1.40$, la sua spesa per la benzina ammonta a $840, cifra non molto diversa dagli 800$ che paga
ogni anno per l’assicurazione. Ipotizziamo allora che anche soltanto metà del premio assicurativo
dipendesse dalle miglia attraversate. Dividendo $400 per 12000 miglia percorse si ottiene che
ogni miglio percorso comporta il sostenimento di una spesa di $0.033 per l’assicurazione. Posto
che con un gallone di benzina vengano percorse 20 miglia, un assicurazione di tipo ‘pay-as-you-
drive’ sarebbe l’equivalente di una tassa sulla benzina di quasi 0,67 dollari a gallone, vale a dire
più di una volta e mezzo la combinazione delle tasse locali, statali e federali attualmente in
vigore!
In economia raramente esistono ‘pasti gratis’, e anche se la proposta dei tre autori sembra
essere uno di quelli, bisogna sempre considerare i costi di monitoraggio che dovrebbero
sostenere gli assicuratori per far pagare premi ‘al miglio’. Secondo Edlin sono questi costi a fare
in modo che per gli assicuratori il gioco non valga la candela… Però in base alle stime
dell’autore – per le quali rimandiamo al medesimo – i benefici sociali del condizionare i premi
assicurativi alle miglia percorse sono largamente in eccesso rispetto ai costi sociali, così che
risulta giustificato l’intervento delle stato per porre in essere di un sistema assicurativo pay-as-
you-drive.
A prescidere dal fatto che in alcuni stati le automobili sono obbligatoriamente soggette a dei
controlli periodici relativi alla sicurezza ed alle emissioni – per cui nulla impedirebbe che
contestualmente agli altri controlli venissero letti gli odometri delle auto ed i risultati della lettura
fossero trasmessi alle compagnie assicuratrici (la qual cosa ridimensionerebbe per queste ultime
il problema dei costi di monitoraggio) – una tassa fatta pagare alle imprese assicuratrici sulla
base delle miglia percorse dagli assicurati, costituirebbe un modo per indurre le compagnie a far
sì che gli assicurati internalizzino le esternalità create dal loro mettersi al volante… Ciò
77
costituirebbe un esempio di no regret policy – sempre che a questo termine si voglia dare il
significato di ‘politica i cui benefici eccedono i costi, anche in assenza di preoccupazioni
concernenti il cambiamento climatico’ piuttosto che quello di ‘politica che costa poco’… Quella
di cui stiamo parlando è una no regret policy, molto simile ad una gasoline tax (pur non essendo
esattamente la stessa cosa: per esempio, a chi, in presenza di tale politica, passasse da un auto
capace di attraversare un certo tot. di miglia con un gallone ad una in grado di percorrerne il
doppio, il cambiamento non porterebbe alcun vantaggio economico) e ciò potrebbe vedersi come
una giustificazione normativa della gasoline tax.
III.4 Oltre le no regret policies, ma con prudenza: l’uso congiunto dei prezzi e delle quanti-
tà nel controllo delle emissioni.
Secondo Aldly et alt. (2001), la grandezza dei rischi associati ai mutamenti del clima ed il forte
ritardo con il quale lo stock dei gas serra reagisce ai tentativi di ridurlo, rendono sconsigliabile il
restringere la politica climatica all’adozione di ‘no-regret policies’. Tuttavia essi notano pure che
una buona politica per far fronte alla minaccia del riscaldamento globale dovrebbe consentire
una qualche forma di copertura contro il rischio che i costi da essa generati si rivelino così grandi
da superare i benefici derivanti dalla sua adozione. Il Protocollo di Kyoto non offre questo
genere di copertura: esso fissa dei limiti alle quantità producibili di gas serra ed impone di
rispettarli, quale che sia il costo di farlo. Il modo in cui gli autori ritengono che sia possibile
ovviare alla carenza appena menzionata, è uno che ha riscosso larghi consensi - si veda pure
Victor (2001b). Esso è sostanzialmente sovrapponibile a quello proposto da Mckibbin, Wilcoxen
(2002), che lo hanno illustrato graficamente.
Prendendo le mosse da Weitzman (1974), gli autori mostrano con un semplice esempio che,
in presenza di incertezza, vi sono condizioni sotto le quali per ridurre le quantità prodotte di un
inquinante è meglio creare un mercato di permessi ad inquinare, ed altre, speculari, sotto le quali
è preferibile l’uso della tassazione. Si pensi ad un ipotetico inquinante dell’aria. L’inquinante è
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pericoloso soltanto a livelli elevati: non provoca danni alla salute quando ne viene prodotta una
quantità giornaliera inferiore alle 100 tonnellate, ma ciascuna tonnellata in più comporta danni
del valore monetario di 10 $. Le emissioni si trovano attualmente ad un livello di 150 tonnellate
al giorno. Pertanto l’eliminazione di ciascuna delle prime 50 tonnellate in eccesso comporterebbe
un beneficio marginale (cioè un danno evitato) di 10 $. Al di là di questo punto però, il beneficio
marginale dell’eliminazione cadrebbe a zero, perché le quantità emesse si troverebbero sotto la
soglia delle 100 tonnellate e non causerebbero più alcun danno. Siamo dunque in presenza di una
curva del beneficio marginale ripida: alla soglia il beneficio marginale cade da 10 $ a zero.
Supponiamo ancora che le emissioni della sostanza inquinante possano essere ridotte con
rendimenti di scala costanti – ossia che la curva del costo marginale sia piatta – ma che non si
sappia quale sia precisamente il costo marginale. Tutto quello che si sa è che il costo marginale è
sotto ai 10 $ per tonnellata non emessa. Data questa informazione, il livello efficiente delle
emissioni è 100 tonnellate. Sopra alle 100 tonnellate infatti, il danno derivante dall’emissione di
una tonnellata addizionale è più alto del costo da sostenere per non emetterla; sotto alle 100
tonnellate, ulteriori diminuzioni non generano alcun beneficio aggiuntivo. In questa situazione
creare permessi ad inquinare sarebbe preferibile alla fissazione di una tassa. Creando permessi ad
inquinare in una quantità tale da consentire l’emissione di 100 tonnellate, il governo sarebbe
sicuro di ottenere il risultato efficiente: per ogni costo marginale sotto i 10 $ il sistema dei
permessi impedirebbe alle emissioni di superare la soglia. La fissazione di una tassa d’altra
parte, data l’incertezza sul costo marginale, sarebbe una politica tremenda. Poniamo che il
governo fissi una tassa di 5 $ a tonnellata, e che il costo marginale dell’evitare le emissioni sia 6
$. In questo caso le imprese sceglierebbero di pagare la tassa e non si impegnerebbero in alcun
modo per ridurre le emissioni, che continuerebbero ad essere di 150 tonnellate. Se il costo
risultasse minore di 5 $, ad esempio di 4 $, si produrrebbe ugualmente un risultato inefficiente,
perchè le imprese eliminerebbero tutte e 150 le tonnellate di emissioni. Quindi, in presenza di
incertezza, quando il beneficio marginale ha un andamento ripido e il costo marginale ha un
79
andamento piatto, è importante tenere le emissioni al di sotto di una certa soglia, e ciò è
esattamente quello che fanno i permessi ad inquinare. Nella situazione opposta, quando cioè i
costi marginali hanno un andamento rapidamente crescente e la scheda del beneficio marginale è
relativamente piatta, l’imposizione di una tassa rappresenta una politica migliore.
Nel seguito si ipotizzerà, come fanno Mckibbin e Wilcoxen (2002) e come sostenuto in
Edmonds (2003) che, la scheda dei benefici marginali associati alla mitigazione del
cambiamento climatico sia relativamente ‘piatta’ (quella in fig.1 vorrebbe essere tale). Ma è
doveroso precisare che molti – come Michaelowa (2003) – avrebbero da ridire su questa ipotesi,
a causa della possibilità che il clima ci riservi ‘brutte sorprese’, come l’arresto della Corrente del
Golfo, o la trasformazione (in intensità e distribuzione temporale) dei monsoni continentali –
trasformazione che potrebbe avere, in Asia, impatti sulla produzione di cibo e sul verificarsi di
alluvioni e siccità.
Cosa succede se in una situazione di incertezza circa la forma e la posizione della curva dei
costi marginale, si pone un limite invalicabile alla quantità prodotta di gas serra? Si può anche
imporre alle imprese di effettuare una quantità di disinquinamento 1aQ creando un sistema di
permessi ad inquinare (si veda la figura 1, dove l’asse delle ascisse è stato normalizzato, in modo
da far corrispondere la completa eliminazione delle emissioni a 100 unità di disinquinamento): se
le curve sono quelle della fig.1, la quantità di disinquinamento è efficiente. Ma sorgerebbero dei
problemi nel caso in cui, una volta posta in essere la regolamentazione, la curva del costo
marginale risultasse essere – ad esempio – 2MC invece di 1MC (v. fig. 2).
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figura 1
aQ1 1000
1P
1MC
$
MB
Quantità di disinquinamento (come % delle emissioni non eliminate)
81
figura 2
TD
aQ1aQ2
aQ31000
1P2P
1MC
2MC$
3P
MB?
Quantità di disinquinamento (come % delle emissioni non eliminate)
Nella fig. 2 l’incertezza è stata resa mediante due distinte curve dei costi marginali. Sull’asse
orizzontale abbiamo la quantità di disinquinamento. Con un sistema di permessi le imprese
saranno costrette ad effettuare una quantità di disinquinamento Q1a
anziché la quantità ottimale
Q2a
. Ciò a sua volta implicherà un prezzo dei permessi considerevolmente più alto di P1 (ossia
pari a P3), ed un costo del disinquinamento superiore ai suoi benefici, in una misura pari all’ area
D. In questo esempio, imporre una tassa sulla produzione della sostanza inquinante sarebbe una
scelta molto più saggia. Supponiamo infatti che questa tassa fosse stata pari a P1, cioè ad un
livello tale da far trovare ottimale alle imprese una quantità di disinquinamento pari a Q1a
(da
ritenersi ottimale pure dal punto di vista dei regolamentatori, in quanto corrispondente
82
all’intersezione fra MC1 e MB). Una volta che le imprese si accorgano di dover fronteggiare una
curva del costo marginale CM2 anziché CM1, esse sceglieranno di effettuare una quantità di
disinquinamento Q3a
. Tale quantità è un po’ più bassa di quella (Q2a
) che sarebbe stata ritenuta
ottimale dai regolamentatori qualora avessero conosciuto la vera curva del costo marginale (e
che avrebbero potuto ottenere, ad esempio, fissando un’imposta P2); Essa implica una perdita di
benessere pari all’area T. Quest’ultima non è molto ben visibile nella fig. 2: si tratta di quella
ricavabile operando la differenza fra l’area sottesa alla curva del beneficio e quella del costo
marginale, dove la differenza presa nell’intervallo di estremi Q3a
e Q2a
… Tale perdita di
benessere è molto minore di quella (pari all’area D) che si sarebbe avuta creando dei permessi ad
inquinare e pretendendo dalle imprese una quantità di disinquinamento almeno pari a Q1a
.
Come si è visto, un ‘mercato dei fumi’ dà delle garanzie in termini in termini di quantità non
eccedute di inquinamento; non garantisce viceversa che il prezzo di non produrre una unità di
inquinante si mantenga entro limiti certi. Per le tasse vale l’opposto. Quindi è ovvio che tanto il
trading delle emissioni quanto la tassa comportano un rischio – v. Aldly et alt.. Nel caso dell’uno
è quello di sostenere costi sproporzionati, nel caso dell’altra è quello di conseguire riduzioni
dell’inquinamento irrisorie.
Il trade-off fra i due rischi, in linea di principio, può essere mitigato tramite l’adozione di un
approccio che si suole definire ‘ibrido’. La definizione è appropriata: esso infatti si sostanzia
nella creazione di un mercato di permessi ad inquinare. Ma, proprio come un’approccio
consistente nell’imposizione di una tassa, impedisce che il prezzo del produrre una unità di
sostanza inquinante oltrepassi una determinata soglia. Si può combinare un numero fisso di
permessi ad inquinare (aventi una lunga durata) con un’offerta di permessi di breve termine,
validi solamente per un anno. I primi potrebbero essere assegnati gratuitamente dal governo sulla
base delle emissioni storiche o messi all’asta o distribuiti in qualunque modo il governo stesso
83
ritenga opportuno. Per quanto concerne i permessi di breve termine invece, il governo dovrà
porli in vendita ad un prezzo stabilito. Il che renderà il loro acquisto analogo in tutto e per tutto
al pagamento di una tassa per tonnellata prodotta. Le imprese di un dato paese avrebbero
l’obbligo di possedere un totale di permessi pari alle tonnellate prodotte nel corso dell’anno,
senza però vincoli quanto alla composizione di questo totale in termini di permessi,
rispettivamente, a breve ed a lungo termine.
Per esporre il funzionamento di questo schema di regolamentazione (che è di natura market-
based), faccio riferimento alla fig. 3 più sotto, nella quale si può intanto vedere che se ci si
sposta da destra verso sinistra sull’asse delle ascisse, diminuisce la frazione di emissioni non
sottoposta a controllo (e aumenta contestualmente il costo marginale del controllo). L’altra faccia
dell’andamento appena delineato è l’aumento della quantità di permessi domandati dalle
imprese. Ciò detto, consideriamo l’offerta di permessi disponibili per l’uso in un dato anno.
84
Figura 3
LowCost
HighCost
TQ
1D
2DPS
2P
1P
2Q0100
$
ASTP S
Quantità di permessi (come % delle emissioni non controllate)
Vi sarà una offerta inelastica di QT permessi perpetui cedibile in prestito, dove QT è il
numero rilevante di tali permessi. Esso è mostrato nella fig.3 dalla linea verticale SP. Ci sarà
anche un’offerta di permessi annuali messi a disposizione dal governo al prezzo PT,
corrispondente alla linea orizzontale SA. L’offerta totale di permessi è data dalla somma
orizontale di SP ed SA, ossia dalla curva S. La domanda di permessi sarà data dalla curva del
costo marginale di eliminare le emissioni. Se i costi del rimuovere le emissioni risultano essere
relativamente bassi, ossia se la curva in questione è D1, il prezzo di equilibrio dei permessi sarà
P1, che è inferiore al prezzo di un permesso annuale, PT. In questo caso verrebbero offerti solo
85
permessi perpetui, e le emissioni verrebbero ridotte fino a QT. Se invece i costi del
disinquinamento si rivelassero relativamente elevati, la curva di domanda dei permessi rilevante
sarebbe D2, e il prezzo di un permesso arriverebbe a PT (non a P2, il prezzo che si manifesterebbe
sul mercato dei permessi qualora fossero acquistabili solo permessi perpetui). Verrebbero
venduti dei permessi annuali, e la quantità totale di permessi domandati sarebbe Q2. In sintesi, in
questo schema di regolamentazione, le imprese non pagano mai più di PT per poter emettere una
tonnellata aggiuntiva di anidride carbonica.
Questa per le imprese potrebbe essere una garanzia importante, a tal punto da attutire
eventuali dissensi nei confronti della regolamentazione dell’inquinante; Può darsi infatti che le
remore ad accettare la creazione di un mercato dei fumi siano generate non tanto dal livello del
prezzo atteso dei permessi, quanto dal fatto che il prezzo in questione è un prezzo, appunto,
atteso: quello vero potrebbe rivelarsi ex-post molto più alto. Il poter acquistare i permessi
governativi ‘assicura’ in modo totale contro l’eventualità che il prezzo effettivo possa superare
quello atteso.
Non è addirittura da escludere, che, nell’ambito del processo politico da cui dipendono la
posizione in essere ed il contenuto della regolamentazione dei gas serra, i potenziali destinatari
della medesima concedano (‘in cambio’ dell’assicurazione ricevuta) il proprio non opporsi ad un
prezzo dei permessi governativi leggermente più alto del prezzo atteso (di cui sopra) – v. Aldly
et alt..
La circostanza che i costi di una data regolamentazione si rivelino, a sorpresa, insostenibili
per i regolamentati, non costituisce un’ipotesi di scuola. Essa si è presentata concretamente non
troppi anni fa negli Stati Uniti, il paese che più di ogni altro si è servito degli strumenti market-
based al fine di proteggere l’ambiente, e dunque quello alla cui esperienza è opportuno guardare
per avere un’idea dei problemi che potrebbero sorgere applicando detti strumenti al controllo
delle emissioni di gas climalteranti (come pure, è ovvio, dei vantaggi che ci si può attendere dal
loro impiego). Vi accenno brevemente qui di seguito. Il ‘RECLAIM Program’ è nato nei primi
86
anni ‘90 dalla volontà dei regolamentatori di portare la zona del bacino di Los Angeles ad essere
conforme con gli Standard Nazionali di Qualità dell’Aria – relativamente alle emissioni di
biossido di zolfo e quelle di ossido di azoto (SO2 e NOX). Era già stato sviluppato,
precedentemente, l’Air Quality Management Plan, il quale era finalizzato al raggiungimento
degli Standard entro il 2010. Si trattava però di una regolamentazione coercitiva, la cui
attuazione, basata sull’adozione di 130 misure di controllo, avrebbe preso molto tempo e
generato costi ingenti. Tre anni di trattative fra regolamentatori e regolamentati si risolsero alla
fine nell’introduzione, per ciascuno dei due tipi di emissioni, di un distinto programma di ‘cap-
and-trade’ (il quale è uno schema di regolamentazione consistente – proprio come quello del
Protocollo di Kyoto – nel proibire l’oltrepassamento di determinati vincoli in termini di
emissioni, alle quali viene così applicato un ‘tappo’, e nel lasciare poi che le emissioni rientranti
nel consentito vengano commerciate fra le fonti soggette a regolamentazione). Ciò al fine di
abbassare le emissioni aggregate al livello desiderato in 10 anni, o nel 2003, ossia sette anni
prima di quanto sarebbe dovuto avvenire grazie all’applicazione dello schema di
regolamentazione coercitiva. Fra le numerose ed eterogenee fonti partecipanti al RECLAIM
Program (centrali elettriche, raffinerie, cementifici ed altre fonti di tipo industriale) vengono
scambiate autorizzazioni ad emettere incorporate in ‘RECLAIM Trading Credits’(RTCs). Sulla
bontà complessiva dei risultati prodotti dal RECLAIM Program nei suoi primi otto anni di vita
incombe l’ombra dello sforamento delle emissioni di Nox nel 2000 e 2001, quando dette
emissioni superarono – rispettivamente di 3294 (cioè del 16%) e 28 (cioè dello 0,25%) tonnellate
– il livello che avrebbero dovuto avere in quei due anni. Lo sforamento è tuttavia da imputarsi a
circostanze contingenti (vale a dire i problemi di eccessiva domanda che si sono verificati in
quegli anni nel mercato dell’elettricità californiano).
Pur essendo stati relativamente stabili fra il 1994 e 1998 – periodo nel quale rimasero
compresi fra i 1500 ed i 3000 dollari a tonnellata – nel 2000 i prezzi dei NOx RTCs (o meglio di
quelli destinati a coprire le emissioni di breve termine) subirono un’impennata: il prezzo delle
87
autorizzazioni relative al 2000 passò da una media di 4,284 ($) per tonnellata commerciata
(avutasi negli scambi del 1999), ad una di quasi 45,000 ($). Nel mese del 2000 in cui il prezzo
medio fu più alto esso si attestò sui 70,000 ($), e il picco del prezzo pagato in un singolo scambio
fu di 90,000 ($) a tonnellata.
Il forte incremento dei prezzi nell’estate del 2000 è stato causato da un sostanziale aumento
della domanda da parte dei produttori di elettricità. Nell’estate del 2000 in California la domanda
di elettricità lievitò; viceversa diminuì l’offerta di elettricità da parte degli altri stati. Il forte
eccesso di domanda ha indotto l’accresciuta attività di una fitta schiera di vecchi impianti di
generazione alimentati a gas. Pochi di questi impianti erano stati attrezzati per il contenimento
delle emissioni di NOx; da ciò la crescita della domanda, e del prezzo, dei NOx RTCs. Il loro
alto prezzo è stato, secondo Joskov e Kahn (2002), uno dei molteplici fattori alla base dei prezzi
stratosferici che si ebbero in quel periodo nel mercato all’ingrosso dell’elettricità: va infatti
considerato che le unità di generazione soggette ai vincoli per le emissioni di NOx si trovarono
nella posizione di ‘unità marginali’ per molte ore, divenendo così quelle che facevano il prezzo
dell’elettricità in California.
La decisione indotta da tutto questo (alti prezzi delle autorizzazioni e dell’elettricità,
sforamento rispetto agli obiettivi ambientali) è stata la sospensione (temporanea) della
partecipazione al RECLAIM degli stabilimenti di produzione dell’elettricità. E’ stato consentito
il pagamento di una tassa di $15,000 (i cui proventi sono stati utilizzati per pagare riduzioni delle
emissioni altrove) per ogni tonnellata in eccesso rispetto a quelle che non andavano eccedute. E
gli stabilimenti sono stati assoggettati, sempre in via temporanea, ad una regolamentazione
alternativa di tipo coercitivo (command-and-control)… La piega che prese il corso degli eventi
nel caso che ho appena menzionato – chiunque mi abbia seguito sin qui non avrà difficoltà ad
accorgersene – è di fatto l’equivalente dell’applicazione di un sistema di regolamentazione
ibrido. Dal caso esaminato, si vede anche – per me – che un sistema ibrido avrebbe il vantaggio
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di evitare il danno di credibilità che un dato mercato dei fumi può trarre da eventi imprevisti e
tali da imporre momentaneamente la sospensione degli scambi.
Ciascuno di un gruppo di più paesi – in base ad un accordo fra di essi – può regolamentare la
propria produzione interna di gas serra lungo le linee indicate da Mckibbin e Wilcoxen (2002).
Se – come proposto esplicitamente in Mckibbin eWilcoxen (2003) – in tale contesto non può
avere liberamente luogo il commercio transfrontaliero di autorizzazioni ad emettere, viene meno
la possibilità del formarsi di un prezzo internazionale delle emissioni, ed anche quella –
paventata in Michelowa (2003) – di un appiattimento del medesimo sul prezzo delle emissioni
vigente nel paese dove i permessi a breve termine costano meno.
L’architettura internazionale proposta da Mckibbin e Wilcoxen per il controllo delle
emissioni a livello globale farebbe venir meno un dannoso incentivo che gli autori attribuiscono
al Protocollo di Kyoto. Nella misura in cui esso è privo di un efficace meccanismo di
enforcement, i governi delle nazioni aderenti al medesimo potrebbero avere la tentazione di
guardare dall’altra parte, quando le imprese non rispettano i vincoli previsti per le loro emissioni.
A detta di Mckibbin e Wilcoxen il sistema da loro proposto fa venire meno la tentazione in
parola, perché comporta l’esistenza di una fonte di entrate per il governo: la vendita dei
permessi. Si tratta di un aspetto positivo che va ad aggiungersi a quello della copertura nei
confronti del rischio di un onere economico eccessivo associato all’abbattimento delle emissioni.
Però, interpretando il sistema in parola come fissazione di un ‘trigger price’ (per intendersi,
quello al di là del quale un governo potrebbe vendere alle imprese permessi a breve termine)
comune a più paesi, o come la pattuizione di una costellazione di trigger price differenziati, è
importante – a mio giudizio – tenere presente quanto segue.
Se il (o i) trigger price scaturiti dalle negoziazioni fossero bassi, e dunque tali da essere
oltrepassati di frequente, non avrebbero senso i limiti quantitativi fissati per le emissioni: tutto si
ridurrebbe all’armonizzazione internazionale di un’imposta sulla produzione di gas climalteranti
– si veda in proposito Jakoby ed Ellerman (2004). Viceversa se fossero tali da creare una vera
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assicurazione contro il rischio di prezzi delle emissioni fuori controllo, senza per questo tradursi
in una regolamentazione basata sull’uso dei prezzi mascherata da regolamentazione fondata
sull’uso delle quantità, darebbero un contributo autentico alla mitigazione del cambiamento
climatico.
A tal proposito di consideri pure quanto viene notato da Victor (2001b): il monitoraggio di
un accordo diretto all’armonizzazione internazionale di un’imposta sulle emissioni è complicato
dalla possibilità – non esistendo tetti al livello delle emissioni – che l’onerosità dei medesimi
venga mitigata attraverso la concessione di vantaggi compensativi. In altri termini, malgrado
nelle intese fra nazioni tenute insieme da legami di genere diverso dalla sola volontà di cooperare
alla limitazione del cambiamento climatico (ad esempio un accordo commerciale come il
NAFTA) l’incentivo ad ingannarsi vicendevolmente possa essere mitigato dalla volontà di non
turbare la stabilità degli altri legami, bisogna in generale ammettere l’eventualità che una
nazione, facendo leva sulla concessione – per dire – di sussidi alle proprie imprese più carbon-
intensive, riesca a mitigare la penalizzazione subita da queste ultime a causa dell’imposizione
della tassa. Ciò comporterebbe – naturalmente – un minore incentivo – per le imprese facenti
parte delle anzidette industrie – a tagliare la produzione di gas serra.
Inoltre, se per ottenere una riduzione delle emissioni di gas climalteranti si vuole fare leva su
uno strumento di politica ambientale che in parte equivale all’introduzione di un’imposta sulle
emissioni, bisognerebbe considerare un ammonimento, o quanto meno tenere presenti, i risultati
empirici rinvenuti da Ciocirlan e Yandle (2003). Secondo questi autori nei paesi dell’OCSE la
relazione fra il livello dell’imposizione sulle emissioni di CO2 e le emissioni stesse è concava (ed
altrettanto può dirsi del legame tra gettito ed emissioni).Una spiegazione di questo fatto potrebbe
essere che i politici fissino le imposte ‘verdi’ – più che con il fine di proteggere l’ambiente – con
quello di generare entrate. In altre parole può darsi che essi evitino di portare il livello di
un’imposta al di la di quello – ottimale sotto il punto di vista della massimizzazione del gettito,
ma non dal punto di vista del disincentivo ad inquinare – oltre il quale l’imposta (disincentivando
90
le emissioni) ridurrebbe il gettito. Se così è, diventa estremamente rilevante la misura in cui
questo gettito viene allocato alla riduzione delle emissioni; ossia quanta parte del medesimo
viene allocato alla ricerca sulle fonti energetiche alternative, quanta all’incentivazione del
risparmio di energia nelle abitazioni, e via dicendo. In più, l’antidoto alla tentazione dei governi
di ‘guardare dall’altra parte’, che Mckibbin e Wilcoxen vedono nella posizione (di percettore del
prezzo dei permessi) dello stesso governo stesso può non avere l’efficacia attribuitagli dagli
autori. Ecco che riemerge, in definitiva un problema di volontà politica.
Ciò detto, è pur sempre vero che la garanzia di un prezzo delle emissioni sotto controllo può
dare un incentivo a porsi traguardi più ambiziosi di quelli cui è lecito puntare stante un certo
livello di consenso politico (al limite, un consenso nullo) attorno al taglio delle emissioni
mediante la semplice e sola regolamentazione delle quantità. Ed è soprattutto questo il merito
della proposta degli autori. Il Protocollo di Kyoto è entrato ormai in vigore, ma a mio modo di
vedere ciò non costituisce una ragione per smettere di interrogarsi sulla praticabilità dell’
‘approccio ibrido’ al controllo dei gas serra. Quali che siano i risultati cui condurrà
l’implementazione del Protocollo, prima o poi dovranno essere negoziati un target collettivo, ed
allo stesso tempo dei target individuali, più ambiziosi di quelli attualmente contenuti nel
Protocollo medesimo. In quella circostanza, può darsi che accanto alla modifica dei target venga
stabilito, un trigger price delle emissioni comune, o distinto fra gruppi di paesi. Questa seconda
possibilità è più verosimile qualora emergano differenze sostanziali nella disponibilità ad
intraprendere passi aggiuntivi sulla strada del controllo delle emissioni. Può verificarsi al
momento in cui si discuterà della costellazione di target nazionali cui dovrà lasciare il posto
quella contenuta nel Protocollo di Kyoto, o al momento di pattuire una costellazione ancora
successiva. Può essere utile per coinvolgere di più (nel processo di limitazione delle emissioni)
paesi altrimenti destinati – sotto il Protocollo – a contribuirvi solo come sede della realizzazione
di progetti formulati ed attuati nell’ambito del CDM.
91
Infine, Feldstein (2001) ha proposto di vincolare le quantità di benzina allocando vouchers
elettronici ai guidatori, trasferibili esattamente come i permessi di inquinare in un mercato dei
fumi.
Malgrado una delle virtù attribuite dall’autore al sistema da lui stesso proposto è di non
comportare l’imposizione di tasse, credo che la presenza dello stato nel sistema – oltre che come
agente cui spetta di distribuire i vouchers – come venditore dei medesimi ad un prezzo fisso
(qualora quello di mercato dovesse eccedere una determinata soglia), non sarebbe nocivo alla
‘praticabilità politica’ del sistema in parola; v. però pure il Cap. IV.
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Capitolo IV: Società, interessi particolari, ed abbattimento delle emissioni
negli Stati Uniti
IV.1 Premessa
Il ripudio del Protocollo di Kyoto da parte degli Stati Uniti ha privato gli altri paesi che l’hanno
ratificato di un importante alleato nel controllo delle emissioni globali; è vero, fra i suoi limiti
questo trattato ha anche quello di non aver assegnato alcun target di riduzione o limitazione delle
emissioni a ‘paesi in via di sviluppo’ che molti ormai avrebbero difficoltà ad etichettare come
tali, ma è pur sempre un piccolo passo in direzione dell’anzidetto controllo. Potrà apparire
anacronistico mettere in risalto la condotta dei soli Stati Uniti, data l’incessante crescita (attuale e
prospettica) dell’output di gas climalteranti di Cina ed India.
E’ mia opinione però, che, malgrado tale crescita, fra Cina, India, e Stati Uniti, questi ultimi
restino il paese dal quale sarebbe maggiormente legittimo pretendere, già nel breve termine, una
riduzione delle emissioni. Ciò non soltanto perché – v. Watkins et alt. (2005) – il consumo di
CO2 degli Stati Uniti, in termini pro capite, è 20,1 tonnellate – a fronte delle 2,7 e 1,2
(rispettivamente) di Cina ed India. In Cina, ad esempio, la forte crescita economica ha fatto
sorgere emergenze ambientali che ancora non sono state adeguatamente affrontate. La loro
gravità emerge dalla fotografia che ne viene offerta dall’Economist (2004a).
L’inquinamento dell’acqua ed i rifiuti rappresentano l’emergenza più rilevante, a tal punto
da poter essere considerati un intralcio per l’economia. A livello pro capite, le risorse idriche
della Cina sono fra le più basse del mondo, e si concentrano a sud, mentre ad ovest e nel nord il
presentarsi della siccità rientra nell’ordinario. L’insufficiente investimento nell’offerta di acqua,
come pure in infrastrutture per il suo trattamento, comporta che laddove essa non sia scarsa,
raramente è pulita. Secondo una società di consulenza citata dall’Economist, costruire 10.000
impianti di trattamento dell’acqua inquinata – con un costo di 48 miliardi di dollari – non
93
sarebbe sufficiente che a raggiungere un livello di trattamento del 50%. L’agenzia di stato cinese
per la protezione dell’ambiente (State Environmental Protection Agency) ritiene che oltre il 70%
dell’acqua contenuta in cinque dei sette maggiori sistemi fluviali della Cina presenti rischi per le
persone, qualora vengano a contatto con la medesima.
Per avere un’idea della pressione esercitata dalla crescita economica della Cina sulle sue
risorse idriche si consideri, pure quanto segue: per produrre 10.000 RMB di output, la Cina usa
103 metri cubi di acqua, mentre gli Stati Uniti ne usano solo 8 – v. Hofman (2005).
Soltanto il 20% dei 168 milioni di tonnellate di rifiuti solidi generate annualmente in Cina
viene smaltito correttamente.
La qualità dell’aria nelle città è un problema serio. Secondo la Banca Mondiale, delle 20
delle città più inquinate del mondo, 16 si trovano in Cina. Esistono stime che quantificano in
300.000 il numero delle persone che muoiono prematuramente per malattie respiratorie. Il
principale motivo per la cattiva qualità dell’aria è la percentuale del crescente fabbisogno
energetico cinese che viene soddisfatta da centrali elettriche alimentate a carbone. Questa
percentuale è circa il 70%, negli Stati Uniti il 50. Se a ciò si aggiunge l’ancora largo uso delle
stufe a carbone per il riscaldamento domestico, si ha che la Cina ha il più elevato livello di
emissioni di biossido di zolfo del mondo, ed un quarto del paese è esposto al fenomeno della
pioggia acida. In base alle verifiche compiute dalla SEPA su 300 città nel 2002, quasi due terzi
di esse sono risultate incapaci di soddisfare gli standard per la qualità dell’aria
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Si tratta di un dato che non depone bene per la
vivibilità delle città cinesi, tenuto conto della forte crescita del possesso di automobili; infatti, il
70% del milione di veicoli presenti a Shangai, secondo l’ufficio della protezione ambientale di
questa città, non raggiunge nemmeno i più vecchi standard europei per le emissioni.
Nell’articolo che l’Economist (2004b) dedica al sistema sanitario cinese si legge che –
quando quattro anni addietro l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva classificato i sistemi
sanitari di 191 paesi – includendo fra criteri di valutazione pure l’equità nell’accesso
94
all’assistenza sanitaria e quella della contribuzione ai costi della medesima, la Cina si era
classificata 144-esima, dietro ad alcuni dei paesi africani più poveri; ciò pur avendo un reddito
pro capite doppio rispetto all’India, che si era ‘piazzata’ 112-esima. Secondo l’Organizzazione
Mondiale della Sanità, la Cina è l’unico paese nella regione del pacifico occidentale a non
fornire gratuitamente le vaccinazioni per i bambini. In Cina la speranza di vita alla nascita per le
donne è 73 anni, 70 per gli uomini. Si tratta di un livello comparabile con quello dei paesi a
medio sviluppo. Ma vi sono forti disparità fra regioni. Nelle aree ricche, come quella attorno a
Shangai sulla costa, gli indicatori della salute non sono differenti da quelli di molti paesi
occidentali. Ma altrove, nella Cina occidentale, detti indicatori sono quelli di un paese
estremamente arretrato. Secondo la Banca Mondiale, la Cina ha sottratto ad un grave stato di
povertà 400 milioni di persone nelle passate due decadi, ma milioni di persone sono ricadute in
esso a causa delle forti spese da sostenere per ricevere assistenza sanitaria. Milioni di altre stanno
morendo perchè non possono permettersi l’assistenza sanitaria. Da una indagine governativa
antecedente di tre anni all’articolo dell’Economist (2004b), e che viene citata nel medesimo,
risultò che il 60% dei residenti rurali evitava del tutto gli ospedali a causa delle spese. Malattie
che un tempo erano state dichiarate sconfitte, come la tubercolosi, stanno facendo ritorno, e si sta
rapidamente diffondendo l’HIV.
L’‘istantanea’ che il settimanale britannico offre dei problemi del sistema sanitario cinese e
dei problemi ambientali della Cina è assai più particolareggiata ed analitica dei pochi dati che ho
riportato attingendo alla medesima. Per essere diminuiti ad un livello accettabile, i problemi in
parola non richiederanno solo iniziativa ma – credo – pure tempo, e soprattutto denaro. La Cina è
in grado di sottrarre risorse alla loro soluzione così da rispettare un qualche vincolo fissato a
livello internazionale per le sue emissioni di gas serra?
Nel 2004 il GDP degli Stati Uniti è stato di 11.667.515 milioni di dollari, v. World Bank
(2005a). Questo GDP, diviso per un popolazione di 293.507 migliaia di persone – v. World Bank
(2005b) – dà come risultato un pro capite di poco meno di 40.000 dollari. La Cina è un paese il
95
cui reddito pro capite – v. Economist (2004a) – ha oltrepassato solo di poco i 1000 $ (qualcosa
meno di 1.300, se si determina il GDP facendo riferimento ai dati offerti dalla Banca mondiale,
appena citata). E la sperequazione nella distribuzione dei redditi, in questo paese, sarebbe
secondo Hofman (2005), addirittura più elevata che negli Stati Uniti.
Quando la negoziazione del Protocollo era ancora in corso, negli Stati Uniti ebbero pieno
successo i tentativi di porre al centro del dibattito politico sul cambiamento climatico la crescita
delle emissioni in corso nei paesi in via di sviluppo – e di rappresentare come priva di benefici
qualunque diminuzione delle emissioni posta in essere da parte degli Stati Uniti, in quanto
sarebbe stata vanificata dalle crescenti emissioni dei paesi in via di sviluppo – v. Grubb (1999).
Alla fine, con la Senate Resolution 98, nel luglio del ‘97, il Senato degli Stati Uniti (senza il cui
beneplacito sarebbe stato impossibile per l’amministrazione Clinton procedere alla ratifica del
trattato di prossima negoziazione) espresse la propria avversione nei confronti di qualsiasi
trattato il quale – creando degli obblighi di limitazione o di riduzione delle emissioni a carico dei
paesi dell’Allegato I – non stabilisse anche ‘[…] specific scheduled commitments to limit or
reduce greenhouse gas emissions for Developing Countries parties within the same compliance
period […]’.
La Convenzione di Rio del 1992, come viene notato nella Risoluzione 98, ‘[…] identifies
the former Soviet Union and the countries of Eastern Europe and the Organization for Economic
Co-operation and Development (OECD), including the United States, as "Annex I Parties" and
the remaining 129 countries, including China, Mexico, India, Brazil, and South Corea, as
"Developing Country Parties" […]’ U.S. Senate (1997).
Per quanto riguarda l’aspetto dell’efficacia ambientale, mi sembra un’ovvietà che una
diminuzione delle emissioni statunitensi, come quella di qualsiasi altro paese, non può
considerarsi priva di efficacia ambientale. Un conto infatti è che la Cina, o l’India inizino a
ridurre le proprie emissioni in un contesto in cui nessun altro paese abbia mosso un dito per fare
abbassare le proprie, un altro è che la loro azione di contenimento delle emissioni vada ad
96
aggiungersi a quella iniziata dagli stati più ricchi del pianeta; nel primo caso il problema della
riduzione delle emissioni dovrebbe essere affrontato ex-novo, nel secondo Cina ed India
interverrebbero per rafforzare l’efficacia dell’iniziativa altrui.
Sotto il profilo dell’equità – mano a mano che Cina ed India conseguono livelli maggiori di
benessere – sempre meno potranno essere scusate per il fatto di contribuire alla mitigazione del
cambiamento climatico solo concedendo il proprio suolo per la realizzazione di investimenti
realizzati nell’ambito del Clean Development Mechanism (v.oltre). Ma credo che, specie nel
1997, il loro desiderio di rimanere esenti da obblighi in fatto di controllo alle emissioni non
costituisse – almeno se si parla del primo ‘commitment period’ (v.oltre) – una ‘giusta causa’ per
rifiutarsi, a propria volta, di intervenire sulle emissioni interne, come hanno fatto gli Stati Uniti.
Il primo principio posto a fondamento della UNFCCC (v.oltre), la quale venne firmata e
ratificata pure dagli Stati Uniti, recitava: ‘The Parties should protect the climate system for the
benefit of present and future generations of humankind, on the basis of equity and in accordance
with their common but differentiated responsibilities and respective capabilities. Accordingly,
the developed country parties should take the lead in combating climate change and the adverse
effects thereof’ – v. United Nations (1992). Secondo molti i forti tassi di crescita dell’economia
cinese ed indiana tendono a sottrarre significato alla distinzione fra paesi sviluppati e non
sviluppati, ma forse uno sguardo un po’ più attento alla realtà cinese – magari meno superficiale
di quello offerto più sopra – convincerebbe che non si può – come fece il Senato degli Stati Uniti
nel 1997 – assimilare la Cina e l’India intere alla Shangai di oggi. E che l’enfasi dell’art. 3 della
UNFCCC sulle ‘rispettive capacità’ non possa ancora – almeno per una decade – essere
considerata priva di motivo.
Per tutte queste ragioni penso che vi sia da rimanere contrariati, di fronte alla condotta
statunitense; nel precedente capitolo ho esemplificato il concetto di ‘no regret policy’, e ho
voluto ricordare che laddove sia opinione comune che una politica climatica basata sic et
simpliciter sul controllo delle quantità non offra sufficienti garanzie circa la propria ottimalità
97
ex-post, il ‘non far niente’, l’affidarsi in via esclusiva ad iniziative ‘di tipo volontaristico’, non
costituiscono l’unica e sola alternativa immaginabile. Esiste la strada di adottare uno schema
come quello proposto da Aldly et alt. – magari con un ‘pavimento’, oltre che un ‘tetto’, al prezzo
dei permessi per inquinare, così da cautelarsi contro l’eventualità che ad alcuni dei partecipanti
siano stati dati dati troppi permessi (o – è la medesima cosa – che il vincolo alle emissioni di
alcuni dei partecipanti sia troppo lasco).
Negli Stati Uniti, però, il processo politico non ha prodotto alcuno di questi risultati, bensì –
per lo meno a livello federale – il rifiuto di qualunque approccio al problema del cambiamento
climatico tale da implicare vincoli alla produzione o al consumo di energia.
Ho avuto sempre la tendenza a considerare in qualche modo una stranezza questo fatto. In
fin dei conti nel 2001, l’anno al quale risale la decisione, in una classifica del World Economic
Forum e dell’Università di Yale concernente la ‘sostenibilità ambientale’, gli Stati Uniti erano
risultati undicesimi su 122 paesi. Pertanto, malgrado la vaghezza del concetto di sostenibilità, e
la soggettività implicita nella scelta degli indicatori per misurarla – v. Economist (1999) – la
classifica fa pensare che questa nazione abbia fra i propri obiettivi la tutela dell’ambiente, e lo
persegua con un successo comparabile a quello delle altre maggiori potenze industriali – le quali
hanno ratificato il Protocollo. Da cosa nasce allora, la completa assenza, in questa nazione, di
limiti concernenti le emissioni consentite? Non sto parlando solo di limiti finalizzati al rispetto di
eventuali accordi internazionali, bensì pure e soprattutto di vincoli che, venendo fissati
indipendentemente da tali accordi, potrebbero, per ciò stesso, essere scelti con maggiore libertà
(quanto al loro rigore).
A dire il vero, esistono tante ‘specificità’ in grado di influire sulla misura in cui le scelte
collettive di paesi diversi riflettono l’obiettivo di proteggere il clima. Questi fattori
comprendono, non solo la diversa esposizione ‘attesa’ dei vari paesi ai danni del riscaldamento
globale, ma pure – per esempio – la loro ricchezza relativa di risorse energetiche tradizionali, la
differente densità abitativa (che può voler dire diverse distanze da percorrere in auto ed implicare
98
dunque una diversa domanda di energia), e magari tanti altri fattori specifici che non è possibile
‘isolare’, che sono più sfuggenti.
IV.2 Politica climatica e gruppi di interesse
Ritengo che – malgrado non possano considerarsi fattori la cui influenza è subito evidente – pure
alcune particolarità della realtà sociale e politica statunitense abbiano avuto un ruolo nella genesi
della politica climatica statunitense, così come la conosciamo. Una di queste particolarità può
essere una forte ingerenza dei portatori di interessi particolari nelle scelte collettive – fino a ‘
distorcerle’.
In molti probabilmente pensano che, in relazione al controllo della produzione nazione dei
gas serra, i politici statunitensi siano ‘ostaggio’ dei gruppi d’interesse. R. Morningstar cui – per
un triste scherzo del destino – è toccato di sostituire il proprio discorso di congedo da
ambasciatore statunitense presso l’Unione Europea con un altro dedicato ai tragici eventi dell’ 11
settembre, aveva affermato pochi mesi prima:
‘[…] In the US, we worry that the Europe’s regulatory approach to environmental protection tends to be
top-down, inflexible, and does not take sufficient account of the possibile trade-offs in any given action.
In Europe, on the other hand, there seems to be a growing popular impression that the US is less
committed to environmental protection, and more driven by business interests, than Europe […]’.
B. Metz, editore per la Cambridge University Press del volume contenente il contributo del
III Gruppo di lavoro dell’ IPCC al Third Assessment Report del 2001, sembra davvero non
essere estraneo all’impressione europea di cui parla Morningstar. Egli ritiene infatti che:
‘[…] Another marked difference between the US and Europe is the influence of special interest (lobby
groups) on the decision making process. In the case of climate change there are well funded groups,
representing economic sectors and interest groups that see addressing climate change as detrimental for
their business interests. They have, also due to the system of campaign financing, a significant influence
on decision making […]’
99
Il parere espresso da Margot Wallström (2002) avrebbe potuto anch’esso rafforzare la
senzazione dell’ambasciatore. Infatti, secondo quest’ultima – che nel 2002 si occupava,
all’interno della Commissione Europea, dell’ambiente – in Europa
‘[…] Politicians (including parlamentarians) are expected to be opinion formers and to lead public
opinion. Of course, US politics have such leaders too but there seems to be a broader acceptance of
politicians’ role in representing particular interests rather than shaping new forces for change […]’
Le multinazionali che offrono prodotti energetici tradizionali, alcune delle quali sono
vigorosamente contestate dalle associazioni ambientaliste per via della propria aperta
opposizione al Protocollo di Kyoto – v. ad esempio BBC (2002) – rappresentano probabilmente,
agli occhi di quanti si trovano d’accordo con Metz e Wallström, la più importante ‘fonte di
ispirazione’ dei policymaker statunitensi – quando si parla di clima. Facilmente poi, costoro
saranno convinti che la politica climatica statunitense sia ostaggio anche delle grandi case
automobilistiche. Gli interessi di molte queste ultime, non meno di quelli delle multinazionali del
petrolio, sono stati – come chiunque può immaginare – in contrasto con i desiderata degli
ambientalisti, per quel che concerne il Protocollo. La ratifica del medesimo da parte degli Stati
Uniti implicherebbe infatti, verosimilmente, una minore transigenza delle amministrazioni al
governo riguardo alla questione del carburante consumato dei veicoli: la Alliance of Automobile
Manufacurers, una associazione commerciale di 9 produttori di auto e light trucks (BMW Group,
DaimlerCrysler, Ford Motor Company, General Motors, Mazda, Mitzubishi Motors, Porche,
Toyota e Volkswagen), ha accolto con favore la direzione impressa alla politica climatica
statunitense dall’amministrazione Bush nel febbraio 2002 (della quale al cap. 2) – v. Alliance of
Automobile Manufacturers (2003). Inoltre, sempre nel 2002, ha aperto una disputa legale con lo
stato della California – dove era allo studio una legislazione diretta a ridurre le emissioni di gas
serra - accusandola di voler imporre livelli di fuel efficiency per gli autoveicoli più severi di
quelli federali. Il suo argomento, nell’aprire la disputa legale, è stato che ‘La legge federale ed il
100
senso comune vietano ai singoli stati di fissare propri standard di fuel economy. A causa
dell’impatto sull’intera economia nazionale, 20 anni fa il Congresso ha riservato la questione
degli standard di fuel efficiency al governo federale per far sì che vi sia equilibrio fra i settori
dell’economia, e per evitare il crearsi di un miscuglio raffazzonato di regolamentazioni statali’ –
v. Alliance of Automobile Manufacturers (2002). Chiaramente se standard di fuel efficiency più
severi venissero stabiliti in California – la quale esprime una parte consistente della domanda di
veicoli esistente negli Stati Uniti – le case automobilistiche dovrebbero osservarli pure altrove:
sarebbe troppo costoso adeguare ad essi solo la parte di veicoli destinati al mercato californiano
– v. il Wall Street Journal del 3 maggio 2002.
Comunque, negli Stati Uniti, le multinazionali del petrolio e le case automobilistiche non
sono gli unici nemici potenti dei tagli alle emissioni; ciò è testimoniato – per esempio – da una
lettera aperta all’attuale Presidente degli Stati Uniti, datata 5 maggio 2001. In essa il presidente e
Chief Executive Officier della Chamber of Commerce of The United States of America elogia le
scelte di G.W. Bush in materia di politica climatica:
“[…] Il riscaldamento globale è una questione importante che deve essere affrontata – ma il Protocollo di Kyoto è un
trattato malfatto che non rientra negli interessi degli Stati Uniti. Lascia senza obblighi l’80% delle nazioni del mondo.
Dunque anche se gli Stati Uniti implementassero ogni aspetto di questo trattato, le emissioni di anidride carbonica
crescerebbero ugualmente. Alcune stime indicano che il Protocollo di Kyoto ridurrebbe il GDP statunitense di 200
miliardi di dollari per anno.
Il Giappone e parecchie nazioni dell’Europa occidentale – tutti paesi ai quali il trattato imporrebbe di ridurre le
rispettive emissioni – hanno denigrato la sua [ di G.W. Bush n.d.r] posizione posizione sul Protocollo di Kyoto. Ma
questa critica è in mala fede perché nemmeno queste nazioni hanno ratificato il Protocollo di Kyoto.
La U.S. Chamber approva la valutazione della sua amministrazione – ci vuole una maggiore comprensione scientifica
del cambiamento climatico, per rimuvere l’incertezza circa la potenziale influenza dell’attività umana su questo
fenomeno. Deve essere fatta altra ricerca per sviluppare le strategie più idonee per affrontare questo problema. La
business comunity statunitense conta di essere un partner importante in questo processo. […]” U.S. Chamber of
Commerce (2001a)
La U.S. Chamber of Commerce descrive se stessa come la maggiore associazione
imprenditoriale (business federation) del mondo, e dice di rappresentare più di tre milioni di
101
imprese ed organizzazioni di ogni dimensione, settore e regione: si veda U.S. Chamber of
Commerce (2001b).
Se il Protocollo di Kyoto è mal visto dagli imprenditori, l’opinione che ne hanno le
associazioni dei lavoratori non è affatto migliore. Il sindacato AFL-CIO, il 20 febbraio 1997,
quasi un anno prima dell’approvazione del Protocollo, affermò in uno statement:
“[…] Crediamo che le parti al trattato di Rio abbiano compiuto un errore fondamentale convenendo di
negoziare limiti alle emissioni di carbonio il cui rispetto avrebbe la natura di un obbligo per gli Stati Uniti
o per altri paesi industrializzati, decidendo però, al tempo stesso di esentare paesi in forte crescita
economica, come la Cina, il Messico, il Brasile, la Corea da qualsiasi nuovo impegno alla riduzione delle
emissioni. Entro poche decadi il 60% delle emissioni di carbonio proverrà da questi stati, e la Cina, in un
futuro non lontano diventerà la maggior fonte di emissioni su scala mondiale. L’esenzione delle nazioni in
via di sviluppo dall’assunzione di nuovi impegni […] creerà un forte incentivo per le imprese
multinazionali a trasferire in quei paesi lavoro, capitale, ed inquinamento, senza che ciò sia di qualche
utilità alla stabilizzazione delle concentrazioni atmosferiche del carbonio. Una così dispari distribuzione di
obblighi, significherà per gli Stati Uniti la perdita di posti di lavoro ben remunerati nei settori minerario,
manifatturiero, dei trasporti ed in altri settori ancora.
Le carbon taxes, o programmi di trading delle emissioni equivalenti, nuoceranno ai consumatori sotto
forma di aumenti significativi del prezzo dell’elettricità e di altri beni energetici. Queste tasse sono
altamente regressive e colpiranno soprattutto i percettori di redditi fissi, o il cui lavoro è remunerato con
retribuzioni bassissime. […]” v. AFL-CIO Executive Council (1997).
Il 30 febbraio 1998 lo stesso sindacato AFL-CIO dichiarò, in altro statement la propria
contrarietà alla ratifica del Protocollo di Kyoto da parte degli Stati Uniti, citando la Senate
Resolution 98 (richiamata nel capitolo 2), e sostenendo che il Protocollo non soddisfaceva le
condizioni poste da quella risoluzione per l’assunzione in sede internazionale di obblighi di
riduzione delle emissioni da parte degli Stati Uniti – v. AFL-CIO Executive Council (1998). Il
17 febbraio del 1999, nel contesto di uno statement dedicato alla politica energetica statunitense,
sempre il consiglio esecutivo di AFL-CIO sostenne che il Protocollo di Kyoto, qualora fosse
stato ratificato dal Senato degli Stati Uniti, o implementato attraverso regolamentazioni interne ai
loro confini, avrebbe avuto un impatto devastante sull’economia statunitense e per i lavoratori
Americani. Queste scelte avrebbero implicato un cambiamento nel mix corrente di fonti
102
energetiche, riducendo il consumo interno di carbone e aumentando il consumo di gas
proveniente dall’estero. Esse avrebbero portato pertanto ad un aumento dei prezzi dell’energia –
v. AFL-CIO Executive Council (1999). Il 9 settembre 2003, la Unions for Jobs and
Environment, un gruppo composito di trade unions (fra le United Mine Workers of America), in
una lettera aperta al Senato riguardante il Climate Stewardship Act del 2003 (richiamato nel
capitolo 2), lo esortava a votare contro di esso. Un’analisi prodotta in giugno dall’Energy
Information Administration - si diceva nello statement - aveva trovato che lo Stewardship Act
sarebbe risultato in un aumento dei prezzi dell’elettricità del 46%, e di quelli della benzina del
27% (40 cents). Sempre nello statement, si legge in sottolineato, i prezzi del carbone sarebbero
aumentati del 485% e quelli del petrolio del 31%, v. UJAE (2003). La necessità di non
abbandonare gli sforzi per accrescere l’efficienza energetica, per rendere concreta l’opzione di
un maggiore utilizzo delle fonti di energia rinnovabili, viene solo succintamente accennata.
Già l’esistenza di un fronte imprenditoriale estremamente compatto contro il Protocollo di
Kyoto potrebbe far vacillare un tantino la certezza che, negli Stati Uniti, i tagli alle emissioni
siano avversati ‘soltanto’ da ‘pochi’ interessi forti; la lettura attenta della Senate Resolution ’98
(v. cap. 2) e la scarsa sensibilità dell’industria assicurativa statunitense al problema della crescita
della produzione di gas serra – v. Patterson (2001) – non potranno non scuotere ulteriormente la
certezza in parola.
Un osservatore esterno, il quale provenga da uno dei paesi che hanno ratificato il trattato,
dovrebbe essere colpito in particolar modo dalla posizione assunta dai sindacati; si tratta di
qualcosa che difficilmente avrebbe modo di ritrovare nel proprio paesi di origine. Infatti la
diffidenza dei sindacati statunitensi verso il Protocollo, o forse sarebbe più esatto dire verso
qualsiasi forma di controllo delle emissioni che non nasca dall’iniziativa spontanea delle
imprese, costituisce un fenomeno piuttosto anomalo nel panorama internazionale; ICFTU
(International Confederation of Free Trade Unions) rappresenta 158 milioni di lavoratori di 148
paesi, ETUC (European Trade Unions Confederation), rappresenta 60 milioni di lavoratori in 34
103
paesi (56 di questi milioni si trovano nei 25 Stati Membri dell’Unione Europea), TUAC (Trade
Union Advisory Committee to the OECD) rappresenta 70 milioni di lavoratori in 29 paesi
dell’OECD; Dallo statement congiunto di queste organizzazioni alla Decima Conferenza delle
Parti alla UNFCCC (Buenos Aires, 6-17 dicembre 2004), emerge una vigile preoccupazione per
le possibili implicazioni occupazionali avverse che potrebbe avere il controllo delle emissioni,
ma il tenore del documento è propositivo, non ‘distruttivo’. Ed in un documento intitolato
‘Union Proposals for a European Policy on Climate Change’ , ETUC – pur ammonendo che il
processo di avvicinamento agli obiettivi di Kyoto avrà delle implicazioni non solo in termini di
distribuzione del reddito, ma anche per quel che riguarda le necessità di istruzione ed
addestramento dei lavoratori – sottolinea parimenti che:
“[…] The European trade union movement supported the EU’s ratification of the Kyoto Protocol because
it is convinced that the Protocol constitutes a unique opportunity to make a coordinated, global transition
to improve the environment and to boost employment and well-being […]”.
Negli Stati Uniti – come ho già fatto notare – il tenore delle dichiarazioni è del tutto opposto.
E’ dall’inizio degli anni ’90 che interessi particolari legati allo sfruttamento delle fonti di
energia convenzionali si sono adoperati per scongiurare l’eventualità di una regolamentazione
interna della produzione dei gas serra.
Una delle prime iniziative in tal senso fu una campagna di informazione organizzata da
compagnie operanti nel settore dell’estrazione del carbone e della produzione di energia elettrica.
‘I catastrofisti’ – sostenne in un’intervista il vice presidente di una di esse, con sede ad Atlanta –
‘sono riusciti a diffondere il proprio messaggio tramite i media della nazione […], ma esiste un
altro punto di vista – un punto di vista offerto da un gruppo di scienziati rispettati – e sconosciuto
ai più’. La campagna di informazione – nata per convincere i suoi fruitori che il riscaldamento
globale dovesse essere considerato una teoria piuttosto che un fatto – si servì pure di argomenti
del tipo: “Se la Terra si sta scaldando, perché il Kentucky sta diventando più freddo?”. Così
104
diceva in un advertisement un cavallo a cartoni animati in paraorecchie e sciarpa. Due dei tre
scienziati dai quali era formato lo ‘science advisory panel’ della campagna ammisero in
un’intervista che la tendenza di aree geografiche specifiche a divenire più fredde non si poneva
in contrasto con la teoria del riscaldamento globale. Ma – come spiegò in un’ulteriore intervista
il terzo componente del ‘panel’ – gli organizzatori della campagna avevano ritenuto che degli
ads nei quali fosse stato semplicemente posto in risalto lo stato contraddittorio dell’evidenza sul
riscaldamento globale, non sarebbero stati sufficientemente persuasivi – v. New York Times
(1991).
Secondo alcuni la posizione assunta da A.F.L-C.I.O nel 1997 abbia influito la forte presenza
di minatori in questa organizzazione sindacale, quando questi non rappresentano che una piccola
parte dei lavoratori statunitensi v. New York Times (1997a). Però – v. pure ibidem – la mia
impressione è che, nel 1997, sia stata la quasi totalità del tessuto produttivo statunitense a
ribellarsi all’idea di tagliare le emissioni. E che l’avversione a questi tagli – nel corso del tempo
motivata sempre meno con argomenti di carattere ‘scientifico’ (e sempre più con la minaccia
della crescita dei prezzi dell’energia, del peggioramento dell’economia, della perdita di posti di
lavoro destinati a fuggire nei paesi liberi di inquinare) – stia cominciando solo adesso a
diminuire lievemente la propria intensità.
Malgrado la facilità con la quale negli Stati Uniti i gruppi di interesse riescono a vedere
rappresentata la propria volontà nelle decisioni collettive possa aver dato un apporto rilevante al
successo degli oppositori del controllo delle emissioni, bisogna pure considerare che i gruppi in
parola sono tanti, troppi per non far venire il sospetto che collettivamente – con le loro pressioni
sui politici – essi rendano rappresenta la volontà di una parte tutt’altro che piccola della
popolazione statunitense.
La mia congettura è che la consonanza fra il contenuto della politica climatica statunitense e
una variegata collezione di interessi – se presi uno alla volta, ‘particolari’ – non nasca solo da un
sistema politico tale da permettere loro di essere rappresentati ad una misura maggiore di quanto
105
sarebbe possibile in altri sistemi politici, ma abbia pure una radice in paure diffuse nella società:
i cittadini statunitensi si sentono minacciati da un’aumento dei prezzi dell’energia (e dalla
minore crescita economica che dovesse eventualmente scaturirne) assai più che dal
riscaldamento globale.
Sarebbe follia affermare che gli europei tendano a sentirsi intimoriti più dalla seconda
minaccia che dalla prima; però, forse, in Europa c’è una diversa percezione della sua gravità
relativa: diversa quanto basta per non far rifiutare del tutto l’idea che si possa e si debba
vincolare la produzione di gas serra al fine di salvaguardare il clima.
Così, a monte della diversa influenza degli interessi industriali sulla politica climatica in
Europa e negli Stati Uniti non vanno collocati soltanto gli elementi del sistema politico
statunitense idonei a generare una più elevata ‘influenzabilità’ (v. sotto) dei politici – ma pure il
maggior timore per gli aumenti dei prezzi dell’energia che contraddistingue gli elettori
americani, cui i politici alla fine devono rispondere delle proprie scelte.
Molti danno per scontato che la fonte della più elevata influenzabilità sia la libertà con la
quale – negli Stati Uniti – i portatori di interessi specifici possono sostenere finanziariamente –
tramite delle donazioni – i politici. Però come ho fatto capire appena un po’ più sopra, la mia
congettura è che detta libertà non spieghi tutto.
Prima di proporre una spiegazione diversa, ritengo importante cercare di rispondere al
seguente interrogativo: le associazioni imprenditoriali donano per (e riescono a) comprare le
decisioni dei politici? Oppure esiste una naturale tendenza dei secondi a orientare le proprie
decisioni nel senso desiderato dalle prime – una tendenza slegata dalle donazioni che queste sono
in grado di effettuare, e dovuta più a quelle che sono in grado di effettuare anonimi cittadini?
IV.3 Politica climatica e gruppi di interesse: money buys influence?
Si tende a ritenere che l’applicazione del principio democratico ‘un uomo un voto’ (‘one man,
one vote’) consenta di attuare il ‘volere della maggioranza’. Grazie al suffragio universale –
106
questa è la speranza – la società non intraprenderà politiche tali da beneficiare pochi a spese dei
più. Questo però è sempre vero? Le politiche che emergono dalla competizione elettorale
servono sempre il bene comune? O, a volte, gruppi circoscritti hanno la capacità di indirizzare il
processo politico, così che da esso scaturiscano i risultati più confacenti ai loro interessi? Come
viene ricordato da Helpman e Grossman (2001), pure nel contesto della forma più pura di
democrazia, quella diretta, non è detto che risultino soddisfatte le condizioni sotto le quali
prevale il volere dell’‘elettore mediano’. Su questa premessa, partendo dal caso dell’interazione
strategica di un unico gruppo di pressione con un solo policymaker – interazione che può
produrre come esito l’‘allontanamento’ di una decisione effettiva del secondo da quella che
questi avrebbe preso in assenza della possibilità di ricevere contributi elettorali dal primo – gli
autori procedono ad una formalizzazione (crescente in realismo e complessità all’aumentare
delle pagine), del ‘do ut des’ fra politici e portatori di interessi particolari. Ma il danaro dato ai
politici consente davvero, di per sé, ai portatori di interessi particolari, di ottenere dai primi delle
scelte che li agevolano nel perseguimento di detti interessi?
Se si guarda alla storia dei rapporti fra governo ed industria automobilistica dell’ultimo
quarantennio, non si può dubitare che la seconda abbia tratto grandi vantaggi dalla sua relazione
con i politici. Questi vantaggi sono stati grandi soprattutto per la produzione di quei veicoli che
superano in dimensione e peso le automobili (cars), ma non hanno dimensione e peso tali da farli
classificare come ‘trucks’ (autocarri). I ‘light trucks’ – dei quali fanno parte, come tutti avranno
compreso malgrado l’approssimatività della mia definizione, anche i SUVs (fuoristrada) – hanno
conosciuto una crescente popolarità negli Stati Uniti, a partire dagli anni ’90; si veda in Haas e
Lockwood (2002), il confronto fra l’andamento delle vendite di light trucks e quello delle
vendite di auto (dal 1990 fino al 2001 – anno in cui le spezzate corrispondenti ai due andamenti
arrivano quasi ad intersecarsi).
La serie di favori sui light trucks concessi da Washington alle case automobilistiche prese il
via nel 1962, quando la Comunità Europea venne accusata dagli Stati Uniti di restringere senza
107
motivo le importazioni di pollame surgelato statunitense. Nel gennaio 1964, due mesi dopo il
proprio insediamento alla Casa Bianca, il Presidente Jonhson decise di attuare una rappresaglia
commerciale nei confronti degli Europei: stabilì una tassa del 25% su tutti i light truck importati.
La scelta dei light truck venne giustificata sostenendo che il valore in dollari delle importazioni
dei furgoni (vans) Wolkswagen dalla Germania Occidentale equivaleva a quello delle perdite
generate negli Stati Uniti dalla minore vendita di pollo in Europa. Tuttavia i motivi potrebbero
anche essere stati altri: nel 1964, il Presidente Johnson stava tentando di persuadere Walter
Reuther, presidente di United Auto Workers, a non indire uno sciopero, come pure a sostenere il
suo programma in materia di diritti umani. Reuther, dal canto suo, desiderava che Johnson
facesse qualcosa per contrastare le crescenti esportazioni della Wolkswagen negli Stati Uniti. Da
allora, tre round di negoziati mondiali sul commercio hanno fatto abbassare i dazi sulle
importazioni di praticamente tutti i manufatti – con l’eccezione degli abiti e dei prodotti tessili –
portandoli ad un’entità compresa fra il 2 ed il 3%, o addirittura eliminandoli. Per contro, al 1997
– pur essendo sceso al 2,5% per gli altri veicoli appartenenti alla categoria dei light trucks – il
dazio sui light trucks era ancora al 25% per i pickup – v. New York Times (1997b).
Malgrado la Chicken Tax sia stata eliminata in ogni accordo di libero scambio concluso
dagli Stati Uniti – v. American International Automobile Dealers Association – la sua rimozione
come parte di un accordo di libero scambio con la Thailandia – secondo produttore al mondo di
pickup dopo gli USA, v. Detroit Free Press (2006) – è stata motivo di controversie interne, non
ancora risolte al tempo di questo scritto.
Al 1997 la maggior parte dei light trucks era ancora autorizzata ad emettere quantità di
protossido di azoto – che causa smog – maggiori di quelle prodotte dalle auto, in una misura
compresa fra il 75 ed il 175% – v. New York Times (1997b).
Per quanto riguarda le emissioni di CO2 dei light trucks, esse sono ovviamente una funzione
crescente della quantità consumata di benzina. Nel futuro ciascuna casa automobilistica dovrà
accrescere lievemente il numero di miglia percorribili in media (con un gallone di benzina) dai
108
modelli di light trucks da essa posti in vendita – v. National Highway Traffic Safety
Admistration. Si tenga presente tuttavia, che dal 1996 al 2005, per i light trucks l’obbligo è stato
di non scendere sotto alle 20,7 mpg – a fronte dell’obbligo, riguardante le auto ed in vigore dal
1985, di non scendere sotto le 27,5 mpg. Secondo Claybrock (2003) il fatto che i veicoli
eccedenti un certo peso (8500 pounds) siano stati esentati tanto dagli obblighi per le auto quanto
da quelli per i light trucks ha innescato una tendenza al gigantismo dei veicoli, frutto dell’intento
delle case automobilistiche di far abbassare la cosiddetta Corporate Average Fuel Economy delle
rispettive produzioni.
Dal 1997, negli Stati Uniti, chiunque risulti essere titolare di uno ‘small business’ è stato
ammesso a dedurre dal proprio imponibile parte delle spese sostenute per l’acquisto di materiale
utile all’esercizio della sua attività: fino a 18.000 dollari per quel primo anno, fino a 25.000
dollari per ognuno dei successivi antecedenti al 2003. In tale anno poi, il Congresso – trovandosi
a discutere un pacchetto di tagli fiscali da 350 miliardi di dollari, e volendo incentivare gli small
businesses ad investire in nuove attrezzature – ha stabilito di portare a 100 dollari l’entità della
deduzione. Come negli anni passati, l’acquisto di SUVs ha costituito titolo per fruirne. Infatti,
dal 1984 – quando ancora non era immaginabile l’evoluzione che si sarebbe verificata in seguito
nel mercato automobilistico statunitense, dove è ormai comune che i veicoli di lusso abbiano un
peso che eccede abbondantemente i 6.000 pounds – i veicoli con peso superiore a 6.000 pounds
sono attrezzatura deducibile v. Washington Post (2003).
Nell’ottobre 2004, l’entità della deduzione è stata riportata a 25.000 dollari. Tuttavia, in quel
periodo, grazie anche ad altre regole che riguardano le deduzioni, un SUV con un prezzo di
listino di 70.000 dollari, sarebbe venuto a costare 52.000 dollari in meno, posto che fosse
destinato ad essere guidato esclusivamente per motivi di lavoro v. Wall Street Journal (2004a).
Le agevolazioni fiscali concernenti l’acquisto di veicoli ibridi, cioè con alimentazione in
parte a benzina ed in parte ad elettricità, hanno entità molto più ridotte di quelle esistenti per i
light trucks; come rende noto l’Internal Revenue Service del Dipartimento del Tesoro, chi è
109
(primo) proprietario di un veicolo ibrido (fra quelli eleggibili per le deduzioni fiscali), ha diritto
ad una deduzione una tantum su proprio ‘federal income tax return’ . Secondo quanto stabilito
dallo Working Families Tax Relief Act del 2004, l’ammontare della deduzione è limitato a
2000$ per le auto poste in uso nel 2004 e nel 2005. Per i veicoli posti in uso nel 2006 la
deduzione è di 500$. Per quelli posti in uso dopo tale data non è prevista alcuna deduzione, v.
Internal Revenue Service (2005).
Nel 2003, il Congressional Budget Office - un’agenzia federale statunitense creata nel 1974
(con il compito di fornire informazioni non faziose ed analisi in materia di bilancio al Congresso
ed alle sue commissioni), la quale, fra le altre cose, indica quelle che reputa vie percorribili per
ridurre il deficit di bilancio - prese in considerazione un’ampliamento delle categorie di
autoveicoli soggetti alla cosiddetta ‘gas guzzer tax’ come opzione attuabile per accrescere le
entrate.
La ‘gas guzzler tax’ colpisce i veicoli le cui miglia percorribili con un gallone di benzina
sono inferiori a 22,5 – si veda Congressional Budget Office (2003) per i criteri con i quali
vengono quantificate le miglia effettivamente percorribili, da confrontarsi con le 22,5 al di sotto
delle quali scatta il pagamemento di questa imposta. Il produttore di un determinato tipo di
modello è tenuto a pagarla, per ogni veicolo venduto, tanto di più quanto di più le miglia
percorse da quel veicolo cadono al di sotto delle 22,5. La massima tassa cui può essere soggetta
la vendita di un veicolo – in ragione di quanto le miglia percorribili dal suo modello scendono
sotto le 22, 5 - è 7,700 dollari (viene applicata se il veicolo percorre meno di 12,5 miglia con un
gallone).
La tassa è nata sul finire degli anni ’70 allo scopo di abbassare i consumi energetici.Una
grossa parte dei modelli messi in vendita, e le cui miglia percorse con un gallone cadono al di
sotto delle 22,5 non sono soggetti alla medesima: si tratta di tutti i modelli il cui peso eccede un
determinata soglia. L’imposta non colpisce i ‘non-passegers vehicles’, e secondo la definizione
del Dipartimento dei Trasporti pickpup trucks, vans, i SUVs la maggior parte dei minivans, e
110
persino le stations wagons sono tali. Inoltre l’imposta viene applicata sulla base delle miglia
percorse dalla ‘tipologia’ di modello al quale il veicolo appartiene. Le tipologie di modello sono
definite dall’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente, e ciascuna tipologia comprende differenti
modelli aventi una o più caratteristiche produttive in comune. Perciò, un veicolo che fa 15 miglia
con un gallone, può sfuggire alla gas guzzler tax perchè ricade in una tipologia di modelli che, in
media, percorrono più di 22 miglia e mezzo con un gallone.
La ratio della ‘gas guzzler tax’, nella misura in cui incentiva la guida di veicoli più piccoli e
dunque l’efficienza energetica, è anche una ratio ambientale. Però il perseguimento delle finalità
dell’imposta è frustrato dall’esenzione che la caratterizza: infatti se nel 1978, all’epoca della sua
introduzione, i light trucks costituivano circa il 27% delle vendite al dettaglio di veicoli, nel
2000, il 50 % dei veicoli venduti è risultato essere costituito da light trucks.
L’opzione formulata dal Congressional Budget Office per accrescere le entrate era di
innalzare il peso oltre il quale scatta l’esenzione dalla tassa, così che questa colpisse anche i
veicoli attualmente esentati.
Nell’esporre gli argomenti di chi approva e di chi avversa l’estensione della tassa ai light
trucks, il CBO menziona un’obiezione all’estensione che mi sembra in particolar modo non
molto sensata; l’estensione – secondo i suoi oppositori – aggraverebbe i piccoli business che
hanno ragioni economiche per acquistare veicoli più grandi, nuocendo così alla loro attività
commerciale.
Le deduzioni previste per i titolari di small business non sono fruibili solo – per dire – dai
fiorai; se ne avvantaggiano pure – per dire – medici ed avvocati. Ed anche agenti immobiliari – i
quali ultimi, come qualcuno nota polemicamente – v. New York Times (1997b) – sui loro
lussuosi SUVs non hanno da trasportare alcunchè di assai voluminoso, se non delle broshures!
Inoltre, i SUVs – come del resto anche altri beni deducibili – hanno la caratteristica di poter
essere impiegati tanto per finalità produttive quanto per finalità di consumo. Nel regime fiscale al
quale sono assoggettati i SUVs sembra rilevante in quanta parte del tempo per il quale vengono
111
guidati essi siano usati per finalità produttive. In verità sarei curioso di sapere in che modo
possano essere fatte delle verifiche al riguardo.
Posto che queste verifiche possano essere fatte, perché non esentare dalla gas guzzer tax tutti
i SUVs che vengono acquistati da titolari di small business – e magari condizionare l’entità dell’
esenzione alla parte del tempo in cui vengono tenuti in moto per ragioni produttive – così come
accade quando si tratta di stabilire la sussistenza del diritto di fruire delle deduzioni fiscali? In
questo modo verrebbe fatta salva la tutela delle attività commerciali senza creare discriminazioni
ingiustificate fra i proprietari di light trucks e quelli di auto. Dopo tutto considerata la diffusione
relativa delle tipologie di veicoli – v. sopra – le finanze pubbliche trarrebbero un qualche
beneficio da questa scelta.
Considerato tutto quel che ho detto finora, ritengo che le l’industria automobilistica ha
ricevuto molto dai politici. Quel che ha ricevuto sembra ancora di più se si pensa che – v. di
nuovo Washington Post (2003) – l’agevolazione fiscale da 25.000$ venne introdotta del 1997.
A quel tempo l’amministrazione alla guida degli Stati Uniti era retta da un presidente
democratico, al secondo mandato, e con alle spalle una fase di crescita senza precedenti, trainata
dalla New Economy. Chi stabilì quegli incentivi e lasciò intatto il loophole nella disciplina della
gas guzzler tax non poteva non immaginare che avvocati, medici, commercialisti e quant’altri,
non solo gli agricoltori, avrebbero preferito l’acquisto di un pickup a quello di un’automobile. E
quali sarebbero stati gli effetti che ciò avrebbe comportato per la fuel efficiency della flotta
automobilistica statunitense. Infatti nel 1997 la tendenza degli acquirenti di automobili a
preferire i light trucks si era già fortemente delineata – si veda di nuovo Haas e Lockwood
(2002) per l’andamento temporale relativo delle vendite dei light trucks e delle auto prima del
’97.
I favori politici ottenuti dalle case automobilistiche – favori che di certo non contribuiscono
alla riduzione della produzione di gas serra da parte degli Stati Uniti – sono stati ottenuti con le
donazioni? Io non sono sicuro che la generosità dei carmakers (verso i politici le cui scelte in
112
materia di riduzione delle emissioni promettono di rispecchiare, o hanno rispecchiato in passato,
i loro desiderata), sia la sola spiegazione ragionevole per ciò che essi hanno ricevuto. Alcuni
probabilmente – per esempio Ansolabehere et alt. (2003) – si spingerebbero ad affermare che
detta generosità non sia affatto una spiegazione.
Si può essere tentati di affermare che la Chevron Texaco e la Exxon Mobil, per dire, abbiano
speso ‘molto’ al fine di ottenere dai policymaker un trattamento di favore; nelle elezioni di mid-
term del 2002, esse hanno donato rispettivamente 1.307.081 $ (il 25% dei quali è andato ai
Democratici, contro il 75% andato ai Repubblicani), e 1.169.126 $ (il 9% dei quali è andato ai
Democratici, contro il 91% andato ai Repubblicani), v. Center for Responsive Politicsa. Ma
Chevron Texaco nel 2004 ha avuto un reddito netto di 13 miliardi di dollari, Exxon Mobil di
25,3 miliardi di dollari! – v. Business Week onlinea (2005) e Business Week onlineb (2005),
rispettivamente.
Lo stesso si potrebbe essere tentati di affermare riguardo a Ford, GM e DaimlerCrysler, le
quali nel 2002 hanno donato, rispettivamente, $982.100 (28% D., 72% R.) $600.818 (44% D.,
56% R.) $551.200 (45% D., 55% R.) – v. Center for Responsive Politicsb. Ma nel 2004, per dire,
il reddito netto della Ford Motors Company è stato di 3,5 miliardi di dollari – v. Ford Motor
company (2005). Quello della GM corporation di 2,8 miliardi di dollari – v. GM corporation
(2004) – quello del gruppo Daimler Crysler 2,466 miliardi – v. Daimler Crysler (2005).
Considerato tutto questo, una domanda che potrebbe sorgere spontanea è la seguente: dato
che quando si parla delle regolamentazioni ambientali, ‘ciò che è in gioco’ per le case
automobilistiche e per imprese operanti nei settori energetici tradizionali sono miliardi di dollari,
perché dette case ed imprese spendono tanto poco per cercare di influire sul contenuto delle
regolamentazioni?
Le somme che vengono donate dai gruppi di interesse, se impiegate, ad esempio per
l’acquisto di attività finanziarie, possono fruttare un certo rendimento. Ora, posto che le
113
corporations considerino il donare ai politici un investimento – alternativo a forme di impiego
del denaro come quella appena richiamata – dovrebbero pure accorgersi che esso ha un
rendimento incredibilmente più elevato di quello ottenibile da qualsiasi altra forma di impiego.
Si provi infatti a dividere i soldi risparmiati o guadagnati dai gruppi di interesse (grazie a certe
decisioni prese dai politici) per le somme che essi donano ai politici…
Se le donazioni venissero considerate da chi le effettua qualcosa effettivamente in grado
influire, da solo, di per se, sulle decisioni di policy, dovrebbe apparire contraddittorio che
costoro non ne effettuino di maggiori, avendo la possibilità di farlo.
Sulla base anche di questo argomento, Ansolabehere et alt., negano in generale che alle
somme ricevute dai politici possa essere attribuita la natura di investimento (da parte di chi le
dona). E sostengono che le donazioni dei singoli, pur essendo spesso contenute, hanno un’entità
aggregata assai maggiore di quelle effettuate dai gruppi di pressione. Di conseguenza, queste
ultime dovrebbero essere considerate un fenomeno meno rilevante delle altre. Per una serie di
ipotesi meritevoli di essere prese in considerazione riguardo alla natura delle donazioni, rinvio
agli autori.
Prima di proporre una chiave di lettura della politica climatica statunitense alternativa (o,
volendo essere più prudenti, complementare) a quella offerta da chi considera detta politica
soprattutto un portato delle donazioni effettuate dai petrolieri e dai carmakers, tengo a precisare
quanto segue.
Per quanto possa non essere il desiderio di condizionare le decisioni dei politici il movente
delle donazioni dei singoli, è ugualmente possibile che queste abbiano, in aggregato, un effetto
distorsivo su tali decisioni. I contributi individuali in vista della competizione elettorale possono
avere un impatto significativo sulle decisioni dei legislatori, anche se in questo caso la loro
influenza somiglia di più all’importanza data ad alcuni gruppi demografici all’interno
dell’elettorato v. Ansolabehere et alt..
114
In altri termini, può darsi che i politici cerchino di decidere in modo da ingraziarsi coloro che
fanno le donazioni più elevate: le donazioni sono fortemente legate al reddito, e non è detto che
le preferenze di coloro che fanno le donazioni più elevate coincidano con le preferenze
dell’elettore mediano. E a maggior ragione con l’orientamento di chi ha preferenze ancora più
lontane da quelle di quest’ultimo.
Non manca del tutto – credo – la possibilità di mostrare che il ‘bias’ dei politici verso le
donazioni dei ricchi possa in qualche modo contribuire a spiegare l’immobilismo dei primi sul
fronte del tagli alle emissioni.
Secondo Toth et alt. (2001) – il clima del quale ha esperienza l’umanità è frutto delle scelte
degli abitanti di ogni paese riguardo a cosa e quanto consumare e produrre. Ciò giustifica
un’azione di tutti i paesi insieme per proteggerlo. Ma al tempo stesso crea enormi incentivi al
free-riding. Per di più le emissioni e le loro conseguenze sono differenti nelle diverse parti del
mondo. Ne deriva una gravità ancor più pronunciata del problema posto di per se dalla natura di
bene pubblico propria della protezione del clima. Ciascun paese occupa difatti una posizione,
tanto in uno spettro che va dalla forte alla bassa produzione di gas serra, quanto in uno che va
dalla elevata alla bassa vulnerabilità al cambiamento climatico. Le nazioni con emissioni elevate
hanno il maggior potenziale di contribuire al controllo delle concentrazioni atmosferiche dei gas
serra. Ma sono anche quelle che hanno meno incentivo a farlo, data la loro bassa vulnerabilità
attesa all’aumento di tali concentrazioni. Viceversa, i paesi con basse emissioni ed elevata
vulnerabilità attesa, hanno un grande incentivo al controllo delle emissioni, ma poca capacità di
contribuirvi effettivamente.
Se – come sarebbe logico – gli autori includono, fra le determinanti della vulnerabilità al
cambiamento climatico, la povertà (e l’impossibilità, legata alla stessa povertà, di sacrificare
risorse affinché esso possa essere mitigato) la considerazione fatta dai medesimi a livello globale
potrebbe in qualche misura non essere priva di validità entro i confini statunitensi.
115
Il ruolo della povertà nel rendere più vulnerabili agli eventi climatici estremi – come
l’uragano Katrina, abbattutosi sugli Stati Uniti nel settembre 2005 – viene ad esempio suggerito
dal fatto che – proprio in quella circostanza – chi ha potuto, ha lasciato l’area colpita dalla furia
degli elementi.
Al contrario, molte famiglie – v. Economist (2005) – non sarebbero nemmeno state in grado
di allontanarsi da New Orleans, non essendo proprietarie di un’auto.
Essendo a conoscenza di un possibile collegamento fra, da un lato la frequenza e la violenza
degli eventi climatici estremi, dall’altro il cambiamento climatico, le persone povere, avrebbero
forse più simpatia per i politici che si dichiarano a favore di una qualche regolamentazione delle
emissioni, che per i politici contrari alla medesima.
Tuttavia, l’orientamento di coloro che hanno redditi elevati, e dunque una elevata capacità di
donare ai politici, potrebbe essere di natura opposta. Per esempio, oggi, metà dei veicoli in
circolazione negli Stati Uniti, è costituita da fuoristrada. Questi – dei quali ho già ricordato le più
elevate emissioni di gas serra rispetto alle automobili – sono da anni un’icona ambientale, in
negativo; sono divenuti un po’ il simbolo della cattiva volontà dei cittadini americani sul fronte
del controllo delle emissioni, e a giudicare da quello che costano, chi li guida non fa parte della
metà meno ricca dei guidatori statunitense. Chi li guida potrà forse aver paura che il controllo
delle emissioni causi – ad esempio traducendosi in un aumento dei prezzi dell’energia – qualche
difficoltà alle imprese delle quali possiedono azioni, e ne faccia diminuire il prezzo. Ma, per lui,
la possibilità di un collegamento fra eventi atmosferici estremi e crescita della produzione di gas
serra, non sarà probabilmente un problema troppo rilevante. Di sicuro sarà meno rilevante di
quanto non lo sia per chi non arriva a mettere insieme i soldi sufficienti ad acquistare un
automobile. O per assicurare decentemente la propria abitazione.
Secondo Krueger (2004), uno dei motivi per i quali elevati livelli di disuguaglianza
dovrebbero essere fonte di preoccupazione, è che – per effetto della disuguaglianza – alcuni
individui hanno molta più influenza politica di altri.
116
Gli Stati Uniti non sono solo un posto nel quale la partecipazione all’attività politica sotto
forma di donazioni è legittimata molto più che in altri paesi europei – per degli elementi utili ad
un raffronto dei livelli di legittimazione si può vedere Fedeli e Viola (2000). Sono anche,
nell’ambito dell’OCSE – v. per esempio Brandolini e Smeeding (2005) – la nazione dove la
disuguaglianza è più elevata.
La sperequazione nella distribuzione della ricchezza è ancora più grande di quella nella
distribuzione dei redditi; Krueger (2004) cita Wollf (2002) secondo il quale all’inizio degli anni
’90, negli Stati Uniti, l’1% della popolazione aveva fra le mani il 34% della ricchezza esistente
nella nazione. Se si guarda a qual’era la percentuale di ricchezza detenuta dall’1% più ricco in
Svezia e nel Regno Unito, si vede che questa percentuale era del 20%.
La mobilità intergenerazionale fra livelli di reddito per Krueger è meno elevata che nella
maggior parte degli altri paesi. L’autore cita ad esempio Solon (2002), che quantifica in 0,40 (o
più) la correlazione fra redditi di padri e figli esistente negli Stati Uniti. Le correlazioni che egli
assegna a Canada, Germania, Svezia sono – rispettivamente – 0,23, 0,34, 0,28. Solo il Sud Africa
ed il Regno Unito hanno un livello di immobilità generazionale vicino a quello degli Stati Uniti.
Per ottenere quantificazioni confrontabili dei poveri esistenti in vari paesi Smeeding et alt.
(2001) – parimenti citati da Krueger – hanno a ciascuno di questi paesi (tenendo conto del
differente potere d’acquisto delle diverse valute nazionali) la linea della povertà in base alla
quale detto numero viene calcolato negli Stati Uniti. Nel 1994 e nel 1995 – questo ha rivelato
l’esperimento – la percentuale dei cittadini poveri è risultata essere del 9,9 in Francia, del 7,4 in
Canada, del 7,3 in Germania, del 6,3 in Svezia, del 4,3 in Norvegia. Nel caso degli Stati Uniti, la
percentuale in parola è risultata essere del 15,5%. I paesi confrontati con gli Stati Uniti avevano
all’epoca GDP pro capite compresi fra il 68 e l’82% di quello di questa nazione.
Mettendo insieme il punto di vista di Ansolabehere et alt., quello di Krueger, e quanto si è
detto sin qui, è del tutto intuitivo quali possano essere le implicazioni della concentrazione della
capacità di fare donazioni nelle mani dei cittadini più ricchi! In generale, ed in particolare per
117
l’orientamento della politica climatica, che non è certo spinto ad essere ‘pro-tagli-delle-
emissioni’ dall’anzidetta concentrazione.
Le persone più ricche tendono ad abitare in zone dove la qualità dell’aria è migliore, e che
sono lontane da ‘Superfund sites’, per i quali si intende qualunque area contaminata da rifiuti
pericolosi che l’E.P.A. abbia candidato ad un’azione di ripristino, a causa dei rischi nascenti
dalla condizione dell’area in parola per la salute e per l’ambiente – v. U.S. Environmental
Protection Agency. Le famiglie che abitano nei posti meno inquinati potrebbero essere meno
propense a sostenere una regolamentazione della qualità dell’aria, proprio perché dove vivono
questa qualità è buona. Infatti, una legislazione tesa a favorire la buona qualità dell’aria,
migliorando l’aria altrove, può far diminuire il numero delle persone che vogliono venire a
vivere nella loro zona, e far scendere il valore delle loro abitazioni.
Come si vede, il fatto che la disparità delle condizioni economiche degli individui possa non
essere priva di rilevo nelle scelte collettive concernenti l’ambiente non passa inosservato.
Tuttavia nel caso del cambiamento climatico, essa è in grado di ostacolare l’azione politica ancor
più di quel che tenderebbe a far pensare l’esempio un po’ estremo che ho fatto più sopra riguardo
all’Uragano Katrina.
Ciò in quanto il clima è sì un bene pubblico ambientale, ma uno assai particolare, i cui
benefici sono più immateriali e meno immediati rispetto a quelli – per dire – della riduzione
dell’arsenico nei fiumi.
Se la disuguaglianza può – tramite il meccanismo delle donazioni – spingere le decisioni
collettive a calpestare la preferenza delle persone meno ricche per politiche climatiche più
incisive sul fronte dei tagli alle emissioni, il suo effetto più rilevante – che cercherò di mettere in
luce nel paragrafo successivo – è quello di far avvicinare le preferenze di quanti si trovano più
indietro nella distribuzione dei redditi a quelle delle persone più ricche. Ossia di indurre i primi a
preferire anche loro l’immobilismo sul fronte dei tagli alle emissioni, malgrado attribuiscano
utilità ai tagli medesimi.
118
Tutti possono tendere ad annettere un’utilità a questi ultimi: ad esempio l’incentivo
all’innovazione, che come vedremo nel Cap.V, può favorire la diffusione di metodi più puliti di
produrre l’energia – magari con il tempo pure più economici. Al limite, si può trarre utilità anche
dal solo pensiero di vivere in una società che non calpesta il diritto dei nostri figli e dei nostri
nipoti a fruire di un clima il meno possibile alterato rispetto ad oggi.
Solo che, nel caso delle persone più ricche, questi benefici, così indiretti e poco tangibili,
possono essere oscurati dalla disutilità prodotta dal controllo delle emissioni sotto altri profili,
come quelli cui ho già accennato. Man mano che si percorre all’indietro la curva di Lorenz, cioè
nel caso delle persone via via meno ricche gli stessi benefici vengono oscurati dalla loro
percezione riguardo alle potenziali implicazioni dei tagli alle emissioni per il loro posto di
lavoro, per il loro tenore di vita. Il ruolo della forte disuguaglianza è quello di accrescere il
numero delle persone che percepiscono queste implicazioni come rilevanti.
IV.4 Volontà collettiva e riduzione delle emissioni negli Stati Uniti
La società statunitense e quella europea differiscono quanto ai rispettivi valori fondanti – e di
conseguenza, anche quanto alle rispettive priorità. All’interno della prima, lo scarso impegno
delle politiche ufficiali per garantire a tutti l’assistenza sanitaria fa in modo che molte persone –
9 anni fa 30 milioni, secondo Sen (1997) – siano del tutto sprovviste di qualunque forma di
assistenza o assicurazione sanitaria. Una situazione del genere sarebbe probabilmente
intollerabile in Europa. Parimenti intollerabile per gli Europei sarebbe la limitatezza del sostegno
ai bisognosi ed agli indigenti che si può osservare oltreoceano. D’altro canto negli Stati Uniti
sarebbe intollerabile il livello della disoccupazione esistente in Europa. La differenza può
dipendere, in una certa misura, dal fatto che la capacità di fare da sé sia un valore molto più
sentito negli Stati Uniti che in Europa. Effettivamente, la mancanza di occupazione mina alle
radici la capacità di fare per conto proprio.
119
Fenomeni di ‘jobless growth’ a parte – una crescita economica sostenuta è un requisito per il
mantenimento di bassi livelli di disoccupazione. La libertà e le concessioni di cui godono le
imprese negli Stati Uniti nascono dallo sforzo di creare le condizioni più favorevoli possibili per
le medesime, assumendo come premessa che queste – approfittandone – generino elevati livelli
di crescita economica.
Parte di questo sforzo può essere evidentemente una disponibilità – più forte che in Europa –
ad accettare che le ragioni e gli interessi di chi offre lavoro abbiano il primato su quelle di chi lo
domanda. Alcune caratteristiche del mercato del lavoro statunitense che potrebbero essere frutto
di detta disponibilità sono quelle ricavabili da Nickell (2003), anche se egli affronta un ambito
tematico differente da quello del presente lavoro.
In molti paesi all’interno dell’OECD, i salari della maggioranza dei lavoratori scaturiscono
da una contrattazione fra sindacati e datori di lavoro, la quale ha luogo a livello di stabilimento,
di impresa o a livello aggregato. Secondo Nickell, malgrado manchino dati completi sul grado di
copertura raggiunto dagli accordi collettivi (cioè sulla frazione dei lavoratori coperti da accordi
collettivi), guardando ai dati con cadenza quinquennale per il trentennio 1960-94, è possibile
farsi un quadro ragionevolmente affidabile.
Nella gran parte dell’Europa Continentale – includendovi la Scandinavia ma escludendo la
Svizzera – la copertura è sia elevata che stabile. Ciò può derivare tanto dal fatto che le persone
appartengano ad un sindacato, quanto da quello che gli accordi stipulati dalle unions vengono
estesi per legge ai lavoratori che non ne fanno parte. In Svizzera e nei paesi dell’OCSE fuori
dall’Europa Continentale e dalla Scandinavia – con l’eccezione dell’Australia – la copertura è
generalmente molto più bassa. Nel Regno Unito, negli Stati Uniti ed in Nuova Zelanda – dove
mancano delle ‘extention laws’ – essa è andata declinando assieme alla Union Density.
La ‘union density’ di una nazione – che Nickell definisce la ‘union members as a percentage
of employees’ della nazione medesima – tende ad essere elevata nella maggior parte della
Scandinavia. Per contro – in gran parte dell’Europa Continentale, essa è inferiore al 50% e si sta
120
gradualmente abbassando. Di conseguenza, in questi paesi fra union density e copertura c’è un
gap ampio – e tendente ad allargarsi – che è compito delle extention laws colmare. Questa
situazione è evidente in modo particolare in Francia, dove a fronte di una union density (10%)
che è la più bassa di tutta l’OCSE, si ha un tasso di copertura del 95%. Sul biennio ’96-’98, tanto
fra i paesi nei quali sono in vigore delle extention laws, quanto fra quelli in cui esse sono assenti
– come gli Stati Uniti – non ve n’è alcuno avente una union density più bassa di quella degli
stessi Stati Uniti.
Può pure essere che, da soli, i dati appena forniti non permettano di dire se il mercato del
lavoro statunitense sia poco o tanto uno in cui i lavoratori sono privi di forza contrattuale e di
tutela.
In linea di principio negli altri paesi ai lavoratori non facenti parte di organizzazioni
sindacali, specie quelli ‘unskilled’, potrebbero essere estesi cattivi contratti, contratti che non li
tutelano. E i lavoratori statunitensi – anche in assenza di extention laws potrebbero riuscire ad
ottenere condizioni più vantaggiose di quelli europei.
Però considerando altri due elementi viene da pensare che le cose non stiano così; se si
guarda alla frazione del GDP statunitense spesa nel 1998 in quelle che Nickell chiama Active
Market Labour Policies – cioè politiche grazie alle quali i disoccupati ricevono un tipo di
assistenza utile ad accrescere le loro chances di ottenere un lavoro – questa è lo 0,17%, a fronte
dello 0,95% dedicato in media a quelle stesso politiche dagli altri 19 paesi dell’OCSE considerati
in Nickell (2003). Solo il Giappone nell’anno considerato spese allocò alle AMLP meno degli
Stati Uniti (dedicò infatti a queste politiche solo lo 0,09% del proprio GDP).
Nickell – pur premettendo che contrariamente a quanto affermato da molti l’evidenza sul
fatto che le leggi dirette alla protezione del lavoro siano una fonte fondamentale di inflessibilità
nel mercato del lavoro è nel migliore dei casi mista – ha misurato con un indice compreso fra 0 e
2, il livello di protezione assicurato al lavoro nel 1998 nelle nazioni dell’OCSE. Il valore di
questo indice varia fra un massimo – ineguagliato dagli altri stati – che è quello dell’Italia (1,50),
121
ed un minimo – parimenti ineguagliato – che è quello degli Stati Uniti (0,10). I paesi OCSE
hanno in media 0,955.
Cosa c’è alla base della tendenza degli 8.000.000 iscritti a United Auto Workers (e più in
generale di molti lavoratori), e probabilmente di tanti altri lavoratori, ad allinearsi alla posizione
dei gruppi di interesse, quando si discute di regolamentazione delle emissioni?
Forse, in un contesto di ‘flessibilità’ del mercato del lavoro quale è quello statunitense,
probabilmente i più saranno convinti che qualunque modifica delle condizioni dalle quali
dipende la convenienza di assumere – una modifica come una crescita dei prezzi dell’energia, v.
ad esempio New York Times (2005), o un modesto accrescimento del prezzo dei SUV (dovuto
alle innovazioni necessarie a far diminuire il consumo di carburante) il quale ne faccia ridurre le
vendite – possa tradursi nella maggiore difficoltà di trovare lavoro. O causare subito, senza alcun
ostacolo, licenziamenti. Quindi si tenderà ad essere spaventati dall’idea di quella modifica. Ed a
‘passare sopra’ sul fatto che l’industria automobilistica sia in grado di vendere quantità maggiori
dei veicoli più inquinanti grazie al denaro (dei contribuenti) passatole dai politici.
A rendere efficaci le pressioni dei carmakers sui politici non sono solo – io credo – le somme
con cui i primi finanziano la campagna elettorale dei secondi; conta pure il fatto che – così
afferma la Alliance of Automobile Manufacturers (2002) in calce ad uno dei propri position
statements – negli Stati Uniti un posto di lavoro ogni 10 dipende dall’industria automobilistica.
Potrebbe quindi esistere una sorta di ‘potere ricattatorio’ delle associazioni imprenditoriali,
esercitato non solo e non tanto nei confronti dei politici – i quali in parte dipendono dalle loro
donazioni – ma pure e soprattutto di chi lavora – che è un potenziale elettore, ed una fonte – per
quanto limitata, a livello individuale – di finanziamento.
A suo tempo l’industria automobilistica mise su dei gruppi di pressione – come la Coalition
for Vehicle Choice, la quale aveva persuaso moltissimi gruppi no profit a cercare di influenzare
regolamentatori e politici riguardo alla questione dei più laschi vincoli de efficienza energetica
imposti a veicoli di maggiori dimensioni. Ma l’industria automobilistica non ha bisogno di
122
spendere moltissimo denaro nella creazione di coalizioni o in contributi per la campagna
elettorale. In praticamente ogni distretto elettorale (Congressional district) esistono vengono
vendute auto, e gli stabilimenti di assemblaggio delle auto sono diffusi in lungo ed in largo nel
paese. La Ford e La General Motors sono così grandi da produrre più dell’1% del suo output
economico v. New York Times (1997).
I politici possono avere una tendenza dei medesimi ad assecondare interessi particolari. Ma
se questa tendenza è più accettata che altrove, lo a causa di una sorta di ‘potere ricattatorio’ degli
interessi medesimi, il quale è esercitato confronti dei politici (ai quali sono necessari i
finanziamenti elettorali), ma soprattutto nei confronti di chi lavora – che è protetto meno di
quanto lo sarebbe in molti altri paesi ricchi.
Anche l’antipatia degli statunitensi per il ‘big government’ può essere un fattore – meno
evidente – ma comunque ‘di attrito’ fra i cittadini americani ed il controllo delle emissioni. Lee
et alt. (2001) sostengono che la nozione di ‘stato minimale’ (minimal government) è stata un
riferimento costante per la politica degli Stati Uniti durante tutta la storia di questo paese. Se la
stabilità del medesimo è gravemente scossa, gli Americani accettano una più forte presenza del
governo – come è accaduto durante la Grande Depressione. Ma quando le crisi vengono
superate, riaffiora subito il desiderio di un governo più piccolo.
La consapevolezza da parte di ciascuno dell’avversione nei confronti del big government
nutrita da propri concittadini può – a mio modo di vedere – non essere priva di implicazioni in
termini di avversione nei confronti delle politiche dirette al controllo dei gas serra.
Ad esempio un’implicazione potrebbe essere che un minatore, o un lavoratore il cui posto –
per effetto di legislazioni ambientali più severe – sarebbe destinato a divenire più a rischio –
possa tendere a pensare che il governo non userebbe i soldi dei contribuenti per la sua
riqualificazione, qualora l’impresa estrattiva per la quale lavora dovesse chiudere. Questo
minatore e questo lavoratore tenderanno anche ad essere molto sospettosi verso i politici disposti
ad introdurre dei vincoli federali riguardanti la produzione di gas serra.
123
Un governo piccolo, può anche favorire la conservazione di forti sperequazioni distributive.
Ed in verità io tendo a credere che il sospetto verso le politiche climatiche orientate al tagli delle
emissioni sia destinato a divenire via via sempre più intenso – non solo a cusa dei timori generati
dalla precarietà della posizione occupazionale – man mano che ci si muove all’indietro lungo la
curva di Lorenz degli Stati Uniti (v.sopra, Cap.II). Cioè man mano che si considerano le opinioni
delle persone via via meno ricche.
Un tipo di esternalità negativa che Krueger (2004) annette alla disuguaglianza è la capacità
della medesima di allontanare le scelte collettive da quei cambiamenti di policy che potrebbero
essere invocati sulla base della loro efficienza.
Secondo l’autore, negli Stati Uniti questa capacità si manifesta in relazione ai trattati
internazionali in materia di riduzione delle barriere al commercio.Una politica di riduzione delle
barriere – egli dice – accrescerà senza dubbio il reddito nazionale, qualora la società sia disposta
a porla in essere. Però detta politica creerà dei vincitori e dei perdenti. Se determinate parti della
società hanno la sensazione di non aver tratto un beneficio dallo sviluppo economico, esse
difficilmente sosterranno politicamente gli sforzi compiuti per realizzare un abbassamento delle
barriere commerciali.
Il problema non sono coloro che specificamente sarebbero destinati a perdere, qualora
cadano le barriere; essi, sostiene Krueger, in genere sono pochi e concentrati in una manciata di
industrie. Invece un problema più rilevante potrebbe essere che le opinioni riguardo al libero
commercio paiono non essere prive di legami con il livello di istruzione conseguito. Ad esempio
secondo Blendon et alt. (1997), il 72% di coloro che nel proprio percorso formativo non sono
arrivati a conseguire un diploma di college tendono collegare le difficoltà dell’economia al fatto
che “companies are sending jobs overseas”. Ma la percentuale di coloro che credono allo stesso
tipo di legame causa-effetto scende al 53% fra quanti posseggono un diploma di college. La
stessa percentuale è ancora più bassa fra gli iscritti alla American Economic Association (il 6%).
124
Krueger sospetta le difficoltà incontrate a livello politico dalla prosecuzione di un ventennale
processo di apertura degli Stati Uniti al commercio con l’estero siano da collegare alla
prevenzione contro il libero commercio esistente in porzioni ampie della società statunitense.
Questa potrebbe nascere dal fatto che numerosi componenti della medesima abbiano
assistito nel passato – durante il processo di espansione del commercio – alla stagnazione o al
declino del loro reddito reale. Stante la crescita del divario salariale negli Stati Uniti, e malgrado
essa possa avere poco a che fare con l’espansione del commercio internazionale, è comprensibile
che tante persone tendano a percepire la prima come una conseguenza della seconda.
Più in generale, in un paese in cui dal 1973 il 94% della crescita del reddito và all’1% più
ricco della popolazione, come è stato per gli Stati Uniti, da molti statunitensi ci si può ben
aspettare una certa dose di scetticismo circa la validità dell’affermazione che la popolazione
americana abbia tratto dei benefici da cambiamenti di policy avvenuti in passato – pure
cambiamenti plausibilmente efficienti come l’abolizione delle barriere commerciali.
Forse non sarebbe assurdo pensare che la disuguaglianza possa avere – per il consenso
attorno alle politiche di riduzione delle emissioni – implicazioni non troppo dissimili da quelle
che Krueger le attribuisce per il consenso attorno all’estensione del commercio internazionale.
Perchè, come una frazione della società può tendere a spiegare con l’espansione del
commercio il proprio arretramento nella distribuzione del reddito e della ricchezza, allo stesso
modo quella frazione può temere il rincaro dei prezzi dell’energia associati al taglio delle
emissioni, attribuendo ai medesimi gli stessi effetti negativi di rincari passati – quando questi
effetti, però, possono essere scaturiti non soltanto dai rincari in se, ma anche dall’assenza di
politiche dirette a proteggere dai medesimi la parte meno forte della società.
Nella misura in cui gruppi-profit come il Center for Energy and Economic Development,
cerchino di convincere quante più persone è possibile che la regolamentazione delle emissioni
rappresenta una minaccia per il loro benessere economico, la loro vita è facilitata – credo – dalla
disuguaglianza esistente negli Stati Uniti, e dalla ‘racial rift’ che li contraddistingue.
125
Il Center for Energy and Economic Development descrive nei seguenti termini la propria
missione: “Abbondante, economico, e più pulito che mai. Non deve sorprendere che oltre la metà
dell’elettricità generata negli Stati Uniti venga ottenuta dal carbone. Nonostante il suo ruolo di
irrinunciabile, a buon mercato, e via via più pulito tipo di elettricità, l’elettricità ottenuta dal
carbone ha degli oppositori. La loro opposizione è fondata su informazioni sbagliate e su
credenze datate. Il Center for Energy and Economic Development è un gruppo non-profit dedito
a proteggere la vitalità (viability) dell’elettricità prodotta usando carbone. Con il suo lavoro a
livello locale, statale, regionale, il CEED comunica la verità sul carbone – conducendo ricerche,
dissipando false credenze e mettendo al corrente il pubblico ed i funzionari del governo
sull’importanza dell’elettricità ottenuta dal carbone per il nostro modo di vivere” – v. Center for
Energy and Economic Development.
Il CEED, assieme altri ‘sponsor’ (fra i quali la National Black Chamber of Commerce e la
United States Hispanic Chamber of Commerce) ha commissionato uno studio dal titolo:
‘Refusing to repeat past mistakes: how Kyoto climate change Protocol would disproportionately
threaten The economic well-being of blacks and hispanics in the United States’.
Sono occorsi più di 20 anni per riparare il danno economico arrecato a queste comunità dalla
crisi energetica degli anni ’70, sostiene lo studio – uno dei primi (a detta dei suoi autori) che si è
proposto di individuare gli effetti di una regolamentazione sulle comunità ispanica ed
afroamericana. Nel medesimo si punta ad un parallelo fra gli effetti dell’implementazione del
Protocollo di Kyoto a quelli che produsse l’embargo petrolifero dei Paesi Arabi nel 1970: per
effetto delle misure necessarie all’implementazione il posto di lavoro di 3,2 milioni di americani
sarebbe a rischio. 1,4 milioni dei posti in pericolo apparterrebbero ad ispanici e afroamericani:
per la precisione 511.000 sarebbero degli uni, 864.000 degli altri. Ciò in un paese nel quale – si
sottolinea – il reddito delle famiglie nere è del 36% al di sotto del reddito medio nazionale; ed il
reddito delle famiglie ispaniche è del 39% al di sotto di questa stessa media, v. Management
Information Service (senza data).
126
Una regolamentazione ambientale suscettibile di tradursi nel rincaro dei prodotti energetici,
ed a cascata pure di molti altri, a mio modo di vedere sarebbe avversata in misura diversa da due
paesi contraddistinti da un pro capite non eccessivamente differente, ma da livelli
sostanzialmente differenti di generosità del sistema di welfare state e di offerta di beni pubblici.
Ciascun cittadino statunitense – gli piaccia o no ‘fare da solo’ – sa che la qualità
dell’istruzione cui può aspirare per i propri figli, o quella delle prestazioni sanitarie che è in
grado di ricevere, sono assai fortemente condizionate dal proprio reddito e dalla propria
ricchezza; di conseguenza sarà anche comparativamente più restio ad accettare che queste
ultime vengano – anche solo minimamente – intaccate in nome della protezione del clima, ed a
causa, ad esempio, del dover sostenere spese più elevate per l’acquisto della benzina. Ciò anche
tenendo conto che la minore propensione di un governo ‘piccolo’ alla produzioni di beni pubblici
come il trasporto di massa, rende più difficile risparmiare sulla benzina.
Ho citato Feldstein (2001) nel Cap. III. Sebbene in linea di principio l’idea dei vouchers
possa essere molto attraente, presentarla come una concreta opzione di policy, avrebbe richiesto
maggiori dettagli su come vada implementata.
Non mi riferisco tanto al problema dei costi di organizzazione e amministrazione del sistema
delineato da Feldstein – forse non insormontabile dato che i vouchers sono un’opzione di cui si
dibatte anche nel campo dell’istruzione. Penso di più all’eventualità il prezzo dei vouchers –
magari anche per errori nella loro allocazione – cresca con implicazioni regressive a livello
distributivo. Come già detto, un modo per mitigare questo problema sarebbe la fissazione di un
tetto al prezzo dei vouchers.
Comunque Feldstein liquida il problema della distribuzione dei vouchers sostenendo che ‘il
processo politico deciderebbe quanti Oil Conservation Vouchers verrebbero ricevuti da ciascuna
famiglia e da ciascuna impresa, sulla base di informazioni di natura geografica e demografica’.
Nei fatti, tuttavia, una cosa è allocare permessi fra le imprese sulla base delle loro emissioni
127
storiche, una del tutto diversa è allocare vouchers fra milioni di guidatori senza compiere palesi
ingiustizie nei confronti di alcuno di essi.
Tanti anni fa – ormai più di trenta – la benzina era divenuta economicamente scarsa per
motivi di ordine politico. Oggi lo è divenuta pure per una ragioni di ordine fisico: ‘la scarsità ’–
v. De Groot (2002) nel Cap. II – delle emissioni di gas serra indotta dal cambiamento climatico;
per i molti che non concorderebbero con Thavonen (2002) (citato nel Cap.II), esiste anche un
problema di scarsità fisica prossima ventura dei combustibili fossili.
Allora, pure James Tobin suggerì di fare affidamento sugli incentivi che è in grado di
produrre il mercato per tenere sotto controllo il consumo di carburante, sostenendo il primato del
razionamento di prezzo su quello delle quantità, come risposta alla ‘scarsità’ di carburante
generata dall’embargo petrolifero arabo.
Il prezzo di un bene è usualmente la via migliore per segnalarne la scarsità. La preferibilità
dell’allocazione tramite il prezzo non deve oltretutto essere considerata un argomento contro
l’attuazione del razionamento tramite dei ‘coupon’, bensì un argomento a favore del
razionamento attuato da un ‘mercato bianco’ nel quale i coupon sono negoziabili. Dato il prezzo
della benzina al distributore, il prezzo in dollari dei coupon si aggiusterà in modo da lasciare
sgombro il mercato. Così l’offerta e la domanda raggiungono un equilibrio senza che i produttori
vengano in possesso di profitti immotivati (windfalls), i quali si traducono poco o punto in un
accrescimento dell’offerta – v. Tobin (1974).
Tuttavia Tobin, a differenza di Feldstein, non nascose l’esistenza di un problema distributivo
potenzialmente implicito nel razionamento di prezzo.
“[…] Does rationing by price favour the rich? They were already consuming more fuel than the poor and doubtless
will continue to do so. If the rich choose to maintain their fuel consumption, they will pay heavily for their
preference. Current and prospective inequalities in energy consumption mirror pretty faithfully general inequalities of
income and wealth. These inequalities are excessive, but the answer is not a double standard which forces ‘equality’ in
gasoline use while maintaining or even accentuating inequalities in income and other items of consumption – food,
housing, medical care, education, etc. The answer is a fairer and more progressive system of taxes and income
assistance[…]”.Tobin (1974).
128
Feldstein afferma che in Europa le entrate provenienti da tasse elevate sulla benzina vengono
usate per finanziare un welfare state eccessivo. Ma penso che un welfare state più generoso
contribuirebbe a rendere meno impopolare l’idea dei vouchers, riducendo (attraverso una
redistribuzione nella direzione di fatto auspicata da Tobin) il rischio di una eccessiva regressività
del razionamento di prezzo. Il rischio, in altri termini, che quella regressività si traduca in un
danno molto elevato per i cittadini meno abbienti ed in un incentivo irrisorio alla conservazione
della benzina per quelli più ricchi.
C’è forse un ultima via attraverso la quale le dimensioni limitate dell’intervento governativo
e la disuguaglianza, possono nuocere al sostegno dato dalla popolazione al controllo delle
emissioni.
Kahn (2002) nota che negli Stati Uniti la regolamentazione ambientale ha accresciuto la
spesa per la riduzione dell’inquinamento come percentuale del GDP statunitense da 1,7 nel 1972
a 2,6% stimato per il 2000. Alla crescita della regolamentazione si sono accompagnati
cambiamenti demografici ed economici: il più elevato livello dell’istruzione conseguito dalla
popolazione, la maggior presenza delle minoranze all’interno della medesima, il suo
invecchiamento, la diminuzione delle persone che lavorano nelle industrie più inquinanti.
Alla ricerca dell’eventuale ruolo che questi trend possono aver avuto nella crescita della
domanda aggregata di protezione ambientale, ha trovato che le persone più istruite hanno
preferenze più ‘verdi’.
Krueger (2004) sostiene che negli Stati Uniti, verosimilmente a causa della più grande
sperequazione nei redditi e nella qualità delle scuole che li caratterizza rispetto agli altri paesi a
reddito elevato, esistono pure disparità – più forti che presso questi ultimi – nelle performaces
conoscitive.
In generale, la più elevata istruzione degli è in grado di dare un apporto migliore al
funzionamento della democrazia. In primo luogo le persone più istruite saranno probabilmente
129
meglio informate, e dunque – probabilmente – più attive nella loro partecipazione alla vita
democratica. In secondo luogo, cittadini meglio informati – probabilmente – anche se. È ovvio,
non necessariamente – compiranno scelte migliori. Per queste ragioni, ricorda Krueger, anche un
sostenitore convinto delle virtù del libero mercato, M. Friedman (1982), vede con favore un
livello minimo di istruzione obbligatoria.
Io trovo verosimile che la formazione di una ‘coscienza ambientale’ negli individui possa
essere in generale fortemente favorita da livelli elevati di istruzione. Ma questo mi sembra vero
soprattutto in relazione ad un problema ambientale complesso e sfaccettato come quello del
cambiamento climatico. Ad esempio, persone più istruite possono dare più peso di altre agli
effetti del cambiamento climatico, nonostante l’enorme lag temporale con il quale potrebbero
manifestarsi. Infatti – v. Kahn (2002), il quale rimanda a Becker e Mulligan (1997) – le persone
che hanno un livello maggiore di istruzione sono probabilmente più pazienti.
Il processo di negoziazione dei dettagli del Protocollo di Kyoto prese avvio a partire dalla
Conferenza di Buenos Aires – quella del 1998 non quella del 2004. Qualche tempo prima i
pubblicitari di Goddard Claussen, i quali – New York Times (1997c) – avevano già lavorato per
mettere in ridicolo la riforma sanitaria tentata nel 1994 dall’Amministrazione Clinton –
produssero uno spot televisivo dal titolo: “In comune”.
In una delle sue due versioni, si vedeva delle forbici tagliare via dalla mappa del mondo
paesi come India, Algeria, Thailandia, Messico e Brasile. In un’altra più lunga l’intero Terzo
Mondo si dissolveva lasciando dello spazio bianco al proprio posto. Il testo di entrambe era: “Il
trattato sul clima delle Nazioni Unite fa sparire 134 paesi. Messe insieme, le loro emissioni
stanno crescendo cinque volte più in fretta di quelle del resto del mondo, ed il trattato delle
Nazioni Unite consentirà a questi stessi paesi di effettuarne sempre di più. Così, mentre
l’America e poche altre nazioni vengono costrette a tagliare drasticamente il loro consumo di
energia, altre, come Cina, India, ed il Messico continueranno a produrre sempre più emissioni.
Questo trattato delle Nazioni Unite non è globale, e non servirà”.
130
Forse, una persona attenta, essendo stata ‘colpita’ da questo spot televisivo di trenta secondi,
si sarebbe adoperata per valutare l’accuratezza dell’informazione in esso contenuta, avrebbe
voluto sincerarsi che essa non fosse incompleta.
Magari si sarebbe imbattuta in qualche articolo – ad esempio New York Times (1998) –
dove veniva precisato che i 39 paesi producevano all’epoca la parte maggiore delle emissioni
mondiali; gli altri si erano rifiutati di impegnarsi a tagli specifici delle emissioni – sostenendo
che i paesi ricchi erano divenuti tali grazie pure all’aver bruciato indisturbati combustibili fossili
– e avevano preteso che le nazioni più industrializzate li precedessero sulla strada
dell’assunzione di obblighi riguardo alla riduzione delle emissioni.
Magari con il tempo sarebbe pure avvivata ad una posizione come quella che o cercato di
motivare in apertura di capitolo riguardo alla Cina. Invece un’altra, dotata di meno senso critico,
una volta ricevuto il messaggio implicito dello spot, e cioè che il Protocollo di Kyoto sia
ingiusto, lo avrebbe supinamente fatto proprio.
Non è detto, ma forse, in una persona più istruita un comportamento del genere sarebbe
meno probabile.
IV.5 Verso il controllo delle emissioni negli Stati Uniti?
Permeabilità del processo politico alla difesa di interessi particolari, antipatia per il ‘big
government’, disuguaglianza, un welfare state non generoso: ciò che ho sostenuto finora è che
anche questi elementi possono essere un freno per gli Stati Uniti ad intraprendere politiche di
riduzione delle emissioni del tipo di quelle che si accingono ad intraprendere molti altri paesi
dell’OCSE. Sia pure nell’ambito di una clausola ceteris paribus che non si può sperare di veder
verificata nella realtà, le differenze nel modo di presentarsi di un paese sotto i profili appena
enumerati possono avere, credo, un qualche potere esplicativo rispetto al minore zelo degli Stati
Uniti sul fronte dei tagli alle emissioni.
131
In ogni caso la mia analisi vorrebbe essere complementare a quella di Lee et alt. (2001), ai
quali rimando. Secondo questi autori, gli Stati Uniti si muovono lentamente. Le loro politiche
sono guidate più dalle loro istituzioni dalla loro cultura e dai loro valori, che da singoli individui,
chiunque essi siano.
Anche se al margine le posizioni assunte dai presidenti possono contare, esse in se non
possono né produrre risposte efficaci al cambiamento climatico, né ostacolarle del tutto, una
volta una che la richiesta di esse si sia radicata nei sentimenti collettivi. Nei primi anni
dell’amministrazione Regan, l’Esecutivo fu contrario alla legislazione per il controllo delle
piogge acide. Malgrado siano dovuti passare 10 anni prima che questa legislazione godesse del
sostegno del pubblico, il padre di G.W. Bush, dopo che era stato vice presidente sotto
l’Amministrazione Regan, con il tempo finì per caldeggiare una legislazione ambientale severa
riguardo alle emissioni dei precursori delle pioggia acide. L’azione del Congresso sul problema
del clima sarà largamente recettiva del volere del pubblico che – dicono Lee et alt. – per il
momento sembra non dar segni di cambiamento.
La posizione iniziale dell’attuale Amministrazione alla guida degli Stati Uniti può essere
stata per lungo tempo una fotografia di questa immobilità. Per fortuna però è una fotografia che
pare stia iniziando a perdere di nitidezza: già nel 2003 – malgrado siano stati osteggiati a livello
federale sono emersi tentativi da parte di più di uno stato, di emanare discipline proprie in
materia di controllo delle emissioni, come è avvenuto in California. A mio modo di vedere
questo è imputabile anche al materializzarsi, che è avvenuto nel corso del tempo, di prospettive
di entrata in vigore del Protocollo di Kyoto, la quale è poi effettivamente avvenuta nel febbraio
2005. In altri termini, dall’altra parte dell’Atlantico la gente comicia ad avere la percezione che
una parte del mondo rilevante si sta muovendo in una direzione opposta agli Stati Uniti. Si veda,
ad esempio, Wall Street Journal (2003a) e USA Today (2004).
Perché tuttavia il mutamento dell’orientamento dei cittadini divenga più solido e sostanziale
– a mio parere – occorrerà che la limitazione delle emissioni divenga un processo
132
tecnologicamente più facile (e dunque economicamente meno gravoso), stanti le caratteristiche
della società statunitense sulle quali mi sono tanto dilungato nelle precedenti pagine.
133
Capitolo V: L’innovazione tecnologica
V.1 Premessa
Il solo punto di vista dal quale può apparire meno dannoso il proposito degli Stati Uniti di
contribuire alla soluzione del problema climatico soprattutto tramite la R&S è – credo – il
seguente: più nel resto del mondo crescerà l’impegno profuso nell’abbattimento delle emissioni,
e maggiore sarà la pressione cui verranno sottoposti gli Stati Uniti, affinché intervengano a loro
volta per abbassare le proprie emissioni. Se questa nazione non vorrà trarne delle conseguenze
sotto profilo delle proprie regolamentazioni interne, dovrà almeno – per non essere del tutto
screditata come partner globale nella lotta contro il cambiamento climatico - far aumentare
sempre più la forbice fra le risorse che essa dedica alla ricerca e sviluppo e quelle che vi
dedicano gli altri paesi. E’ il minimo che le si può chiedere, per assolverla almeno in parte dalla
colpa di non rinunciare – in nome della protezione del clima – a null’altro che a quelle risorse.
Si tratta in ogni caso di risorse che sono tremendamente necessarie. Infatti, da un lato –
estremizzando e parlando per iperbole – la spesa necessaria a finanziare il lavoro di un centinaio
di ricercatori geniali potrebbe dare come risultato innovazioni sostanziali nell’ambito delle
tecnologie energetiche ‘carbon-free’ (così che il rendimento sociale di quelle spesa risulterebbe
immenso, rispetto a quello delle spese che dovranno sostenere le imprese per adeguarsi a limiti
che vincolano solo di poco le emissioni producibili). Dall’altro lato – a meno di effetti
cataclismatici del riscaldamento globale - quanto più diventerà salato il conto dei tagli alle
emissioni (a causa della crescente profondità dei medesimi), tanto più la gente tenderà a non
voler mettere in discussione le proprie abitudini (o addirittura i propri standard di vita) per
proteggere il clima in cui vivranno la generazione successiva e quelle posteriori. A mio modo di
vedere, le caratteristiche della società statunitense deformano e ingigantiscono questa tendenza,
rendendola già visibile. Temo però che essa possa manifestarsi – con il tempo – pure nei paesi
più determinati al conseguimento dei propri target in termini di tagli alle emissioni, mano a mano
134
che i target diverranno più ambiziosi. L’unico modo per riuscire ad evitarla è scoprire nuovi e
sempre meno costosi metodi per evitare le emissioni di gas serra, introdurre innovazioni radicali
nel settore energetico, così che l’energia possa essere prodotta in modi non solo inoffensivi per il
clima, ma pure condivisi da tutti in quanto privi di rischi per le persone.
Dei pareri contrastanti sul fatto che il controllo delle emissioni possa essere posticipato
anche di molto (tenuto conto del migliore stock di conoscenze tecnologiche di cui disporranno le
generazione future), ho già parlato nel capitolo II. L’ottimismo – implicito nelle traiettorie WRE
– sull’entità del lascito di conoscenze aggiuntive da parte di una generazione a quelle
successive può sicuramente essere eccessivo. Tuttavia ritengo che l’enfasi sulla necessità di
realizzare la modesta riduzione delle emissioni associata all’attuazione del Protocollo di Kyoto
non debba oscurare l’importanza di far sì che il lascito di cui sopra sia il più abbondante
possibile. Data la crescita della domanda mondiale di energia, non si può escludere l’esistenza di
un trade-off fra la ‘sicurezza’ di una piccole riduzioni delle emissioni – conseguite subito con
l’attuazione del protocollo di Kyoto – e la realizzazione nel futuro di tagli alle emissioni molto
grandi – per quanto aleatori in relazione alla data del loro ottenimento – che potrebbero essere
conseguiti orientando l’allocazione delle risorse (destinate alla soluzione del problema ‘clima’)
soprattutto verso la ricerca.
Dunque, è sicuramente vitale l’esperimento che verrà fatto fra qualche anno, di creare un
mercato planetario delle emissioni. Da questo esperimento emergerà l’efficacia o meno dei limiti
alle emissioni come approccio per il controllo della produzione di gas climalteranti, e cosa debba
essere fatto per accrescere l’efficacia medesima.
Ma se per gli Stati Uniti scoprire tecnologie utili a tagliare l’anzidetta produzione divenisse
davvero una questione di credibilità internazionale, ne nascerebbero delle probabilità aggiuntive
che l’obiettivo di più che dimezzare le emissioni di gas serra (rispetto al loro livello del 1990)
divenga conseguibile a costi accettabili. Da ciò, alla lunga, trarrebbero vantaggio pure le nazioni
decise ad effettuare i più modesti tagli che ritengono attuabili già nel breve termine.
135
V.2 L’importanza del contributo collettivo all’innovazione tecnologica
Può essere tracciata una distinzione fra strumenti di politica ambientale ‘command-and-control’
– potremmo dire ‘strumenti di natura coercitiva’ e strumenti ‘market-based’, cioè strumenti che
per ottenere i risultati ambientali fanno leva sugli incentivi generati dal mercato. In questa
seconda categoria si fanno generalmente ricadere la fissazione di tasse sull’inquinamento,
l’offerta di sussidi, la creazione di mercati sui quali vengono scambiate autorizzazioni ad
inquinare.
Viceversa gli strumenti command-and-control corrispondono, il più delle volte, all’obbligo
di raggiungere determinate performances nel contenimento della produzione di un inquinante, o
a quello di adottare una specifica tecnologia. Una notevole enfasi viene posta da Jaffe et alt.
(2004) sulla più elevata capacità degli strumenti market-based – rispetto a quelli command-and-
control – di incentivare l’innovazione tecnologica.
Un mercato planetario dei permessi di emettere ed un prezzo elevato dei permessi medesimi,
sembra poter creare un buon incentivo al reperimento di innovazioni utili a ridurre le emissioni
associate alla produzione ed al consumo dell’energia. ogniqualvolta qualcuno riuscirà a
realizzare un’innovazione in grado di accrescere significativamente l’efficienza energetica, avrà
anche a disposizione un mercato molto vasto sul quale offrire l’invenzione stessa, o i processi
produttivi ed i prodotti che dovessero incorporarla.
Tuttavia occorre in più che l’innovazione venga non solo stimolata attraverso gli incentivi
per i privati, ma pure perseguita attraverso l’allocazione delle risorse collettive. Questo è vero in
particolar modo nel contesto statunitense, dove gli incentivi per i privati – per lo meno quelli
che potrebbero essere generati dalle legislazioni ambientali – sono, per definizione, assai limitati.
Ed anzi – a meno che i proponenti delle traiettorie WRE – non pensino che l’innovazione possa
nascere dal nulla – dovrebbero pure trovarsi d’accordo sulla necessità di usare una frazione
apprezzabile del denaro dei contribuenti per la ricerca in campo energetico.
136
Secondo Simon (1947) le imprese – causa la loro ‘razionalità limitata’ – tendono ad essere
entità contraddistinte – piuttosto che da un comportamento ottimizzante (com’è nell’analisi
economica neoclassica) – da un comportamento ‘soddisfacente’. Richiamandosi a quest’idea
Nelson e Winter (1982) – v. Jaffe et alt. (2004) – hanno proposto una rappresentazione di tipo
‘evolutivo’ del processo di ricerca e sviluppo che ha per protagoniste le imprese. Queste ultime
usano ‘regole del pollice’ e agiscono in base a delle ‘routines’, per stabilire quanto investire in
ricerca e sviluppo, e come andare in cerca di nuove tecnologie.
Poiché le imprese di Nelson e Winter non sono entità massimizzanti, non si può essere sicuri
a priori che esse, se assoggettate ad un qualche vincolo esterno (come una nuova regola
ambientale), sperimenterebbero una riduzione dei profitti: esiste almeno la possibilità teorica che
l’imposizione del vincolo non le costringa semplicemente a riesaminare la propria strategia, ma
le porti anche a scoprire un nuovo modo di operare – per loro più profittevole di quelli
precedentemente adottati.
Ecco allora profilarsi l’eventualità di quello che spesso nella letteratura di economia
ambientale viene chiamato un risultato di tipo ‘win-win’: la riduzione dell’inquinamento ed un
contestuale incremento dei profitti.
Sulla validità di questa implicazione dell’approccio evolutivo al problema dell’innovazione
– validità di fatto asserita da Porter e van der Linde (1995) – l’evidenza è limitata. I contributi
presi in considerazione da Jaffe et alt. (2004) li inducono a concludere che gli effetti in termini di
produttività della regolamentazione ambientale – da intendersi nella fattispecie, credo, come
regolamentazione di tipo ‘command-and-control’ – siano diversi da caso a caso e comunque di
scarsa rilevanza.
Così l’innovazione delle imprese va incentivata sulla base della sua desiderabilità da un
punto di vista sociale, piuttosto che sulla base del suo ritorno per le imprese medesime. E
comunque, temo che la sfida posta dal rinvenimento di innovazioni radicali sia così impegnativa
da non poter essere affrontata contando solo sulle finalità di lucro delle imprese. Può darsi ad
137
esempio che singoli progetti di ricerca o esperimenti tecnologici, nonostante il contributo che
arrecherebbero all’accrescimento del patrimonio conoscitivo in fatto di abbattimento delle
emissioni, vengano considerati un azzardo troppo grande da parte di singole imprese, o
richiedano più risorse di quelle che sarebbe disposto a rischiare su di essi consorzi di imprese. E
allora l’intervento pubblico sarebbe giustificato. Il caso dell’isola di Lewis – v. oltre –
rappresenta a mio avviso un esempio di circostanza nella quale è venuto a mancare – nella
misura adeguata – un sostegno pubblico.
Il sostegno pubblico all’innovazione energetica può essere importante. Esso, negli Stati
Uniti, è stato utile nel campo dei PV, i pannelli fotovoltaici. Secondo Norbergh-Böhm (2000), in
questo settore si sono verificate 20 innovazioni fondamentali, durante le tre decadi passate. Per
14 di esse è possibile indicare con chiarezza l’origine delle risorse finanziarie che ha consentito
l’attività di ricerca e sviluppo da cui è scaturita l’innovazione. Soltanto una delle 14 innovazioni
è stata finanziata dal settore privato. Delle rimanenti 13, 9 sono state sviluppate totalmente grazie
al finanziamento pubblico, le rimanenti 4 sono state il risultato di partnership pubblico-private.
Anche se l’autrice propende per il considerare frutto dell’iniziativa privata le altre invenzioni, è
evidente il che l’intervento pubblico ha avuto anch’esso un’impatto sullo sviluppo dell’industria
dei PV.
Cohen e Noll (1991), analizzando le performances della ricerca federale in materia di energia
ed ambiente, sono pervenuti a conclusioni miste. Gli autori hanno documentato come i
programmi del reattore autofertilizzante e dei carburanti sintetici si siano tradotti – negli anni ’70
– in un monumentale spreco di risorse. Ma hanno pure rilevato che il programma dei PV portato
avanti nello stesso periodo di tempo produsse benefici significativi. Più di recente, si è tentato di
produrre una ragionevolmente ampia valutazione della ricerca svolta dal Dipartimento
dell’Energia – lungo le due decadi passate – nel campo dell’efficienza energetica e dell’energia
prodotta con i combustibili fossili – v. National Resarch Council (2001). La conclusione –
fondata tanto su stime del rendimento complessivo, quanto su dei ‘case studies’ – è che solo una
138
manciata di programmi ha ottenuto risultati di grande valore. Le stime dei rendimenti però,
suggeriscono che i benefici arrecati da questi successi hanno giustificato pienamente il
portafoglio complessivo degli investimenti.
La politica tecnologica – specie quando si spinge al di là della ricerca di base arrivando fino
allo sviluppo ed alla diffusione di tecnologie specifiche – è cosa controversa. Molti hanno
giustamente delle riserve sull’efficienza del governo nel decidere in quali settori tecnologici
investire. E dalle iniziative tecnologiche incaute spesso è difficile tornare indietro, una volta che
a livello politico si siano formate forze in grado di farle andare avanti.
Ma problemi come il cambiamento climatico sono troppo importanti, le esternalità positive
associate allo sviluppo di nuove tecnologie troppo evidenti, perchè si possa rinunciare alla
politica tecnologica. Piuttosto bisognerebbe impegnarsi per strutturarla in modo tale da
circoscrivere i problemi tipicamente associati alla medesima, come il fatto che le partnership
pubblico-private, se sussidiano la ricerca, tendono in buona parte ad orientarla obbedendo alle
forze del mercato. I fallimenti di alcune iniziative dovrebbero fornire la base per terminare o
migliorare particolari programmi, anziché essere utilizzati a pretesto per l’inazione – v. Jaffe et
alt. (2004).
V.3 Lo svantaggio delle fonti delle fonti rinnovabili nell’allocazione delle risorse alla ricerca
Può esistere in generale un problema di sottodimensionamento della ricerca energetica svolta dai
privati, cui dovrebbe porre rimedio in qualche modo il settore pubblico, ma non sembra esservi
un segnale particolarmente forte che ciò stia avvenendo. Ad esempio, Luther (2004) afferma,
sulla base di dati divulgati dall’International Energy Agency, che i budget dedicati alla ricerca,
sviluppo e dimostrazione in campo energetico dai 23 paesi cui fa capo questa agenzia, si sono
più che dimezzati a partire dal 1980, anno in cui si è avuto il picco nelle risorse destinate
all’anzidetta ricerca…Questo problema può essere ancora più grave se è vero che, sempre stando
139
alla fonte di cui sopra, il 70% della spesa è andata al settore della fissione e della fusione
nucleare, mentre solo il 10% è stato allocato a quello delle energie rinnovabili.
Io sarei a favore di un accrescimento delle risorse totali dedicate alla ricerca, il quale, in più,
tenda anche a ridurre lo squilibrio implicito nelle due percentuali.
Come osservano giustamente Edmonds e Sands (2003), nessuna singola tecnologia (o
sottoinsieme di tecnologie) per il controllo delle emissioni sarà alla fine applicabile in qualunque
luogo, adatta a tutti gli usi, suscettibile di trovare impiego in ogni momento del tempo. E questo
induce a ritenere preferibile diversificazione del portafoglio di opzioni tecnologiche. A volte
invece si ha la sensazione un effettivo di una sorta de ‘estromissione’ dal portafoglio alcune
tecnologie energetiche; ad esempio nella proposta di budget per il Dipartimento dell’Energia
degli Stati Uniti (FY 2005) si legge:
“The President committed to invest $2 billion over 10 years to fund research in clean coal technologies.
The President’s four budget have included $1.4 billion for clean coal technology R&D,well on the way to
fulfilling this commitment. Coal is reliable, affordable, and abundant in the United States. The President’s
clean coal investments will help to ensure that coal remains a primary energy source for the nation”.
A questa affermazione vorrei affiancare il rilievo di Erickson (2003) secondo il quale – ad
esempio – la parte maggiore delle risorse destinate alla ricerca concernente le modalità di
ottenimento dell’idrogeno sia stata indirizzata verso lo studio della possibilità di produrlo a
partire dall’energia nucleare e dai combustibili fossili. Inoltre, nella proposta di budget per il
2004, rispetto a quella del 2003, venivano ridotti i fondi alla ricerca sulle fonti di energia
rinnovabili e sulla conservazione dell’energia.
A causare un ‘bias’ della ricerca energetica verso le fonti di energia tradizionale, è solo la
scarsa probabiltà di successo di quelle alternative o anche il tentativo di sbarrare la strada a
qualunque cosa possa far venir meno la posizione dominante delle prime?
140
Nel Regno Unito l’interesse per la possibilità di trasformare le onde in una fonte di energia si
manifestò per la prima volta nel 1976. Tuttavia, nel 1982, dopo soli 6 anni di R&S dedicata allo
studio di tale possibilità, il governo retto da M. Tatcher decise che non era più il caso di andare
avanti. L’interesse è ripreso nel 1999. La chiusura del programma di ricerca sull’energia marina
fu una decisione frettolosa, frutto, principalmente, delle ambizioni nucleari del primo ministro,
nonché di una resistenza sotterranea opposta da interessi particolari, decisi ad evitare che potesse
essere anche semplicemente messo in discussione il primato delle fonti energetiche tradizionali
(combustione del gas naturale, del carbone, del petrolio, e, soprattutto, fissione nucleare). O, per
lo meno, questo è il modo in cui è stato letto il corso degli eventi da Ross (2002), al quale
rimando. Vorrei comunque citare un episodio riportato dall’autore, ed in grado – a mio giudizio
– se non altro di far venire il dubbio che egli possa avere ragione. Alla fine del 1982 dei privati
elaborarono un progetto sperimentale per la fornitura di energia marina all’isola di Lewis, nelle
Ebridi Esterne. Esso aveva il sostegno del North of Scotland Hydro-Electric Board
(successivamente privatizzato come Scottish Hydro). All’epoca Lewis si approvigionava di
elettricità mediante la combustione di carburante diesel importato. Malgrado il tergiversare del
Dipartimento dell’Energia (successivamente assorbito dal Dipartmento dell’Industria e del
Commercio) – il quale insisteva affinchè venisse spiegato come mai il progetto era quello più
idoneo alla fornitura di elettricità e quali fossero i motivi per preferirlo a qualche altro progetto
(non specificato ed inesistente) – si arrivò ad un punto in cui la sua prosecuzione aveva
l’appoggio del Segretario di stato Scozzese (Scottish Secretary) e dell’Hydro Board; il Central
Electricity Generating Board – dalla cui privatizzazione, avvenuta all’inizio degli anni ’90, sono
nate tre società di produzione dell’energia (Powergen, National Power e Nuclear Electric),
assieme alla National Grid Company – era fra quelli che si erano opposti all’abbandono
dell’energia marina, prima che venisse deciso, e aveva svolto una propria attività di ricerca su
essa. Naturalmente sosteneva il progetto. Alla fine anche il Dipartimento dell’Energia sembrava
141
aver sciolto le proprie riserve su di esso. In sostanza praticamente tutti erano favorevoli alla sua
realizzazione.
Dunque, perché poi tutto si concluse con un nulla di fatto? Nonostante l’esistenza di un
consorzio commerciale pronto a mettere soldi nel progetto, il Dipartimento dell’Industria si
rifiutò di finanziarlo in una misura superiore al 25%. Il consorzio obbiettò che non gli si poteva
chiedere di mettere il rimanente 75%: in Norvegia, dove la ricerca sull’energia dalle onde stava
facendo passi in avanti, la ripartizione dei costi sarebbe stata 50:50… Nel bel mezzo di questa
disputa, il North of Scotland Hydro-Electric Board rese noto che avrebbe provveduto ad
allacciare l’Isola di Lewis alla rete nazionale, facendo venir meno la necessità di importare
combustibile. La qual cosa chiuse ovviamente la questione…
Le grandi multinazionali del petrolio dispongono certamente di risorse rilevanti da allocare
alla ricerca di metodi per affrontare il problema delle emissioni di gas serra.
Una tecnologia cui si guarda con molto interesse oggi, è lo ‘smaltimento’ dell’anidride
carbonica generata dall’impiego dei combustibili fossili. Nelle tecnologie di smaltimento della
CO2 attualmente allo studio, questo gas deve essere prima ‘catturato’ alla sua fonte di
produzione: i grossi impianti di erogazione dell’elettricità (‘large power stations’); poi deve
essere compresso e portato, attraverso gasdotti ad alta pressione, in siti di smaltimento, dove è
destinato a rimanere, idealmente, per sempre (‘long-term storage sites’) – v. Edmonds e Sands
(2003).
Essa di sicuro è quella il cui sviluppo comporterebbe minori fratture con lo status quo in
materia di produzione dell’energia. L’enorme disponibilità di risorse spendibili per rendere
concreta la soluzione dello smaltimento non nasce dal fatto che il petrolio sia la migliore fonte da
cui ottenere l’energia, bensì dai profitti che si sono accumulati grazie al fatto che l’economia
mondiale si regge ancora sull’impiego del petrolio e di poche altre fonti di energia.
142
E’ logico pensare che nella misura in cui spendono per la ricerca, i protagonisti del mercato
energetico globale si preoccupino soprattutto di sviluppare quei metodi che promettono di essere
complementari al loro business.
E’ possibile che gli interessi legati alle forme ‘mature’ di produzione dell’energia riescano
pure ad indirizzare l’allocazione delle risorse pubbliche – così che la parte maggiore della
ricerca energetica sia dedicata a quelle tecnologie potenzialmente in grado di consentire il
perpetuarsi delle forme in parola?
Quello che mi sento di dire è, se non è stato il frutto di resistenze sotterranee e sleali, il
frettoloso abbandono da parte del Regno Unito – tanto tempo fa – del proposito di fare ricerca
sull’energia marina, almeno alla luce dei relativamente recenti sviluppi nella politica tecnologica
britannica, fu una decisione malaccorta.
Sebbene negli Stati Uniti non venga ancora svolta – a livello federale – ricerca sulle
potenzialità delle onde nella produzione di energia, a livello locale si comincia a discutere di
qualche applicazione concreta. D’altro canto, un progetto sperimentale portato avanti nell’Isola
di Orkney (Scozia), ha avuto successo nel rifornire di energia 500 abitazioni. In Scozia la ricerca
sull’energia marina è stata finanziata con generosità dal governo – v. Planet Ark World
Environmental News (2005).
Nel Regno Unito, dal 1999 il Dipartimento dell’Industria e del Commercio è tornato sui suoi
passi. Da quell’anno ha speso più di 15 milioni di sterline per finanziare la ricerca sulle (e nello
sviluppo) di tecnologie capaci di sfruttare le maree e le maree. Secondo il ministro O’Brien, per
alcune delle tecnologie sulle quali si è lavorato grazie ai finanziamenti sono già state effettuate
delle dimostrazioni in ‘scala reale’ (at full-scale), e per le altre si è ormai vicini ad effettuarle. Il
2 agosto 2004 il ministro Patricia Hewitt ha annunciato la creazione di un nuovo fondo, la cui
finalità sarà quella di contribuire al passaggio dallo stadio della dimostrazione a quello
commerciale. Il Marine Renewables Deployment Fund è venuto alla luce con una dotazione di
50 milioni di sterline. Il flusso delle maree e delle onde – sostiene O’Brien – possiede la capacità
143
di contribuire in modo sostanziale al raggiungimento del obbiettivo che si è dato il Regno Unito
(riuscire a soddisfare con fonti di energia rinnovabile il 10% entro il 2010 – ed il 20% entro il
2020 – della propria domanda energetica) –v. O’Brien (2005).
Anche se per lungo tempo ancora la parte più grande del fabbisogno energetico mondiale
dovrà essere soddisfatta con il ricorso alla fonti energetiche convenzionali, non deve essere
lasciato nulla di intentato per far crescere la quota del fabbrisogno soddisfatta dalle fonti
rinnovabili.
Tutti sanno che le fonti di energia rinnovabile, pur offrendo forti garanzie di non creare
rischi per le persone, hanno un rapporto troppo basso fra energia erogata e spazio che è
necessario dedicare al loro sfruttamento, così che quest’ultimo può effettivamente incontrare un
fattore limitante nel pericolo di interferenze, per esempio, con la tutela del patrimonio
paesaggistico. Malgrado questo, credo che non vadano abbandonati ed anzi vadano aumentati gli
sforzi per accrescere il rapporto di cui sopra.
Agire in tal senso significa ridurre la necessità di fare ricorso a metodi di produzione
dell’energia sulla cui sicurezza per le persone, le valutazioni sono assai più discordi di quelle
relative alla sicurezza implicita nello sfruttamento delle fonti di energia rinnovabile. Può darsi
che un giorno ricorrere ai quei metodi divenga irrinunciabile – e quindi, detto per inciso, è bene
svolgere ricerca diretta ad assicurare, per esempio, che la produzione di energia nucleare sia
realizzabile con tecnologie sempre più sicure – ma è certo che quanto più sarà estesa la
possibilità di ottenere l’energia dal sole, dal vento, dalle onde, dalle maree, tanto più sarà
possibile contenere l’uso di altre fonti di energia meno sicure, e dedicare risorse alla riduzione
dei rischi connaturati al loro impiego.
Alcuni deridono come una forma di sindrome NIMBY (‘Not In My Backyard’ è la
comprensibilissima espressione retrostante all’acronimo) – del tutto ridicola, data la piccola
distanza che separa i confini italiani dagli impianti nucleari in attività presso paesi confinanti, o
144
comunque vicini – l’indisponibilità ad accettare la realizzazione di centrali nucleari su suolo
italiano.
Ma questa indisponibilità può essere motivata anche su altre basi.
‘Il Sole 24 Ore’ del 17 dicembre 2005 riporta che – secondo l’agenzia di stampa russa
Interfax – in un deposito di stoccaggio per sostanze radioattive alla periferia di Grozny
(Cecenia), il livello di radioattività sarebbe pari alla metà di quello registrato nella centrale
nucleare di Cernobyl dopo l’incidente del 1986. E 58000 volte superiore alla norma, per la
procura cecena, la quale ha aperto un inchiesta, in quanto anche dopo un’ispezione non sarebbe
stato fatto alcunché per porre rimedio al livello eccessivo delle radiazioni, creando di
conseguenza un grave pericolo per gli abitanti della zona – v. Il Sole 24a.
L’emissione di radiazioni è un rischio fronteggiato da tutti (Francesi, Italiani, Tedeschi ecc.
ecc.) – salvo nel caso di incidenti o sabotaggi di piccole proporzioni, le cui conseguenze
diminuiscono con la lontananza dalla fonte delle radiazioni. Credo sia ragionevole sostenere che
tale rischio collettivo sia soggetto ad aumentare se vengano utilizzate o trasportate quantità
aggiuntive di materiale radioattivo, che tenda a crescere ogniqualvolta vengano costruiti nuovi
impianti (in Italia come al di là delle sue frontiere); che esso sia una funzione crescente del
numero chilometri percorsi dalle scorie nucleari, prima di poter essere racchiuse in depositi
sicuri. Ecco allora, il motivo per il quale qualunque paese si trovi in condizione di sfruttare fonti
di energia pulite, dovrebbero farlo quanto più è possibile, cercando di ottenere dagli altri lo
stesso comportamento: ne deriverebbe, per esempio, una minore necessità di inviare scorie in
giro per il mondo, o un minor rischio che con la crescita della loro entità, parte di esse si
incammini verso aree del mondo in cui povertà e corruzione rendano le stesse più benaccette che
altrove, con pregiudizio per la popolazione locale.
In Edmond, Sands (2003) si enumerano diverse opzioni tecnologiche per attuare lo
smaltimento (disposal). Gli autori avvertono che queste opzioni – malgrado il contributo enorme
che potrebbero dare alla riduzione dei costi del controllo delle emissioni di gas serra qualora
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venissero effettivamente messe a punto – risulterebbero di limitata applicabilità in assenza di
adeguati programmi di monitoraggio e verifica. In aggiunta dovrebbero essere affrontati
problemi relativi al trasporto locale, all’immagazzinamento, alla salute ed alla sicurezza…
Praticamente tutti i sistemi di smaltimento richiedono un monitoraggio. Qualora lo smaltimento
della CO2 dovesse rivestire un ruolo importante nella riduzione delle emissioni, quantità enormi
di carbonio dovranno essere isolate dal contatto con l’atmosfera. Dopo un periodo di 50 anni,
tassi di ‘leakage’ dell’1% potrebbero equivalere al rilascio annuale di più di un miliardo di
tonnellate di carbonio. Per quanto attualmente non vi sia motivo di ritenere che potrebbero
verificarsi fughe significative di anidride carbonica, il monitoraggio dovrà costituire un
importante complemento dell’impiego delle tecnologie di smaltimento dell’anidride carbonica.
Una possibile forma di cattura dell’anidride carbonica – non l’unica ipotizzabile – è lo
smaltimento in formazioni geologiche sotterranee, come i giacimenti petroliferi prosciugati, o
quelli carboniferi che si trovano troppo in basso perché da essi possa essere estratto del carbone.
La sicurezza (in termini di eventualità che si verifichino delle fughe di anidride carbonica) dei
siti di smaltimento dipende da più di un aspetto: qualora si usino vecchi giacimenti petroliferi o
di gas naturale, dalla possibilità che queste siano state danneggiate dalle perforazioni effettuate, o
da quella di cambiamenti strutturali verificatisi a seguito dell’estrazione di petrolio e gas. Il
principale pericolo insito nel depositare l’anidride carbonica nel sottosuolo, è il rischio della fuga
di grosse quantità di tale gas, la quale oltre a tradursi in un danno dal punto di vista della
protezione del clima, è suscettibile di avere impatti sull’ambiente locale e sulla salute umana.
Poiché l’anidride carbonica è più pesante dell’aria, la fuga improvvisa di larghi volumi di essa
può tradursi in un eccessiva concentrazione della medesima nelle aree che si innalzano poco al di
sopra del punto in cui si è verificata la fuga, con un risultante rischio di asfissiamento per le
persone. Eventi del genere potrebbero associarsi ad una conoscenza imprecisa della capacità di
immagazzinamento, ad errori nelle operazioni, a tremori della terra, o ad azioni di sabotaggio –
v. Diesendorf (2003). Così, a mio modo di vedere maggiore è la quota di fabbrisogno energetico
146
che potrà essere soddisfatta con le risorse rinnovabili, e più preciso potrà essere, ad esempio,
data una certa spesa programmata per monitorare i siti di smaltimento della CO2, il monitoraggio
di singoli siti (a causa del loro minor numero). Questo discorso, ovviamente, vale pure per le
infrastrutture dedicate allo sfruttamento dell’energia atomica. E’infatti necessario un
atteggiamento vigile – v. Wall Street Journal (2003b). E del resto, non occorre andare in Cecenia
– sembra – per avere l’impressione che l’atomo venga usato a volte con troppa disinvoltura; tutti
sicuramente sanno dell’incidente avvenuto a Tokaimura nel 1999, e che nel 2004, quattro
persone hanno perso la vita in una centrale nucleare, sebbene la natura del danno subito dalla
medesima non abbia comportato pericoli per la popolazione circostante. Forse di meno sanno
che 3 dirigenti hanno dovuto dare le dimissioni, in un centrale elettrica giapponese, a seguito
dell’omissione di informazioni dovute da parte della medesima riguardo a 29 incidenti
verificatisi in tre dei suoi impianti nucleari fra la fine degli anni ’80 e gli anni ’90. E che la stessa
centrale in cui si sono verificati i quattro decessi di cui sopra aveva affermato più di un mese
prima di aver scoperto che, in 10 delle sue thermal-power stations erano stati prodotti rapporti
falsi; v. Wall Street Journal (2004b).
Non molto tempo fa a L.Raymond – presidente e CEO di Exxon Mobil Corporation – è
stato chiesto cosa pensasse della forte enfasi posta dai media sulle fonti di energia alternative.
Secondo Raymond è molto probabile che fonti alternative di energia abbiano un qualche ruolo
nell’offerta energetica delle decadi che verranno. Ma bisogna avere chiaro qual è il grado al
quale ciò può avvenire. Per esempio, anche con la rapida crescita che ci si aspetta nella
produzione di energia eolica e solare – in larga misura consentita da sussidi pubblici – il
contributo di queste due fonti all’energia generata nel mondo non arriverà che attorno all’1%, nel
2030. Ciò perché è molto basso il livello iniziale dal quale deve partire la crescita dell’offerta di
energia eolica e solare, mentre – nello stesso tempo – è enorme la dimensione del mercato
energetico globale. Ne deriva che – malgrado l’importanza del lavorare su approcci (alla
produzione di energia) alternativi – per parecchie decadi il problema principale rimarrà come
147
generare e produrre abbastanza energia convenzionale da poter sostenere l’attività economica
globale. Essere consapevoli della dimensione dell’industria energetica globale è importante per
collocare nella giusta prospettiva le fonti alternative di energia, e per capire se il loro ruolo
nell’ambito dell’offerta globale possa essere significativo. Esistono parecchie forme di energia
che possono essere interessanti. Questo non significa però che possano avere un impatto
rilevante sulla capacità dell’offerta di adeguarsi alla domanda di energia. Mettendo al centro
della scena fonti di energia come il vento ed il sole – fonti le quali non sono economiche – si
distoglie l’attenzione dai problemi veri. Fra 25 anni – anche con tassi di crescita a due cifre
dell’energia ottenuta dal vento e dal sole – ha detto Raymond – esse non arriveranno a coprire
l’1% dell’offerta mondiale: meglio allora preoccuparsi del rimanente 99%, v. Lee Barry (2005).
A volte mi chiedo se lo spazio che riusciranno a ritagliarsi le fonti rinnovabili nel mercato
globale dell’energia sarà davvero così angusto come pensa Raymond, e proprio ciò che riportano
i media mi induce a sperare che vi sia un eccesso di pessimismo nelle sue considerazioni.
Ad esempio, alla Southampton University nel Regno Unito si cercando di coniugare lo
sfruttamento dell’energia solare con un sistema ‘peer-to-peer’ per la condivisione dell’energia,
capace di archiviare e non sprecare l’energia prodotta. Il sistema si ispira ai software di file-
sharing utilizzati in Internet. L’obiettivo del progetto di ricerca è sviluppare un innovativo
sistema per al distribuzione-condivisione dell’elettricità, adatto per palazzi, o su scala più grande,
per i quartieri residenziali. I ricercatori sperano che con questo sistema si possa arrivare, nel
Regno Unito, entro il 2020, a rifornire di energia almeno 8 milioni di abitazioni – v. Il Sole 24
Oreb.
Sono solo millantatori coloro che intravedono la possibilità di un importante ruolo delle
fonti energetiche alternative – e non nel lunghissimo termine, ma prima? Il tempo lo dirà, ma
pure e soprattutto – oltre che l’ammontare assoluto delle risorse allocate alla ricerca nel campo
energetico – la quota di esse che verrà indirizzata verso le fonti in parola.
148
V.5 Un compito per gli ambientalisti
Considero molto delicata la questione dell’entità relativa dei fondi pubblici allocati ai differenti
settori della ricerca energetica, perché penso che quanto più si andrà avanti nel tempo, è sempre
più a creare discussioni saranno le tecnologie usate per contenere le emissioni di gas
climalteranti (piuttosto che la necessità o meno di ridurle): ad esempio, si può essere sicuri che
l’idea di smaltire l’anidride carbonica (posta in forma liquida) nelle profondità oceaniche,
sarebbe priva di conseguenze inaspettate e dannose non previste dai suoi proponenti? Si può
avere la stessa certezza riguardo a quella forma di ‘geoengeneering’ che consisterebbe nel
fertilizzare gli oceani con il ferro, così da favorire la crescita di alghe. I proponenti di questo
approccio alla mitigazione del cambiamento climatico si basano sulla capacità delle alghe di
sequestrare CO2. Su tale capacità pensano che si possa far leva per accentuare la naturale
capacità degli oceani di assorbire l’anidride carbonica presente nell’atmosfera. Ma alcuni temono
che un eccesso di fertilizzazione possa sottrarre quantità eccessive di ossigeno all’acqua, con
ripercussioni negative per la fauna acquatica New York Times (2001)… E’ meglio investire
nello studio del se sia possibile mettere in pratica queste idee, o fare tutto il possibile per fa sì
che entro il 2020 esistano effettivamente nel Regno Unito, 8 milioni di abitazioni (e
presumibilmente un numero molto maggiore di persone), che sfruttano l’elettricità prodotta da
fonti di energia rinnovabile?
Secondo me, i gruppi di pressione ambientali dovrebbero provare a ritagliarsi un ruolo nel
processo di espansione del portafoglio di potenziali espedienti tecnologici per l’abbattimento
delle emissioni, reperendo risorse per finanziare programmi di ricerca e borse di studio; cercando
di costituire ed alimentare fondi da cui possa trarre sostegno la ricerca sulle soluzioni che
presentano meno rischi per le persone, ma che vengono messe in disparte perché più difficili da
realizzare.
149
Tentare questo può avere un costo in termini di neutralità ed indipendenza delle associazioni
ambientaliste, ma è una carta che và giocata. In altri termini, convincere gli attuali protagonisti
del mercato energetico mondiale che le fonti di energia rinnovabile potrebbero diventare presto
un settore capace di attrarre in misura consistente i loro investimenti è un obiettivo forse più
facilmente conseguibile seguendo la strada appena indicata, che non limitandosi ad invocare la
fissazione di limiti alle emissioni. Questo ovviamente non significa che tale strategia vada
abbandonata.
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