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IL TRENINO ELETTRICO di FRANCESCO NIKZAD

A me piacciono i trenini elettrici. Mi piace il rumore che fanno sulle rotaie. Mi piace vederli correre. Belli, tutti lucidi, con i

colori che si mischiano. Mi piace farli arrivare in orario. Ho costruito una linea ferroviaria magnifica lungo tutta la mia cameretta, mi ha aiutato papà

a farla. E appena finisco di fare i compiti corro in camera, metto la divisa da capostazione e inizio a farli viaggiare. C’è la fermata sulla scrivania, quella vicino al comodino, quella sulla mensola vicino all’enciclopedia. C’è anche quella con il mare, vicino l’acquario. E poi le montagne, con le gallerie fatte di plastica e cartapesta. E gli alberi, i fiori e i campi di grano gialli, con i contadini che salutano al passaggio di ogni treno.

Li faccio viaggiare, avanti e indietro. Li faccio viaggiare fino a che non si stancano, fino a quando mamma non mi dice che la cena è pronta.

Io e la mamma spesso mangiamo da soli la sera, perché papà non c’è. E’ fuori a far viaggiare i suoi treni, quelli veri, quelli grandi. Quando torna a casa mi faccio raccontare tutto, e mi promette sempre di portarmi con lui una volta di queste. Restiamo a parlare fino a quando non si addormenta sulla poltrona. Allora io gli spengo la luce e gli porto una coperta. Poi resto un po’ a guardarlo, in attesa, aspettando che una volta mi ci porti davvero con lui.

Perché io su di un treno vero non ci sono mai stato. Una volta, però, sono stato in stazione. Dovevamo andare a prendere la zia che veniva a trovarci per le vacanze di Natale. E c’era la neve e faceva freddo. E mi ricordo che non volevo più andare via. Siamo stati lì tutto il pomeriggio, seduti su una panchina a guardare i treni. Io avevo il cuore che mi batteva forte forte ad ogni fischio. E quando il treno passava e mi spostava i capelli per il vento, io ridevo. Ridevo forte, più del rumore dei freni.

Quando il treno ripartiva, io avrei voluto corrergli dietro, per giocarci insieme, per correre veloce, velocissimo. Per vedere le cose diventare piccole e lentamente sparire. Un po’ come volare, solo che a me volare non piace.

E dire che una volta mamma e papà mi ci hanno anche portato in aereo. Per andare in Francia, a vedere la torre di Eiffel, che erano diventati miopi a furia di guardarla in cartolina.

Ma a me volare non piace, e mi sento pure preso in giro. E’ che io ero convinto che i santi e le persone stessero in paradiso, vicino alle nuvole.

Invece quando ci sono salito lassù, non ho trovato proprio nessuno. E, in fondo, mi sembra anche logico. Dico, come fanno a starci tutte quelle persone in cielo,

sdraiate sulle nuvolette? A scuola mi hanno insegnato che le nuvole sono fatte d’acqua, e io lo so che sull’acqua non ti puoi mica sdraiare.

E poi, quando il cielo è limpido, dove vanno a finire tutte quelle povere persone?No no, molto meglio il treno. C’è un sacco da vedere, e poi puoi muoverti, camminare, e

non ti viene il mal di stomaco che poi sei costretto a vomitare nelle bustine di cartone. In realtà neanche a papà piacciono tanto gli aerei, o meglio, ha un po’ paura. Ma non lo dice

perché si vergogna. E’ vero papà? Dai, a me lo puoi dire. Sapete, io ci parlo con papà. Cioè, con il pupazzetto del mio papà, uno di quelli di plastica.

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L’ho comprato una volta che sono andato alla fiera con la mamma. C’era una bancarella che vendeva i giocattoli, con un signore con la barba lunga che sembrava babbo natale. Alla mamma non stava molto simpatico, ma a me piaceva un sacco. E poi aveva dei trenini fantastici.

E’ stato lui a vendermi papà, quello piccolo, quello che guida i miei trenini. Ha gli stessi suoi baffi, e la camicia gonfia per la pancia sotto la giacca da macchinista.

Quel pupazzetto è proprio identico al mio papà. Così quando lui non c’è a casa, io posso giocarci lo stesso insieme. E lo vedo che mi sorride,

e mi accorgo che si diverte un sacco a guidare i miei trenini. Facciamo tanti viaggi insieme, lungo i binari, e lui mi racconta di quando era piccolo e anche

lui giocava con i trenini elettrici. A volte ci fermiamo vicino al mare, a guardare l’acqua che sbatte contro gli scogli e finisce

sul finestrino del treno. E se il finestrino è un po’ aperto, l’acqua entra dentro e ci bagna tutti, e noi ridiamo come due scemi.

Oppure, per farmi uno scherzo, lui si ferma proprio in mezzo alla galleria, dove è tutto buio, e dice che il treno ha finito la benzina. Ma io lo scopro subito che è uno scherzo, perché i miei trenini non hanno bisogno della benzina, i miei trenini possono arrivare lontanissimo. Ci vuole solo un po’ di pazienza.

Me l’ha insegnato lui che i binari non finiscono mai, che sono infiniti. Puoi arrivare dovunque vuoi, basta avere un po’ di fantasia. E io gli credo.

Ci sono delle volte che lui mi fa sedere al posto del conducente, anzi, una volta mi ha fatto anche tirare il freno. La leva tremava tutta, e ci voleva tanta forza per tenerla su. Io avevo un po’ paura e lo chiamavo; allora lui ha messo la mano sulla mia e mi ha aiutato, e alla fine ce l’ho fatta.

Quando il treno si è fermato, tutti i passeggeri mi hanno fatto l’applauso, anche le gente che aspettava il treno lungo i binari batteva le mani. E anche i contadini nei campi di grano gialli, da lontano mi guardavano ed erano felici per me, mentre io, affacciato al finestrino, salutavo tutti con la mano.

E anche se papà non era davvero con me, anche se in realtà stava guidando un altro treno, io un po’ lo sentivo vicino.

Da un po’ di tempo è finita la scuola. Le giornate si sono allungate e il sole entra dalle finestre e ci esce soltanto la sera, quando si fa tardi.

Papà in questi giorni non c’è, è andato a Roma a fare non so cosa. E la mamma sembra un po’ nervosa. È spesso dalla nonna per aiutarla con il ristorante, ma forse è solo un po’ stanca.

Nel frattempo io gli sto preparando una sorpresa. Ho costruito dei binari lungo tutto la casa, che fanno il giro di tutte le stanze, così i miei trenini possono fare dei viaggi più lunghi. E

magari dentro posso metterci dei bigliettini da mandare alla mamma o al papà. Ma non dei biglietti per fargli pagare il viaggio, solo dei messaggi, per dirgli che gli voglio bene.

Poi, l’altra sera, quando papà è tornato a casa, ho sentito che parlava con la mamma, e alzava la voce. Parlavano di una cosa tipo sciupare, o sciuperare. E parlavano dei treni, che forse a papà non piacevano più.

A me non piace quando mamma e papà litigano, allora ho pensato di fargli una sorpresa, così magari tutto tornava a posto.

Ho scritto un bigliettino…

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M a m m a t i v o g l i o b e n eP a p à , v i e n i a g i o c a r e c o n m e ?

… l’ho piegato, e l’ho infilato nella prima carrozza. Poi ho fatto partire il trenino. E quando era in cucina l’ho fatto fischiare, per attirare la loro attenzione. Solo che quando il trenino ha fatto tutto il giro, ed è tornato nella mia cameretta, il bigliettino era ancora lì, nella carrozza del conducente, accanto al pupazzetto del mio papà.

Sono andato in cucina, e papà mi ha detto che era stanco, che per questa volta era meglio lasciar perdere. Poi, distratto, ha messo il bigliettino nel posacenere, e non si è accorto che c’era la sigaretta accesa, e non si è accorto che io piangevo, mentre il mio bigliettino bruciava dentro il posacenere.

Sono tornato in camera. Ho fatto fare un ultimo giro al trenino, poi, quando è arrivato nella mia cameretta, l’ho fatto

fermare. Ho aperto il finestrino della prima carrozza, quello dove c’era il bigliettino. Ho tirato fuori il pupazzetto di papà, e l’ho gettato dalla finestra.

E, mentre ero nel letto, sotto le coperte, pensavo ai magnifici viaggi fatti assieme, su quel trenino, sulle nostre rotaie infinite.

E pensavo che forse non è vero che sono infinite. Nei giorni dopo c’era un altro pupazzetto a guidare i miei trenini. E anche se i viaggi erano

belli e pieni di cose da scoprire, non era la stessa cosa. Perché lui non mi faceva gli scherzi, non mi portava a vedere il mare. Non mi teneva la mano mentre tiravo la leva del freno. Perché lui non era il mio papà.

Una mattina mi sono svegliato e sono andato in cucina. C’era la mamma che preparava la colazione, e c’era anche papà. Era strano perché lui, di solito, a quell’ora non c’era mai.

Stavano entrambi zitti e guardavano la televisione. C’era un tipo che parlava della stessa cosa di cui parlavano mamma e papà l’altro giorno. E ho capito che non era sciuperare, ma scioperare.

- Papà, che vuol dire scioperare?- E’ un modo di protestare. Vuol dire non andare a lavorare per evitare che ti tolgano il

lavoro. Io non ci ho capito molto, ma poi mamma mi ha spiegato che il lavoro a papà l’avevano

tolto davvero. Che non poteva più guidare i treni e che doveva trovarsi un altro modo per guadagnare i soldi.

Ma a papà piaceva guidare i treni, era la cosa che più gli piaceva al mondo. E io ero triste. Perché forse era anche colpa mia, che l’avevo gettato dalla finestra. E forse gli altri, vedendo me, avevano fatto la stessa cosa. Magari ci avevano scoperti mentre ci fermavamo vicino al mare, o sotto le gallerie. O peggio avevano scoperto che papà ogni tanto mi faceva guidare il treno, e, secondo loro, i bambini non possono guidare i treni.

Era colpa mia, ero sicuro. Ero stato uno scemo a buttarlo dalla finestra.Ho provato anche a cercarlo. Sono uscito fuori, sul balcone, per vedere se stava ancora lì,

nel cortile. Ma niente, non c’era.Sono andato a letto senza giocare con i miei trenini, senza sentire il racconto che papà mi

faceva ogni sera. Perché oggi non aveva fatto nessun viaggio, non aveva guidato nessun

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treno, e non li avrebbe più guidati. E questo vuol dire che non mi avrebbe mai più portato con lui. Neanche una volta, neanche un piccolo viaggetto sul nostro treno, quello vero, quello grande.

Poi durante la notte mi sono svegliato. Zitto zitto sono sceso dal letto e sono andato in camera dei miei. Mi sono avvicinato al letto e, in silenzio, ho svegliato papà. Gli ho detto di seguirmi, che dovevo fargli vedere una cosa.

L’ho portato nella mia cameretta. Nel buio ho iniziato ad accendere i trenini, uno ad uno. Le stazioni, i passaggi a livello con i semafori lampeggianti. E lentamente la camera era illuminata soltanto dalla nostra linea ferroviaria, quella che avevamo costruito insieme.

Poi ho preso il mio cappello da macchinista e l’ho dato a papà. Gli ho detto che, anche se gli altri non lo volevano, anche se mi aveva fatto arrabbiare, per

lui c’era sempre un posto sui miei trenini. C’era sempre un posto per i nostri viaggi. E non ho capito bene se la sorpresa gli era piaciuta davvero, se era felice. Perché mentre

sorrideva e mi teneva la mano, un po’ piangeva.