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Il controllo della motivazione del giudizio di fatto in cassazione.
Sentenza penale.
(Incontro di studio sul tema: “Il ricorso per cassazione nel sistema dei mezzi di impugnazione”
Frascati – 23 febbraio 2001)
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Sommario: 1. - Obbligo della motivazione e controllo di legittimità. 2. - Il sindacato logico
della motivazione nell’art. 606, 1° comma, lett. e) del codice di procedura penale. 3. - I limiti
del controllo della logicità della motivazione nella giurisprudenza della Cassazione. 4. - Le
regole logiche del ragionamento probatorio. 5. - La mancanza della motivazione. - 6. - Il
travisamento del fatto. 7. - Esame di alcune recenti iniziative legislative. 8. - Considerazioni
conclusive.
1. - Obbligo della motivazione e controllo di legittimità.
E' unanimamente riconosciuta la fondamentale importanza dell’art. 111 della Carta
costituzionale nel sistema delle impugnazioni civili e penali, con riguardo particolare al ricorso per
cassazione. Infatti, stabilendo che “tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati”
(comma 6) e che “contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati
dagli organi giurisdizionali ordinari e speciali, è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione
di legge” (comma 7), l'art. 111 pone uno dei cardini delle norme sulla giurisdizione e, attraverso la
generalizzata ricorribilità dei provvedimenti decisori per violazione di legge, attribuisce alla Corte di
Cassazione il ruolo di supremo organo regolatore della giurisdizione e di raccordo tra potere
legislativo e potere giudiziario al fine di garantire il primato della legge.
Lo stretto collegamento, anche topografico, tra le due disposizioni della Costituzione rivela
l’indubbia complementarietà esistente tra l’obbligo della motivazione dei provvedimenti
giurisdizionali e la funzione assegnata alla Corte di Cassazione, nel senso che questa assicura
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l’adempimento del predetto obbligo e che, nello stesso tempo, la motivazione costituisce la
condizione indispensabile per l’effettività del controllo dell’intero iter logico-giuridico seguito dal
giudice di merito nell'applicazione della norma giuridica. Difatti, se è certo che l’obbligo della
motivazione è coessenziale al principio di legalità e di soggezione del giudice alla legge, è altrettanto
certo che il controllo di legittimità trova titolo nei medesimi principi, onde è senz’altro giustificata
l’affermazione che, nel sistema garantistico delineato dalla Costituzione, l’enunciazione dell’obbligo
di motivazione è considerata come corollario del principio di legalità sancito dall’art. 102, 2° comma,
e della generalizzazione del sindacato di legittimità sui provvedimenti giurisdizionali, espressa
dall’art. 111 (DENTI, La magistratura – Norme sulla giurisdizione, sub art. 111, in Commentario
della Costituzione a cura di Branca, 1987, 5 ss.).
L’inderogabile esigenza di un simile controllo non può essere circoscritta al momento
dell’applicazione della norma giuridica, ma deve intendersi inevitabilmente estesa al giudizio storico
o di fatto, a quel momento, cioè, in cui il giudice valuta i risultati delle prove e procede alla
ricostruzione del fatto. E’ stato, al riguardo, giustamente osservato che la correttezza del giudizio di
fatto si pone quale “condizione (ovviamente non sufficiente, ma necessaria) della legalità della
decisione, poiché appunto la norma viene correttamente applicata solo se esistono fatti che ne
implicano e ne giustificano l’applicazione” (TARUFFO, Il vertice ambiguo. Saggi sulla Cassazione
civile, 1991, 128). La coerenza e il rigore del sistema postulano, pertanto, che la garanzia
costituzionale ex art. 111 Cost. debba coprire la motivazione nella sua unità, inscindibilmente
costituita dalla soluzione delle questioni di diritto, sostanziale e processuale, e dall'accertamento del
fatto, al quale una determinata norma, e quella soltanto, deve essere applicata. Ne segue che il
precetto costituzionale relativo alla ricorribilità in cassazione per violazione di legge abbraccia
certamente anche la motivazione in fatto, anche se l'ambito in cui opera la garanzia non è
indiscriminato e i modi e le forme del controllo sono rimessi al legislatore ordinario.
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Fatte queste necessarie premesse sulla configurazione del ricorso per cassazione nel sistema
costituzionale, deve porsi in risalto che l'obbligo della motivazione sul fatto è regolato, all'interno del
processo penale, da una serie di norme che ne specificano il contenuto. Tra queste assume una
posizione centrale l’art. 192, comma 1, c.p.p., che è generalmente considerato come base
dell’esplicito riconoscimento legislativo del principio del libero convincimento del giudice, elevato a
canone fondamentale di valutazione della prova. La Relazione al progetto preliminare del codice di
procedura penale, dopo avere notato che l’art. 192 conferma la scelta in favore del principio del
libero convincimento, chiarisce che “decisamente nuovo è, però, il raccordo tra convincimento del
giudice e obbligo di motivare: su un piano generale, esso mira a segnalare, anche a livello legislativo,
come la libertà di apprezzamento della prova trovi un limite in principi razionali che devono trovare
risalto nella motivazione; sotto un profilo più strettamente operativo, il nesso vuol far risaltare il
contenuto della motivazione in fatto, che si esprime nella enunciazione dei criteri di valutazione
(massime di esperienza) utilizzati per vagliare il fondamento della prova” (p. 61).
Il primo comma dell’art. 192 c.p.p., col disporre che “il giudice valuta la prova dando conto
nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati”, sottende la preoccupazione del
legislatore di prevenire l’esercizio insindacabile del potere discrezionale nell’apprezzamento
giudiziale delle prove, collegato indissolubilmente con l’obbligo della motivazione proprio al fine di
evitare che il libero convincimento trasmodi in arbitrio e in scelte dettate da opzioni meramente
soggettive, che finiscono per rappresentare la negazione della giurisdizione, la cui essenza è quella di
costituire una attività razionalmente configurata, imperniata su criteri di valutazione precisi e
riconoscibili. La medesima preoccupazione traspare, del resto, dai commi successivi dell’art. 192,
nei quali vengono enunciate specifiche regole di giudizio e sono precisati i limiti dell’impiego della
prova indiziaria (comma 2) e delle dichiarazioni rese dai coimputati del medesimo reato o di persone
imputate in un procedimento connesso (comma 3).
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L’obbligo del giudice di giustificare razionalmente la valutazione delle prove e di rendere
trasparenti le linee seguite nel ragionamento probatorio corrisponde ad un principio fondamentale
della nostra civiltà giuridica, risalente all’ideologia illuministica di impronta tipicamente garantistica.
Il richiamo a tale principio -operante anche quando il processo penale aveva uno stampo
prettamente inquisitorio- è tanto più giustificato con la disciplina del codice vigente, dato che, sul
piano sistematico, il rigore e la necessità della motivazione, come fonte giustificativa della decisione,
trovano innegabile base nella struttura accusatoria del processo penale e nel diritto alla prova, la cui
tutela è stata esplicitamente riconosciuta con le modifiche dell’art. 111 Cost. recentemente
introdotte dalla l. cost. 23 novembre 1999, n. 2: e, in proposito, risulta estremamente significativa e
pertinente l’affermazione -formulata con riguardo al processo civile, ma senz’altro valida anche per
il processo penale- secondo cui dalla garanzia del diritto alla prova discende, come lineare e
necessario corollario, l’obbligo del giudice di valutare le prove assunte ad iniziativa delle parti e di
fornire la motivazione giustificativa di tale valutazione (TARUFFO, Il diritto alla prova nel processo
civile, in Riv. dir. proc., 1984, 106 ss.).
L’obbligo della motivazione trova puntuale specificazione in varie disposizioni del codice di
procedura penale. Oltre che nell’art. 125, a norma del quale le sentenze, le ordinanze e, nei casi
previsti dalla legge, i decreti devono essere motivati a pena di nullità, le principali disposizioni
devono essere individuate nell’art. 546, comma 1, lett. e) e nell’art. 292: la prima riguarda la
motivazione delle sentenze, nelle quali deve essere contenuta “la concisa esposizione dei motivi di
fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, con l’indicazione delle prove poste a base della
decisione stessa e l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove
contrarie”; la seconda disposizione, la cui matrice è identificabile nel secondo comma dell’art. 13
Cost., concerne la motivazione delle ordinanze relative alle misure cautelari personali, nella quale
deve essere presente “l’esposizione delle specifiche esigenze cautelari e degli indizi che giustificano
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in concreto la misura disposta, con l’indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei
motivi per i quali essi assumono rilevanza” (art. 292, comma 2, lett. c), nonché “l’esposizione dei
motivi per i quali sono stati ritenuti non rilevanti gli elementi forniti dalla difesa” (art. 292, comma 2,
lett. c-bis).
Tutte le norme esaminate risultano in perfetta ed essenziale simmetria con la disposizione di
cui all’art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p., che, comprendendo tra i motivi di ricorso la “mancanza o
manifesta illogicità della motivazione”, ha l’indubbio effetto di sanzionare le violazioni dell’obbligo
della motivazione e di elevare le regole della logica a regole giuridiche, alla cui osservanza è
vincolato il giudice quando procede alla valutazione delle prove e alla ricostruzione del fatto.
2. - Il sindacato logico della motivazione nell’art. 606, 1° comma, lett. e) del vigente
codice di procedura penale.
Il controllo della motivazione sul fatto si compone di due distinti momenti. Il primo attiene
alla verifica del rispetto delle forme di acquisizione conoscitiva dei fatti, dovendo la Corte di
legittimità accertare, anzitutto, la validità e l'utilizzabilità dei mezzi di prova, nel solco del motivo di
ricorso di cui all'art. 606, comma 1, lett. c) c.p.p., riguardante la deducibilità dell'inosservanza delle
norme processuali stabilite a pena di nullità, di inutilizzabilità, di inammissibilità o di decadenza. Si
tratta di un'operazione che, nell'ordine logico, precede lo scrutinio della logicità della valutazione
delle prove compiuta dal giudice di merito, con la specifica funzione di assicurare la legalità del
procedimento probatorio, articolato in una sequenza in cui sono individuabili le fasi dell'ammissione,
dell'assunzione/acquisizione e della valutazione della prova (cfr. Cass., Sez. Un., 25 febbraio 1998,
Gerina, in Foro it., 1998, II, 225). A questo primo momento del controllo della motivazione in
fatto, vertente sulla legittimità delle acquisizioni probatorie, segue quello concernente il vaglio della
logicità della interpretazione delle prove impiegate nella ricostruzione del fatto, nella prospettiva
tracciata dal motivo di ricorso indicato dall'art. 606, comma 1, lett. e).
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Quest'ultima peculiare funzione della Corte di Cassazione costituisce l'oggetto della presente
relazione.
Il sindacato della logicità della motivazione è normativamente configurato come un’analisi
retrospettiva del ragionamento probatorio, che non incide sul contenuto della valutazione probatoria
già compiuta dal giudice di merito, ma è funzionalmente orientata a controllarne la struttura razionale
muovendo dalle conclusioni e ripercorrendo all’indietro la linea logica della motivazione, al fine di
verificare la validità delle inferenze che la compongono e i nessi che legano le diverse inferenze
(TARUFFO, La motivazione della sentenza civile, 1975, 583 ss.).
L’art. 606, comma 1, lett. e) del codice vigente ha alle spalle il nutrito e approfondito
dibattito sviluppatosi nel precedente sistema processuale sui limiti del sindacato logico della
motivazione e sui problemi di funzionamento della Corte di cassazione. Di tale dibattito era ben
consapevole il legislatore del 1988, che, con la predetta disposizione, ha inteso compiere una scelta
ben precisa, col dichiarato proposito di contenere l’ambito del sindacato logico entro confini
rigorosi, ritenuti idonei a preservare l’integrità del ruolo della Corte di legittimità. Le esplicite
enunciazioni contenute nella Relazione al progetto preliminare del codice confermano, in modo non
equivoco, la reale portata e le finalità della nuova disciplina. Infatti, dopo avere rilevato che “alcuni
difetti vistosi e gravi sono indiscutibili” ed avere precisato che il silenzio della legge-delega sul
ricorso per cassazione non va interpretato come sottovalutazione del tema ma risponde all’intento di
non introdurre, da un canto, innovazioni radicali e di affidare, dall’altro, al legislatore delegato il
compito di una revisione razionalizzatrice della materia, la Relazione chiarisce che “è sembrato che
fosse opportuno non già escludere qualunque sindacato sulla motivazione, ma piuttosto contenerlo,
in modo da evitare che il controllo della cassazione anziché sui requisiti minimi di esistenza,
completezza e logicità della motivazione si eserciti, muovendo dagli atti del processo, sul contenuto
della decisione”, essendo parso “fortemente rischioso amputare la giurisdizione della possibilità di
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esercitare un sindacato finale su motivazioni in cui si traggono conclusioni prive di giustificazione o
incompatibili con le premesse, ovvero si adottano massime di esperienza contrastanti con <<il senso
comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento>>”: con la precisazione che “il
controllo di logicità, che, per sua natura, rimane all’interno del documento con cui si esterna la
decisione, senza necessità di riscontro con gli atti del processo, è apparso in tutto compatibile con
l’esigenza, da più parti avanzata e condivisa, di circoscrivere al massimo l'oggetto del giudizio di
legittimità” (p. 132, 133).
L'esame della disposizione di cui all’art. 606, 1° comma, lett. e) rivela che la sua struttura
poggia sui seguenti tre punti: a) la mancanza e l’illogicità della motivazione rilevano direttamente
come autonomo motivo di ricorso, analogamente a quanto previsto dal codice di procedura civile
(art. 360, 1° comma, n. 5): tale circostanza segna una significativa differenza rispetto alla disciplina
dettata dal codice del 1930, in cui la deducibilità del vizio in cassazione passava per il tramite
dall’art. 475 n. 3, che sanciva la nullità della sentenza per mancanza o per contraddittorietà della
motivazione; b) l’illogicità deve essere “manifesta”, nel senso che le fratture del discorso
giustificativo e l’assenza dei necessari passaggi logici del ragionamento probatorio devono essere di
evidenza tale da essere immediatamente percepibili; c) il vizio deve risultare dal testo del
provvedimento impugnato.
Riguardo al requisito del carattere manifesto della illogicità della motivazione si è osservato,
in dottrina, che l’illogicità coincide sostanzialmente con la contraddittorietà di cui all’art. 475 n. 3 del
codice del 1930 e che l’aggettivo “manifesta” dovrebbe costituire un “limite alla rilevabilità del vizio,
del quale però è difficile prevedere il ruolo effettivo” (LATTANZI, Controllo del diritto e del fatto
in cassazione, in Cass. pen., 1992, 816; cfr., inoltre, FERRUA, Il sindacato di legittimità sul vizio
di motivazione nel nuovo codice di procedura penale, id., 1990, 965).
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Alla luce dell’esperienza dei primi dieci anni di applicazione del codice vigente, appare
indubbio, però, che un efficace strumento di salvaguardia dei confini del giudizio di legittimità è stato
rappresentato, più che dal carattere manifesto dell'illogicità, dalla limitazione della rilevabilità dei soli
vizi logici risultanti dal testo del provvedimento impugnato: ed, infatti, circoscrivere il sindacato alla
struttura interna della motivazione, eliminando la possibilità di esame degli atti probatori contenuti
nel fascicolo processuale, significa indubbiamente ridurre il rischio che il controllo devoluto al
giudice di legittimità possa estendersi alla valutazione ricostruttiva dei fatti ed ai relativi
apprezzamenti riservati al giudice di merito. Né deve pensarsi che l’avere racchiuso il sindacato
logico della motivazione nell’ambito del testo del provvedimento impugnato corrisponda ad una
scelta estemporanea del legislatore delegato: una simile soluzione, da tempo auspicata da taluni
settori della dottrina, risultava, difatti, già prefigurata, oltre sessanta anni or sono, nella classica opera
di Guido Calogero, il quale osservava che “potrà statuirsi che una motivazione in fatto sia cassabile
come insufficiente quando la sua incongruenza espositiva o probatoria appaia evidente alla semplice
lettura della sentenza e che non lo sia quando per tale constatazione sia necessario il confronto della
sentenza con altri documenti” (La logica del giudice e il suo controllo in cassazione, 1964,
ristampa, 297).
L’inequivoco dato normativo fissato dall’art. 606, 1° comma, lett. e), che riduce l’area dei
vizi logici denunciabili in cassazione a quelli interni alla motivazione sviluppata nel testo del
provvedimento impugnato, in dottrina è stato oggetto di accese discussioni sulla coerenza
sistematica del precetto, tanto che se alcuni hanno sostenuto che “vietare alla cassazione l’accesso
alle fonti probatorie equivarrebbe ad accettare scientemente il rischio che diventi irrevocabile la
condanna dell’innocente” (FERRUA, Il sindacato di legittimità cit., 965), altri hanno obiettato che
gli sconfinamenti nel merito non riescono affatto a garantire la giustizia delle decisioni e che le
“letture” degli atti fatte dalla Cassazione garantiscono assai poco, non potendosi aprioristicamente
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supporre che il giudice di legittimità sia in grado di valutare le prove meglio del giudice di merito e
sia dotato della “straordinaria capacità di distinguere in modo infallibile l’innocente dal colpevole”
(LATTANZI, Controllo del diritto e del fatto in cassazione cit., 818).
Non è contestabile che la delimitazione del potere di cognizione della Corte di Cassazione al
controllo del testo del provvedimento rappresenta una delle più salienti innovazioni introdotte con il
preciso intento di delimitare la sagoma del sindacato della logicità della motivazione in termini tali da
contemperare la salvaguardia della funzione di legittimità con la necessità di assicurare, in ogni caso,
la presenza delle condizioni minime necessarie per l'effettiva osservanza dell'obbligo della
motivazione, in mancanza delle quali questa sarebbe ridotta a mera apparenza. Anche se la disciplina
accolta dal codice ha carattere indubbiamente compromissorio, deve riconoscersi che essa attua un
equilibrato e razionale bilanciamento tra concorrenti esigenze all'interno della scala di valori
costituzionalmente rilevanti. In questo senso è orientata la costante giurisprudenza di legittimità, che
più volte ha giudicato manifestamente infondate le questioni di costituzionalità dell'art. 606, comma
1, lett. e) c.p.p., sollevate in relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost., con riferimento all'inciso <<quando
il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato>>: è stato ritenuto, infatti, che è rimesso alle
scelte discrezionali del legislatore ordinario il disegno dei contorni del controllo di legittimità sui
motivi dei provvedimenti giurisdizionali, che può anche arrestarsi alla "garanzia minima voluta dal
legislatore costituzionale", riguardante l'esistenza della motivazione in sé e l'identificazione "ab
intrinseco", attraverso il medesimo tessuto argomentativo in essa sviluppato, della concreta ed
effettiva "ratio decidendi" sulle questioni di fatto, senza estendersi al confronto del suo contenuto
con le risultanze del processo (Cass., Sez. I, 13 novembre 1995, Kanoute, rv. 203126; in senso
conforme v. Cass., Sez. IV, 26 novembre 1993, Maurizio, in Foro it., Rep. 1994, voce Cassazione
penale, n. 19; Cass., Sez. I, 11 ottobre 1993, Marsala, ibid., n. 20).
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3. - I limiti del controllo della logicità della motivazione nella giurisprudenza della
Cassazione.
L’esame delle astratte enunciazioni di principio contenute nella giurisprudenza della
Cassazione pone in risalto che, tranne che in isolate pronunce, risultano normalmente ribaditi i limiti
del sindacato dei vizi logici della motivazione stabiliti dall’art. 606, 1° comma, lett. e), salvo, poi, a
dovere riscontrare, in talune decisioni, che i principi sono stati applicati in modo non corretto e che il
giudice di legittimità ha inciso sul merito della valutazione probatoria, sostituendo un proprio
apprezzamento a quello contenuto nella sentenza impugnata.
Nelle massime è ricorrente l’affermazione che il controllo della logicità della motivazione va
esercitato sulla coordinazione delle proposizioni e dei passaggi attraverso i quali si sviluppa il tessuto
argomentativo del provvedimento impugnato, senza la possibilità di verificare se i risultati
dell’interpretazione delle prove siano effettivamente corrispondenti alle acquisizioni probatorie
risultanti dagli atti del processo. In particolare, può considerarsi consolidato il principio per cui,
nella verifica della fondatezza o non del motivo di ricorso ex art. 606, comma 1, lett. e), il compito
della Corte di cassazione non è quello di accertare l’intrinseca adeguatezza dei risultati
dell’interpretazione delle prove, ma quello ben diverso di stabilire se i giudici di merito abbiano
esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano dato esauriente risposta alle deduzioni
delle parti e se nell’interpretazione delle prove abbiano esattamente applicato le regole della logica,
le massime di comune esperienza e i criteri legali dettati in tema di valutazione delle prove, in modo
da fornire la giustificazione razionale della scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre
(Cass., Sez. I, 21 settembre 1999, Guglielmi ed altri, rv. 214567; Cass., Sez. Un., 30 aprile 1997,
Dessimone, rv. 207944).
E’ frequente, inoltre, la precisazione che la deduzione del vizio logico in sede di legittimità
deve tendere a dimostrare che il testo del provvedimento è manifestamente carente di motivazione
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e/o di logica e non può risolversi, invece, nell’opporre alla logica valutazione degli atti effettuata dal
giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica (Cass., Sez. Un., 19 giugno
1996, Di Francesco, rv. 205617): ditalchè la verifica deve essere limitata alla coerenza strutturale
della sentenza, in sé e per sé considerata, alla stregua degli stessi parametri valutativi cui essa è
“geneticamente” informata, ancorchè questi siano ipoteticamente rimpiazzabili con altri non meno
validi e congruenti (Cass., Sez. Un., 31 maggio 2000, Jakani, rv. 216258). Ed ancora: è stato
chiarito che l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte
circoscritto, dovendo il sindacato essere limitato, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare
l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza
possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per
sostanziare il suo convincimento o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali, con la
specificazione che l’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere manifesta, cioè
di spessore tale da risultare percepibile “ictu oculi”, dovendo il sindacato di legittimità essere limitato
a rilievi di macroscopica evidenza, mentre restano non influenti le minime incongruenze e devono
considerarsi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano
logicamente incompatibili con la decisione adottata, purchè siano spiegate in modo logico e adeguato
le ragioni del convincimento (Cass., Sez. Un., 24 novembre 1999, Spina, rv. 214794).
A quest’ultimo riguardo, va sottolineato che la portata del sindacato sulla logicità è
necessariamente conformata alla struttura della motivazione e alle condizioni richieste per
l’adempimento del relativo obbligo, sussistendo una inscindibile correlazione tra controllo di
legittimità, forme dell’argomentazione giudiziaria e tecnica di redazione della motivazione. E’
costante l’indirizzo che configura l’obbligo della motivazione in termini tali da ritenerlo adempiuto
allorchè il giudice di merito abbia dato atto delle ragioni del suo convincimento, senza che sia
necessario l'esame di tutte le deduzioni difensive delle parti e delle risultanze processuali che siano
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logicamente incompatibili con la decisione adottata. In particolare, per quanto riguarda il
ragionamento probatorio, è stato precisato che, ai fini della correttezza e della logicità della
motivazione, non occorre che il giudice di merito abbia dato conto della valutazione di ogni
deposizione assunta e di ogni prova, come di altre possibili ricostruzioni dei fatti che possano
condurre ad eventuali soluzioni diverse da quella adottata, egualmente fornite di coerenza logica, ma
è sufficiente che lo stesso giudice abbia indicato le fonti di prova di cui ha tenuto conto per la
formazione del suo convincimento e, quindi, della decisione, ricostruendo il fatto in modo plausibile
con ragionamento logico e argomentato (Cass., Sez. VI, 24 ottobre 1997, Todini, rv. 209490).
L’adozione di un simile modello di motivazione spiega le ragioni per le quali si è ritenuto che
non possano giustificare l’annullamento minime incongruenze argomentative o l’omessa esposizione
di elementi di valutazione che, ad avviso della parte, avrebbero potuto dar luogo ad una diversa
decisione, semprechè tali elementi non siano muniti di un chiaro e inequivocabile carattere di
decisività e non risultino, di per sé, obiettivamente e intrinsecamente idonei a determinare una diversa
decisione (Cass., Sez. I, 9 marzo 1995, Pischedda, rv. 200705). In argomento, si è spiegato che non
costituisce vizio della motivazione qualsiasi omissione concernente l’analisi di determinati elementi
probatori, in quanto la rilevanza dei singoli dati non può essere accertata estrapolandoli dal contesto
in cui essi sono inseriti, ma devono essere posti a confronto con il complesso probatorio, dal
momento che soltanto una valutazione globale e una visione di insieme permettono di verificare se
essi rivestano realmente consistenza decisiva oppure se risultino inidonei a scuotere la compattezza
logica dell’impianto argomentativo, dovendo intendersi, in quest’ultimo caso, implicitamente
confutati (Cass., Sez. I, 11 novembre 1998, Maniscalco, rv. 212053).
Le posizioni della giurisprudenza di legittimità rivelano, dunque, che non è considerata
automatica causa di annullamento la motivazione incompleta né quella implicita quando l’apparato
logico relativo agli elementi probatori ritenuti rilevanti costituisca diretta ed inequivoca confutazione
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degli elementi non menzionati, a meno che questi presentino determinante efficienza e concludenza
probatoria, tanto da giustificare, di per sé, una differente ricostruzione del fatto e da ribaltare gli esiti
della valutazione delle prove.
Si è altresì escluso che integri vizio logico della motivazione, utilmente deducidibile nel
giudizio di legittimità, l’ipotesi della motivazione insufficiente, che ricorre quando il giudice, pur
dando conto delle proprie conclusioni e delle prove che le sorreggono, non espliciti compiutamente i
criteri di valutazione che sulla base di quelle prove consentono di pervenire a quelle conclusioni:
infatti, l’art. 547 c.p.p. esplicitamente dispone che la motivazione insufficiente non costituisce causa
di nullità della sentenza e deve essere completata con le forme della correzione di cui all’art. 130
(Cass., Sez. V, 24 gennaio 1994, Aulicino, Cass. pen., 1995, 143, con nota di IACOVIELLO,
Scelta decisionale <<giusta>> e motivazione insufficiente: gli incerti poteri del giudice di
legittimità). Sul tema della motivazione insufficiente è riscontrabile, dunque, una profonda differenza
rispetto alla previsione dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., che espressamente ammette il ricorso per
cassazione per insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, prospettato dalle
parti o rilevabile d‘ufficio.
Il vizio di illogicità è, invece, certamente riscontrabile nell’ipotesi di motivazione
contraddittoria, caratterizzata dalla circostanza che tra gli enunciati probatori sui quali è basata la
ricostruzione del fatto sussistono un contrasto, un'antinomia e una inconciliabilità di spessore tale da
dissolvere la coerenza del discorso giustificativo della decisione.
L'adeguatezza della motivazione -caratterizzata, nel disegno del legislatore, dalla
"concisione" e dall'essenzialità espositiva- è ben compatibile, dunque, con la tecnica argomentativa
della motivazione implicita, la cui praticabilità, tuttavia, non può considerarsi senza limiti, dato che
la legge processuale impone l'esplicita motivazione su taluni specifici temi della decisione. L'art. 546,
comma 1, lett. e) c.p.p. prescrive "l'enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non
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attendibili le prove contrarie" e l'art. 292, comma 2, lett. c-bis c.p.p., in materia di motivazione delle
misure cautelari, rende obbligatoria "l'esposizione dei motivi per i quali sono stati ritenuti non
rilevanti gli elementi forniti dalla difesa". Tali norme rappresentano diretta esplicazione del principio
del diritto alla prova e del principio del contraddittorio, che si pongono anche come precise regole di
giudizio sia nel momento della decisione sia in quello della giustificazione del ragionamento
probatorio. Pertanto, l'inosservanza delle predette disposizioni non può non pregiudicare la
completezza della motivazione e renderla censurabile a norma dell'art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p.,
tranne l'ipotesi in cui le deduzioni probatorie della difesa risultino manifestamente irrilevanti ovvero
debbano intendersi necessariamente disattese alla luce delle ragioni enunciate dal giudice di merito
per giustificare i risultati probatori accolti.
4. - Le regole logiche del ragionamento probatorio.
Accertato che il sindacato dei vizi logici della motivazione tende a verificare il grado di
plausibilità razionale dell’asserzione probatoria, occorre sottoporre ai necessari approfondimenti
l’enunciazione della massima per cui il sindacato della motivazione deve essere esercitato “ab
extrinseco”, sul metodo di valutazione della prova, senza incidere sul contenuto dell’apprezzamento
del giudice di merito e al solo fine di controllare che la ricostruzione del fatto sia avvenuta con
l’osservanza delle regole della logica. In altri termini, è necessario stabilire quali siano le regole
logiche alle quali deve essere uniformato il ragionamento probatorio e come debba essere esercitato
il sindacato finalizzato al vaglio della struttura razionale della motivazione e della corrispondenza del
discorso giustificativo ai comuni canoni epistemologici, tenendo presente che il controllo della
motivazione “è agganciato a specifiche regulae iuris, che, pur avendo ad oggetto il giudizio sul fatto,
si traducono in regole metodologiche a base del legale convincimento in fatto”: sicchè la decisione
non conforme ai criteri e al metodo prescritti dall’ordinamento giuridico è viziata da un error iuris,
poiché l’obbligo del giudice di merito di dare al suo convincimento una base razionale “si sostanzia
15
nell’obbligo di rispettare norme e principi giuridici” (BARGI, Il ricorso per cassazione, in Le
impugnazioni penali a cura di Gaito, 1998, II, 522).
La giurisprudenza è ferma nel ritenere che il giudizio relativo all’accertamento del fatto è
fondato sulla tecnica argomentativa del sillogismo, all’interno del quale il passaggio dalla fonte della
prova al fatto accertato è reso possibile dalla regola di inferenza enucleabile dalla massima di
esperienza appropriata. I tre momenti dell’articolazione dello schema sillogistico sono individuati in
una premessa maggiore, costituita dalla massima di esperienza, in una premessa minore,
rappresentata dal fatto noto, e nella conclusione corrispondente al risultato probatorio. La coerenza,
la congruenza e la compattezza logica dello sviluppo del ragionamento sillogistico concretano la
giustificazione interna della valutazione probatoria, la cui affidabilità dimostrativa postula, tuttavia,
anche la giustificazione esterna della massima di esperienza, che assume il ruolo di regola inferenziale
su cui poggia l’argomentazione deduttiva conducente alla conclusione probatoria (NAPPI, Il
controllo della Corte di cassazione sul ragionamento probatorio del giudice di merito, in Cass.
pen., 1998, 1262).
Il perno dell’argomentazione probatoria è, dunque, costituito dalla scelta da parte del giudice
di merito delle massime di esperienza da utilizzare nell’interpretazione dei dati probatori e proprio a
tale scelta sembra fare riferimento il primo comma dell’art. 192 c.p.p. allorchè specifica che nella
motivazione in fatto il giudice deve dare conto dei “criteri adottati” (cfr. Rel. prel., p. 61).
La massima di esperienza costituisce una regola extranormativa ricavata dall’esperienza
passata e fondata sulla rilevazione dell’id quod plerumque accidit, mediante la quale è accertato,
con un elevato grado di probabilità, il nesso che lega tra loro due accadimenti umani, onde la base
dimostrativa della regola di esperienza poggia su una verifica empirica condotta con criteri obiettivi,
sulla base di una qualificata frequenza statistica, alla cui stregua la massima acquista affidabilità
razionale ed è elevata a premessa maggiore di un paradigma inferenziale, che vede, nella premessa
16
minore, proprio la fattispecie concreta (NOBILI, Nuove polemiche sulle cosiddette <<massime
d’esperienza>>, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1969, 125 ss.). E’ stato altresì chiarito che le
massime di esperienza, operando come criterio di inferenza all’interno del ragionamento probatorio,
implicano la necessità di introdurre un criterio di razionalità nel loro impiego che tenga conto della
loro diffusione nella cultura media e della natura specifica della massima adottata, dato che la validità
razionale dell’inferenza dipende dall’analisi critica delle massime che di volta in volta vengono
impiegate (TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, 1992, 337 ss.).
Occorre stabilire come venga esercitato dalla Corte di cassazione il controllo sullo sviluppo
dello schema sillogistico attraverso il quale si è esplicitato il giudizio sul fatto.
Nella Relazione al progetto preliminare è chiarito che il sindacato “non può spingersi oltre la
soglia della manifesta illogicità, cioè non può giustificare la sostituzione dei criteri e delle massime di
esperienza adottati dai giudici di merito con quelli prescelti invece dalla cassazione” (p. 133). La
precisazione deve essere condivisa per l’evidente ragione che, se la Corte provvedesse a sostituire la
massima che rappresenta la regola inferenziale del ragionamento probatorio, indubbiamente si
realizzerebbe una nuova valutazione in fatto, sovrapposta a quella compiuta dal giudice di merito. In
questi sensi è orientata la giurisprudenza di legittimità, che ritiene inibito alla Corte di cassazione
l’inserimento nel ragionamento probatorio di massime di esperienza alternative a quelle, non
irrazionali, adottate dal giudice di legittimità ( Cass., Sez. I, 11 novembre 1998, P.M. in proc.
Maniscalco ed altri, rv. 212054; Cass., Sez. VI, 18 gennaio 1995, Lusetti, rv. 201355).
Escludere, però, la possibilità di sostituzione della regola di esperienza non significa che alla
Corte di legittimità sia precluso il controllo della razionalità della scelta della massima posta a base
del ragionamento probatorio, dato che la verifica della correttezza metodologica della giustificazione
esterna della regola di inferenza si traduce non in un sindacato sul contenuto della decisione
probatoria, ma, appunto, proprio nel controllo ab extrinseco del criterio di valutazione adottato dal
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giudice di merito e della coerenza dell’argomentazione probatoria, nonché della plausibilità dei
risultati. Pertanto, deve senz’altro condividersi l’opinione prevalente in dottrina che respinge la tesi
secondo cui “il giudice di legittimità dovrebbe ridurre il suo compito alla semplice registrazione
formale della presenza della massima di esperienza della sequenza argomentativa, senza porre in
discussione la validità razionale della sua utilizzazione, o quanto meno la sua corrispondenza al
patrimonio dell’esperienza passata”, poiché, al contrario, nella situazione in esame “non si tratta di
sovrapporre un giudizio (di legittimità) ad un altro (di merito) per rendere giusta la decisione; bensì
di verificare la logicità della scelta della massima di esperienza e, ancor prima, se quella definita tale
sia in realtà una vera regola di esperienza secondo la nozione più sopra indicata: tutto ciò senza
involgere in alcun modo il controllo del discorso giustificativo ed il riesame delle risultanze
processuali” (BARGI, Il ricorso per cassazione cit., 539 e 541). In termini estremamente lapidari e
suggestivi, si è osservato che se le massime di esperienza non fossero sindacabili, “ogni conclusione
farneticata sarebbe invulnerabile” (CORDERO, Procedura penale, 1998, 1032).
La posizione favorevole al controllo delle massime di esperienza è condivisa dalla
giurisprudenza assolutamente prevalente in base alla premessa che il sindacato della logicità non può
non esplicarsi anche sui criteri adottati per la valutazione delle prove, i quali, secondo l’espressa
previsione dell’art. 192, comma 1, c.p.p., devono essere enunciati nella motivazione in fatto,
costituendo l’impalcatura della struttura razionale della decisione. E’ stato, così , deciso che le
massime di esperienza sono correlate ad una “verifica empirica della probabile sussistenza di una
situazione di fatto basata sull’id quod plerumque accidit”, non potendosi, però, equiparare la
massima di esperienza ad una congettura col fare discendere una conseguenza univoca da una
premessa ipotetica attraverso un procedimento sillogistico in cui rimane incerto il primo termine del
sillogismo (Cass., Sez. VI, 13 agosto 1996, Pacifico, rv. 206121; Cass., Sez. VI, 28 marzo 1995,
Layne ed altri, rv. 201152; Cass., Sez. I, 22 ottobre 1990, Grilli ed altri, rv. 186149). Con lucida
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consapevolezza dei reali termini della problematica, nel vigore del codice del 1930 è stato precisato
che -anche se il giudizio sulla rilevanza, attendibilità ed affidabilità delle fonti di prova è devoluto al
giudice di merito e se la scelta compiuta non può essere sindacata nel giudizio di legittimità-
l’ordinamento conferisce alle parti, al fine di evitare il rischio che la libertà di convincimento venga
esercitata in modo arbitrario, il potere di richiedere il controllo della motivazione della decisione,
teso ad accertare se il giudice abbia indicato le ragioni del suo convincimento e se queste ultime
siano plausibili, in quanto fondate su tutto il materiale probatorio (principio di completezza), se siano
aderenti a quest’ultimo (principio di correttezza) e se le conclusioni risultino il frutto di sillogismi
logicamente ineccepibili e di massime di esperienza riconosciute come tali da chiunque e
generalmente accettate (principio di logicità) (Cass., 22 maggio 1989, Barranca, rv. 182290). In
questa stessa prospettiva interpretativa è stato ritenuto che deve essere censurata per illogicità la
giustificazione esterna del ragionamento probatorio se “le massime di esperienza ivi richiamate, le
deduzioni e le conclusioni tratte in sede di merito contrastino con il senso comune oppure superino i
limiti di una logica e plausibile opinabilità di apprezzamento” (Cass., Sez. II, 25 febbraio 1994,
Modesto, rv. 196955), ovvero se il ragionamento probatorio muova da premesse arbitrarie o se, pur
essendo queste accettabili, le conclusioni manchino di conseguenzialità (Cass., Sez. I, 30 novembre
1995, Riggio, rv. 203673).
Nella ricostruzione dei fatti di criminalità organizzata la valutazione probatoria passa sovente
attraverso l’impiego di una tecnica di argomentazione probatoria in cui trova largo spazio
l’utilizzazione delle massime di esperienza ricavate dalle discipline sociologiche e criminologiche,
nella convinzione che proficui dati interpretativi dell'agire delinquenziale possano trarsi dagli studi
che documentano la reiterazione di determinati comportamenti e l’osservanza di precise regole di
condotta nei contesti geografici, sociali, culturali all’interno dei quali si sviluppano tali peculiari
forme di delinquenza. Il metodo non è, di per sé, arbitrario, atteso che lo stesso modello di
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associazione mafiosa di cui all’art. 416-bis c.p. è stato configurato dalla l. n. 646 del 1982 mediante
la tipicizzazione di regole di esperienza tratte dall’analisi sociologica delle principali organizzazioni
criminali, prima fra tutte quella denominata “cosa nostra”. I dati desunti dalle indagini di tipo socio-
criminologico sono stati impiegati, per esempio, a proposito della responsabilità dei “capi
mandamento”, componenti della “cupola” o “commissione provinciale” di “cosa nostra”,
relativamente ai c.d. omicidi “eccellenti” ( cfr. Cass., Sez. I, 14 luglio 1994, Buscemi, rv. 199305) o
della prova dell’appartenenza al sodalizio mafioso tratta dall’attribuzione della qualifica di “uomo
d’onore”, accompagnata da presentazione “rituale” (Cass., Sez. I, 30 settembre 1994, Di Martino,
rv. 199943).
La giurisprudenza della Corte di cassazione non si presenta su posizioni univoche in ordine
alla possibilità di adottare massime di esperienza desunte da indagini sociologiche. Ad un primo
orientamento dichiaratosi favorevole all’adozione di un simile metodo per l’interpretazione degli
elementi probatori, sul presupposto che la mafia è dotata di una precisa identità sociologica (Cass.,
Sez. I, 30 gennaio 1992, Abbate ed altri, in Foro it., 1993, II, 15, con nota di FIANDACA; Cass.,
Sez. I 25 marzo 1982, Di Stefano ed altri, in Foro it., 1983, II, 360; Cass., Sez. I, 24 gennaio 1977,
Condelli, rv. 135978), fa riscontro un opposto indirizzo che considera arbitraria l’enunciazione di
criteri generali e di massime di esperienza validi per la ricostruzione dei fenomeni mafiosi (Cass., Sez.
VI, 16 dicembre 1985, Spatola, rv. 171998; Cass., Sez. I, 29 maggio 1989, Ollio, rv. 181886).
Di recente, la Cassazione si è pronunciata su tale delicata questione ritenendo che, nella
valutazione delle prove, il giudice di merito possa fare ricorso anche ai paradigmi apprestati dalle
scienze socio-criminologiche, dato che queste possono rappresentare “utili strumenti di
interpretazione dei risultati probatori, dopo averne vagliato, caso per caso, l’effettiva idoneità ad
essere assunti ad attendibili massime di esperienza”, con l’avvertenza, però, che la valutazione del
giudice “non deve uniformarsi a teoremi ed astrazioni, ma deve fondarsi sul rigoroso vaglio
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dell’effettivo grado di inferenza delle massime di esperienza elaborate dalle discipline socio-
criminologiche e deve, soprattutto, stabilirne la piena rispondenza alle specifiche e peculiari
risultanze probatorie, che, sul piano giudiziario, rappresentano l’imprescindibile e determinante
strumento per la ricostruzione dei fatti di criminalità organizzata dedotti nel singolo processo”: ed in
applicazione di tali principi è stato ritenuto che la valutazione dei rapporti tra mafia ed imprenditori
in zone controllate da organizzazioni criminali non può essere fondata su stereotipi socio-criminali,
ma deve trovare base giustificativa nelle risultanze probatorie attinenti al caso di specie per
distinguere, in concreto, la fluida linea di confine tra situazioni di "contiguità compiacente" e
situazioni di "contiguità soggiacente", dato che nel primo caso l'imprenditore è complice
dell'associazione mafiosa e nel secondo è, invece, la vittima delle attività delinquenziali (Cass., Sez.
I, 5 gennaio 1999, P.M. in proc. Cabib, in Foro it., 1999, II, 631 con nota di VISCONTI).
5. - La mancanza della motivazione.
La mancanza della motivazione è esplicitamente annoverata dall’art. 606, comma 1, lett. e)
tra i vizi della motivazione censurabili dalla Corte di legittimità.
E’ opinione unanime che l’omessa motivazione non deve essere intesa unicamente in senso
materiale o grafico (ossia, con riguardo all’ipotesi, raramente riscontrabile, dell’inesistenza della
parte del documento destinata a contenere i “motivi della decisione”), ma anche come mancanza dei
“singoli momenti esplicativi, sempre però che questi siano ineliminabili nel rapporto tra i temi sui
quali si doveva esercitare il giudizio e il contenuto di questo” (Relazione al progetto preliminare, p.
133). Il vizio in esame è stato riconosciuto anche quando “la motivazione adottata non sia
rispondente ai requisiti minimi di esistenza, completezza e logicità del discorso argomentativo su cui
è fondata la decisione, mancando di specifici momenti esplicativi anche in relazione alle critiche
pertinenti dedotte dalle parti (Cass., Sez. IV, 15 novembre 1996, Izzi, rv. 206322; Cass., Sez. I, 25
maggio 1995, Di Martino, rv. 202133; Cass., Sez. I, 3 febbraio 1994, Sciacca, rv. 196361), tanto che
21
risulti non intellegibile il filo logico seguito dal giudice di merito nella ricostruzione del fatto o che le
linee argomentative si presentino del tutto scoordinate e incoerenti, al punto che rimangono
assolutamente incomprensibili le ragioni che hanno giustificato la decisione (Cass., Sez. I, 23
novembre 1993, Russi, in Mass. Cass. pen., 1994, fasc. 3, 64).
Il medesimo vizio di mancanza della motivazione è stato ritenuto esistente anche in caso di
motivazione con l’uso di modulo a stampa, nel quale, in assenza di qualsiasi integrazione riferita al
caso di specie, siano contenute espressioni riproducenti pedissequamente l’inesistenza delle
condizioni previste dalla legge per la pronuncia di una decisione favorevole (Cass., Sez. I, 22 aprile
1994, Caldaras, rv. 197465).
Tutte le ipotesi esaminate sono riconducibili nella figura della motivazione apparente,
caratterizzata dalla totale assenza di un qualsiasi discorso giustificativo della decisione e, dunque,
coincidente col vizio di mancanza della motivazione: allo stesso tipo di vizio fanno riferimento
talune sentenze quando qualificano come motivazione fittizia quella che non consente di individuare
la ratio decidendi per il fatto che il giudice di merito si è limitato ad enunciare frasi stereotipe o di
stile (Cass., Sez. I, 13 marzo 1992, P.M. in proc. Bonati ed altri, in Arch. nuova proc. pen., 1992,
113).
Nell’esaminare i rapporti tra controllo di legittimità e conformazione legale dell’obbligo di
motivazione si è già visto che la giurisprudenza della Cassazione ammette la legittimità della
motivazione implicita, precisando che il giudice di merito, per giustificare la decisione, non deve
esaminare tutte le emergenze probatorie ma soltanto quelle ritenute essenziali per la formazione del
suo convincimento, sicchè quelle non menzionate devono intendersi implicitamente disattese.
Inoltre, si è ritenuto non configurabile il vizio di mancanza della motivazione quando
l’omissione riguardi temi di indagine non dedotti con i motivi di appello (Cass., Sez. IV, 24 giugno
1993, Foti, rv. 195324; Cass., Sez. I, 25 febbraio 1991, Pace, rv. 187950) o dedotti con motivi che
22
rendono inammissibile il ricorso perché generici o manifestamente infondati (Cass., Sez. V, 18
febbraio 1992, Cremonini).
Le posizioni della giurisprudenza di legittimità sono tendenzialmente favorevoli ad ammettere
la motivazione per relationem e una simile propensione ha ricevuto l’avallo delle Sezioni Unite
allorchè è stato ritenuto che non può ritenersi mancante di motivazione un’ordinanza di custodia
cautelare che, relativamente all’esposizione degli indizi di colpevolezza, faccia esclusivo riferimento
alle argomentazioni contenute nella richiesta del pubblico ministero (Cass., Sez. Un., 26 febbraio
1991, Bruno, in Cass. pen., 1991, II, 490). L'utilizzazione della motivazione per relationem occupa
un ruolo centrale relativamente al controllo della sentenza di appello, i cui vuoti motivazionali sono
ritenuti integrabili attraverso il riferimento alla sentenza di primo grado, sul presupposto che la
decisione di secondo grado non può essere valutata isolatamente, ma deve essere esaminata in stretta
ed essenziale correlazione con quella che l'ha preceduta, allorchè entrambe si sviluppino secondo
linee logiche e giuridiche pienamente concordanti, tanto che la motivazione della prima si salda con
quella della seconda fino a formare un solo complessivo corpo argomentativo e un tutto unico e
inscindibile. Tuttavia, sono stati giustamente precisati i limiti della motivazione per relationem
sottolineando che il mero riferimento alla sentenza di primo grado è consentito soltanto quando le
censure formulate contro la decisione impugnata non contengano elementi ed argomenti diversi da
quelli già esaminati e disattesi dal giudice di primo grado: per contro, il rinvio meramente adesivo
alla sentenza appellata è stato giudicato violazione dell’obbligo della motivazione quando con
l'appello sia stata sollecitata una valutazione critica della decisione con specifiche censure o siano
intervenute nel giudizio di secondo grado nuove acquisizioni probatorie (cfr. Cass., Sez. Un., 4
febbraio 1992, Ballan ed altri, in Cass. pen., 1992, 2663; Cass., Sez. IV, 22 dicembre 1995, rv.
204175; Cass., Sez. IV, 25 febbraio 1999, Zodi, rv. 213135; da ultimo, v. Cass., Sez. I, 23 ottobre
2000, Russo ed altri).
23
E’ importante segnalare che la giurisprudenza di legittimità ha attenuato il rigore della
disposizione che richiede la desumibilità della mancanza di motivazione dal testo del provvedimento
impugnato, precisando che il divieto riguarda soltanto i veri e propri atti probatori e non
indiscriminatamente tutti gli atti del processo, con la conseguenza che l’esistenza del vizio può essere
accertata anche mediante l’esame dei motivi di appello, dato che questi segnano l’ambito della
cognizione devoluta al giudice di secondo grado e rendono, quindi, verificabile l’omessa
motivazione su uno dei temi per i quali sussisteva il potere-dovere di esporre le ragioni della
decisione (Cass., Sez. Un., 3° aprile 1997, Dessimone, cit.; Cass., Sez. II, 21 dicembre 1994, in
Giur. It., 1996, II, 476, con nota di SMERIGLIO).
La giurisprudenza prevalente esclude che la mancanza della motivazione possa essere
considerata come "error in procedendo" censurabile a norma dell’art. 606, 1° comma, lett. c) c.p.p.
e nega, quindi, che l’omessa motivazione possa qualificarsi come violazione di una norma
processuale stabilita a pena di nullità, ritenendo conseguentemente che tale vizio possa essere
dedotto soltanto nei limiti stabiliti dalla lett. e) dell’art. 606 per la ragione che, rispetto alla prima,
quest’ultima disposizione ha carattere di specialità (Cass., Sez. Un., 26 febbraio 1991, Bruno, cit.;
Cass., Sez. Un., 25 ottobre 1994, De Lorenzo, in Cass. pen., 1995, 869).
La qualificazione della mancanza di motivazione come vizio della motivazione ex art. 606,
comma 1, lett. e) ha rilevanti implicazioni non solo sul piano della preclusione dell’esame degli atti
del procedimento, ma anche sotto il profilo dell’esperibilità del ricorso diretto in cassazione contro le
sentenze (art. 569 c.p.p.) e in materia di misure cautelari personali (art. 311, comma 2, c.p.p.) e reali
(art. 325, comma 1, c.p.p.), nonchè di misure di prevenzione (artt. 4, comma 10 della l. 27.12.1956,
n. 1423, richiamato dall'art. 3 ter, comma 2 della l. 31.5.1965, n. 575). Al fine di ampliare le
possibilità di tutela immediata apprestata dall’ordinamento mediante la previsione del ricorso per
saltum, si è formato un cospicuo orientamento giurisprudenziale che ha ammesso l’impugnazione
24
diretta in cassazione nei casi nei quali la motivazione, pur formalmente presente, sia, tuttavia,
inficiata da vizi così macroscopici da oltrepassare i confini della manifesta illogicità e da risolversi in
una motivazione meramente fittizia e apparente, tanto da presentare fratture ed aporie argomentative
così vistose da rendere incomprensibili le ragioni della decisione (Cass., Sez. III, 12 giugno 1998,
Suraci, rv. 211552; Cass., Sez. I, 2 ottobre 1997, P.G. in proc. Nocera ed altri, rv. 209129; Cass.,
Sez. II, 4 aprile 1997, Sorbo, rv. 207416; Cass., Sez. VI, 18 giugno 1996, Acampora, rv. 205897).
In questi casi la mancanza di motivazione è assimilata, nella sostanza, al vizio di violazione di legge,
nel quale finisce per confluire, allo scopo di estendere la garanzia costituzionale ex art. 111 Cost.
relativa alla insopprimibilità del ricorso in cassazione per violazione di legge.
6. - Il travisamento del fatto.
Si discute se il travisamento del fatto possa essere utilmente dedotto col ricorso per
cassazione quale vizio logico della motivazione.
Per travisamento si intende generalmente la divergenza tra i risultati probatori posti a base
della decisione e quelli emergenti dagli atti processuali: esso corrisponde ad una situazione nella
quale il giudice afferma l’esistenza di fatti esclusi dalle risultanze processuali ovvero esclude fatti che
sono, invece, provati. In particolare, nella tipologia del travisamento sono stati individuati tre diversi
vizi, distinti in relazione alle cause che ad essi hanno dato origine: travisamento conseguente
all’omessa valutazione di una prova acquisita, travisamento derivante dalla supposizione di una prova
inesistente e travisamento causato dallo scorretto apprezzamento di una o più prove (RENON,
Spunti per una riconsiderazione del travisamento del fatto come motivo di ricorso in cassazione, in
Cass. pen., 1996, 557).
Nonostante l’esplicito divieto contenuto nella Relazione al progetto preliminare del codice
1930, la giurisprudenza -sia pure con frequenti oscillazioni- aveva progressivamente esteso l’ambito
del sindacato della motivazione fino a ricomprendervi il rilievo del travisamento del fatto,
25
considerato quale causa di nullità della sentenza per difetto della motivazione, a condizione che il
contrasto tra rappresentazione giudiziale e realtà processuale fosse manifesto e cadesse su fatti
decisivi per il giudizio (cfr. Cass., Sez. I, 11 marzo 1988, Romeo, in Riv. pen., 1989, 1149, Cass.,
Sez. IV, 28 gennaio 1988, Enoni, in Cass. pen., 1989, 441; in senso contrario v., però, Cass., Sez.
Un., 18 febbraio 1988, Greco ed altri, in Giust. Pen., 1989, III, 155, con nota di GROSSO).
Il legislatore delegato del 1988, ben consapevole delle incertezze della giurisprudenza in
ordine alla deducibilità del travisamento del fatto, ha inteso arginare tale tendenza, apprestando una
disciplina fondata sulla tipicizzazione del motivo di ricorso di cui all’art. 606, 1° comma, lett. e),
nella cui previsione sono esauriti tutti i possibili vizi logici della motivazione: con la conseguenza
che, in forza del tassativo sbarramento costituito dal testo del provvedimento impugnato, l’indagine
della Cassazione sulla motivazione di fatto deve essere necessariamente contenuta nell'ambito dei
dati probatori indicati nella decisione dei giudici di merito e non può ovviamente espandersi fino ad
accertare se la ricostruzione dei fatti sia realmente rispondente alle risultanze probatorie acquisite
negli atti del processo.
In dottrina il limite della rilevanza testuale del vizio è considerato dalla maggior parte degli
autori non idoneo ad impedire la deducibilità in cassazione del travisamento del fatto, con
argomentazioni non sempre omogenee, imperniate, per lo più, sulla configurazione di un error in
procedendo, come tale inquadrabile nella previsione dell’art. 606, 1° comma, lett. c), che, come è
noto, non preclude al giudice di legittimità l’esame degli atti processuali (BARGI, Il ricorso per
cassazione cit., 529 ss.; FERRUA, Il sindacato di legittimità cit., 121; LOZZI, Carenza o manifesta
illogicità della motivazione e sindacato del giudice di legittimità, in Riv. it. Dir. e proc. pen., 1992,
768; IACOVIELLO, Il controllo della Cassazione sulle prove: prove invalide, prove travisate,
prove ignorate, in Cass. pen., 1994, 1244).
26
Per contro, nella giurisprudenza l'indirizzo largamente prevalente esclude che, nel giudizio di
cassazione, possano essere prese in considerazione censure concernenti il travisamento dei fatti,
poiché il sindacato sulla logicità della motivazione può essere esercitato esclusivamente sul testo del
provvedimento impugnato, senza alcuna possibilità di verificarne le effettiva corrispondenza alle
risultanze processuali (Cass., Sez. I, 10 gennaio 2000, Pixner, rv. 215336; Cass., Sez. III, 20
novembre 1998, Forlani, in Arch. Nuova proc. pen., 1999, 49; Cass., Sez. II, 28 febbraio 1997,
Santilli, rv. 207412; Cass., Sez. II, 1° ottobre 1996, Pagano, in Giust. Pen., 1997, III, 275; Cass.,
Sez. VI, 31 ottobre 1995, Cuoco, rv. 204645). A questa stessa linea di pensiero è riconducibile la
posizione che ammette la censurabilità del travisamento del fatto, a condizione, però, che esso si
traduca nel vizio di mancanza o di manifesta illogicità della motivazione e che risulti dal testo del
provvedimento impugnato (Cass., Sez. VI, 16 ottobre 1995, Pulvirenti, in Cass. pen., 1997, 1397,
con nota di CANTONE; Cass., Sez. II, 1° ottobre 1996, Giuffrida, rv. 206277; Cass., Sez. I, 26
ottobre 1995, Lorenzi, rv. 203251), nel senso che al travisamento può attribuirsi rilevanza soltanto
quando il giudice, dopo avere fatto propria una determinata ricostruzione dei fatti, ne tragga, sul
piano giuridico, conclusioni confliggenti con la stessa, che presuppongono, sotto il profilo logico,
una ricostruzione diversa (Cass., Sez. I, 15 dicembre 1999, Morabito, rv. 215291; Cass., Sez. I, 13
gennaio 1999, Di Cuonzo, rv. 213252). E l'antinomia tra premesse fattuali indicate nella
motivazione e contenuto della decisione, che postula una opposta ricostruzione del fatto, finisce,
così , per identificarsi con l'illogicità manifesta tipicizzata come motivo di ricorso dall'art. 606,
comma 1, lett. e) c.p.p.-
A questo orientamento pressochè unanime si contrappone un indirizzo nettamente minoritario
che include il travisamento del fatto tra i vizi deducibili col ricorso per cassazione. In talune
pronunce è stato sostenuto che il travisamento del fatto non sfugge al sindacato di legittimità, in
quanto la disposizione di cui all’art. 606, 1° comma, lett. e) c.p.p. condiziona la deducibilità della
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censura, ma non si riflette sui poteri di accertamento della Corte di cassazione, nei quali è compresa
la possibilità di confrontare il testo della motivazione con gli atti del procedimento (Cass., Sez. VI,
18 febbraio 1994, Goddi, rv. 197861; Cass., Sez. II, 13 luglio 1993, Sgrò, rv. 197861; Cass., Sez. V,
16 ottobre 1992, D’Ammando, rv. 193168): non si vede, però, come la possibilità di indagini
extratestuali possa reputarsi compatibile con la disposizione che espressamente delimita al testo del
provvedimento impugnato l'ambito del sindacato sulla motivazione in fatto. Invece, in altre sentenze
il travisamento del fatto è stato inquadrato nel motivo di ricorso previsto dalla lett. c) dell’art. 606
per la ragione che tale vizio dà origine all’invalidità della sentenza in forza del combinato disposto
degli artt. 546, comma 3, e 125 c.p.p., da cui risulta che la completezza della motivazione è
prescritta a pena di nullità, onde dalla qualificazione come "error in procedendo" è tratto il corollario
dell'ammissibilità del controllo degli atti da parte della Corte di legittimità (Cass., Sez. I, 19 marzo
1991, Cinque, in Cass. pen., 1992, 2111: con riferimento all’omessa considerazione di una prova
decisiva risultante dagli atti v. Cass., Sez. II, 23 ottobre 1996, Ercolano, in Arch. nuova proc. pen.,
1997, 153).
Sul contrasto di giurisprudenza sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione,
che hanno ribadito il limite della rilevanza testuale del vizio denunciabile nel giudizio di legittimità,
ammettendo la possibilità del sindacato soltanto se il travisamento del fatto sia riconducibile nella
previsione della lett. e) dell’art. 606: è stato precisato, tuttavia, che l’accertamento diviene possibile
quando il ricorrente dimostri la “avvenuta rappresentazione al giudice della precedente fase
d’impugnazione degli elementi dai quali quest’ultimo avrebbe dovuto rilevare il detto travisamento,
sicchè la Corte possa, a sua volta, desumere dal testo del provvedimento impugnato se e come quegli
elementi siano stati valutati” (Cass., Sez. Un., 30 aprile 1997, Dessimone, in Cass. pen., 1997,
3327). Non consta che, dopo l'intervento delle Sezioni Unite, siano state pronunciate sentenze
favorevoli alla deducibilità del travisamento come motivo di ricorso.
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Il rimedio di talune forme di travisamento attraverso il controllo dei motivi di appello e la
congiunta verifica dell'esame che ne ha compiuto il giudice dell'impugnazione sposta l'indagine sul
piano del vizio della mancanza della motivazione, nel senso che l'omessa risposta ad una specifica
censura dell'appellante, vertente su un elemento decisivo, determina l'incompletezza della
motivazione che giustifica l'annullamento della decisione. Lo stesso rimedio, peraltro, non ha
possibilità di impiego quando il giudizio di primo grado si sia concluso con una pronuncia di
assoluzione e la condanna dell'imputato sia intervenuta nel giudizio di appello a seguito
dell'impugnazione del pubblico ministero ovvero quando la decisione sia inappellabile a norma
dell'art. 593 c.p.p.- In questi casi, non è possibile il controllo, attraverso i motivi di impugnazione,
della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato e restano, quindi, praticamente non emendabili
dalla Corte di legittimità i vizi di travisamento risultanti dall'omesso esame di prove decisive o dalla
supposizione dell'esistenza di un fatto di cui non è traccia alcuna negli atti processuali.
Una notazione conclusiva in tema di travisamento non può ignorare che la via seguita dalla
giurisprudenza è l'unica conforme alle linee della disciplina vigente, dettata esclusivamente da ragioni
pratiche tendenti ad impedire la possibilità di sconfinamenti della Corte di legittimità nella valutazione
del fatto. Tuttavia, non può neppure sottacersi che, nonostante la ritenuta conformità al precetto
costituzionale ex art. 111 Cost., la norma di chiusura apposta al controllo logico della motivazione
comporta certamente il sacrificio di esigenze di giustizia sostanziale, reintegrabili col mezzo
straordinario della revisione nei soli casi nei quali il travisamento del fatto assuma la forma nell'errore
di fatto di tipo percettivo, consistente, in assenza di qualsiasi profilo valutativo, nell'omessa
valutazione delle prove acquisite. In una simile situazione, infatti, l'esperibilità del rimedio della
revisione a norma dell'art. 630 lett. c) c.p.p. può essere argomentatamente affermata facendo leva
sull'indirizzo giurisprudenziale che, proprio in relazione ai limiti del sindacato logico della
motivazione risultanti dall'art. 606 lett. e), giustamente considera come nuove prove anche quelle già
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acquisite agli atti del processo e non valutate, neppure implicitamente, dal giudice della cognizione
(Cass., Sez. I, 6 ottobre 1998, Bompressi ed altri, in Foro it., 1998, II, 729).
7. - Esame di alcune recenti iniziative legislative.
Negli ultimi due anni il processo penale ha subito radicali modificazioni che hanno
profondamente trasformato il disegno originario del codice. L'evoluzione -avviata dalla l. delega
16.7.1997, n. 254, e dal d. l.vo 19.2.1998, n. 51 riguardanti l'istituzione del giudice unico- ha avuto
decisivo impulso e ha ricevuto brusca accelerazione dalla l. cost. 23.11.1999, n. 2, che ha inserito i
principi del giusto processo nell'art. 111 Cost.: da tale epoca si è verificata una incessante e frenetica
sequenza di interventi normativi che hanno investito il processo penale, mutando sovente gli aspetti
fondamentali di numerosi istituti. Nell'arco di tempo segnato dalla l. 16.12.1999, n. 479 (la c.d.
"legge Carotti") e dalla legge, approvata pochi giorni fa, in materia di formazione e valutazione della
prova in attuazione della legge costituzionale di riforma dell'articolo 111 della Costituzione si sono
susseguite corpose innovazioni dell'assetto del rito penale, quali quelle introdotte dalla l. 5.6.2000, n.
144, contenente modificazione ai termini di custodia cautelare nella fase del giudizio abbreviato, dalla
l. 7.12.2000, n. 397, relativa alle indagini difensive, e dalla l. 19.1.2001, n. 4, che, col generico titolo
concernente le "disposizioni urgenti per l'efficacia e l'efficienza dell'Amministrazione della giustizia",
ha introdotto rilevanti novità in tema di separazione di procedimenti, di custodia cautelare, di
redazione della sentenza, di giudizio abbreviato, di esecuzione penale. Le nuove normative sono
accompagnate spesso da disposizioni transitorie non sempre perspicue e lineari.
Le disposizioni create da tale congerie di testi legislativi hanno avuto una cospicua incidenza
sul lavoro della Corte di Cassazione, che è stata chiamata a risolvere vari problemi, legati soprattutto
a delicate questioni di diritto intertemporale, ed è stata sollecitata a pronunciare su questioni di
legittimità costituzionale di numerose norme del codice in riferimento all'enunciazione del principio
del giusto processo di cui all'art. 111 Cost., nella formulazione della l. cost. n. 2 del 1999. L'unica
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disposizione che ha diretti riflessi sul sindacato della motivazione di fatto concerne la materia delle
misure cautelari personali, essendo stato modificato dall'art. 10 della legge di attuazione del
giusto processo in materia di valutazione delle prove -approvata definitivamente nel corrente mese
di febbraio e non ancora pubblicata al momento della stesura della presente relazione- l'art. 273
c.p.p., con l'aggiunta del comma 1-bis, che ha dichiarato applicabili nella valutazione dei gravi indizi
di colpevolezza le disposizioni degli articoli 192, commi 3 e 4, 195, comma 7. Sono state così
ribaltate le posizioni consolidate della giurisprudenza di legittimità, cristallizzate da una nota sentenza
delle Sezioni Unite con cui era stato deciso che le disposizioni generali sulle prove, contenute nel
titolo I° del libro III° del codice, non sono applicabili alla fase delle indagini preliminari né sono
riferibili alla valutazione dei gravi indizi indispensabili per l'emissione delle misure cautelari personali
(v. Cass., Sez. Un., 21 aprile 1995, Costantino ed altro, in Cass. pen., 1995, 2837). Da ciò deriverà
probabilmente la necessità di riesaminare posizioni consolidate in materia di gravità indiziaria ex art.
273 e, tenuto conto che i ricorsi contro i provvedimenti riguardanti la libertà personale rappresentano
una parte considerevole dell'attività della Cassazione penale, è facile prevedere che la nuova norma
provocherà un ulteriore aggravio di lavoro.
Non è facile tentare di cogliere le prospettive dischiuse da riforme dettate, il più delle volte da
esigenze contingenti e non sempre rispondenti ad un progetto organico, né è agevole prefigurare gli
effetti che deriveranno dal loro impatto sul processo penale, già scosso da una crisi profonda, che -
vanificato qualsiasi punto di riferimento certo ed affidabile- ha spinto taluni autori a parlare di
"caos" della giurisdizione penale, per il cui superamento non resta che riscrivere integralmente il
codice.
Quella che è assolutamente certa ed unanimamente avvertita è la consapevolezza che sono
stati superati ormai i livelli di guardia per il corretto svolgimento del ruolo della Corte di legittimità,
dinanzi alla quale affluiscono ogni anno più di cinquantamila ricorsi. Di fronte ad una così massiccia
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mole di lavoro occorre chiedersi se abbia ancora senso individuare nel ricorso generalizzato ex art.
111 Cost. una garanzia insopprimibile della giurisdizione e se, in simili condizioni, sia ancora
possibile l'esercizio della funzione di nomofilachia.
Un tentativo di razionalizzazione dell'attività della Cassazione penale è contenuto in un
disegno di legge, approvato dalla Camera dei deputati ed ora all'esame del Senato, concernente
"interventi legislativi in materia di tutela della sicurezza dei cittadini" (c.d. "pacchetto sicurezza"),
che, all'art. 6, prevede profonde modificazioni della disciplina dettata dagli attuali artt. 610 e 611,
stabilendo che tutti i ricorsi nei quali sia rilevabile una causa di inammissibilità sono assegnati ad
un'apposita sezione predeterminata con rotazione biennale in base al provvedimento tabellare
riguardante la Corte di cassazione (art. 169 bis delle norme att.): tale sezione provvederà a
dichiarare l'inammissibilità dei ricorsi con le forme di cui all'art. 611 c.p.p.- Dalla discussione svoltasi
nell'aula della Camera emerge che l'intento è quello di "creare una sezione filtro" e "di fare in modo
che la Corte di Cassazione indirizzi il proprio lavoro alle questioni di legittimità che le sono
sottoposte, eliminando tutto ciò che è palesemente inammissibile". La riforma in itinere ha ricevuto,
peraltro, non poche obiezioni e rilievi critici nella stessa discussione parlamentare, essendo stato
osservato che essa crea un meccanismo farraginoso e complicato che non riuscirà a semplificare
l'attività della Corte, col rischio, anzi, di allungare i tempi di definizione dei ricorsi.
E' interessante rilevare che nello stesso art. 6 del disegno di legge è previsto l'inserimento nel
codice dell'art. 625-bis, che ammette, a favore del condannato, il ricorso straordinario per errore
materiale o di fatto contenuto nei provvedimenti pronunciati dalla Corte di Cassazione. Su una
norma così importante non è dato cogliere alcuna precisa indicazione nei lavori parlamentari se non
quella desumibile dell'intervento in aula dell'on. Pecorella, il quale ha sottolineato che, in mancanza di
qualsiasi precisazione sulla nozione di errore di fatto, l'innovazione "potrebbe risultare pericolosa,
configurando per ogni provvedimento definito la possibilità di presentare un nuovo ricorso". L'unica
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spiegazione ragionevole può essere data ritenendo che la proposta intenda introdurre nel processo
penale una disciplina analoga a quella contenuta nell'art. 391-bis c.p.c., che, con riguardo alle
sentenze della Cassazione civile affette da errore di fatto ai sensi dell'art. 395 n. 4 c.p.c., ammette la
revocazione quando la sentenza è l'effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o dai documenti
della causa, nel senso che la decisione della Corte di legittimità "è fondata sulla supposizione di un
fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l'inesistenza di un fatto la
cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell'uno quanto nell'altro caso il fatto non costituì un
punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare".
Va precisato, al riguardo, che l'errore di fatto interno al giudizio di legittimità, non
emendabile mediante la procedura di correzione dell'errore materiale ai sensi dell'art. 130 c.p.p.,
costituisce una tematica estremamente delicata e di viva attualità. Sul punto deve segnalarsi che, in
riferimento ad un caso di dichiarazione di inammissibilità del ricorso proposto dal difensore non
munito di specifico mandato prima della modifica dell'art. 571, 3° comma, c.p.p., la Corte di
Cassazione, rilevato che tale atto risultava, invece, regolarmente presente tra gli atti del processo, ha
sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 629/630 e ss. c.p.p., nella parte in cui non
prevedono la revisione della decisione per errore di fatto (materiale e meramente percettivo) nella
lettura di atti interni al giudizio (Cass., Sez. IV, 5 maggio 1999, Cervati). La Corte Costituzionale ha
dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale osservando che l'errore di tipo
percettivo, in cui sia incorso il giudice di legittimità e dal quale sia derivata l'indebita compromissione
del diritto al processo in cassazione, deve avere un necessario rimedio, per cui spetta alla stessa
Corte di Cassazione svolgere appieno la propria funzione di interpretazione adeguatrice del sistema,
individuando, all'interno di esso, lo strumento riparatorio più idoneo (Corte cost., sent. 28 luglio
2000, n. 395). La questione è ora pendente dinanzi alle Sezioni Unite Penali e sarà esaminata
all'udienza del 31.3.2001.
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Data l'imminenza della fine della legislatura, è verosimile che il "pacchetto sicurezza" non
potrà essere tempestivamente approvato dal Senato, sicchè dovrebbe rimanere inalterato il testo degli
artt. 610 e 611, la cui disciplina, del resto, già oggi permetterebbe di procedere ad un tentativo di
razionalizzazione dell'attività della Corte mediante idonei provvedimenti adottabili, nel quadro della
legislazione vigente, nell'esercizio dell'autonomia organizzativa.
In quest'ottica deve essere interpretata la recente circolare ministeriale n. 582 del 6.2.2001,
emanata a seguito di specifica sollecitazione del Primo Presidente, con cui è stata regolata la
trasmissione degli atti del procedimento penale in caso di ricorso per cassazione, disponendo che gli
uffici giudiziari inviino alla Corte non tutti gli atti processuali, spesso racchiusi in numerosi faldoni,
ma unicamente il ricorso, la sentenza impugnata, la sentenza di primo grado, l'atto di appello, le
ordinanze emesse dal giudice di merito nel dibattimento e impugnate con la sentenza. Nella nota in
data 15.2.2001 del Primo Presidente Aggiunto è opportunamente specificato che la selezione degli
atti da inviare alla Corte è rispondente "alla struttura e alla funzione proprie del giudizio di
legittimità, in considerazione dei limitati profili del vizio di motivazione denunziabile mediante ricorso
a norma dell'art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p.".
8. - Considerazioni conclusive.
Le considerazioni sin qui esposte permettono di formulare brevi riflessioni sul ruolo della
Corte di cassazione e sul giudizio di legittimità, nella duplice dimensione di controllo della retta
applicazione della legge sostanziale e processuale e di controllo logico della motivazione.
Con riferimento al sindacato dei vizi logici della motivazione, già nel vigore del codice del
1930 erano stati denunciati frequenti sbandamenti verso la rivalutazione del fatto da parte del giudice
di legittimità ed era stato auspicato il contenimento entro limiti rigorosi della verifica della
congruenza logico-giuridica dei risultati del ragionamento probatorio, sì da evitare che la Cassazione
potesse assumere la funzione di una Corte di terza istanza e da agevolare il corretto svolgimento
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delle funzioni di Corte di pura legittimità, garante dell’uniforme applicazione del diritto e presidio dei
principi di certezza e di legalità (cfr. La Cassazione penale: problemi di funzionamento e di ruolo, in
Foro it., 1988, V, 442 ss.).
Con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, la previsione di uno specifico
ed autonomo motivo di ricorso, caratterizzato da precisi e tassativi limiti di deducibilità dei vizi logici
della motivazione, era stata salutata con favore da alcuni settori della dottrina perchè considerata
strumento idoneo ad assicurare il rispetto dell’ambito del giudizio di legittimità e a contenere la
tentazione di penetrare nella rivalutazione del merito. C’è da chiedersi, però, se tali speranze non
siano rimaste, in gran parte, deluse quando si tiene presente che nell’assemblea generale della Corte
di cassazione, tenutasi il 23 aprile 1999, è stato rilevato che è restato irrisolto il discrimine tra giudice
di diritto e giudice di terza istanza ed è stata sottolineata l’esigenza di non “alterare e rendere ibrido
il giudizio di legittimità, forzandolo a dare risposte che esso non è attrezzato a dare” (ZUCCONI
GALLI FONSECA, Introduzione, in Foro it., V, 1999, 164). Ed è estremamente significativo che,
nella nota del Primo Presidente in data 10 marzo 1999, sia stato constatato il frequente superamento
dei confini del sindacato dei vizi logici della motivazione delle sentenze impugnate e sia stata indicata
“la sempre più accentuata tendenza della corte a travalicare i limiti del giudizio di legittimità”, tanto
da ritenere necessario un monitoraggio delle sentenze di annullamento con rinvio, affidato all’Ufficio
del massimario, al fine di accertare quale sia il grado di osservanza delle norme che regolano il
sindacato della Corte di cassazione sulla motivazione dei provvedimenti impugnati (v. in Foro it.,
1999, V, 215). Non si conosce se l’indagine sia stata realmente compiuta e, in caso affermativo,
quali siano stati i risultati.
Non è questa la sede per individuare le molteplici cause che rendono difficile per il giudice di
legittimità resistere al richiamo del fatto e alla tentazione di sostituire una propria ricostruzione
storica a quella compiuta dal giudice di merito. Alla base del fenomeno è identificabile, oltre a fattori
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di ordine storico e culturale, una malintesa esigenza di giustizia sostanziale, che spinge il giudice di
legittimità ad immergersi nell’accertamento del fatto per privilegiare la soluzione ritenuta più equa nel
caso singolo. Così operando, tuttavia, il giudice di legittimità mostra un’allarmante carenza di
consapevolezza del proprio ruolo, il cui connotato essenziale è quello, e solo quello, di garanzia della
legalità delle pronunce giurisdizionali e, in ultima analisi, di presidio del primato della legge, alla
quale -secondo il dettato costituzionale (art. 101, 2° comma, Cost.)- sono soggetti tutti i giudici,
compresa ovviamente la Corte di cassazione, vincolata all’osservanza dei limiti legali che ne
conformano la fisionomia. In altri termini, la rilevanza costituzionale della Cassazione (art. 111,
comma 7, Cost.) e la sua particolare collocazione all’interno del sistema processuale non hanno altra
base giustificativa che quella del controllo del rispetto delle regole giuridiche che presiedono allo
sviluppo del processo e alla formazione della decisione delle questioni di diritto e di fatto. E tra tali
regole, la cui cogenza rappresenta il primo necessario referente della giustizia della decisione, devono
essere incluse tanto la coerenza e la congruenza logica del ragionamento probatorio sviluppato dal
giudice di merito quanto il divieto per la Corte di legittimità di sostituirsi a questo
nell’apprezzamento delle prove e nella ricostruzione del fatto.
In definitiva, anche se il panorama complessivo è fatto più di ombre che di luci, può ritenersi
che, tutto sommato, la Cassazione sia riuscita ad adempiere l’arduo compito di garante della legalità
e che, pur non essendo mancati fraintendimenti ed incertezze nell’esercizio delle funzioni di
legittimità, questi non siano stati tali da giustificare le posizioni favorevoli ad un ritorno della
Cassazione alla figura della “Corte Suprema”, depositaria della sola funzione nomofilattica e
completamente estranea al sindacato del giudizio di fatto, sia pure limitato alla logicità della
motivazione. L'avvento di una Corte Suprema con funzioni circoscritte al controllo del giudizio di
mero diritto non solo appare irrealistico rispetto all'attuale contesto sociale, ma, per più versi, sembra
più dannoso degli inconvenienti che si vorrebbero eliminare, essendo evidente che sancire la non
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sindacabilità di giudizi di fatto arbitrari e privi di razionalità significherebbe contribuire ad una caduta
del valore della legalità (questo, sì , supremo), con pregiudizi certamente irreparabili per la credibilità
della giurisdizione.
Giovanni Silvestri
Consigliere della Corte Suprema di Cassazione
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