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I villaggi di pietra e altri racconti di trekking
nelle Terre di Marca Obertenga
di Cristiano Zanardi
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Ai lettori,
abbiamo deciso di raccogliere in modo sistematico e di facile lettura le
storie delle escursioni che Cristiano Zanardi ci regala e che noi,
periodicamente, pubblichiamo sul portale di promozione turistica delle
“Terre di Marca Obertenga” nella rubrica “Da dove a … dove”.
Ci è sembrato, infatti, opportuno che l’apporto appassionato del nostro
collaboratore non andasse disperso nella gestione quotidiana di un sito
web. Non vogliamo, infatti, che i racconti delle sue escursioni, che sono
prima di tutto racconti di passione per la montagna e per la sua terra,
rischino di essere bruciati in tempi brevi o inevitabilmente releganti in
archivi che, col passare del tempo, sono destinati ad essere sempre meno
consultati.
Su www.marcaobertenga..com troverete sempre l’ultimo racconto di
Cristiano.
Buona lettura e …… perché non provare.
Terre di Marca Obertenga
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RACCONTARE LA MONTAGNA
“Ti scrivo da un territorio da visitare, da
gustare..da abitare”, leggo sul sito delle Terre di
Marca Obertenga, che ho da poco scoperto e
che già mi piace, perché racconta il mio
territorio in una maniera molto gradevole, quasi
come i radiocronisti di una volta raccontavano
le partite di calcio a “Tutto il calcio minuto per
minuto”, alla domenica pomeriggio. Io
aggiungerei “da vivere”, “da scoprire”, “da
percorrere a piedi in lungo e in largo”…
La mia passione per l’escursionismo nasce una decina di anni fa. La
curiosità mi ha spinto ad indossare un paio di scarponi da trekking, mettere
lo zaino in spalla e partire per il sentiero che inizia dove finisce l’asfalto a
Caldirola, il mio paese.
Da allora non mi sono più fermato! Il nostro territorio, così vario,
comprende anche la zona nota come “Appennino delle quattro province”, il
tratto di catena appenninica dove si incontrano le province geografiche di
Alessandria, Pavia, Piacenza e Genova.
A un passo dalla pianura padana, a un passo dal mare.
Queste zone, vero e proprio crocevia di sentieri che si sviluppano sui
tracciati delle antiche “Vie del Sale”, rappresentano un forte richiamo per
gli appassionati dell’escursionismo e, più in generale, della natura e
offrono panorami impagabili.
In questo spazio, cercherò di raccontare la montagna vista attraverso i miei
occhi, con l’aiuto delle immagini che ho scattato dalle vette del nostro
appennino. Descriverò itinerari escursionistici – dai più conosciuti ai meno
noti – cercando di raccontare ogni escursione come un piccolo viaggio,
soffermandomi sulle cose da vedere e sugli aspetti più caratteristici di ogni
percorso. Con la convinzione che, prima o poi, anche chi mi legge possa
decidere di ammirare di persona queste meraviglie della natura.
Allora, ci vediamo sui sentieri ?
Cristiano Zanardi
La raccolta completa delle escursioni e delle immagini potrete trovarla su:
http://aunpassodallavetta.wix.com/trekking
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Indice
Da Vegni alla Boglianca passando per Casoni, Ferrazza e Reneuzzi ………………………. 6
Dalle Capanne di Cosola al Carmo …………………………………...……………………... 8
Da Caldirola a Piuzzo …………………………………………………………………...…... 10
Dalle Stalle di Salogni all’Ebro … imbiancato ………………………….………………….. 12
Ciaspolando verso Panà………………………………………………………………...……. 14
Una ciaspolata senza merenda ………………………………………………………………. 16
Una giornata quasi perfetta ………………………………………………………………….. 18
Feel good time ………………………………………………………………………………. 20
L’uovo fuori dalla cavagna ………………………………………………………………….. 22
Addio neve …..! …………………………………………………………………………….. 25
Il villaggio abbandonato di Camere nuove…………………………………………………... 28
Una giornata in Antola ………………………………………………………………………. 31
Avi, il borgo abbandonato …………………………………………………………………... 34
Il paese fantasma di Rivarossa……………………………………………………………….. 37
Quattro passi a Volpara.……………………………………………………………………… 40
La Croce degli alpini: da Pertuso a Roccaforte……………………………………………… 43
Vento fresco e panorami mozzafiato: la traversata da San Fermo all'Antola ………………. 47
Che botta … ragazzi! Da Bocche di Crenna al Monte Lesima ……………………………… 50
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Devo ammetterlo, sono un po’ teso. Oggi ho finalmente deciso di affrontare l’escursione ai paesi
abbandonati della Valle dei Campassi, dopo anni passati a documentarmi sull’itinerario e sulle
leggende che ruotano attorno ad esso. Quando parto alla volta di Vegni, mattina presto, è già
caldo afoso, anche a mille metri. Non ho minimamente idea del fresco che troverò, qualche ora
più tardi, attraversando il Rio dei Campassi.
L'itinerario, chiamato "I Villaggi di Pietra", va a toccare una delle valli più selvagge e
incontaminate dell'appennino - la Valle dei Campassi - attraversando i resti di quelli che, una
volta, erano piccoli villaggi normalmente abitati, posti lungo l'itinerario della "Via del Sale" -
fitta rete di sentieri che dalla pianura padana conduceva al litorale ligure - mentre oggi, ciò che di
quei paesi rimane, sono soltanto ruderi, boschi che conquistano lo spazio una volta occupato
dalle case e, infine, una discreta parte di leggenda (legata principalmente al paese fantasma di
Reneuzzi, e di cui racconterò ampiamente più avanti). Non solo Reneuzzi: prima di arrivare qui,
incontriamo Casoni di Vegni e Ferrazza, altri due paesi fantasma. Ma andiamo con ordine.
Raggiungere la partenza
Vegni è un tranquillo paesino dell’alta Val Borbera, raggiungibile percorrendo la SP140 prima e,
superato l’abitato di Cabella Ligure, la SP147, che porta a Carrega Ligure. Dopo essere transitati
sul secondo ponte (sul torrente Carreghino), scendiamo sulla destra fino al livello del fiume e lo
attraversiamo su di un ponticello di dimensioni molto ridotte, per poi risalire, per circa 6 km, fino
al paese.
Lasciamo l’auto nella piazza del paese, e ci dirigiamo sulla strada asfaltata verso destra,
attraversando un nucleo di abitazioni (Vegni è composto da due grandi gruppi di case, uno sulla
sinistra, in alto, e uno sulla destra, dove si trova la chiesa) e seguendo la strada fino alle ultime
case del paese, senza scendere verso la chiesa. Raggiungiamo così una curva dove possiamo
vedere, sotto di noi, il cimitero del paese e dove, dopo una breve salita, termina la strada asfaltata
e iniziano i sentieri numero 242 e 245.
Da Vegni alla Boglianca passando per Casoni, Ferrazza e Reneuzzi
Partenza: Vegni (Al)
Arrivo: Boglianca (Al)
Distanza a/r: 14 km circa
Tempo di percorrenza a/r: 6
ore circa
Segnavia: bianco-rosso n. 242
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La leggenda di Reneuzzi
Se Casoni di Vegni ci ha sorpreso nella sua cupezza, Ferrazza ci ha ridato un po’ di respiro, e lo
abbandoniamo con maggiore tranquillità. Proseguiamo in leggera discesa sullo stretto sentiero e
a un certo punto compaiono in lontananza, in corrispondenza di una curva, il profilo di un
campanile e di un cimitero. E’ il segnale che siamo arrivati a Reneuzzi. Si tratta del campanile
dell’oratorio di San Bernardo Abate e del cimitero di Reneuzzi, posti l’uno di fianco all’altro e
attraversati dal sentiero. Non male come ingresso in paese…
Anche l'aria che si respira è diversa, è una sensazione che dicono di aver provato tutti quelli che
sono arrivati fin qui, una specie di ansia forse legata a tutte le leggende che ruotano attorno a
questo piccolo villaggio. Spingendo il cancello arrugginito e cigolante, entriamo nel piccolo
cimitero (secondo alcuni "il più piccolo d'Italia", e non andiamo lontano dal credere loro), che
ospita non più di 5-6 tombe, ormai nascoste dalle erbacce e senza più segni di riconoscimento dei
defunti. La più vicina all'ingresso, è più grande delle altre e chiaramente più recente, e reca una
lapide con la foto e il nome di tale Davide Bellomo. E' sufficiente fare una breve ricerca su
internet per scoprire che, effettivamente, a Reneuzzi è successo qualcosa di particolare, e la
tomba più recente del cimitero è quella del protagonista della vicenda, toltosi la vita nel 1961, a
soli 31 anni, dopo aver commesso un omicidio passionale.
Riflessioni
Il sentiero dei "Villaggi di Pietra" è senza dubbio l’escursione più affascinante che, ad oggi,
abbia affrontato. Scoprire questi villaggi regala un'emozione del tutto particolare, come se si
andasse a scoprire un qualcosa che nessuno pensava potesse esistere. Già il solo fatto di
incontrare resti di veri e propri borghi, alcuni - come Reneuzzi - con chiesa e cimitero,
procedendo su di un sentiero largo poco più di due piedi, è un fatto alquanto insolito, che lascia
stupiti anche se al momento della nostra partenza già sappiamo quello che troveremo. Tutti i
sentimenti che ci pervadono sono sicuramente agevolati dalla particolare conformazione della
Valle dei Campassi, la più isolata della provincia di Alessandria, una valle maestosa e la cui
imponenza ci è ancora più evidente quando ci troviamo sul greto del Rio dei Campassi, al fondo
della Valle.
L'escursione è stata resa ancora più piacevole, e va segnalato, dall'ottimo lavoro degli operai
forestali della Regione Piemonte, che hanno da poco pulito il tracciato da Vegni a Reneuzzi.
In definitiva, un'escursione da fare assolutamente: non particolarmente difficoltosa, ma
estremamente emozionante.
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Il Monte Carmo, riconoscibile per via della sua particolare forma, domina l’Alta Val Borbera
sovrastando le frazioni di Carrega Ligure e Connio, all’estremo confine della provincia di
Alessandria con le province di Genova e Piacenza. Le vallate sono aspre, difficili. La
vegetazione è rigogliosa, regala una strana sensazione vedere tutti questi alberi, tutto questo
verde, raramente interrotto dal rosso di qualche tetto. I piccoli villaggi sparsi per queste zone
sono per lo più disabitati, quasi tutti in inverno, alcuni ormai anche durante il resto dell’anno. E’
la dura legge della montagna, sempre molto amata da chi ci è nato, che però allo stesso tempo, a
malincuore, deve allontanarsene.
Un luogo di passaggio
Risalendo in auto la Val Borbera sulla SP140, superato l’abitato di Cabella Ligure, il paesaggio
si fa sempre più incontaminato. Le montagne cadono a strapiombo sulla strada, che continua a
salire – via via facendosi sempre più piccola – fiancheggiando sul lato opposto il torrente, fino al
paese di Cosola, incastonato tra le pendici dei monti Ebro e Cavalmurone. Oltre Cosola, la salita
diventa ancora più ripida e abbiamo davvero la sensazione di dirigerci verso una destinazione
irraggiungibile, tanto è lungo e tortuoso il percorso per arrivare al valico di Capanne di Cosola, a
circa 1.500 metri di altitudine.
Le Capanne hanno veramente l’aspetto di un “luogo di passaggio”. Alcune villette molto
particolari, adagiate lungo la strada, e sul punto di confine tra Piemonte ed Emilia, proprio
davanti al cartello stradale che ci ricorda di essere a cavallo tra le province di Alessandria e
Piacenza, l’omonimo Albergo-Ristorante, dove fanno tappa tutti quelli che arrivano fino a qui.
L’aria è buona, e fresca anche in estate. Il Monte Chiappo, con i suoi 1.700 metri di altitudine,
non è poi così distante, mentre di fronte a noi svetta lo strano radar posizionato sulla vetta del
Monte Lesima.
Tra due imponenti vallate
Il sentiero verso il Monte Carmo, con partenza oltre l'Albergo, fiancheggia la strada asfaltata per
Bogli e Artana, per poi iniziare a salire sulla destra, con ampi panorami su Cosola, Piuzzo e sulla
Val Borbera, verso le due cime del Monte Cavalmurone (mt. 1670), da cui è possibile ammirare
Dalle Capanne di Cosola al Carmo
Partenza: Capanne di Cosola
(Al)
Arrivo: Monte Carmo (mt.
1642)
Distanza dell’itinerario a/r:
14.5 km. ca.
Tempo di percorrenza a/r:
4 h. 30 min. ca.
Segnavia: CAI bianco-rosso
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l'imponente piramide del Monte Alfeo. Di fronte a noi, i piccoli borghi di Pizzonero e Suzzi, ci
ricordano quanto sia effettivamente isolata la Val Boreca, un luogo dove la natura la fa
decisamente da padrona.
Raggiunto il Monte Legnà (mt. 1669), si raggiunge dopo una ripida discesa il Passo del Legnà
(mt. 1466), con la vecchia strada che porta da Bogli a Cartasegna e che funge di fatto da
spartiacque tra la Val Borbera e la Val Boreca.
Dopo aver risalito con ripidi tornanti la faggeta del Poggio Rondino (mt. 1630), all’uscita dal
bosco si gode di una bella vista frontale sul Carmo, meta della nostra escursione, sempre a
cavallo tra le due valli.
La salita al Carmo (mt. 1642) è ripida, ma piuttosto breve e ci permette di godere di un fantastico
panorama sull’appennino delle quattro province. Dalla vetta, sulla quale è posizionata una croce
metallica, possiamo scorgere i paesi di Carrega Ligure (con le Capanne di Carrega), Connio, ma
anche Alpe di Gorreto e Fontanarossa, in Alta Val Trebbia. La piccola frazione di Suzzi, di
fronte a noi, sembra vicina, anche se ci separa un impressionante strapiombo sull’aspra Val
Boreca.
Riflessioni
Una piacevole escursione, quella al Monte Carmo dalle Capanne di Cosola. Per lo più a cielo
aperto – solo un breve tratto di percorso è all’interno del bosco, ossia la salita al Poggio Rondino
– e a cavallo di due valli molto isolate. Non è raro trovare altri escursionisti, lungo questo
itinerario, ma nonostante ciò, la sensazione che si prova è quella di essere più che mai soli, su
questo crinale da cui la vista si perde fino quasi al mar Ligure. Chi ama il trekking, a mio avviso,
non può perdersi questo itinerario.
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Caldirola si trova all’estremo sud-ovest della Val Curone, a mezza costa sul versante dei monti
Gropà e Giarolo. Oltre il crinale, è già Val Borbera, una valle molto diversa, più aspra rispetto
alla Val Curone, che scende invece dolcemente verso la pianura. In Val Borbera, alle spalle del
Monte Ebro, c’è il tranquillo paesino di Piuzzo, invisibile dal crinale, nascosto dalla vegetazione
della Costa delle Braglie e della Selva di Teo e affacciato sulla strada che sale, oltre Cabella
Ligure, verso il paese di Cosola.
Da Caldirola, raggiungere Piuzzo in auto non è affatto comodo: occorre infatti scendere a valle
per trovare le vie d’accesso alla Val Borbera. Forse è più semplice arrivarci a piedi, scavalcando
le montagne. Proprio quello che faremo oggi.
Come facevano una volta …
Facciamo finta di essere tornati ai tempi dei nostri nonni. Ci impiegheremo poco più di tre ore. E
altrettante per tornare, ovviamente, parliamo pur sempre di una ventina di chilometri.
Alla partenza, dal piazzale della Colonia Provinciale di Caldirola, ci aspetta subito una dura
salita, giusto per ricordarci che la montagna è piacevole, ma è anche e soprattutto fatica.
Risaliamo, attraverso le piste da sci, fino a Passo Bruciamonica e da li ancora per poco fino alla
linea di crinale, fino a quando – davanti a noi – si presenta la sagoma del Monte Panà. La salita
al Panà (mt. 1559) e breve ma ripida, le pendenze sono notevoli e nonostante il bel panorama che
si può godere dalla cima, proseguiamo senza soste in leggera discesa fino a un cancello per il
bestiame, oltrepassato il quale abbandoniamo la linea di crinale per dirigerci a destra, su di uno
stretto sentierino che taglia il versante del Monte Cosfrone e ci porta su di una selletta
panoramica nei pressi del Monte Roncasso (mt. 1530). Da qui, sempre a mezza costa,
proseguiamo in direzione del Monte Ebro su di una sterrata che inizia a scendere e ci lascia
scorgere, poco al di sotto, l’ampio Prato delle Bordelle e – leggermente più distante - la
Cappelletta della Madonnina del Pascolo (mt. 1419).
Da Caldirola a Piuzzo
Partenza: Caldirola, Colonia
Provinciale
Arrivo: Piuzzo
Lunghezza del percorso (a/r):
18 km ca.
Tempo di percorrenza (a/r):
6.30 h ca
Segnavia: Il percorso non è
segnalato. Lungo il sentiero si
incontrano però a tratti dei
segnavia CAI 220 laddove il
percorso si sovrappone a quello
delle "12 fontane". Il sentiero e
la sterrata sono comunque
nettamente visibili.
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Il Prato delle Bordelle e l’arrivo a Piuzzo
L’enorme prato delle Bordelle, visto dall’alto, dà l’impressione di essere il green di un campo da
golf. La stupenda giornata estiva fa ancora di più risaltare il contrasto tra il verde dell’erba e
l’azzurro del cielo terso. Di fronte a noi, la Fontana delle Bordelle rilascia un’acqua freschissima,
che accogliamo con piacere nelle nostre bottiglie, nell’arsura dell’agosto di montagna. Poco
distante, la Malga di Costa Rivazza e una sorta di stalla ormai priva del tetto. Da qui, verso
Piuzzo, è solo una lunga discesa su di una sterrata che taglia il bosco dividendo la Costa delle
Braglie, a sinistra, dalla Selva di Teo, a destra.
Dopo una delle ultime curve della strada, compaiono di fronte a noi le frazioni di Daglio e
Vegni, ma di Piuzzo nemmeno l’ombra. Finalmente, proseguendo in discesa, dopo uno degli
ultimi tornanti, spunta - tra le foglie degli alberi - il campanile della chiesa. Ci accorgiamo di
essere arrivati a Piuzzo quando i cani iniziano ad abbaiare, annunciando il nostro ingresso in
paese. Prendiamo la strada larga, nel frattempo diventata asfaltata, passando nei pressi di un
agriturismo, fino ad arrivare ad una bacheca in legno, nei pressi della piazza, con le indicazioni
per il percorso escursionistico delle “12 fontane”. Una signora intenta a stendere sul balcone di
una casa ci saluta con un sorriso. Poi alziamo gli occhi: davanti alla chiesa, un parchetto con
delle altalene, un tavolo in legno e due panche ricavate dal tronco degli alberi. Ce la siamo
meritata, il nostro pranzo può avere inizio…
Riflessioni
Nelle nostre valli ci sono tanti paesini di cui conosciamo il nome, ma dove non siamo mai stati.
Mi piace andarli a visitare attraverso i sentieri, incontrare i paesani, i villeggianti e vedere le loro
reazioni. Qualcuno ti verrà incontro sorridendo con una storia da raccontarti, qualcun altro ti
guarderà con diffidenza girandoti alla larga. Piuzzo, in agosto, è un paese rinato: le finestre
aperte, le televisioni accese, le grida dei bambini che giocano in piazza sono interrotte solo dai
rintocchi delle campane. Penso, tra me e me, che tra pochi giorni rimarrà solo la montagna, con il
suo silenzio e mi sale un velo di tristezza. Ma rimetto lo zaino in spalla perché è ora di andare: il
viaggio è ancora lungo, e la salita è appena iniziata.
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Ormai siamo alle soglie del Natale. Un anno fa sembrava quasi un prolungamento dell’estate,
visto il clima tiepido che si era protratto molto in là. Ora no, ora è diverso. L’inverno inizia
lentamente a scendere sul nostro appennino, ma ci regala ancora giornate variabili, alternate ad
alcune in cui il freddo è pungente e si fa sentire. E’ già caduta la prima neve, però.
E per gli occhi è sempre un bello spettacolo, specie a queste altitudini.
La valle addormentata
L’alta Val Curone, quando cade la neve, sembra una valle addormentata. Tutto si ferma, scende
il silenzio. Oggi c’è un bel sole, la neve caduta nei giorni precedenti inizia a sciogliersi, d’altra
parte è la prima della stagione. Sono un po’ le prove generali di uno spettacolo che si terrà più
avanti.
Ma salendo in auto verso le stalle di Salogni ci viene quasi naturale immaginare la tranquillità di
questi piccoli borghi dell’alta valle ricoperti di neve, i prati imbiancati, i sentieri nascosti.
Sembra quasi che il tempo si sia fermato, che sotto a quello strato bianco nulla si muova. In
attesa della primavera.
Poco prima di Bruggi, il paese più nascosto della Val Curone, una stradina sale verso le stalle di
Salogni, punto di ritrovo degli amanti della montagna. Da qui si snodano numerosi sentieri, il più
trafficato è senza dubbio quello verso il Rifugio Orsi, ma sono molti anche quelli che scelgono di
salire alla volta di Bocche di Crenna, e da qui dirigersi poi a due tra le cime più alte del nostro
appennino, il Monte Chiappo (mt. 1701) e il Monte Ebro (mt. 1700).
Alle stalle finisce l’asfalto e la strada diventa sterrata. Ma neanche ce ne possiamo accorgere,
perché da alcune centinaia di metri a terra c'è uno strato di neve a ricoprire il tutto. Indossiamo
gli scarponi e si parte.
I ricami del vento
Dalle Stalle di Salogni all’Ebro … imbiancato
Partenza: Stalle di Salogni (mt.
1372)
Arrivo: M.te Ebro (mt. 1700)
Lunghezza del percorso (a/r):
6,6 km circa
Tempo di percorrenza (a/r):
1 h. 50 m . circa, con neve
Segnavia: si segue la sterrata
che sale oltre le stalle di Salogni
fino a Bocche di Crenna, poi ci
si immette sul sentiero n. 200
Anello Borbera-Spinti.
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Sulla neve si cammina a fatica, in alcuni punti è ricoperta da uno strato di ghiaccio, in altri punti
il sole l'ha già resa decisamente più morbida. Su di essa possiamo distinguere le impronte di
decine di animali che sono passati prima di noi. Come dire, la vita non si ferma, qui in montagna.
Costeggiamo la fiancata del Monte Ebro sempre in leggera salita e troviamo gli accumuli di neve
più consistenti, creati dal forte vento. In alcuni punti, il vento ha modellato la neve a tal punto da
farla sembrare una specie di opera d’arte, ricamandola con motivi originalissimi. Qui siamo
dentro alla neve quasi fino al ginocchio: è abbastanza faticoso, non c'è che dire.
Ma più ci si avvicina al valico di Bocche di Crenna (mt. 1553), più la presenza della neve si fa
rara. Superate le ultime "cavalle" di neve, compare sotto ai nostri piedi il terreno bagnato e
morbidissimo.
Da Bocche di Crenna, saliamo a destra verso l’Ebro. E' sufficiente arrivare a metà della salita,
per poter ammirare un panorama meraviglioso: il Penice con le sue antenne, il Lesima con il
radar, il Chiappo con il rifugio, la piramide dell'Alfeo, poi Cavalmurone, Legnà, Poggio
Rondino, Carmo, Antola e Buio. L'ultimo tratto, quasi pianeggiante, ci pone di fronte il Monte
Giarolo e, alle sue spalle, il massiccio innevato del Monte Rosa. Intorno a noi, le Alpi disegnano
una splendida cornice, peccato per le nuvole che nascondono la sagoma del Monviso.
La cresta è quasi del tutto sgombra da neve, il vento ha fatto il suo lavoro.
Arriviamo alla croce posizionata sulla cima del Monte Ebro e ci fermiamo ad ammirare il
meraviglioso panorama e ad ascoltare il silenzio, rotto solo dal rumore del forte vento che
troviamo sempre a queste altitudini. Purtroppo oggi il mare non si vede, in Liguria il cielo non è
terso. Peccato.
Riflessioni
I panorami che si ammirano con la neve sono un qualcosa di spettacolare, soprattutto nelle
giornate soleggiate come questa. Si tratta di una prima neve, in questo caso, peraltro già
ampiamente spazzata dal vento, almeno in cresta. Ma i sentieri, a valle, sono comunque
irriconoscibili, coperti totalmente dal manto bianco e segnati dal passaggio degli animali.
Ci sono i lupi da queste parti, dicono. In effetti alcune impronte non sono così familiari. Chissà
di notte che succede, sarebbe bello essere qui per poterlo scoprire (beh magari non proprio qui..)!
Il trekking sulla neve è faticoso, ma la curiosità per ammirare questi meravigliosi paesaggi
innevati ha avuto la meglio, almeno stavolta, ed è così che - zaino in spalla - sono partito per il
sentiero.
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Quale miglior modo di inaugurare il 2013 se non una bella ciaspolata?
L’anno nuovo è appena iniziato ed è già arrivata la neve, la sera di Capodanno. La natura brulla
dell’alta val Curone è nascosta sotto a uno strato bianco di 20 cm, niente di che, ma di questi
tempi si prende quello che viene. C’è crisi anche nelle nevicate. Siamo ancora stanchi dai
bagordi dell’ultimo dell’anno, meglio non camminare troppo. Ma è una giornata troppo bella per
restare chiusi in casa, c’è un bel sole e la temperatura è quasi primaverile. Così optiamo per una
camminata di quasi 5 km, ma con buone pendenze e nella neve bagnata fradicia: ci faremo
aiutare dalle ciaspole. Diciamo che come inizio può andare.
Verso il vecchio Convento
La salita da Caldirola al crinale che separa la val Curone dalla val Borbera non è per niente
simpatica, ma s’ha da fare. Le pendenze, soprattutto nel tratto iniziale, sono notevoli, e la neve
non è poca. Le piste da sci non sono ancora state battute, così passiamo nella neve fresca anche
se qualcuno, prima di noi, ha già avuto la nostra stessa idea, come dimostrano le impronte di
ciaspole, sci e scarponi. Per non contare le impronte che testimoniano il passaggio di una miriade
di animali selvatici, con i cinghiali che la fanno largamente da padroni. In poco più di mezz’ora
la salita così dura ci ha portato dai circa 1100 metri della Colonia Provinciale ai 1394 metri del
Passo di Bruciamonica, dove ammiriamo il primo, stupendo, panorama su tutta la val
Borbera.Dicono ci fosse un convento, poco più in là, ci sono ancora i resti. Alcuni mattoni
squadrati, a formare una specie di muretto, sono tutto quello che oggi ci rimane del Convento di
Brusamonica (da qui il nome del passo), eretto nel Medioevo e distrutto non si sa bene come,
forse a causa delle tante battaglie che queste montagne hanno ospitato. Alcuni ne parlano come
di un convento, altri di un monastero, altri di un castello. Misteri che le leggende hanno
alimentato. Oggi i resti saranno sommersi dalla neve, pensiamo, quindi proseguiamo nella
direzione opposta, il Monte Panà ci aspetta.
In silenzio, ad ascoltare la montagna
La cima innevata del Panà si inizia a intravedere poco prima dell'uscita da un bel boschetto. Qui
la neve è molta, meno male che abbiamo con noi le ciaspole, perché sarà così fino all'arrivo ai
piedi della salita finale, che è ripida e molto scivolosa. Ma come si fa a non fermarsi? Il cielo si è
Ciaspolando verso il Panà
Partenza e arrivo: Caldirola,
Colonia Provinciale (anello)
Tappe intermedie: Passo
Bruciamonica - Monte Panà -
Bivio Rifugio Orsi
Lunghezza del percorso: 4,5
km circa
Tempo di percorrenza: 2 h. 30
min. circa (con neve)
Segnavia: si risalgono le piste
da sci di Caldirola, quindi
sentiero n° 200 in cresta fino al
Monte Panà, poi si taglia sul
versante sinistro in discesa e si
imbocca il sentiero num. 106 in
direzione contraria fino alla
Colonia Prov. di Caldirola
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leggermente velato, di un misto tra l’azzurro e il grigio. E poi basta guardarsi un attimo alle
spalle per iniziare a scorgere un panorama fantastico. Così tra una foto e l’altra, la salita al Panà
dura il doppio del tempo.
Raggiunta la cima, a 1559 mt., si rimane in silenzio ad ammirare lo spettacolo della natura. Il
panorama è infinito.
Cerchiamo subito con lo sguardo il mare, che però è ancora una volta nascosto dalle nubi. La
catena delle Alpi fa da cornice a un paesaggio meraviglioso, che si estende a perdita d’occhio. Il
Monviso risalta tra le altre montagne, così come il Cervino e il Rosa, la cui cima svetta dietro
alla Statua del Redentore e alle antenne del Monte Giarolo. Ancora qualche foto, non possiamo
perderci questo spettacolo.
Poi si riparte, questa volta in discesa. Decidiamo di ritornare per un’altra strada, non segnalata,
scendendo sul versante della val Curone del Monte Panà lungo una staccionata, fino ad
incontrare l’intersezione con il sentiero 106, che conduce da Caldirola al Rifugio Orsi. Lo
percorriamo in senso contrario, togliendoci anche le ciaspole, visto che qui la neve è decisamente
poca, e in quasi venti minuti, ciaspole sotto braccio, siamo alla nostra macchina, pronti per il
rientro.
Riflessioni
Una camminata “per le feste”: tranquilla, breve, alla portata di tutti, anche di chi è meno allenato.
Un consiglio? Comprate le ciaspole. Se amate camminare sulla neve fresca, non potete farne a
meno. Senza di loro, la salita fino al Panà oggi sarebbe stata faticosa il doppio. 60 euro spesi
bene. E ripagati dalla meraviglia che potete vedere con i vostri occhi arrivando fin qui sopra in
giornate come questa, con la neve, un sole primaverile e la pace della montagna. E poi aiutano
anche a smaltire il cenone.
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Neve, neve, neve. Il 2013 continua a regalarci panorami imbiancati, come non succedeva da
tempo. Io sono un montanaro atipico, non perché non abbia la testa dura, ma nel senso che non
amo sciare. Amo ciaspolare, però. Questa volta sono riuscito a organizzare una bella camminata
con le racchette, dovrebbe raggiungermi Francesca, con la quale da un po’ parliamo di fare
un’escursione sulla neve, non vedo l’ora. Ho già organizzato tutto, salame, fontina, vino, tutto
pronto. Anche un po’ di grappa per scaldarsi, non si sa mai. Poi la sento, ha la febbre, non può
venire. Che faccio, vado lo stesso? Certo che si. Ma per questa volta niente merenda, aspetto che
Francesca si rimetta.
Foto ricordo
Sono indeciso sul giro da fare. Salirei per le piste da sci di Caldirola, ma con gli impianti aperti
penso che sarebbe opportuno passare dall'altra parte, verso il Rifugio Orsi. E allora, per andare in
cresta, la soluzione più veloce è salire dal versante non segnalato del monte Panà. Metto le
ciaspole e parto per il sentiero numero 106, ma le tolgo dopo pochi metri: la neve è troppo
gelata, si fa meno fatica con i soli scarponi. Riparto con le ciaspole in mano, fermandomi spesso
a immortalare lo spettacolo della neve, illuminata dal sole che filtra tra gli alberi spogli. Superato
il bivio per il sentiero 115, arrivo nei pressi del cancello, sul versante del Panà, dove si apre la
vista sui monti Ebro, Chiappo e Cosfrone. Pianto le ciaspole nella neve e mi fermo per una
prima sosta per bere un sorso d’acqua e scattare qualche foto. Da qui, per salire al Panà, non si
può fare a meno delle ciaspole, anche se il dislivello è eccessivo. In alcuni punti la neve è più
ghiacciata e le ciaspole fanno presa sulla crosta con i ramponi, ma in altri punti si affonda fino al
ginocchio e ogni passo avanti, se ne fanno due indietro. Quando arrivo sul Panà, con grande
rammarico vedo subito che la foschia della pianura è impenetrabile, ma il panorama merita
comunque di essere ammirato. Ah, e poi ci vuole una foto ricordo per Francesca, che è rimasta a
casa. Mentre la scatto rido da solo, pensando all’espressione che farà quando la vedrà.
Qui mi sento libero
Sono stanco, mi fermerei. Ma ne varrebbe la pena, dopo tutta la fatica fatta? Chissà che
spettacolo potrebbe essere proseguire fino al Cosfrone. E allora riparto, veloce. La cresta si
percorre bene, c'è tanta neve ma con le ciaspole si procede spediti. C'è un sole fortissimo,
scorrendo con lo sguardo in direzione del mar Ligure, si vede la foschia schiarirsi, ma non
Una caspolata senza merenda
Partenza: Caldirola, Colonia
Provinciale
Tappe intermedie: Bivio
Rifugio Orsi, M.te Panà
Arrivo: M.te Cosfrone (mt.
1651)
Lunghezza del percorso (a/r): 7 km ca.
Tempo di percorrenza (a/r): 3h. 30 min. ca.
Segnavia: 106 fino al bivio
Rifugio Orsi, poi si sale lungo le
pendici del Panà (non segnalato)
e quindi, in cima, si segue la
cresta (200) fino al M.te
Cosfrone.
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abbastanza da lasciarmi intravedere Capo Noli, mentre dalla parte opposta, la prospettiva
inganna e sembra che la palla-radar sulla cima del Monte Lesima e il Rifugio del Monte Chiappo
siano l'una accanto all'altro, sulla stessa montagna.
Quando raggiungo la cima del Cosfrone, a 1651 metri, rimango senza parole, è una meraviglia.
La neve, il ghiaccio e il vento hanno creato dei disegni sulle staccionate e sui cartelli che sono
difficilmente immaginabili da una mente umana. Mi fermo ad ammirare lo spettacolo di fronte a
me, e mi sento veramente libero, come mi accade solo quando sono quassù.
Le montagne di fronte a me, stracolme di neve, sono divise solo da un po' di foschia nelle valli
interne. La vetta dell’Ebro non è distante, ma è tardi e non me la sento di proseguire oltre e
decido di fermarmi, proprio mentre arrivano altri due escursionisti muniti di racchette da neve,
che mi salutano e proseguono oltre. Rimetto lo zaino e torno verso casa. Mentre cammino,
ripenso a quello che Francesca si è persa oggi, un vero peccato. Ma anche a me è mancato il suo
sorriso, le sue battute. Speriamo di poter presto ripetere la ciaspolata, con lei. E la merenda!
Riflessioni
Escursione di per sé non molto impegnativa, ma resa molto dura dalla presenza della (troppa)
neve, soprattutto sul versante non segnalato del Panà. Con pendenze così elevate, in alcuni punti,
senza rami o altro a cui attaccarsi, non è semplice rimanere in piedi. Non a caso ho impiegato
oltre un’ora per fare una salita che, normalmente, richiede non più di venticinque minuti. Ma una
volta arrivati in cresta, è una meraviglia. Per gli occhi, per l'anima, per tutto. Avrei fatto
volentieri a meno della foschia che ha oscurato buona parte del panorama, ma non si può avere
tutto. E col sole che c’era…quasi quasi al ritorno in ufficio dico che ho fatto un weekend alle
Maldive.
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Finalmente si ciaspola! Mentre la aspetto, fermo in macchina, sbadiglio in continuazione, davanti
alla bocchetta del riscaldamento che mi soffia aria calda in faccia. Fuori fa freddo, prima -7, ora
la temperatura si è alzata, ma io sono vestito con milioni di strati e nonostante tutto un brividino
mi sale per la schiena. Quando Lei arriva, mi affianca con la macchina prima di parcheggiare, mi
fa uno dei suoi sorrisi contagiosi e io mi sveglio. Buongiorno mondo! Sale in macchina e si
parte, ho pensato che potremmo andare fino alla strada che sale alle stalle di Salogni, lasciare la
macchina, mettere le ciaspole e partire, a piedi, per andare fino al M.te Chiappo.
Una salita faticosa
Il rumore delle racchette che rompono la neve ghiacciata è già fastidioso dopo pochi minuti di
viaggio, credo che più andremo avanti, più ci abitueremo e non ci faremo più caso. O almeno lo
spero. Il sole picchia, fa caldo. E' lunga arrivare alle stalle, ma passa piuttosto in fretta,
raccontandosi qualcosa e guardando un po' il panorama intorno, con Bruggi che appare e
scompare dopo ogni curva della strada e qualche bella vista su tutta la val Curone. Dopo una
piccola sosta alla fontana dietro alle Stalle, con un po’ più di forza e voglia di ridere ripartiamo
alla volta di Bocche di Crenna. Un altro ciaspolatore in breve ci raggiunge e fa con noi il pezzo
di strada che manca per arrivare al valico, dove ci salutiamo e prendiamo direzioni diverse.
Quando arriviamo al Prenardo, vediamo finalmente il rifugio del Chiappo avvicinarsi. Dopo un
ultimo strappetto in salita, ci dirigiamo verso la cima del monte, con la statua di San Giuseppe
attorno alla quale la neve già se ne è andata. Lei scatta una foto panoramica, poi scendiamo verso
il Rifugio, che come pensavamo è chiuso.
Parlare con lei
Via le ciaspole, ci sediamo sulla panchina sul fianco che guarda verso il Lesima. Lei taglia il
salame, io apro il vino. Mentre mangiamo, sentiamo le voci di altre persone, che nel frattempo
sono arrivate sul monte. Certo che fa un freddo...stare fermi con quest'aria è dura, dobbiamo
spostarci. Ci mettiamo davanti all'ingresso del Rifugio, su di una panchina al sole. Qui c'è meno
aria, allunghiamo le gambe sulla neve, divisi solo dalla bottiglia di vino, e restiamo a parlare per
un po'. Resterei qui tutto il giorno, è bello parlare con Lei, è una persona profondamente
piacevole. Se mi avessero detto che un giorno saremmo stati a 1700 metri, con le gambe distese
sulla neve, a bere vino, mangiare cioccolato e chiacchierare mi sarei messo a ridere e avrei detto
Una giornata quasi perfetta
Partenza: Bivio Stalle di
Salogni, SP113
Tappe intermedie: Stalle di
Salogni; Bocche di Crenna;
Monte Prenardo
Arrivo: Monte Chiappo (mt.
1700)
Lunghezza del percorso (a/r):
13,6 km (Clicca qui per
l'itinerario completo della
ciaspolata)
Tempo di percorrenza (a/r):
poco meno di 7 h
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"impossibile!". Devo imparare a non dire mai "impossibile", specie con Lei. Una nuvola copre
velocemente il sole e la temperatura crolla di colpo. Sono le tre passate, dobbiamo muoverci,
cerchiamo di alzarci ma le nostre articolazioni cigolano, con tutto questo freddo.
Il mare
"Ma quello è il mare?", chiede Lei. Non mi ricordavo, ma effettivamente quando si è sul
Chiappo al pomeriggio, capita spesso di vedere un bello spettacolo con la luce del sole che si
riflette sull'acqua del Mar Ligure. "Eh si, è il mare", le rispondo, quando vedo davanti a me
quella meraviglia. E' in momenti come questi che mi sento ripagato in pieno dalla fatica che
faccio camminando, e credo sia piaciuto anche a Lei, perché non capita di vederlo tutti i giorni.
Poco prima di lasciare la cima del Chiappo un cane ci corre incontro per prendersi un po' di feste,
dietro di lui due signori saliti da Capanne di Cosola, che ci chiedono da dove arriviamo e con i
quali scambiamo due parole. Iniziamo la lunga discesa verso la macchina. Le gambe iniziano a
fare male. Per fortuna che sono con Lei, penso, mentre camminiamo sghignazzando, se fossi con
una persona noiosa questa strada durerebbe un'eternità. Il sole ormai sta tramontando, scendendo
vediamo Bruggi illuminato ancora per metà, ma la sera sta ormai sopraggiungendo.
Forse ho scelto una camminata troppo lunga, però sono contento di averla portata là sopra, dove
si incontrano le tre regioni, a vedere lo spettacolo della neve e del mare illuminato dal sole.
Prende la sua roba, ci salutiamo e se ne va, non prima di avermi detto che è pronta per un'altra
ciaspolata. "Sono io a non essere pronto!", penso, mentre con l'agilità di un paralitico cerco di
sedermi al posto di guida. Ma tra qualche giorno passerà tutto.
Vado verso casa, con la faccia che mi brucia per il sole e l'aria gelida, stanco, ma felice. Una
giornata quasi perfetta: è bello stare con una persona che non smette mai di sorridere.
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Sono fortunato, perché quando voglio staccare la spina ho la possibilità di isolarmi dal mondo e
di scappare in mezzo alle montagne, nascondermi tra i sentieri e pensare solo a me stesso. E così,
sapere che potrò di nuovo tornare là sopra, mi rende felice. Sapere che ci tornerò ancora con Lei
mi raddoppia la felicità, mi fa sentire al sicuro. Mi sveglio che c'è già un bel sole. Spero che Lei
stia facendo il suo dovere. Me la immagino in panetteria, piena di sacchetti. Se un po' la conosco,
so che non arriverà solo con il pane che le ho chiesto di comprare. Chissà, se anche Lei sta
imparando a conoscermi, magari immagina che non manterrò le promesse e non avrò solo il
cioccolato nello zaino.
La colazione
Quando arriva ci prepariamo, ciaspole ai piedi e via. Ah, no, dimenticavo: la colazione.
Lei fruga nello zaino e tira fuori la focaccia dolce. Io sorrido, i miei sospetti erano confermati.
Una striscetta soltanto, però. "L'altra si mangia dopo”, le dico. Il sole filtra tra i tronchi degli
alberi: tra poco potremo farci scaldare per bene, quando usciremo da questo bosco, sperando che
non ci sia il vento, là sopra. Arriviamo al cancello sul versante del Panà, punto stabilito per la
seconda colazione della giornata.
Ci sediamo al sole, uno accanto all'altra. Mi passa le strisce di focaccia dolce e cominciano le
prime risate. Ci scattiamo una foto alle ciaspole con il panorama del Chiappo sullo sfondo,
beviamo un sorso d'acqua e ci rimettiamo in cammino. Con la pancia piena si cammina meglio.
La prossima tappa sarà il Rifugio Orsi, ma prima di arrivarci ci fermiamo a riempire le
bottigliette d'acqua alla fontana che si trova lungo il sentiero, dove scattiamo una foto agli strani
oggetti di ghiaccio creati dal freddo. L'ampio prato che precede il Rifugio è totalmente innevato,
tagliato a metà da uno stretto sentierino creato dalle ciaspole. Arriviamo nei pressi delle fontane
del Rifugio e guardiamo la salita di fronte a noi. Da ora in poi si parlerà poco.
Un’immagine da copertina
Inizia la salita verso l'Ebro: piano piano saliamo tra gli alberi, fino ad arrivare ad un punto in cui
il sentierino tracciato da chi ci ha preceduto prende una strana direzione. Sono indeciso se
seguirlo, perché il sentiero sale dalla parte opposta. Però vedo gente scendere di fronte a noi e
quindi proseguiamo verso la loro direzione. Scelta sbagliata.
Feel good time
Partenza: Caldirola, Colonia
Provinciale
Tappe intermedie: Rifugio
Orsi
Arrivo: Monte Ebro (mt. 1701)
Lunghezza del percorso (a/r):
oltre 9 km.
Tempo di percorrenza (a/r):
4 h. 30 min. circa
21
Poco dopo, infatti, siamo costretti a tagliare nella neve fresca per riportarci sul sentiero numero
106. Arriviamo su di un piccolo spiazzo, in mezzo agli alberi spogli, dove ci sono tutte le
condizioni per la terza colazione della mattinata: cioccolata, con focaccia, of course.
Ripartiamo verso il laghetto sotto al Monte Cosfrone, con la spinta del cioccolato. Il laghetto è
coperto di neve e di ghiaccio, e il sentierino creato dalle ciaspole ci passa proprio sopra. Ci
fermiamo un attimo a respirare, scoprendo di fronte ai nostri occhi uno spettacolo meraviglioso: i
tronchi sottili degli alberi fanno filtrare il sole, e dietro di loro un cielo azzurro leggermente
velato di grigio. Ai piedi di ogni albero, un cerchiolino senza neve. Un'immagine da copertina.
Quando usciamo dal boschetto, vediamo finalmente vicina la meta.
Stare bene
Arriviamo in cresta, che spettacolo. Il cielo non è proprio terso, ma le nuvole sono belle da
guardare, da fotografare. Il mare non si vede, nemmeno le Alpi. Ma chi se ne frega, noi siamo
felici. E' ora di pranzo, togliamo le ciaspole e ci sediamo sulla base che sorregge la croce
dell'Ebro, con lo sguardo rivolto verso la Val Borbera e il sole che ci illumina i volti. Io apro il
vino, Lei tira fuori tutti i sacchetti che ha portato via dal panettiere, proprio come l'avevo
immaginata questa mattina prima di partire. Intanto arriva gente, si siedono un po' dove riescono:
mi spiace per loro, ma i posti buoni oggi li abbiamo noi. Le cose importanti ci sono tutte:
cioccolata, focaccia, vino, pane, salame, fontina, io, Lei, la montagna, il silenzio. Il silenzio lo
riempiamo noi con le nostre risate. I nostri vicini forse vorrebbero restare tranquilli a godersi
questo spettacolo di panorama. Ma che ci vuoi fare, siamo fatti così, noi gente alla buona,
parliamo con la bocca piena. Capiamo che il pomeriggio si sta facendo inoltrato quando iniziamo
a vedere il sole che si riflette nell'acqua del mare, creando una sfumatura rossastra di fronte a noi.
Voglio restare qui, per sempre.
Arriva la sera
Scendiamo dall'Ebro in preda alla ridarola (sarà il vino?) e ci facciamo ancora qualche foto
insieme. A casa, quando le rivedrò, ne troverò una in particolare che esprime alla perfezione la
nostra felicità. Per una volta, cammino senza guardare il panorama intorno a me, impegnato
come sono ad ascoltare quello che mi dice, mi incuriosisce. Ci sono dei punti del sentiero del
ritorno in cui neanche mi ricordo di essere passato.
Scendiamo verso Caldirola, dalle piste. La discesa dal Panà e difficoltosa, si scivola, ma passa
piuttosto in fretta, poi deviamo a destra e risparmiamo un po' di strada. Quando si iniziano a
vedere le case di Caldirola, manca davvero poco. Dopo l'ultima ripida discesa, vediamo di fronte
a noi i fari del gatto delle nevi che sale per battere le piste. "Anche oggi abbiamo fatto tardi",
penso. Guardo l'ora: le cinque e mezza, Sta scendendo la sera.
"Allora, ci vediamo sabato?" mi dice Lei mentre ci stiamo salutando.
Io sorrido, e corro a casa a guardare le previsioni del tempo per il prossimo fine settimana.
L’uovo fuori dalla cavagna
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"Quando ti chiederanno cosa significa avere la lingua fuori dalla stanchezza, ricordati questo
momento!", ho detto a Francesca, sulla strada del ritorno, mentre camminavamo con la testa
bassa, senza parlare, trascinando i bastoncini. Lei ogni tanto alzava la testa per dire "Muerta!", io
la guardavo e mi scappava da ridere, nonostante fossi evidentemente troppo stanco per farlo. Eh
si, ci siamo detti, "stavolta abbiamo fatto l'uovo fuori dalla cavagna!!". La colpa è mia, come
sempre, che le ho proposto un itinerario nuovo – dalle Capanne di Cosola al Monte Carmo – ma
anche parecchio lungo.
In viaggio
Ci troviamo a San Sebastiano, dobbiamo svallare e andare in val Borbera, la strada è lunga e
siamo ancora un po' assonnati. Arrivati al valico di Capanne di Cosola, nei pressi dell'albergo ci
infiliamo lungo la strada che conduce a Bogli, ancora sporca di neve, e arriviamo in breve al
punto di partenza della nostra escursione. Scavalchiamo la neve ammucchiata ai lati della strada
e ci incamminiamo lungo il sentiero, che sale sotto agli alberi, per poi mostrarci la salita al
Monte Cavalmurone, tutta in cresta, esattamente sul confine tra Piemonte ed Emilia. C'è un sole
meraviglioso e possiamo sentire le nostre facce scaldarsi fino a bruciare. La neve fresca ci fa
quasi venire voglia di buttarci per fare qualche stampino, come l'ultima volta che siamo andati a
ciaspolare insieme. "Lo facciamo al ritorno", le dico, ignorando che al ritorno non avremmo
avuto nemmeno la forza di camminare!
Abbiamo un buon passo, e raggiungiamo la prima delle due vette del Cavalmurone, a 1662
metri, da cui scatto qualche immagine dei tetti delle case di Cosola, così lontane e così in basso
da mettermi quasi le vertigini. Tra la prima e la seconda cima del Cavalmurone, ci infiliamo in
una conca naturale sul fianco del sentiero, dove la tanta neve caduta ha creato delle pareti così
alte che "sembra di essere in un canyon", dice Francesca. Metto lo zaino a terra, a fare da
"cavalletto" per la macchina fotografica, e ci facciamo un autoscatto, con il meraviglioso sfondo
della neve a farci da contorno.
Il sentiero scende e risale velocemente, verso il Monte Legnà. Francesca mi fa notare che gli
alberi di fronte a noi disegnano con la loro ombra dei tratti sulla neve che sembrano fatti da una
matita. Senza salire in cima al Legnà, seguiamo il sentiero sulla sinistra fermandoci alle sue
pendici, a 1648 metri, in uno stupendo punto panoramico, per goderci la nostra meritata
colazione, perché "siamo a metà sentiero", le dico, facendo una previsione tra le più sbagliate
nella storia dell'umanità. Ci sediamo fianco a fianco sulla neve: di fronte a noi il Monte Alfeo in
tutta la sua imponenza, il minuscolo paesino di Pizzonero e in basso i tetti delle case di Bogli. La
Partenza: Capanne di Cosola
(mt. 1499)
Tappe intermedie: M.te
Cavalmurone, M.te Legnà,
Passo del Legnà, Poggio
Rondino
Arrivo: Monte Carmo (mt.
1642)
Lunghezza del percorso (a/r):
circa 14 km (Clicca qui per
l'itinerario della ciaspolata)
Tempo di percorrenza (a/r): 7
h. circa
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colazione si protrae più del previsto, d'altra parte è quasi mezzogiorno. Ma quando ci alziamo,
non sappiamo minimamente quello che ci aspetta.
A un passo dalla “muerte”
La discesa verso il Passo del Legnà non è semplice, ma il peggio viene una volta superato il
valico, perché il sentiero che passa nel bosco è irriconoscibile a causa della troppa neve caduta e
dobbiamo così tornare indietro per riprendere il sentiero che sale dall’altra parte, fuori dal bosco.
Meno male che un'alternativa c'è sempre, in montagna. Il sentiero scende leggermente,
mostrandoci sulla destra un bello scorcio del paesino di Cartasegna, con i tetti rossi già ripuliti
dalla neve, poi si fa più stretto ed inizia a salire tra gli alberi. Mentre camminiamo, parliamo. "Tu
un po' attiri le pazze" mi dice lei. "Certo" le rispondo io "è sufficiente che guardi con chi sei in
questo momento!". Inizia un'altra salita, faticosissima, nella neve fresca. Un cartello ci ricorda
che almeno fino a qui, al Poggio Rondino (1543 metri), ci siamo arrivati. Guardiamo l'ora, è
tardi, per il Carmo ci vorrà ancora almeno un’ora e stanno arrivando dei nuvoloni neri che non
promettono nulla di buono. Se siamo arrivati fino a qui, è un peccato fermarsi, ma se uno dei due
dicesse di tornare indietro, credo che l'altro non si opporrebbe. Tagliamo sul fianco il Poggio
Rondino, camminando su una neve morbidissima. Siamo distrutti, non alziamo più i piedi. La
neve farinosa mi si ferma sotto alle ciaspole gelando istantaneamente e creandomi un "tacco" che
mi alza ogni passo di qualche centimetro. Io continuo a scrollare i piedi per fare staccare il disco
di neve gelata che mi si è formato sotto alle ciaspole. Lei usa la poca forza che le è rimasta per
dirmi che assomiglio ai gatti quando si bagnano le zampe e le scrollano. Scoppiamo in una risata
che ci dà ancora la forza per proseguire. Quando arriviamo sotto alla salita finale, vediamo che
ancora non ci è passato nessuno e con queste cavalle di neve, salire richiederà il doppio della
fatica. Io apro la strada, davanti, lei da dietro mi spinge con le mani per non farmi scivolare.
Siamo ridicoli, se qualcuno ci vedesse riderebbe come un matto. Ci fermiamo a metà salita e lei
mi scatta qualche foto, poi riprendiamo, per gli ultimi metri, fino a che intravediamo la punta
della croce. Arriviamo in cima, a 1642 metri, gettiamo a terra zaino e bastoncini, ed esclamiamo
"mai più!!". Sono le 14,30.
Presto che è tardi!
Dal Carmo il panorama è splendido. La selvaggia Val Boreca e l'Alta Val Trebbia sono separate
da una catena di montagne, mentre dalla parte opposta si vedono i confini estremi dell'Alta Val
Borbera. Lei si siede sulla base della croce, io scatto qualche foto e mi siedo accanto a lei. Le
nuvole hanno coperto il sole e l'aria gelida ci taglia la schiena a metà. Mentre mangiamo, rivolti
con lo sguardo verso il punto da cui siamo partiti, mi racconta un po' di lei, del suo lavoro e della
casa che sta cercando. Alle nostre spalle, le nuvole nere hanno fatto scomparire la cima
dell'Antola, mentre poco più a destra, si intravede il mare, con la luce rossa del sole del
pomeriggio che riflette sull'acqua. Continuiamo a parlare, ma nonostante il vino stentiamo a
scaldarci, l'aria è veramente fredda, bisogna ripartire. Ci alziamo e ci facciamo qualche
autoscatto, con la faccia congelata dal freddo, poi ci rimettiamo in cammino.
Mentre scendiamo dal Carmo, alle nostre spalle le nuvole nere sembrano quasi camminare più
forte di noi. Sorridiamo guardando le nostre impronte e le traiettorie che abbiamo seguito negli
ultimi metri del viaggio di andata: traiettorie totalmente inventate, senza un minimo criterio. Ci
credo che eravamo stanchi, barcollavamo da una parte all'altra allungando il percorso.
Alle nostre spalle, il Carmo è ormai lontano. Il cielo ha cambiato colore: guardando in direzione
del mare, un fitto strato di nuvole nasconde il sole, i cui raggi filtrano però al di sotto
illuminando le montagne, con un effetto ottico meraviglioso. Arriviamo piuttosto velocemente al
Poggio Rondino, poi lei si butta sulla neve per creare un altro disegno. "Voglio fare l'omino che
corre!" mi dice, dimenandosi sulla neve in posizioni assurde. Io rido come un matto, la fotografo
con le lacrime agli occhi.
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Arrivati al passo del Legnà, la salita di fronte a noi sembra infinita e di colpo, crolla
l'entusiasmo. Saliamo lentamente, appoggiandoci ai bastoncini, con le ciaspole che affondano
nella neve e ci fanno scivolare ad ogni passo. A metà della prima salita, lei mi lancia qualche
maledizione per la strada che le ho fatto fare, poi si ferma. Io la raggiungo e appoggio la testa
sulle sue spalle, stanco morto, lei si lascia andare e si appoggia a me. Avrei voglia di
abbracciarla, non so se per scusarmi o per ringraziarla per tutto quello - fatica compresa - che
abbiamo condiviso in questa giornata che ancora non è finita. Arrivati alle pendici del Legnà, ci
buttiamo a terra, stremati. Ci corichiamo sulla neve, guardando il cielo azzurro e le nuvole che lo
attraversano veloci. Ho freddo, mi stanno venendo i brividi.
Un tramonto da sogno
Mentre ci dirigiamo verso la prima cima del Cavalmurone, cambia la luce: ormai sono le cinque
e venti. Le nuvole aumentano, il sole alle loro spalle regala delle immagini meravigliose. Il vento
inizia a trascinare un po' di neve, le previsioni lo avevano detto. Scendendo dal Cavalmurone, ci
ritorna improvvisamente la voglia di parlare, mentre alla nostra sinistra sta per iniziare un
tramonto mozzafiato. Cade un nevischio sottile ma fitto, sospinto dal vento, mentre all'imbocco
della Val Borbera il cielo diventa sempre più rosso, schiacciato tra le nuvole nere da una parte e
il cielo sereno dall'altra, con quella luce stranissima che si vede solo poco prima che diventi buio.
Il sole si abbassa sempre di più, fino a spuntare sotto alle nuvole, illuminando tutte le montagne
dell'Alta Valle. Arriviamo alla macchina, dopo esserci tolti le ciaspole: ormai è diventato buio
del tutto e sulla macchina c'è un sottile strato di neve. Saliamo e accendiamo subito il
riscaldamento, ancora tutti infreddoliti e bagnati. La strada del ritorno è lunga, parliamo a voce
bassa, quasi che col buio non si possa gridare troppo. Ma forse è la stanchezza che ci ha tolto
anche la voce. La riporto alla macchina e ci salutiamo, poi corro verso casa, dove arrivo senza
nemmeno la forza di scaricare le ciaspole e i bastoncini dalla macchina. Una doccia infinita, poi
mi stendo sul divano: la stufa a pellet è carica e fuori inizia a nevicare. Domani potrò tenere il
pigiama per tutto il giorno.
Addio neve …!
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Ci accompagnava da quattro mesi e sembrava non volersene andare più. Anzi, continuava ad
arrivarne dell'altra, senza dare il tempo a quella che c'era di diminuire. Il livello saliva, saliva,
fino a ricoprire interamente le staccionate sulla cresta: un manto di poco più di un metro, così, a
occhio. Il 2 gennaio la prima, forte, nevicata dell'anno, subito spazzata via da un po' di sole, poi
tre mesi intensi, fino a metà marzo, e un ultimo mese in cui nonostante non nevicasse più, la
neve non se ne andava per le basse temperature.
Un inverno lungo, trascorso con le ciaspole ai piedi, tra fatica e divertimento. Da inizio febbraio
a inizio marzo forse il periodo più intenso, più bello. Poi piano piano l'inverno con tutto quello
che ha portato è andato scemando. Solo qualche settimana fa l'ultima ciaspolata, poi una lunga
pausa. Nelle poche giornate di sole di questa fine di aprile, cerchiamo di annusare un po' di
primavera. Ce n'è bisogno, almeno per me.
In settimana, dalla città, guardavo verso i miei monti - nelle poche giornate di cielo terso - e
vedevo la neve rotta, ormai presente a chiazze e solo sui monti più alti. Altrove, si vedeva già
l'erba. Chissà però nei boschi, come sarà la situazione: tutta la neve che c'era, considerando che il
sole non ci arriva direttamente, non credo che se ne sia già andata. Per questo aspettavo con ansia
un giorno di bel tempo (o almeno senza pioggia!) per andare a farmi un giro. Quel giorno è oggi.
Il sole è un po' velato, il cielo di un azzurro un po' smorto, ma si va, non ci sono alternative.
Sono fermo da troppo tempo, ho bisogno di camminare. Ho voglia di sole e di montagna. Ora
con il sole si potranno iniziare a fare dei giri un po' più lunghi, si potranno cambiare un po' gli
itinerari, che con la neve erano in un certo senso obbligati. Ma all'inizio è bene fare un po' di
allenamento su piste collaudate, quindi oggi andiamo all'Ebro.
Quante macchine trovo già alla partenza del sentiero! Oggi sono in tanti ad avere voluto
approfittare della bella giornata, ci sarà traffico sui monti. Mi fa un po' strano parcheggiare,
scendere dalla macchina e non fermarmi a mettere le ciaspole: ormai era un'abitudine
irrinunciabile. Da oggi prendo solo lo zaino, gli scarponi li ho già indossati. E non ho neanche la
giacca a vento: inizio a togliermi peso, non solo in senso fisico, perché anche il mio umore è
migliore.
Provo una strana sensazione anche all'imbocco del sentiero 106, che vedo per la prima volta da
quattro mesi senza un filo di neve: per terra tante foglie, sul fianco del sentiero un po' di verde
sta cercando di mettere fuori il naso. Tiro un forte respiro, come per incamerare l'aria della
primavera e mi incammino.
E' un sentiero che ho percorso centinaia di volte, ma ogni tratto mi sembra nuovo. Il mio sguardo
aveva fatto l'abitudine alla neve e avevo rimosso tanti dettagli. Della neve nemmeno l'ombra, per
Partenza: Caldirola, Colonia
Provinciale
Tappe intermedie: Bivio Rif.
Orsi, M.te Panà, M.te Cosfrone
Arrivo: Monte Ebro (Mt.
1701)
Lunghezza del percorso (a/r):
circa 9 km.
Tempo di percorrenza (a/r):
3 h. circa
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tutta la prima parte di sentiero non se ne vede, se non una piccola macchiolina che si è attardata
sulle foglie del sentiero. Però c'è un sacco di acqua, che in alcuni punti scende addirittura in
mezzo al sentiero, scavando nella terra: teniamocela stretta perché tra qualche mese tutta
quest'acqua sarà solo un ricordo. I rii sono tutti ingrossati e scendono fragorosi, facendo un
rumore che di solito non sono abituato a sentire quando percorro questo tracciato.
Mi stupisco ancora di più quando arrivo al bivio per la Fontana Nascosta, che fino a poco tempo
fa era letteralmente sommerso di neve. Anche qui non ve n'è traccia e se devo dirvi la verità,
inizio ad essere moderatamente ottimista sul fatto che il sentiero sia in buona parte pulito dalla
neve. Salgo sulla sinistra in direzione del Rifugio, poi - dopo un breve tratto di piano - sulla
destra, dopo aver superato due escursionisti con un cagnolino. Superata l'intersezione con il
sentiero 115, vedo dopo pochi passi di fronte a me il cancello posizionato sul versante del Panà,
punto di sosta (merenda?) di tante mie escursioni. Qui spesso mi fermavo a stringere le ciaspole
e a mangiare la focaccia con Francesca, oggi invece mi fermo solo per scattare una foto ai monti
davanti a me, poi riparto veloce alla volta della cima del Panà, salendo sulla destra lungo la
staccionata ed abbandonando, quindi, il sentiero 106, che secondo me sarà ancora discretamente
sporco di neve, soprattutto nel tratto dopo il Rifugio Orsi e verso il Monte Ebro. Affronto la
salita sul versante del Panà per la prima volta in assoluto senza neve e devo dire che è tutta
un'altra cosa: si sale che è una meraviglia. Mi fermo poche volte a prendere fiato e in breve
arrivo alla fine della vegetazione: di fronte a me solo l'ultimo tratto di salita - molto ripida, ma
corta - alla vetta del Panà.
Arrivo al Panà che c'è aria fredda e mi copro immediatamente mettendomi una maglia. Mentre
mi fermo a bere, vedo sullo sfondo della pianura una marcata linea di foschia che copre buona
parte del panorama, subito alle spalle del Giarolo. Ma non solo, verso la val Borbera il tempo
forse è ancora più brutto. Su di me però splende un bel sole: ora il cielo sembra avere smesso
quel velo che lo copriva e sento la fronte che brucia. Riparto alla volta del Cosfrone, mentre
davanti a me si materializzano l'Ebro e il Chiappo le cui cime sono ancora innevate, ma il manto
è "spaccato" e piano piano la neve si sta sciogliendo.
Poco dopo il cartello che mi segnala l'arrivo sul Panà, rimango colpito da quello che vedo sulla
sinistra del sentiero: un blocco di neve, piuttosto grande, è ancora presente sull'erba ma se in
alcuni punti lo strato è uniforme, in altri la neve ha iniziato a sciogliersi e ha disegnato dei cerchi
che io neanche con un compasso riuscirei a fare così bene. Dopo una foto alla neve, mi
incammino sulla salita per il Cosfrone (anzi: sulle salite..) e ripenso a quando, qualche mese fa,
ero qui sopra in mezzo alla bufera di neve, con una visibilità pari a zero. Ora questo cielo azzurro
mette voglia di vivere, e per terra stanno spuntando i primi, coloratissimi, fiori.
Un po' di neve si incontra anche prima dell'ultima salita al Cosfrone, da dove posso vedere che
anche il laghetto sul sentiero 106 è ancora nascosto sotto alla neve. Raggiunto il Cosfrone, vedo
che in alta val Borbera, tra le montagne di Vegni, Agneto e Dova c'è una strana foschia che si
insinua tra i versanti. Anche in direzione dell'Antola il cielo non è pulito come qui.
Tra il Cosfrone e l'Ebro c'è spazio per il primo, importante, ritorno della neve, che in un punto
copre tutto il sentiero e bisogna per forza di cose metterci dentro i piedi. Ma da qui in poi,
nonostante il versante dell'Ebro verso la Val Curone sia ancora tutto "sporco" di neve, io non ne
incontrerò più.
Arrivo sulla cima dell'Ebro che non c'è neanche molta aria e posso rimanere in maglia senza
morire di freddo. Anzi, il sole picchia eccome. Sulla vetta, di fianco alla croce, ci sono altre
persone, tra cui un signore che mi dice di avere "87 anni!" lasciandomi senza parole. Arrivarci,
alla sua età, ancora a 1700 metri...
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Mentre sono in cima, arriva una coppia di giovani ragazzi, che si siedono poco più in là nell'erba.
Li guardo con un velo di tristezza, o forse di invidia, sono stanchi ma mi sembrano felici. Vorrei
averla io una ragazza che ama camminare, credo che potrei essere l'uomo più felice della terra se
la incontrassi.
Sgranocchio qualcosa e bevo, mentre guardo in lontananza le cime dell'appennino delle quattro
province: solo sul Cavalmurone e sul Legnà sembra esserci ancora qualche traccia di neve,
mentre altrove - Alfeo, Carmo, Antola e Buio - sembra che la cima sia quasi del tutto verde.
Bene, bene, tra poco mi dirigerò anche verso quelle direzioni.
Il ritorno scivola via in fretta, avvolto nei miei soliti pensieri. Però sto bene, camminare con
questo bel sole e con questa temperatura gradevole è proprio un piacere. Mi tolgo anche la
maglia e mi metto in maniche corte, tanto fa caldo. Arrivato sul Panà, decido di scendere dalle
piste, per vedere com'è la situazione neve.
Qui solo tre settimane fa la neve era tantissima, specie sulla discesa del Panà, ma ora non ne è
rimasta un filo. Ha fatto proprio presto ad andarsene.
Arrivo sotto al Panà e mi metto a fissare un punto davanti a me, sulla destra del sentiero, in un
prato. Mi è sembrato di vedere qualcosa muoversi, ma da lontano non capisco cosa sia. Mi
avvicino lentamente e tengo pronta la macchina fotografica: un capriolo sta mangiando l'erba,
poco più distante. Non mi ha sentito e provo ad avvicinarmi ancora un pochino, mentre gli scatto
alcune foto e mi maledico per non aver portato con me lo zoom più potente. Tempo di fargli 3-4
foto, poi il capriolo si sposta verso l'interno del bosco, tra gli alberi. E' la prima volta che lo vedo
così da vicino e di giorno.
Attraverso il boschetto che mi porta a Passo Bruciamonica, poi scendo sulla pista numero 4,
dove invece trovo ancora un po' di neve. Qui ha faticato ad andarsene, forse perché era stata
battuta. Ma superato questo tratto, fino all'arrivo alla Colonia Provinciale, di neve non se ne
trova più.
Le piste sono agibili e sicuramente la pioggia che cadrà nei prossimi giorni cancellerà anche
quella poca, ultima, neve rimasta. Poi partiremo finalmente con la stagione estiva, visto che la
primavera, quest'anno, pare proprio essere stata cancellata dal calendario! Ah, e se mi si riprende
la compagna di camminate, magari mi diverto anche un po' di più!
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Ci siamo. A poco meno di un anno di distanza dalla mia prima escursione ai paesi abbandonati
della Valle dei Campassi, oggi sono pronto ad andare di nuovo alla scoperta di quello che, un
tempo, era uno dei tanti piccoli borghi dell'appennino settentrionale e che, dalla seconda metà del
novecento, è stato progressivamente abbandonato dai suoi abitanti, trasferitisi ai paesi e alle città
vicine, lasciandolo in stato di totale abbandono. Ora la natura si sta riprendendo i suoi spazi, ed è
sempre impressionante vederlo. Visitare un paese fantasma lascia sempre una sensazione di
"freddo" dentro, di solitudine, di impotenza. A me è successo anche questa volta, quando sono
stato a Camere Nuove.
Camere Nuove è un paese abbandonato della Val Sisola, alta Val Borbera.
Dal nome, sembrerebbe quasi trattarsi di un paese recente. Poco distante si trova infatti il
"gemello" Camere Vecchie, questo sì dal nome di un paese fantasma, ma non fatevi ingannare
perché non è abbandonato. Entrambi i villaggi si trovano sulle pendici del Bric delle Camere
(1.018 mt.), una montagna dell'appennino ligure posta al confine con la Val Vobbia.
Per raggiungere queste valli, occorre risalire la Val Borbera prendendo la SP140 e una volta
superato l'abitato di Cantalupo Ligure prendere a destra la SP145, nei pressi di Rocchetta Ligure.
Dopo aver attraversato le frazioni Pagliaro Inferiore e Superiore, raggiunta Sisola la strada si
biforca: a destra (SP144) si sale a Roccaforte Ligure, mentre noi proseguiamo a sinistra sulla
SP145 per Mongiardino Ligure. Superate un'infinità di piccole frazioni, ci si ferma solo una volta
raggiunta la località Costa Salata (797 mt.), che si trova esattamente sulla costa al confine con la
Val Vobbia.
A Costa Salata, di fronte all'omonimo albergo ristorante, si prende il bivio sulla destra per
Pianzuola, ma a dire il vero si può già parcheggiare l'auto qui. Sono infatti presenti le indicazioni
del sentiero numero 200 per il Pian dei Curli (1 h.) e per il Bric delle Camere (1 h.45 min.). Poco
più avanti, tra alcune case, occorre tralasciare la strada principale, che prosegue in discesa verso
Pianzuola, e prendere uno stretto bivio che sale a sinistra, segnalato da una freccia di legno le cui
scritte sono ormai scolorite, ma intendiamo che si tratta del sentiero per Camere Nuove.
La strada, strettissima, è asfaltata solo per il primo centinaio di metri e poi lascia spazio allo
sterrato. Inizialmente anche lo sterrato è piacevole e si cammina circondati da bei prati verdi, con
qualche vista su Mongiardino e Camincasca. Lungo il percorso si incontrano alberi enormi,
secchi, e se ne incontreranno sempre di più a mano a mano che ci addentreremo nel bosco.
Il villaggio abbandonato di Camere Nuove
Partenza: Costa Salata
(767 mt.)
Arrivo: Camere Nuove
(villaggio abbandonato,
795 mt.)
Lunghezza percorso (a/r):
7,34 km
Tempo di percorrenza:
2 h. circa
Dislivello complessivo:
222,63 m.
Segnavia: bianco rosso n. 200
e percorso didattico C
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Anche quando ero stato a Reneuzzi ne avevo incontrati tanti: sembra quasi che questi alberi così
strani siano posizionati solo sui sentieri che portano ai paesi abbandonati, quasi volessero
preannunciare la tristezza e l'abbandono dei luoghi che incontreremo di lì a breve.
La stradina sale piuttosto tranquillamente e si immerge in un bosco che mano a mano si procede
diventa sempre più sporco e meno curato. Il percorso è fatto di frequenti saliscendi e dopo circa
25 minuti di cammino si incontrano le prime segnalazioni. Nei pressi di una curva, su due cartelli
di legno, è indicata la direzione di due percorsi didattici: il percorso B, che conduce a Castello
Pianzuola e il percorso C, per Camere Nuove. Li seguo entrambi, visto che indicano la stessa
direzione.
Il sentiero continua ad aggirare i versanti della montagna e dopo un lungo tratto di salita, mi
trovo davanti a una grossa frana che ostruisce tutto il sentiero. Lanciando maledizioni a destra e a
sinistra, dopo qualche metro in equilibrio sul tronco di uno degli alberi trascinati via dalla frana,
mi immergo nel fango fino a metà gamba e ci passo dentro, non posso fare diversamente.
Fortuna che l'infangamento è breve.
Dopo la frana, il sentiero inizia a scendere dolcemente. Siamo in una zona di castagne, come
potete vedere dalle foto che ho scattato lungo il percorso. Poco più avanti, incontro una
segnalazione che per un attimo mi fa venire qualche dubbio, visto che fino a qui cartelli - oltre a
quelli del percorso didattico - non se ne sono visti. La segnalazione a cui mi riferisco riguarda un
sentiero che proviene dal basso e che taglia la strada che sto percorrendo, salendo sulla sinistra: il
sentiero, marchiato con il numero 266, a mio avviso potrebbe portare al Bric delle Camere e lo
incontrerò ancora più avanti.
Proseguo allora sempre dritto, tralasciando il sentiero 266 e poco più avanti, dopo un'enorme
pianta sradicata su cui c'è ancora un cartello con le indicazioni per Caprieto, a 3 km e 200 mt.
esatti dalla partenza, incontro un grande prato verde dove il sentiero si divide in un bivio. Qui
sono presenti le indicazioni del percorso didattico: dritto per Pianzuola (percorso B), sinistra per
Camere Nuove (percorso C).
Io prendo la strada di sinistra e dopo pochi passi vedo già sullo sfondo una staccionata. Dietro
alla staccionata, un'area che ospita numerose panche di legno, la maggior parte spaccata dal gelo
dell'inverno. Vicino anche un muretto in mattoni e un capannino in lamiera, con una minuscola
casetta a fare da bagno. Sembra un'area attrezzata per delle grigliate.
Dietro alle panche spaccate, si intravede una casa: eccomi arrivato a Camere Nuove. Il sentiero
però prosegue dritto, quindi ritorno sulla strada per vedere se mi conduce alle altre case. Davanti
a me, mentre cammino, passa velocissimo un capriolo ma questa volta non ho la prontezza di
riflessi per fotografarlo.
Sullo sfondo, dietro ai rami di un albero, inizia a delinearsi il profilo di una casa: la riconosco, è
quella che ho visto nell'unica foto che sono riuscito a trovare, in rete, su Camere Nuove.
E' una casa grande, della quale si distinguono solo metà della facciata, con alcuni profondi buchi
nei muri, con due finestre e parte del tetto. Il resto della casa è avvolto dalle piante e dalle
erbacce che sono cresciute fin sul tetto e da qui hanno ricoperto tutta la restante parte di facciata
della casa. Sotto a questo strato sempre più spesso di erbacce, fatichiamo a distinguere un
balcone, forse in legno, interamente avvolto e imprigionato. Davanti a questa casa, un cartello
con il nome del paese fantasma e l'altitudine, assieme a dei segnavia recanti l'indicazione per il
sentiero 266, che scopro provenire dal fondovalle - da Sisola - e proseguire sino, probabilmente,
al Bric delle Camere.
Accanto alla casa più grande, i ruderi di altre due case, che si distinguono a malapena, ormai
quasi totalmente inghiottite dalla natura che si riprende i suoi spazi. Tra le piante e le erbacce,
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spuntano solo i resti di alcuni pilastri, ma non posso vedere di più, e non posso nemmeno provare
ad avvicinarmi ulteriormente.
Dietro di me, un'altra casa piuttosto grande e ancora discretamente in piedi. Mi avvicino per
scattare qualche foto: in parte sembra sventrata, con i muri in parte crollati e pezzi di legno che
penzolano un po' dappertutto. Sui muri, scritte di qualcun altro che è passato di qui prima di me,
proprio sul fianco di una porta che sembra lasciare intravedere qualcosa all'interno, ma alla quale
non mi avvicino vista la situazione della casa.
Mi guardo intorno per vedere se ho dimenticato qualcosa, ma così ad occhio mi pare di vedere
che Camere Nuove sia tutto qui. Anzi, no. Ritornando indietro sul sentiero, fino all'area che
ospita le panche, mi avvicino ad una costruzione semicrollata, la prima che avevo visto
arrivando. Mentre scatto qualche immagine dei ruderi della casa, crollata su se stessa, vedo che
da questa parte ci si può provare ad addentrare tra le case.
Così mi infilo tra le piante e da qui scopro una veduta diversa di Camere Nuove, forse ancora più
tetra.
La casa di fianco a me ha i muri ancora in piedi, ma oltre il primo piano è costruita con sottili
mattoncini che a poco a poco vengono giù. Più a destra, una casa totalmente crollata, adiacente
alla casa con i muri sventrati che ho descritto prima. In mezzo a tutta questa erbaccia e a queste
piante è così buio che sembra notte e fa quasi paura, in lontananza, il profilo di una finestra buia
della casa più grande del paese.
Certo, il tempo non aiuta: ora inizia anche a piovere. Mi incammino sulla strada del ritorno,
lasciandomi alle spalle i ruderi delle case di Camere Nuove. Sono contento di avere visitato
anche questo paese fantasma, ulteriore testimonianza di un abbandono che già avevo avuto modo
di vedere con i miei occhi camminando fino ai villaggi abbandonati della Valle dei Campassi.
Non è facile descrivere quello che si prova qui, di fronte a questo triste spettacolo, ma
sicuramente un senso di vuoto mi pervade. Quella grande casa coperta di erbacce è così triste e
austera da mettere paura, e sicuramente sarà il ricordo di Camere Nuove che porterò con me
anche al termine di questa escursione.
Il ritorno scorre via in fretta, con la nebbia che scende fino a toccare la cima delle montagne
vicine e qualche goccia che di tanto in tanto mi bagna. Scatto una foto del mio riflesso in una
pozzanghera, quasi a volermi fare compagnia da solo. Non mi ha deluso la visita di Camere
Nuove, ma non aspettatevi nulla di particolare: le case sono poche e il sentiero è piacevole, ma
per nulla panoramico. Per chi volesse visitare questo paese abbandonato, consiglio di dedicare
non più di una mezza giornata, magari quando il tempo non è dei migliori. Prossimamente, sono
intenzionato a visitare anche gli altri paesi abbandonati nei dintorni: Avi, Chiapparo e Rivarossa.
Quindi consiglio agli amanti del genere di restare "sintonizzati".
Una giornata sull’Antola
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L'Antola è un punto di riferimento. E' una di quelle montagne che ti avvicina al mare, te ne fa
quasi respirare l'aria. Quando lo guardo, dai miei monti, mi sembra sempre così distante, ma mi
fa venire voglia di raggiungerlo, anche solo per un saluto. E' da un po' che non ci vado. Ci ho
messo un po' a indirizzarmi verso l'Antola, ad essere sincero: inizialmente pensavo a un giro da
Caldirola a Piuzzo. "No, visto che viene anche Francesca preferirei portarla sulla cima di un
monte, vista anche la bella giornata". Poi mi è venuto in mente l'Antola. "Perché non ce ne
andiamo "in Antola", come dicono i genovesi?".
Ci vediamo a metà mattina in quel di Cantalupo. Il tempo di prendere un po' di viveri dal
panettiere e un caffè al volo, poi si parte in macchina alla volta delle Capanne di Carrega. La
strada non è breve, ma la colazione si prolunga per tutto il viaggio, con Francesca che continua
ad allungarmi biscotti dal sacchetto. Alla sera, al ritorno, troverò pezzi di biscotti ovunque nella
macchina. Al valico di Capanne di Carrega, dove si incontrano le province geografiche di
Alessandria e Genova, parcheggiamo la macchina e scendiamo per prepararci. La partenza del
sentiero numero 200 è a pochi passi da noi ed è contraddistinta da un evidente cartello che ci
indica la direzione da seguire e il tempo necessario ad arrivare all'Antola: 1 ora e 55 minuti. Ci
incamminiamo tra gli alberi ed attraversiamo un primo boschetto infangato, poi dopo dieci
minuti di cammino raggiungiamo Pian dell'Aia, a 1443 metri. Ogni tanto ci voltiamo a
fotografare l'imponente piramide del Carmo, che vista da qui domina le piccole casette che
compongono le Capanne di Carrega e iniziamo a superare i primi escursionisti che incontriamo
sul sentiero. Dopo un altro piccolo boschetto infangato, usciamo su di una costa in cui la vista
spazia sull'alta Val Trebbia: stiamo camminando - e per il resto del viaggio, cammineremo - sul
confine geografico tra le due regioni. "Che bello qui!" dice Francesca, "Vero?" Verissimo, l'alta
Val Trebbia, vista da qua sopra, è una distesa di dolci montagne verdi che degradano verso prati,
con i paesini che sembrano appoggiati sui versanti delle montagne. Il verde delle foglie è così
luminoso che è bellissimo da vedere, con lo sfondo dell'azzurro del cielo di questa mattinata. Il
sole picchia ed è piuttosto caldo. In alcuni punti non c'è un filo d'aria e mano a mano che
procediamo, vediamo le nuvole in cielo aumentare. Nuvole bianche, sembrano innocue, ma non
ci lasciano del tutto tranquilli, anche se a dire il vero a me non dispiacciono perché rompono un
po' la monotonia delle foto tutte uguali con il cielo terso. Mi piace fotografare le nuvole, rendono
diversa ogni immagine. Lentamente, al fondo della valle, inizia ad intravedersi sempre più
indistintamente un ramo d'acqua del Lago del Brugneto e più avanziamo sul sentiero, più la
superficie di lago visibile ai nostri occhi aumenta, mentre davanti a noi compare, maestosa, la
cima dell'Antola.
Partenza: Capanne di
Carrega
Arrivo: M.te Antola (mt.
1593)
Lunghezza percorso (a/r):
13,74 km
Tempo di percorrenza
(a/r): circa 4 h.
Dislivello complessivo:
515,68 mt.
Segnavia: bianco-rosso
num.200
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Dopo aver raggiunto una selletta panoramica con una bella vista anche sull'alta Val Borbera,
imbocchiamo la discesa che preannuncia l'arrivo al Passo Tre Croci (1494 mt.), dove ci
fermiamo per una breve sosta. Le tre croci di legno che si trovano lungo il percorso continuano
ad essere inquietanti, nonostante non sia la prima volta che passo di qui. "Facciamo colazione?"
"Certo che sì, è il momento!".
Non so che colazione sia, ho perso il conto. Ma giunti a questo punto, ci sta proprio bene. Mentre
sul sentiero continua a passare gente, noi siamo in corrispondenza del bivio segnalato con la
discesa verso Caprile, fermi in piedi a spartirci un sacchetto di focaccia, che è pure buona.
Beviamo un sorso d'acqua e ci rimettiamo lo zaino in spalla. Sul Passo Tre Croci, noto le
indicazioni per un sentiero che non avevo mai visto: è il numero 240, che porta alle pendici dei
monti Propiano e Carmetto e, successivamente, in 1 ora e mezza, al paese di Vegni (ricordate? è
il punto di partenza per l'escursione ai paesi abbandonati della Valle dei Campassi).
Il tracciato riprende a salire, regalandoci dei fantastici scorci sul Lago del Brugneto, sempre
meglio visibile ormai, e poi - dopo un breve falsopiano - ridiscende fino a portarci sotto alla
penultima salita all'Antola, quella dove si incontra il secondo bivio per il paese di Caprile. Con
un po' di fiatone, quasi in cima alla salita, ci fermiamo a vedere tra gli alberi una bella veduta del
paesino di Campassi, che domina la valle dei "paesi fantasma": anzi, ora che guardiamo bene,
vediamo che più in basso e sul versante opposto della montagna le macerie di Reneuzzi sono ben
visibili tra gli alberi e di colpo mi ritorna in mente tutta la tristezza di quel luogo. Portiamo a
termine la salita e raggiungiamo la Sella Est dell'Antola, ai piedi della salita finale che porta alla
cima, su cui svetta la croce bianca.
La cima dell'Antola è piena di gente. "Meglio andarci dopo, là sopra. Andiamo alla chiesetta a
mangiare qualcosa, poi quando se ne saranno andati tutti, saliremo su", le dico. Così
raggiungiamo su di un sentiero pianeggiante la piccola chiesetta dell'Antola ma vediamo subito
che, anche qui, ci sono decine di persone. Però c'è un tavolo in legno libero, che occupiamo
velocemente, seduti con la faccia rivolta verso il sole e verso il Lago del Brugneto, la cui vista -
purtroppo - ci è nascosta da alcuni alberi.
Oggi abbiamo la tavola delle grandi occasioni: un bel salame, un quarto di formaggio
Montèbore, una fetta di Asiago, tanta cioccolata e un buon vinello rosso. Scattiamo qualche foto
a tutti i nostri viveri, poi non perdiamo tempo e iniziamo a mangiare, siamo parecchio affamati
nonostante le varie colazioni della mattinata. Una coppia di signori si siede davanti a noi e ne
approfittiamo per scambiare due chiacchiere. Fanno parte di un'associazione alpinistica di Cuneo
("Giovane Montagna") e sono partiti alle 6 di questa mattina per venire sull'Antola. E' la prima
volta che ci vengono e sono affascinati dal panorama che si vede da qui sopra. Mentre ci
vuotiamo un bicchiere di vino, arriva anche il prete che inizia a dire la messa nella chiesetta
accanto al nostro tavolo. Ci sentiamo un po' fuori luogo, tanto che finiamo velocemente di
mangiare, raccogliamo la nostra roba e proviamo a salire sulla cima dell'Antola, per vedere se -
almeno lassù - possiamo trovare un po' di tranquillità.
Da metà salita, mi giro per scattare qualche foto del suggestivo panorama del lago del Brugneto
davanti a cui svetta il piccolo campanile della chiesetta, poi raggiungo Francesca e ci facciamo
qualche autoscatto con lo sfondo del lago. Arriviamo sulla cima dell'Antola (mt. 1593) e
capiamo che di tranquillità, qui, ne avremo poca, perché c'è ancora un sacco di gente. Però il
panorama è spettacolare e peccato solo che il cielo si sia annuvolato così tanto, da fare quasi
pensare alla beffa di un temporale. Il sole va e viene e io continuo a mettere e togliere la maglia.
Francesca è più attenta di me, perché a un certo punto la sento dire "Ma è il mare quello?".
Cavolo è il mare, non me ne ero accorto. C'è un po' di foschia, ma si vede bene, anzi sembra
davvero a due passi. La forma pare essere quella di Capo Noli, ma guardando più attentamente si
nota anche una parte del porto di Genova, quasi nascosta sotto alle montagne. Rimaniamo
incantati a scattare fotografie di questa piacevole sorpresa. Prima del mare, la Val Brevenna con i
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suoi tanti paesini, su tutti Tonno. Ci giriamo dalla parte opposta e scattiamo qualche foto al Lago
del Brugneto, poi ci facciamo fare una foto insieme e raggiungiamo la panchina - che nel
frattempo si è liberata - posta proprio a dominare la Valle dei Campassi, quella di San Fermo e il
Monte Buio.
E' una panchina in una posizione molto particolare, sembra quasi sospesa nel vuoto, ma regala
una vista mozzafiato, dritta di fronte alla Cappella di San Fermo. Alla nostra destra, i paesi
abbandonati della Valle dei Campassi, Ferrazza e Reneuzzi (Casoni non si vede). Ci sediamo e
restiamo un po' qui a contemplare la natura e il silenzio (si fa per dire, vista la gente che c'è qui
sopra). Però è comunque suggestivo. Le nuvole coprono velocemente il sole e rimetto la maglia,
c'è un'arietta bella fresca. La temperatura scende vistosamente, tanto che decidiamo di rimetterci
in cammino.
Un'ultima foto alla croce e alla piramide in memoria dei partigiani e iniziamo velocemente la
discesa dalla cima dell'Antola. Sulla strada del ritorno, camminiamo molto più lentamente e mi
sembra che il tempo sia volato, tra qualche foto alle genziane, alle felci e a qualche fiorellino
colorato che risalta tra l'erba verde. Superato il Passo Tre Croci, davanti a noi un nuvolone
bianco ha come una specie di finestrella al suo interno. Lo indico a Francesca, prima di scattare
una foto. Velocemente, però, perché la finestra in pochissimo tempo si chiude. E' questione di
attimi: noi l'abbiamo potuta vedere, gli altri forse no. Catturo gli ultimi scorci del lago del
Brugneto, prima che scompaia del tutto dietro alle montagne, con il piccolo paesino di Propata
con la sua chiesa bianca in basso. Ormai non manca molto e gli ultimi chilometri scorrono via
chiacchierando sotto al sole. Decidiamo di deviare verso l'Osservatorio di Casa del Romano e
verso il vicino albergo, in modo da bere qualcosa. Facciamo solo una breve sosta sulle panchine
davanti all'Osservatorio, con Francesca che fotografa le forme create dai nostri piedi, poi
ripartiamo alla volta dell'albergo, dove finalmente ci togliamo lo sfizio di una coca cola, seduti
su di un tavolino all'aperto. Dopo tanti anni, rivedere i gestori dell'albergo di Casa del Romano,
mi dà l'idea di vedere delle persone familiari: le prime volte che sono venuto qui ero un
ragazzino.
Torniamo alla macchina camminando, per gli ultimi metri, sulla strada asfaltata, poi ci mettiamo
in viaggio per tornare verso casa. Credo che questa sia la giornata più bella che abbiamo
trascorso insieme. Sì, perché oltre all'escursione c'è dell'altro, c'è il viaggio, ci sono le parole, ci
sono le risate, ci sono le emozioni condivise. Oggi tutto questo è stato a dir poco perfetto. Alzo il
volume della radio e riparto, verso casa, mentre sorrido ripensando ad alcuni momenti della bella
giornata che abbiamo trascorso, senza un filo di stanchezza. Avrei bisogno di un mese
consecutivo di weekend così. O forse di una vita intera.
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Avi è un piccolo borgo abbandonato definitivamente intorno al 1953. Pare che nella prima metà
del Novecento fosse abitato da circa una ventina di persone, agricoltori, che vivevano coltivando
grano in appositi terrazzamenti, creati sopra al paese e raccogliendo castagne nei numerosi
boschi che lo circondano. Gli abitanti avevano studiato appositi sistemi di raccolta e
conservazione delle acque piovane, in modo da evitare continue e faticose discese a fondovalle,
dove scorre il Rio Avi. Sul borgo si narrano numerose leggende di guerra, lasciate da parte le
quali è certo è che ad Avi i partigiani, nascondendosi in buche, sfuggirono al rastrellamento dei
tedeschi nell'aprile del 1944 e, nel luglio dello stesso anno, resistettero ad un assedio durato ben
tre settimane.
Avi si trova non distante dall'altro villaggio abbandonato di Camere Nuove ed è raggiungibile da
Roccaforte Ligure. La partenza dell'itinerario è di fronte alla chiesa, piuttosto nascosta: una volta
superate le ultime abitazioni di Roccaforte, poco prima della biforcazione della strada (Isola del
Cantone a sinistra, Grondona a destra) si deve prendere la stretta stradina che, sulla destra,
conduce ai resti del Castello degli Spinola e qui, a 780 metri di altitudine, si trova la partenza del
sentiero, che sale sulla destra della chiesa, inizialmente marcato con il segnavia bianco-rosso
numero 274.
Dopo una leggera salita con un bello scorcio sul Monviso, a pochi minuti dalla partenza, a 897
mt., si trova una prima importante biforcazione del sentiero: a sinistra il sentiero numero 275, in
direzione di Lemmi e Vignole Borbera, sulla destra il sentiero numero 260 - che seguirò - con
direzione Il Poggio, Croce degli Alpini e Pertuso. Mi fermo per un istante a scattare qualche foto
da questa selletta panoramica: alle mie spalle, posso ammirare, su di un'altura, i ruderi del
Castello degli Spinola del secolo X, sul quale si scorgono dei ponteggi, mentre alle spalle del
castello, vedo la cima dell'Antola. Se con lo sguardo mi sposto a sinistra, da qui vedo tutta la
catena appenninica: da qui non si perde nemmeno una cima. Che meraviglia.
Mi lascio definitivamente alle spalle i tetti delle case di Roccaforte con il campanile e proseguo
sul sentiero 260 che procede in piano e, in alcuni tratti, anche in leggera discesa. E' una sterrata
piacevolissima, panoramica e tutta sotto al sole. Sul sentiero, che lascia sulla sinistra il Monte Osesa e sulla destra il Monte La Croce, si incontrano finalmente anche le prime salitelle,
tutt'altro che proibitive e in determinati punti del sentiero la vegetazione scompare del tutto per
lasciare spazio alla roccia delle montagne tipiche di questo territorio: ci sono anche punti in cui
guardare in basso, per chi soffre di vertigini come il sottoscritto, è vivamente sconsigliato.
Avi, il borgo abbandonato
Partenza: Roccaforte
Ligure (780 mt.)
Arrivo: Avi (paese
abbandonato, 610 mt.)
Lunghezza percorso a/r: 7
km circa
Tempo di percorrenza
(a/r): 3 h circa
Dislivello complessivo:
250 mt.
Segnavia: bianco-rosso 274,
bianco-rosso 260, bianco-
rosso 256
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Il sentiero inizia a scendere in modo più deciso, attraversando prima un piccolo boschetto che
conduce a una selletta panoramica e poi una zona rocciosa, dove sembra quasi franare e conduce,
in un bosco di castagni, alla Sella di Avi (mt. 732), dove si incontra il bivio per il sentiero 256,
che scende a sinistra all'interno del bosco di castagni e conduce, in circa mezz'ora ad Avi e,
proseguendo, alla Sella del Monte Cravasana.
Il sentiero 256 non è bellissimo, ma comunque percorribile. La discesa conduce in breve nei
pressi del Rio Avi, del quale sento lo scroscio dell'acqua sempre più forte mano a mano che mi
avvicino. Poco prima di attraversare il torrente, alzo gli occhi e vedo dritta di fronte a me, verso
il fondo della valle, la sagoma di una casa: ecco Avi. Attraversato il Rio, il sentiero è un po' più
complicato per la presenza di innumerevoli pietre grandi, nere e arrotondate, sulle quali restare in
equilibrio è tutt'altro che semplice, ma soprattutto perché in questo tratto, il sentiero - piuttosto
ripido - tende a franare verso il Rio.
Con un po' di fatica e grazie al provvidenziale aiuto dei bastoncini (portateli assolutamente in
questa escursione) riesco a mantenere l'equilibrio e a superare il tratto più insidioso del sentiero e
procedo a mezza costa mentre, di fronte a me, la sagoma della casa di Avi rimane ancora
piuttosto distante.
A un certo punto, dove la vegetazione si fa più fitta, il sentiero scende improvvisamente verso un
piccolo laghetto, infestato da zanzare di ogni tipo, e mentre cerco di farmi spazio tra i rami delle
piante senza cadere, mi rendo conto di essere in mezzo a dei ruderi di case: sono arrivato ad Avi
(610 mt.), e quasi non me ne ero accorto! Come recitava il pannello all'imbocco del sentiero, Avi
si divideva originariamente in due piccole frazioni: Ovi de chei e Ovi de là (Avi di qua e Avi di
là...rispetto probabilmente al corso di qualche rio) e io sono appena arrivato a Avi di qua, che
non vedevo - e che non potevo vedere - perché totalmente sommerso dalla vegetazione.
Il rudere di una prima casa, ormai crollata per metà, si trova sul lato del laghetto, mentre poco
più avanti se ne trova un'altra, particolarmente alta e ancora in piedi anche se del tutto avvolta
dalle piante che la rendono, di fatto, irriconoscibile. Un'altra casa, del tutto crollata e sommersa
dalle piante si trova poco oltre e un'altra ancora leggermente più in basso (la visiterò al ritorno).
Proseguendo sul sentiero, si passa proprio sotto ai ruderi di una casa parzialmente crollata,
sventrata su un lato e avvolta dall'edera che, a dirla tutta, non dà questo grande senso di stabilità.
Per non saper nè leggere nè scrivere, il tratto di sentiero che passa ai piedi di questo rudere, lo
percorro alla velocità di un centometrista: credo che basti un colpo di vento per far crollare tutto
sulla mia testa (vedo solo, passando velocemente, che da una porta aperta si intravede una specie
di pozzo, che fotografo alla velocità della luce). Sul lato opposto, un portoncino aperto lascia
intravedere al suo interno alcune botti per il vino, sulle quali è crollato un po' di tutto, a partire
dalle travi che sorreggevano il tetto. Ovi de chei è finito: mi ci sono imbattuto quasi senza
accorgermene e vi dirò che, così buio e conquistato dalle piante, è abbastanza inquietante.
La sagoma della casa che vedevo fin dall'imbocco della valle è ora di fronte a me e non dista
molto, così dopo poche centinaia di metri su di un sentiero che ora è nettamente migliorato,
arrivo finalmente ad Ovi de là, composto da un gruppetto di case in corrispondenza delle quali il
sentiero sembra finire. Sul fianco della grande casa di Avi di là, due tronchi a fare da panchine e
il segno della brace mi lasciano intuire che qualcun altro è passato di qui non troppo tempo fa. La
casa, integra nella facciata (che potevamo ammirare da lontano) è in realtà sventrata sul lato: mi
avvicino a scattare delle foto ed è così strano fotografare il panorama della valle attraverso le
finestre di una casa crollata. Fotografo i particolari, qui ben visibili. I muri sono costruiti da
grandi pietre e i tetti sono fatti in assi di legno su cui sono state poggiate delle tegole, mentre le
porte e le finestre sono molto piccole. Mi avvicino e metto il naso (e la macchina fotografica)
dentro a una finestra, per scattare qualche immagine dell'interno, dove a cumuli di macerie si
alternano, sorprendentemente, alcune stanze ancora perfettamente integre. Oltre questa grande
casa, ancora i resti di una costruzione: è la chiesa di San Vito, della quale rimane ben poco in
36
piedi. Mi sposto su di una collinetta sopra alle case, da cui godo di una bella vista su tutta la
valle. Scatto qualche immagine dei tetti di Avi di là e della Chiesa di San Vito dall'alto, poi mi
volto in direzione di Avi di qua e cerco con lo zoom di fotografare le case che si intravedono
davvero a malapena tra la fitta vegetazione.
Mi infilo tra i muri della Chiesa e la grande casa, che aggiro portandomi sul retro. Su questo lato,
le finestre hanno delle rudimentali grate e all'interno è ancora ben visibile e perfettamente integra
una stanza con un mobile e una scala che porta, attraverso un passaggio, al piano superiore.
Accanto, da una piccola porta, si scorge una stanza piena d'acqua, una specie di pozzo. Sopra la
mia testa, i coppi sono pericolanti e mi sposto velocemente per ammirare la grande casa dal lato
frontale: entro dalla porta aperta e mi ritrovo in una stanza che fungeva ai tempi da stalla, come
posso vedere dalla mangiatoia presente sul lato e dai resti di qualche attrezzo contadino. Dentro
sono già entrati i cinghiali, che hanno messo tutto sottosopra. La vegetazione mi impedisce di
mettere il naso nell'altra porta, così rimarrò con il dubbio di cosa avrà ospitato quella stanza.
Poco sotto, una casa ormai del tutto crollata e poco più in là un'altra, della quale vedo spuntare
dalle piante soltanto il camino: non so come avvicinarmi, e comunque mi sembra che ci sia ben
poco da vedere, così decido di rimettermi in cammino sulla strada del ritorno. Ritorno sul lato
sventrato della grande casa, dove trovo un pozzo, del quale scatto qualche foto infilando dentro
la macchina fotografica, poi riprendo il sentiero in direzione opposta, lasciandomi alle spalle Ovi
de là. Quando ripasso a Ovi de chi, oltre a ripetere la corsetta sotto alla casa più pericolante di
tutte (niente da fare, non mi lascia tranquillo e basta), noto che ci si può avvicinare ad un rudere
di casa del quale vedo una specie di portone e così decido di lasciare per un attimo il sentiero per
dare un'occhiata. La casa, per larga parte ancora in piedi, è totalmente avvolta dalle radici delle
piante, che si sono insinuate addirittura tra un sasso e l'altro di quelli che ne compongono i muri.
Nella parte superiore, le foglie coprono gran parte della facciata: niente da fare, a poco a poco
queste radici faranno crollare la casa e non so - se mai tornerò ad Avi - se la rivedrò ancora in
piedi. Con un po' di attenzione e con l'aiuto dei bastoni, ritono al Rio Avi, che supero e mi volto
per un'ultima volta alle mie spalle a guardare la grande casa di Avi di là sullo sfondo della valle.
Anche questa è fatta.
Diciamo che si colloca idealmente a metà tra il fascino di luoghi fantasma come i Villaggi di
pietra della Valle dei Campassi e la desolazione di pochi ruderi come quelli di Camere Nuove.
Sicuramente inquietante Ovi de chi, con questi muri che emergono all'improvviso in mezzo alla
vegetazione, in maniera quasi inaspettata. Molto cupo. Ovi de là si lascia studiare, guardare,
fotografare. Qui è bello andare alla ricerca di qualche angolo nascosto da catturare con la
macchina fotografica. Qui la vegetazione concede un po' di respiro. In generale, a parte l'ultima
parte di sentiero, leggermente difficoltosa per la presenza di frane, il resto del percorso,
soprattutto tutta la parte di sentiero numero 260, è piacevolissima e consigliata per fare una bella
escursione panoramica.
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Manca poco al completamento del mio viaggio alla scoperta dei paesi fantasma dell'appennino
delle quattro province: almeno per quanto riguarda l'area della Val Borbera/Sisola, ne mancano
solo più due. Oggi andrò alla scoperta di Rivarossa, un minuscolo borgo abbandonato sulle
montagne sopra al paese di Pertuso, in val Borbera. Proprio sopra alle famigerate "strette di
Pertuso", in un territorio già particolare per via della sua conformazione e che, come se non
bastasse, ospita anche una perla nascosta: Rivarossa.
Il borgo abbandonato si raggiunge con un sentiero che parte dalla località Le Baracche, nei pressi
della casa cantoniera e del "Pub delle Strette": l'unico problema è che l'inizio del sentiero,
peraltro indicato con un cartello, è poco visibile, quasi nascosto, soprattutto se arrivate da
Pertuso. Quindi non fate come me, che ho girato venti minuti cercando disperatamente di
imbattermi in una segnalazione ben visibile: il consiglio è di parcheggiare l'auto nei pressi del
pub, poi incamminarsi a piedi in direzione di Pertuso: ci sbatterete praticamente incontro dopo
poche decine di metri.
Il cartello che annuncia l'inizio del sentiero è bianco-rosso e reca il numero 208, pitturato anche
su di un albero. Il sentierino è strettissimo e la partenza è subito impegnativa: si sale subito, e
non poco. Sarà così per tutto il percorso. Tuttavia, nonostante la stradina sia così stretta da non
poter ospitare due persone una accanto all'altra, è un itinerario più che piacevole. La mia
attenzione si concentra subito sulla particolare terra che compone queste montagne: è arancione,
del colore dei mattoni, quasi rossa. Forse da qui deriva il nome Rivarossa. Oltre al particolare
tipo di terreno, la seconda caratteristica del sentiero sono i sassi: il sentiero, dopo la prima parte,
diventa sassoso e la salita così è più piacevole, perché permette di utilizzare le grandi pietre
come delle specie di gradini, attraverso cui salire più agevolmente. Vedo in lontananza dei
cartelli, ci deve essere un bivio poco più avanti. Quando lo raggiungo, dopo circa dieci minuti di
cammino, mi trovo a dover scegliere da quale parte salire: il sentiero numero 208 prosegue in
salita dritto davanti a me, mentre sulla sinistra, il sentiero numero 208a attraversa il bosco
leggermente più in piano. Entrambi portano a Rivarossa: il 208 in circa 35 minuti, il 208a in 45
circa. Inoltre, salendo oltre Rivarossa, in un'ora circa, si potrà raggiungere il Monte Barillaro. Ci
penso un attimo, poi decido di proseguire dritto tenendo il sentiero numero 208, forse perché
sembra essere il più veloce.
Finalmente rivedo il cielo, grigio, e posso far spaziare la mia vista su di un panorama che, via via
che si sale, diventa sempre più ampio. Vedo le montagne davanti a Pertuso, per me praticamente
sconosciute. Vedo il corso del torrente, il Borbera, che svolta sulla sinistra in corrispondenza di
Il paese fantasma di Rivarossa
Partenza: Località Le
Baracche (mt. 365)
Arrivo: Rivarossa (paese
abbandonato, mt. 738)
Lunghezza percorso
a/r: 3,9 km
Tempo di percorrenza
(a/r): 2 h circa
Dislivello complessivo:
389 mt.
Segnavia: bianco-rosso
208/208°
38
Borghetto Borbera, del quale intravedo i primi tetti delle case. Intanto il sentiero 208 continua a
salire, questa volta all'aperto, e dopo una curva mi si apre anche la visuale sull'alta Val Borbera.
Vedo Volpara, Figino e distinguo chiaramente le antenne del Monte Giarolo e il Monte Panà, che
da qui sembra quasi pianeggiante. Voltandomi, riesco ad avere anche una bella visuale del
Tobbio, con la sua caratteristica forma piramidale. A un certo punto, tra le piante, vedo in fondo
allo stretto sentierino il muro di una casa: finalmente, sono arrivato a Rivarossa.
Procedo con la curiosità di un bambino che sta scartando un regalo. Nonostante il senso di
smarrimento che provoca ogni volta visitare un paese abbandonato, ora a prevalere è la curiosità.
Curiosità per quello che troverò, per quello che vedrò, per il ricordo che mi rimarrà di questo
borgo fantasma.
Va però detto che Rivarossa si visita con più tranquillità d'animo. Anche qui le case sono in parte
diroccate, anche qui c'è il segno della natura che riprende i suoi spazi a discapito dell'uomo, ma il
paese si trova in un ampio prato che permette quasi di respirare. Non si visita con quell'affanno
che ti viene, ad esempio, quando sei a Reneuzzi o ad Avi, dove sembra che le case possano
crollare da un momento all'altro, dove sembra che gli alberi ti tolgano il fiato.
Della prima casa che si incontra entrando in paese, ben poco rimane. Solo alcuni ruderi dei muri
e delle caratteristiche finestre dagli angoli smussati, mentre poco più avanti una specie di muretto
è tutto quello che rimane di quella che, probabilmente, era un'altra casa. Da qui, guardando
avanti, dietro a un grande albero salta immediatamente all'occhio una grande casa, in parte
sventrata, che ricorda un po' la grande casa di Camere Nuove. Sul lato che si affaccia verso la
Val Borbera, la casa - in pietra, come tutte le altre - è ancora integra, mentre sul lato che dà verso
le altre case è crollata e coperta dalle piante, che stanno crescendo ormai al suo interno.
Avanzando per avvicinarmi, mi ritrovo praticamente nel bel mezzo di uno spiazzo, circondato da
ruderi di case. Sembra la piazzetta del paese, oppure un grande cortile. Accanto a me, un'altro
rudere, con muri sottili ed il tetto ancora integro ma pericolante, sventrato su di un lato:
all'interno si vedono ancora pezzi dei pavimenti e dei soffitti. Di fianco, i ruderi di un'altra casa,
senza più il tetto. Mi avvicino per scattare delle foto e vedo che all'interno ci sono ancora ben
visibili le scale che portavano al piano superiore.
Tra tutti questi resti di muri e ammassi di pietre, stona quasi una bella casetta con il tetto rifatto
da poco, la porta verde e delle belle finestre: è la casa di Rivarossa che è stata recuperata dal CAI
di Novi Ligure che l'ha trasformata nel "Bivacco Alda e Carla Marchesotti". Apro la porticina
verde ed entro: l'interno del rifugio è accogliente, tutto in pietra con tavoli e panche di legno. C'è
perfino un bel camino e dei divanetti rossi. Alle pareti, oltre ad una bella cartina della zona con
le indicazioni di tutti i sentieri, ci sono anche delle immagini che ripercorrono le operazioni di
ristrutturazione del bivacco e un articolo de "La Stampa" che parla di Rivarossa e del suo rifugio.
Proprio bello.
Sul tavolo, una bottiglia di vino con delle gocce cadute poco distante: qualcuno deve essere
passato da poco. C'è anche una busta trasparente, con un quaderno di viaggio dove lasciare il
proprio saluto e un pensiero. Scrivo due righe e faccio una bella foto dall'interno del bivacco, con
il quaderno e la bottiglia in primo piano, e sullo sfondo, sfocato, la porta aperta sui ruderi delle
case di Rivarossa. Tra le tante foto che ho fatto, in anni di escursioni, questa è una di quelle che
mi piace di più. Rappresenta perfettamente lo spirito con cui mi avvicino a questi luoghi, lo
spirito con cui cammino alla scoperta di nuove realtà.
Lascio il bivacco chiudendomi la porta alle spalle e fermo sulla scaletta scatto ancora delle
immagini a tutti i ruderi che mi circondano. Ai piedi della scaletta che conduce al bivacco, ecco
arrivare il sentiero numero 208a, l'alternativa che avevo deciso di non seguire durante il mio
tragitto. Il sentiero prosegue tra le case e a solo pochi minuti a piedi c'è da visitare la Madonnina
di Rivarossa. Non posso perdermela.
39
Salgo tra i ruderi e scopro che oltre la casa di cui avevo fotografato le scale, c'è ancora un'altra
abitazione, quasi implosa su sé stessa. Le finestre con le grate di ferro arrugginito sono l'unica
cosa ben visibile, perché per il resto, le travi sono crollate portandosi dietro il tetto e gran parte
delle pietre che componevano i muri. Salendo oltre il paese, sul lato del sentiero c'è anche una
specie di cappelletta, che non mi avvicino a vedere perché avvolta dalle erbacce e dalle piante.
Il sentiero prosegue in salita e dopo pochi passi, sullo sfondo compare già la piccola chiesetta
della Madonnina di Rivarossa. Mi avvicino, la chiesetta è bianca, con una croce sulla cima, una
campana ed un portico che precede l'ingresso. Sopra al portico, una data: 1981. L'anno in cui
sono nato io.
Entro in chiesa: è minuscola, una cappelletta praticamente. Ma l'interno è molto curato, si vede
che qualcuno se ne occupa regolarmente. Sull'altare la statua della Madonna con il bambino in
braccio. Il soffitto e le pareti sono affrescate e alle pareti sono appese delle cornici che
racchiudono immagini in bianco e nero del restauro della chiesetta. Accanto un quadro della
Madonna e dei fiori rossi.
Esco dalla chiesa e voltandomi a sinistra per poco non mi prende un colpo. Sul lato della
chiesetta, una staccionata in legno separa da uno strapiombo sulla Val Borbera che, per chi soffre
di vertigini come me, non è proprio il posto adatto in cui stare. Però ormai sono qui e non posso
non fare qualche foto: così appoggio i bastoncini e lo zaino e, macchina alla mano, mi avvicino e
inizio a scattare, trovando anche il modo per qualche autoscatto. Sotto di me, là in fondo, si vede
la strada passare e accanto a lei è ben visibile il greto del fiume Borbera. Salendo con lo sguardo,
si vedono tanti piccoli paesini, fino a sbattere con gli occhi sul Monte Giarolo con le sue antenne.
Il panorama da qui è fantastico.
La stradina sterrata prosegue oltre la chiesetta e la si vede salire su una strana montagna rocciosa
che deve essere il Monte Barillaro. Io per oggi mi fermo qui. Rimango ancora un po' ad
ammirare il panorama e a godermi questo fantastico silenzio, poi rimetto lo zaino e scendo verso
i ruderi di Rivarossa. Prima di andarmene dal paesino fantasma, mi avvicino alla grande casa per
scattare alcune foto dall'interno e vedo che qui, molti di quelli che sono passati, sono entrati a
scrivere sulle pareti. Ancora un autoscatto al centro del paese, poi mi rimetto velocemente sulla
strada del ritorno. La discesa passa molto più in fretta e la percorro con un buon ritmo, forse
perché il tempo sta visibilmente peggiorando. Quando arrivo in prossimità della macchina, il
tempo di togliermi gli scarponi e richiudere i bastoncini e iniziano a cadere le prime gocce. Caro
tempo, per oggi ti ho fregato!
40
E’ un po’ che non torno a Volpara: per la precisione dal 2007 - anno in cui, con il mio amico
Marco, avevamo tentato la fortuna deviando, sulla strada del ritorno verso Caldirola, su di un
sentiero poco battuto fino a perderci nella pineta sotto al Giarolo. Ecco, ricordo che quella volta
ho avuto abbastanza paura, perché dopo che cammini con la pancia a terra - manco fossi in una
trincea di guerra - sugli aghi di pino, in una fitta pineta, per alcune ore e non riesci ad uscirne, un
po' incominci a pensare che non ti troveranno più. Meno male che era estate e che le giornate
erano lunghe. Ricordo che siamo sbucati, finalmente, sotto all'ultima antenna del Giarolo, dalla
parte totalmente opposta a quella in cui pensavamo di uscire, ad un'ora improponibile, forse poco
prima delle otto di sera. Da quella volta, ho sempre camminato sul sentiero!
Negli scorsi anni, con mio padre ho parlato spesso di tornare a Volpara. Lui passando per i monti
non ci era mai stato e mi sarebbe piaciuto portarlo: è un discreto camminatore, di quelli che lo
fanno non solo perché "camminare fa bene alla circolazione" e glielo ha detto il medico, ma
anche perché, in fondo in fondo, gli piace. Così, quando può, viene con me a farsi qualche giretto
e ogni volta mi insegna un sentiero nuovo. Quindi stamattina non ci sono scuse: si va a Volpara.
Portiamo la macchina alla Colonia di Caldirola e saliamo sulle piste da sci, raggiungendo in
breve il canalone. Ora io lo ripeto per l'ennesima volta: Caldirola è luogo di compromessi e di
serena convivenza tra trekkers e bikers, quindi fate estrema attenzione perché i nostri sentieri
sono tagliati dalle piste da downhill, in alcuni casi quasi sovrapposte al tracciato. Vi capiterà di
vedervi sbucare fuori un biker dai rovi, ma ci farete l'abitudine: orecchie ben dritte.
Saliamo, per una volta, da una delle piste solitamente (da me) meno battute, quindi quella che
permette di giungere nel grande prato dove una volta era situato l'arrivo della seggiovia (che oggi
è invece alcune centinaia di metri più in alto, sul crinale). Il sole è forte, ma una leggera arietta ci
ha addirittura rinfrescato e attraversiamo il prato passando proprio sotto alla seggiovia per
dirigerci alla volta di un boschetto, non segnalato e anzi, ora utilizzato come pista da downhill,
che risaliamo stando ben attenti a non farci investire. Questa del boschetto è una vecchia
scorciatoia che, da sempre, noi di Caldirola utilizziamo per raggiungere più in fretta la costa che
conduce al Monte Giarolo, evitando di passare per il Monte Gropà.
Poco prima di arrivare sul crinale, vediamo sbucare tra le foglie degli alberi le antenne del
Giarolo con la statua del Redentore: la costa tutta fiorita è sempre uno spettacolo. Camminiamo
in direzione del monte Giarolo fino ad arrivare in corrispondenza del cartello che segnala il bivio
dei sentieri 200/215, dove attraversiamo il recinto portandoci sul lato della val Borbera e
Quattro passi a Volpara
Partenza: Caldirola (1.100
mt.)
Arrivo: Volpara (940 mt.)
Lunghezza percorso (a/r):
13,23 km
Tempo di percorrenza
(a/r): 4 h circa
Dislivello complessivo: 787,83 mt.
Segnavia: transiti su 200
bianco-rosso, e 215 bianco-
rosso
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scendiamo sul prato fino a imboccare il sentiero 215 (Albera Ligure - Bivio Sentiero 200) in
corrispondenza di un evidente paletto.
La sterrata scende alle pendici del Monte Gropà e permette di ammirare, di fronte a noi, il Monte
Roncasso, fino a sopraggiungere nei pressi di una stalla, dove ci fermiamo a rinfrescarci alla
vicina fontana. Attraverso alcuni tornanti, in mezzo a piante di nocciole, la sterrata scende
dolcemente fino ad arrivare nei pressi di un bivio: il sentiero 215 è segnalato dritto, ma noi lo
abbandoniamo svoltando a destra, in direzione di Volpara. Il paese inizia a vedersi in lontananza,
appoggiato sul versante della montagna; in fondo, la chiesa con il campanile voltato a guardare
la cima dei monti. Attraversiamo un rio e i tetti delle case si fanno sempre più grandi, sempre più
vicini: il paese non è così distante.
L'ingresso a Volpara è dall'alto, su di una ripida discesa dove si passa di colpo dalla sterrata al
cemento e poi all'asfalto. Sulla destra una piccola fontana, proprio di fronte a un portico che
regala una bella vista sul monte Cosfrone e sul crinale del Roncasso. Scendiamo tra le case, tutte
con le finestre aperte. I cani abbaiano, le persone spostano le tende delle finestre per vedere chi è
arrivato. La discesa è così ripida che ci chiediamo come faranno qui d'inverno, mentre mio padre
scruta tra le case alla ricerca di qualche luogo familiare. Da giovane era venuto qui parecchie
volte, quando ballavano.
Arriviamo in corrispondenza di due fontane, poco oltre le quali si trova la chiesa, dove un
anziano signore con il cappello di paglia sta leggendo il manifestino affisso sulla porta. Oltre la
chiesa, una ringhiera che sembra una specie di balcone aperto sulla Val Borbera.
Mentre osserviamo l'ingresso della chiesa, sentiamo il signore borbottare qualcosa.
"Non c'è più niente qui! Non c'è più nessuno...io lo so cos'era una volta Volpara!".
Ci avviciniamo. "Parlumse in dialettu, nuiotri ca summa muntagnè", gli diciamo.
"Ad nande ca sai?"
"Ad Craidoa. A summa ei fiò e ei nvudu du Dinu, ei pustè. Ul cunsè u Dinu?"
"U Dinu? Si si, a m'la ricordu"
"U cugnessa coc d'oein d'otru, ad Craidoa?"
All'anziano si illuminano gli occhi.
"Me szia l'era ad Craidoa. As ciamè De Benedetti".
Restiamo a parlare per un buon quarto d'ora, mentre il campanile di Volpara suona mezzogiorno.
Ci dice di essere "ei pusè vegiu da Vulpoia" (il più vecchio di Volpara). Avrà una novantina
d'anni, ma è ancora in forma, e guida anche. E' venuto al cimitero a fare una visita alla moglie e a
vedere il suo paese. Lui ora non ci vive più, si è spostato verso la pianura, però mentre parla
delle persone di una volta lo vediamo come ringiovanire. Gli brillano gli occhi quando facciamo
i nomi di qualcuno che conosce, soprattutto quando gli diciamo che è ancora vivo e che sta bene.
"E a Olga, a gh'è ancù a Olga?"
"Si, a Olga a gh'è, a sta bein. A l'umma vusta cl'è neint tantu"
"Quanti bali co' a Olga! A gniva a Craidoa aposta!"
Credo che l'anziano signore abbia vissuto un quarto d'ora in cui ha ripercorso 90 anni di vita. E'
stato bello sentirlo, mi ha fatto piacere. Ci saluta e ci indica la strada per risalire senza fare
42
troppa fatica, perché camminando ci siamo fatti un bel giro all'interno del paese. Camminiamo
ora su di una stradina in cemento che ci riporta nei pressi del portico che abbiamo visto al nostro
arrivo, dove non distanti, tre gatti si godono l'ombra senza degnarci di uno sguardo al nostro
passaggio. Salutiamo Volpara, lasciandoci alle spalle le ultime case e rimettendoci sul sentiero,
ora scaldato da un sole fortissimo. Il caldo è fastidioso, si fatica a respirare.
Questa volta niente scorciatoia: si risale per il sentiero da cui siamo scesi, dopo quella volta ho
imparato a non fidarmi della strada più breve. Superiamo il rio, poi il bivio e ci reimmettiamo nel
sentiero 215, fermandoci ogni tanto all'ombra di qualche pianta per tirare il fiato. Giunti alla
stalla, iniziamo a sentire nuovamente l'aria fresca del crinale, che raggiungiamo in circa 15
minuti di cammino. Una volta tornati sul lato della Val Curone, scendere alla Colonia è un
attimo, passando dalla pista più ripida, quella che ricalca in parte il tracciato della Seggiovia. Qui
il clima è decisamente diverso: una bella arietta ci rinfresca, anche se dopo tutto il caldo che
abbiamo preso, ci vorrebbe ben altro.
Siamo soddisfatti del nostro giro a Volpara. Mio padre non ci stava da tanto tempo e ha potuto
rivedere luoghi che stava quasi dimenticando, oltre a fare una bella scarpinata. Poi l'incontro
dell'anziano signore ha reso la giornata in un certo senso unica, come accade ogni volta in cui
finisci in un paesino sperduto e incontri qualcuno che ti racconta la sua storia. Credo che
tornando a casa in macchina, avrà passato il viaggio a ricordare tutti i balli che ha fatto a
Caldirola in vita sua.
43
“Pertuso facciam prima..."
Tutto lasciava presagire una giornata tranquilla.
Raggiungiamo la partenza del sentiero, in Val Borbera, percorrendo la SP140 fino ad arrivare a
Pertuso, nei pressi dell'imponente stele commemorativa dei combattenti partigiani. Una piccola
piazzola, dove è possibile parcheggiare l'auto, ci indica la partenza del sentiero numero 260, le
cui segnalazioni sono comunque ben visibili sul lato della carreggiata in direzione del fiume
Borbera. All'imbocco del sentiero ci viene anche ricordato che si tratta di un percorso per
"Escursionisti Esperti" e che "è consigliabile l'uso del casco-imbragatura e del cordino-
moschettone": questi consigli precauzionali mi fanno un attimo irrigidire, ma sapendo che questo
percorso l'hanno fatto in molti senza tutte queste precauzioni, mi sento di ringraziare per il
consiglio ma proseguo così come sono, con le mie racchette.
"Croce degli Alpini 2 ore" leggiamo. "Beh, coi tempi ci stiamo dentro!"
Scendiamo su di una sterrata verso il letto del Borbera, proprio all'imbocco delle famose "Strette
di Pertuso", dove un bel ponticello ci aspetta per accompagnarci sulla sponda opposta del fiume
e sul versante opposto della montagna. Siamo nel regno delle puddinghe, le formazioni rocciose
tipiche di questa zona e tra le quali il fiume si è scavato un letto sul quale ridiscendere: è uno
spettacolo guardare, da qui in basso, il sole che si riflette nelle acque del Borbera illuminando di
riflesso tutte le rocce circostanti.
Superato il ponte, subito un tratto attrezzato con passerella in legno e corda fissa, che si supera
abbastanza agevolmente, per poi iniziare a salire sulla montagna all'interno di un bosco di roveri
in una salita molto ripida. Il sole picchia forte tra gli alberi, mentre poco più avanti, ecco un altro
La Croce degli alpini: da Pertuso a Roccaforte
Partenza: Pertuso (Al)
Arrivo: Roccaforte Ligure (
Tappe intermedie: Croce
degli Alpini (mt. 830),
Costone La Ripa (mt. 860),
Selletta M.te Cravasana
(mt. 815), Monte Il Poggio
(mt. 853), Sella di Avi (mt.
732)
Lunghezza del percorso:
10 km circa (Pertuso-
Roccaforte); oltre 20 km
(Pertuso-Roccaforte-
Pertuso)
Tempo di percorrenza: 3
h. 45 min. circa (Pertuso-
Roccaforte); 6h. 30 min.
circa (Pertuso-Roccaforte-
Pertuso)
Segnavia: bianco-rosso 260
(Sentiero "Serena e
Alessandro")
Difficoltà: Escursionisti
Esperti
44
tratto attrezzato con le corde per superare un passaggio leggermente esposto sulla roccia. Qui si
manifestano i primi seri problemi di vertigini del sottoscritto: gli alberi si sono diradati fino a
scomparire e vedo un discreto strapiombo sotto ai miei piedi. Il passaggio non è assolutamente
complicato, ma le vertigini ti irrigidiscono le gambe e ti bloccano: rimango così immobile sulla
roccia, con la corda in mano e le gambe che tremano, come un cretino. Un respiro forte, poi le
gambe si schiodano e finalmente trovo il coraggio di ripartire. Il tratto attrezzato prosegue anche
in salita, ma diciamocelo, salire attaccato alla corda guardando verso l'alto non è un problema. Il
problema è guardare in basso, tanto che già qui inizio a manifestare i primi dubbi sul ritorno su
questo stesso sentiero: "io non ce la posso fare!!".
Il paesaggio è strano, molto diverso da quello che normalmente sono abituato a vedere, tanto che
faccio quasi fatica a descriverlo. In alcuni brevi tratti, il sentiero si immerge nel bosco di roveri,
poi di colpo gli alberi finiscono e ci ritroviamo a camminare sulla roccia, con il vuoto attorno a
noi: la strada provinciale della Val Borbera diventa sempre più piccola e lontana, mentre a mano
a mano che procediamo, vediamo sempre più grande la Madonnina di Rivarossa. Tra poco,
saremo alla sua stessa quota. Finalmente compare anche il Borbera, un lungo serpente d'acqua
che si snoda all'interno del suo ampio letto. E' una giornata meravigliosa e il sole forte riflette
nell'acqua facendola brillare, sotto a un cielo che più azzurro non si può. Avrò anche le gambe
rigide dalle vertigini, ma almeno - penso - "farò delle belle foto!"!
Dopo un ultimo tratto attrezzato che, con l'aiuto delle corde, ci fa risalire una parete rocciosa,
eccoci finalmente sul crinale dove restiamo per un attimo a goderci questa vista meravigliosa. Di
fronte a noi, il sentiero pare scendere, mentre vediamo, accanto a Cantalupo, anche Rocchetta
Ligure, posto proprio dove la valle si biforca ed inizia la Val Sisola. Sullo sfondo, incorniciato
dalle montagne, è il Carmo a farla da padrone, con la sua forma piramidale. In alcuni punti, il
sentiero - facendosi largo tra le piante di timo - corre sul filo del dirupo e non so dove trovo la
forza di fermarmi a fotografare guardando verso il basso, con il vuoto poco sotto di me. Siamo
comunque entrambi concordi, ora più che mai, che non torneremo più su questo sentiero: due
persone che soffrono le vertigini, impiegherebbero tutta la giornata per ridiscendere a Pertuso e
così, mentre camminiamo, studiamo soluzioni alternative.
"Io non ci scendo da di lì!"
"No no, neanch'io!"
"Non che sia impossibile eh. Però ci sono quei 5-6 punti dove io a scendere verso il basso non ce
la faccio e mi si bloccano le gambe. E mi gira la testa!"
"A me la testa gira anche qui sul crinale!"
"Andiamo bene...senti...arriviamo alla Croce degli Alpini...poi proseguiamo fino a Roccaforte!
L'altra volta quando sono andato ad Avi, proseguendo sul sentiero sarei arrrivato fino alla
Croce degli Alpini..quindi..."
"Ma quanto ci vuole fino a Roccaforte?"
"Altre due ore!"
"Ma abbiamo la macchina a Pertuso!!"
"Eh lo so. Ma io di lì non ci torno. Mi spiace che volevi tornare presto..."
"No no di lì non ci torno neanch'io! Vorrà dire che staremo via tutto il giorno..."
"Abbiamo qualcosa da mangiare?"
"No!"
"Abbiamo soldi per comprare da mangiare?"
"3 euro e 50!"
"Bene!"
Quando si dice partire organizzati.
Mentre parliamo, finalmente ecco comparire in lontananza una sagoma familiare, quella di una
croce. E' in cima ad uno sperone roccioso, senza vegetazione attorno. Si sporge all'interno
rispetto alle altre montagne e domina tutta la valle, con il paese di Rocchetta Ligure proprio ai
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suoi piedi. E' la Croce degli Alpini e anche se ormai dista solo poche centinaia di metri, sembra
quasi impossibile da raggiungere, isolata com'è.
Un sentiero roccioso, che sembra più battuto, sale dritto davanti a noi alla volta di una piccola
cima, mentre un altro sentiero taglia la roccia sul lato ed ecco comparire anche la mia amica
corda, che effettivamente non serve in questo tratto perché il sentierino è largo a sufficienza. Ma
con la coda dell'occhio vedo vuoto sotto di me, e i tetti delle case di Cantalupo
e....bbbbrrr...basta, sono arrivato alla Croce degli Alpini.
Anzi, non c'è solo la croce: alla nostra destra, proprio sotto alla cima che avevamo raggiunto
poco fa, un buco scavato nella roccia e all'interno una madonnina bianca. Accanto un cartello in
legno: "Per non dimenticare Alessandro e Serena". Di fronte alla statuetta, poco più avanti, ecco
la croce, in cima ad uno sperone roccioso.
"Dai, veloce. Andiamo che soffro le vertigini!"
"Un attimo, devo fare un po' di foto! Sono venuto fin qua...non credo che ci tornerò ancora!!
Guarda, attaccato alla croce c'è anche il libro con la penna per scriv..."
"Andiamo!!!!"
Bisogna andare. La croce è ormai alle nostre spalle, ma è fantastica anche da questa angolazione.
Dà un'immagine diversa di tutto il panorama circostante.
Il crinale corre ancora sul filo del dirupo. Dirupo a destra, verso il vallone di Avi e dirupo a
sinistra, proprio sopra ai tetti di Rocchetta Ligure. Eccoci sul Costone La Ripa, il crinale della
grande montagna rocciosa posta sopra a Rocchetta Ligure e accanto alla Croce degli Alpini. Sul
crinale compare l'erba e si entra in un bel boschetto in lieve discesa, che dal Costone mi conduce,
in poco meno di mezz'ora, alla Selletta del Monte Cravasana, dove si incontra il bivio con il
sentiero numero 256 che su di una ripida discesa conduce ad Avi. Iniziamo quindi la salita che
condurrà sulla cima del Monte Il Poggio, altra vetta estremamente panoramica. Il sole picchia
forte e sento la faccia che brucia. Mi volto d'istinto alle spalle e vedo, sul lato del sentiero, tra le
foglie degli alberi, la facciata della grande casa di Avi, quella che un po' "identifica" il paese
fantasma, poiché visibile da diversi punti. Sulla cima del Poggio il panorama è meraviglioso e
ampio, da Pagliaro fino a Borassi e un ricovero in legno, leggermente sotto alla vetta, guarda la
Val Sisola dominando dall'alto il paesaggio. Sull'altro lato, la selvaggia valle di Avi, senza il
benché minimo segno della presenza dell'uomo. Solo il profilo della più grande casa di Avi, che
compare misteriosa a intervalli regolari, tra gli alberi, nella ripida discesa dal Poggio. Raggiunta
la Sella di Avi, il sentiero diventa largo e pur correndo sull'orlo di montagne rocciose e aspre
come quelle della mattina, non fa assolutamente più paura: arriviamo così su di un lungo
rettilineo in fondo al quale, passo dopo passo, vedo spuntare il campanile della chiesa di
Roccaforte. Superata la chiesa, evitiamo il bivio per il Mulino del Serventino, quello per Borassi
e Isola del Cantone e ci incamminiamo in discesa tra le case, sull’asfalto. Passato Roccaforte,
ecco Chiappella. I cani abbaiano, dovunque passiamo, anche se qui molte case sono chiuse. Sulla
strada passano poche auto, così ce la possiamo godere tutta, occupandone l’intera carreggiata.
Dal ponte sul Sisola, vediamo un campanile in lontananza: "Guarda, Rocchetta! Non è
distante...." ma ci accorgiamo, dopo circa un chilometro, che il campanile era quello di Pagliaro
Superiore. Ce n'è ancora di strada, va là....
Pagliaro Superiore è un piccolo paesino che si affaccia in parte sulla strada provinciale, con tante
vecchie case e, al centro, un campanile rosso che svetta sulle cascine. Ho sentito parlare della
"Cà d'Mestrin", una casa abbandonata costruita sulla puddinga delle montagne, ma non ho mai
intuito dove fosse. So che è nella zona di Pagliaro e oggi, finalmente, posso vederla: guardando
oltre il fiume, in un punto in cui le montagne di conglomerato si aprono per il passaggio di un
rio, ecco una casa, sembra in pietra, attaccata alla quale c'è una specie di torretta, stretta e alta.
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Dà quasi l'impressione di essere una propaggine della roccia. Che strana! Penso anche che ai
tempi sarebbe potuta essere un mulino, vista la sua posizione proprio sul rio...ma chissà, potrei
sbagliarmi. Mi piacerebbe visitarla, ma oggi non c'è tempo. Poco dopo la Cà d'Mestrin, la strada
curva leggermente, lasciando intravedere sullo sfondo le case in pietra di Pagliaro Inferiore.
Quando arriviamo a Rocchetta, passando sotto all'antica porta del paese, tanta gente elegante e le
campane che suonano. Da morto. Aumentiamo il passo per non finire nel bel mezzo del corteo
funebre con zaino, scarponi e bastoncini. Poco prima del ponte che ci porta a San Nazzaro, ecco
alla nostra sinistra la Croce degli Alpini. Ora sì che si vede bene. Mi inorgoglisce pensare di
essere stato là sopra. Non tanto per l'altitudine, quanto per l'aver superato una mia paura (in
parte: se l'avessi superata del tutto sarei anche sceso...). Arriviamo alla stele di Pertuso che
mancano dieci minuti alle cinque del pomeriggio. Ci guardiamo e ridiamo. Siamo sfiniti, ma
troviamo la forza per ridere. E' il bello di queste giornate. Fatico quasi a togliere gli scarponi, ma
sono certo che domattina ripartirei immediatamente.
Se vi capita, andateci alla Croce degli Alpini. E' un'escursione molto bella e in salita, anche se
soffrite di vertigini, nonostante un po' di tremolio di gambe ci potete andare. Posso però darvi un
consiglio?
Pensate bene a come scendere..
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San Fermo è un punto panoramico da cui si può guardare intorno fino quasi a perdersi con lo
sguardo, con la mente e con il cuore. Ci ero stato per la prima volta la scorsa estate, per fare
proprio questa escursione fino al Monte Antola e me ne ero innamorato. Salendo in macchina,
sulla stretta stradina che passa per Gordena e Casalbusone, non vedevo l'ora di essere là sopra e
raccontavo a Francesca di quanto fosse bello il mondo visto da lassù.
Arrivati nei pressi della rossa chiesa di Dove Superiore, mancava veramente poco e sentivo
crescere la gioia per essere tornato qui sopra, in un punto che - normalmente - sono abituato a
guardare da lontano, visto che è visibile da molti degli itinerari delle mie escursioni lungo
l'appennino delle quattro province. Parcheggiata l'auto e indossati zaino e scarponi, ci
incamminiamo a piedi verso la cappella di San Fermo, situata al confine tra Piemonte e Liguria,
percorrendo dapprima un tratto di strada asfaltata per poi salire alla volta della cappella, posta a
1.177 mt. in territorio della Val Vobbia ma in un punto in cui si incontrano i confini di tre
differenti Comuni: Vobbia, Carrega Ligure e Mongiardino Ligure.
Inutile dire che la vista, da qui, è meravigliosa. Ci fermiamo subito a scattare qualche foto dalla
panchina posta proprio di fronte all'ingresso della cappella e poco distante dalla quale è
posizionata la targa sulla quale sono riprodotte tutte le montagne che si possono ammirare da qui
sopra. Salutiamo due signori che incontriamo sul valico, per poi metterci subito in cammino in
discesa, alla volta del monumento al partigiano Ezio Lucarno.
L'Antola è di fronte a noi e sembra lontanissimo, mentre il piccolo paesino di Berga, nell'ultimo
pezzettino di Piemonte prima della Liguria, sembra nascondersi dietro a una montagna, al di
sotto del sentiero. Attraversiamo l'asfaltata che conduce all'Osteria di San Clemente e prendiamo
una carrareccia all'interno del bosco che, dopo alcune centinaia di metri, ci porta al bivio -
segnalato sulla destra, segnavia numero 200 - con le indicazioni per il Monte Antola. Il sentiero,
attraverso un bel boschetto posto in corrispondenza del crinale, procede in piano e a tratti in
Vento fresco e panorami mozzafiato: la traversata da San Fermo all'Antola
Partenza: Pertuso (Al)
Arrivo: Roccaforte Ligure (
Tappe intermedie: Croce
degli Alpini (mt. 830),
Costone La Ripa (mt. 860),
Selletta M.te Cravasana (mt.
815), Monte Il Poggio (mt.
853), Sella di Avi (mt. 732)
Lunghezza del percorso:
10 km circa (Pertuso-
Roccaforte); oltre 20 km
(Pertuso-Roccaforte-
Pertuso)
Tempo di percorrenza: 3
h. 45 min. circa (Pertuso-
Roccaforte); 6h. 30 min.
circa (Pertuso-Roccaforte-
Pertuso)
Segnavia: bianco-rosso 260
(Sentiero "Serena e
Alessandro")
Difficoltà: Escursionisti
Esperti
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leggera salita. Mezz'oretta di cammino e raggiungiamo le pendici del Monte Sopra Costa (1259
mt.) e, dopo altri venti minuti all'interno del bosco con qualche bella vista sul lato della Valle
dell'Agnellasca (Berga è proprio sotto di noi, ma si distinguono chiaramente Agneto e Daglio),
eccoci a Passo Sesenelle (mt. 1254), il valico dove transita la mulattiera che parte dai Piani di
Vallenzona.
Da Passo Sesenelle in poi, il sentiero - sempre mantenendosi all'interno del bosco, anche se ora
sul lato ligure -inizia a salire più decisamente attraverso alcuni stretti tornanti, fino a sbucare
dagli alberi direttamente sul crinale, nei pressi di una staccionata da cui si gode di una bella vista
sulla Val Vobbia. Da qui, pochi metri in salita e raggiungiamo la vetta del Monte Buio (mt.
1403), dove troviamo la grande croce metallica posta nel 1968 dal Gruppo escursionistico
Busallese. Appoggiamo gli zaini su uno dei due tavoli presenti sulla cima del Buio e ci sediamo
sulle panche per una veloce colazione, visto che siamo quasi a metà del nostro percorso. Un po'
di focaccia guardando lo splendido panorama, poi mi alzo e scatto qualche foto, mentre
Francesca si rilassa al sole. La vista spazia su due valli: sul lato ligure, si vedono Crocefieschi, le
Rocche del Reopasso e alle loro spalle la Madonna della Guardia di Genova (niente mare, oggi la
foschia lo lascia solo intravedere); sul lato della Val Borbera il panorama spazia da San Fermo
all'Antola e, in lontananza, si distingue chiaramente tutta la catena appenninica che parte con le
antenne del Monte Giarolo e, passando per Ebro, Chiappo e Legnà termina con il Monte Carmo.
Dopo una bella foto panoramica è già tempo di ripartire e di scendere alla volta della vecchia
cima del Buio, ancora riconoscibile per via di una croce, in corrispondenza della quale
abbandoniamo il sentiero di cresta per deviare - in discesa - a destra in direzione di uno stretto
sentierino che si innesta sulla mulattiera proveniente da Crocefieschi.
La mulattiera che proviene da Crocefieschi si caratterizza per un fondo piuttosto pietroso e
occorre fare attenzione a dove si appoggiano i piedi: è infatti facile inciampare nei sassi piuttosto
che scivolare in alcuni punti dove la terra del sentiero è più scivolosa. Percorrendo questa
mulattiera, stiamo camminando sopra alla Val Brevenna: sullo sfondo si vedono i paesini di
Carsi, Cerviasca e Aia Vecchia mentre, sotto di noi, Tonno e Casareggio rappresentano l'ultimo
avamposto ligure prima del confine geografico, situato proprio sulla costa che stiamo
percorrendo. Di fronte a noi, la cima dell'Antola, ormai sempre più vicina, tanto che
distinguiamo chiaramente ad occhio nudo la croce che la sovrasta.
Dopo un tratto particolarmente panoramico, sul crinale, il sentiero si immerge nel bosco e torna
sul lato piemontese, su di una valle totalmente disabitata e priva di paesi, per poi ri-uscirne nei
pressi della Capanna di Tonno (mt. 1302), meraviglioso punto panoramico sulla Val Brevenna.
Dopo qualche foto nella caratteristica cornice della Capanna di Tonno, ripartiamo con buona
gamba alla volta dell'Antola, superando dopo poco il bivio del sentiero numero 251 che conduce
alla Sella Banchiera. Il sentiero, dopo alcuni dentro-fuori dal bosco, si stabilizza sotto alle piante
e ci pone - dopo poche decine di minuti - di fronte alla salita finale al Monte Antola, sicuramente
meno proibitiva di molte altre salite che si incontrano in montagna.
Iniziamo a sentire il vociare delle persone e capiamo di essere giunti in prossimità dell'arrivo
sull'Antola. Quando sbuchiamo dal sentierino, nei pressi del vecchio "Rifugio Musante",
incontriamo degli escursionisti provenienti da Tortona, saliti da Casa del Romano, con i quali
scambiamo due parole, cercando di convincerli a provare il nostro itinerario.
Arrivati alla chiesetta di San Pietro, notiamo subito un tavolo libero, sul lato, leggermente
appartato rispetto agli altri e lo facciamo nostro. Un attimo e la tavola è già piena, di tutto quello
che non può mai mancare per rendere soddisfacente un'escursione. Un po' di focaccia con la
robiola, pane e cioccolata e un po' di vino rosso; poi un veloce riposino. Passano dieci minuti di
tranquillità totale, disturbati solo dal rumore del vento, mentre tutto intorno il tempo sembra
essersi fermato. Quando ci alziamo, saliamo sulla cima dell'Antola, dove ci feriamo per un buon
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quarto d'ora a scattare immagini panoramiche da quel meraviglioso set fotografico che è la
panchina posta a dominare la Valle dei Campassi e la Sella Banchiera, mentre un simpatico
cagnolino bianco con una macchia nera sull'occhio ci gira attorno riuscendo ad entrare in quasi
tutti i nostri scatti. Dalla parte opposta, il blu intenso del lago del Brugneto.
E' ora di incamminarsi sulla strada del ritorno: scendiamo verso la chiesa di San Pietro e ancora
più giù, fino a riprendere il sentiero che, poco più avanti del Rifugio Musante, taglia sulla destra
in mezzo agli alberi. Giunti in fondo alla discesa, proprio quando iniziano a ricomparire le viste
sulla Val Brevenna, la strada spiana e attraverso un bel boschetto ci riporta alla Capanna di
Tonno. Facciamo una piccola sosta nei pressi della capanna, per poi rimetterci in marcia e,
superato un altro tratto boscoso, raggiungere attraverso la mulattiera per Crocefieschi la vecchia
cima del Monte Buio. Durante il tragitto, non smettiamo di ripeterci quanto sia stata bella la
camminata di oggi: tutto era al posto giusto. Ai piedi della cima del Buio, un vento fastidioso ci
induce a salire velocemente verso la cima, dove il vento è ancora più forte, tanto che quando ci
sediamo sulla panca del Monte Buio, la stessa di questa mattina, le folate quasi ci portano via i
bastoncini. Qui sul Buio restiamo una decina di minuti, il tempo di mangiare qualche torcetto
avanzato dalla colazione della mattina e di scattare qualche foto di fronte a questa meraviglia di
panorama, che tra pochi metri, quando entreremo nel bosco, scomparirà.
Quando arriviamo a San Fermo sono passate da poco le cinque e mezza del pomeriggio e la
cappelletta sulla cima della montagna è baciata da un meraviglioso sole. Il colore giallo della sua
facciata crea un perfetto accostamento di colori con il blu del cielo terso. La luce è stupenda, a
quest'ora della giornata e ne approfittiamo per le ultime foto insieme.
Camminando verso l'auto, vediamo il piccolo paesino di Berga, alla nostra destra, sul quale
splende ancora un bellissimo sole, anche se inevitabilmente, vista l'ora, le famiglie che lo abitano
si staranno preparando alla sera. Anche noi, quando saliamo in macchina, abbiamo già il
pensiero rivolto alla serata, come sempre dopo una bella escursione: la stanchezza ci attanaglia,
ma la soddisfazione per essere restati a contatto con la natura per un’intera giornata va oltre ogni
cosa. L’amore per la montagna vince sempre.
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Il Lesima, la cima più alta del nostro appennino. E per nostro intendo i nostri dintorni, perché è
chiaro che spostandosi verso la Val d'Aveto le cime aumentino di altitudine: però il Lesima,
spesso identificato con quella grande palla radar posta sulla sua sommità, con i suoi 1724 metri
raggiunge una notevole quota, superando le già elevate altitudini dei monti Ebro e Chiappo,
fermi a 1700.
Sono anni che mi dico che vorrei tornarci, poi per un motivo o per l'altro non riesco mai a
mantenere fede alla mia promessa. Ci sono stato altre due volte, nel 2005 e nel 2006, sempre
partendo da Bocche di Crenna e conservo il ricordo di una intensa camminata, ampiamente
ripagata dalla meraviglia di panorama che si può ammirare dalla sua vetta. Ora ho deciso, ci
torno. E ci porto Francesca, che ha voglia di camminare. Non le dirò che è una camminata così
faticosa, altrimenti mi manderà subito a quel paese, aspetterò che lo faccia alla sera, quando
torneremo: magari sarà così stanca che non ne avrà più la forza!
Per raggiungere Bocche di Crenna, punto di partenza dell'escursione, si risale la Val Curone sulla
SP100, per poi imboccare la SP113 dopo l'abitato di Garadassi e la si segue fin oltre il paese di
Salogni, poche curve dopo il quale sulla destra sale una stradina asfaltata che conduce alle Stalle
di Salogni. Si segue la strada anche oltre le stalle, quando l'asfalto lascia spazio allo sterrato e si
parcheggia l'auto a Bocche di Crenna, a 1553 metri di altitudine, valico tra la Val Curone e la
Val Borbera, in prossimità del cancello posto ai piedi dei monti Ebro e Chiappo. Zaino, scarponi
e macchina fotografica: si va!
Mentre Francesca mi imbocca con un pezzo di focaccia, faccio giusto in tempo a notare che il
meteo, previsto bello, è già ampiamente compromesso e nuvoloni neri si affacciano all'orizzonte,
specie guardando in direzione della nostra meta. Alle nostre spalle, verso la Val Curone, il cielo
è almeno più azzurro, ma è una consolazione da poco. Ci incamminiamo in discesa sulla
carrabile che, poco oltre il cancello, prosegue in direzione della Val Borbera, per abbandonarla
dopo poche decine di metri deviando sulla sinistra, su di un percorso non segnalato se non con il
doppio cerchio pieno giallo, a tratti. Il sentiero è comunque visibile e anzi, paralleli ad esso ne
corrono alcuni altri, che conducono tutti nella medesima direzione: superati numerosi versanti
immediatamente sotto a Bocche di Crenna, il sentiero permette finalmente di vedere il monte
Ebro ormai alle nostre spalle, mentre se guardiamo verso valle, vediamo un mare di nebbia
sommergere i paesi dell'alta Val Borbera.
Che botta … ragazzi! Da Bocche di Crenna al Monte Lesima
Partenza: Bocche di
Crenna (mt. 1553)
Arrivo: Monte Lesima (mt.
1724)
Tappe intermedie: Capanne di Cosola,
Capannette di Pey, Passo
del Giovà, Bivio Brallo
Lunghezza del percorso:
circa 20 km
Tempo di percorrenza: intorno alle 6 h. 30 min.
Segnavia: bianco-rosso
numero 101
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Entriamo in un boschetto dove il sentiero è ricoperto di foglie e svolta bruscamente verso
sinistra, portandoci in un punto panoramico dove si può godere un bel panorama sull'alta valle e
sul corso del Borbera, che compare e scompare al di là della nebbia. Poco oltre, una cappelletta
sulla sinistra del sentiero preannuncia un nuovo cancello per il bestiame, superato il quale
incontriamo una fontana e quindi una discesa del sentiero, ormai prossimo all'arrivo a Capanne
di Cosola. L'arrivo nei pressi delle prime case del piccolo paesino è preceduto da un tratto del
sentiero particolarmente fangoso: fango che si rivelerà una delle più grosse insidie della giornata.
Giunti a Capanne di Cosola dopo circa 40 minuti di cammino, proprio davanti all'omonimo
albergo-ristorante, proseguiamo sull'asfalto in direzione di Capannette di Pey, che raggiungiamo
dopo una decina di minuti di cammino con la palla radar del Lesima che sembra attenderci, là in
alto, proprio davanti a noi. Ancora distantissima. A Capannette di Pey, oltre ad un altro albergo-
ristorante, si segnala una bella chiesa, che arrivando dalla strada di Capanne di Cosola si trova
proprio davanti al Lesima, in linea d'aria, in uno splendido punto panoramico. Oltre la chiesa,
l'asfalto prosegue fino al Passo del Giovà, dove incontriamo un bivio: in basso a destra, la strada
prosegue per Pej e Vesimo; a sinistra per Pian del Poggio e dritto per il Passo del Brallo. Noi
manterremo la strada per il Brallo, ma prima pensiamo bene di fermarci a fare una merenda di
metà mattinata: un po' di cioccolata ci vuole, non sembra, ma tutto questo asfalto è veramente
faticoso da affrontare con gli scarponi. Abbiamo bisogno di energia.
Dal Passo del Giovà, il panorama che si può godere sulla Val Boreca è fantastico: i versanti del
Cavalmurone e del Lesima sembrano quasi scontrarsi l'uno con l'altro e, poco più in alto, il
caratteristico paesino di Belnome, isolato ai piedi dell'Alfeo. Ma una volta terminata la nostra
merenda, basta ripartire per pochi metri lungo l'asfalto che conduce al Brallo per vedere,
voltandosi questa volta dalla parte opposta, un panorama da lasciare senza fiato sull'alta Valle
Staffora: poco distante da noi, Pian del Poggio, mentre più a valle distinguiamo i paesini di
Casale Staffora, Cencerate, Barostro e, addirittura, in un punto dove la vista è ancora più ampia,
riusciamo a vedere Cegni e il paese fantasma di Ceregate. Che dire, la camminata, a parte un po'
troppo asfalto, è comunque piacevole ed estremamente panoramica: e quando saremo là sopra,
sulla cima del Lesima, io so già cosa mi aspetterà, ma Francesca no, non essendoci mai stata.
Camminando, le racconto delle mie precedenti escursioni qui, prima che le nostre discussioni
finiscano come sempre in una sonora risata, o con uno dei due impegnato a fotografare qualcosa
che lo ha particolarmente attirato.
Dopo un buon tratto sull'asfalto in direzione del Brallo, ecco finalmente stagliarsi sulla destra il
sentiero con le indicazioni per il Monte Lesima, che finalmente ci permetterà di lasciare l'asfalto
per camminare su di un terreno più morbido. Il cartello con le indicazioni bianco-rosse numero
101 per il Monte Lesima si trova in un punto in cui il sentiero tende ad allargarsi ed è
parzialmente sommerso dalla legna accatastata: si intravedono i cartelli con le distanze e in
prospettiva, quasi appoggiata sulla catasta di legna, alle sue spalle, la palla radar della montagna.
Un'ora e quindici minuti per arrivare al Lesima, tre ore e mezza per il Brallo, che a noi per oggi
non interessa. E' però quanto meno strano che, accanto al nome del paese di Travo - in provincia
di Piacenza - raggiungibile proseguendo oltre il Brallo su questo stesso sentiero, non ci siano
indicazioni circa il tempo necessario a raggiungerlo: è un'indicazione che non mi tranquillizza
affatto!Imbocchiamo il sentiero, che sale tra gli alberi: più che un sentiero, in questa stagione è
diventato una specie di rio, con acqua che scende sotto alle foglie su di un terreno
particolarmente fangoso. E' un sentiero insidioso, in alcuni punti, ma in altri si procede piuttosto
bene e lo strato di foglie su cui camminiamo sembra essere asciutto e reggere bene il nostro peso
senza celare particolari sorprese. In diversi tratti del sentiero, che corre per buona della prima
parte parallelo - ma solo più in alto - alla strada asfaltata, si intravede tra i rami degli alberi ormai
spogli la cima del Lesima in lontananza, oltre a meravigliose viste sulla Val Boreca. In
particolare, in un punto panoramico, si scorge la stradina asfaltata che congiunge Pej con Vesimo
come una specie di serpentello, in fondo alla valle, quasi sommersa da tutta la vegetazione che la
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circonda. Il cielo sempre più grigio, con un po di luce che filtrava tra le nubi, non ha fatto altro
che rendere ancora più affascinante tutto questo meraviglioso momento.
Il sentiero alterna tratti in piano a tratti in salita più decisa e, ad un certo punto, siamo quasi
costretti a buttarci letteralmente fuori dalla strada perché alcuni motociclisti, con le loro moto da
cross, sbucano all'improvviso alle nostre spalle, passando sul sentiero prima di noi e, di fatto,
rovinandolo totalmente.
Il sentiero, già pericoloso di suo in alcuni punti, per via dello strato di fango presente sotto alle
foglie, diventa sempre più difficilmente percorribile, ora che i motociclisti hanno sollevato tutto
il fango e in alcuni punti siamo costretti a salire inventandoci dei percorsi alternativi perché la
stradina è diventata del tutto impraticabile. In un punto in ripida salita, in cui siamo ritornati a
percorrere il sentiero, camminando a gambe larghe per evitare il rio di fango che scende al
centro, non appena porto il peso sulla gamba destra sento il terreno sotto di me scivolare via.
Non so cosa sia accaduto di preciso perché tutto è durato la frazione di un secondo: mi ritrovo
per terra, nel fango, con un gran dolore all'occhio sinistro, senza occhiali, volati più avanti e
senza un bastoncino, finito fuori dal sentiero. Il dolore all'occhio è forte e mi rendo subito conto
di essermi fatto male seriamente, considerato anche il forte dolore al naso che mi colpisce poco
dopo. Mi rialzo con l'aiuto di Francesca e da fermo, la terra fangosa mi frana via da sotto ai
piedi: pazzesco.
Ci portiamo qualche metro più avanti e da una veloce prova di vista, mi rendo conto di vedere
molto più annebbiato rispetto a quello che già vedevo prima: l'occhio sinistro mi è già stato
operato tre volte per una pallonata da ragazzo ed ha già una vista molto limitata...figurarsi ora. Il
naso e l'orbita gonfiano istantaneamente, ma tutto sommato sento di poter proseguire. Così,
stando ben attenti a dove mettiamo i piedi, ci portiamo fino al bivio con il sentiero che conduce
per il Passo del Brallo (a sinistra), che evitiamo mantenendo la destra ed uscendo dal bosco.
Aggirando un piccolo versante di montagna, arriviamo in uno dei punti più spettacolari della
traversata: quello dove si intravede, poco sopra di noi, in prospettiva, la palla radar del Lesima e,
alle nostre spalle, l'immensità del panorama che spazia dalla Val Boreca fino alla Valle Staffora.
Ci fermiamo per qualche foto, è bellissimo da qui. Indosso il k-way perché il freddo entra nelle
ossa e mi metto la bottiglia d'acqua fredda sul naso e sull'occhio, per trovare un po' di rinfresco
dalla botta di prima.
Da qui, una ripida ma breve salita sull'erba ci porta ad immetterci sull'asfalto che avevamo
abbandonato prima quando eravamo entrati nel bosco seguendo le segnalazioni con il numero
101: giunti sulla strada, raggiungeremo la cima della montagna camminando sull'asfalto, che
arriva fino in vetta attraverso una stretta stradina.
Francesca gioca con gli scherzi della prospettiva, coinvolgendomi in alcune foto che mi
strappano un sorriso, mentre ancora un po sono preoccupato per la salute del mio occhio,
dolorante alla pari del naso. Mentre camminiamo in direzione della vetta, possiamo vedere alla
nostra destra e alla nostra sinistra dei panorami pazzeschi: il bello del Lesima è proprio questo.
Arriviamo sotto al radar - che serve per il traffico aereo, lo dico ad uso e consumo di chi non ne
conoscesse l'utilità - lo aggiriamo e saliamo sul prato che si trova alle sue spalle, dove svetta
un'alta croce in ferro. Ci sediamo poco più avanti, ai piedi della croce. Anzi si siede, Francesca.
Io rimango in piedi qualche istante a scattare foto panoramiche tutto intorno, da questa
meraviglia di cima.
Dalla sinistra del radar, si vedono il Giarolo, il Chiappo, il Cavalmurone, il Carmo e tutta la
catena che lo unisce all'Alfeo, che è proprio di fronte a noi. Ai piedi dell'Alfeo, Belnome,
adagiato sul versante della montagna. Alle spalle di Belnome, si vede il corso del torrente
Boreca, con il paese di Artana in mezzo al nulla: si può ricostruire ad occhio buona parte del
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percorso del "giro del postino" che ho fatto questa estate. Proseguendo alla sinistra dell'Alfeo,
ecco Zerba mentre Ottone è nascosto. Ancora più a sinistra, tutta la parte di appennino in
provincia di Piacenza, fino a Ponte Organasco. In fondo, svettano il passo del Brallo e il Monte
Penice con le sue antenne.
Indosso la cuffia perché l'aria mi dà fastidio e mi siedo accanto a Francesca, che ha già tagliato il
formaggio e preparato la focaccia. Una bella golata di vino per dimenticare il male all'occhio, poi
consumiamo velocemente il nostro pranzo ai piedi del radar, guardando il panorama attorno a
noi, da lasciare letteralmente sbalorditi. Per non parlare del momento in cui tra le nubi filtra
qualche raggio di sole, regalando una luce nuova a tutto il paesaggio circostante. Ci facciamo un
autoscatto, prima di andarcene, dopo poche decine di minuti di pausa, ma oggi la strada che ci
attende al ritorno è ancora lunga e non possiamo dilungarci troppo.Tornati sull'asfalto, ai piedi
della palla-radar, iniziamo una lunga ed estenuante discesa sull'asfalto. Visto il fondo fangoso del
bosco, decidiamo di scendere seguendo l'asfalto fino al Passo del Giovà e da qui fino alle
Capanne di Cosola. La strada, lunga, è comunque piacevole per la bellezza dei panorami che si
possono ammirare: da qui sopra sembra di poter dominare il mondo, tanto è ampia la vista. Sul
lato piacentino del Lesima, la montagna diventa rocciosa e lascia spazio a suggestivi panorami ai
piedi dei suoi versanti, con terreni verdissimi che risaltano in mezzo alla vegetazione che ha già
in buona parte assunto connotazioni autunnali.
Quando arriviamo al bivio tra il Brallo e il Passo del Giovà, abbiamo già le articolazioni che
scricchiolano: eppure di strada ce n'è ancora! Dal Passo del Giovà fino alle Capanne di Cosola
sembra corta, ma non lo è per nulla e ci rendiamo conto di stare facendo sempre più tardi.
Fortunatamente, in compagnia (buona) il tempo passa senza annoiarsi mai e camminando, spesso
ci voltiamo alle nostre spalle a vedere quanto ora è lontana la palla del Monte Lesima, ormai un
ricordo al pari delle altre camminate insieme. Arrivati a Capanne di Cosola, una fontanella mi
invoglia a mettere il naso sotto all'acqua gelata per calmare un po' i bollenti spiriti della botta del
pomeriggio. Mi fanno così male il naso e l'orbita che quasi non sento l'acqua gelida sul viso e,
sopratttutto, vedo ancora annebbiato. Poco oltre, ci sediamo su di una panchina per mangiare
ancora un pezzo di cioccolata, mentre il freddo torna a farsi sentire più che mai, poi riprendiamo
il sentiero che dalle Capanne conduce a Bocche di Crenna.
Quando si è già stanchi, questo sentiero diventa un inganno continuo, come i miraggi nel deserto:
il valico di Bocche di Crenna sembra sempre vicino, ma non ci si arriva mai e i versanti delle
montagne da attraversare sembrano moltiplicarsi. Alla nostra sinistra, un mare di nebbia sale
minaccioso dal fondo della valle e in men che non si dica si avvicina a noi, avvolgendo tutto
quello che incontra sulla sua strada: speriamo di arrivare all'auto prima che scompaia nella
nebbia! Francesca mi maledice per tutta la strada che le ho fatto fare, è il segnale che è
effettivamente tardi: arriviamo infatti alla macchina che sono ormai le cinque e un quarto,
stanchi morti e infreddoliti.
E' stata una bella traversata, sicuramente da ripetere quando il tempo sarà più clemente, magari
in primavera-estate. Peccato solo per gli strascichi che ha lasciato, visto che in conseguenza di
quella botta, mi toccherà una settimana di ospedale con annesso trauma al bulbo oculare. Ma si
sa...anche l'occhio vuole la sua parte...(ora ci rido sopra, per fortuna!)
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